esecutivo nemico del popolo - Confessione di un nemico del popolo

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esecutivo nemico del popolo - Confessione di un nemico del popolo
confessione di un nemico del popolo :esecutivo nemico del popolo
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Davide Celli
Confessione di un
nemico del popolo
C’è soltanto una cosa più onesta
della politica:
rapinare una banca.
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La storia contenuta in questo libro è frutto della fantasia. Ogni riferimento a persone, cose o
fatti realmente accaduti è puramente casuale. Citazioni e articoli di giornali, come i libri o i personaggi realmente esistiti (o tuttora esistenti), sono stati impiegati solo ed esclusivamente per rendere
più realistica la trama. L’attore Aldo Maccione non ha nulla a che spartire con l’omonimo personaggio di questo romanzo. Chiunque fosse interessato a segnalare errori, richiedere precisazioni o quant’altro, è pregato di contattare l’editore inesistente telefonando al numero 320/4731739. Chi vuole dissentire o complimentarsi per il contenuto del libro può farlo spedendo un’e-mail all’autore:
[email protected].
Impaginazione: Lara Bresciani
Battitura dei testi: Tommaso Prendiparte, Ivana Dardi
Coordinamento lettori e redazione: Paola Silvagni
Consulenti lettori: Lorenzo Minciotti, Giglio Coleri e Massimo Colombari
Stampato presso la tipografia Fd di Bologna nel mese di Luglio del 2010.
dall’Editore Inesistente, Via dell’Unione 8, Bologna
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STAMPATO SU CARTA RICICLATA
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Nota per il lettore
Il presente libro non si trova in vendita ed è stato stampato dall’Editore
Inesistente nel numero di 500 copie. La sua pubblicazione è costata tempo, fatica e denaro a molte persone. Per questo, se dovesse capitarti tra le mani, non
lasciarlo abbandonato sul comodino senza averlo letto e neanche confinalo nella
tua libreria se ti è piaciuta la storia che contiene. Trovagli piuttosto un nuovo lettore contribuendo così alla sua diffusione. L’unica cosa che questo libro ti chiede è di conservarlo con attenzione fino a quando non lo avrai affidato ad un
altro lettore degno di questo nome.
Chi desidera segnalare l’entrata in possesso del libro stesso (bookcrossing)
può registrarsi al gruppo formato dai “lettori custodi” presente su facebook.
Ricordo che aderire a questo progetto significa contribuire alla creazione di
una nuova forma di distribuzione dell’opera d’arte che non ha fini di lucro ed è
svincolata dalle consuete logiche di mercato. Così facendo cerchiamo di promuovere la nascita di nuovi talenti a tut’oggi ancora sconosciuti.
L’Editore Inesistente
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Dedico questro libro
alla mia compagna, Lara, che mi ha sopportato
per tutto questo tempo;
a Lorenzo, il mio bimbo, affinchè impari come ci si può difendere
dalla politica e comprenda chi è stato suo padre;
a tutti coloro che hanno buttato
alle ortiche la propria esistenza
per una giusta causa.
Davide e Golia disegnati
dal maestro Sergio Toppi
Studio Michelangelo Edizioni
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Roma. Alle ore 9.00 A.M. di questa mattina, l’ex
dirigente
regionale
del
Partito
Democratico
dell’Emilia Romagna Davide Celli è stato arrestato
dalla Digos mentre rapinava la Banca Americana sita
all’interno dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma.
Il crimine è stato quindi commesso sul territorio di
uno stato straniero. Restano ancora ignote le modalità con le quali il rapinatore è riuscito ad introdursi nel presidio aggirando la sorveglianza. La
Farnesina dopo un’estenuante trattativa con il corpo
diplomatico americano è giunta ad un accordo che
prevede di processare l’imputato in sede italiana,
ma secondo l’ordinamento del sistema giuridico americano. Resta ancora incerto il luogo dove dovrà
scontare la pena qualora dovesse essere giudicato
colpevole da una Giuria mista composta da cittadini
di entrambi i paesi.
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“Ogni opera d’arte è un crimine mancato”
Theodor Adorno
Io confesso!
“Se per tutta la vita hai cercato di fare una cosa, proprio quando sei in
procinto di farla, ti rendi conto che non te la lasceranno mai fare e a quel
punto puoi essere certo di essere arrivato alla fine.
Volevi cambiare il mondo e non ci sei riuscito. È tutto molto più semplice di quanto credi. Non ti sei scelto un’impresa da poco. Consolati, una
buona volta. Viva Dio! Pensa solo di avercela messa tutta e fattelo bastare.
“Alza il bicchiere e bevi!” Mi dissi assaporando il vino.
Una settimana prima di rapinare la banca brindai a me stesso perché
ero solo come un cane. Un cane riflesso nello specchio del caffè Molinari che
fino a quel momento non sapevo neppure che esistesse. La saracinesca
abbassata a metà. Il padrone nella stanza dei bigliardi che lava il pavimento a secchiate. Prima che se ne andasse gli domandai se potevo accendermi una sigaretta. Rispose che il bar era chiuso e mi posò accanto una bottiglia di vino nero, frizzante e un pacchetto di Nazionali senza filtro, proprio
quelle con il veliero nero stampato sul cielo verde. Un consiglio forse. Una
nave sulla quale imbarcarsi come l’aereo fermo nella nebbia a Casablanca.
Ma era solo un vaneggiamento dato che sono quanto di più lontano ci può
essere da Humphrey Bogart.
La radio trasmetteva musica jazz. Incominciai a riflettere nella consapevolezza che se avessi continuato a bere non ci sarebbe stato più niente
su cui riflettere. Ho perso. Non entrerò in Consiglio comunale. È l’unica
certezza che possiedo insieme all’altra: ho voluto perdere. Non ne potevo
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più della politica, di quell’onda che travolge il buon senso senza lasciarti il
tempo di capire cosa succede, di quel susseguirsi di frasi fatte buttate in
pasto ad orde di febbricitanti giornalisti, di tutte quelle stringhe di notizie
inutili che appaiono sui server delle agenzie di stampa.
Quel pomeriggio, dopo aver appreso dei risultati, mi ero ritrovato a
gironzolare senza meta fino a quando montai sul primo autobus diretto
solo Dio sa dove. Guardai la città dissolversi alle mie spalle, vidi le case
diradarsi, le luci della sera accendersi in modo disordinato e pensai:
“Buon segno! La periferia pullula di bar dove abbandonarsi a un accogliente oblio. Locali lerci, male illuminati, legioni straniere per impiegati
spinti sul lastrico dalle banche. Quello che fa per me”.
Smontai davanti a un iper-mercato chiuso. Poche auto buttate alla rinfusa sulla scacchiera bianca del parcheggio. Un carrello abbandonato a se
stesso aspettava qualcuno che lo rimettesse a posto mentre soffiava un filo
leggero di vento tanto che sentivo un lembo dell’impermeabile battermi sul
ginocchio. Mi guardai attorno fino a che non incrociai l’insegna cara ai
bevitori di stelle. Entrai con passo deciso e, dopo essermi seduto, ordinai
una nebulosa rossa.
“ Bevi. Bevi per essere felice. Bevi ai bei tempi andati. Bevi alle comete un istante prima di vederle inabissare in mare. Bevi alle profondità dell’oceano dove danzano le Marianne. Bevi finché non saprai più perché stai
bevendo, ma continua a bere senza fermarti”.
Queste sono le ultime parole che ricordo prima di precipitare in una
voragine d’incoscienza, rarefatta e profonda.
Da quella sera incominciai a dimenticare pezzi del mio passato un po’
ovunque. Dagherrotipi consumati di ciò che ero stato si smarrivano nelle
noiose mattine di luglio. Mi era diventato più facile ricordare avvenimenti
lontanissimi, affondati come relitti al largo della mia memoria, rispetto agli
ultimi dieci anni della mia vita. Una decade volata via in un batter d’occhio
senza che potessi attribuirle un senso compiuto dal quale far scaturire un
bilancio. Dieci anni affannosi, vissuti in mezzo alla strada, tra la gente,
accanto a uomini, donne, animalisti, commercialisti, giuristi, casalinghe,
presidenti di comitato, sindacalisti, mamme, bottegai, filantropi. Come una
piuma nel vento in balia delle circostanze, e senza volerlo, mi ero innamorato di questa variegata umanità che i libri di storia, quelli antichi, chiamavano “popolo”. Forse è per questo che i pensieri fuggivano lontano da quell’amalgama vociante, così lontano nel tempo da ritrovarmi ospite in una
felice epifania infantile sopravvissuta sulla pagina di un diario.
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Caro babbo e cara mamma, ci sono
mattine d’inverno in cui cammino sui
prati ascoltando il rumore dei miei
passi sulla brina. A lungo andare si muta
in un mormorare lontano, in un racconto immaginario, in un’immutabile
fiaba, sopravvissuta allo scorrere del
tempo per tramandare la leggenda dei
cristalli di neve che hanno imparato
a raccontare le favole ai bambini
solitari.
Accidenti! Scrivevo bene a quel tempo. Non avrei mai dovuto rinunciare. Mi scusai non so bene con chi. Non c’era nessuno accanto a me.
Abbandonai le farneticanti fantasie per diventare la preda di alcuni fastidiosi
dettagli che si mutarono nel giro di poche ore in cerberi latranti. Mi accerchiarono ringhiando fino a che non mi spinsero, come cani pastori, nel bel
mezzo alla dura realtà.
Ci vollero due pomeriggi, umidi e caldi, per liberare il mio ufficio –
armadi, cassettiere, portadocumenti, carpette, scatoloni - dalla storia che
mi ero appena lasciato alle spalle. Guardavo quella scia bianca di fogli
assottigliarsi alle mie spalle fino a dissolversi nel lontano orizzonte. Le
interrogazioni, le interpellanze, le lettere di diffida alle istituzioni importune, gli interventi in consiglio comunale, gli articoli di giornale, gli elenchi
degli iscritti al partito verde, i fascicoli con le firme raccolte in calce alle
petizioni, tutta questa schiuma di cellulosa colmò dieci sacchi che sono
normalmente usati per contenere la spazzatura. Contrariamente ai miei
colleghi anche loro sconfitti, che avevano dato incarico ai commessi comunali, decisi che mi sarei liberato personalmente del passato recente e lo
avrei fatto con la stessa amarezza di un padre che conduce all’orfanotrofio
un figlio nato per sbaglio. Ma non vi nascondo - illustrissimi Giurati - che
una domanda, insidiosa e senza risposta, incominciò a molestarmi come un
tafano d’alta montagna mentre tutta quella carta ormai straccia finiva in
quei tetri pozzi di plastica nera. Un enigma irrisolvibile palpitava nella mia
mente. Come mai, pur avendo faticato tanto, sono stato così brutalmente
sconfitto? Perché mai tutti quelli per i quali mi ero battuto, uno ad uno, mi
avevano dimenticato? Giunsi alle conclusioni che la risposta poteva essere
ricondotta ad un principio generale: i politici più disprezzati, fulgidi esempi dell’inossidabile nomenclatura che assedia da decenni il nostro sistema
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politico, erano stati rieletti, mentre i Consiglieri Comunali più asserviti al
popolo, quelli che a lui si erano votati anima e corpo, concedendogli la passione più pura e sincera - che solo un nobile cuore può effondere - erano
stati spazzati via dal voto popolare. Ecco che i morti di quella battaglia
combattuta a Bologna in quel lontano giugno del 2009 (come un giorno
avranno cura di scrivere nei libri) erano così numerosi che Edgar Lee Masters
ci avrebbe potuto comporre il seguito dell’antologia di Spoon River. Dove
sono Serafino, Valerio e Pasquino? Due di loro furono arsi dalla crescente febbre leghista, l’altro cadde da uno sbarramento elettorale. Dove sono la
Tedde e Beppe Maniglia? Uno perì per le firme, l’altra si ritrovò senza quorum. Dove sono i Verdi e i Comunisti Italiani? Tutti dormono sulla collina. Gli altri, quelli che stavano dall’altra parte e non alludo alla coalizione
avversa, ma a coloro che meglio di chiunque altro erano riusciti ad interpretare il “mestiere” della politica con la “p” maiuscola, che fine avevano
fatto? Sergio Sebastian Borgia - primo Sindaco sceriffo d’Italia eletto nelle file
del centro - sinistra - dopo aver annunciato il suo ritiro dalle scene e aver
detto in più occasioni che non avrebbe mai indossato i panni
dell’Onorevole - datemi del ciarlatano se dovessi ricredermi: disse ai giornali – si
presentò e fu eletto a Strasburgo. Il Partito Democratico, che più di ogni altro
aveva sostenuto le battaglie di Sebastian, da quelle importanti fino ai
capricci, guadagnandosi per questo un’impopolarità mai raggiunta prima,
presentò un altro Sindaco, il primo sindaco democristiano della storia della
vecchia grassa e dotta Bologna, e vinse le elezioni. Tanti altri politici, di
destra e di sinistra, furono riconfermati senza che si potesse intravvedere,
anche solo lontanamente, l’abbozzo sbiadito di una logica nel volere del
popolo e in loro un palpito di una meritevole ragione o l’alba embrionale
di un’idea. Persino Pat Gatto che riteneva che i congiuntivi fossero un’infiammazione del bulbo oculare si vide dischiudere le porte del gran
Consiglio Comunale. E nemmeno Riccardo Marchenisi che con i suoi centodieci chilogrammi picchiava la moglie ogni sera non venne punito per questo, ma eletto. Per quanto mi riguardava, in meno di nove anni, ero passato da quasi ottocento voti a poco più di duecento. Come mai? Avevo forse
rubato? Niente affatto. Mi ero forse dimenticato delle promesse fatte?
Nemmeno, anzi, quei dieci sacchi erano lì a dimostrare il contrario. E allora: di quale innominabile colpa mi ero macchiato?
Come cercherò di dimostrare – miei cari signori della Giuria - sono
stato sconfitto per una ragione che vi potrà apparire illogica, ma è l’unica
che può essere addotta a causa. Sono stato battuto perché non sono riuscito
a diventare un politico come gli altri. Proprio così, non ho promesso nulla in
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campagna elettorale che non avrei potuto concedere dopo essere stato eletto.
Nessun accordo sottobanco, nessuna patto che potesse favorire qualcuno a
scapito degli altri. Esattamente il contrario di quello che fanno tutti i candidati quando entrano nelle vostre case facendovi credere di essere capaci di tutto,
di poter cambiare gli umani destini, di riuscire a procacciare lavori o sopravanzare le carriere, o quant’altro serva a carpire la vostra fiducia. Politici Zelig dalle
opinioni mutevoli, giustizialisti e garantisti, federalisti e statalisti, ecologisti e
nuclearisti, tutto e il contrario di tutto pur di andare a genio all’elettore che in
quel momento si trovano di fronte. Le fatue promesse - e non i programmi
- sono il sale della democrazia. Per questo motivo ogni popolo si ritrova i
rappresentati che merita perché se ciascun cittadino esige di avere dei politici onesti sulla scena del Paese è pur sempre disposto a chiudere un occhio,
se non perfino a buttare all’aria le più radicate convinzioni, in nome dell’interesse personale. Ma nel mio caso era prevalso un altro sentimento che finisce per premiare i candidati che appaiono più integrati nel sistema politico, i
famigerati membri della tanto vituperata casta e sono puniti gli altri, quelli
che per difendere il popolo sono apparsi talvolta più sanguigni, combattivi e
arrabbiati. Mi sono convinto che la gente adori quei calmi, rassicuranti, grigi,
burocrati di partito. D’altronde, diciamo la verità una buona volta, nessun
onesto padre di famiglia accetterebbe di avere come portiere il folle Vincent
Van Gogh o l’estroverso, e iracondo, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. E
così tutti gridano di voler avere una classe politica diversa da quella attuale,
ma se la danno a gambe quando incontrano un politico che non rientra nello
schema consolidato. Equilibrio del candidato, vestiti eleganti, e la capacità di
elargire favori in privato sono quindi gli elementi principali sui quali si fonda
il nostro “mercatone” elettorale che apre i battenti ogni cinque anni. In tal senso
non esiste una grande differenza tra il nord autonomista e il sud clientelare in
materia di “voto di scambio”. Semmai si evince una differenza dai frutti che
maturano dopo le elezioni. Un appalto vinto al nord per ragioni elettorali
viene portato a termine, mentre nel meridione si considerano i voti concessi
più che sufficienti a sdebitarsi con chi ti ha permesso di vincere la gara d’appalto.
“Certo, non tutti gli italiani sono così come ho avuto l’ardire di descriverli, ma per una buona maggioranza lo si può affermare. Per questi motivi, giusti o sbagliati che siano, sono diventato un vostro nemico. Lo confesso!” gridò l’imputato – “ Sono un nemico del popolo!”
Un forte brusio si levò dalle file del pubblico. Il giudice bettè il martello sul legno chiedendo che fosse ristabilito il silenzio in aula.
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Yes we can!
La Pubblica accusa, un omaccione alto e corpulento, tossì vigorosamente come se avesse voluto interrompere l’imputato che tuttavia sembrava aver
terminato il discorso. Distese le braccia sul tavolo divaricandole come le
gambe di una vacca. Mantenendo il capo chino e dopo aver letto sommariamente il foglio sotto di sé, rivolgendosi al reo confesso con tono risoluto,
disse:
“A essere sinceri, se distogliamo per un istante l’attenzione dal fatto criminoso di cui ci troviamo a dibattere - alludo alla rapina – le vorrei ricordare
che ci sarebbe qualcos’altro di cui dovrebbe scusarsi con il popolo perché, da
quello che leggo…” – posò i polpastrelli sulla prima pagina dell’incartamento fingendo di aggiustarla - “…nel 2007, lei ha abbandonato il partito
verde per aderire al Partito Democratico. Sbaglio forse?” – l’imputato assentì
con la testa – “ Contrariamente a quello che vuole farci credere, lei è un
opportunista! Un politico come tutti gli altri! Mi corregga se sbaglio. Sbaglio?”
“Immagino di sì” – rispose l’imputato – “ma non rimpiango niente e se
tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto e per quanto riguarda il tradimento posso soltanto dire a mia discolpa di non aver rinunciato ad una sola
delle mie convinzioni”.
L’imputato fece una pausa ammorbidendo la sua postura e riprese a parlare con la stessa convinzione:
“Mi ero stancato di essere valutato soltanto per il numero di tessere che controllavo. E così, quando si è saputo che il Partito Democratico si sarebbe fondato sulle cosiddette primarie, non me lo feci ripetere due volte e mollai il partito verde, che da lì a poco, per altro, si sarebbe estinto”
“I topi abbandonano la nave quando affonda” commentò con sarcasmo
la Pubblica accusa.
Il Giudice lo redarguì dicendo di non essere interessato ad uno spettacolo di cabaret. Quindi gli domandò di non condurre l’udienza fuori dal tema
centrale. L’accusa a sua volta si scusò chiedendo all’imputato di riprendere il
racconto da dove lo aveva lasciato e fu così che ritornò ai due giorni precedenti alla rapina e successivi alla fine della campagna elettorale.
“Dopo quella bevuta al Caffè Molinari mi rintanai in montagna.
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Nessuno tra tutti coloro coi quali avevo diviso l’aula del consiglio per cinque lunghi anni mi chiamò per sentire come stavo e quell’indifferenza mi
fece capire che dalle più assidue frequentazioni può anche non nascere nulla
e avrei fatto bene, se solo lo avessi immaginato, a coltivarmi le amicizie altrove. Ma l’aspetto più paradossale consisteva nel fatto che il partito al quale
avevo aderito e che si diceva “democratico” m’ignorava completamente tanto da
non inviarmi nemmeno più le convocazioni degli organi nei quali ero stato
eletto e nominato. Mi diventò improvvisamente chiaro il senso di quelle cariche: alla maggioranza consigliare che reggeva il Sindaco sceriffo, mancava
un voto, il mio. Per procacciarselo il partito di Tex mi aveva prima accolto
e poi premiato con l’ingresso nell’esecutivo regionale, dove sedevo in qualità di responsabile della comunicazione e nella direzione emiliano-romagnola.
Ma alla fine del mandato era venuta meno la mia utilità e con essa il potere che ne era scaturito senza che lo avessi mai cercato. Credo di essere stato
l’unico politico al mondo ad aver retto una maggioranza consiliare per
puro spirito di servizio finendo poi nell’indifferenza più totale. Avevo
imparato a mie spese che chiunque si gioca la propria vita per ciò in cui
crede deve, quantomeno, farsi dare in cambio delle garanzie e non dei
sogni. Bastava guardare al destino dei due membri di quella che in consiglio chiamavano la “Sinistra cip e ciop” (composta da altri due consiglieri che
con i loro voti reggevano la maggioranza) per comprendere come siano
onorati i contratti seri. Cip era diventato assessore, mentre a Ciop era stato
promesso un seggio in Consiglio Regionale.
Solo Aldo si fece vivo.
Aldo - che chiamavo Maccione per la sua rassomiglianza con l’attore
torinese nel fisico, ma soprattutto nei modi - scherzò con mia moglie
dicendo di essere un carabiniere in forza al Ministero dell’Interno. Doveva
interrogarmi per via di un traffico di rifiuti tossici nel quale ero invischiato. Lara scosse la testa con un’espressione compatita e me lo passò.
Maccione voleva vedermi perché gli era capitato per le mani un grosso
affare. L’ultima volta che l’avevo sentito fare la stessa asserzione mi ero
ritrovato nella situazione surreale di dover contrattare un collegio elettorale “sicuro” come se fosse una partita di aspirapolvere ferma alla dogana del
porto di Napoli. Malgrado ciò, mi sentivo così solo e senza amici che accettai di andare a Carpi per ascoltare la sua offerta. All’indomani, guidando
l’automobile, pensai che la via Emilia è un’unica grande città, non ancora
riconosciuta dalle carte geografiche, un regno declinato in un susseguirsi
senza fine di case, negozi, aziende e supermercati che non finiscono mai e
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ne fanno un toponimo a due dimensioni, lunghezza e tempo. Quando ti
distacchi dall’arteria per raggiungere quella che in passato è stata una della
capitali tessili della Regione, trovi una campagna affastellata da capannoni
chiusi che meglio di un’inchiesta giornalistica mostrano in maniera livida il
declino dell’economia italiana. Il cielo era di un colore indefinito tra il grigio e l’azzurro tenue. Non faceva caldo, ma la solita cappa di umidità della
Pianura Padana, che d’inverno si trasforma nell’inconfondibile nebbia della
bassa, opprimeva i polmoni ancor prima dell’umore. Non lo aspettai al
casello, non c’era posto per parcheggiare l’auto, e continuai imboccando
una strada dopo l’altra con la sensazione di finire chissà dove. Vidi un
monolito di cristallo piantato in mezzo ad una immensa rotonda formata
da strade sfilacciate che allargandosi si perdevano nel nulla dei campi rasati. Alla base di quel mastodonte di cristallo spuntavano un Roadhouse, un
McDrive e un certo numero di negozi di abbigliamento. Fermai l’auto e
chiamai Aldo che impiegò meno di un quarto d’ora per raggiungermi. Ci
sedemmo da McDonald’s e senza neppure chiedermi come stavo posò una
carpetta nera sul tavolino. Prima di aprirla mi raccontò di come se la stava
passando e se la passava davvero male. Non era stato riconfermato come
assessore al secondo mandato. Dato che si trattava di un avvenimento più
unico che raro gli domandai la ragione dell’abdicazione. Mi confidò che la
storia d’amore con la responsabile regionale del partito era andata di male
in peggio tanto che lei aveva incominciato a vedere in Maccione un perfido nemico. Per questo si era messa d’impegno, usando tutta l’influenza di
cui disponeva, per eliminarlo. Ma non dovevo assolutamente dispiacermi
perché un’intuizione geniale scaturita improvvisamente nella sua mente
alcuni giorni prima ci avrebbe rilanciato sul mercato dei partiti e così dicendo diede per scontato che entrambi sapevamo fin troppo bene che in politica, come ai cavalli, basta puntare tutto sulla “dritta giusta” per sistemarsi
tutta la vita. A quel punto notai che aveva smesso di parlare e mi guardava
con l’aria di chi ha trascorso quaranta giorni nel deserto per affrontare
Satana e cacciarlo. Alzò al cielo lo sguardo perdendosi in una visione vanagloriosa. Vide una folla immensa e plaudente uscire dal fondo del locale
per avvicinarsi al nostro tavolo mentre dal soffitto cadevano delle stelle
filanti argentate che riverberavano nei monitor dei più importanti network
del mondo. I giornalisti, l’inviato della Cnn in testa, insistevano per averci
in disparte così da poterci intervistare, ma indifferenti a ogni richiesta degli
anchorman televisivi, sorridenti, stringendo una mano dopo l’altra e baciando i bambini sollevati in aria dai genitori, continuavamo a goderci il sapore della vittoria mentre i corpulenti agenti della scorta setacciavano la folla
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attraverso le spesse lenti degli occhiali da sole. Da quel momento non
avremmo più dovuto sudare sette camice per portare a casa un misero stipendio, o guidare una squallida utilitaria avendo una flotta di auto blu a
disposizione e neanche avremmo dovuto versare contributi all’Inps, semmai beneficiare di un numero imprecisato di pensioni che sarebbero andate via via accumulandosi fino a farci diventare i pensionati più ricchi di
tutto il paese, come del resto lo sono tutti quegli onorevoli che sono stati
eletti in Parlamento per più di una volta. A quel punto si scrollò dal sogno
ritrovandosi seduto al tavolino del fast - food immerso nell’odore nauseabondo della carne bruciacchiata. Si guardò attorno: era circondato da bambini piagnucolanti, operai in salopette fluorescenti e impiegati annoiati
dalla pausa pranzo. Contrariamente a quello che avrei immaginato non si
perse d’animo, stirò un angolo della bocca in una sorta di sorriso e dopo
aver aperto la carpetta sventolò in aria una stampa digitale colorata. Prese
fiato e gridò:
“Yes we can! Yes we can!” e ripeté ancora più forte scandendo le parole: “Yes! – We! – Can!”
Cercai di non apparire seccato, ma per la prima volta da quando avevo
messo piede sul suolo carpigiano mi domandai quale fosse il motivo che
mi aveva spinto a percorre 70 chilometri per sentirmi ripetere per la milionesima volta lo slogan di Barack Obama. Non fece caso al mio sguardo da
gatto sornione e continuò dicendo di aver brevettato con successo lo slogan “yes we can” e subito dopo, avvalendosi del talento di un grafico, lo
aveva riportato su di un simbolo elettorale che sarebbe stato presentato alle
prossime elezioni regionali. Indipendentemente o meno dal volere di
Barack, Aldo e Davide, che nella mia testa mi suonavano già come la rivisitazione di Gianni e Pinotto in chiave atlantica, avrebbero fondato il
Partito Democratico Italoamericano. L’aspetto geniale di questa trovata,
secondo lui, consisteva nel fatto che il Presidente degli Stati Uniti non si
sarebbe abbassato al nostro livello per smentirci e così facendo ci avrebbe
concesso tutto il tempo necessario per giocare sull’equivoco la partita delle
regionali. Solo allora gli chiesi quale fosse il nostro programma.
“Ma quale programma?” – sbottò Aldo – “Non hai ancora capito
come vanno le cose dopo tanto tempo?” mi chiese.
Scossi la testa per fargli intendere che no, non l’avevo ancora capito.
“Niente di male, ci sono arrivato subito” disse – “ma poi quando ho letto
sul giornale di come Tonino è riuscito a rigirarsi tutti i soldi del finanziamento elettorale sono caduto in ginocchio sulla via di Damasco”
Si accertò che fossi al corrente della campagna denigratoria messa in
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piedi dal quotidiano della famiglia Berlusconi ai danni del suo ex-capo e
cioè del leader del partito dal quale era stato appena buttato fuori. Dato che
non ne sapevo nulla mi spiegò che avremmo fatto un’operazione simile
facendo nascere due associazioni gemelle, la prima denominata Partito
Democratico Italoamericano alla quale chiunque avrebbe potuto aderire e l’altra definita Yes we can controllata dai nostri parenti più stretti. E sarebbe
stata proprio quest’ultima a ricevere i soldi del finanziamento pubblico in
quanto l’unica proprietaria del simbolo elettorale stampato sulle schede
elettorali. L’imminente fiume di denaro pubblico sarebbe poi stato rigirato
al partito solo a determinate condizioni e prese ad illustrare come:
“…ci compriamo alcuni immobili prestigiosi con un mutuo che ripaghiamo affittandoli come sedi al Partito Democratico Italoamericano.
L’uovo di Colombo, un gioco ‘alla Ponzi’ che ci renderà ricchi con i soldi
del finanziamento pubblico”.
Il “gioco alla Ponzi” era ormai entrato nel gergo usato dai politici - un
po’ come il “che te lo dico a fare” di Donnie Brasco, - ritornava puntualmente
nella maggior parte delle conversazioni. Bisogna a questo punto ricordare
che Carlo Ponzi, detto Charles, è considerato l’inventore dello “schema ponzi”
e cioè di una strategia che ancora oggi trova numerosi sotenitori. In molti
avranno certamente sentito parlare dell’ultimo grande esponente del
“Ponzismo”, di quell’imprenditore statunitense, Bernard Madoff, accusato di
essere l’artefice della più grande truffa di tutti i tempi. Ponzi imparò da
Collodi, dall’immortale Pinocchio buggerato dal Gatto e la Volpe, che non
serve impadronirsi del denaro con la forza se convinci quelli che lo possiedono ad affidartelo affinché tu lo investa producendo utili da capogiro. Noi
avremmo fatto lo stesso convincendo lo Stato Italiano che eravamo un partito degno di ricevere il finanziamento pubblico e per essere certi di mettere a segno il colpo era necessario raccogliere un “misero” 3% di voti. Dato
che Maccione mi vide perplesso si lanciò in un’accalorata dissertazione.
Non avremmo più dovuto litigare con i compagni di partito per essere candidati e neanche saremmo stati costretti ad acquistare centinaia di migliaia
di tessere per avere uno strapuntino, ma soltanto incassare i soldi di un
investimento che si presentava come il più lucroso fra tutte le attività economiche che avremmo potuto avviare. Soldi facili, esentasse, con un capitale d’investimento tra i più bassi dell’intera storia del capitalismo, se era
vero, tanto per fare un esempio, che il movimento dei Pensionati aveva
ricevuto per le elezioni europee 180 euro di rimborso a fronte di ogni singolo euro investito. Aldo si mise a sghignazzare e concluse dicendo:
“Pensa a che idioti siamo stati” – rise ancora più fragorosamente –
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“Abbiamo passato la vita a sbatterci nel partito senza capire che per ogni
sberla che ci prendevamo dai compagni, per ogni preferenza strappata agli
elettori, per ogni parola azzeccata che abbiamo infilato personalmente nei
programmi, qualcuno, che neanche conoscevamo e che probabilmente se
ne stava seduto sul bordo della piscina di un Grande Hotel a sorseggiare
Martini, ci guadagnava un pozzo di grana”.
Aldo aveva ragione da vendere e vi confesso, illustri signori e signore
della Giuria, che in quel McDonald’s, in quel pomeriggio afoso e grigio, per
la prima volta nella mia vita, mi sono sentito un fesso, così tanto fesso che
mi venne la voglia di andarmene. Ma prima di darmi alla fuga ritornai con
la mente ad un viaggio in America Latina ricevuto per il mio diciottesimo
anno di età. Una sera, camminando da solo, mi capitò di assistere ad un
combattimento fra galli. Quelle due povere bestie, mai e poi mai, avrebbero immaginato che un omaccione ignorante, grasso e sudato, con una
vistosa catena d’oro penzolante sulla canottiera sporca, viveva sulla loro
pelle grazie al giro di scommesse che gestiva. I due galli combattenti si beccavano senza tregua, starnazzavano, perdevano le piume, si cagavano
addosso dalla paura, sanguinavano e morivano mentre quel bastardo di un
allibratore si ritrovava nelle tasche tutto il necessario per pagarsi le quattro
puttane che gli stavano a fianco.
Carlo Ponzi, inventore dello “schema ponzi”
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Vendetta
Salutai Aldo dicendo che ci avrei pensato su, anche se, a dire il vero,
non mi sentivo abbastanza cinico per guadagnare una fortuna alle spalle di
quei poveretti che spinti dalla disperata illusione di cambiare il mondo
erano disposti ad entrare in un nuovo e affascinante partito a stelle e strisce. Montai in macchina e me ne andai con un groppo alla gola. Guidai
pensando che non mi fregava più niente del panorama circostante e nemmeno della crisi economica, delle emissioni di anidride carbonica, del precariato, degli orsi cinesi torturati vivi per estrarre dalla loro bile un medicamento magico, delle calotte polari e di tutte le altre fregnacce per le quali
mi ero battuto. Un cinismo brutale stava bruciando tutto quello che mi era
rimasto, buoni sentimenti, sogni, ideali, tutto ciò in cui avevo creduto fino
a quando la dura realtà mi era apparsa dentro a un fastfood alla periferia di
Carpi con indosso il suo vestito peggiore. Mi fermai ad un bar e ordinai
una bottiglia di vino bianco che assaporai per una buona metà. A quel
punto, con tutto quell’alcol che mi scorreva nelle vene, incominciai a sentir crescere una piacevole calma. Pensieri sparsi incominciarono ad accavallarsi fino a quando non presero la forma di un ragionamento compiuto. Mi
trovavo ad un bivio. Potevo seguire Aldo Maccione nella sua impresa criminosa, sebbene del tutto legale, o farla finita per sempre con la politica e
quest’ultima strada era l’unica percorribile se avessi voluto continuare a
guardare mio figlio in faccia senza vergognarmi. Ma un diabolico disegno,
appena abbozzato, si materializzò con la dolcezza di un feto che prende
forma nel ventre folle della storia. Cercai di metterlo a fuoco ponendomi
delle domande, altre domande, altre ancora: devo veramente dimenticare
tutto? Ma quale interesse potrebbe mai suscitare la mia storia qualora decidessi di renderla pubblica? La verità sulla politica desterebbe ancor meno
attenzioni. Passerebbero entrambe inosservate, non c’è dubbio. Qualche
trafiletto sui giornali, forse, ma nient’altro di più.
“A meno che… A meno che non decida di compiere un’azione apparentemente violenta per incentrare su di me l’attenzione. Non è forse vero
che ricattatori della peggior razza, conosciuti al mondo col nome di paparazzi, hanno guadagnato onori, denaro e Lamborghini soltanto per aver violato l’intimità altrui? Non è forse vero che giornali senza scrupoli hanno
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pagato a peso d’oro le interviste rilasciate da mostruose infanticide? E
quanti altri hanno dedicato prime serate, libri e dvd a terroristi bombaroli
o girato film su spietati criminali di borgata facendoli interpretare da divi
di gran fama? Per questa ragione, e sia questa la prima ma non l’unica, rapinerò una banca e quando i riflettori si accenderanno sul mio volto e i
microfoni si spalancheranno davanti alla mia bocca come affamate piante
carnivore bramose di succulente verità, solo allora, darò libero sfogo a tutti
i miei racconti che amplificati viaggeranno nell’etere, di televisione in televisione, di casa in casa, di mente in mente, rendendo evidente ciò che i
politici solitamente nascondono, mascherano e cancellano dalla faccia della
terra. Ogni uomo, o donna, potrà scegliere allora da che parte stare e quale
maschera indossare. E solo al termine di questa lunga confessione vi spiegherò perché ritengo che una rapina a mano armata altro non sia che un
atto di pura onestà”
Nell’aula scoppiò un boato di stupore.
“Silenzio!” – gridò il Giudice – “Silenzio, per Diana! …o dovrò far
sgombrare l’aula”.
L’Avvocato della Difesa si alzò in piedi dopo aver chiesto la parola:
“Illustrissimi Giurati, l’imputato che vi trovate davanti non è un criminale come tutti gli altri. Su questo non v’è dubbio alcuno, tant’è vero che
se prendiamo in esame i suoi scritti, quelli che si trovano allegati agli atti
del processo, nessuno di noi potrà negare che un certo talento bruci in
lui”
Fu interrotto dall’Accusa che sobbalzò sulla sedia:
“Questa considerazione è irrilevante, l’imputato non è mai riuscito a
farsi pubblicare un solo libro”.
“Nulla toglie alle capacità dell’uomo” – riprese a disquisire l’Avvocato
della Difesa con un tono eccessivamente tranquillo – “Ma andiamo per
ordine e ricapitoliamo i fatti: l’imputato ha confessato di essere un politico
e non ha mai negato di essere un rapinatore di banche. Ma chi è esattamente costui? Lasciate ora che vi legga un brano scritto di suo pugno:
“Una volta, a notte fonda o a sera tarda non ricordo, dopo aver sputato sangue sul selciato, mi rialzai da terra e scesi le scale della pubblica latrina. Fra la sporcizia e le scritte oscene, trovai incisa sul muro
una sola verità:
Qualcuno, nel mondo, vi aspetta per essere salvato
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Da questa frase, tanto semplice quanto vera, scaturì tutto ciò che
avrei dovuto tenere a mente se solo avessi deciso di battermi per una
giusta causa. Ricorda di non diventare mai ciò che combatti e tieni la
spada in una mano e lo specchio nell’altra così che, quando vedrai
crescere un tiranno sanguinario innanzi a te riflesso, sarà giunto il
tempo di cedere alla nobiltà della sconfitta perché non vi è vittoria
alcuna che possa dirsi tale se per conseguirla hai perso te stesso e ciò
che sei stato. E in questa lotta senza fine con l’altro te specchiato ti
sia di conforto sapere che l’intramontabile storia dei buoni da una
parte e dei cattivi dall’altra, assolta da milioni di eroi prima del tuo
arrivo, è solo in attesa di essere rivissuta. Rendi epico il tuo quotidiano. Eroica la tua vita. Anche se ora ti appare terribilmente normale
non sei stato tu a volerla così, ma tu, tu solo e nessun altro, puoi cambiarla e come te potrà farlo chi vorrà seguirti in questa impresa”.
“Obiezione!” - gridò ancora l’Accusa ad un passo dal perdere le staffe - “Non può essere consentito ad alcuno di sfuggire alle proprie colpe
facendo uso del proprio talento. Mi sento in dovere di far rispettare il principio secondo il quale ogni uomo è uguale davanti alla legge e per questo
chiedo che sia impedito a chiunque, in quest’aula, di esprimersi attraverso
un uso ricercato del linguaggio. Questo è un processo e non un reading letterario”
A quel punto l’imputato prese la parola.
“Anche a Carlo chiesero di tacere e fu perseguitato per questo. A noi
rapinatori, nemici del popolo, diseredati e poveri diavoli, non è consentito
tacere, vorremmo tanto soprassedere ed essere amati e per questo venerati e premiati, ma non ci possiamo fare niente, siamo fatti così. Le parole ci
escono dalla bocca senza freni e chi vuole può loro tener testa, ma non
incarcerarle in noi”
“Carlo? A quale Carlo si riferisce?” – indagò l’Accusa – “Siano messe
a verbale le sue generalità in quanto potrebbe trattarsi di un complice dell’imputato al quale sarà affibiato un bel concorso a delinquere”.
“Lo lasci terminare e la finisca di interrompere gli interventi o la farò
radiare dall’aula” lo redarguì il giudice.
“Non so nemmeno io quante storie come questa che sto per raccontarvi giacciono affondate negli oceani della dimenticanza. Quanti eroi
maledetti, soli come cani, hanno fatto ciò che dovevano fare spinti solo dal
sacro vento caldo della giustizia”
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La canzone di Carlo
“Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi”
Aldo Moro
“bisogna ripartire sempre dai propri errori e
mai dai successi”
Pablo Picasso
Una musa visitò i miei sonni dopo un rito iniziatico e lasciate che chiami così quella bevuta consumata in compagnia di vecchi amici, bastardi e
sbandati.
Carlo, uomo di condizione libera, protettore dei catechisti e dei
librai, già nome di mio nonno e del grande Magno, Maestro della corte dei
re Merovingi, non mi fece scegliere, mi scelse. Camminava nel suo giardino non molto lontano dall’atterrita vestale, scolpita nella pietra, che sembra essere fuggita dal Duomo di Nonantola. Di quella statua, nessuno
potrà mai vedere il volto perché i suoi occhi straziati si sono smarriti nel
nero calice del copricapo dopo aver chiamato a sé la storia di Carlo. Ma
quella fabula inabissata - per quanto addormentata - continua fortunatamente a vivere nelle leggende degli uomini straordinari.
Carlo si sedette accanto al vecchio ceppo dell’olmo di Gisors sotto le
cui folte chiome, fanti, cavalieri e Re, si affrontarono a colpi di spada affinché quel patriarca verde non fosse abbattuto. M’inginocchiai accanto a lui
per ascoltare le verità che l’olmo dispensava ai viandanti ogni notte. Dalle
nere profondità di quel tronco cavo, si riversarono fuori mille girini grandi
come comete e presero posto nell’aria rischiarata dalla luna in attesa che
Carlo cantasse, ancora una volta, quella ninna nanna dolce e dolorosa. Non
lo sapevo, ma molti pellegrini che mi avevano preceduto erano caduti in
preda alla rabbia e alla disillusione ascoltando quanto stavo per sentire.
Altri avevano perduto ogni umana pietà verso i propri simili e alla vendetta, soltanto a lei, si erano votati. Come loro avrei dovuto decidere se cedere alla prima notte di quiete, scacciare quel sogno rivelatore e iridescente, o
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viverlo lasciando che mi facesse diventare più forte, equilibrato e saggio,
malgrado tutto il dolore che mi avrebbe causato prima di trasformarmi per
sempre. Ascoltai in silenzio.
Vi fu un tempo lontano - c’era una volta - in cui il profitto ebbe la
meglio sulla ragione, tanto che i guardiani dei maiali decisero di stivare le
loro bestie, tante quante le cavallette della piaga, accanto alla casa di Carlo.
Ritennero, a torto e non a ragione, che fosse molto più conveniente
ammassarle in un grande castello, rimpinzarle di cibo, stremarle di antibiotici, piuttosto che lasciarle vivere allo stato brado.
Dal ventre di pietra che imprigionava le scrofe strisciò fuori un serpente
che si mosse fino al più vicino corso d’acqua dove immerse la testa pur
continuando a tenere la coda tra i maiali. Spalancò le fauci e dalle viscere
più profonde vomitò un liquame scuro nei canali, prima di allora, templi
consacrati alle rane panteiste. Ogni fosso, stagno o semplice pozza d’acqua,
si spopolò e tutta la campagna circostante si ammantò di un funebre silenzio. Le rane non avrebbero più raccontato nessuna favola triste alle nubi e
loro, in tutta risposta, avrebbero smesso di piangere temporali sui raccolti.
Carlo, che fin da bambino aveva nuotato nei rivoli che nessuno avrebbe
mai osato chiamare canali, decise che non avrebbe potuto assistere indifferente alla morte di quelle bestiole che galleggiavano a pancia in su decimate da batteri e nitrati. Come poteva permettere questo dopo aver ammirato le loro leggendarie imprese per così tanto tempo? Quando il Dio Pan si
nascose in un fiume per sfuggire a Tifone non furono forse le rane a proteggerlo? Cosa ne sarebbe stato degli uomini se il Dio serpente degli aztechi
e il mago giaguaro non avessero tagliato in due la prima rana primordiale per
originare il cielo e la terra? E chi avrebbe indicato ai fiumi la via del mare?
Solo allora il mio sogno diventò il sogno di Carlo. La madre terra degli
Aztechi, la grande rana Tlaltecuhtli ci sorrise dal fondo spettrale del bosco.
Si mutò nella Dea Heket, protettrice della vita nascente, invocata dagli antichi egizi per proteggere il parto, le madri e i nascituri. Fu lei a convincere
Carlo che, né le rane, né tantomeno i bambini, dissetati dall’acqua avvelenata dei pozzi inquinati dovevano morire.
Carlo chiamò gli ufficiali del villaggio, mostrò la testa marcia del serpente, ma per loro, era tutto regolare. Se a caval donato non si guarda in
bocca, tantomeno lo si poteva fare all’idolatrica serpe - “Prima o poi le rane
torneranno” dissero i politici che seguirono gli ufficiali. Eccome se tornavano, trenta rane d’oro rimpinguavano i loro conti, ma di rane vive e verdi dalmatine o temporarie - neanche l’ombra.
Carlo non si perse d’animo e convinto che non si potesse sentire il
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puzzo di tutto quel male, si avvicinò alle fauci maleodoranti del serpente
per colmare un secchio di materia purulente. Il giorno dopo attraversò la
piazza e camminò sotto le volte dei portici tenendo il secchio ben stretto
in una mano. Passando accanto alle botteghe cittadine vide come gli alchimisti riuscivano a mutare i maiali in salsicce e le salsicce in oro. Contemplò
i garzoni stregati dal bagliore luciferino effuso dalle monete quando gli
uomini le maneggiano. Pensò che per quella corporazione di avidi mercanti, le rane e i bambini valevano meno dell’oro, ma non si perse d’animo e
si mise a sedere. Aspettò in silenzio. Quando, nel primo pomeriggio, le
porte del Gran Consiglio Comunale si schiusero ai cittadini, nessuno si
sarebbe mai aspettato di veder arrivare Carlo con quel vaso di Pandora tra
le mani. Lo sollevò sopra la testa e come un gigante accecato lo scagliò su
quel fiore appassito di notabili consiglieri: “Lo sentite adesso il puzzo? Vi
pare che l’acqua sporca odori di zucchero filato ? …O è forse acqua di
colonia? Ditemi!” - Urlò. Nessuno lo denunciò e come avrebbero potuto?
Non sostenevano forse che tutta quella merda non era mai esistita?
Non ancora contento - il buon Carlo - si rivolse ai giudici con un nubifragio di esposti, ma anche questa volta senza successo.
Archiviato! Il fatto non sussiste! Non luogo a procedere! Non accolto! Prescritto per decorrenza dei termini! Vizio procedurale! In poche, ma
chiare parole: non ce ne frega niente dei tuoi canali sporchi!
Imparò l’arte degli “azzeccagarbugli”, passò le notti insonni sui libri,
lesse e studiò fino a diventare un principe del foro, e lo fece sospinto dal
semplice motivo che un giorno, la sua inascoltata ragione, avrebbe prevalso sulla stupidità. Ogni qual volta un giudice rifiutava i suoi esposti con
futili ragioni, determinato a far conoscere al mondo la malvagità dei guardiani, ricopiava ogni riga dei loro disumani asservimenti sui manifesti che
stampava in poche copie così da poterli affiggere per le vie della città.
Tanto fece, tanto scrisse e tanto mostrò quanto ridicola fosse l’autorità, che
qualcuno si indispettì. S’indispettiscono sempre quelli che si arricchiscono
mettendo i piedi in testa ai poveretti. Chissà perché?
Il signor Sindaco di allora decise che non vi sarebbe stata peggiore
pena per il giusto che essere considerato un pazzo delirante. Per questo
motivo quattro gendarmi, “con i pennacchi e con le armi”, presero Carlo e lo
richiusero nel manicomio criminale.
La ragione fu una e una soltanto: la colla dei manifesti.
Si trattava di un liquame - questa volta sì ben più pestilenziale della
merda di maiale - così potente, ma così potente, che quando i messi comunali rimuovevano i foglioni di Carlo, interi continenti di intonaci comunali
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si staccavano per andare alla deriva sui selciati. È risaputo, che il crollo dei
palazzi storici, non è da attribuirsi ai terremoti, alle vibrazioni prodotte dal
traffico, all’inquinamento atmosferico, al cemento abruzzese taroccato, o al
volere di Dio, ma solo all’uso improprio delle affissioni, ancor più quando
queste sono invereconde e piene di insolenze.
Sciocco Sindaco, non sapeva che i cavalieri erranti, senza macchia e
senza paura, godono della stessa libertà di espressione concessa agli artisti.
Non poteva imprigionarla, come non avrebbe mai potuto chiudere la musica di Mozart dentro ad una sudicia cella. Volava sopra la sua testa, più in
alto del campanile, la libertà di Carlo. E continuò a volare fino a quando
non vide sotto di sé le persone giuste alle quali chiedere aiuto. Il silenzio
immutabile nel quale avevano rinchiuso Carlo andò in pezzi insieme alla
torre in cui era stato rinchiuso il signore degli anuri e dei bambini. Uomini
giusti, professori illuminati della moderna psichiatria, unirono le penne
come i moschettieri uniscono i fioretti nel romanzo di Dumas e giù, lungo
quelle lame risplendenti di verità, fluì l’inchiostro luminescente della ragione. Come un fantasma, un’intramontabile perizia secondo la quale Carlo
non era un pazzo, ma un uomo saggio, si manifestò nelle aule dei collegi
giudicanti. Questo bastò per accendere l’attenzione del mondo politico su
Carlo “il giusto”, tanto che fu candidato sotto le stesse insegne di cui mi
sarei fregiato anch’io molti anni dopo. Carlo, avendo avuto tutto il diritto
di dire ciò che pensava ed essendo stato ingiustamente imprigionato da chi
pensava il contrario, fu insignito dai cittadini con l’onorificenza di
Consigliere Comunale, emerito difensore delle acque e della terra.
Carlo uscì dalla prigione una mattina, sotto lo stesso sole che lo aveva
illuminato tre mesi prima. Era ancora lì, sopra di lui, ma quella buona stella avrebbe brillato ancora per poco prima di spegnersi definitivamente dentro ai suoi occhi. Infatti, la sua storia, la sua battaglia e i suoi dolori, non
erano ancora finiti.
Una sera si recò ad una festa politica di paese, passò sotto alla falce e
al martello che a quel tempo campeggiavano ancora sull’effigie del partito
comunista stringendo l’unica cosa che aveva: la buona intenzione.
Raccontò, mostrò carte e documenti, illustrò come si prevaricavano le leggi
e infine lesse le risposte dei giudici che permettevano alla merda di maiale
di andare in giro indisturbata.
In molti risero, altri capirono, ma qualcuno, ancora una volta, non gradì.
Tre centurioni lo aggredirono nella stalla dove era andato a riprendere il
suo destriero. Mentre uno lo teneva fermo gli altri due “gli cercarono l’anima
a forza di botte” come al blasfemo di De Andrè. Finì all’ospedale e vi rimase
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per molto tempo. Purtroppo gli Dei non sono comprensivi con gli uomini che oscurano la loro leggenda e li puniscono nel modo peggiore piegando il fato al volere della centuria. Carlo si accasciò dopo aver discusso
un’ultima volta in Consiglio.
La storia era finita. I cattivi avevano vinto. Carlo mi sorrise e disse:
“Un solo uomo è una rivolta”.
Strinsi forte la sua mano come Cesare a Cassio:
“Ci rivedremo e quando ci rivedremo ne rideremo, altrimenti valga questo quale
estremo commiato”
Lo vidi allontanarsi e solo quando fu molto lontano compresi che le
rane, le grandi rane che avevano abitato l’infanzia spensierata di tutti i mortali lo avrebbero accompagnato dove quello strano sogno sarebbe svanito
senza lasciar traccia. Nuotarono insieme nel cielo azzurro che altro non era
che il riflesso dell’acqua sulla volta celeste e continuarono a navigare per
allontanarsi dagli uomini, dalle loro porcilaie e da tutti quei miseri guadagni che ogni giorno mandavano in malora un pezzo di mondo dalle parti
di Modena e in chissà quali altri posti.
Intravidi sua moglie mentre lo salutava e quando Carlo fu solo un puntino impresso sull’orizzonte pianse a dirotto. Compresi, guardandola, che
vi sono uomini che possono continuare ad essere pericolosi anche dopo la
morte se è vero che quella signora, la mite moglie di Carlo, come Maria
davanti a Ponzio Pilato, chiese all’autorità costituita di concederle un perito
di parte che potesse assistere all’autopsia. Era necessario appurare la causa
esatta della morte perché gli aguzzini di Carlo, se per caso fosse emerso un
legame tra il pestaggio e il decesso, non avrebbero pagato per delle semplici seppur pesanti percosse, ma per aver commesso un “omicidio differito”.
Quando il perito giunse all’ospedale l’autopsia era già stata completata e la
bara chiusa per sempre. Carlo “dorme in un campo di grano” accanto alle salme
dei giusti che hanno impedito a Dio di annientare il genere umano per la
sua cattiveria e se conservo un rimpianto è solo quello di non averlo mai
conosciuto. Se passate per Modena o dalle parti di Nonantola e chiedete di
Carlo, o di quello che difendeva i pozzi dell’acqua - molti anni prima di
Bové e di Erin Brockovich - le mamme spaventate affretteranno il passo stringendo la mano ai propri bambini. Nessuna di loro - ogni qual volta apre il
rubinetto per dissetare i suoi piccoli - ricorda l’eroe dimenticato che perse
la vita perché quell’acqua fosse pulita.
I politici poi - ne ho incontrati tanti sul posto - fingono di non sapere nulla. Ma se non hanno mai sentito parlare di Carlo perché abbassano
tutti gli occhi?
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“Suvvia! Non prendiamoci per i fondelli!” - insorse l’Accusa – “non
mi venite a raccontare che tutte queste fregnacce sono realmente accadute. Al contrario, intravvedo in questo racconto la volontà da parte della
Difesa di insinuare, in maniera subdola, l’idea stessa che la giustizia possa
asservirsi ai più biechi disegni politici così che, quando questo collegio giudicante dovrà esprimersi, si ritroverà senza l’autorevolezza necessaria. Si
tratta di ragionamenti che non dovrebbero mai muovere le azioni di un
politico di sinistra e ciò fa di lei, ancora una volta, quel traditore che
ammette di essere”. Abbassò il capo e restò in silenzio e solo quando il
pubblico e i giurati incominciarono a chiedersi il perché di quel lungo silenzio riprese ad argomentare:
“Ad ogni modo, indipendentemente dai motivi che animano il suo
agire, la invito a produrre le prove di questa persecuzione perpetrata ai
danni di un libero cittadino, al secolo Carlo Sabattini”.
L’imputato posò la mano sul braccio del suo avvocato per invitarlo a
restare seduto e quindi si alzò in piedi per rispondere di persona:
“Francamente, anch’io, sulle prime, data l’assurdità di questa storia, ho
pensato di aver sognato tutto, ma poi ho dovuto ricredermi”.
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Ogni uomo è una rivolta!
“Il potere” è l’immondizia della storia degli
umani e, anche se siamo soltanto due
romantici rottami, sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte: siamo i
Grandi della Mancha, Sancho Panza e
Don Chisciotte !”
Don Chisciotte di Francesco
Guccini
Quando mi svegliai mi accorsi che la finestra era rimasta socchiusa
durante il temporale notturno. Una delle due ante si apriva leggermente sul
cortile che pullulava di rane come se fossero piovute dal cielo. Si dice che
questo fenomeno si ripeta di tanto in tanto sebbene nessuno ne conosca i
motivi. Notai una fila di anuri nascosti nella grondaia, altri rannicchiati tra
i vasi di fiori, un’altra rana, più grossa delle altre, stava accovacciata sul sellino della bicicletta. Gruppi sparsi di questi anfibi verdi saltellavano alla rinfusa sul selciato del cortile. Sotto, sopra, nel corridoio che separava i giardini, sulle scale, persino sui balconi e dentro alle buchette della posta,
insomma c’erano rane in ogni dove.
Nel frattempo, in casa, proprio sulla tavola, accanto al caffè fumante
versato da mia moglie, qualcuno, aveva lasciato delle fotocopie di vecchi
articoli di giornale.
Rane e ritagli di giornale, davvero una strana coincidenza.
“La conversione di Sabattini da coltivatore a contestatore tout
court avvenne anni fa, quando il proprietario di una porcilaia
cominciò a riversare sul suo fondo a Nonantola fiumi di liquami
appestanti che inondavano fossi e campi. La protesta crebbe di
fronte al laissez - faire delle istituzioni e ai ritardi della magistratura.
Il fenomeno dell’inquinamento naturalmente non riguardava solo
Nonantola, ma tutta la Provincia di Modena. Da una parte piombo, fluoro e altri scarichi industriali, dall’altra, sempre più imponenti masse di liquami degli allevamenti suinicoli avvelenavano le acque
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dei canali, dei pozzi, dei fiumi ed ammorbavano l’aria… si pensi
solamente a Castel Nuovo Rangone dove l’acqua di numerosi
pozzi - una volta potabile - è imbevibile anche a settanta metri di
profondità per la presenza eccessiva di colibatteri, o a Formigine,
un comune, ove vengono allevati circa mezzo milione di maiali,
venti per ogni abitante. Sabattini tutte queste situazioni ed altre le
ha denunciate per anni. Da Nonantola, la sua azione si è allargata,
fino ad arrivare in Regione. Nel Palazzo di Viale Silvani a Bologna
versò un secchio di liquami, altrettanto fece in Comune a Modena”
Giorgio Giusti sul Giornale di Modena del 12 aprile 1985.
Non ci crederete, Signori della Giuria, ma fin dalla più tenera età sono
stato afflitto da un’esasperata sensibilità che mi ha permesso di vedere ciò
che agli altri era impedito. Per questo vedo davanti a me un uomo giovane
e di bell’aspetto che assomiglia ad Amedeo Nazzari. Indossa una camicia
bianca, candida come le sue intenzioni e un paio di pantaloni color kaki.
Alle spalle si distende la campagna emiliana così come la ricordavano i vecchi del paese: lussureggiante e incontaminata. Quell’uomo crede ancora
negli uomini, pensa ingenuamente di poterli cambiare ed è proprio questa
innocenza che diventerà una forza inarrestabile. Aspetta sul greto del fosso
l’arrivo dei pubblici ufficiali. È luglio, fa caldo, ma tira una leggera brezza
che disperde l’odore greve e allevia l’attesa. Malgrado la tensione che sente
crescere dentro è felice perché è consapevole di fare la cosa giusta, per lui,
per i suoi figli e per i figli dei suoi figli. Non c’è dubbio, l’ambientalismo,
quello primitivo, fine a se stesso, senza onori ne’ gloria, nasce quel pomeriggio con Carlo Sabattini che siede sul greto di un fiume impestato dalle
mosche. Ma preferisco lasciarlo lì ad aspettare, lì da solo, e continuare la
storia.
Sebbene l’articolo riportato sopra sia stato scritto nel 1985, la causa
dalla quale si origina la storia che sono in procinto di racconrtare si manifesta il 22 novembre 1976 e cioè quando Carlo Sabattini deposita una querela nei confronti dell’azienda suinicola che scarica i liquami nei corsi d’acqua che scorrono vicino alla sua abitazione. Questa sua prima battaglia si
conclude con l’assoluzione dell’inquinatore grazie al rapporto redatto dal
Maresciallo di Nonantola che minimizza facendo scrivere nel verbale che
deve trattarsi di normalissima schiuma prodotta dai detersivi provenienti
dalle case del circondario. Peccato solo che l’azienda zootecnica – come
rileva giustamente Sabattini all’inizio del suo libro bianco – fosse ubicata in
aperta campagna e in posizione isolata. Malgrado questa prima sconfitta
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continua a combattere in difesa dei corsi d’acqua e soprattutto non si perde
d’animo tanto che promuove perfino uno sciopero della fame che se da un
lato lo costringe prima a letto e poi all’ospedale, dall’altro riesce a far crescere intorno a sé un certo sostegno, tanto che perfino Don Arrigo Beccari,
il sacerdote divenuto famoso per aver salvato un centinaio di bambini ebrei
durante il fascismo e per questo proclamato membro dei Giusti tra le
Nazioni, gli scrive una lettera molto tenera per ringraziarlo. Finalmente
qualcosa si muove e a qualcuno viene il dubbio che i liquami possano infettare le malmesse reti dell’acqua potabile. Riconoscere ciò significa ammettere, seppur indirettamente, la presenza dei liquami. Se Dio vuole, la verità
incomincia ad affiorare.
“Chiusi da ieri a Nonantola alcuni tratti dell’acquedotto. L’ufficio
del Medico Provinciale afferma che al momento non esistono pericoli per la salute pubblica. Una parte delle tubature sarebbe in grave
dissesto a causa dell’ossidazione che ha aperto numerose falle. Le
infiltrazioni hanno dato luogo a qualche fenomeno di inquinamento. La singolare protesta di un abitante di Nonantola, questi Carlo
Sabattini, ha tappezzato il proprio carro agricolo con manifesti
manoscritti corredati da numerose foto”
Il Resto de Carlino, Cronaca di Modena, del 30/07/76, (autore non
specificato)
Nel partito che più di ogni altro ha espresso gli indolenti rappresentanti dell’Amministrazione Nonantolana serpeggia un evidente malcontento che si esprime, senza mezze misure, nel testo di un manifesto che
viene affisso per le strade del borgo modenese. Segnate bene nella memoria questa iniziativa così che non si dica che è stato l’ecologo ad affiggere
manifesti politici per primo.
“Contestazione o fenomeno da baraccone?
Da un anno a questa parte, un personaggio folcloristico – che ha
indubbiamente molto tempo libero – imperversa nelle strade del
nostro Comune e anche in altre della Provincia. Questo squalificato personaggio insieme alle cose confuse e irrazionali che dice, due
questioni chiare le pone: L’Amministrazione Comunale amministra
male. I Comunisti in particolare, sono i responsabili degli inquinamenti e del dissesto ecologico. Ora poiché i giochi sono belli finché durano poco, è bene precisare alcune cose. La causa vera del
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disastro ecologico in cui versa l’Italia è da ricercare in una totale
mancanza di programmazione economica e democratica da parte
di governi che si sono succeduti in questi ultimi trent’anni e delle
forze politiche che li hanno sostenuti… Riteniamo che nel nostro
paese, la libertà di espressione e di critica (diritti conquistati duramente con la lotta di Liberazione, difesi e ampliati in questi anni
dalle lotte e dalle iniziative delle forze democratiche) siano diritti
che tutti possono e devono esercitare. L’esercizio di tali diritti non
va però confuso con l’arbitrio e nella misura in cui si superano tutti
i limiti bisogna anche che chi si comporta in tale modo sappia che
ci saranno risposte in tutte le sedi siano esse politiche che giuridiche. Alla diffamazione si deve rispondere, in modo sereno, ma preciso e netto…”.
La Segreteria del PCI di Nonantola
Esaltata la libertà di parola, si giunge alle conclusioni: il PCI darà una
risposta “precisa” e “netta” alle esternazioni del “contestatore”, ma come
si vedrà poi, questa risposta precisa e netta, non resterà confinata solo nelle
sedi politiche e giudiziarie, ma andrà ben oltre i confini del buon vivere
civile.
Ciò che più conta, giunti a questo punto della storia, è la lettera spedita dall’assessore comunale a Carlo Sabattini ricoverato in ospedale per il
protrarsi dello sciopero della fame. Il Vicesindaco lo informa di aver dato
corso a tutti gli atti necessari al risanamento dell’acquedotto (una delle
cause del digiuno) che sarà terminato entro l’estate del 1977. Questa battaglia può dirsi vinta, ma la guerra di Carlo continuerà senza soste con una
lunga serie di proteste di cui la regione Emilia Romagna non terrà molto
conto se è vero che pur avendo provveduto a dare esecuzione con un anno
di anticipo alla legge Merli (varata a tutela delle acque) farà slittare l’entrata
in vigore dei nuovi limiti d’inquinamento posticipandoli di quasi dodici
mesi (al 31 maggio del 79). Carlo non si perde d’animo: una ragione in più
per proseguire la protesta.
È la volta di una scuola costruita sotto il tiro incrociato di una fabbrica di fertilizzanti chimici (i cui residui sono periodicamente riversati nell’ambiente) e alcuni “lagoni” puzzolenti e straboccanti di sostanze organiche che distano meno di settanta metri dalle aule. L’azienda non ha subito
un solo accertamento negli ultimi tre anni, un’enormità considerato che si
tratta di uno stabilimento inserito nell’elenco delle fabbriche più pericolose d’Italia stilato dall’Europeo. Anche gli alvei putridi non sono in regola
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con il testo unico delle leggi sanitarie. Ancora una volta le autorità minimizzano, i politici restano asserragliati nelle trincee consiliari e così Carlo
decide che se Maometto non va alla montagna, la montagna andrà a
Maometto. E lo stesso deve valere per i lagoni (di merda).
Cosparsi di sterco i gradini del municipio
“Carlo Sabattini, già noto per altre manifestazioni di protesta, si è
anche incatenato a una cancellata. La manifestazione intendeva
richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica”
Segue l’articolo: “Il ‘contestatore ecologico’ …ha fatto il bis dell’exploit
bolognese dell’agosto scorso quando s’incatenò davanti alla sede
della Regione, dopo aver cosparso l’atrio di escrementi suini, per
denunciare la situazione dell’inquinamento a Santa Maria di
Mugnano… Carlo Sabattini dopo essere stato trattenuto in questura sino al pomeriggio è stato accompagnato al policlinico: alla
“neuro” è stato sottoposto a una visita. Questa la diagnosi: “perfettamente sano di mente”.
dal Resto del Carlino del 29 novembre 1977
Da questo momento si aprono formalmente le ostilità nei confronti di
Carlo e fioccano le azioni un po’ da tutte le parti, in primis da parte del
Sindaco Bulgarelli che avanza una querela che si spegnerà nel nulla dando
ragione all’ecologista che, per altro, si è difeso da solo rinunciando all’avvocato d’ufficio.
All’inizio, tra Bulgarelli e Sabattini, c’è solo una velata inimicizia che si trasformerà in un odio atavico, così radicato da trasmettersi da un sindaco
modenese all’altro. Ma torniamo al nostro eroe. Il contadino ecologo
acquista una canadese per passare dalle azioni lampo all’assedio permanente. Pianta le tende di fronte al Municipio di Modena, in piazzetta delle ova,
per protestare, come lui stesso scrive: “contro una moria di animali intossicati, avvelenamento delle acque, 30.000 operai e 12.000 bambini che urinano piombo” - episodi questi che sono stati determinati – “da alcuni fatti
criminali commessi nel comprensorio delle ceramiche”. Con “fatti criminali” immagino alluda all’esplosione incontrollata di un’industria nascente che
in fatto di “sostenibilità”, emissioni, scarichi e scorie, non va troppo per il
sottile. Sono infatti settanta le fabbriche di ceramica sorte nel giro di un
decennio in un’area di 24 chilometri quadrati compresi tra Sassuolo e
Fiorano. Leggendo le cronache sassolesi ci si rende conto dell’apocalisse di
cui è stato testimone Carlo Sabattini, una catastrofe ambientale a “lento rila25
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scio” che lo stesso Sabattini battezza come una “Seveso pianificata”:
“Abbiamo ricoverato dei neonati asmatici, un fenomeno davvero preoccupante” afferma il dottor Giulio Roccavilla, da vent’anni aiuto nel reparto di
medicina dell’ospedale di Sassuolo. I ricoveri per silicosi e intossicazioni di
varia natura, in questo come negli altri ospedali della zona, sono superiori
del doppio rispetto alla media nazionale. La metà degli operai del comparto ceramico è intossicata. L’ottanta per cento soffre di disturbi legati alle
condizioni di lavoro. Il Pretore di Sassuolo, allarmato dalla salute della
popolazione, ha incaricato l’equipe diretta dal Professor Romano Olivo
dell’Istituto d’igiene di stilare un rapporto le cui conclusioni sono inquietanti: “la presenza di piombo e fluoro supera i limiti di legge. 10.000 bovini
sono gravemente intossicati e non riescono nemmeno a reggersi in piedi
per via delle ossa che si sono deformate”. Un gruppo di zoologi
dell’Università di Camerino guidati dal Professor Guido Giacomo Tedeschi, dopo
attenti esami nella zona di Fiorano ha scoperto che il fluoro concentrato nel
sangue delle mucche vaccine è così rilevante che in alcuni casi produce persino la morte dell’animale. Le galline non fanno più le uova. Il prugno e
l’albicocco hanno cessato di fruttificare. La vite produce un vino che sa di
olio di ricino. L’Osservatorio Fitopatologico dell’Università di Modena, dopo aver
analizzato gli ortaggi, ha valutato persino la possibilità di vietarne la vendita. I contadini, esasperati, hanno denunciato un centinaio di industrie (dati
e citazioni sono state estratte da un articolo scritto da Carlo Valentini sul
settimanale ABC). E sono proprio loro, i contadini assistiti da Carlo,
ammalati e impoveriti, che lo convincono a non restare immobile davanti
all’incedere inarrestabile degli “effetti collaterali” del comparto industriale.
Secondo loro il fenomeno si diffonderà a macchia d’olio finendo per compromettere l’agricoltura dell’intero paese. Per questa ragione diventa indispensabile far crescere l’attenzione intorno ai crimini ambientali così che
ogni pubblico ufficiale, politico o amministratore che sia, volente o nolente, si troverà nelle condizioni migliori per esercitare tutte le funzioni di cui
dispone al fine di tutelare la salute delle persone e dissuadere chi vuole scaricare i “costi indiretti” della produzione industriale sull’intera collettività.
Bisogna poi rilevare che se le generazioni attuali si sono ormai completamente assuefatte ai crimini ambientali (che spesso sono lasciati impuniti),
quelle precedenti, composte da tutti coloro che come Sabattini facevano il
bagno nei fiumi, hanno vissuto l’arrivo dell’inquinamento come una calamità. Di conseguenza, ogni catastrofe ambientale andava fermata con tutti
i mezzi a disposizione. Ognuno si scelse la strada che meglio gli si confaceva, alcuni come mio padre imboccarono quella della divulgazione e della
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ricerca scientifica, altri come mia madre le traduzioni di libri particolarmente significativi, Sabattini scelse la lotta politica, gli esposti alla magistratura e la piazza. Ed è sul ricordo di questa incombente minaccia che non
mi sono mai meravigliato dei modi ostinati, talvolta irruenti dell’Ecologista
di Nonantola, dal momento che eravamo tutti convinti - (mi ci metto
anch’io anche se ero solo un bambino) - che ci fosse in gioco la salvezza
del pianeta. Bisogna infatti ricordare che proprio in quegli anni John Crosby,
sull’”Observer” del 13 settembre 1970, coniò il termine doomwriting che può
essere tradotto con la parola “rovinografia”. Sotto questo nome raccolse
tutte le riviste e i giornali che sostenevano come il progresso e i suoi effetti collaterali avrebbero finito per causare la distruzione del pianeta. Lo
ricorda anche il professor Roberto Vacca in un suo saggio dove si spinge a
sostenere che gli “allarmismi ambientali” hanno preso il posto delle antiche
profezie millenaristiche. Negli anni settanta nasce quindi l’idea che lo sviluppo non è un fenomeno a sé stante, ma deve sempre tener conto delle
ricadute sull’ambiente. Altrimenti, i danni prodotti a lungo termine potrebbero rivelarsi irreparabili, come scrive lo stesso Sabattini nella premessa al
libro bianco: “non dimentichiamo che il reato d’inquinamento è un crimine contro l’umanità e che con la rapina delle risorse naturali si sono lucrati, da parte di poche persone, migliaia di miliardi, determinando per tutta
la società danni irreparabili alla salute, rendendo l’Italia - terra, fin dai tempi
dei Romani, ricca ed ubertosa - una landa inquinata e malsana con danni
irreparabili alla nostra economia, all’agricoltura e al turismo, le nostre più
importanti risorse naturali”.
Come dire che la posta in gioco è alta. Carlo Sabattini, asserragliato
nella sua tenda piantata davanti al Municipio, sembra deciso, tanto deciso
che annuncia che non se ne andrà da lì fino a quando non saranno assicurati alla giustizia i colpevoli o quantomeno sarà avviata un’indagine sugli
episodi accaduti tra Sassuolo e Fiorano e su altri fatti che lo hanno toccato
più da vicino. Si tratta di una protesta a tutto campo. Accanto alla tenda
espone fotografie dei canali inquinati dagli allevamenti, (il primo è gestito
dalla Regione, un altro dalla Curia e un altro ancora da un gruppo di industriali). Distribuisce documenti ciclostilati, raccoglie firme, esibisce i referti delle analisi commissionate ad un laboratorio specializzato, analisi queste
che ha pagato di tasca sua. Ogni documento prova inconfutabilmente le
sue ragioni, mentre le autorità, in tutta risposta, si nascondono dietro alle
procedure, alla burocrazia, o dentro a banchi di nebbiose omissioni per
proteggere le attività produttive locali. Un film che si ripete anche oggi, in
ogni regione, senza grandi differenze, fatta eccezione per quelle del meri27
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dione dove, Campania in testa, è permesso pressoché tutto.
Sabattini resterà attendato per oltre tre mesi, al freddo, alla pioggia,
persino sotto la neve così come viene ritratto in una foto che documenta
la forte nevicata che si abbatté su Modena il 10 febbraio 1978. Pubblicata
con due giorni di ritardo, a neve sciolta, reca una didascalia che recita: “È
una suggestiva inquadratura della centralissima piazza Mazzini, con in
primo piano la tenda del ‘contestatore ecologico’ Carlo Sabattini che, nonostante l’infuriare del tempo, ha resistito nel suo bunker di tela, continuando la
battaglia contro gli inquinatori” e come in un film western conclude: “Solo
contro tutti, in mezzo alla bufera”.
Ma non tutti la vedono alla stessa maniera. L’Unità sulle prime tenta
di ignorarlo, ma poi finisce per bollarlo come un “provocatore” quando non
lo dileggia chiamandolo “ecologo camuffato” o lo calunnia con l’epiteto di
“figuro d’aspetto losco e di indubbia moralità”. La protesta si conclude il 16
marzo, sul finire della manifestazione popolare indetta contro il sequestro
Moro. Un gruppo di squadristi prende d’assalto la tenda e fa a pezzi tutto
quello che capita. Qualcuno tiene stretto l’ecologista mentre un altro lo
prende a schiaffi e pugni. Come ci si può ben immaginare se ne andranno
solo dopo averlo percosso a tal punto da ridurlo all’impotenza. In tutta
risposta, chi di dovere, anziché individuare i colpevoli e assicurarli alla giustizia, coglie l’occasione per levarsi di torno lo scomodo grillo parlante. Il
questore spicca un foglio di via. È il primo perché Carlo ne riceverà un
secondo emesso dal Questore di Reggio Emilia nel febbraio del 1979 per
aver protestato contro “la situazione vergognosa in cui sono ricoverati gli interdetti” e poi un terzo da quello di Bologna. Ma è il primo foglio di via ad apparire particolarmente avvelenato.
Nelle motivazioni, infatti, si legge che bisogna considerare: “…che in
occasione di recenti legittime manifestazioni pubbliche - (N.d.R. la manifestazione contro il rapimento di Aldo Moro) - la presenza delle installazioni abusive è stata strumentalizzata da elementi facinorosi per fomentare
incidenti di ordine pubblico”.
Il ragionamento non fa una piega e sembra lo stesso di coloro che affermano che una donna stuprata “se l’è andata a cercare” soltanto perché indossava una minigonna. Vedi cosa succede se manifesti abusivamente? Le
prendi! Il documento non è solo qualunquista, riesce perfino ad essere
insolente, offensivo al limite della provocazione: “considerato che il
Sabattini dimostra il pervicace intento di persistere nelle violazione della
legge; che egli, pur essendo valido al lavoro, da qualche tempo è dedito
all’ozio; che il suo comportamento costituisce elemento di disordine, di
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intralcio alla circolazione, di menomazione al decoro cittadino e soprattutto fonte di possibili implicazioni di carattere igienico sanitario per la cittadinanza”. Proprio chi denunciava gli scarichi abusivi e il conseguente
abbruttimento delle campagne, è descritto come un fannullone colpevole
di aver “menomato” la città e messo a rischio le condizioni sanitarie dei cittadini. Questo termine, menomato, è quanto mai significativo e sembra il
presagio delle accuse di “menomazione di palazzi storici” che si abbatteranno
su Carlo qualche tempo dopo.
Fortunatamente per la nostra storia, il foglio di via è solo un pezzo di
carta che non sembra spaventarlo più del dovuto, tanto che incurante dell’esilio, ricompare a Modena il giorno dopo per manifestare in Consiglio
Comunale. Viene nuovamente arrestato davanti al Municipio in quanto
contravventore delle prescrizioni e rimesso in libertà ventiquattro ore
dopo dal Pretore di Lodi. Torna a Nonantola ma non ci resta a lungo. Dopo
una settimana è di nuovo sotto il municipio. Scatta il terzo arresto. Lo portano in questura e lo apostrofano dandogli del “contadino ignorante” e dello
“zappaterra senza diritti”, ma poi, ancora una volta, sono costretti a rilasciarlo in attesa del processo. Ma non sono tutti contro di lui se è vero che il
Partito Liberale, pur non condividendo le iniziative, fa notare come un foglio
di via dovrebbe essere emesso per espellere criminali e non per liberarsi di
“disturbatori politici” che non si sono resi colpevoli di nessun reato rilevante.
Il Sindaco glissa sull’enormità del provvedimento, ma ne approfitta per isolare il contestatore, come se non fosse già abbastanza solo. Dichiara come
gli stessi “…esponenti (locali) del Partito Radicale hanno espresso la propria soddisfazione nell’atteggiamento tenuto dal Comune non ravvisando
più alcuna motivazione alla prosecuzione della protesta” (L’Unità, Gennaio
1978).
Poi è la volta del Partito Socialdemocratico che accusa il Sindaco Bulgarelli
di una non ben definita “tolleranza repressiva” e senza saperlo inaugura,
molto probabilmente, l’epoca delle odierne costruzioni retoriche illogiche
che troveranno nell’ossimoro della “guerra umanitaria” la loro massima
espressione. Il clima si arroventa e Bulgarelli è costretto ad emanare i primi
provvedimenti che fanno scattare le denunce nei confronti dei proprietari
di due porcilaie. Sabattini è convinto che prima o poi qualcuno dovrà risolvere definitivamente il problema nella sua interezza, senza eccezioni di
sorta, ma perché ciò accada bisogna battere il ferro finché è caldo. L’azione
di protesta deve allargarsi, rovesciarsi con forza sulle iniziative istituzionali messe in campo dalle amministrazioni. Gli paiono lodevoli, ma ipocrite,
pregne di scuse assunte ad alibi. Come tali devono essere messe alla berli29
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na, sbugiardate, ridotte al Re nudo della fiaba. Probabilmente intravvede
già la strategia che farà diventare la costa romagnola quel divertimentificio asfissiato dagli alberghi, disseminato di parchi giochi, discoteche e piscine
straboccanti di acqua plastificata - dove la salubrità del mare, così come
l’integrità naturalistica del territorio, sono solo dettagli di scarsa importanza. Argomenti buoni per noiosi convegni frequentati da ecologisti hippy
con il cappello di paglia in testa.
Questo approccio movimentista che svillaneggia l’autorità anche
quando questa appare mossa da buone intenzioni si delinea come l’embrione di una contestazione anticonformista, certamente fuori luogo per quel
tempo, che anticipa per certi versi le azioni situazioniste di Luther Blissett e
per altri i toni satirici, e al contempo dissacranti, di Beppe Grillo. Un cronista dell’epoca così descrive , (sempre sul resto del Carlino del 9 maggio
1978) il “Metodo Sabattini”: “…è riuscito con coerenza anche se con
metodo discutibile e subendo personalmente le conseguenze delle sue
strampalate iniziative a ridicolizzare sia i regolamenti comunali sia i comportamenti dell’autorità”. Dalle verità oggettive usate da Sabattini in
maniera antiburocratica – se mi rispondi ufficialmente che non ci sono
liquami nei canali, io li vado a prendere di persona e te li porto in Consiglio
Comunale – i politici di allora non seppero come difendersi ed è interessante notare come i loro epigoni di oggi, a distanza di quasi trent’anni, non
sanno che pesci pigliare quando devono controbattere agli strali del comico genovese. Ma cerchiamo di capire come Sabattini organizzava gli atti di
sabotaggio mediatico.
Nel mese di giugno i quotidiani regionali elogiano la conferenza
messa in piedi dalle città costiere contro l’inquinamento. Il Resto del
Carlino, per mano di Aldo Ferrari, il 15/06/1978 titola in modo cupamente rassegnato:
Il Mediterraneo verso la morte.
“Solo nel 1977 vi sono stati riversati 37 miliardi di metri cubi di
rifiuti urbani, esclusi quelli dell’industria e dell’agricoltura. Ma il
nostro mare ha un ricambio completo d’acqua ogni novant’anni”
L’articolo prosegue:
“Tanti medici si sono riuniti al capezzale del Mediterraneo malato
di cancro. Sono i sindaci, gli assessori, i responsabili sanitari delle
città che si affacciano su questo mare di torti…Dopo il saluto del
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presidente della Regione Emilia Romagna Turci, del Sindaco di
Rimini Zaffagnini, del rappresentante del Governo, Sottosegretario
alla Sanità, Vecchiarelli…”.
Lo stato maggiore della Regione è riunito al gran completo. Ancora
una volta non trattengo l’immaginazione e li vedo materializzarsi davanti ai
miei occhi mentre prendono posto al tavolo dei relatori. Indossano vestiti
eleganti. Sfoggiano colletti inamidati e gemelli di madreperla ai polsini. Se
gli autisti attendono fuori, accanto alle auto blu parcheggiate in strada, i
portaborse se ne stanno seduti in prima fila, accanto ai giornalisti che,
meglio di chiunque altro, racconteranno ai lettori quanto sia sentito il tema
dell’inquinamento da chi li governa. In sala siedono anche i rappresentanti delle associazioni di albergatori, alti gradi dell’esercito, signore impellicciate e signorotti della “Rimini bene”, ma anche intellettuali, scrittori, e
un’infinità di curiosi che devono ancora decidere se sposeranno la causa
ecologista. Poco importa se i termini della legge Merli sono stati prorogati, l’importante è dimostrare che il problema delle feci animali che finiscono nell’Adriatico (come ribadito nell’occhiello) non è di così immediata
risoluzione come qualcun altro vorrebbe far credere. Tutto sembra filare
liscio come l’olio tanto che Ferrari scrive:
“…la relazione generale è venuta a compendiare i tremendi problemi che alimentano i lavori della conferenza di Rimini e se essa
affronta soltanto gli inquinamenti umani non per questo vuole fare
dimenticare le altre fonti d’inquinamento: l’industria, l’agricoltura,
le attività petrolifere. Ciascuna di queste fonti sarebbe di per sé sufficiente a mettere in forse la sopravvivenza del mare. E Monsieur
Goyot ha ricordato i più recenti naufragi di petroliere come quello
della “Amoco Cadiz” che ha inquinato gran parte della costa francese della Bretagna…Sembra che, contro questo tipo di incidenti si
sono alleate, insieme a quelle del Mediterraneo, anche le popolazioni del Baltico, del Celtico, e del Caraibico” – il tono assume l’impronta propagandistica di un cinegiornale luce girato nel ventennio
– “Ma un conto è parlare di morte, altro è morire. Non bastano
volontà e parole, occorrono azione e coscienza… Intanto è necessario che per quanto riguarda le città del Mediterraneo facciano il
possibile per diminuire il tasso d’inquinamento nel mare. Meno
colibacilli, meno vibrioni del colera, meno spore del tetano, meno
bacilli botulinici, meno streptococchi fecali riusciranno a riversare
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nelle acque del mare e meglio sarà…”
Meno di questo, meno di quello. Il Primo cittadino greco sembra
essersi dimenticato delle porcilaie italiane, ma come potrebbe affermare
qualcosa al riguardo? Nessuno, volutamente o meno, si è premurato di
misurare le proporzioni del fenomeno se è vero che i 37 miliardi di metri cubi
non comprendono i reflui delle attività zootecniche. Sarà per questo che
dai tendaggi rossi irrompe un guastatore che incomincia a far volare nella
sala dei balocchi di merda. L’articolo diventa un bollettino di guerra:
“Colibacilli, streptococchi e spore hanno comunque fatto una loro
comparsa, molto concreta e maleodorante, anche nella sala del convegno alla fiera, allorquando un contestatore solitario è entrato
all’improvviso durante l’intervento del Sindaco di Atene: da un sacchetto di plastica che aveva in mano ha sparso tutt’attorno circa
due chili di liquami fecali, provocando naturalmente un fuggi fuggi
generale”.
La festa è rovinata e sembra quasi che anche l’articolo si sia sciupato
con essa, tanto che il cronista trasforma le righe seguenti nella chimera di
una foto segnaletica e di un dito puntato. Wanted Carlo Sabattini, dead or
alive. Chi è il criminale? Eccovi accontentati:
“Il contestatore è Carlo Sabattini, 50 anni, coltivatore diretto di
Mirandola, via Vespucci 17, presidente di un comitato di lotta radicale contro l’inquinamento”.
Così, chi volesse andarlo a cercare per cantargliene quattro adesso sa
dove trovarlo! Ma intanto bisogna ridare un senso alle uova rotte nel paniere. Si spengono le luci e riprende il cinegiornale. Al “viaggiano i sommergibili
rapidi ed invisibili” si sostituiscono i depuratori :
“A parte l’improvviso inquinamento della sala gli studiosi hanno tentato un primo bilancio in chiusura di giornata. Qualcosa, dicono, si sta
già facendo per tentare di salvare il Mediterraneo. Seguendo l’esempio
romagnolo, depuratori di ogni tipo, stanno sorgendo tutto attorno a
quel lago malato che ricambia le sue acque ogni 90 anni”
Il giornalista continua a smarcarsi dalle motivazioni che hanno deter32
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minato il lancio dei sacchetti putridi e sciorina la verità di cui lui è l’unico
depositario e che suona più o meno così: il problema non risiede nell’industria alimentare o petrolifera o quant’altro, ma nell’uomo stesso. Non sono
quelli che allevano i maiali o che raffinano petrolio o spargono pesticidi ad
avvelenare il mondo, ma siete voi lettori i primi colpevoli:
“Non basta ancora” - (allude ai depuratori citati sopra) – “Siamo indietro. Un sistema contro l’inquinamento “da uomo” richiederebbe una
spesa di cinque miliardi di dollari. Probabilmente non ci saranno mai”.
Meglio mettersi il cuore in pace e lasciare inquinare chi inquina perché
l’inquinamento è solo un riflesso condizionato del sistema consumista in
cui ciascuno di noi ha scelto di vivere. ( N.d.R. a Milano devono averlo
preso in parola se è vero che la città si è dotata del primo depuratore solo
nel 1998). Infine conclude con quella che potrebbe essere definita l’ineluttabilità del male:
“ …ma da cosa dovremmo ravvederci? Dal consumismo? Dal
petrolio? Dai metalli pesanti? Dal vivere tranquilli? Dalla fame di
energia? Il salto del gambero, cioè all’indietro, non è più possibile
Qualunque sia il destino bisogna andare avanti su quella strada, per
altri versi così esaltante, che l’uomo si è scelta”.
Lieto fine con coro e alba dorata:
“Il convegno di Rimini si ripropone, nei prossimi giorni, di indicare nuove vie di progresso che abbiano in fondo la luce della speranza”.
Giorno dopo giorno, posseduto da una magnifica ossessione, Carlo
Sabattini, continua imperterrito a denunciare i crimini ambientali e alle
porcilaie si aggiungono alcuni caseifici che versano i residui caseari nei
campi, poi è la volta di un caseggiato al quale è negato l’allacciamento alla
rete fognaria pubblica tanto che il suo cortile, luogo prescelto dai bambini per giocare, è diventato un pozzo nero. Nemmeno le fonderie si salvano, un esposto dopo l’altro, sono segnalate alla Pretura decine e decine di
attività industriali che accollano alla collettività il costo di smaltimento dei
rifiuti. I tubi in eternit spuntano come minacciose canne di cannoni sui
greti dei fiumi, in alcuni casi ne viene individuata la provenienza, in altri
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resta un mistero. Carlo deposita una memoria circostanziata per ciascuno
scarico abusivo, invita sul posto i cittadini, avverte per tempo la stampa,
fotografa il corpo del reato inviando le istantanee ai giornalisti che non erano
presenti ai sit-in, distribuisce cronistorie, sbraita al megafono. Arriva perfino a fermare le auto chiedendo le generalità ai proprietari dei veicoli così
da poterli indicare come i testimoni dell’abuso che si compie a pochi metri
da loro. Ma quando giungono sul posto i Vigili Urbani, il più delle volte,
non sanzionano gli illeciti, ma verbalizzano gli insulti indirizzati alle autorità prese di mira nei cartelli. Per nascondere i reati che gli stessi pubblici
ufficiali avrebbero dovuto segnalare alla Magistratura ci si avvale di raffinate “costruzioni verbali” in grado di tenere al sicuro gli inquinatori.
Sabattini, secondo gli zelanti scriventi, non segnala mai un reato che si
compie nel tal luogo e si manifesta in una determinata maniera che
dovrebbe essere descritta nei minimi particolari, ma molto più banalmente “reclamizza” – delle generiche e vaghe - “problematiche ecologiche e politiche”.
Reclamizza? Reclamizzare significa far pubblicità ad una merce al fine di
venderla. Può uno scarico, o la stessa merda riversata nei torrenti, trovare
un compratore? L’uso improprio che si fa di questo termine inserito in una
frase che diventerà quasi rituale per la sua ostinazione a ripetersi negli atti
sanzionatori dimostra tutta l’inadeguatezza, anche culturale, delle autorità
del tempo. Come se non bastasse, i Vigili Urbani elevano decine e decine
di contravvenzioni per illecita occupazione di suolo pubblico che costeranno all’agricoltore il pignoramento delle attrezzature usate per coltivare
la terra. Da sempre è giuridicamente risaputo che i creditori, finanche si
tratti dello Stato Italiano, non possono appianare un’insolvenza sequestrando le attrezzature che al debitore servono per lavorare, altrimenti non
si comprende come questo potrebbe ripianare i debiti. È un principio cardine che è sempre valso per tutti. Per tutti, ma non per Carlo Sabattini che
si vede portar via gli aratri e i trattori. Paga le sanzioni per farseli restituire. Paga per poter affermare ciò che pensa. Paga per difendere l’ambiente
e le persone.
Le denunce si moltiplicano e in alcuni casi fioccano le prime condanne che decadranno ai gradi successivi, come dire che quello che si credeva
fosse uno “zappaterra ignorante” si rivela essere un esperto conoscitore della
giurisprudenza, dei procedimenti amministrativi e del diritto penale ed è
così ferrato in materia che continua a difendersi da solo senza avvalersi di
alcun avvocato.
Fin dal principio della sua storia politica nessuno dei suoi detrattori
riesce ad impartirgli la lezione che merita e nemmeno lo si riesce a imba34
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vagliare o quantomeno a smentire le sue verità così da esporlo al pubblico
ludibrio. L’insofferenza nei suoi confronti cresce rendendo evidente che il
campo di battaglia si divide tra coloro che vogliono punire chi si accanisce
contro i corsi d’acqua per arricchirsi e chi, invece, deve coprire gli sversamenti in nome di un’economia nascente che farà del modenese una delle
province più ricche di tutto il paese. Più ricche e industrializzate, ma a
quale prezzo? Qualunque sia stato il prezzo pagato è nulla stando al risultato raggiunto. Questo è ancora quello che pensano molti politici che operano nella Pianura Padana il cui inquinamento atmosferico fotografato dai
satelliti, passando dall’acqua all’aria, è pari solo a quello delle zone più
inquinate del terzo e quarto mondo. È l’inarrivabile fine identificato dalla
prosperità economica, un fine che giustifica l’uso di ogni mezzo, lecito o
illecito che sia. Un Moloc a cui si può sacrificare tutto: l’ambiente, il cibo, la
salute, persino i bambini. A difesa degli amministratori del tempo si può
soltanto affermare che si ritrovarono davanti ad un fenomeno incontrollabile e di non facile gestione se si pensa che nel 1977 erano oltre mezzo
milione i maiali stivati nelle porcilaie modenesi che producevano oltre
quattro milioni di metri cubi di liquame il cui carico inquinante corrispondeva alle deiezioni di oltre due milioni di esseri umani. Come dire che in
ciascun borgo della ridente provincia emiliana viveva una comunità di
suini, invisibile perché occultata nei capannoni, il cui numero superava talvolta quello degli stessi cittadini. Numeri imponenti che cresceranno in
maniera esponenziale negli anni a seguire sotto gli occhi impotenti dei
politici che incominciarono così, un po’ alla volta, a mal sopportare chi
segnalava il problema con tanta enfasi. Si sentirono impotenti e temettero
improvvisamente che qualcuno si convincesse della loro inutilità.
Diventarono astiosi incominciando a costruire quel “diffuso dissenso” da
opporre a chi voleva, con le sue anomale iniziative, sfuggire alle ritualità
del mondo politico e alle sedi predestinate ai dibattiti preferendo esternare il proprio pensiero in piazza o ad un angolo di strada senza le mediazione di nessuno e tantomeno dei partiti del tempo. Sabattini era per questo, prima di ogni altra cosa, l’esempio vivente che dimostrava come il singolo possa fare molto di più di quello che riesce a fare il partito politico
organizzato ponendo in campo azioni che non rinnegano necessariamente il sistema, semmai lo usano mettendolo strenuamente alla prova. In
virtù di questo Sabattini può essere considerato un “anarchico integrato” il
cui agire rivoluzionario, pur avendo precorso i tempi, non è stato raccolto
nella sua interezza dagli stessi Verdi e dai partiti della così detta “sinistra
radicale” che hanno preferito puntare su azioni a spot, talk show e presen35
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za parlamentare. Detto questo Sabattini rappresentava una minaccia per le
antiquate organizzazioni politiche di quegli anni, burocratizzate, lente e
gerarchiche. Come tale andava combattuto ad ogni uscita, ma sopratutto
isolato attraverso un’azione pianificata, sinergica e continua.
L’Unità riprende lo stile del primo volantino stampato dal PCI di
Nonantola che abiurava Carlo Sabattini e pubblica un trafiletto che parlando a nome di “tutti” tira le dovute conclusioni:
“…del resto, è comprensibile, anche la pazienza dei Nonantolani
deve avere un limite. L’iniziativa di Sabattini è stata nettamente
condannata in un’assemblea pubblica che si è poi tenuta in serata
presso la sala della cultura e alla quale hanno partecipato duecento
persone. Nel corso dell’assemblea, promossa dal Comune, ha parlato il Sindaco, compagna Alves Monari, la quale ha messo in evidenza che il gesto di Sabattini assume il carattere di una provocazione
contro il Comune e le Istituzioni. Alla condanna si sono associati i
rappresentanti del PSI e della DC. Contro il Sabattini
l’Amministrazione sporgerà denuncia”.
A questo punto si chiedono tutti cosa voglia veramente Sabattini.
Nessuno comprende che la sua è una guerra partigiana combattuta contro
il dilagare della merda di maiale che si concluderà solo con la morte di uno
dei due contendenti. Carlo non chiedeva l’impossibile e non era interessato a riconoscimenti ufficiali. Carlo reclamava solo un depuratore per ciascuno scarico e non gli sembrava, giustamente, di avanzare una richiesta
esorbitante. Nel suo memoriale scrive che se mai i consumatori si fossero
resi conto di quante poche precauzioni siano prese per tutelare la terra e i
raccolti, l’agricoltura stessa ne avrebbe conseguito un danno irrimediabile.
Malgrado si tratti di un’ovvietà disarmante per uno che sui prodotti della
terra ci vive, si continuano a cercare altre spiegazioni fino a quando, una
soltanto, non emerge su tutte le altre. Carlo Sabattini è un nemico del
popolo, un anticomunista, che si è dato il compito di annientare chi crede
nella libertà e nell’uguaglianza. Si tratta di un falsità bella e buona, perché
non vi è miglior comunista di chi esige che ogni terreno, senza distinzione alcuna, sia preservato così da poter essere coltivato. Togliere la terra ai
contadini, come facevano i latifondisti, non è poi molto diverso dall’avvelenarla facendo sì che gli stessi agricoltori non possano più lavorarla. Ed
era questa verità che l’ecologista di Nonantola mostrava caparbiamente e
che tutti temevano. Una verità che palesava la guerra consumata tra il com36
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parto industriale che si voleva liberare a cuor leggero delle sue scorie e il
settore agricolo che si vedeva minacciato. Per questo Carlo Sabattini, a scapito della razionalità, continuò ad essere considerato un nemico dell’equilibrio che i compagni tentavano faticosamente di mantenere in piedi.
Questa è la nomea che inizia a girare di sezione in sezione, di bocca in
bocca. Si diffonde fino a quando non trova nella mente di uno spostato,
che non è mai stato individuato, l’ambiente ideale dove evolversi in
un’azione criminale notturna.
Siamo alla fine di settembre del 1978 e Carlo Sabattini è al volante del
suo camion. Deve raggiungere San Giovanni in Persiceto per consegnare un
carico di ortaggi. Nonostante la fretta guida in maniera prudente, come
sempre, senza sorpassare i 60 chilometri all’ora. All’altezza del distributore
di benzina posizionato all’ingresso di Sant’Agata Bolognese scorge degli operai cantonieri che occupano la carreggiata. Potrebbe evitarli impegnando la
corsia opposta dove, in quel momento, non transita nessuno. Avveduto
com’è in fatto di guida preferisce fermarsi e sarà proprio questa decisone
che gli salverà la vita. Frena. Frena ancora! Colpisce con vigore il pedale! Il
veicolo prosegue come un bisonte impazzito che scalpita nella prateria!
Incolla la mano al claxon per spaventare gli operai che si buttano di lato
evitando una strage e in una frazione di tempo infinitesimale deve decidere il “da farsi”. Sterza! E continua a girare il volante con forza per entrare
nello spiazzo del distributore. Ingrana la marcia più bassa, leva il pedale
dalla frizione senza toccare l’acceleratore. L’abitacolo sussulta mentre il
motore emette il caratteristico boato scaturito dal numero di giri che crolla al regime più basso. Il camion rallenta, si ferma. È fermo. Fuori dal parabrezza vede il benzinaio con accanto gli operai che lo fissano con l’aria di
chi vuole sapere cos’è accaduto. Carlo è immobile con ancora il cuore che
batte all’impazzata e le mani strette al cerchione del volante. Sta riordinando le idee che sono andate in pezzi per la paura. Calma! – si rassicura - È
tutto finito! Non si è fatto male nessuno. È andata bene. Si gode quell’istante che sembra dilatarsi all’infinito, poi si riprende e decide di scendere per capire cos’è successo. Dopo una frettolosa ispezione scopre che
qualcuno, nella notte, ha svitato i tappi dei serbatoi che contengono l’olio
del circuito frenante. È un atto di sabotaggio in piena regola, premeditato
e soprattutto ingegnoso. Ingegnoso perché quando il veicolo è stato messo
in moto, quella stessa mattina, le spie della pressione non segnalavano nulla
di strano. Infatti sono state le vibrazioni prodotte dal mezzo in marcia che,
a lungo andare, goccia dopo goccia, sussulto dopo sussulto, hanno fatto
uscire il liquido dai serbatoi portando la pressione a zero. Su questo episo37
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dio sporge una denuncia alla Procura che finisce archiviata dopo 90 giorni.
Da questo momento la sua azione che fino a quel momento si era orientata a colpire prevalentemente il mondo politico (e le istituzioni rappresentative che ne derivano) si sposta lentamente, ma inesorabilmente, nelle aule
dei tribunali. L’ecologista pare convincersi improvvisamente che l’astenia
dei rappresentanti politici, la cecità dei pubblici ufficiali, il silenzio dei
media, trovano la loro prima ragion d’essere nell’azione, talvolta discrezionale, lenta e affaticata, della Magistratura. Con ritrovato vigore si apposta
davanti ai Palazzi di Giustizia con cartelli affissi a un cavalletto da pittore.
Per la prima volta mette da parte i secchi di liquame perché, in fondo in
fondo, crede nella Magistratura come istituzione, non a caso la definisce
nei suoi appunti come “l’unico organo in grado di porre fine alle malversazioni che
denuncio da anni” sebbene, per contro, sia molto risoluto e disposto a tutto
pur di svergognare tutti quei magistrati, che proteggono, come lui stesso
scrive: “gli industriali peggiori che distruggono l’ambiente, avvelenando le
falde di superficie, rapinando le ghiaie dei fiumi e compiendo infinite altre
forme di distruzione della natura” (libro bianco pag.2). Con la precisione
dell’avvocato e l’affabulazione di un maestro cantastorie illustra ai passanti tutte le denunce che ha compilato, inviato a chi di dovere e che sono finite in un “non luogo a procedere”. Sono svariate decine, tra segnalazioni ed
esposti circostanziati - (di cui ben 20 inviati negli ultimi cinque mesi, come
scrive il magistrato che chiede al pretore di accertare le responsabilità penali di Sabattini) - le azioni intraprese dall’ecologista. La gente si ferma, lo
ascolta mentre spiega ancora una volta, con una tenacia instancabile, come
si aggirano le leggi o ci si attacca ai cavilli. Ridicolizza le decisioni, le smonta e le rimonta nella maniera che avrebbe dimostrato la fondatezza delle
sue accuse. Mostra come ad esposti identici siano state date risposte divergenti a seconda della procura interessata. Dai una volta, dai un’altra, questa volta è la Magistratura stessa a non gradire la protesta. Ad un mese esatto dal sabotaggio del camion, davanti al palazzo di giustizia di Modena,
Sabattini viene arrestato dai Carabinieri e incarcerato.
Nel libro bianco, giunti a questo punto della sua vita, si assiste ad un
esplodere di documenti con i quali si difende, incassa provvedimenti, contrattacca. Alcuni atti decadono, ma sono subito sostituiti da altri. Scrive,
confuta, risponde e combatte strenuamente malgrado la salute incominci a
cedere. Agli scioperi della fame seguono i ricoveri in infermeria, ma qualsiasi evento gli accada non dimentica mai i suoi obiettivi. Durante la detenzione nel carcere di Sant’Eufemia (12/1979) dimostra di possedere uno spirito ostinato che a nulla si piega. Mentre gli altri carcerati costruiscono
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velieri nel cavo delle bottiglie, Sabattini prende in esame ciò che lo circonda. Antesignano dei moderni Rizzo, Stella e Gabanelli guarda alla cosa pubblica come ad un committente raggirato in maniera sistematica dai suoi
fornitori. All’occhio attento di Carlo non sfugge nulla. Si accorge che tutte
le brande dell’istituto penitenziario sono sfondate. I carcerati per porvi
rimedio sono costretti a commettere il reato di danneggiamento di beni
appartenenti allo stato. Infatti le reti sono riparate artigianalmente usando
un certo numero di strisce in tessuto strappate dalle lenzuola che così
devono essere rinnovate spesso e con un notevole esborso economico per
l’Ente. Non ci sono tracce di ruggine e questo significa che i letti sono
nuovi o quantomeno di fattura recente. I conti non gli tornano. Si procura
il contratto della ditta che ha fornito le brande all’Amministrazione
Penitenziaria. Chiede e ottiene il verbale di collaudo e tutti gli allegati al
contratto di fornitura. Leggendoli scopre che per costruire le reti non sono
stati usati cavi d’acciaio, come richiesto dal capitolato d’appalto, ma comunissimo fil di ferro, tanto che le molle assoggettate al peso del corpo si
sformano senza tornare nella posizione iniziale. Inoltre tutte le brande non
possiedono i piedini necessari ad ancorarle al pavimento e questo lo induce a pensare che al collaudo siano stati presentati manufatti che non corrispondono a quelli che poi saranno consegnati alla prigione. Spiega tutto
nell’esposto che inoltra, per l’ennesima volta, a quella stessa magistratura
che lo ha rinchiuso. Dimostra, così facendo, coi fatti e non a parole, di
nutrire per lei un’incrollabile e mai venuta meno fiducia. Bisognerebbe
domandarsi perché avrebbe dovuto continuare a segnalare soprusi? Se non
credi più nell’istituzione finisci per ignorarla non occupandoti più di lei.
Sbaglio? Viene veramente da chiedersi cosa sarebbe successo al nostro
paese se tutti i politici, i funzionari dello stato, gli alti dirigenti come i più
umili impiegati, si fossero dimostrati così zelanti e attenti e tenaci come lo
fu in vita Carlo Sabattini, coltivatore diretto, ecologista ed eroe dimenticato della storia italiana. Molto probabilmente, se tutti si fossero comportati
come lui, non esisterebbe più il debito pubblico. Ma torniamo a quei giorni. La Magistratura non tratta con chi la prende di mira e risponde senza
andare troppo per il sottile. Al danno si aggiunge la beffa. Il Pubblico
Ministero archivia il reato di inadempimento di pubbliche forniture
(art.355 CP) a carico dei fabbricanti di brandine e chiede al Giudice istruttore di procedere contro Sabattini per il reato di danneggiamento di materiale dello Stato come dimostrato dalla branda rattoppata sulla quale Carlo
si era ritrovato a dover dormire e da lui stesso fotografata perché fosse prodotta come allegato all’esposto. Il Pretore di Lodi non si mette contro ai
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colleghi, ma usando l’articolo 63 CP e facendo notare come gli altri procedimenti penali pendenti a carico di Sabattini siano di entità più rilevante si
astiene dal procedere nei confronti dell’imputato che non dovrà rispondere del danneggiamento di bene pubblico. Da questo momento è tutto un
susseguirsi di provvedimenti a suo carico dai quali però riesce sempre ad
uscirne indenne. L’obbiettivo è chiaro ai suoi nemici, ma bisogna capire
come metterlo in atto dal momento che Sabattini riesce sempre a farla
franca dimostrando che le sue non sono diffamazioni, ma comprovate
verità e sebbene esprima anche delle opinioni o dei giudizi politici, questi
non sono mai equiparabili alla calunnia. La strategia nei suoi confronti
cambia in modo repentino e si fa più aggressiva. Bisogna colpire per primi
e colpire duro!
Nella mattina del 28 aprile del 1979 due Vigili Urbani si presentano a
casa sua proprio quando non c’è, così da non dover tener testa alle sue affabulazioni giuridiche. “Chissà cosa si può inventare mai per inficiare il
nostro procedimento” pensano i due pubblici ufficiali.
Di fatto non si tratta di un sopralluogo, ma di un agguato preparato a
tavolino, un’azione lampo giocata di sorpresa. I due ufficiali sono al corrente dell’assenza perché sanno dove si trova in quel momento il nemico a
cui danno la caccia. Devono averlo seguito se è vero che nel rapporto di
servizio, un po’ ingenuamente, scrivono: “sul posto non era presente il Sig.
Sabattini che in quel momento si trovava in via Veneto, dove, all’incrocio
con via dell’Abbazia, stava facendo una dimostrazione con cartelli contro
l’olio di semi e contro il Sig. Giacobazzi. È stato visto sul posto oltre che
dal sottoscritto e dal fotografo Zoboli anche dai Sig. Cavari Gianni e
Cerchiari Ivano”.
Non si comprende l’utilità legale di questa precisazione così zelante: si
vuole forse rimarcare, scampando eventuali omonimie, il fatto che la
denuncia di abuso edilizio che eleveranno a breve è indirizzata proprio a
quel “contestatore ecologico” che rompe sempre le scatole con la storia
delle acque nere? Il documento, non a caso, si conclude in questa maniera:
“nell’allontanarci mi fermavo a guardare i fossi stradali nei pressi delle porcilaie Cigarini e dell’abitazione Sabattini e, visto che non c’era niente da
rilevare, tornavo in sede”.
L’odio nei confronti dell’ecologista è talmente radicato che il pubblico
ufficiale, incaricato di redigere il rapporto, ne approfitta per smentire l’oggetto del vero contendere: i fossi contaminati dagli scarichi (che non hanno
nulla a che vedere con l’abuso edilizio denunciato nel verbale). Bastano e
avanzano queste due ultime righe per dimostrare quale fosse la vera natu40
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ra cospiratoria del procedimento avanzato contro la casa in costruzione
dell’agricoltore. I due poliziotti municipali chiedono ragione alla moglie,
alla signora Lina Ratti, dei lavori in corso. Sostengono che la licenza edilizia non è stata rinnovata e per questo aprono un procedimento che tra
insabbiamenti e lentezze burocratiche si protrarrà per il tempo sufficiente
a cagionare un danno economico di una certa entità all’agricoltore. Tanto
è vero che Sabattini scriverà in uno dei tanti esposti:
“… da oltre due anni le Autorità Comunali di Nonantola negano al
sottoscritto Carlo Sabattini, il proseguimento delle opere di costruzione della propria abitazione rurale nonostante mi sia stata concessa regolare licenza edilizia”.
La signora Lina capisce al volo che si tratta di un’azione ostile e si appresta ad entrare in casa, ma i due vigili la trattengono perché devono identificarla e subito dopo notificarle il verbale. Lei si rifiuta di fornire le generalità e per questo sporgono un’ulteriore denuncia in base all’Art. 655 del
Codice Penale. Come si possa denunciare una persona che non viene formalmente riconosciuta resta uno dei grandi misteri polizieschi di quel
tempo. C’è da notare che i due vigili urbani non sono nuovi ad iniziative
“campate per aria” come questa e anzi sono molto ricercati per le loro qualità di “sceriffi borderline”. Tanto è vero che anni dopo, quando si scoprirà che
i due sbirri s’intascavano i soldi delle contravvenzioni, lo stesso Comune di
Nonantola prenderà provvedimenti all’acqua di rose, probabilmente per
ricambiare i servizi ricevuti, tanto che il Capogruppo del PSI Gino
Malaguti - rispondendo al giornalista del Resto del Carlino che gli domanda che cosa non è stato ancora chiarito in quella brutta faccenda - risponde: “Se non tutto molto. Infatti la vicenda si snoda con una serie di colpi
di scena sorprendenti. In sintesi i fatti più rilevanti. Dopo ripetute pressioni di tre dipendenti comunali il Sindaco decide di avviare un’inchiesta
amministrativa nei confronti dei due vigili urbani che verranno poi raggiunti da comunicazioni giudiziarie, quindi il comune è visitato da ladri che
dopo aver forzato alcune porte entrano proprio nei locali dell’inchiesta e
nonostante un armadio sia stato forzato, sembra che l’Amministrazione
non denunci alcuna scomparsa, quindi si viene a sapere che due Beretta
risultano mancanti” (Resto del Carlino del 21/3/1986)
Si volatilizzano due pistole. Perché? Come direbbe Carlo Lucarelli:
quando una pistola sparisce si cancella una prova. Già, perché ogni rivoltella che spara imprime una firma balistica su ogni proiettile esploso.
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Contro cosa hanno aperto il fuoco le due Berette finite nel nulla? A quale
azione hanno partecipato? Le risposte meriterebbero un ulteriore approfondimento che ci allontanerebbe troppo dalla nostra storia.
Gino Malaguti continua a riassumere l’accaduto: “le cose non sono
chiare ed i silenzi sono molti. In primo luogo il Sindaco avvia con ritardo
un’indagine amministrativa su di un problema molto chiacchierato e dopo
molte sollecitazioni, tale indagine sembra svolta solo dall’economo e cioè
dal funzionario che già da prima avrebbe dovuto controllare queste entrate, si noti che non è stata richiesta la collaborazione dei tre dipendenti che
avevano segnalato le mancanze di cui avevano una conoscenza diretta e ciò
potrebbe aver portato ad un’indagine superficiale, infine i vigili inquisiti
sono rimasti per tutti questi mesi a contatto con quelle che potrebbero
essere le prove”.
Così, se da una parte Sabattini veniva fatto oggetto di provvedimenti immotivati, denunciato e minacciato, dall’altra, due signori - questa
volta sì definibili “loschi figuri” – che erano accusati di “falso in atto pubblico,
distruzione di documenti e peculato” (Gazzetta di Modena del 8 febbraio del
1986) non vengono licenziati, ma solo trasferiti. Non si diffondono nemmeno le loro generalità alla stampa, ma passano alla storia semplicemente
come i “due vigili”. Carlo Sabattini riuscirà a dimostrare la fondatezza delle
sue autorizzazioni edilizie potendo così terminare la costruzione dell’abitazione dove vivono ancora oggi i suoi familiari. Ma non appena gli fu data
ragione fu subito condannato dal tribunale di Mantova a un anno e otto
mesi per calunnia e qualche giorno dopo accusato di essere, proprio lui, un
inquinatore che si è reso colpevole di aver versato delle feci zootecniche nel
canale. Oggi, con l’avvento dell’agricoltura organica, sarebbe stato definito
un agricoltore biologico, mentre a quei tempi si guadagnò la nomea di
“ecologista preso con le mani nel sacco”. E dire che proprio sul numero 7
del mensile, house organ, del Comune di Modena, stampato neanche quattro
anni prima del fatto, compariva un articolo dove si affermava testualmente che:
“L’Amministrazione comunale e il comprensorio di Modena, in accordo
con la consulta agraria, si sono posti il problema di una proficua utilizzazione dei liquami delle porcilaie per la concimazione di terreni agricoli
come rimedio all’azione inquinante provocata dagli stessi alle acque di
superficie. Un vasto programma di ricerche sulla validità della fertirrigazione e sul miglioramento delle tecniche di spandimento è stato condotto in
questi ultimi mesi in collaborazione con istituiti universitari e in accordo
con le categorie interessate”.
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Quindi per l’istituzione comunale modenese e tutto il comprensorio, e forse per lo stesso Sabattini (che era però contrario allo stoccaggio
industriale dei liquami in estese lagune di difficile gestione ecologica) lo
spargimento di letame nei campi rappresentava una pratica ammissibile se
non persino ecologica, una sorta di concimazione organica che allevia i
fiumi dai nitrati, tanto più che Carlo aveva usato i liquami per fertilizzare
un pioppeto. Se io fossi stato nei suoi panni avrei deciso, stante il mio
atteggiamento frontalmente avverso alle porcilaie, di non avere mai niente
a che fare coi liquami anche quando questi erano trattati in maniera corretta, ma allora la buona fede era ancora molto diffusa e gli scandali progettati scientificamente a tavolino molto rari. Rari, ma non assenti. Per cui non
sarà difficile prenderlo in castagna dicendo che quando ha sparso il concime in quel fondo dedicato all’arboricoltura lo ha in verità riversato nel
fosso vicino e poco importa se quel rivo era inquinato da tempo come
denunciato negli esposti dello stesso Sabattini con tanto di nomi e cognomi delle aziende responsabili. Un reato da lui denunciato, ancora una volta,
gli viene ritorto contro!
C’è da notare come l’azione repressiva, con questa vicenda, si sposta dal piano burocratico - amministrativo a quello delle comunicazioni di
massa, infatti tutte le tv private danno la notizia con grande risalto, un’emittente locale manda in onda una striscia a fondo schermo che si ripete a loop
per tutta la sera, i Dj delle radio ci scherzano sopra saldando la condanna
per calunnia all’incoerenza. Si adotta quella strategia diffamatoria che definisco con il motto del ’“predica bene, ma razzola male” di cui avrò modo di
parlare in altre occasioni.
Nemmeno il repentino mutare della strategia adottata nei confronti
del battagliero ecologista riuscirà a fermarlo. Sono ormai molti gli anni trascorsi da Carlo nelle aule dei tribunali. Si sente provato, ma senza rendersene conto è diventato invincibile. Ha imparato ad esprimersi e se solo apre
la bocca non butta fuori frasi a casaccio, ma detta la sua difesa soppesando attentamente le parole, pondera ciascuna pausa, mentre denuncia ogni
nefandezza in maniera circostanziata. Cita le leggi a memoria, produce testi
e richiama sentenze. Dispone sempre di quanto gli serve perché si è abituato da tempo ad annotare ogni dettaglio, anche il più insignificante, che poi
fotocopia e archivia. Se parla c’è quindi il rischio di dover prendere provvedimenti contro questo o quell’altro inquinatore. D’altronde se va tutto a
verbale si è costretti d’ufficio a procedere nei confronti degli autori di reato.
Meglio, molto meglio, non farlo parlare anche a costo di doverlo assolve43
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re. La Magistratura, quella che si fonda sull’oggettività della legge, bendata
e onesta, gli riconosce l’onore della ragione e si genuflette innanzi ad un
talento disinteressato, fulgido esempio di ciò che lei stessa rappresenta nel
dare la caccia ai malfattori e punire le ingiustizie.
“Il “Contestatore Ecologico” Sabattini è stato assolto purchè
non parlasse.
Il secondo Processo per Calunnia contro Carlo Sabattini, ormai
noto come contestatore ecologico, è durato ieri solo pochi minuti.
Il tempo per il collegio penale e la Pubblica accusa di aprire e chiudere l’udienza a tempo di record. Il Pm Dott. Giuseppe Tibis ha chiesto di assolvere subito Sabattini, senza neppure ascoltare il presunto calunniato, che era l’ex sindaco Germano Bulgarelli e così il collegio ha deciso. Sabattini non ha potuto nemmeno parlare. …A suo
dire” - (Bulgarelli) – “si era reso responsabile di omissione di atti
d’ufficio a proposito di un canale di irrigazione “l’Acquetta”, che,
all’ispezione comunale aveva presentato 5 chilometri di liquami
provenienti da un allevamento. Dopo la denuncia di Sabattini il
canale venne ripulito”
dalla Nuova Gazzetta di Modena di venerdì 22 gennaio 1982.
Chiunque, al posto di Carlo, avrebbe lasciato perdere. Nessuno
avrebbe retto ai processi e a tutto quel rancore che cresceva ogni giorno di
più. Ma lui no, non poteva mollare, ne andava della sua campagna. La rivoleva com’era una volta: ridente e incontaminata. Identica a come suo padre
gliel’aveva lasciata. E rivoleva anche le rane e l’acqua pulita. Avrebbe mai
abbandonato le caravelle Cristoforo Colombo? I fratelli Wright il loro biplano?
Leonida i suoi trecento spartani alle Termopili?
Come loro, Sabattini, continuò a combattere imperterrito, con coraggio e abnegazione. I giornali dell’epoca lo testimoniano in maniera fotografica. Il Giornale di Modena: Carlo Sabattini malmenato al dibattito sulla
Corni (ndr una fonderia). “Lo interrompono mentre interviene, lo afferrano, lo trascinano a forza fuori dalla riunione, lo buttano a terra”. Si è imbavagliato davanti al tribunale per contestare l’inquinamento dei cibi. La
Gazzetta del 18 giugno 1981: “Sabattini a processo otto volte”. Il Giornale
di Modena: “Nuove denunce per l’ecologo Carlo Sabattini”. Il Resto del
Carlino: “Sabattini: mi difendo da solo! Ma il tribunale non acconsente”.
Dal libro bianco senza data: “Sabattini contesta la competenza del Pretore
Caruso”. (Ibidem 7 maggio 1982) “La Magistratura e la Curia contro
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Sabattini. Le accuse vanno dalla diffamazione al vilipendio”.
“La guerra di Carlo. Concitata udienza davanti al pretore che prima lo
allontana e poi lo condanna”. “Carlo il contestatore si fa portare di peso
davanti al magistrato”. Resto del Carlino del 26 luglio 1982: “Oltraggio alla
magistratura: di nuovo manette a Sabattini. Aveva esposto alcuni cartelli in
cui si accennava a presunte coperture”. “Di nuovo in manette Sabattini”
“Sabattini prosciolto”.
Condannato! Prosciolto! Condannato! Prosciolto! I Magistrati, che
non avevano nessuna voglia di combattere una guerra a loro dire inutile,
hanno ormai i nervi a fior di pelle e lo si capisce leggendo un articolo
redatto da Nicola Adamo su di un giornale di cui il libro bianco non riporta il nome.
Si sviluppa secondo le nostre previsioni il canovaccio dell’inquinamento in Secchia: i responsabili della strage sono fuori,
l’ecologo contestatore dentro.
Carlo Sabattini arrestato per oltraggio alla magistratura
“Un’altra vittima indiretta della strage di pesci in Secchia: il contestatore ecologico Carlo Sabattini è stato arrestato come puntualmente (ci si perdoni il narcisismo della citazione anche se non è il
caso di esserne fieri) avevamo previsto. L’arresto di Sabattini era
per noi una certezza tant’è che l’avevamo annunciato come prossimo nella risposta ad una lettera che ci era giunta in redazione e successivamente ribadito quando affermavamo che sarebbe stato giusto mettere in galera gli inquinatori, ma che era più “facile” metterci Sabattini, il “matto”, che protesta contro l’inquinamento. E così
Sabattini è finito dentro e gli inquinatori rimangono fuori, liberi di
appestarci quando meglio lo credono…”
Chi la dura la vince e la perseveranza di Carlo incomincia a produrre gli
effetti sperati. Qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento dei giornalisti.
Sembra che s’incominci a superare lo stereotipo di “ecologista matto e rompiscatole” che alcuni scribacchini gli hanno cucito addosso. D’altronde la placida Emilia non era abituata ai contestatori di mezz’età, semmai ai cortei
studenteschi e alla maggior parte dei sit – in organizzati dalle stesse granitiche forze politiche di sempre. Ma finalmente, piacciano o meno le “carnevalate” di Sabattini, è arrivato il momento di prendere in esame solo i fatti.
Il fiume è stato avvelenato? Se i pesci sono morti dov’è il colpevole? Chi
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risponde? Questo cambio di rotta incomincia a preoccupare chi è preposto ufficialmente a rispondere.
Nicola Adamo ricostruisce i fatti che hanno portato all’arresto
mostrando come le azioni dei magistrati siano tempestive e dirette, neppure più mediate da un pubblico ufficiale, ma attuate personalmente. Se è
vero che Adamo scrive:
“Sabato sera Sabattini, con megafono e cartelli, protestava contro
gli inquinatori che impunemente avevano provocato la strage di
pesci e che ancora una volta l’avevano fatta franca. Un solerte passante ha ravvisato nelle affermazioni del contestatore ecologico gli
estremi di oltraggio alla magistratura e quant’altri. Una telefonata
probabilmente anonima (l’anonimato purtroppo ormai fa parte di
una malintesa modenesità degli ultimi anni) è giunta in Pretura. Da
qui è partito Manfredi Luongo per un accertamento. Di fronte al
Pretore, Sabattini, stando alla versione ufficiale, avrebbe ribadito le
accuse di complicità della magistratura e dello stesso Manfredi
Luongo con gli inquinatori. L’arresto è stato immediato. Sabattini è
stato trasportato al Sant’Eufemia, ma la sua destinazione è il carcere di Firenze, dove sarà processato per una prassi che stabilisce che
non può essere il magistrato della città in cui è avvenuto il presunto oltraggio alla Magistratura a giudicare l’imputato”.
Il giornalista si dissocia dal “contestatore ecologico” quando Carlo accusa
la magistratura nel suo insieme e non solamente quei magistrati che hanno
insabbiato gli esposti. Ma c’è da dire al riguardo che “forzando i termini”,
esagerando nei giudizi, Sabattini cercava di attirare su di sé l’attenzione,
come dire che tentava disperatamente di alzare l’audience, non tanto per
averne un beneficio personale quanto per riuscire a indicare con più forza
il tema che poneva o i reati che segnalava. Lui per primo è consapevole di
aver agito sopra le righe tanto da diventare lui stesso un ostacolo alla comprensione della verità. Ogni buon avvocato, e lui lo era certamente malgrado non avesse mai conseguito la laurea, cerca di rendere lineare la ragione
che difende, così come Michelangelo che scolpisce il Mosè “deve togliere” dal
blocco di marmo “tutto ciò che non serve”. Anche Sabattini avrebbe voluto
adottare questo “modus operandi” così da scarnificare la verità per renderla
in tutta la sua appariscente semplicità, ma vi riuscì raramente e si convinse
di un fatto solo: se gli avversari non ti permettono di presentare le cose in
modo semplice perché mentono, nascondono, falsificano, in una parola
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“aggiungono”, ecco che allora è necessario opporre confusione alla confusione. Esagerare. Perseverare. Continuare fino a far collassare il quadro per
poi ricomporlo a posteriori, quando si sono calmate le acque. Non è un
caso se tutte le volte, o quasi, in cui si vede affibbiare una condanna in
primo grado è poi assolto in appello. Se con il primo magistrato è burbero e maleducato con il secondo è calmo, circostanziato, metodico, quasi
amabile. Viene quindi da interrogarsi su questo atteggiamento altalenante
e all’apparenza contraddittorio. Ma è più semplice da spiegarsi di quanto
si possa credere: Sabattini non combatte la magistratura nella sua totalità,
semmai la mette duramente alla prova come l’archetipo di un hacker che
infrange i sistemi perché vuole vederli diventare più sicuri e nel compiere
quest’opera spera di incontrare proprio quei magistrati che possono seguirlo nella sua impresa disperata fino a condannare i veri colpevoli. Tanto è
vero che lui stesso scrive, “a chi mi accusa di voler distruggere la giustizia
rispondo invece che voglio solo giustizia, una giustizia fondata sulla legge
che, come è scritto nelle aule dei tribunali, è uguale per tutti…perché non
può esserci emancipazione e libertà, se non c’è giustizia”. (libro bianco pag.
7/8. Leggermente riveduta nella forma).
La sua è una ricerca non una guerra, una ricerca rumorosa, ma in
buona fede. Per questo nei suoi scritti, raccolti nei tre volumi che compongono il libro bianco più volte citato, ricorrono spesso gli inviti a leggere “le
carte” senza dare nessun peso a ciò che raccontano gli articoli di giornale
che si vede costretto ad allegare sebbene siano infarciti di inesattezze, ma
sono pur sempre reperti storici da lasciare ai posteri. Però ribadisce: “leggete tutti gli atti processuali, leggete solo quelli!”. Infatti il libro bianco si compone
di tre tomi di un chilo e mezzo ciascuno che ad una prima occhiata, dopo
averli aperti, ricordano una fanzine underground con le tipiche sgranature
delle riproduzioni elettrostatiche, contrasti eccessivi e perdita pressoché
totale dei mezzi toni. Ma scorrendo le pagine con attenzione si scopre che
si tratta di una meticolosa raccolta di documenti processuali accompagnati dalle didascalie, stringhe battute a macchina, ritagliate, e incollate sopra
alle fotocopie o da una fotocopia all’altra così da collegarle in una sorta di
primitivo ipertesto. La costruzione editoriale è di una semplicità solo apparente per via dei testi e delle fotografie che sembrerebbero rimontate sommariamente. Invece è proprio nella ricomposizione che s’intravvede la
mano del collagista esperto, ovverosia di un artista che usa una tecnica
espressiva, il collage, diretta e coerente, che molto meglio della tempera si è
sempre prestata all’illustrazione delle tensioni polemiche della contemporaneità e lo sapevano bene alcuni grandi maestri del calibro di Picasso o
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George Braque che l’hanno sfruttata fino in fondo. Nel memoriale di
Sabattini non ci sono diffrazioni di significati o impertinenze dadaiste,
semmai una spasmodica ricerca della verità oggettiva che viene prima
sezionata e subito dopo ricomposta sul foglio bianco quasi fosse un tavolo anatomico. Il fine è quello di mostrare il lato invisibile che nella normale visione prospettica resta nascosto dal fronte degli oggetti o dei luoghi.
Questo lato invisibile, l’altra metà oscura, è per Sabattini il crimine ambientale che amputato dalle connivenze politiche deve essere esposto al centro
della sala e ammirato per quello che è: la disfatta della ragione. Da questo
pensiero scaturiscono tutte le centinaia di foto che con una precisione
voyeuristica dettagliano con rigore ogni passo del libro. Quando compone,
ritaglia, incolla e rifotocopia, accosta ogni frammento documentario per
economizzare lo spazio e cancellare i vuoti. Non si tratta di “horror vacui”
semmai della paura che l’imponente quantità dei materiali raccolti possa
diventare un disincentivo alla lettura di questa corposa “docugrafia” storicolegale. Anche Giorgio Giusti sul Giornale di Modena lo mise in guardia da
questa eventualità quando scrisse:
“Il fatto è che il più delle volte, pur volendolo aiutare nelle sue battaglie contro l’inquinamento, o contro le ingiustizie di cui si diceva
vittima, non riuscivamo ad afferrare il bandolo della matassa che sottoponeva alla nostra attenzione e che lui pretendeva noi dipanassimo,
pena la qualifica di pennivendoli: decine di chili, che con il tempo
diventarono quintali, di fotocopie, atti giudiziari e amministrativi, libri
neri e bianchi, denunce, querele, controquerele, processi che s’intrecciavano e s’inseguivano nei vari tribunali, in una sarabanda di nomi e
di dati da far impazzire anche il più meticoloso dei certosini”(
12/4/1985).
Come Enzo Tortora che spese più di venti milioni per pagare le fotocopie
degli atti processuali e combattè lungamente per organizzarli in maniera chiara e comprensibile, anche Carlo giunse alla conclusione che un memoriale
voluminoso e complesso dev’essere sempre strutturato con una precisione
certosina. Per evitare ogni futura falsificazione utilizzò un numero spropositato di stringhe didascaliche e con esse cucì ciascun pezzo del libro bianco, i
documenti alle fotografie, gli articoli di giornale agli esposti. Le didascalie
sono così diventate i punti di una sutura. Punti che non possono essere rimossi se non a rischio di compromettere l’integrità del documento, se non a costo
di perdere i nessi indispensabili alla ricostruzione dei fatti.
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Ma entriamo nel dettaglio. Ogni avvenimento documentato nel libro si
apre con un testo, mai più lungo di un pagina, che descrive un fatto dove al
posto di “C’era una volta…” si trova l’elemento dinamico dal quale si genera
la storia:
“Il 4 aprile del 1980 nel telegiornale del secondo canale viene trasmessa
l’intervista ad un coltivatore diretto abitante vicino a una fabbrica di ceramiche che dichiara di non poter più fare il vino con l’uva del suo fondo perché
avvelenata dal piombo” - un fatto. “L’agricoltore afferma di aver risolto fortunatamente il problema vendendo l’uva alla cooperativa che gli restituisce il
vino imbottigliato e ripulito dal piombo” - un altro fatto. “Il giorno dopo mi
reco in quella zona e diversi coltivatori mi raccontano di fare la stessa cosa” terzo fatto. “Vado alla cantina indicata dai produttori d’uva e dico che vorrei
acquistare un certo quantitativo di bottiglie di vino, ma sono preoccupato per
l’eventuale presenza di piombo” - quarto fatto. “Il venditore mi risponde di
stare tranquillo perché il vino viene miscelato per abbassare la quantità di Pb
e quindi inviato ad un laboratorio di Verona che certifica il suo rientro nei
limiti di legge” - quinto fatto. Si tratta di sofisticazione alimentare, lui non lo
dice, ma io lo scrivo lo stesso. Lui continua imperterrito:
“Redigo un esposto dove racconto tutto e spiego che il vino viene distillato e miscelato. Dopo di che lo inoltro alla magistratura.” – sesto fatto. “A
distanza di tre anni non ricevo nessuna risposta” - ultimo fatto, il più significativo, per il momento.
Fortuna vuole che la verità sia come la merda: prima o poi viene
sempre a galla. A piè di pagina, riferito all’episodio appena esposto, è redatto un indice degli allegati. L’ultima riga, che dice: “si veda prima di passare all’esposto successivo l’inchiesta del mensile AL dell’ottobre 1983” è
sottolineata vigorosamente! Sabattini vuole che la si vada a vedere. Ci vado.
È un collage di articoli sovrapposti malamente fra loro. Sono colpito dalla
parola in alto a destra: INCHIESTA. Sotto, campeggia il titolo: Ma si può
sapere che acqua beviamo? La giornalista Elena Bellei intervista gli esperti e i
responsabili del servizio d’Igiene Pubblica, ma non riesco a saperne di più
perché il testo è stampato in un corpo minuscolo, forse in “5”. Mi accorgo però che le ultime sette righe che chiudono l’inchiesta sono cerchiate,
non riesco a leggerle finché non scopro che Sabattini le ha ingrandite in un
quadretto accanto che leggo attentamente: “D’accordo, insiste la signora,
ma io quell’acqua non la bevo, preferisco un bel bicchiere di vino! E intanto il Dott. Zavatta dichiara: “…dall’analisi di un certo vino, proveniente da
una zona non lontana da Modena, è risultato che la concentrazione di
piombo di quel vino era superiore a quella consentita nelle acque di scari49
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co industriale” – un altro fatto. No, è la verità. L’inchiesta è chiusa! Anzi
non si è mai aperta. Ma la prova resta. La prova fotostatica che da quelle
parti, a quei tempi, è stato liberamente venduto del vino più contaminato
di una fogna.
Ma torniamo a Sabattini e a dove lo abbiamo lasciato, anzi, saltiamo
almeno una decina di capitoli del libro bianco per ritrovarci all’inizio degli
anni ottanta. In particolare mi interessa riportare la successione dei fatti
che hanno preceduto l’internamento di Sabattini nel manicomio criminale
di Castiglione delle Stiviere. Devo premettere che da quando ho incominciato
a raccontare (scrivere) ho sempre usato come riferimento il libro bianco e
la storia si è scritta da sola. Malgrado i cinque anni trascorsi in Consiglio
Comunale mi abbiano reso un esperto conoscitore delle dinamiche politiche mi ritrovo improvvisamente arenato in un banco di nebbia. Sono
fermo.
La precisione archivistica di Sabattini sembra farsi improvvisamente
confusa. Le date dei documenti non sono più progressive. Le dissertazioni si sostituiscono a quell’incedere implacabile, essenziale, costante, che mi
ha accompagnato fino a questo momento nella lettura. Per la prima volta
mi domando quando Carlo Sabattini abbia scritto il memoriale. Durante?
Quando i fatti accadevano lui li trascriveva subito dalla realtà alla carta? O
dopo? Quando, a posteriori, ha ricomposto tutta la storia? Mi chiedo questo, ma poi rinuncio alle conclusioni. Il cambiamento di rotta è legato
all’enormità degli avvenimenti che gli sono crollati addosso. Se fino ad oggi
ha combattuto alla luce del sole con destrezza, menando colpi su colpi con
la precisione di un giocatore di scacchi, ora mena fendenti nell’aria a casaccio. È stanco, sfinito, si trova da solo nelle buie profondità del bosco dove
combatte alla cieca contro armate di fantasmi sfuggenti. Un sabba di spettri che danza sul suo “punto di non ritorno”, si proprio così, perché dal giorno in cui l’hanno internato in poi le cose cambieranno per sempre e nulla,
per lui, sarà più come prima.
È scesa la sera e sono ancora imprigionato nella bruma standomene
seduto davanti ad una minacciosa pagina bianca. Esco a fare due passi, ma
il freddo mi convince a rientrare subito. Mio figlio suona il piano, mia
moglie, di sotto, prepara la cena. Sento che taglia il pane mentre l’odore
della peperonata sale fino al mio studio. Ma forse è stufato di fagioli, certo
non può essere ragù. Lara è vegetariana e in casa nostra si mangia carne
solo quando vengono a trovarci gli amici che altrimenti ci guarderebbero
storto senza una bistecca davanti e hai un bel da dire che per produrre un
chilo di carne ci vogliono diciotto chili di cereali e che se mangiassimo tutti
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i cereali anziché il chilo di carne si risolverebbe il problema della fame nel
mondo. Senza contare tutta la merda di maiale che non finirebbe più nei
fiumi. Ma anche se dici così ti guardano tutti storto ugualmente. Ho divagato. Mi convinco a dare un’occhiata al terzo volume del libro bianco.
Capisco al volo che molti documenti mancanti nel secondo libro sono presenti nel terzo. È come se i due volumi dovessero sempre marciare affiancati. Le ragioni di tutto ciò restano un mistero, ma riprendo a scrivere, questa è l’unica cosa che conta e anche Carlo sarebbe felice di sapere che l’avventura riprende il suo corso.
Rileggo la frase che ho scritto prima di addentrarmi nella nebbia
“Ma torniamo a Sabattini e a dove lo abbiamo lasciato, anzi, saltiamo almeno una decina di capitoli del libro bianco per ritrovarci all’inizio
degli anni ottanta”.
Sabattini ha continuato a difendere il territorio come sempre,
segnalando abusi, redigendo esposti e schiamazzando col megafono ad
ogni angolo di strada. Si è ammodernato e pur continuando ad usare i cartelli di cartone ha scoperto la potenzialità della tipografia cosicché manda
alle stampe centinaia di manifesti che affigge personalmente davanti alla
stazione, agli uffici comunali e accanto alle entrate dei Palazzi di Giustizia.
Avrebbe voluto attaccarli negli appositi spazi, ma gli uffici capiscono di chi
si tratta e non prendono in consegna i manifesti (...dal verbale del 1° interrogatorio). Poi si apposta con fare discreto e puntando il teleobiettivo fotografa politici, magistrati e pubblici ufficiali che passano accanto ai suoi
manifesti. Qualcuno si ferma per leggere le denunce e proprio quando
meno se lo aspetta: clik! Fotografato! Ecco come viene congelato nei sali
d’argento l’autorevole magistrato, mentre visiona la denuncia di un reato
diffusa a mezzo stampa. Ne prende atto e non interviene. È la prova iperrealista della “non azione” della Giustizia. Carlo prende le immagini dei “lettori inattivi” e le riproduce in altri manifesti che, come in un gioco di specchi, diventano la denuncia “iperrealista” della mancata azione della
Magistratura.
Come sempre le autorità, quelle politiche prima delle altre, non gradiscono di essere svillaneggiate. Non più su di un solo cartello, ma attraverso una campagna continuata di affissioni. Per questo l’allora Sindaco di
Modena, Mario Escobar del Montes, risponde con una querela che viene
depositata alla fine di novembre (03/12/83 Prot. 745) e che, nella sua più
che totale assenza di contenuti, sarebbe solo una delle tante a carico dell’ecologo se non fosse per un passaggio significativo presente nel documento: “…a ciò aggiungasi il danneggiamento derivante agli stessi edifici
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dal fatto che l’opera di defissione più spesso non può avvenire a causa del
particolare collante usato dal Sabattini, se non scrostando il muro sottostante che rimane pertanto in deplorevoli condizioni”. Questa accusa non
è nuova. Il Sindaco del Montes aveva già segnalato alla Procura (con lettera
del 31 ottobre 1993 PR Mo n°1193/83) scrivendo di suo pugno:
“Questa Amministrazione Comunale è da tempo impegnata a rimuovere le continue affissioni abusive effettuate dal Sig. Carlo Sabattini.
In diversi punti della città. Tale incombenza ha comportato oneri
non indifferenti per questa Amministrazione, dovuti soprattutto ai
numerosi interventi effettuati dal personale operaio, distolto da altri
servizi d’istituto. La situazione pare non risolversi visto che il Sig.
Carlo Sabattini continua a disattendere le norme vigenti in materia
deturpando numerosi edifici e conseguente danno all’immagine della
città… Con la presente segnalazione si desidera pertanto richiamare
la Sua cortese attenzione, ai fini dei provvedimenti di competenza di
codesta onorevole Procura, nella speranza che la situazione possa
risolversi al più presto”.
Fermo restando che l’affissione di manifesti aventi un carattere non
pubblicitario – e questi certamente lo erano dato che si trattava di avvisi di
reato a mezzo stampa - non erano sanzionabili, si opta a più riprese per una
sorta di “variazione sul tema” in grado di aggravare i fatti: la colla dei manifesti. Non una colla qualunque, ma “un collante speciale” – una sorta di ameba
indelebile - “che ha intriso il muro degli edifici” , “privati e pubblici, alcuni dei quali di interesse artistico e monumentale” - con conseguente “danneggiamento, deturpamento ed imbrattamento degli stessi” in quanto
“le operazioni di defissione (…) nonostante l’uso delle migliori tecniche
del caso non consentono di eliminare le tracce degli stampati” come scritto nel verbale inviato al Sindaco del Montes il 22 novembre 1983. Da questo momento Carlo Sabattini non è più soltanto un contestatore, ma un
deturpatore di monumenti.
Nel frattempo a Modena si è insediato un nuovo pretore che tutti
dicono non sia solo preparato, ma anche risoluto e disposto a tutto per far
trionfare la giustizia. Si chiama Alejandro Luigi Re Picos. Se non vi suona
bene avete ragione perché il suo nome me lo sono inventato. Non che
abbia paura a raccontare la verità, ma come avrete forse intuito stiamo parlando di Sabattini, di un perseguitato politico di cui si è voluto scientemente cancellare ogni traccia e non vorrei ritrovarmi ad essere processato a mia
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volta per aver detto semplicemente la verità o per aver descritto quella che
sarà nota ai posteri come una cospirazione passata sotto il più che totale
silenzio, degna solo di un governo sudamericano. Il Chile di Pinochet come
la Bolivia di Barrientos, il Nicaragua di “Carla’s song” come la Modena in cui si
trovò a vivere Sabattini da perseguitato. Da questo deriva la storpiatura
spagnoleggiante dei nomi dei protagonisti di questa storia. Senza contare
che molti dei personaggi collusi alla congiura che portò all’internamento di
Carlo hanno fatto carriera, occupano posti importanti, sono diventati
potenti e certamente non gradiscono che qualcuno, come dire, racconti le
vere ragioni che hanno consentito loro di ascendere all’olimpo del potere.
La repressione compiuta nei confronti di Carlo è certamente da annoverarsi tra queste.
Per questo, cari signori e signore della Giuria, vi dico che sono innocente di tutte le accuse che m’imputeranno, tolta naturalmente quelle per
cui mi trovo qui dinanzi a voi: la rapina a mano armata. Ma delle altre accuse: mercimonio sessuale, vendita di droga ai giardinetti d’infanzia e seduzione di minorenni mi dichiaro innocente.
Alejandro è un tipo duro, uno di quelli che batte i pugni sul tavolo, e
lo s’intuisce solo a vederlo: robusto nel fisico, sguardo severo, stempiato,
ma non ancora calvo come Telly Savalas, il tenente Kojak al quale assomiglierà invecchiando. Visto da giovane sembra, malgrado i baffetti alla Clark
Gable, un austero professore di matematica. Con Sabattini ha già combattuto qualche scaramuccia, ma non è ancora riuscito a fargli capire che lui
non è un burocrate come tutti gli altri e soprattutto che non è disposto a
farsi trascinare in mezzo alle sue “baracconate”. Anzi, non si considera nemmeno un Pretore. Alejandro Re Picos è la Pretura fatta persona! Ma si veda
per un attimo cosa dice l’enciclopedia libera Wikipedia digitando la parola
“pretore”:
“ll pretore in Italia era un organo monocratico a cui era affidata la giurisdizione in materia civile e penale (oltre a secondari compiti di natura
amministrativa e volontaria giurisdizione; citiamo, a titolo d’esempio, i
giudizi in tema di opposizione avverso sanzioni amministrative, oppure
i provvedimenti che il pretore doveva assumere in veste di giudice tutelare). Il decreto legislativo 19 febbraio 1998 n. 51 ha disposto la soppressione di tale organo sostituendolo con il Giudice di Tribunale detto anche
Giudice unico di primo grado, a far data dal 2 giugno 1999 per tutti i processi civili e dal 2 gennaio 2000 per tutti i processi penali, il quale decide in
composizione monocratica, escluse alcune ipotesi in cui è tassativamen53
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te prevista la composizione collegiale. La causa della sua soppressione
sta nel fatto che era sprovvisto di pubblico ministero, agendo lui in
prima persona contemporaneamente come Pubblico Ministero inquisitore, propulsore dell’azione penale e come giudice (seppur per le piccole cause). Questo contrastava irrimediabilmente con il principio contenuto sia nella costituzione sia nel nuovo codice di procedura penale
“Vassalli” - che dovesse esservi parità tendenzialmente assoluta fra
accusa e difesa (e l’antica figura del Pretore evidentemente non era compatibile)”.
Questo per ricordare che Alejandro disponeva di tutti i mezzi necessari per dare del filo da torcere all’ecologista contestatore. Ma andiamo per
gradi. È la mattina del 2 gennaio 1984 ed è lo stesso anno scelto da George
Orwell per ambientare il romanzo che lo ha consacrato ai posteri. È la storia di un regime dittatoriale e della persecuzione subita dal protagonista del
libro, Winston Smith, colpevole di aver scritto alcuni pensieri su di un diario
mantenuto segreto. Anche Sabattini quella mattina scrive, ma non sulle
pagine di un moleskine, preferisce la plastica di un tendone montato dal
Teatro Comunale di Modena in piazza Mazzini per reclamizzare la nuova stagione. Viene colto sul fatto da due Vigili Urbani che redigono immediatamente un verbale dove si attesta che lo stand è danneggiato per sempre, ma
dimenticano, come annota sarcasticamente lo stesso autore del vandalismo,
di sequestrare l’arma del delitto: il pennarello. I danni alla struttura sono
così irreparabili che Alejandro Re Picos, informato dell’accaduto, procederà come lui stesso scrive “in via di assoluta urgenza” (Prot. 6156/83 R.G.
PEN. ) ad accertare personalmente il reato. Ma ciò che mi preme ricordare è la motivazione adottata da Re Picos per giustificare la fretta: “…in
quanto oggi è nevicato e nevica a riprese e pertanto le prove documentali
costituite da tali scritte stanno per essere disperse (art. 304 ter pen.com)”.
E questo non vale solo per la tenda, ma anche per il distruttivo collante dei
manifesti. Alejandro ribadisce il concetto in altri documenti come nell’ordinanza con la quale ordina l’analisi peritale dei campioni di colla: “Stante
l’assoluta urgenza, derivante dal degrado delle tracce di colla, per esposizione a fattori atmosferici”. (n°6156/83). Ma come: non penetrava gli edifici in profondità? E si degrada così, per due fiocchi di neve?
Delle due l’una: o il danno è permanente oppure è labile. Se l’azione
della neve ripristina lo stato dei luoghi vandalizzati non vi è più motivo di
procedere nei confronti del colpevole. Sarebbe bastata questa banale considerazione, alla quale sarebbe potuto arrivare anche un bambino, per far
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recedere chiunque dalle accuse, ma il cerchio intorno a Sabattini si è stretto. Leggendo le sue considerazioni ci si rende perfettamente conto che solo
lui, che continua ad agire come sempre, non ha ancora capito che è già
stato tutto deciso da tempo e lo si vedrà anche in seguito da come si muoveranno di concerto le istituzioni. Data la gravità dell’azione persecutoria
messa in campo, il potere politico, nei panni dell’Amministrazione
Comunale, incomincia a tessere quell’estesa comunità di responsabili che
non potrà essere punita se malauguratamente dovesse saltar fuori la verità.
Se sono tutti colpevoli, nessuno è colpevole. Tenete bene a mente questo
motto perché lo ritroveremo spesso più avanti. Il Sindaco chiede quindi al
consiglio Comunale di esprimersi sui continuati atti di vandalismo, dalle
affissioni abusive alla tenda imbrattata, così da potersi costituire parte civile contro l’ecologo. Viene messa ai voti una delibera: liberate i cani! Che la
braccata abbia inizio!
Il consigliere Pancho Estrela Beccarias, che stando a quello che dirà nulla
ha da spartire con l’omonimo Cesare Beccaria, presentando la delibera
dichiara: “Sabattini è una figura caratteristica. Giorgio Bocca in un articolo su la Repubblica parlò del “mattocchio” citando Sabattini, cioè quella
figura tipica che in ogni città è un po’ fuori dalle regole, un po’ diverso dagli
altri e non è certo per questo che lo quereliamo e nemmeno per le accuse
e né per gli atti che ha compiuto, né per le continue diffamazioni che
muove nei confronti dell’amministrazione, ma”- perché - “siamo di fronte ad un danneggiamento che c’è stato”. Come dire che non si sta procedendo contro un attivista ecologista quale Sabattini era, bensì contro “lo
scemo del villaggio” che è diventato improvvisamente pericoloso. Lo segue a
ruota il Capogruppo DC, Garcia Murolos che aggiusta la definizione lasciata sfumata da Beccarias: “Io penso che il signor Sabattini faccia parte in
effetti del folclore locale… La storia di tutti i paesi, di tutti i villaggi” – ecco
che si avvicina al dunque – “ha sempre avuto un rappresentante un po’ originale che si qualifica un po’ per le sue originalità“ – così che – “qualcuno
lo chiama l’originale del villaggio”. Se non lo chiama “scemo” è solo perché è consapevole che si tratterebbe di un’offesa perseguibile in sede giudiziaria, come dire che condanna “lo scemo” pur avendo di lui una fifa matta.
Che vigliacchi… Il successivo intervento del Presidente Del Montes è ancora più significativo. Lo stesso dichiara tra le righe che ha tentato di “dissuadere” Sabattini: “Vi dico personalmente che l’ho richiamato ripetutamente
facendogli presente che non danneggiava soltanto le cose, ma che facesse
molta attenzione a quello che scriveva; gli ho detto: lei scrive cose per cui
non può andare a finire bene. Faccia vedere quello che scrive ad un avvo55
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cato, si faccia consigliare… pensavo: scrivi, scrivi, qui non va a finire bene”.
(tratti dai verbali di accompagnamento alla delibera 122 del 16 febbraio
1984).
È una fredda mattina d’invero, il cielo è plumbeo e l’aria pungente
penetra nei polmoni, quando Sabattini viene accompagnato davanti al pretore Alejandro Re Picos. Il documento di cui mi avvalgo si apre con la definizione dell’atto:
Verbale d’interrogatorio di indiziato/imputato.
Sulla parola “indiziato”, neanche a farlo apposta, è stata tirata un riga
nera così che messi da parte gli indizi bisogna solo provare l’imputazione dell’imputato. Mai l’etimo fu tanto chiaro: imputato, Nondum putàtus, da purgare.L’imputato si presenta allora al Magistrato con queste parole:
“Mi chiamo Sabattini Carlo, sono nato a Mirandola il 2 maggio 1928
e risiedo a Nonantola. Sono sposato, sono un contadino e ho la licenza elementare. Ho militato e partecipato alla Resistenza. Ho rifiutato
la qualifica di possidente… Non intendo nominare un difensore di
fiducia, ma chiedo di ottenere facoltà di autodifesa nel rispetto delle
norme internazionali in vigore nel nostro paese”.
Seguono le dichiarazioni dell’ecologista secondo le quali la colla da lui
usata non sarebbe altro che comunissimo “Vinavil”. Mostra una sequenza
fotografica dove con dell’acqua calda riesce a rimuovere i manifesti abusivi senza danneggiare l’intonaco sottostante. Poi parla del pennarello usato
per imbrattare la tenda. È un comunissimo pennarello, marca “Fila”,
modello “Marcher” comprato in cartoleria con 1400 lire. Per questo è subito ordinata un’indagine ad un tecnico specializzato, il Dottor Benicio
dell’Anghelos, con la quale si possa smentire le affermazioni dell’imputato.
La perizia non lascia margini a dubbi: la tenda è stata rovinata dal pennarello in maniera non reversibile, mentre le colonne del portico dello storico Collegio di San Carlo in Modena, come le lesene e i pannelli del Tempio di
San Vincenzo in corso Canal Grande, sono danneggiate dal vinavil usato per
incollare i cartelli. Il fatto poi che questo particolare tipo di colla sia rimovibile con dell’acqua calda come sanno bene i restauratori è del tutto
secondario, senza contare che se i manifesti non si staccano subito lo si
deve al fatto che sono stati ricoperti dai Vigili Urbani con fogli bianchi
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facendo uso, in questo caso, di una colla a base di soda caustica. Ma poi,
anche la seconda colla, a lungo andare, mollerà la presa facendo cadere a
terra i manifesti superstiti, come documentato da un ciclo di foto scattate
da Carlo e allegate ad un esposto che sarà respinto senza esitazioni. Per
difendere Sabattini viene scelto un avvocato d’ufficio, il dottor Richardo
Pelicciardoz, che difenderà così bene Sabattini da consentire che sia giudicato malato di mente. Poco importa congetturare come lo stesso Richardo
Alonzo Pelliciardoz sia stato eletto all’unanimità presidente del Rotardiaz Club,
associazione che raccoglieva a quel tempo gran parte degli industriali che
lo stesso Sabattini combatteva con incrollabile costanza (05/07/1985
Gazzetta di Modena). Di lui, l’imputato scriverà nel libro bianco a riprova
di certe connivenze esemplari: “avvertito” - (il Pelliciardoz) – “che la perizia era stata depositata, non me ne da notizia: come mai? Come può essere definito un avvocato che non avverte il suo difeso del fatto gravissimo
di essere dichiarato pazzo pericoloso?” In sostanza si chiede perché non gli
sia stata concessa la possibilità di controbattere a quanto scritto dai periti.
Vi pare poco?
Da questo momento scattano le indagini a tutto tondo. Mosso dalla
convinzione che il contestatore debba per forza essere insano di mente,
Alejandro Re Picos scrive a tutte le direzioni sanitarie e a tutti gli ospedali
richiedendo “Copia autentica integrale di tutte le cartelle cliniche relative ai
Ricoveri del Sabattini Carlo” (n°6156/83 R.G. dell’8/10/1984.
Ma Sabattini ha sempre avuto una salute di ferro e non ha mai sofferto di nervi. Tutti gli istituti interpellati, da Villa Igea a Villa Laura, dal medico di base agli ospedali pubblici, rispondono all’unisono che non dispongono di nessuna cartella clinica. Re Picos, insoddisfatto, dispone che l’imputato sia sottoposto a visita psichiatrica. Sabattini si sente così umiliato
che l’11 gennaio non si presenta alla prima visita peritale. Sottoposto a
ricovero coatto, tradotto forzatamente dai Carabinieri, il 25 dello stesso
mese si ritrova seduto davanti ai tre professori del collegio peritale: i professori Reggianiz, Ballonitos, Roncos.
Esame psichico e valutazione psicopatologica
“L’esame viene condotto mediante l’osservazione diretta, il colloquio
e la libera esposizione. Il periziando si presenta sufficientemente ordinato nella persona e nell’abbigliamento, con espressione mimica, gesto e
tono di voce adeguati ai contenuti del discorso e al racconto dei fatti. Il
controllo emotivo viene mantenuto anche quando il tema diventa scot57
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tante e la perorazione eccessiva. Non traspare irritazione né ostilità verso
i periti che per altro si sforzano di superare le forti diffidenze con un
contatto colloquiale bonario e con “domande stimolo” ben misurate.
L’approccio in complesso è facile anche se talvolta inficiato da reticenze
e da comprensibili meccanismi di difesa. Messo a proprio agio, il periziando risponde sempre alle domande ed espone liberamente le proprie
idee con espressione verbale fluida e corretta. Vocabolario ricco e di
gran lunga superiore al suo grado d’istruzione. Il corso del pensiero si
dimostra rapido e scorrevole, sorretto da un’ottima memoria di rievocazione. L’attenzione, la concentrazione e le altre funzioni mentali di base
appaiono valide e bene utilizzate senza discontinuità. Alle domande relative alla sua salute, al tipo di vita che conduce, alle sue presenti attività,
Sabattini risponde a tono, però sempre divaga per tornare alle sue idee
“prevalenti” ed agli argomenti che costituiscono la sua fissità di pensiero. Afferma di godere in complesso di buona salute, di buon appetito, di
dormire a sufficienza, di sentirsi di umore stenico, un po’ teso, agitato:
“avrei bisogno di sfogarmi…per difendermi…uno sfogo nervoso”. Per
tutto quello che gli succede prova “disperazione e indignazione, “ma di
più indignazione”. Appare lusingato per gli elogi alla sua memoria così
dettagliata nel ricordare circostanze, episodi, date, così pronta nel citare
gli articoli del Codice. Durante l’esame, Sabattini assume ben presto un
ruolo attivo, organizza in prima persona le modalità. Sceglie i temi ed i
contenuti dell’esposizione ai periti che possono in tal modo assai bene
valutare il suo scarso adattamento alla realtà. La rigidità degli atteggiamenti, la totale mancanza delle facoltà di giudizio e di critica in riferimento a taluni assurdi principi del suo diritto che egli sostiene con
incrollabile convinzione, per i quali ritiene legittimi i più eclatanti e assurdi gesti e comportamenti di rivendicazione. Invitato a raccontare qualche notizia biografica, il Sabattini ricorda la madre deceduta in ospedale
psichiatrico per malattia conseguita alla spagnola (pandemia influenzale
1915-18) ricorda i sei fratelli, la sua fanciullezza e l’adolescenza trascorse nell’abbandono. Nel 1950, all’età di 22 anni, a seguito di un episodio
non bene precisato “cominciò l’esperienza di guerra alla magistratura”
Per oltraggio e resistenza restò in carcere per sette mesi durante i quali
fece un tentativo di suicidio “dimostrativo” ferendosi i polsi con un
oggetto incongruo, ferendosi i polsi con un frammento di cucchiaio di
legno.
Nel 1951 durante il servizio militare soffrì di disturbi gastrici conseguenza di una cattiva alimentazione. Prese parte ad una sorta di “sedizione”: io
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con altri ci eravamo rifiutati di rinunciare alle sigarette per accumulare
denaro ai fini di fare un cinema…” egli venne congedato con l’applicazione dell’articolo 18 (oggi art. 29 d.p.r. 496) che recita “sindromi psico
- neurotiche (nevrasteniche, isteriche, ossessive ed ansiose) associate o
non a segni neuro distonici ecc”
Sabattini, nel libro bianco sottolinea a più riprese queste ultime 10
righe e accanto scrive più volte: falso! Reticenti! Semina poi dappertutto
dei punti interrogativi “?” come dire: quando mai avrei affermato queste cose?
“Negli anni che seguirono, Sabattini si formò una famiglia, dimostrò
efficienza lavorativa, raggiunse un discreto benessere economico. La
narrazione di questo periodo della sua vita è poco probante, alterata
come è da reticenze, da mancata comprensione della natura patologica
delle manifestazioni, oppure dalle interpretazioni retrospettive che proiettano concezioni deliranti in un passato nel quale esse forse non erano
ancora presenti. Il periziando parla con entusiasmo della sua famiglia di
oggi, dei suoi quattro figli tutti sistemati “troppo bene” “troppo bravi”.
Alla domenica si trovano tutti riuniti, lui parla delle sue faccende e loro
sono perfettamente concordi e solidali con lui… “mia moglie è più fanatica del sottoscritto” È certo che in quegli anni la malattia mentale si è
venuta consolidando con una dinamica progressiva. Che si sono accresciute le emergenti sospettosità, le diffidenze le attitudini di rifiuto. È
certo che i pregiudizi hanno preso corpo e si sono ingigantiti tanto da
far sembrare al malato sempre più legittime le rivendicazioni più accese
del suo diritto. Il pensiero ha assunto una particolare fissità su determinate idee assorbendo ogni altra attenzione ed ogni altro interesse. Anche
se mancano riferimenti anamnestici precisi, il comportamento di
Sabattini si sarà fatto sempre più chiaramente patologico, spinto da una
polarizzazione psichica rigida, immutabile tanto da trasformarsi in vero
delirio. Nel 1976 Sabattini inizia le sue grandi esibizioni: getta escrementi e s’incatena davanti a pubblici edifici, in diverse città, porta in giro cartelloni offensivi, affigge manifesti, si dà al volantinaggio, pubblica notizie tendenziose, scrive: “i miei figli volevano addirittura portarmi
all’estero per sottrarmi al manicomio” afferma.
Sabattini sottolinea ancora quest’ultima frase. Scrive 3 punti interrogativi e accanto: ignobile falsità)
“Poi ammette di essersi fatto visitare da un noto psichiatra di Reggio
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Emilia, non certo per malattia mentale (afferma) bensì per rafforzare
l’intelligenza e la memoria. “io mi facevo controllare dai medici per non
fare errori madornali… dopo tutto quel che ho fatto io...” Descrive a tale
proposito il suo studio indefesso delle leggi e del codice, le energie mentali spese per controbattere le innumerevoli imputazioni, per difendersi
nel corso dei processi, per scrivere memoriali. In virtù della sua grande
conoscenza della procedura è lui stesso che è in grado di combattere ”i
trucchi usati dal pretore per far sparire la verità”, è lui che deve smascherare “il falso elevato a metodo”, è lui che deve intervenire presso i giudici perché “loro ignorano le procedure”, “fanno il contrario di quello
che detta la procedura… è incredibile!”, “quando discutono con me a tu
per tu bluffano e loro l’oltraggio lo provocano”. Richiesto se per caso
non si accorga di avere idee fisse, Sabattini risponde: “se per idee fisse
s’intende il libro bianco… Io valuto i fatti… io sono realista”. È appunto il libro bianco che in questo momento impegna le sue energie, occupa la sua mente, lo costringe a grosse spese. “I reati, le omissioni, gli
abusi, da me denunciati con ampie documentazioni sono meglio illustrati nel libro bianco che invierò al presidente Pertini, al Consiglio
Superiore della Magistratura e alle principali autorità e Istituzioni dello
stato, malgrado l’elevato costo… 300 mila lire ogni copia” Sabattini si
dilunga in una dissertazione sui fascicoli processuali che negli uffici giudiziari “non sono catalogati”, che giacciono nel disordine, e che pertanto sono difficilmente reperibili oppure che vengono dati per “dispersi”.
“È un metodo per nascondere le verità che io denuncerò nel libro bianco” ad una precisa domanda Sabattini risponde con prontezza. “Io mi
ritengo una persona normale, saranno gli altri a giudicare…” aggiunge
“però se tutti fossero come me ci sarebbe lo stato di diritto” e richiesto
se per caso non si accorga di essere un disturbatore, un attaccabrighe, il
Periziando si fa attentissimo, molto controllato e risponde che difende
l’ecologia dai quattro inquinatori più arroganti “uno per ogni colore
politico” e richiesto quali altri valori egli difenda in ordine di importanza, elenca di seguito: ecologia, genuinità dei prodotti alimentari, condizioni igieniche delle case popolari di Modena, diritti civili, problema
della giustizia. (“uno chiama l’altro”) situazione dell’ospedali psichiatrico
giudiziario di Reggio Emilia, situazione carceraria ecc…”
Reggiani, Balloni, Ronco
Colpevole!
Da questa perizia Re Picos scaglia la sua sentenza:
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Il libro bianco riporta la sentenza per intero sebbene sia stata ridotta
a due fogli per pagina, forse assecondando una pulsione inconscia che
spinge Carlo a rimpicciolire un atto che cancella in un sol colpo anni di
sacrosante battaglie che non sono state combattute per avere giustizia, ma
per assecondare le pulsioni di una mente malata. È stata letta e riletta, maneggiata, sgualcita ed è tutto un fiorire di sottolineature, note sui bordi, punti
esclamativi, interrogativi, croci e freccette, rimandi alle osservazioni che
non si comprende perché siano state poi riportate altrove ed è lì che mi
sposto consapevole che quella freddezza didascalica con la quale si apre il
libro bianco è andata perduta per sempre. Riga dopo riga Carlo si oppone
a quanto gli viene attribuito mostrando lo schema che ha sempre seguito e
che può essere riassunto partendo proprio dalle sue stesse parole: “Il pretore indica nell’ordinanza che nei manifesti ci sono scritte cose nelle quali
accuso… è quindi evidente che non è a conoscenza di queste accuse. Ma
quali indagini e controlli ha fatto per verificare le mie accuse, che per legge
(art.368 c.p.p.) aveva l’obbligo di verificare?” Ecco l’essenza stessa della strategia “Sabattiniana” che emerge nella sua disarmante semplicità. Il fine
appare quindi così essenziale da giustificare i mezzi che si esplicano nei
modi irruenti, tenaci, talvolta simili ad una prevaricazione che il “contestatore” di Nonantola ha sempre messo in atto. Infatti, quello di Carlo è stato
un gioco simile al poker dove nessuno dei suoi avversari “giudici” ha mai
voluto dire: “vedo!”. Nessuno cioè ha mai domandato di vedere le carte, le
prove, gli esposti, le foto dei canali infetti. Tutti i magistrati, al contrario, gli
hanno sempre risposto: “passo…”. Ma se il gioco non è leale per via delle
stesse regole che si è dato, tanto che nessuno saprà mai se avevi in mano
una “coppia” o “una scala reale”, neppure tu devi essere corretto e come tale
ti devi sentire in diritto di stravolgere le regole e rilanciare in una sorta di
“fuorigioco” secondo il quale “chi non vuol non vedere”, “giocare oltre le regole”, è
un baro. O meglio un doppiogiochista pagato da qualcuno che pur non standosene seduto al tavolo verde è disposto a versare una posta più alta di
quella che il suo “giocatore di fiducia” potrebbe vincere. L’avversario, il giocatore “cieco” – secondo Sabattini – è stato comprato per far finire la partita
nel nulla. In tutta risposta il giocatore smascherato si arrabbia e dispone
tutti i provvedimenti del caso per colpire l’ingiurioso delatore, ma Sabattini
esulta perché spera sempre che arrivi al tavolo da gioco un nuovo sceriffo,
un magistrato duro e puro, disposto a rimettere ordine nella partita a costo
di dover andare fino in fondo. Sabattini sembra voler dire: se io accuso un
magistrato di essersi girato da un’altra parte, bisogna quantomeno che l’autorità decida se i fatti che lui non ha voluto vedere si sono verificati oppu61
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re no. Sicché, “come nella caduta del domino, non esamineremo l’ultima
tessera crollata, nemmeno la seconda, ma andremo a vedere la prima, ovverosia quella che ha originato il crollo di tutte le tessere allineate: l’inquinamento del fiume”. Soltanto dopo essere partiti dall’innesco, e aver verificato l’esistenza dello stesso, discuteremo di tutto quanto il resto, dei miei
modi, dei cartelli e via dicendo. Lo stesso Sabattini ribadisce: “Se le mie
denunce riceveranno la giusta attenzione e i cittadini ne saranno informati, non avrò difficoltà a procedere personalmente al distacco dei manifesti
ed a pulire le colonne. Anzi prendo un impegno in questo senso, purché le
autorità competenti ed in particolare il C.S.M e il Ministro della Giustizia
dispongano le indagini necessarie e la mia audizione” Se dovessimo riassumere questa vicenda potremmo quindi dire che un uomo, al secolo Carlo
Sabattini, è finito al manicomio criminale per via delle azioni che ha commesso per poter essere ascoltato dalla magistratura che pur tuttavia lo ha
internato senza ascoltarlo. Nel memoriale si difende bene, come sempre, tuttavia saltano agli occhi alcuni punti dove si limita a riportare le frasi dell’ordinanza senza aggiungervi accanto null’altro. La mostra (l’ordinanza), così come
se galleggiasse nel mare delle carte raccolte, zattera alla deriva di una crescente disperazione vissuta da un imputato senza speranza di assoluzione. Nessun
lettore del libro bianco, giunto fino a questo punto della storia, potrà mai credere alla gravità delle affermazioni peritali e neanche alle conclusioni presenti nel dispositivo finale che saranno poi definite da importanti giuristi come
“perfide”:
“Alla malattia” – scrive Alejandro diventando persino psichiatra –
“alla malattia paranoia secondo il Kraepelin si preferisce la definizione di delirio cronico, lucido, sistematizzato: esso rappresenta ‘l’insidioso sviluppo di un sistema delirante permanente ed incontrollabile, derivante da cause interne, esacerbate e accresciute da fatti
occasionali ed eventi reali a carattere psicotraumantico’. Esso appare come l’evoluzione accentuata progressivamente di idee o temi
prevalenti, caratterizzati da interpretazioni abnormi della realtà,
con apparente logica o sistematica consequenzialità, intensa partecipazione affettiva ed andamento cronico ed uno dei contenuti più
diffusi è quello persecutorio con tema di rivendicazione (delirio di
querela). La cui finale evoluzione è spesso un quadro conclamato
di schizofrenia paranoide”.
E ancora:
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“…del resto, secondo un autore classico, ‘la paranoia è la malattia
più insidiosa per l’indagine giudiziaria’ per la logica implacabile che
nella manifestazione del delirio sistematico, il malato presenta. Si
determina spesso, l’ingannevole apparenza di persona colta, il che
puntualmente si è rinvenuto nel caso in esame, laddove l’imputato,
nella molteplicità dei suoi esposti, non soltanto ha spesso denunziato i fenomeni dell’inquinamento, ma ha stigmatizzato finanche la
violazione delle più sottili disposizioni di attuazione del C.P.P. come
quelle regolamentari sull’indice dei fascicoli, a suo giudizio pretermessi dai cancellieri, per …far sparire le prove dei reati”.
In questo passaggio si allude al fatto che Sabattini si era accorto che
in molti processi non si procedeva contro gli inquinatori perché risultavano irreperibili parte dei documenti probanti (fotografie, verbali e perfino i
suoi esposti). “Irreperibili” non significa che sono “andati perduti” - alle sparizioni seguono sempre le indagini del caso e talvolta sono messi in discussione gli uffici e il personale - ma significa che della prova, pur essendo presente in archivio, non se ne conosce la posizione. Un escamotage insomma
che può essere messo in pratica evitando di redigere un indice dei fascicoli presenti nel procedimento. Per dovere di cronaca bisogna ricordare che
l’aggiramento delle regole, non rappresenta sempre una violazione delle
stesse. Durante tutti gli anni in cui ho vestito i panni del consigliere comunale mi sono scontrato spesso contro quelle che chiamo le “mezze reticenze”.
Per esempio, se inoltri ufficiale richiesta per avere copia di un documento
protocollato, (la legge afferma che ti deve essere consegnato), può capitare che ti rispondano che lo stanno cercando e ciò non significa necessariamente che non te lo vogliono dare, anzi stanno lavorando proprio per
accontentare la tua richiesta! Insomma, i responsabili si trovano nell’indisponibilità momentanea di fornirtelo e questo non è certo un reato. Magari
vanno avanti a scriverti per un certo numero di volte (…lo invieremo non
appena la fotocopiatrice sarà di nuovo funzionante, …quando avremo un
fax, …non appena i lavori in archivio saranno terminati) così che se uno
non si fa un nodo al fazzoletto può capitare che si scordi di sollecitare
un’altra volta ancora e l’effetto ottenuto è pressoché identico a quello di
non averti consegnato il documento. Questo “trucco dell’indice fantasma”
spinge Sabattini a compilare e inviare alla Magistratura, come suo solito, un
ennesimo esposto che sarà utilizzato per dimostrare che la sua non è una
“paranoia comune”, ma una “paranoia razionale”, fondata su basi scientifiche,
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quindi all’apparenza invisibile, ma per questo ancor più pericolosa. Scrive
Alejandro Re Picos:
“…va dunque affermato che, per tutta la durata di condotta considerata, l’imputato era privo totalmente di imputabilità, in conseguenza di vizio totale di mente consistente in vera e propria malattia mentale, classificabile come delirio sistemico di tipo persecutorio, in sintesi denominabile paranoia. Realizza invero una propria
malattia mentale, tale da escludere l’imputabilità, quello stato totale
e finale, frutto di progressivo deterioramento, per cui sia la capacità di ideazione responsabile, sia la capacità di autodeterminazione
critica di fronte ai fatti esterni vengono irrimediabilmente compromessi dall’idea delirante dominante, di essere vittima di ingiustizie
deliberate da parte delle autorità giudiziarie e amministrative. Tale
malattia non soltanto determina l’imputato a ripetuti episodi di
oltraggio, molestia, calunnia, ma altresì all’opera di danneggiamento aggravato, finalizzata a rendere intoccabili i mezzi di estrinsecazione del suo delirio (manifesti affissi in pubblico)”.
e ancora:
“Il collegio peritale enuncia altresì, rispondendo al quesito proposto e sulla base delle prove raccolte: ‘l’imputato è attualmente persona
socialmente pericolosa’…”.
e ancora:
“ma v’è di più: da tempo il Sabattini proclama che “bande di picchiatori si aggirano per Modena per colpirlo”, che ignoti gli hanno tagliato i
condotti dei freni della vettura” (ndr non era una vettura, ma il
camion. Poco importa dato il tenore del documento) – “per assassinarlo… e così via. Poiché il paranoico è spesso dominato dall’idea
morbosa di essere osteggiato, perseguitato, minacciato nella propria incolumità, può giungere, per rivendicare i propri diritti o per
difendersi, a commettere delitti ed a compiere violenze, ferimenti
ed anche omicidi, essendo la sua volontà dominata dall’idea delirante”.
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e ancora:
“Il giudizio prognostico poggia sull’accertamento di un’infermità
psichica che, così come si è manifestata, può dar luogo a reiterazione di condotte criminose… la misura di sicurezza del ricovero
obbligatorio costituisce la risposta alla pericolosità del
soggetto…l’attualità del pericolo di recidiva. …incontestabile esigenza di tutela collettiva e dello stesso imputato dalle conseguenze
dei suoi comportamenti antigiuridici”.
Intanto i giornali continuano a seguire il processo da lontano e lo
fanno in maniera didascalica, senza preoccuparsi troppo di quello che
potrebbe succedere da lì a breve al povero imputato. Probabilmente molti
giornalisti sono convinti che finirà tutto in una bolla di sapone, in fondo
chi è colpito dalle accuse si sa difendere bene e non sarebbe la prima volta
che la “fa franca”:
“Come ricordiamo più ampiamente in pagina nazionale, l’inchiesta
penale sfociata nel ricovero di Sabattini per l’affissione risale ad
alcuni mesi fa, quando l’ecologo nonantolano affisse manifestini
contro la magistratura sulle colonnine del portico del Collegio e
sulla facciata della chiesa di San Vincenzo. Secondo l’accusa la colla
usata da Sabattini per l’affissione avrebbe danneggiato il patrimonio artistico cittadino. Chiamata una prima volta l’udienza, il
Pretore ordinò il rinvio del dibattimento per procedere alla perizia
psichiatrica sull’imputato. Ora ne ha disposto il ricovero, che risulterebbe però di carattere provvisorio in attesa che il processo per
danneggiamento venga terminato”.
il Resto del Carlino, Edizione di Modena, del 12 aprile 1985
Fortuna vuole che qualche giorno prima che sia spiccato il mandato di
cattura (ndr Alejandro lo emetterà il 9/4/1985 senza tener conto che così
facendo chiude in manicomio quello che potrebbe diventare un rappresentante del popolo, con tutti i conflitti che ne potrebbero derivare), i membri del
nascente partito verde, quasi tutti provenienti dalle file del Partito Radicale con
il quale Sabattini aveva sempre intrattenuto buoni rapporti (tolte alcune episodiche dissociazioni dalle sue azioni) gli chiedono di fare il capolista dei verdi
alle elezioni comunali che si terranno a breve nel Comune di Modena. Ma ciò
non impedisce a Re Picos di tirare dritto per la sua strada.
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P. Q. M.
Visti gli artt.378 C.P.P e 222 C.P.;
dichiara
non doversi procedere a carico di Sabattini Carlo in ordine a tutti i
reati e violazioni ascritte in rubrica trattandosi di persona non
imputabile, al momento del fatto ed attualmente, per vizio totale di
mente da infermità psichica.
ordina
il ricovero dell’imputato in ospedale psichiatrico giudiziario per un
tempo non inferiore ai due anni, nell’istituto da designarsi in via
definitiva da parte del competente ministero e, per l’effetto, conferma l’ordinanza 9.4.1985 di applicazione provvisoria della misura di
sicurezza, la cui esecuzione ebbe inizio in pari data.
Modena, 29 maggio 1985
Due agenti in borghese, alle 18,30 del 9 aprile, raggiungono Carlo
Sabattini mentre lavora nei campi e lo traducono a forza nel manicomio
criminale di Castiglione delle Stiviere (Corriere della Sera del 17/4/1985).
Spogliato di tutti i diritti civili subisce l’iter al quale sono sottoposti i criminali comuni dichiarati infermi di mente. Gli sono tolti gli oggetti personali, negato l’uso della cintura e dei laccetti delle scarpe, sequestrati i notes e
la matita. Indossa l’abito previsto dal regolamento. Nonostante tutto dà
prova della sua grandezza quando racconta quei giorni nel libro bianco.
Non ci ricama sopra limitandosi ad affermare che in manicomio “…ti uccidono giorno per giorno con un’azione subdola e continua”. Accenna al fatto che non
gli è stato permesso di dormire, di scrivere, di leggere o di andare in biblioteca. La cella è piccola. Questo è tutto. Non si spinge oltre. Immagina che
il lettore si renda perfettamente conto di quello che ha passato e non vuole
crogiolarsi nella sventura. Diventa chiaro agli occhi di tutti che questa volta
l’ecologo dovrà pagare un prezzo altissimo per le proteste e l’odore della
cospirazione incomincia a diffondersi nell’aria, un odore marcescente,
rivoltante, al quale alcuni illustri rappresentanti del mondo della psichiatria
decidono di rispondere:
“…un attacco durissimo ai tre psichiatri, che su richiesta del Pretore,
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hanno eseguito la perizia sullo stato di mente dell’ecologo Carlo
Sabattini. A muoverlo sono stati Giorgio Antonucci e Vito Totire anche
loro psichiatri che, insieme a De Plato, sono stati nominati periti di parte
del collegio di difesa di Sabattini… Ben presto la conferenza si è trasformata in un atto di accusa nei confronti della stessa scienza psichiatrica, secondo la migliore tradizione basagliana. “La psichiatria non è una
scienza” è arrivato a dire il Dott. Antonucci. “È solo uno strumento
nelle mani del potere per normalizzare il dissenso”. E ha chiamato in
causa personaggi illustri come Beethoven per dimostrare che le perizie di
infermità mentale hanno sempre colpito gli uomini scomodi o comunque critici nei confronti dell’autorità. Antonucci e Totire non hanno
escluso un intervento presso l’ordine dei medici contro i periti d’ufficio”.
Tratto da La Gazzetta, cronaca di Modena del 4 maggio 1985
Molti liberi pensatori, gli stessi militanti Verdi, alcuni cittadini riuniti in
comitati e altrettanti politici, sconvolti dalla gravità dell’episodio, alzano la
voce per difendere l’ecologista recluso. Il capogruppo del Psi al Senato
Fabio Fabbri dichiara di aver sollevato formalmente il caso chiedendo l’apertura di un’inchiesta (n.d.r che non sarà mai avviata). Sulla Gazzetta di
Modena Enzo Tortora dichiara che “Sabattini non è nato schiavo”, mentre il
Presidente Pertini, che ha ricevuto una petizione promossa dai Verdi che
conta oltre 1000 firme, telefona ai magistrati modenesi. Tra l’altro tra tutte
queste firme c’è anche quella – udite, udite – del Sindaco Del Montes, proprio lui, quello che aveva innescato il procedimento contro l’agricoltore
nonantolano per danneggiamento di monumenti storici scrivendo personalmente alla Procura. La sua ipocrisia non ha limite e questo la dice lunga
sulla faccia di bronzo di certi politici.
L’Onorevole Negri del Partito Radicale afferma: Sabattini deve essere
liberato e subito. Modena non è Leningrado anche se a qualche giudice,
espressione di un certo potere, farebbe piacere. Mauro Mellini, altro deputato Radicale, rincara la dose:”Modena come Mosca!”. Marco Pannella in persona deposita un’interpellanza parlamentare. I detrattori del PCI approfittano della situazione per andare giù durissimi. Andrea Borri, Capogruppo in
Commissione Vigilanza della Rai ringhia: “da noi il controllo sociale è fortissimo, chi dà fastidio deve essere eliminato”. Dal canto loro i comunisti
controbattono tiepidamente e girano intorno alla vera questione:
“la segretaria provinciale, Alfonsina Rinaldi, risponde al telefono
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dicendo innanzitutto: il magistrato ha applicato la legge. Io penso che
ora molti scopriranno la necessità di applicare in tutti i casi la legge
180, in modo che Sabattini venga affidato alle cure nella zona. Non
condivido né gli obiettivi, né il metodo di lotta di Sabattini, tuttavia
sono dispiaciuta come cittadino di un simile provvedimento che l’applicazione della 180 avrebbe evitato”.
Persino chi non vede di buon occhio l’eccentrico ecologista, in nome del
volterriano ‘non condivido le tue idee, ma sono disposto a dare la vita perché tu le possa
esprimere’ si schiera dalla sua parte, in primis Giorgio Giusti, che sul
Giornale di Modena così descrive Sabattini e il provvedimento che lo ha
investito. “Pur essendo un guascone genuino, l’uomo non ha gli strumenti
culturali per diventare un Pannella di provincia. È ignorante ed arruffone
(per questo ci attendiamo che ci quereli) e persino presuntuoso, quando ha
la pretesa di interpretare codici e leggi meglio degli avvocati e dei magistrati. Non è nostra intenzione fare di lui un eroe e tanto meno avremmo voluto affibbiargli l’aureola di martire. Ma è la situazione che lo rende tale. Per
questo gli dedichiamo una mezza pagina”.
In apertura aveva premesso che: “la decisione di rinchiudere Sabattini in un
manicomio criminale… non ci convince affatto, anzi ci indigna. …conosciamo Sabattini da otto anni e non ci eravamo mai accorti che fosse pericoloso se non per se stesso”. Gerardo Bianco - che è stato Capogruppo
Democristiano alla Camera – trae spunto dalla vicenda per allargare il
ragionamento: “la cosa che più mi impressiona in questo caso è il potere
che i magistrati hanno nel nostro paese. Ma come è possibile che non debbano mai rispondere del proprio operato! Occorre approvare una legge in
questo senso e il caso Sabattini ne ripropone l’urgenza”.
Quest’ultima dichiarazione risulta profetica se si pensa che Silvio
Berlusconi con le sue noiose litanie sulle “toghe rosse” non si era ancora affacciato sulla scena politica. Pur tuttavia, questo episodio dimostra quanto “il
caso Sabattini” sia ancora di grande attualità e come già allora, nei lontani
anni ottanta, ci si sia ritrovati a dover fare i conti con un conflitto insorto
tra istituzioni dello Stato, delineando un problema che ancora oggi non è
stato risolto e nemmeno affrontato. Gli eletti dal popolo sono per questo
lasciati a marcire in un limbo di grigie tutele discrezionali che il più delle
volte servono solo a mantenere la fedina pulita a quei politici che non
hanno mai combattuto una sola battaglia politica. È quindi vero che taluni
Onorevoli, in tutti questi anni, hanno usato la propria posizione per sottrarsi alla giustizia, ma è altrettanto vero che non bisogna mai dimenticare
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che l’immunità parlamentare, in qualsiasi forma essa si presenti, è pur sempre
uno strumento volto a proteggere le “decisioni del popolo” e di tutti i “figli legittimi di queste decisioni”. È naturale che colui che si trova a dover combattere
un sistema organizzato, che pone in campo le più bieche strategie pur di
annientare il proprio nemico, debba essere protetto in tutti i modi per le
azioni pacifiche che compie e le idee che diffonde.
Più avanti si toccherà con mano come il conflitto in essere tra le due decisioni, quella del Pretore che ha internato Sabattini e quella del Popolo che lo
vuole fuori dal manicomio e dentro al consiglio comunale, esploderà fragorosamente dimostrando ancora una volta che “il popolo è”- e non può essere altro
che - “sovrano” in merito al destino di chi lo deve governare. Se talvolta può
sembrare che le sue decisioni siano sbagliate, si tratta pur sempre delle sue
decisioni e a dirlo è proprio colui che si è dichiarato davanti a questa Giuria
un nemico del popolo e cioè un individuo che si dice convinto che il popolo
cada spesso, troppo spesso e volentieri, in errore. Ma non ritenendo che ci
possa essere nessuno, comitato politico, partito o direttore di giornale, magistrato o politico che sia, che possa mettere le sue decisioni al di sopra della
stessa “volontà popolare” ritengo che non vi sia soluzione diversa da quella di
difendere, a spada tratta e con tutti i mezzi consentiti, le scelte dei cittadini.
Semmai si deve solo trovare il modo e la maniera affinché “mezzi uomini” e
“mediocri caporali di partito” non distorcano le decisioni del popolo per rubare denaro pubblico o per manipolare i sistemi elettivi piegandoli al proprio
disegno così da organizzare il voto per eleggere chi si riempie le proprie
tasche, nonché quelle dei suoi amici, e non invece chi si batte per avere un
paese migliore. Ma fate sempre molta attenzione a tutti coloro che pur
essendo d’accordo con me - Dio non voglia, quasi tutti i politici dicono di
esserlo - vi rifilano comitive di politici stivati come sardine dentro ai “pullman dei partiti” quali sono le patetiche “liste bloccate” in uso nella maggior
parte dei sistemi elettorali.
Il successo di Carlo alle elezioni è dirompente. Malgrado l’alto numero di preferenze ottenute la stampa continua a non considerarlo un attivista politico le cui azioni hanno riscosso il consenso necessario ad essere
eletto, ma un “fenomeno da baraccone”. C’è la “donna barbuta”, ci sono le “gemelle siamesi” e, infine, c’è anche il “verde matto” recluso tra due virgolette che
sono usate come le sbarre di una gabbia:
Il “verde matto” di Modena è stato eletto in consiglio comunale.
Carlo Sabattini, 47 anni, severo e indefesso predicatore contro i vizi
dell’ inquinamento e i peccati contro la natura e gli animali, ha ottenuto
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oltre 900 preferenze (il secondo in lista ne ha avute meno di 50).
Domenico del Prete su Repubblica del 15 maggio 1985
Sabattini risulta formalmente eletto, ma ciò non significa che potrà varcare le porte del palazzo comunale per sedersi sul seggio che gli spetta di
diritto.
Sabattini eletto, dal manicomio al Consiglio Comunale di
Modena
Dal manicomio giudiziario al Consiglio Comunale. Carlo Sabattini,
l’ecologo di Nonantola, che un mese fa è stato ricoverato per ordine
della Magistratura all’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere è
stato eletto per le liste verdi al Comune di Modena… ora però si prospetta una complicata e singolare vicenda giuridico amministrativa.
Potrà infatti Carlo Sabattini ricoprire materialmente quel seggio che gli
elettori modenesi gli hanno assegnato? È difficile al momento dare una
risposta… il nuovo Consiglio Comunale dovrà convalidare la sua nomina”.
(Dal Resto del Carlino del 15 maggio 1985)
Come in un film western i due poteri dello stato si trovano uno di fronte all’altro e sono all’O.K. Corral del conflitto istituzionale. Tengono le mani
aperte a poca distanza dal calcio delle pistole infilate nelle fondine. Le dita
vibrano nell’aria, gli avversari si studiano mentre gli spettatori si domandano chi resterà in piedi e chi cadrà a terra morto. Vincerà il duello Billy Re
Picos kid o Pat - volere del popolo - Garret?
Ed ecco allora che mi viene da pensare che se a quei tempi fosse esistita una legge che impediva a chi aveva riportato una condanna penale di
entrare negli emicicli parlamentari, così come oggi si richiede a gran voce
da più parti, il tenace, giusto, eroico Carlo Sabattini, non avrebbe mai varcato le porte del Consiglio Comunale di Modena. Ed è veramente sconvolgente notare come le norme poste a tutela degli eletti siano così tanto
avversate da far dimenticare che alcuni grandi personaggi della storia dell’umanità, (personalmente penso a Henry David Thoreau, ma gli esempi si
sprecano), sono stati incarcerati e si sono visti di conseguenza “sporcare” le
proprie fedine penali, non per aver rubato, ma per essere rimasti fedeli alle
idee nelle quali credevano e per aver migliorato, così facendo, la storia dell’umanità. Il conflitto che sembra insanabile continua alimentando un acceso dibattito che spazia dai temi per così dire “alti” come la libertà d’espres70
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sione, o il diritto di protesta, sino alle questioni meramente tecniche. C’è
chi parla persino di risolvere la situazione facendo partecipare Sabattini al
Consiglio Comunale attraverso una diretta telefonica dal manicomio. Il
Comune di Modena valuta la percorribilità di questa ipotesi chiedendo il
parere di illustri avvocati amministrativisti. La situazione è paradossale.
Tanto paradossale che sarà la magistratura stessa a trovare una via d’uscita,
cavillosa, ma pur sempre in grado di salvare capra e cavoli. Ai primi di luglio
la sentenza del giudice Carlo Ugolini, smentisce una sola parola di tutto il
procedimento che ha comportato l’internamento in manicomio criminale.
Il danno alla tenda provocato dallo sconsiderato uso di un pennarello non
si doveva prefigurare come un “danneggiamento aggravato”, ma come un “danneggiamento semplice”. (Resto del Carlino del 10 luglio 1985). Per il resto tutto
rimane uguale a prima tanto che i giornali spiegano così quella che potrebbe apparire come un’evidente “marcia indietro”: Il “pericolo pubblico” ieri è stato
fatto uscire dal manicomio di Castiglione. Per il giudice è sempre matto, sempre pericoloso, ma con attenuanti (ibidem)
Grazie alla soppressione di un parola che viene sostituita da un’altra, Carlo
è libero. Libero di potersene tornare a casa! Libero di protestare! Libero di
difendere le sue campagne, non più da un angolo di una strada, ma dal
podio di un eletto! Per quanto sia, il primo a non essere contento è proprio
Carlo che si presenta ad una conferenza dei Verdi per dire che è stata convocata senza averlo informato per tempo. I verdi lo hanno indubbiamente
aiutato, se non fosse stato per loro, vuoi anche solo per averlo candidato,
sarebbe ancora dentro. Ma il malumore di Carlo covava da tempo. Bisogna
fare, giunti a questo punto, alcune considerazioni.
Carlo Sabattini ha combattuto fino allo sfinimento e il suo “ruolino di
marcia” non lascia margine a dubbi: 90 interventi della Polizia, 114 esposti,
40 procedure giudiziarie avviate grazie alle sue denunce, 3 condanne per
oltraggio, 12 procedimenti in Cassazione, 23 al tribunale di Firenze (sono
scambi di denunce con magistrati modenesi), 250 contravvenzioni elevate
a suo carico per affissioni abusive e occupazione di suolo pubblico non
autorizzata ed è stato picchiato in pubblico per ben 4 volte. A questo già pesante bagaglio si aggiunge un numero indefinibile, un migliaio almeno, di quelle che senza ombra di dubbio possono essere considerate delle legittime
“iniziative politiche”, campagne di affissioni, scioperi della fame. Ha subito
un sabotaggio, vandalismi, lesioni alle proprietà, pignoramenti, boicottaggi, diffamazioni a mezzo stampa, incarcerazioni e un internamento prolungato in manicomio criminale. In tutta onestà non si può sostenere che
Carlo Sabattini non sia il “numero uno” in fatto di attivismo civile e politico
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svolto in difesa dell’ambiente. Per questo, quando i Verdi vanno da lui la
prima volta, chiede di essere candidato non solo al Comune, ma anche alla
Regione. Sabattini è consapevole che l’istituzione regionale è l’unica che ti
può mettere a disposizione un numero di risorse tali da investirti di una
sorta d’invincibilità così che chi, come lui, vuole combattere una battaglia
tanto epocale quanto sgradita ai “poteri forti” possa farlo senza correre
rischi. Una volta eletto potrà finalmente pagarsi la stampa del suo libro
bianco, promuovere indagini e perfino comprare gli spazi sui giornali dove
saranno pubblicate le segnalazioni di questo o quell’altro reato ambientale.
Per dovere di cronaca bisogna ricordare che gli emolumenti del Consigliere
comunale erano pari a zero e non come ora il cui ammontare varia da
comune a comune, ma senza superare mai i 1.500 euro e cioè lo stipendio
di un operaio specializzato. Sabattini vuole cambiare il mondo, ma lo vuole
cambiare da solo e questo i verdi l’hanno capito e hanno capito anche che
se quell’uomo ha finito per diffidare della natura stessa delle associazioni
umane, figurarsi cosa potrà mai pensare dei partiti politici definiti nelle
campagne di affissioni dei “covi di potere a delinquere”. Ritiene che siano
ormai troppi gli accordi segreti stretti sulla pelle dei cittadini e troppi i giochi incomprensibili dei politici. Trame invisibili che nulla hanno a che vedere con la giustizia sono tessute nelle segrete stanze delle segreterie. Questo
crede senza farne mistero con nessuno.
Il patto che propone Sabattini ai Verdi è lineare: voi vi prendete la mia
popolarità e in cambio mi concedete l’invincibilità. Col cavolo che i verdi
avrebbero potuto starci! Non ho mai sentito che qualcuno sia riuscito a
fare un accordo dove il partito diventa il contraente che ci guadagna meno.
Anzi, impari il lettore questa regola: chi vi chiede di stringere un patto dove
da una parte c’è la vostra popolarità, o il talento, o la storia passata di una
persona e dall’altra un mancato guadagno per il partito, nove volte su dieci
vuole fregarvi e chiedetelo pure a tutti quelli, e sono tanti, che si comprano il loro posto in parlamento firmando un assegno.
Va bene – gli dicono i Verdi - ti candidiamo in entrambe le liste, quella di
Modena per il Comune e quella di Bologna per il Consiglio Regionale.
Siamo d’accordo anche che ti stampiamo il libro bianco e ti procuriamo tre
avvocati in grado di difenderti. Anzi per diffondere il libro bianco stanziamo addirittura cento milioni.
Nessuna delle promesse, ovviamente, sarà mantenuta compresa quella che avrebbe cambiato la storia dell’ambientalismo in Italia: l’elezione di
Carlo Sabattini al Consiglio Regionale. Di questo mi dico convinto perché
l’entrata di Sabattini in un’istituzione dove sono prese le decisioni veramen72
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te importanti e dove ancora sono istruiti tutti quei procedimenti d’inchiesta che consentono di conoscere la verità fino in fondo, l’avrebbe fatto crescere e insieme a lui sarebbe maturato il partito dei verdi. Sabattini era
senza ombra di dubbio un genio, solo e disperato, ma pur sempre un genio
la cui avversione per le aggregazioni umane si sarebbe certamente affievolita di fronte al riconoscimento ufficiale del suo valore. Infatti, l’unico tratto che è mancato a questo barricadiero ecologista, che gli avrebbe permesso di entrare in pompa magna dentro ai libri di storia senza dover essere
per forza riscoperto da un ecologista (rapinatore di banche, dedito all’ozio
e ai vizi, attore mancato e disegnatore di merda, gran maestro di tic tac) è stata
l’empatia. Se Sabattini fosse vissuto a lungo avrebbe certamente perso
quell’ostinazione cieca che nasce quando la passione si trasforma in un’ossessione. Raffreddandosi, come l’acciaio che si tempra nelle tranquille
acque del consiglio regionale, avrebbe incominciato ad indagare in profondità gli uomini facendo di molti scettici dei fedeli alleati, così da non sentirsi più solo contro il resto del mondo. Sarebbe diventato calmo e riflessivo, in una parola: implacabile. Se così fosse stato, se Sabattini fosse vissuto e col tempo fosse cresciuto nella sua stessa leggenda, noi tutti avremmo
avuto un partito verde di ben altre dimensioni. Ma con i “se” e con i “ma”
non si scrive la storia e i Verdi elessero altri, e non Carlo Sabattini, in
Consiglio Regonale.
Sabattini nel libro bianco dedica un intero capitolo - intitolato “storia
di una strumentalizzazione” - alla mancata elezione in consiglio regionale e
scrive: “Ed il giochetto è servito a favorire altri candidati che, pur avendo ottenuto circa
un terzo in meno delle mie preferenze sono stati eletti” ed è interessante notare che
anche Giorgio Celli, molti anni più tardi, quando verrà eletto al Parlamento
Europeo nel 1999, denuncerà un altro “giochetto” consumato alle sue spalle
dagli stessi verdi. Ma di questo parlerò in maniera approfondita più avanti.
Sabattini ne fa poi una questione politica affermando che le numerose omissioni dei verdi (che descrive una ad una e che sarebbe troppo lungo
riportare per esteso) “erano in contrasto con i principi dei Verdi che si erano impegnati a dare pubblicità a tutto ciò che non funziona nelle varie amministrazioni pubbliche”. Non immaginava certo che i Verdi sarebbero diventati una colonna
portante di quel cartello elettorale passato alla storia con il nome di Ulivo che
ha permesso a molte delle allora amministrazioni pubbliche di essere riconfermate all’esercizio del potere molti anni dopo questa storia. Non lo
immaginava e non avrebbe neppure potuto crederci perché il movimento
verde, secondo lui, sarebbe dovuto essere una formazione politica trasversale e per questo disponibile ad allearsi con tutti, se non anche col Diavolo,
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pur di ottenere una rigorosa difesa ambientale. I verdi come un partito sentinella, custode del buon giornalismo perché chi non ha niente da nascondere non teme le inchieste, compagni di lotta e solo qualche volta - quando gli alleati non proteggono gli stessi inquinatori - di Governo. Un partito che rinnega le ideologie passate, le aristocrazie, i salotti, per sposare le
verità scientifiche e le leggi. Un movimento duro e disinteressato che abolisca le sezioni ed elegga la strada a luogo di sperimentazione. In gruppo o
da soli, ma sempre in campo con catene, megafoni e cartelli. Un partito civico - ecologista alla Beppe Grillo (che non si accorda con nessuno), giustizialista alla Marco Travaglio, (ma un Travaglio inedito che per una volta si
dimentica di Berlusconi per salire sul gommone di Green Peace che naviga il
fiume Po per dare la caccia ai dragatori abusivi di sabbia) e movimentista,
non autoreferenziale alla Casarini, semmai variegato quanto i manifestanti
che si sono ritrovati a Genova nel 2001, dagli scout ad Amnesty International.
Per questi motivi Carlo Sabattini nel giorno in cui sarebbe dovuto
andare a festeggiare con i suoi compagni, se ne va dalla conferenza stampa dei verdi sbattendo la porta. Anzi, scende in strada e con alcuni giornalisti che l’hanno seguito improvvisa una conferenza stampa tutta sua.
Come per dire che lui non ha tempo da perdere e neanche voglia di stare
dietro alle beghe dei partiti, siano questi i Verdi o chi per loro. Ha di meglio
da fare e rilancia denunciando l’urbanizzazione della zona circostante la
sede del Sesto Campale. Dice di possedere dei documenti scottanti che si è
procurato prima di essere recluso e con grinta dichiara: “da qui ricomincia la
mia battaglia!” (RdC 10/7/1985)
È il Sabattini di sempre. La prigionia non è riuscito a fiaccarlo. Avanti a
forza nove! Avanti tutta, anche senza i Verdi.
Infatti da lì a poco il divorzio sarà inevitabile.
I verdi: “caro Sabattini sei proprio una sciagura!”.
Ecologisti e consigliere ai ferri corti.
Tratto dal Resto del Carlino del 28/9/1985
Sabattini torna ecologo. Verde non è più il suo colore.
Dopo le polemiche Vinceti e i suoi prendono le distanze.
Dialogo impossibile, richieste insensate ed eccessivo individualismo.
Tratto dalla Gazzetta di Modena del 28/9/85
I verdi: “Carlo Sabattini non ci rappresenta più”.
Ha rifiutato di attuare il nostro programma. Ha rifiutato la rotazione
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in Consiglio Comunale. Ha rifiutato il rapporto con la “lista verde”.
Si è chiuso in un individualismo esasperato.
(ibidem)
La prima frase che pronuncia non appena mette piede in consiglio
comunale è: “grazie tante, ma niente sconti!”. Nel discorso di apertura è ancora più duro, ma nessuno dei presenti se ne duole perché gli hanno dato un
microfono che gracchia. Solo Fiori, del PSI, gli fa notare che sono finiti
entrambi dentro al “tempio degli ipocriti”. Ma i giornalisti non l’hanno ancora perdonato e continuano a ironizzare tratteggiando scenette sul genere
del ragazzo selvaggio che viene forzatamente educato dal dott. Jean Itard nel
film di Truffaut.
Un “verde” a lezione di galateo.
Ha partecipato alla riunione dei capigruppo per imparare “le regole di
comportamento”.
Tratto da La Gazzetta del 12 luglio 1985 e scritto da Stefano Lusardi.
Da che mondo è mondo, le lezioni di comportamento non sono mai
state impartite in sede di “conferenza dei presidenti” o così detta “capigruppo”
che collabora semmai all’organizzazione dei lavori consiliari. Per questo
ogni Consigliere deve conoscere in anticipo ogni regolamento se vuol confutare o approvare l’ordine di svolgimento del Consiglio Comunale. Ma ciò
è del tutto ininfluente dal momento che il giornalista nello stesso articolo
dirà che “Sabattini parla con un microfono maledetto che… distorce e rende ancor più
confuso il suo discorso” – questo – “Perché lui non è un parlatore, non è un uomo
di cultura, non ha dialettica”. E scriverà ancora che è “farraginoso e incoerente”.
Inutile ricordare che i quotidiani dell’epoca erano spesso finanziati attraverso le inserzioni pubblicitarie acquistate degli stessi industriali che investivano in molte delle attività combattute dall’ecologo. Il dileggio è continuo.
Sabattini stia calmo! Bagarre in Consiglio Comunale.
Si era “scaldato” per la macchia oleosa del 25 gennaio. Intervenuti i questori.
Tratto da La Gazzetta del 9 ottobre 1985
Nessuno mi può sopportare
“Carlo Sabattini prima divorzia coi verdi che lo hanno eletto consigliere. Ora paralizza il Consiglio: fa perdere sedute e sedute ed è in lite con
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tutti. Carlo Sabattini non è una sciagura soltanto per i compagni di partito che lo hanno fatto eleggere, e che adesso lo hanno già ripudiato
(dicono: è insopportabile, fa tutto da solo, litiga con tutti). Stanno perdendo la pazienza anche i suoi colleghi consiglieri, l’ultima seduta del
Consiglio è stata un vero florilegio d’invettive, dopo il solito litigio su
una questione d’inquinamento di cui si è riparlato. Il Comune come è
noto ha denunciato i titolari di una ditta che l’inverno scorso avrebbe
riversato nel Naviglio quintali di olio combustibile, e si è costituito parte
civile”.
Dal Resto del Carlino del 9 ottobre 1985
Si noti il titolo: nessuno mi può sopportare. Non è virgolettato e quindi non
si tratta di una frase pronunciata dallo stesso Sabattini, ma scritta così si
lascia supporre che lo sia. Bisogna poi ricordare che si era diffusa la moda
di canzonare Sabattini canticchiando per le strade il motivetto di Caterina
Caselli opportunamente riadattato: “nessuno mi può sopportare nemmeno tu. La
verità mi fa male, lo so…”. Storie di ordinaria provincia, ma torniamo all’articolo. L’elemento centrale del dibattito viene etichettato come “il solito litigio” su una non ben definita “questione d’inquinamento” che poi tanto indefinita non è se è vero che il comune ha speso oltre 100 milioni per recuperare il combustibile. Sicché il lavoro del giornalista non consiste nel capire
se effettivamente il Comune - come sostiene Sabattini - non usa tutti gli
strumenti di cui dispone per perseguire i colpevoli o se i tecnici dell’Amiu
hanno agito con competenza o ancora, se l’assessore ha occultato le prove
che confermano l’avvenuta “fuga di olio dagli impianti Amiu di via Caruso” (ibidem), ma si trasforma nella cronistoria di un “insopportabile” consigliere
comunale che “interviene a tutti i dibattiti che si svolgono in città” e si “aggira
impassibile nelle ore del mattino davanti agli uffici comunali brandendo fascicoli” e che
“di tanto in tanto chiede qualche chilo di documenti che si affrettano a dargliene quintali” (ibidem). Tutti questi elementi, indicatori di una encomiabile dedizione al lavoro di consigliere, sono ridicolizzati e presi a pretesto per dimostrare la crescente insofferenza nata intorno al “fastidioso” protagonista di
questa storia. Ed è certo che i colleghi Consiglieri non lo sopportano quel
rompiscatole di un “Don Chisciotte” senza macchia e senza paura. È così
testardo da negarsi - e negare ai compagni - i benefit che derivano dall’appartenenza a quella che oggi chiamano “casta”. Non a caso, nell’agosto del
1985, due mesi prima dell’articolo che denuncia il “diffuso malessere”,
Sabattini aveva sdegnosamente restituito la tessera concessa
dall’Amministrazione per entrare gratuitamente alla piscina comunale: “Se
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voglio entrare in piscina pago come tutti gli altri” - aveva abbaiato – “Cosa sono questi privilegi? Quante di queste tessere gratuite sono rilasciate? A chi? Fuori i nomi!
Quanto costa questa generosità alle tasche dei cittadini?” Si tratta indubbiamente
di una persona insopportabile, soprattutto per chi vuole entrare in piscina
gratis. Ma c’è una cosa, una cosa soltanto, che più di ogni altra, rattrista
Carlo Sabattini ed è l’essere bollato come pazzo pericoloso. D’altronde, chi
lo ha rinchiuso dentro a quella definizione è consapevole che non c’è prigione migliore di quella landa grigia che fonda la sua esistenza sul dubbio.
Così che tutti si devono chiedere: Carlo è veramente pazzo? O, al contrario, è vero tutto quello che afferma e cioè che nessuno persegue i crimini
commessi in nome di un’economia in ascesa? Meglio, molto meglio, far
prevalere la riposta alla prima domanda così che nessuno possa vedere in
quel contadino ignorante un Guevara della bassa. Che il boia risponda alla
prima domanda con la scure delle decisioni definitive e che Carlo Sabattini,
agricoltore di Nonatola, che visse e combatté per difendere i campi e i fossi
dalla brama di denaro dei suoi simili, sia consegnato all’eternità della storia
come “demente” e lì abbandonato per sempre. Malgrado Sabattini non sia
un soggetto pericoloso che deve essere internato in manicomio è comunque folle.
A quei tempi si mise in atto una strategia che ultimamente va molto di
moda: ti dichiarano colpevole, ma il reato è prescritto. Come dire che sei
libero, non marcirai in galera, ma chiunque incontri per la strada ti può dare
del ladro, del mafioso o del pazzo senza doverti pagare i danni. Un esilio
dalla rispettabilità.
La Cassazione ha deciso: il consigliere verde è pazzo.
Carlo Sabattini, l’ ecologo contestatore di Nonantola, è sano di mente.
No, è completamente pazzo. La figura dell’ estroso consigliere comunale, internato per tre mesi in manicomio giudiziario, è destinata a
diventare un caso nazionale. In un curioso balletto di perizie lo si definisce un giorno sano di mente e il giorno dopo pazzo. Solo l’ altro ieri
Sabattini aveva annunciato che la corte d’ appello di Firenze (dove ha
in corso alcuni procedimenti penali per oltraggio e calunnia nei confronti di magistrati modenesi) lo aveva dichiarato sano di mente... Ieri
però, all’ ufficio istruzione del tribunale è arrivata una sentenza della
corte di cassazione che conferma la totale infermità di mente di
Sabattini. Chi ha ragione? Difficile stabilirlo, anche se la sentenza della
suprema corte è inappellabile e tra l’ altro c’è ora la possibilità che Carlo
Sabattini venga dichiarato decaduto dall’ incarico di consigliere comu77
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nale. Questo comporterebbe un’ altra conseguenza: l’annullamento di
tutte le delibere votate dall’ ecologo in consiglio. Sono solo due o tre,
dicono in municipio a Modena, ma intanto della questione hanno investito l’ ufficio legale. Forse sarà necessario disporre una superperizia
che stabilisca una volta per tutte lo stato psichico di un personaggio
destinato a far discutere ancora”.
Da Repubblica del 19 novembre 1986
Carta che taglia e inchiostro che brucia! Sabattini è affranto, disperato,
deluso. Come potrebbe non esserlo di fronte alla notizia di una tale durezza. Ma poi si riprende: pazienza! Si dice.
La battaglia continua! Questo è l’unico fatto che conta.
I cattivi compagni
Ricordate cosa scrisse il pretore per dimostrare la pazzia di Sabattini?
Chiamò in causa le “manie di persecuzione” che lo dominavano, in particolare scrisse:
“…ma v’è di più: da tempo il Sabattini proclama che “bande di picchiatori si aggirano per Modena per colpirlo”. Diede così per scontato che
non c’era nessuna squadra investita del compito di andare a caccia di ecologisti.
È la sera del 9 settembre del 1988 quando Carlo Sabattini si aggira per
gli stand della Festa dell’Unità dove è stato invitato ufficialmente. Il titolo di
quella edizione che campeggia in ogni striscione è il rosso nel verde ed è stato
scelto per alludere al fatto che la kermesse si tiene in un rigoglioso parco alle
porte di Modena. Ma riletto a distanza di tempo sembra un segno premonitore, foriero di sventura. Il rosso, rosso come il colore dei comunisti e il
verde, verde come Sabattini. Carlo trova il modo di polemizzare con alcuni militanti di Amnesty International, ma poi preferisce farsi un giro, comprare un paio di libri e raccogliere qualche depliant. Si accorge che alcune persone lo seguono con fare molto discreto. Incomincia ad osservarli senza
farsi notare e loro spariscono, ma poi ricompaiono come fantasmi nell’ombra, tra la folla spensierata, dietro ai tavoli dei ristoranti. Si rassicura: ma sì,
non preoccuparti! Sono solo agenti in borghese che mi tengono d’occhio.
Raggiunge la sala centrale dove si svolge un dibattito sul risanamento del
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Po. È stanco e vorrebbe tornare a casa, ma poi si convince a restare nel
caso che a qualcuno salti in testa di raccontare le solite balle, così resiste
fino a sera inoltrata. Stefano Marchetti sul Resto del Carlino continua il racconto di quella sera:
“…tutti si attendevano un suo intervento, magari provocatorio e polemico, e invece il consigliere era rimasto tranquillo, forse un po’ annoiato: a quel punto, verso le 22 se ne era andato. Come era avvenuto già
in altre occasioni, il PCI e l’UIGOS avevano disposto che un paio di
uomini “tenessero d’occhio” Sabattini, in maniera molto discreta.
Volevano evitare che lui stesso potesse passare dei guai – riferisce
Alberto Benvenuti, Portavoce Ufficiale del PCI –. Quando Sabattini si
è avviato al parcheggio gli uomini l’hanno “lasciato”. - (Quali uomini
lo lasciano solo? Gli agenti dell’Uigos o i volontari del servizio d’ordine? Il giornalista non lo chiede, ma continua a scrivere senza dar troppo peso a queste sfumature) - “Purtroppo in seguito è capitato quello
che non avrebbe assolutamente dovuto succedere”. Infatti, Sabattini
stava per salire in auto quando si è sentito chiamare da alcuni sconosciuti: non ha fatto neppure in tempo a rendersene conto, che già un
pugno lo aveva colpito in pieno volto”.
( “Assalito e percosso Carlo Sabattini” 7 settembre 1988)
Al primo cazzotto ne seguono altri, più dolorosi e violenti, come si
conviene ad un pestaggio in piena regola. Gli sembra di essere colpito alla
testa con un ferro di cavallo, ma non lo vede bene. È buio! …forse è il calcio di una pistola, di quella pistola che sparì dal Comune di Nonantola due
anni prima? Non importa sapere da dove venga quell’oggetto contundente perché ormai Carlo giace a terra tramortito, si contorce dal male, e non
ha il tempo di pensare ad altro, duramente percosso com’è da tutti quei
calci. Trova la forza di gridare a pieni polmoni fino a quando gli aggressori non scappano impauriti dall’arrivo dei soccorritori richiamati dalle urla
disperate. Lo ricoverano in ospedale dove gli viene diagnosticato un trauma cranico facciale con una frattura orbitaria sinistra e contusioni su tutto
il corpo. La prognosi, salvo complicazioni, è di 25 giorni e di questi, cinque, li passerà ricoverato in ospedale. A questo punto tutti si aspettano che
Sabattini andrà in escandescenze non appena si sarà ripreso e invece lui
trova persino la maniera di scherzarci sopra con il primo giornalista che lo
va a trovare: “Ecco vede cosa succede a chi si batte per delle cause giuste?
Guardi un po’:” – mostra lividi e ferite – “mi hanno picchiato, mi hanno
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trattato come una bestia. E poi dicono che sono un Don Chisciotte: quelli menavano duro, altro che mulini a vento!”(ibidem). Dopodiché, dando
prova di un’umanità smisurata, arriva persino a capire il gesto disperato degli
aggressori e al giornalista che gli chiede come mai usi tanta comprensione
verso di loro, porge l’altra guancia: “Sì, non li accuso e se riconosceranno
quello che hanno fatto sono anche disposto a perdonarli. L’ho detto chiaramente (…) fino ad ora non ho fatto nessuna denuncia, tutto è partito
d’ufficio. E se i responsabili diranno la verità non sporgerò querela nè mi
costituirò parte lesa in sede di giudizio”. Non è buonista per partito preso
o perché le circostanze lo rendono ancora più magnanimo di quello che già
appare, ma solamente ritiene che i suoi aggressori siano figli di: “…una cultura politica che condiziona le persone e che non lascia spazio nemmeno
per la ribellione pacifica. Questa cultura sbagliata e assurda, nel caso della
mia aggressione ha avuto come risultato di rovinare tre famiglie di gente
perbene” (La Gazzetta del 11/9/1998). Proprio così, per Sabattini, i suoi
aggressori appartengono a “famiglie di gente perbene”. Avrebbe potuto chiamarli picchiatori, fascisti, nazisti, boia e rievocare l’olio di ricino, le macchine da scrivere buttate dalla finestra, il confino per i dissidenti, i manganelli, l’omicidio Matteotti, Stalin, i Gulag. Invece preferisce combattere la cultura della “negazione del dissenso” che nasce nei regimi totalitari per poi infiltrarsi subdolamente in tutti i partiti, finanche in quelli che più degli altri
credono nella democrazia. Andrea de Pietri, Consigliere Comunale del PSI,
qualche giorno dopo l’intervista descriverà così quella stessa cultura: “Una
cultura incapace di qualsiasi dubbio, che si sostanzia nel semplice presupposto che esiste una sola verità e, rispetto a questa, il mondo si divide in
due: chi l’ha capita e chi non l’ha capita. La tolleranza per questo modo di
pensare, si limita a permettere che chi non l’ha ancora capita, un giorno,
finalmente la capirà. Una cultura totalizzante, certamente minoritaria nell’attuale partito comunista, ma ancora saldamente presente. Basti solo
ricordare che lo stesso Luciano Lama si è battuto contro i rimasugli di questo autoritarismo egemonico e, dalla tribuna del congresso comunista, ha
affermato rivolto al partito: bisogna che ciascuno di noi superi il fastidio
delle opinioni diverse” (Gazzetta di Modena, “4/9/1985).
Sabattini sostiene di aver riconosciuto i suoi aggressori. A malmenarlo
sarebbero stati in tre e farebbero parte del servizio d’ordine del PCI. Li ha visti
più volte, in altre occasioni, ai dibattiti e in corteo. Non li conosce per nome,
ma si dice certo di poterli riconoscere dalle fotografie. Scattano le indagini e i
responsabili della festa dell’Unità, così come lo stesso partito comunista che nel
frattempo ha condannato fortemente l’aggressione, offrono la massima colla80
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borazione agli inquirenti, almeno in principio. Sono ascoltati i testimoni e rivoltate le sezioni come calzini, ma proprio quando stanno per essere presi i colpevoli, questi escono alla luce del giorno e confessano di essere loro gli artefici del
pestaggio:
Autodenuncia: “L’abbiamo picchiato noi”.
“Consegnano la tessera i due del servizio d’ordine alla festa dell’Unità di
Modena autori della violenza contro il Consigliere Comunale verde… Si
sono presentati spontaneamente in questura l’altra sera” – la consegna
volontaria è rimarcata per la seconda volta nell’articolo anche dal capo
dell’Uigos Enzo Stingone – “…in modo responsabile si sono presentati spontaneamente. Erano mortificati,” – per un attimo sembrano quasi due monelli che
hanno rotto i vetri di una finestra e non i due quarantenni di costituzione
robusta che hanno malmenato un uomo più vecchio di quasi vent’anni –
“…hanno capito di averla fatta grossa. Hanno ammesso le loro responsabilità”.
(L’Unità. 9/9/1988)
Ma non è solo l’Unità a trattare i due aggressori con guanto di velluto. Anche
le altre testate descrivono due persone dal volto umano, affrante e sconfortate.
In tutt’altra maniera avrebbero raccontato i fatti se al loro posto ci fosse stato
l’ecologo matto e mi sia consentito per un momento di sdrammatizzare il crescendo della tragedia.
Il PCI piange il compagno “Otto”. Condanne, ma anche affetto
per Torquato Grassi. C’è anche chi pensa ad un suo sacrificio.
“..Torquato Grassi, detto “Otto”, portinaio della Federazione di
Modena e Ovilio Musatti, carpigiano, tutti e due iscritti al partito da
una vita, militanti esemplari, hanno restituito la tessera e se ne sono
andati con un groppo alla gola. Anni e anni di militanza severa, fedele, appassionata, bruciati in un attimo.Tutti questi anni bruciati nel
parcheggio del festival. Mille volte hanno avuto i nervi saldi, l’altra
sera sono esplosi. In federazione Torquato Grassi, detto Otto, è il più
conosciuto, forse il più amato. Baffi rigogliosissimi e cipiglio fiero, un
po’ duro, ruvido in superficie, ma assicura chi lo conosce bene, tenero e generoso sotto la scorza. Era un pompiere, dice un compagno
all’ombra di uno stand. Uno che ha sempre cercato di placare gli
animi e non ha mai fatto il duro”.
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Nel seguito dell’articolo si rilevano alcune informazioni che sono molto
interessanti, soprattutto se si considera che sono presenti all’interno di un
racconto che tenta in tutti i modi di costruire un alone di casualità intorno
all’accaduto e ci riesce dopo aver umanizzato i responsabili del pestaggio.
Il cronista, imbastendo una confusa strategia assolutoria nei confronti di
Otto, finisce inconsapevolmente per lanciare un’ulteriore ombra di mistero sull’accaduto.
“Il compagno Otto” - continua a raccontare il compagno all’ombra di uno stand -“..nel servizio d’ordine ci stava proprio per questo,
per la sua affidabilità. Del resto aveva la responsabilità della portineria. In federazione tutti si fidavano di lui. Proprio non riesco a capire,
non me lo sarei mai aspettato. Katia Mussati la centralinista della federazione che con Otto ci ha lavorato gomito a gomito lo conosce e gli
vuole bene. Nemmeno lei riesce a crederci: ‘quando l’ho saputo sono
rimasta senza parole. Una di quelle cose che fanno venire la pelle
d’oca. Stamattina è venuto qui per restituire la tessera e salutare i compagni. Non ho avuto il coraggio di parlargli. Ma non mi stupirei se si
fosse autodenunciato per coprire qualcun’altro.”.
La Gazzetta del 10/9/1988 di S. Gimelli
Ora si tratta solamente di leggere tra le righe e mettere insieme tutti i
pezzi, questa volta secondo uno schema diverso da quello tracciato. Se è
vero quanto abbiamo appena letto, e diamo per buono che lo sia, Otto è
una persona in gamba che non ha mai perso le staffe, è rude - il che non
guasta - e con “i nervi saldi” del pompiere. Otto è un veterano iscritto “da
anni e anni” al PCI, tanto da poter essere considerato un “militante esemplare” di grande “affidabilità”. Non a caso “si fidano tutti di lui”. Infine è di
animo “generoso”, così altruista che la sua collega più stretta non si stupirebbe “se si fosse autodenunciato per coprire qualcuno”.
Riassumendo, Otto è un elemento fedele, fidato e tutto d’un pezzo. A
uno come lui - in nome e per il bene del partito - si può affidare qualsiasi
incarico, anche il più delicato. Ma i fatti vanno per il verso sbagliato ed è
una vera fortuna che Otto sia anche un tipo generoso. Devi prenderti la
colpa tu - gli viene ordinato - tu e quell’atro Mussatti che ti sei portato dietro, proprio lui, quello di Carpi. Lui accetta a denti stretti, incassa, ma si
domanda perché il terzo aggressore deve rimanere sconosciuto. Ed è quello che la stessa giustizia dovrebbe domandarsi a distanza di quasi vent’anni. Perché il terzo uomo è rimasto segreto? Quale prestigiosa carriera ha
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intrapreso? Chi si è voluto coprire? È diventato Onorevole? Senatore?
Sindaco? Consigliere regionale? Presidente di una municipalizzata?
Oppure, come accade in tutti i misteri italiani, si è trattato di un agente di
chissà quale servizio segreto? Le domande che non sono state fatte si sprecano e vale la pena ripeterle, ancora una volta, ad alta voce: perche gli
uomini dell’Uigos hanno lasciato solo Sabattini prima che entrasse nel parcheggio? Ma non erano insieme al servizio d’ordine della festa dell’Unità?
Perché, come domanda lo stesso Sabattini in un esposto depositato dopo
il pestaggio, nessuno gli ha mai mostrato una sola foto segnaletica dei possibili sospettati e neanche i ritratti di tutti i membri del servizio d’ordine,
malgrado lui avesse espresso più volte questo desiderio alle forze dell’ordine?
La lettura del libro bianco è terminata. Prendo la busta che mi ha consegnato la signora Lina Ratti, la moglie di Carlo. Me l’ha data quando sono
andata a trovarla. Mi ero portato la telecamera perché pensavo che avrei
voluto dedicare al marito un documentario, ma lei rifiutò l’intervista e io
mi trovai in difficoltà senza poter disporre di una guida audio. Si scusò
dicendo che temeva sarebbero riprese le ostilità con le quali avevano perseguitato il marito per tutta la vita.
“È stato lui stesso a chiedermelo quando incominciò a sentirsi stanco sul
finire degli anni ottanta”- mi disse la signora Ratti e aggiunse – “lascia che
la maledizione che mi sono tirato addosso muoia con me. Usò proprio
queste parole”. Anche oggi, a distanza di tempo, di tanto in tanto, quando
sento risuonare questa frase nella mia mente mi viene da piangere. E non
me ne vergogno. Piango e rifletto su come è stato ripagato quell’uomo che
voleva soltanto difendere la natura. Una vita spesa contro tutti per il bene
di tutti. Questo è il paradosso della ballata di Carlo. Mi rivedo in casa sua
seduto di fronte a quella cara signora della moglie, in quel caldo pomeriggio di cui non ricordo nemmeno più la data esatta. Lina mi consegnò il
libro bianco prima ancora che potessi sedermi, come se si trattasse della
prova ineludibile che suo marito era nel giusto. Dopo rovesciò sulla tavola
una scatola di ritagli di giornale che aveva messo da parte dopo la morte
del marito, delle foto, lettere di cittadini e toccandoli uno ad uno mi raccontò alcuni aneddoti. Mi incantai ad ascoltarla e il tempo volò. Mi fece un
caffè forte e profumato e al volgere della sera mi accompagnò alla macchina. Prima di salutarmi m’indicò la porcilaia che aveva dato origine a tutto,
l’Hiroshima delle deiezioni che in fin dei conti aveva avuto la meglio trasformando Carlo Sabattini in un’ombra impressa nel nulla delle storie sconosciute. La fabbrica era ancora là, al suo posto. Irremovibile e spettrale. Una
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chimera dal corpo di cemento, con le viscere rigonfie di maiali vivi, morta
fuori e viva dentro. Un mostro gemente di mille grugniti soffocati. Di fronte a lei, dall’altra parte della strada che avevo percorso per arrivare lì, c’era
il terreno contaminato dalle defecazioni suine, recintato e inagibile, quasi
fosse una sorta di mausoleo vivente eretto in onore delle gesta di Carlo.
Non osai chiedere se avevano smesso di scaricare nel fosso la merda di
maiale. Non domandai per paura di perdere le staffe e decidere di abbandonare il libro che intendevo scrivere per concedermi, anima e corpo, al
lato oscuro della vendetta. Ma gli impulsi presero ugualmente il sopravvento e guardai nel fondo del fosso. L’acqua era limpida, non c’erano rane in
giro, solo un tubo dalla cui fauce fuoriusciva una ciocca di filamenti neri
che vibravano nella corrente fino a perdersi alla vista. Alghe, forse…
Srotolate nelle viscere delle terra come tumori dell’epidermide. Presi un
frammento di terra e lo misi in tasca sapendo che a casa l’avrei chiuso in
un barattolo di vetro con scritto sopra “Terra di campagna difesa da Carlo
Sabattini. Prelevata nel 2007 dopo Cristo a Nonantola”. Un giorno, prima
di morire, lo regalerò a mio figlio in maniera che si chieda il perché di quello strano souvenir e subito dopo sia spinto a pensare che ciò che ognuno di
noi pesta coi piedi ogni giorno non è solo materia inanimata, ma la pelle di
quella meravigliosa creatura che ci ospita sul dorso, quella stella spenta,
occhio azzurro posato sul mantello nero dello spazio, che tutti noi chiamiamo Terra. Il nostro pianeta.
Carlo morì d’infarto 5 mesi dopo il pestaggio. Così è stato detto perché, stando a quanto riferito dalla moglie, l’autopsia si svolse senza il perito di parte malgrado la famiglia ne avesse fatto specifica richiesta. Perché?
“…la chiave di lettura dell’esposto è da intendersi proprio in relazione a quest’ultimo episodio. Lina Ratti infatti chiede si accerti
“L’eventuale nesso di causalità tra le lesioni subite in quella circostan84
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za e la morte” del marito. La moglie di Carlo Sabattini afferma di essere stata indotta a presentare questo esposto, che sarà materialmente
depositato dal suo legale, Enrico Aimi, sulla scorta delle testimonianze di alcuni presenti al momento del mortale malore del Consigliere
Verde. “Un attimo prima di morire – riferisce infatti Lina Ratti – pare
che Carlo si sia portato entrambe le mani alla tempia nel punto dove
era stato colpito dal primo pugno infertogli dagli aggressori all’uscita
dal festival”.
“Esposto sulla morte di Sabattini”
pubblicato su La Gazzetta dell’11 febbraio 1989
Vi è poi un’altra circostanza inquietante da segnalare. Carlo Sabattini,
nei giorni precedenti alla morte, sembra che abbia confidato “a più di una
persona” di aver incontrato e quindi riconosciuto il terzo aggressore (La
Gazzetta del 12/2/89). Proprio lui: il terzo uomo che ancora oggi non è
ancora stato identificato. Ed è da questa mancanza che nasce l’ultimo interrogativo: perché le persone con le quali Carlo Sabattini si è confidato non
sono mai state individuate e tanto meno interrogate? Questa domanda non
ha ancora trovato una risposta e sarebbe doveroso conoscere la verità
anche a distanza di tanto tempo. Ma temo che non sarà facile perchè ci
siamo ormai abituati alle stragi impunite, alle domande non fatte, alle prove
sparite, ai depistaggi. Da piazza Fontana alla strage del 2 agosto, da Ustica
ai recenti fatti di Genova.
I grandi uomini, morendo, lasciano un vuoto incolmabile, ma anche
un inevitabile, insidioso, velato, sollievo. Cerchiamo di essere come loro,
ma non del tutto. In fondo, il genio è solitudine. Molto meglio, allora, i
modi consueti della politica con una sfumatura eroica e niente di più. Ma
se sono stati proprio “i modi” a fare la differenza, a far sì che ogni porcilaia non infesti i fiumi, perché rinnegarli? La quiete dopo la tempesta, a
Carlo subentrò la normalità di sempre.
“I radicali assieme a 869 elettori ti ricordano. Il messaggio, appoggiato ad un mazzo di fiori, è stato l’ultimo saluto che i sostenitori
del Consigliere Comunale della lista Verde, Carlo Sabattini, hanno
affidato al banco vuoto poco prima dell’inizio della seduta di ieri.
Con la surrogazione del Consigliere deceduto, proprio una settimana fa, fra le stesse pareti della residenza Municipale, si è aperta la
riunione che ha votato all’unanimità l’ingresso del nuovo rappresentante della lista verde. Mazzacani, nel dichiarare fedeltà alla coe85
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renza di vita espressa da Sabattini, ha poi anticipato che la sua linea
di condotta politica non adotterà gli stessi metodi del Consigliere
scomparso, anche se identica sarà la tenacia, il desiderio di trasparenza, la difesa dei diritti individuali e collettivi”.
Luce Tommasi sulla Gazzetta di Modena del 17/02/1989
Nel corso della sua vita Carlo Sabattini fu diffamato. Era spesso chiamato dai giornali, non da tutti per fortuna, “matto”, “figura non qualificata”,
“ecologo camuffato”, “ contestatore”, quando andava bene e “mattocchio” cercando di fare della satira da “Bagaglino”, ma anche “bieco figuro” e “contadino ignorante”. Solo nei coccodrilli stampati dopo la sua morte si incominciò a parlare di lui come di un Don Chisciotte moderno. Fu perseguitato in
mille modi – girava in auto con quattro pneumatici nuovi nel baule perché
non passava un giorno senza che qualcuno gli tagliasse le gomme – fu
internato come malato di mente, privato dei suoi diritti civili, malmenato,
pignorato nei suoi beni, isolato come rappresentante pubblico, screditato,
infangato, dimenticato dalla storia e dai suoi concittadini, infine bollato per
sempre come “malato di mente”. Tutto questo perché qualcuno - almeno si
sapesse chi - nelle segrete stanze del potere decise che si potevano bellamente inquinare i fiumi per incrementare i profitti. Mi domando se gli
oppositori di Sabattini non avrebbero impiegato minor fatica installando
qualche depuratore. Ci voleva tanto? Forse aveva ragione Marco Pannella
nel rispondere ad un giornalista in questo modo:
“Sabattini è un pazzo? No, i veri matti sono gli altri!”
Ed è forse questa la frase che meglio di ogni altra rappresenta la vita di
Carlo Sabattini, che come il Robert Neville di Io sono leggenda, ha vissuto combattendo i propri simili dopo aver assistito ad una metamorfosi che ha trasformato alcuni uomini in vampiri assetati di risorse terrestri. La guerra di
Neville, come quella di Sabattini, non è fine a se stessa e Carlo non è il
Colonnello Walter Kurz di Apocalypse now, nulla a che vedere con il prigioniero della tetra foresta, ancor prima della follia, che non riesce più a distinguere il confine esistente tra l’anima civile e quella ancestrale, violenta e
amorale, abbandonandosi a quest’ultima. Al contrario, Robert e Carlo, figure epiche e speculari, sperano sempre di trovare un antidoto al virus, una
cura in grado di guarire l’umanità dal male in cui versa. Se il primo usa il
microscopio, cavie e colture virali, il secondo scrive esposti e studia le leggi.
Ma entrambi, secondo un crescendo rossiniano, sono destinati a soccombere sotto il peso della maggioranza nascente. I vampiri, come gli inquinatori protetti dai politici, sono di più e quelli che sono “in di più” vincono sugli
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altri (lo sanno bene i pellerossa d’America) e chi vince, a chiusura del cerchio, scrive la storia come crede sia giusto scriverla.
Da “Io sono leggenda” di Richard Matheson:
Neville sollevò lo sguardo su di lei. Il suo sorriso era quello teso e forzato di
una donna che cerca di reprimere la propria femminilità a favore della dedizione.
“Robert Neville. L’ultimo della vecchia razza”
L’espressione di Neville s’indurì.
“Ultimo?” mormorò, mentre dentro di sé sentiva aprirsi il baratro della solitudine assoluta.
“Per quanto ne sappiamo” - disse lei con noncuranza - “Sei l’unico, sai?
Quando te ne sarai andato, non ci sarà più nessuno come te nella nostra società”.
Lui fissò la finestra.
“Lì fuori… Lì fuori ci sono… delle persone”
Annuì: “Stanno aspettando”
“La mia morte?”
“La tua esecuzione”
Spostò lo sguardo su di lei, avvertendo una fitta.
“Allora sbrigatevi” disse impavido, con il tono improvvisamente inasprito
dalla sfida.
La storia di Carlo è terminata e come mi capita sovente sono preso da
un senso di vuoto al quale segue un’incrollabile tristezza. Raccolgo le carte
infilandole nelle buste trasparenti. Prendo i tre volumi del libro bianco e li
rimetto a posto nella libreria. Poi ci ripenso e assecondando un gioco che
facevo sempre da bambino quando mio padre mi lasciava solo nella biblioteca di casa afferro un volume a caso e lo apro.
È la pagina di un esposto, spedito alla Prefettura, dove Carlo lamenta i
modi con cui, l’Amministrazione modenese ostacola il suo lavoro da
Consigliere Comunale:
“…come risulta da un articolo della stampa locale, fin dalla prima
seduta, sono stato isolato per evidenti scopi ed anche il mensile
dell’Amministrazione ha pubblicato notizie false e distorte per screditarmi”.
Un modo come un altro per dimostrare ai suoi elettori che l’aver votato un ecologista intransigente non sarebbe servito a nulla e vedremo poi
come la stessa identica strategia sarà adottata nuovamente, a distanza di
molti anni, con il partito verde reduce dal successo elettorale del 2004 a
Bologna. Facendo diversamente quanti altri uomini avrebbero potuto
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seguire Carlo? Uno, cento, mille Sabattini! Nessuno sarebbe riuscito a fermarli. Massacrandolo - colpendone uno per educarne cento - nessun altro
individuo avrebbe osato sostituirlo. Credo di sapere cosa provava Carlo, ci
sono passato anch’io, ed è davvero terribile constatare come ogni fardello,
ogni accordo traversale tecnico e politico, ogni impensabile alleanza “consociativa”, possano essere poste in campo per zittire chi “disturba”. Perché
questo era Sabattini per i suoi colleghi: un “increscioso fastidio” che nuoceva
al lavoro tranquillo delle forze politiche. Più i tuoi disegni sono oscuri e più
avranno bisogno di crepuscolo e silenzio. Il rumore, soprattutto quando si
tratta del fragore della giustizia che s’infrange, attira l’attenzione, risveglia
le menti intorpidite, scuote gli indecisi. Silenzio. Nulla è meglio del silenzio
per chi trama nell’ombra e coltiva interessi privati. Ricordatevelo sempre.
La verità urlata da Carlo, pura e semplice nella sua essenza, è dura da
ingoiare. Per questo non va gridata, ma mediata, centellinata da coloro che
credono di saper “guidare i cambiamenti” di un’economia crescente, fossero
anche quelli che cagionano un danno ai cittadini. Ma guarda caso gli assertori della calma sono proprio quei politici che hanno fatto della politica un
mestiere senza passione.
Già, dov’è finita la passione?
Tutti i politici, se li senti, dicono di mettere passione in ciò che fanno,
ma non può essere passione quella di chi vive negli agi o dentro alle auto
blu. Non è passione quella di chi si fa proteggere dalle scorte pur non avendo detto mai nulla di sconveniente e viene il dubbio che costoro non temano tanto i terroristi, quanto il popolo stesso che li ha eletti e che hanno così
spudoratamente buggerato. Passione, invece, è quella dell’uomo che si
gioca tutto quello che possiede per un’idea, una sola idea capace di cambiare il mondo o, come nel caso di Carlo, per difenderlo o renderlo migliore
di quello che è. Questa è passione! Il resto, quello di chi sbandiera la passione come fosse un cencio vecchio, è solo cenere di un fuoco che ha
smesso di ardere da tempo. Ai politici di sinistra dico: uscite dai palazzi e
tornate alle periferie, incontrate la gente. Smettetela di rincorrere le decisioni della magistratura e finitela di cercare scorciatoie. Affrontate il vostro
nemico a viso aperto, sui programmi e sui problemi da risolvere e una volta
per tutte lasciate che siano i giovani a fare quello che a voi non è riuscito.
Avete perso! Incominciate dall’ammettere questo e giunti a questo punto la
gente vi capirà e il nemico da abbattere sarà vinto.
Sabattini concludeva il suo documento con un giudizio significativo sulle
politiche immobiliari della città dove era stato eletto:
“Sono stati acquistati appartamenti per sfrattati per un importo di sei
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miliardi al prezzo per mq da L.700 ad un 1.000.000, mentre se ne possono
trovare sulla piazza a 500.000 – 600.000 il mq. Quanto riferito è solo una
parte dei fatti che si verificano nella nostra città e che ho ritenuto opportuno mettere a sua conoscenza”
Circa quattordici anni dopo questo esposto, un replicante venuto da
lontano, detto Roy, porrà nuovamente il problema in un altro luogo e da
un altro punto di vista, ma di questa storia, parleremo più avanti.
Onore e gloria a Carlo Sabattini, ecologista barricadiero di fine secolo!
L’allevamento suinicolo costruito a pochi metri dalla casa di Carlo Sabattini
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La creatura: il leviatano.
Un'espressione contrita si scolpì sul volto della Pubblica accusa. Gli
occhi che fino a quel momento avevano brillato di un'intensa vivacità
cominciarono a spegnersi in uno sguardo opaco che a chiunque, e ancor di
più ai giurati presenti in aula, sarebbe potuto sembrare lo specchio di
un'imminente sconfitta. Il magistrato che vestiva i panni della Pubblica
accusa scosse la testa, tossì e si passò il palmo della mano sulla fronte
imperlata di sudore. Appariva molto più vecchio di quello che era. Sentiva
l'angoscia montare dallo stomaco alla testa. Era certo che il tempo non gli
sarebbe bastato per trovare qualcosa di convincente da dire e così tossì di
nuovo e chiese che gli fosse portato un bicchiere d'acqua fresca. Questo
leggero malessere nasceva dalla convinzione che la giustizia trae la sua linfa
vitale dal bianco candore della veste che indossa e che la fa risplendere
come un faro nel crepuscolo ombroso della modernità. In un mondo senza
ideali che veglia il cadavere della verità, solo la legge può dipanare le sconfinate zone grigie che intorpidiscono i comportamenti umani. Per questo,
ammettere - se pur a distanza di quasi vent'anni - che la magistratura si
fosse a suo tempo piegata alla politica, come nel caso di Carlo Sabattini,
significava riconoscere la possibilità che la giustizia non è uno strumento
infallibile. Questa considerazione infida sarebbe potuta entrare improvvisamente nell'aula incantando i presenti ed era ciò che la Pubblica accusa
temeva più di ogni altra. Infatti, quando un procedimento giudiziario viene
corrotto nella sua purezza tutti gli altri processi incominciano a marcire nel
qualunquismo e nelle frasi fatte. L'Accusa si riprese, animata da una rinata
convinzione che non sarebbe stato conveniente restare in silenzio ancora a
lungo. Prese il bicchiere e dopo aver placato la sete disse:
“Stando a quello che l'imputato ci ha raccontato dovremmo considerare Carlo Sabattini alla stregua di un eroe?”
“Ci può scommettere sopra la pensione” rispose il rapinatore di banche.
“Mi spieghi allora perché lei è l'unico ad essersene accorto” confutò
l'avversario.
A quel punto l'imputato si allentò il colletto e fece un cenno al commesso così da fargli intendere che se avesse aperto la finestra alle sue spalle tutti quelli che si trovavano in quella stanza- e non solo lui- ne avrebbe90
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ro tratto giovamento. Quando sentì l'aria fresca carezzargli la schiena sudata l’imputato si degnò di rispondere:
“La politica, signori e signore della Giuria, è un'allieva che non si
accontenta di superare i propri maestri, ma preferisce di gran lunga ucciderli. Mi sia almeno consentito di prenderla un po' alla lontana per arrivare ad una riposta convincente.
Contrariamente a quello che comunemente si crede, ogni aggregazione umana organizzata non si fonda su di un sistema gerarchico piramidale, ma si regge prima di tutto sulle variegate relazioni instaurate tra gli individui che compongono il gruppo. Questi rapporti diventano dei vincoli
garantiti da una reciproca convenienza. Le relazioni vincolanti e le convenienze sono il “sale” di ogni associazione e lo sono fin dall'antichità, da
quando gli uomini si sono riuniti in tribù per meglio difendersi dalle belve,
dai nemici o per procacciarsi il cibo. A quei tempi l'agire della comunità era
dettato dall'analisi del mondo circostante. L'ospitalità di un luogo era determinata dalla presenza di animali da cacciare o dall’esistenza di sorgenti alle
quali dissetarsi, più tardi dalla fertilità del terreno. Queste valutazioni fondate sull’osservazione erano molto più utili delle selci e dei chopper ai fini
della pura sopravvivenza. Gli antichi uomini primitivi vivevano contemplando e quindi ragionando sui fenomeni che impregnavano la realtà e ogni
“errore di valutazione” poteva rivelarsi fatale causando la distruzione dell'intero gruppo. La vita a quei tempi era particolarmente dura. Quando la
comunità sceglieva una caverna come dimora doveva prima scacciare l'inquilino legittimo e alludo ad un orso che poteva raggiungere i tre metri di
altezza e oltre 600 chilogrammi di peso. Il cacciatore delegato a questo
compito doveva essere il più forte del gruppo in virtù del fatto che la natura non è affatto dialettica: se sei forte uccidi l'orso, se non sei forte sei ucciso dall'orso.
Il problema nacque quando il gruppo incominciò a crescere insieme
alla domanda di grotte, di conseguenza crebbe anche il numero dei cacciatori di orsi. Questa specializzazione venatoria comportò la nascita di una
classe sociale primitiva che ben presto si assunse il compito di decidere
quanti orsi dovevano essere abbattuti e quante caverne espugnate. Ci fu
quindi bisogno di un capo e per ottenere un ruolo di così grande importanza diventò necessario reperire il consenso dal maggior numero di cacciatori. Da questo momento, l'essere più o meno forti dell'orso ha incominciato a perdere d’importanza e l’abilità premiante è diventata quella che
si fondava sulla capacità di costruire una maggioranza. Ogni mezzo diventò buono per raggiungere il fine. Se, per esempio, un cacciatore decideva di
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condividere la moglie con un altro cacciatore poteva ottenere un voto, se
diventava il tenutario di un bordello molti di più. Dal canto loro i cacciatori che componevano la maggioranza puntarono a massimizzare i benefici
derivanti dalla cessione del proprio assenso all’investitura del capo. Per
questo incominciarono a ragionare congiuntamente come se fossero una
creatura pensante. Un essere vivente indipendente dagli individui che formano il suo corpo. Questa lettura potrebbe apparire come la visione di un
pazzo se non fosse che da molto tempo autorevoli sociologi specializzati
nella psicologia delle organizzazioni hanno incominciato a credere che
molte organizzazioni siano in grado di “pensare, imparare, ricordare”, non
solo, talvolta sembrano possedere “emozioni con logiche del tutto simili a
quelle di un individuo” (Claudio Peri).
Da quella belva abbattuta nella notte dei tempi, da quell'Ursus Spelaeus,
i cui resti giacciono ancora oggi nelle viscere di una caverna preistorica, ne
è nata un'altra: il leviatano.
La pelle del Leviatano
“I marines muoiono, esistono per questo, ma il
corpo dei marines, quello non muore mai, e dunque
voi non morirete mai”
Il Sergente Hartman in Full metal jacket
Il corpo della creatura, agglomerato di individui autonomi, è una struttura complessa che punta ad essere percepita come una forma compatta.
Ciascun individuo che accetta di rientrare nel corpo deve per forza rinunciare a se stesso. Chi dissente distrae lo sguardo dall’insieme. Chi rivendica
la propria individualità diventa un antagonista dell’entità collettiva che lo
ospita e si trasforma in un nemico, interno o esterno, poco cambia.
L'adesione ad un partito non è poi così diversa dalla spersonalizzazione coatta subita dal marine “palla di lardo” di Full Metal Jacket, perché ciascuna organizzazione mira ad uniformare i suoi membri attraverso un processo che li trasforma nei pezzi identici e intercambiabili di una macchina.
Dietro a questo procedimento simbolico si nasconde l’innata ricerca di
immortalità della quale riparlerò più avanti quando tenterò di spiegare
come gli antichi sarcofagi siano riusciti a trasformarsi nelle moderne mar92
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che commerciali. Il corpo dei marines sopravvive alla morte biologica dei
singoli marine che a loro volta sopravvivono simbolicamente nel corpo dei
marines. L’addestramento militare è certamente diverso da una qualsiasi scuola di partito, diversi sono i metodi e diversi i tempi, ma simili sono gli obiettivi da raggiungere: l’annullamento della personalità, l’autocostrizione del “corpo
unità” e il suo assoggettamento all’ “istituzione corporea”, infine, il reciproco
controllo che nasce tra i membri del gruppo. Non è un caso se la prima regola che ti viene impartita non appena indossi i panni del dirigente politico afferma che tutti (gli individui) sono utili, ma nessuno è indispensabile. Anzi, il tuo
compito sarà proprio quello di far sì che nessuno diventi insostituibile perchè
a quel punto sarà lui, e non il partito, a stabilire il “prezzo” della sua utilità. In
questo modo si ritrova in vantaggio chi riesce a dimostrare di rientrare nella
media, mentre chi eccelle è malvisto, talora perseguitato. Ogni critica è bandita e l'analisi dell'esistente deve procedere sul codice binario della linea dettata
dal partito: se approvi fai parte del partito, se non approvi sei contro il partito. Chi discute su come si possa migliorare il partito minaccia la “già faticosa
stabilità interna”. Cose dette e ridette, ma non combattute mai abbastanza.
Questa omologazione dei singoli non è un tratto esclusivo dei partiti,
ma di tutte le aggregazioni umane tanto è vero che Irene Tinagli, nel suo
libro, “Talento da svendere” ha fatto notare che: “Come scriveva Whyte in
Organization man, nell'era organizzativa lo sforzo principale era indottrinare
il talento, farlo rientrare nei ranghi, e nei meccanismi oleati dell'organizzazione. Per questo, più o meno esplicitamente, l'era organizzativa portava
avanti una vera e propria guerra contro il genio: l'elemento che emerge
disturba e rompe l'equilibrio, occorre appiattirlo”.
Ed è proprio assecondando dinamiche come queste che si sono originati i collassi improvvisi che hanno contraddistinto l'economia dell'ultimo
decennio. Il colosso dell'energia Enron, considerata dalla rivista Fortune
come una delle aziende più innovative di tutti gli Stati Uniti, è crollata
aprendo una voragine che ha rischiato di far fallire l'intera economia americana. Così in Italia la Parmalat, a Dubai i megaprogetti immobiliari. Le
organizzazioni producono catastrofi perché le sentinelle sono state giustiziate, i critici esiliati, i riformatori ridotti al silenzio, mentre i controllori, i
revisori e i certificatori di bilanci, sono sul libro paga del controllato che
riesce a nascondere le peggiori malefatte. Così facendo si trasformano dei
castelli di sabbia in fortezze di pietra indistruttibile, ma sono solo miraggi
che si dissolvono al primo calar del sole.
Ogni uomo politico al quale ho esposto questa tesi si è sempre dichiarato d'accordo. Ma quando poi mi sono ritrovato ad illustrare un progetto
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fuori dalla norma o semplicemente diverso da quello elaborato dai miei
colleghi - e non ho la presunzione di affermare che fosse migliore - ho
ottenuto l'unico risultato di farmeli nemici. Da quel momento, dal momento in cui si accorgono che stai cercando una strada nuova, si convincono
che vuoi emergere e subito dopo si coalizzano per punirti e nel giro di
poco tempo ti ritrovi emarginato. Fortunatamente, la “vita da mediano” a cui
la creatura ti costringe non è definitiva e chiunque può librarsi in volo, ma
solo dopo aver pagato un prezzo adeguato. Chi tenta la fuga deve prima di
tutto annullarsi, dimostrare alla creatura che non possiede alcuna qualità,
quindi inchinarsi al suo cospetto, convincerla che saprà sdebitarsi al
momento opportuno. Sono quindi le convenienze, o “la capacità di ricompensare i propri seguaci”, come sosteneva Weber, che permettono ad un mediocre caporale di mutarsi in un generale fregiato di medaglie.
Se Giulio Cesare poteva arrogarsi tutta la gloria dopo aver sottomesso la
Gallia, ai leader moderni è vietato fare altrettanto, anzi, alla già vasta galassia
di comportamenti sociali si è aggiunta la “collettivizzazione del merito”. La creatura chimerica, il Leviatano, prima di ogni singolo beneficio destinato agli individui che compongono le sue membra, pretende un esclusivo riconoscimento
Nel frontespizio del Libro di Thomas Hobbes, il “corpo” dello Stato è raffigurato come come un gigante il cui
corpo è a sua volta formato dai corpi dei singoli individui. Nella foto sopra è riprodotta la rivisitazione moderna dell’antico leviatano: il photomosaico del volto di Obama composto dalle foto dei suoi sostenitori. L’idea rinnova la sua rappresentazione.
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politico per sè. Pierluigi Bersani, dopo aver vinto le primarie del 2009, ha dichiarato: “Nella vittoria di tutti c'è anche la mia”. Ragion per cui ha vinto il Partito
Democratico che è riuscito a coinvolgere un numero altissimo di partecipanti.
Hanno vinto i circoli che si sono aperti al pubblico. Hanno vinto i Bersaniani.
Infine, da ultimo, ha vinto il politico, la persona in carne ed ossa, Pierluigi
Bersani che con grande umiltà d'animo (o totale costrizione, impossibile stabilirlo) ha reso omaggio alla creatura e solo dopo si è incoronato vincitore.
Bersani ha ribadito che l'insieme, il gruppo, la corrente, il suo seguito - chiamate la creatura come volete - sono gli unici artefici della vittoria. Da che tempo
è tempo, i leader non hanno mai potuto servire i propri scopi fino in fondo,
ma sono vissuti come ostaggi di chi ha concesso loro il potere. Da questo
punto di vista, i grandi uomini della storia possono essere inquadrati come le
eccezioni, che sebbene abbiano obtorto collo confermato la regola, sono riusciti ad infrangerla o quantomeno a non diventarne schiavi.
Niente di nuovo quindi giacché, Luigi Pirandello, nel “Il fu Mattia Pascal” predisse la dittatura della “creatura collettiva” scrivendo che: “quando il potere è in
mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma
quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa; la tirannia mascherata da libertà”. Non
molto dissimile è l'analisi compiuta da uno studioso junghiano, Edward F.
Edinger, quando parla di quel folto gruppo che accolse Cristo facendolo camminare sulle palme:
“Tutte le collettività sono organismi psichici inconsci dotati di grande
forza e pericolosità. Essi incarnano le energie archetipiche prive della
mediazione dell'Io inconscio e sono notoriamente volubili. ‘Più è vasta
la folla e più irrilevante diventa l'individuo’, ma il portatore di una coscienza
è proprio un individuo. Dice ancora Jung: ‘Cristo ha forse scelto i suoi discepoli in un incontro di massa? L'aver dato da mangiare ai cinquemila, non gli ha
forse procurato dei seguaci che in seguito avrebbero gridato insieme agli altri: crocifiggilo!’ E, dobbiamo aggiungere, la folla che lo acclamava come Figlio di
Davide non era la stessa che più tardi avrebbe invocato la sua condanna, quando apprese che il suo regno non era di questo mondo?”.
(L'archetipo Cristo)
Da allora, la folla si è evoluta. Ha trovato il modo di dotarsi di una
forma organizzata capace di contenere le ancestrali intemperanze e gestire
le convivenze tra le difformi individualità che compongono il “corpus”
associativo. Si è scelta un rappresentante, un leader, che parlasse a nome di
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tutti e quindi a suo nome, ma il ruolo centrale che detiene non può mai
essere messo in discussione, nemmeno a parole, in qualsiasi sede e neppure quando si chiacchiera amabilmente dietro le quinte di uno studio televisivo. Lo racconta Ivan Scalfarotto nell'intelligente “Instant book” dedicato alla
prima edizione delle primarie italiane intitolato “Contro i perpetui”:
“…la mattina dopo le primarie - molto presto, ero deluso e stremato, negli
studi di La7 - commentavo i risultati con Livia Turco e Willer Bordon.
Dissi che quattro milioni e mezzo di votanti significavano una precisa
intenzione; gli elettori avevano detto all'unisono: “Lasciate fare a Prodi”.
Livia Turco era oltraggiata, livida, quasi l'avessi insultata: “I partiti sono
importantissimi, é in gran parte merito loro se le primarie sono state un
successo!”.
Se un politico si ritrova nelle condizioni di essere ben visto dal popolo attira su di sé tutti i malumori della creatura che si sente scavalcata. Nel
Partito Democratico di Bologna risulta particolarmente significativa in tal
senso la storia di Maurizio Cevenini. Il Cev - come lo chiamano i fan - possiede un curriculum di tutto rispetto: è simpatico, ha sempre la battuta pronta, è il più richiesto presentatore di tombole nei centri anziani di tutta la
provincia, è amatissimo dai tifosi del Bologna, è un ospite fisso nelle trasmissioni locali, è un ambito celebratore di matrimoni, possiede oltre diecimila amici su Facebook. Quando si presenta ad una consultazione - elezioni o primarie poco cambia - incassa una valanga di preferenze, mediamente circa quattro o cinque volte di più rispetto ad ogni altro candidato
sostenuto dalle dirigenze locali. Come lui stesso afferma, i suoi voti, vengono tutti “dal di fuori”. La logica dovrebbe indurre i dirigenti a candidare
Cevenini nelle competizioni elettorali più importanti: se da solo è capace di
tanto, cosa potrebbe fare se lo sostenesse l'intero partito? Questa è la
domanda alla quale bisognerebbe rispondere prima di scartare il candidato
Cevenini. Senza contare che i vertici dovrebbero, quantomeno, studiare il
fenomeno e non ripudiarlo o, ancor peggio, bollarlo come il frutto di una
“simpatia” scaturita nella cittadinanza per frivole ragioni. Invece, il buon
Cevenini, viene sempre sballottato da una carica ben remunerata all'altra in
cambio della sua abdicazione o meglio di una “non candidatura”. Ai giornalisti che domandano le motivazioni di questa avversione lo si dileggia con
uno slogan: “Cevenini? C'è di meglio!” Così ha risposto una “collega” di
Cevenini eletta in parlamento dal Pd. Tutto, si può fare, ma non rendere
inutile la creatura. Se Cevenini vince: vince da solo. Se vince da solo non
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deve niente a nessuno. Stai a vedere che se non deve niente a nessuno finisce per governare facendo il bene di tutti e non quello della creatura. Non
sia mai, anche Cofferati ha vinto da solo e si è visto com'è andata a finire.
Questo si sussurra nei corridoi senza avere il coraggio di affermarlo ad alta
voce. Il sospetto che la creatura sia all'origine dell'odierna decadenza della
politica è così radicata che lo stesso Beppe Grillo, quando si è ritrovato ad
organizzare il MoVimento 5 stelle, se n'è guardato bene dal concedergli una
struttura simile a quella adottata dagli altri partiti. Stando a quello che scrive il movimento dovrà restare un agglomerato di individui dove “ognuno vale
uno”, dove ognuno non è il tutto, non è l'insieme, non è la creatura. Grillo
notifica nel suo libro che “il movimento possiede un non-statuto, non ha
sedi, non ha referenti politici, né provinciali, né regionali, né nazionali e
non ci sarà neanche il tesoriere… I referenti del movimento saranno le
nostre liste civiche e i nostri meetup”. Il progetto 5 stelle nasce quindi come
un modello antitetico, ovverosia, la negazione delle odierne organizzazioni, siano queste di natura politica o di ispirazione economica. Non è un
caso se Grillo combatte con la stessa tenacia tanto i partiti quanto la
Telecom. Intravvede, evidentemente, le stesse distorsioni in entrambe le
organizzazioni. Il suo è quindi un esperimento di laboratorio dove cerca
con tutte le forze di impedire la formazione delle “reti di relazioni degenerate”
che pur concedendo la sopravvivenza ai singoli, finiscono per eludere gli
scopi che l'organizzazione stessa si è data. Bisogna ricordare su questo che
già Nicolò Macchiavelli, tra la fine del 1400 e l'inizio del 1500, affermava “che
vi sia qualcosa nella composizione dei corpi politici (esattamente come
accade a quelli organici) che li espone alla decomposizione una volta che
abbiano terminato il corso stabilito dalla natura” (Federico Boni citato a
memoria). Come dire che i partiti, la creature, cessano di vivere dopo aver
raggiunto gli scopi che si sono dati. Subiscono la stessa sorte quando li
dimenticano o, ancor peggio, li aggirano. Paradossalmente, il comico genovese, l’Albert Sabin dell'antipolitica (le parole “antipolio” e “antipolitica” sono
in tal senso profeticamente simili) è l'unico che sta cercando un vaccino
capace di salvare i partiti e con loro l'intero paese, perchè, che piaccia o
meno, la democrazia non potrà mai fare a meno delle associazioni politiche. Il MoVimento 5 stelle si presenta pertanto come un “partito di eletti”
che non deve sottostare a nessun'altra forma rappresentativa antagonista
ovverosia alle convenzionali strutture di partito, tutt'al più deve tenere in
considerazione gli esiti delle votazioni che sono il frutto di episodiche adunanze. Il movimento è un'organizzazione “in potenza”, un’associazione
compressa, ma decomprimibile, molto simile ai formati usati nelle moder97
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ne tecnologie digitali che permettono lo scambio dei file di grandi dimensioni ridotti da “un algoritmo di compressione”. Finalmente qualcuno incomincia ad attingere spunti dalla realtà, in questo caso dalle innovazioni tecnologiche.
In contemporanea con il comico genovese, lo stesso Walter Veltroni
durante la costruzione del Partito Democratico propose un’organizzazione che possedesse una “forma liquida”, ma fu subito strangolato dalla creatura prima che potesse ultimare l’opera. Ed è da questo primo obiettivo
mancato che si è originato il catastrofico fallimento del Partito democratico. Non si è voluto capire che il superamento di due realtà politiche diverse, quali Ds e Margherita, doveva accompagnarsi ad una riforma radicale
dell’organizzazione politica.
Caduto il Pd resta in buona salute solo la “non - creatura a 5 stelle” e tutti
si chiedono se continuerà a mantenere il vigore che la contraddistingue. Ci
si domanda anche se ce la farà a costruire un programma politico attraverso lo stesso procedimento che ha visto nascere il software libero Linux,
unico antagonista della Microsoft (per chi ancora non lo sapesse ricordo che
Linux, come l’enciclopedia Wikipedia, sono frutto di procedimenti creativi
di natura collettiva e volontaristica). L'inizio non è entusiasmante da questo punto di vista, malgrado gli eccellenti risultati elettorali ottenuti dal
MoVimento, ma quantomeno bisogna premiare l'audace tentativo di mettere in piedi un'alternativa che si opponga ai due soffocanti modelli partitici, quello del “partito azienda” e quello del “partito cooperativa”. L'importante
per Grillo non sarà riconfermare il risultato, e nemmeno continuare a testimoniare un dissenso, ma resistere per il tempo che serve alla costruzione
di una nuova e avveniristica organizzazione politica. Al momento attuale
non resta che studiare i partiti “classici”, dove la repressione dei più capaci
continua ad essere l'unico strumento che permette ai “soliti noti” di mantenere malamente in piedi lo stato di fatto. Anzi si faccia molta attenzione a
come i partiti abbiano finito per individuare un'ulteriore ragione per giustificare questa “Little Bighorn” dei cervelli. Se è vero che una persona di talento può trovare un lavoro al di fuori del partito, lo stesso non può dirsi di
un incapace che perdendo il posto all'interno dell'organizzazione finisca
disoccupato. Ergo: l'incapacità di un individuo è direttamente proporzionale al grado di controllo che può essere esercitato sullo stesso. Più l'individuo è inadeguato al mondo e più sarà governabile da coloro che lo hanno
scelto, nutrito e mantenuto. Questo spiega perché Alexis de Tocqueville ha
scritto: “Al mio arrivo negli Stati Uniti fui molto sorpreso fino a qual punto
il merito... fosse scarso nei governanti... Quando voi entrate nell'aula dei
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rappresentanti a Washington restate colpiti dall'aspetto volgare di questa
grande assemblea. Invano voi cercate un uomo celebre, quasi tutti i suoi
membri sono oscuri personaggi il cui nome non vi dice nulla”. (La democrazia in America).
Ogni uomo e ogni donna che finiscono in questi frangenti (dove i
meriti sono spartiti come bottini di guerra, i talenti perseguitati e le vittorie divise come torte di compleanno) si sciolgono come neve al sole. Viene
quindi da domandarsi come possano accettare di perdere se stessi con
tanta leggerezza. La “contropartita” offerta dai partiti all'annullamento delle
capacità è rappresentata da una sorta di “elisir di lunga vita”. Come dire:
rinunciate a voi stessi, a ciò in cui avete sempre creduto e vivrete - non in
eterno - ma senza essere oppressi dai problemi che affliggono i comuni cittadini! Alla firma di questo patto faustiano consegue che ogni decisione
assunta dall'organizzazione verterà sull'annullamento di tutti i rischi nei
quali potrebbe incorre il firmatario. Il principio di “collettivizzazione delle vittorie e dei meriti” è così traslato alle sconfitte. I mezzi usati per raggiungere
l’obiettivo sono svariati. Attorno ai leader si generano organi direttivi oclocratici. Esecutivi, coordinamenti, comitati di affiancamento, non importa
conoscere la loro reale funzione, ciò che conta è che siano formati da
membri che rappresentino tutte le anime della creatura. Le decisioni fondamentali sono quindi prese in accordo con tutti. Questa regola non è
nemmeno più taciuta, anzi si guadagna i caratteri cubitali dei giornali.
“Veltroni: Bersani mi accusa? Tutte le decisioni le abbiamo prese insieme” - ha titolato Repubblica il 23 luglio 2009. All'interno dell'articolo, il
primo presidente del Partito Democratico, rispondendo a chi gli incollava
addosso le ragioni della sconfitta, ha dichiarato: “non può dire che veniva
da un altro pianeta, ci riunivamo tutti i martedì, abbiamo preso collegialmente decisioni difficili, non ho deciso nulla da solo, non ho una vocazione leaderistica”.
Una dichiarazione sincera che dimostra quanto la sconfitta possa essere
equamente divisa. A questo punto, vincere o perdere diventa ininfluente e i
gruppi di potere restano al loro posto malgrado tutto quello che accade nel
mondo. Concorda anche Gianfranco Burchiellaro, ex Sindaco di Mantova, che in
seguito alle elezioni che hanno consegnato la sua città alle destre, sul Corriere
della Sera (13 aprile 2010) elenca le cause della caduta:
“Avete mai visto un gruppo dirigente che nonostante una serie impressionante di sconfitte continua a rimanere al suo posto? Il Partito democratico
negli Stati Uniti non si sognerebbe mai di farlo, lo stesso accadrebbe in ogni
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altro paese civile. Ecco a Mantova e in Lombardia sta succedendo esattamente questo. Si insiste su una forma di partito priva di ogni senso, dove
contano solo gruppi dirigenti che prevalgono in base ai pacchetti di tessere
che riescono a garantire. E invece i gruppi dirigenti vanno selezionati in base
ai risultati e non sulla base della subalternità ai referenti politici nazionali”.
Se tutti hanno deciso, tutti hanno sbagliato, e quando tutti sbagliano
nessuno può essere condannato. La creatura resta al comando, ma la cristallizzazione che la farà affondare è già incominciata. In Puglia a Niki Vendola
viene contrapposto Francesco Boccia e poca importa che alle primarie precedenti del 2005 avesse perso sonoramente contro lo stesso avversario che dovrà
affrontare di nuovo per la seconda volta. Vendola batte nuovamente Boccia e
si presenta alle elezioni dove sconfigge il candidato del Centro-destra e viene
rieletto. La lotta non si consuma più tra il Partito Democratico e il Popolo
delle libertà, ma tra la creatura, tra i tutti divenuti uno, ovverosia il partito, e il
politico di talento.
Casini plaude alla scelta del Partito democratico che ha candidato Boccia
contro Vendola, lo vuole assolutamente anche se ha già perso le primarie precedenti. Nulla di che stupirsi, Pierferdinando in Emilia, al presidente uscente
Vasco Errani ha contrapposto Gian Luca Galletti da poco sconfitto alle provinciali del 2009 dove correva come presidente in antitesi ai candidati del Pd
e del Pdl. Intendiamoci, Galletti è un politico di grande esperienza che non
è certo facile da rimpiazzare, ma i partiti come l'Udc, se veramente credono
nei giovani, devono dimostrarlo candidandoli.
La lista dei “perdenti riproposti” è fin troppo lunga per essere riportata integralmente e ci si deve accontentare di questi due esempi per comprendere
come l'odierna competizione politica sia dominata sempre dagli stessi giocatori. Ritenta e sarai più fortunato, è il motto dalla creatura. Come se la vittoria, dai oggi e dai domani, prima o poi dovesse toccare a tutti. Il quadro è chiaro e non resta che prenderne atto. Si sono creati dei gruppi di potere immuni alle conseguenze che derivano dagli errori o, peggio ancora, dalle sconfitte.
Se nel mondo reale chi sbaglia paga, in politica chi cade in fallo viene premiato. Ed è questo l'aspetto più dolente di tutta la questione: tanto le sconfitte
quanto le vittorie sono diventate dei fenomeni di pura apparenza e le interminabili discussioni impostate su chi ha vinto e chi ha perso le ultime elezioni
sono degli “specchietti per le allodole” buoni solo ad illudere gli elettori che la “selezione naturale” vale per tutti e ancor di più per i partiti. Falso! I partiti non possono fallire perchè godono di lauti finanziamenti. Non si meraviglia quindi
più nessuno se la giornalista del Corriere, Maria Teresa Meli, alla vigilia delle
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primarie del 2009, ha raccolto da Beppe Fioroni questa emblematica - per
quanto sintetica - dichiarazione lampo: “Io, comunque vada, vinco”.
Proprio così. Chi appartiene ai giri dell'alta politica si trova nel casinò del
paese dei balocchi, dove si vince sempre. A pagare il conto dei bari - solo i bari
non perdono mai - sono i cittadini che si ritrovano con una classe politica
irremovibile, vecchia, senza lo straccio di un'idea e un paese sull'orlo del
baratro. Se anche qualcuno riesce ad entrare in Parlamento, come
Scalfarotto, Marino o la stessa Debora Seracchiani, il cui iniziale entusiasmo è
apparso come una ventata d'aria fresca insufflata nell'asfittica stanza dell'obitorio politico, viene subito fagocitato da una forma organizzativa
morente, non premiante, devastata dalle guerre intestine e infine digerito.
Ma c'è una logica superiore rispetto a questo difendersi vicendevolmente, a tutte queste mani che lavano le altre. Il potere di dispensare
immortalità serve tanto ai politici, quanto alla creatura, a quello stesso partito che potrebbe ritrovarsi in determinate circostanze a compiere scelte
difficili e profondamente impopolari. L'indulto, le leggi “ad personam”, il
risarcimento concesso alla Libia in piena crisi economica, da sinistra a
destra, viene da chiedersi come un parlamentare possa avvallare, se non
persino diventare l'artefice, di iniziative di questo genere se non fosse assolutamente certo di farla franca. Questi fautori di assai poco lodevoli lodi, le
madrine di indulti e i padrini di altre leggi vergognose, sono sempre e puntualmente riconfermati in Parlamento. Qualora dovessero diventare così
impresentabili da far perdere voti al simbolo del partito, riceveranno
comunque la danarosa poltrona di un consiglio di amministrazione, di una
comunità montana, di una partecipata, o di un ente di secondo grado. Ed
è così che il dissenso diventa una lucrosa fonte di guadagno per i traditoridel popolo. I famigerati enti inutili, le contestate “comunità montane senza
montagne”, entrambe popolate dagli esponenti della famigerata casta di cui
tanto si è detto e scritto, servono come ricoveri per tutti quei politici investiti dall’immortalità. Tutto torna, tutto è chiaro.
A coronamento di questa “sopravvivenza forzata” sono state introdotte
nei sistemi elettorali, non solo italiani, queste ridicole “liste bloccate” che permettono a chiunque, anche ad un ferro da stiro arrugginito, di entrare in
Parlamento. Sono solo l'ultimo ritrovato della “rappresentatività impositiva”,
rivisitazione in chiave moderna della decisione episodica che permise a
Caligola di investire il suo cavallo della carica di Senatore. Ed è bene non
dimenticare mai che con un sol colpo di spugna si è cancellato il rapporto
“causa - effetto” dal sistema elettorale. Deputati e Senatori non sono più eletti dal popolo, ma sono nominati dai partiti, anche se sarebbe meglio defi101
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nirli dei “beneficiati” che molto raramente si oppongono a chi ha concesso
loro il “beneficio” e cioè la “carica” di eletto. Ecco spiegato perché Senato e
Parlamento si sono riempiti di “Onorevoli Wanted” la cui fedina non si è
sporcata sulle barricate, difendendo i fiumi dallo sterco di maiale o picchettando le fabbriche o per qualche altra ragione di principio, ma per corruzione, abuso d'ufficio, truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato,
favoreggiamento e quant'altro.
Ma che importa, forse, avevano un mandante che ha preferito premiarli anziché ripudiarli. Chi è il vero colpevole? Il partito, la creatura, quel
gioco perverso di relazioni e ignobili convenienze che determina l'immortalità.
“La faccia finita!” lo fermò la Pubblica accusa che sembrava aver recuperato una forza inaspettata e continuò chiedendo:
“Vuol forse raccontarci che la soluzione sarebbe quella di abolire i partiti?” Sorrise beffardamente come se sapesse di avere già in tasca la risposta e con fare convinto arringò:
“Posso anche essere d'accordo con lei, con un rapinatore di banche,
ma solo se riuscirà a dimostrarmi che la democrazia può esistere anche
senza di essi. Perché come disse quel tale, la democrazia è costosa, fallace,
ma non esiste un'alternativa”
Dopo di che si avvicinò all'imputato e gli chiese:
“Ci vuole spiegare come possiamo fare a meno dei partiti?”
L'imputato non fu colto alla sprovvista perchè si era immaginato, che
prima o poi, gli sarebbe stata rivolta una domanda del genere.
Abbozzò un sorriso e rispose.
La recluta dei Marines “Palla di lardo” viene addestrata dal Segente Hartman che farà di lui una macchina da guerra
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Partito vs Nuvola nera
- “La società in cui viviamo ha in sé una
contraddizione mostruosa: la tecnologia è
moderna, ma l’organizzazione sociale è
arcaica. Sono anni che i politici cianciano
della necessità di avere un maggior numero
di scienziati, di tecnici e così via. Ma pare
non capiscano che esiste un numero assai
limitato di sciocchi”
- “sciocchi?”
- “Sì, la gente come lei e come me, Geoff.
Noi siamo gli sciocchi. Siamo noi a pensare
per una massa sorpassata di deficienti e poi
ci lasciamo prendere in giro perché costoro
sono più trafficoni di noi”
L a n u v o l a n e r a ” di Fred Hoyle
“L
Tornando da Carpi a Bologna pianificai i giorni seguenti valutando il
tempo che mi sarebbe servito per organizzare la rapina e senza volerlo
incominciai a riflettere su come i media avrebbero raccontato tutta la storia. Mi convinsi che avrei dovuto produrre un effetto “spaesante” esibendo,
almeno durante i giorni precedenti al colpo in banca, l’esistenza tranquilla
del grigio burocrate di partito. Così, giunto a casa, presi carta e penna e
scrissi una decina di lettere ai vari responsabili del PD informandoli che
non nutrivo alcun rancore verso i compagni, compreso Salvatore Monarca,
l’artefice occulto della mia sconfitta. Per fugare le voci che circolavano - il
Corriere della Sera aveva persino scritto che ero finito a fare il lavapiatti in
una pensione della riviera - li rassicurai in merito alle mie condizioni economiche informandoli che disponevo di tutto il necessario per vivere agiatamente per almeno un anno. Concludevo la missiva, come si usa dire, mettendomi a disposizione del partito, pur sapendo che al Partito Democratico non
importava nulla di come me la stavo passando. Non volevo assolutamente
essere messo alla porta o degradato dalle cariche che mi ero così faticosamente guadagnato: responsabile della comunicazione e membro della
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Direzione Regionale eletta al congresso regionale di Riccione. Se ciò fosse
accaduto la storia dell’alto dirigente finito a rapinare le banche avrebbe
perso gran parte del suo fascino. Or dunque, quando un mio ex collega
consigliere mi domandò se ero disponibile a dargli una mano diventando
un sostenitore della mozione Marino accettai di buon grado. Mi diede appuntamento alla sede di via Murri dove non vidi nessuna faccia conosciuta tolta
quella del vecchio e battagliero Serra che con quel codino legato dietro alla
nuca sembrava essere appena uscito dal set del film “Pirati dei Caraibi”. Gli
dicevo sempre che se avesse indossato una gamba di legno e posato un
pappagallo sulla spalla avrebbe certamente trovato lavoro come comparsa
a Gardaland.
Passai davanti alla sala principale dove un ragazzo alla Robert Downey
Junior illustrava pregi e difetti del candidato Ignazio Marino. Mi sembrò il
meeting di preparazione di una squadra di agenti assunti per piazzare sul
mercato un nuovo prodotto. Continuai a camminare fino a che non mi
ritrovai davanti all’uomo che mi aveva reclutato. Antonio Lomumo, un avvocato diventato famoso per aver fondato un’associazione che difende gratuitamente i senzatetto. Possedeva la parlantina svelta dei venditori di tappeti pakistani ed era stato tra i primi, in tempi non sospetti, a spronarmi
affinché mollassi il partito verde, che a suo dire era infestato dai perditempo, per aderire al PD. Per questo ho sempre creduto di essegli simpatico e
il fatto che si fosse ricordato di me, malgrado la mia caduta in disgrazia,
dimostrava che non mi ero sbagliato. Stava finendo di istruire un certo
Frisola che conoscevo da tempo immemorabile, un tale che nella sua vita ha
militato nell’intero arco dei partiti, passando da uno all’altro, dopo aver litigato con tutti. Mi salutò frettolosamente dicendo che se mi avevano “trombato” alle comunali mi stava bene. Che accoglienza! Secondo lui non avrei
mai dovuto pubblicare un libro di vignette perché la politica va presa seriamente.
“Mica ci si può ridere sopra come fai tu” sentenziò.
Non lo degnai di una sola parola mentre andavo a sedermi davanti a
Lomumo che mi parve molto felice di avermi ritrovato stando a tutte le
feste che mi fece. Mi aveva preparato personalmente il kit del presentatore di
mozione. Aprendo la carpetta trovai gli indispensabili “ferri del mestiere”: una
breve biografia di Ignazio Marino appuntata a quella di Thomas Casadei, il
candidato regionale collegato alla mozione nazionale; il testo della mozione in versione integrale; una versione ridotta; un’altra schematica, suddivisa per punti salienti.
Nelle note a piè di pagina si consigliava di tenere quest’ultima sott’oc104
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chio durante l’esposizione. Infine, sotto i fascicoli trovai una minuta “non
ufficiale” dove erano esposte le differenze sostanziali tra il “nostro” candidato e gli altri. Considerazioni risapute che pur tuttavia non potevano essere
ufficializzate per paura di irritare le squadre avversarie. Come dire che
andavano usate se qualcuno dei presentatori avesse deciso di alzare il tiro.
Le cito a memoria:
Bersani è favorevole alle alleanze, compresa quella con l’Unione di
Centro mentre Marino non ha preclusioni di sorta, ma qualsiasi alleanza può
essere sancita solo dopo aver firmato un programma chiaro. I nodi che
possono generare conflitti tra posizioni politiche diverse devono assolutamente essere sciolti in anticipo e non dopo aver vinto le elezioni. Ricordare
sempre alla platea che Salvatore Cuffaro è una delle punte di Casini. Se
Bersani si allea con l’Udc si accolla anche Totò vasa vasa. Altro punto: i
sostenitori della mozione Franceschini hanno posizioni politiche troppo
distanti tra loro. Si va dalla cattolica Binetti, passando per la Serrachiani, per
finire a Cofferati. Non riusciranno mai a governare il partito se dovessero
vincere! La costituzione del PD si è fondata fino ad oggi sull’antagonismo
esistente tra Veltroni e D’Alema. Marino è indipendente da entrambi e rappresenta l’unica vera offerta programmatica. Noi non abbiamo nient’altro
che le nostre idee per farci strada. Eccetera…
Seguiva un lungo elenco di ragioni che rappresentavano quelle che David
Ogilvy avrebbe chiamato reason why se avesse dovuto“vendere” il Senatore
Ignazio Marino agli elettori. Sembrava l’inizio di una corsa automobilistica.
Pierluigi Bersani in pole position, segue Franceschini e dietro ancora si trova l’outsider Ignazio Marino. Mancava meno di una settimana al via!
“Durante la tua esposizione c’è un dettaglio che è stato da più parti
nascosto e che devi trasformare nella chiave di volta della presentazione ” mi disse Lomumo - “Quelle che si terranno non sono le primarie vere e proprie, ma si tratta di una votazione interna che serve per raccogliere il numero
minimo di voti affinché ciascun candidato possa partecipare all’elezione del
segretario nazionale. Come dire che coloro che voteranno per la mozione
Marino potranno poi votare per Bersani o Franceschini alla votazione vera
e propria che si terrà alla fine di ottobre. Tutto ciò deve essere ribadito per
dimostrare che si tratta di un voto che non è concesso alla persona, ma
all’idea che il nostro dibattito interno debba avere un’impostazione pluralista senza necessariamente ridursi ad uno scontro tra i franceschiniani, exveltroniani e i bersaniani filo dalemiani. Capisci cosa intendo? ”
Risposi che mi era chiaro. Ignazio Marino serviva per drenare i voti
degli scontenti e per attrarre quelli di chi ancora si aspettava dal Partito
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Democratico una linea politica chiara, riconoscibile, laica, di sinistra, e non
un guazzabuglio appiattito su vuote alleanze post democristiane o isterico comuniste. Marino era quello che i miei vecchi compagni avrebbero chiamato un “baleniere”, un cacciatore di cetacei stufi di nuotare nella solita vecchia
minestra.
In effetti, come mi accorsi durante il tour delle serate di presentazione, le idee di Marino accendevano una luce alla fine del tunnel Fu così
entusiasmante battersi per delle buone ragioni che in un batter d’occhio mi
ritrovai alla fine dell’ultima presentazione che si teneva in un circolo sperduto sui monti dell’Appennino:
“Concludo dicendo che questa sera non si voterà per il segretario del
PD, ma si voterà per consentire ai tre candidati di partecipare alle primarie. Se credete nel talento dei vostri figli, nella laicità dello Stato e
nella rivoluzione verde iniziata da Barak Obama negli Stati Uniti, alla
quale il nostro Paese non si deve assolutamente sottrarre, o se quantomeno ritenete utile che questi temi, insieme agli altri che vi ho appena
illustrato, trovino posto all’interno del dibattito, se sono riuscito a convincervi di questo, votate per la mozione di Ignazio Marino! Così facendo contribuirete a mantenere vivo il pensiero di quel grande filosofo che
ci ha lasciato in eredità queste parole: non condivido quello che dici, ma
sarei disposto a dare la vita pur di fartelo dire. Se votate Marino, voterete Voltaire!”.
Ci fu un attimo di silenzio tanto che pensai di aver usato troppe volte
la parola “votate” e solo quando incominciai a domandarmi se non avessi
sbagliato qualcos’altro, scoppiò un applauso fragoroso.
Alcuni dei presenti si erano alzati in
piedi per applaudire e malgrado sapessi che
non significava nulla in termini di voti mi
fece piacere sentire quel caloroso scalpitare
di mani attorno a me. Anche una sola preferenza sottratta a Bersani era un mattone
tolto all’Onorevole Monarca che faceva
parte del fior fiore dei bersaniani. Ammetto
che malgrado la vendetta non mi abbia mai
affascinato incominciavo a provare piacere
se la sentivo vagire nel profondo dell’anima.
Come non dar corda a questo spregevole
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Il Parlamentare Europeo Salvatore
Monarca, detto “Caronte”
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sentimento, carezzandolo, nutrendolo, curandolo ogni giorno, in modo da
farlo crescere forte e robusto?
Ero stato l’ultimo dei relatori. Da questo momento saremmo dovuti
restare in silenzio mentre gli iscritti intervenivano perorando le ragioni a
favore dell’una o dell’altra mozione. Ne approfittai per dare un’occhiata
intorno a me. Un filo di polvere ricopriva ogni cosa. In un angolo vidi una
libreria con l’intera opera di Gramsci, quattro copie uguali del Capitale, consumate a tal punto da essere tenute insieme da un elastico, e una raccolta
di volumi stampati dagli Editori Riuniti che spaziavano un po’ in tutti i
campi. Alcune foto in bianco e nero di Berlinguer erano appese ai lati della
stanza, mentre sulla parete di fondo pendeva una bandiera dei Democratici
di Sinistra che era rimasta al suo posto malgrado il succedersi degli avvenimenti. Quella grande quercia ricamata sovrastava il nutrito gruppo di vecchi compagni che avevano tutto l’aspetto di essere rimasti a presidiare una
“Fortezza Bastiani” dove il cambiamento, al pari dei Tartari, non sarebbe mai
comparso all’orizzonte. Li avevo osservati fino a convincermi che solamente loro erano i colpevoli della mia mancata rielezione. Se non loro in
prima persona, per essere più esatti, lo era quel gioco di cui facevano parte.
Proprio così, avevo imparato a mie spese che gli iscritti ai circoli del Pd,
primancora ai DS, sono sempre stati usati dalle dirigenze per selezionare
“gli ultimi arrivati” colpevoli di non essersi accodati al gregge. Come dire che
tutta questa umanità senescente ha sempre obbedito al partito e votato
secondo le indicazioni fornite per mano del presidente di circolo. Si tratta
in gran parte di anziani convinti di rappresentare la parte più importante
dell’unico soggetto politico capace di governare il paese con assoluto rigore, onestà e profondo senso di giustizia. Gente con “la schiena dritta”, come
direbbe Bersani. Persone perbene che non immaginano nemmeno lontanamente cosa stiano facendo al piano di sopra
per accaparrarsi e dividersi i loro voti. Così
che quando si accorgono che una gazza
ladra è stata fatta passare per un canarino
diventano delle belve assetate di sangue
come nel caso del Sindaco Delbono e dei
suoi presunti viaggi “di piacere” pagati dalla
Regione. La maggior parte di questi fedeli
che il Professor Sofri definì “militanti antichi e
devoti”, provengono da forme associative
collaterali ai circoli del partito quali possono
essere i piccoli e i grandi sindacati, da quelIl senatore Ignazio Marino
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lo degli inquilini alla Cgil. Ma si pesca anche nei centri anziani, nelle polisportive, nelle bocciofile, nelle associazioni ricreative e nei gruppi di promozione sociale, da una rosa di strutture che lavorano in parallelo al partito pur mantenendosi a debita distanza. Una volta cooptati, gli iscritti saranno suddivisi nei circoli territoriali di appartenenza diventando l’indispensabile parte viva e attiva del partito. Discuteranno documenti e voteranno
mozioni facendo la fortuna (o la fine) di politici, candidati e leader. Ma con
la sola politica non si tengono accesi gli entusiasmi e per questo, tenendo
un piede nel circolo e l’altro nell’associazione collaterale, si organizzano
feste dove si mangia, si beve, e si balla. Crescentine, sottaceti, albana, una
bella tombolata e in chiusura di serata: filuzzi, fisarmonica, spumante a
volontà. Le feste del pesce, del cinghiale e delle povere rane fritte si moltiplicano a dismisura. Tutto quello che serve dev’essere fatto pur di mantenere fidelizzata una massa di manovra che ha sempre permesso alle dirigenze di pilotare gli esiti di un congresso o determinare la composizione
di un Consiglio Comunale attraverso una distribuzione mirata di bigliettini
con indicato il candidato prescelto. Il povero candidato che non può contare sull’appoggio di un presidente di circolo e si presenta alle elezioni deve
combattere contro sfidanti che ricevono la maggior parte dei loro voti
senza aver mosso un dito o fatto la benché minima fatica. Il partito indica
il “predestinato” e il circolo lo vota. Per il neofita che deve partire da zero (e
non da un + 400 preferenze) non c’è nessuna speranza di vincere. Proprio
così, in democrazia c’è chi si conquista i voti e chi li riceve d’ufficio dall’organizzazione, un altro trucco con il quale si potrebbe far eleggere “Otzi la
mummia” come segretario nazionale. Ma questa comunità che si genuflette
al Dio del bigliettino và lentamente scomparendo e molti “devoti” hanno
incominciato ad esserlo un po’ meno. Fidarsi é bene, ma non a prescindere. Il “cibo precotto”, preparato al piano di sopra, va quantomeno assaggiato
e da tempo si assiste ad un certo “imprevedibile” rinnovamento tra le file
del Partito Democratico.
Avvilente e terribile: ero stato battuto da un potere occulto sprigionato da un piatto di crescentine fumanti. Soprafatto da nonni gementi e giustiziato da un manipolo di canute adepte della polka. Ucciso a colpi di carciofini. Bastonato dai salami. Affogato nel lambrusco.
Si alzò dalla sedia il più anziano del gruppo, un tipo robusto, dal volto
rubizzo e dalla pelle incartapecorita sulle guance. Aveva tutta l’aria di essere il più importante ristoratore della zona. Un uomo che si è fatto da solo,
prima zappando fino a farsi venire i calli nelle mani e poi mettendo a frutto i soldi guadagnati nella più rinomata trattoria di tutto il circondario.
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Chiese la parola con una voce per nulla intimorita:
“Mi chiedo per quanto tempo ancora dovrà andare avanti questa storia” – disse con marcato accento bolognese – “ma io dico, possibile che
nessuno di quelli là che stanno a Roma se ne rende conto? Dimmi mo te
cosa ci stiamo a fare noi qui, se poi vengono fatte ‘ste primarie e arriva a
votare della gente che non si è mai vista prima qua dentro? Per questo voterò Bersani che ci rimette a posto il partito com’era prima perchè abbiamo
bisogno di un meccanico, mica di chiacchiere”
In un lampo mi apparve la verità, quel genere di verità che con grande disinvoltura spoglia il “nocciolo della questione” dalla buccia, da tutti quegli
inutili fronzoli nei quali se ne stava nascosto. Walter Veltroni, istituendo le
primarie, aveva aggiunto un’incognita al mare magnum di strategie, artifici e
trucchi usati dai burocrati di partito per ottenere ciò che volevano. Walter
era quindi diventato un nemico della creatura colpevole di aver messo in
pericolo il sacro equilibrio interno da sempre edificato sui giochi di potere
derivanti dal possesso delle tessere, perché le tessere, come si vedrà più
avanti, rappresentano la creatura, ne definiscono il perimetro, il peso, la
grandezza delle membra. Quel vecchio militante scontento che avevo
davanti non capiva quindi perché una persona avrebbe dovuto iscriversi al
partito, militare al suo interno, pennellare striscioni, “ciclostilare” volantini e
cuocere salsicce alle feste dell’Unità se qualcuno “che non si era mai visto
prima” poteva dire la sua alle primarie esercitando lo stesso potere di un
iscritto al partito dalla notte dei tempi. Non a caso, durante quel tour di presentazioni, quando i presentatori delle altre due mozioni si mettevano a litigare dietro alle tende, il bersaniano finiva sempre per rimproverare al franceschiniano che “Veltroni aveva umiliato i poveri circoli”. Eccola là la creatura
che spunta fuori nuovamente, ma questa volta è in compagnia. Qualcuno,
o qualcosa, vuole competere con lei: “specchio, specchio delle mie brame:
chi è la creatura più forte del Reame?”.
In quel momento si trovavano davanti allo specchio due “identità collettive” che erano entrate in conflitto. La prima era quella del partito con i suoi
iscritti, le dirigenze, le maestranze elette al seguito dell’esercito di opliti
senili nutriti a cetriolini, mentre l’altra era rappresentata da una nuvola nera,
di Hoyleiana memoria, formata da individui sconosciuti, per giunta esenti da
qualsiasi logica di potere, che potevano al massimo essere definiti col termine di cittadini. Costoro, gli atomi della nube, non erano mossi da un tornaconto personale, fosse anche questo un ruolo marginale all’interno di un
organigramma di potere, ma volevano dire ciò che pensavano punto e
basta. Purtroppo per loro, così numerosi e variegati com’erano, nessuno
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sarebbe riuscito a governarli con la stessa facilità di gioco fornita dal “monopoli” fondato sui pacchetti di tessere. Tanto è vero che quando si concluse il giro
di votazioni dedicate alle mozioni, in tanti incominciarono a temere che le primarie vere e proprie avrebbero potuto produrre un risultato diverso da quello
previsto. Già, proprio così: cosa sarebbe potuto succedere se Bersani, la cui
mozione aveva totalizzato il 55 % piazzandosi per prima, non fosse riuscito a
riconfermare il risultato su di sé? Il partito ha votato la mozione Bersani? Il
popolo preferisce Franceschini come leader! 1 a 1. Un pareggio, ma anche una
sconfitta. Per la prima volta un partito ha rischiato di prendersi un sonoro ceffone dalla cittadinanza attiva. Quanto stava accadendo sarebbe dovuto essere
un motivo per gioire della forza del popolo che penetra nei partiti per metterli alla prova. Al contrario si videro lampeggiare nel buio i risentimenti di chi
rischiava di essere messo alla porta dalle Primarie. I rumour esondarono sulle
pagine dei giornali. Paolo Franchi, sulle pagine del Corriere, dipinse così la situazione che si era venuta a creare: “per calcolo, per imperizia o per distrazione,
o per tutte e tre le cose insieme, è stata innescata, potenzialmente, una specie
di bomba a orologeria. Se un augurio si può fare al Pd è che il timer, per un
motivo o per l’altro, vada in tilt”. Gli fece eco Paolo Pombeni, esimio politologo,
che alla vigilia del voto mise in guardia il popolo da se stesso, da quel bambino viziato e volubile che dimostra sempre di essere: “Questa cosa (le primarie)
è messa in mano a una platea di irresponsabili” e alla giornalista del Carlino che
domanda se non si tratti di un giudizio un po’ troppo severo risponde:
“Irresponsabili in senso tecnico. Voglio dire persone che oggi votano in un
modo e domani in un altro. Gli iscritti, invece, sono responsabili perché hanno
comprato le azioni del partito”.
“Gli elettori invece no?” - lo incalza Rita Bartolomei . “No” – ribadisce il
professore – “perché si muovono per vincere le elezioni, non per il bene del
Pd”. Si accoda anche Luciano Violante che indignandosi con il giornalista de La
Stampa, Enrico Martinet, dichiara: “…è impensabile che il Segretario di un partito non sia scelto dagli iscritti, ma dagli elettori” - ai quali si può tutt’al più rifilare il contentino di - “…essere coinvolti su grandi temi referendari, ad esempio la questione del nucleare”. Adduce infine un esempio a sostegno di questa
opinione: “Sarebbe come se il gradimento del direttore di un quotidiano fosse
dato dai lettori e non dalla redazione giornalistica”. Si spiega così perché tutti
i giornali devono vivere di denaro pubblico. Evidentemente, si è deciso di
finanziarli per evitare che siano i lettori, comprando le copie, a determinare chi
è il direttore più capace. Ancora una volta non sono i numeri a dettar legge e
neanche il libero mercato o il talento delle persone, ma solo le amicizie nei partiti e nei ministeri che fruttano la moneta sonante dei finanziamenti. Ecco allo110
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ra che i redattori diventano “fornitori di assenso” e il direttore un “rappresentante
della redazione” in debito con la redazione che lo ha votato. Strada facendo i
giornali diventano dei “metapartiti” al soldo delle forze politiche. Non c’è niente da fare, la politica appartiene alla creatura e chi vuole farne parte deve farsi
dominare. La partecipazione non può essere lasciata al caso e tutto dev’essere
fatto rientrare nello schema rituale di sempre. Emblematico è ciò che scrisse
Max Weber a proposito della creatura e del leader: “ciò che egli (il leader) di
fatto realizza in tali condizioni non dipende pertanto dal suo volere, ma gli è
piuttosto prescritto da quei moventi dell’agire del suo seguito, per lo più eticamente meschini, i quali possono essere tenuti sotto controllo soltanto fino a
che una fede sincera nella sua persona e nella sua causa animi perlomeno una
parte dei suoi compagni. Non si tratterà mai della maggioranza di essi”. Tutto
il resto è solo “sete di vendetta, di potere, di benefici e di bottino”
Alla fine dell’ottobre di quel lontano 2009, Pierluigi Bersani, riconfermando il risultato delle votazioni interne al partito, fu eletto Segretario del Partito
Democratico. Vinse il partito e vinsero gli impauriti nemici delle primarie.
Il predecessore di Bersani, Walter Veltroni, sarà invece ricordato come il
politico che ha spalancato le porte del partito al tanto temuto, quanto sconosciuto, popolo delle primarie. “Per quella felice intuizione” - scriveranno i
posteri - “non gli fu concesso alcun riconoscimento se non la condanna a
morte spiccata dalla creatura “unus et omnes” - midollo molle delle associazioni
umane - che ha sempre temuto la forza del popolo più di ogni altra”.
L’imputato fece una pausa e abbassò gli occhi.
“Non ha risposto alla mia domanda” lo redarguì la Pubblica accusa.
“No” – rispose senza timore – “non possiamo fare a meno dei partiti se
è questo quello che vuole sentirsi dire. Ma quantomeno possiamo ridimensionare enormemente il loro ruolo, così da poter ridurre la creatura all’impotenza”.
“Mi chiedo” – s’interrogò a voce alta l’Accusa –“e tutti in questa aula se
lo chiedono, come mai lei non sia riuscito a combinare nulla. Eppure, per sua
stessa ammissione, vestiva due ruoli importanti all’interno del partito. Ci spieghi tutto, ci spieghi perché in quasi due anni la sua attività dirigenziale è stata
pari a zero”.
“A questo proposito” - illustrò l’imputato - mi sia permesso di raccontare un aneddoto sull’accoglienza riservata ai progetti che proponevo al partito”.
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La tirannia del tempo presente
Presi il treno per Roma in una fredda mattina d’inverno. Immaginavo
che ad accogliermi nella Capitale avrei trovato un clima più mite, cielo terso
e luce cristallina, tutt’altri colori rispetto all’opaco piombo dei cieli emiliani. Adoro Roma, ad eccezione del traffico tentacolare. Avrei voluto portare anche mio figlio con me, ma ci rinunciai dal momento che il partito non
mi rimborsava nemmeno il biglietto del treno (...chissà mai dove andranno
a finire tutti questi soldi del finanziamento pubblico?)
Durante la riunione precedente, uno dei responsabili di Youdem, un
signore corpulento dalla folta chioma argentata, aveva chiesto ai responsabili regionali di buttar giù un paio di idee da discutere all’incontro successivo. Eravamo andati lì per conoscere il piano di comunicazione nazionale
e invece scoprimmo che eravamo noi a dover decidere come il Pd avrebbe
comunicato. O meglio, loro avevano creato i contenitori come la tv Youdem,
il sito, i blog, e a noi spettava il compito di riempirli. Questo è lo specchio
dei tempi, si parte con la produzione dei contenitori vuoti senza preoccuparsi di cosa dovranno contenere. Ha proprio ragione Milena Gabanelli, il
prezzemolo serve solo a rifilarci una vaschetta di plastica che costa sei volte
di più di quello che contiene. Quando tornai a casa e informai la Federazione
Regionale ci restarono di stucco abituati com’erano ad eseguire gli ordini
impartiti dall’alto. Un vero capo, secondo loro, deve dirigere. Chiedere ai
sottoposti di collaborare è un segnale d’incapacità. E giù a dirne di tutti i
colori biascicando strane storie sulla buona gestione aziendale. Sembrava
di sentir parlare mio zio che ha messo in piedi una catena di supermercati.
Me ne infischiai di quello che pensavano Monarca e soci, tanto che
presi quella richiesta con slancio. Finalmente si cambia! Mi dissi eccitato.
La vittoria si gioca sul filo delle idee e non sulle raccomandazioni. Ero
attraversato da uno stato febbricitante e pensai al progetto che avevo in
mente per tutta la notte, girandomi e rigirandomi nel letto. La mattina dopo
non misi nulla sulla carta per paura di perdere l’entusiasmo e la genuina
spontaneità che ritengo debbano permeare le idee che sono esposte in
pubblico per la prima volta. Dopo circa un mese mi giunse una e-mail che
mi chiedeva di recarmi alla sede del Partito Democratico in via delle Fratte.
Davanti all’ingresso trovai un soldato che imbracciava un fucile lucidato ad olio; passandogli davanti immaginai che mi avrebbe domandato chi
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ero e invece infranse l’aspettativa, sbadigliò e fece finta di niente.
Salendo in ascensore incominciai a riflettere sull’intervento. Avevo
una paura terribile di fare una brutta figura. La signorina con il cappuccino in mano mi guardò con lo sguardo sofferente. Mi ripresi dai miei pensieri accorgendomi che le porte dell’ascensore si erano aperte sul piano
dov’ero diretto. Mi scusai e imboccai lo sconfinato terrazzo che domina
Roma dall’alto e che funge da anticamera a cielo aperto della sala dedicata
alle conferenze stampa che si vedono nei telegiornali. Sul lato destro si
affacciava la stanza scelta per l’incontro. I miei colleghi scesi, o risaliti, dalle
altre regioni si erano seduti attorno al lungo tavolo. Riconobbi soltanto
l’Onorevole Gentiloni, responsabile politico del dipartimento e proprio
mentre mi toglievo il cappotto comparve sulla porta Veltroni. Era sorridente, pettinato, e indossava un completo chiaro appena stirato. Con quell’aria felice sarebbe andato a pennello per interpretare Willy Loman in
“Morte di un commesso viaggiatore”. Non mi si chieda perché, fu solo un’associazione casuale. Un tipo sul fondo aprì i lavori dopo aver chiesto la parola. Non ero mai intervenuto prima di allora. Agli altri incontri avevo assistito in silenzio fingendo di prendere appunti. Confesso che non mi sentivo per niente a mio agio. È una regola che mi sono dato: non parlare mai
davanti ad una platea di cui non te ne sei fatto un’idea precisa in anticipo.
Sentivo il cuore battermi nel petto e il respiro diventare affannoso, mi
domandavo se ce l’avrei fatta a tenere in piedi il discorso senza perdermi
in qualche vicolo cieco. Non aprire parentesi! Mi ordinai. Se le apri finirai
per perdere il filo del discorso. Va sempre a finire così quando apri tutte
quelle parentesi. Ne apri una, poi un’altra e alla fine non sai più come chiuderle. Non fare il fesso e fai vedere quello che vali. Come coach di me stesso andavo fortissimo.
Feci segno che volevo intervenire al responsabile esecutivo della
comunicazione, un tipo dallo sguardo intelligente, ma un po’ triste. Mi lanciò un’occhiata, tanto per capire chi fossi, e mi concesse la parola. Presi
fiato e incominciai da una teoria che imputa la morte delle storie al proliferare incontrollato del tempo presente:
“Se è vero che l’opera d’arte - come afferma Walter Benjamin - nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è stata decontestualizzata dai suoi
luoghi canonici di fruizione, allo stesso modo, le vite delle persone sono
transitate dal privato al pubblico di pari passo con il diffondersi dei telefoni cellulari. Questi moderni strumenti di comunicazione rappresentano il
primo passo di un fenomeno in veloce evoluzione che mira alla spettacolarizzazione delle esistenze umane. Anche se le nostre vite sono di una
banalità disarmante, non importa. Per il solo fatto di essere esibite in pub113
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blico trovano in questo una loro ragion d’essere: diffondo il mio riflesso
quindi esisto, anzi, più lo divulgo e più esisto. Non importa far sapere chi
si è realmente, l’introspezione è roba vecchia, un arnese da romanzieri che
richiede troppo tempo per essere assimilato. Meglio usare le immagini digitali o la loro trasfigurazione letterale in frasi ermetiche (i 140 caratteri di
Twitter). Entrambe sono immediate, istantanee, come recita lo slang dei
blogger, “arrivano subito”. Questa iper-riproduzione pornografica della propria esistenza ha prima comportato la morte delle cabine telefoniche (rifugi usati dagli antichi per conservare le conversazioni private*) e subito
dopo ha preteso nuovi territori da occupare non accontentandosi più di
quelli circostanti. Gli spazi coperti da una conversazione al cellulare ascoltata all’interno di uno scompartimento ferroviario, in autobus o dentro alla
sala centrale di un ristorante, si sono rivelati troppo angusti. Ogni produttore di auto-pubblicazioni esistenziali mira ad aumentare l’audience emulando il
comportamento di quei mass-media, prima fra tutti la televisione, che traggono la misura del proprio successo dalla quantità degli ascolti e non dall’indice di gradimento del messaggio. Facebook e tutti gli altri social network
sono quindi nati per trasformare la vita privata delle persone in un reality
show dove ciascun membro del gruppo diventa l’editore che intrattiene il
pubblico stampando e diffondendo la propria esistenza nel momento stesso in cui si compie. Tutti i corpi virtuali si mescolano in un gioco di specchi dove gli editori diventano spettatori e gli spettatori si trasformano a
loro volta in editori. Guardoni ed esibizionisti sono attratti da “impressioni
flash” sparate dentro alla rete sotto forma di “attimi fuggenti surgelati”,
“Madeleine Findus”, “frammenti esistenziali”. Un’esplosione di “istanti presenti”
che finisce per ricoprire passato e futuro in un incessante mescolarsi di
sacro e profano, di bello e di brutto, di inutile e prezioso. Lo spettacolo
della realtà, ovverosia l’inconfutabile verità pornografica di ciò che appare
per quello che è, senza più nessuna mediazione, falsificazione o filtro, si
antepone ad un mondo dove i mezzi di comunicazione, al soldo della politica e dei monopolistici gruppi di mercato, procedono in senso contrario
diffondendo informazioni distorte o fortemente compromesse dalle interpretazioni. I cittadini antepongono se stessi, i propri corpi, le proprie vite,
a tutte le falsità che opprimono lo spazio reale. Per questo, tutti sanno quello che stanno facendo gli altri pur trovandosi in un posti diversi. Non si
tratta di un fenomeno nuovo e gli antenati dell’”istant life” sono numerosi.
Nella soap Sentieri, Charita Bauer interpreta Berta Bauer dalla versione radiofonica del 1956 fino a quella televisiva del 1984. Gli eventi salienti della vita
di Charita, come la nascita di un figlio o la perdita della gamba causata dal
diabete, si trasformano in puntate della fiction. Quando l’attrice muore
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anche il personaggio Berta la segue. Nicholas Ray in Nik’s film di Wim
Wenders si spegne lentamente davanti alla macchina da presa. Tra la realtà e
la finzione sfumano i confini mentre la televisione invade le case. In soggiorno o in camera da letto compaiono delle immagini colorate, nanificate,
parlanti, docili come un pesce rosso e innocenti come un bambino. Tu
credi di doverle educare e invece sono loro che ti addomesticano e a lungo
andare si è finito per perdonare loro ogni stupidità, o peggio, per lasciarle
fare, e dire, ciò che vogliono. Per la prima volta nella storia dell’evoluzione
un’entità immateriale, solo apparentemente viva, è riuscita a condizionare
un essere vivente. Per questo i politici hanno intravisto nella tv lo strumento più idoneo alla creazione del consenso, uno specchio magico che orienta le opinioni e influenza i comportamenti. L’apetto informativo ha così
prevalso sugli altri facendo diventare la tv un distributore di avvenimenti.
Film, telefilm e varietà sono diventati gli internmezzi collocati tra i telegiornali. I sistemi d’informazione collegati alla carta stampata, sorella flemmatica del tubo catodico, sono stati i primi ad adeguarsi alla richiesta di istantaneità. Le agenzie di stampa, ad esempio, hanno iniziato per prime a produrre notizie all’istante ben sapendo che la descrizione di un evento dev’essere assolutamente trasformata in un file di testo e pubblicata sul “server”
senza attendere la sua naturale conclusione. Una volta compresa l’importanza della diretta, anche tutti gli altri media hanno così incominciato a catturare, riprodurre e trasmettere l’inarrestabile evolversi della realtà. Ogni
avvenimento che accade in questo momento nel mondo si materializza un
pezzo per volta attraverso una sorta di crescendo informativo. Un fatto
ogni ora, un frammento dello stesso ogni mezz’ora, migliaia di messaggi
ogni minuto, centinaia al secondo. Si tratta di un bombardamento che
restringe, fin quasi ad annullare, lo spazio compreso tra un’informazione e
l’altra, nell’ambizioso tentativo di dare vita ad un unicum temporale molto
simile a quello che si genera nei social network. Ragion per cui ha preso
piede una sorta di dittatura del presente dove il prima e il dopo, il passato
e il futuro, hanno perduto ogni utilità e si sono estinti come animali rari.
Persino le favole dei bambini non iniziano più con il rituale preparatorio
del “c’era una volta”, ma con un improvviso annuncio: “ci sono i Simpson alla
televisione!”. Proprio così, la televisione che ogni famiglia lascia perennemente accesa si è sostituita agli orologi e lo spostamento delle lancette è
scandito dall’inizio e dalla fine di un programma. Il palinsesto della programmazione ha preso il posto del quadrante. Come il cucù della pendola
Svizzera, l’altoparlante della tv chiama a raccolta gli spettatori interessati,
mentre informa gli altri dello spazio temporale - mattina, sera, pomeriggio
o notte - in cui si trovano.
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Un’ulteriore conferma alla tirannia del tempo la si trova consultando i
giornali o assistendo ad un notiziario televisivo con un paio di giorni di
ritardo dal verificarsi di un accaduto importante. Capita spesso di non riuscire a capire cosa sia successo esattamente. Come se un “fatto esteso” si
fosse trasformato in uno sceneggiato a puntate dove non compare nessun
riassunto degli episodi precedenti. Questo accade perchè ogni notizia,
dovendo apparire inedita, viene depurata e subisce l’asportazione di tutto
ciò che appartiene al passato e quindi dei residui delle notizie precedenti.
È interessante notare come l’attentato alle Torri Gemelle sia stato
costruito per rispondere a questa vorace richiesta di eventi colti nell’istante esatto in cui si verificano. L’aereo che si è abbattuto sulla torre nord è
stato ripreso soltanto dalle telecamere amatoriali puntate accidentalmente
sul luogo del disastro, ma è servito a richiamare i cronisti sul posto che
hanno potuto riprendere in maniera professionale, in diretta e con le telecamere montate sul cavalletto, il secondo aereo che si è abbattuto sull’altra
torre. Il primo Boeing dell’American Airlines si è comportato come la “band
supporter” che suona prima della rockstar per scaldare il pubblico, mentre il
secondo aereo dell’United Airlines ha funzionato come la finale mondiale di
un campionato di calcio. Se quella dell’informazione è una guerra, le immagini dirette dal regista Bin Laden hanno soprafatto le altre stando al numero di volte in cui sono state trasmesse. Sono riuscite ad “iconizzarsi” nella
mente dell’umanità soltanto poche ore dopo la tragedia. Nulla ha finora
preso il posto della voragine vuota che si è creata là dove un tempo si alzavano le torri gemelle. Per quale motivo? Forse per l’incapacità di creare un
“alter-icona” più forte di un simbolo americano che finisce in mille pezzi?
Vi chiederete a questo punto cosa c’entrano i politici in tutto ciò. I
politici sono le prime vittime dell’attuale dilatazione del presente. Il ruolo
ricoperto impone loro di essere sempre al centro dell’attenzione e li
costringe ad avere una risposta su tutto ciò che accade. Senza averlo voluto sono diventati dei “dispenser di opinioni”. Il giornalista inserisce la monetina, pone una domanda, e loro elargiscono la risposta. Appaiono sui tele116
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schermi come fantasmi di mattina presto, ritornano all’ora di pranzo e continuano ad emettere suoni fino a notte fonda. “Ma chi sono? Chi sono
quelle figure bercianti davanti a Palazzo Madama o con un corridoio di
Montecitorio alle spalle?” Si chiedono i telespettatori. “Cosa provano?
Amano e piangono? Vivono come noi? E da dove vengono? Sono forse
fuoriusciti dai grossi baccelli verdi prodotti dall’invasione degli ultracorpi?”.
Sono corpi vuoti senza una storia alle spalle. Otri ripieni di parole da pescare a caso, talvolta per comporre poesie dadaiste da gettare in pasto a folle
di sconcertati lettori. Non è un caso se i consulenti di Ronald Reagan, che
molto prima di noi si trovarono a dover fronteggiare la dissoluzione del
tempo e dello spazio, abbiano deciso di porvi rimedio ricorrendo all’uso di
artifici rubati alla narratologia. Mediante la ricostruzione del vissuto passato di Ronald Regan sono riusciti a ricongiungere il Presidente alla storia degli
Stati Uniti e quest’ultima al popolo americano secondo uno schema simile
a quello usato nel film Forrest Gump dove il percorso esistenziale del protagonista diventa, attraverso un’uso sapiente dell’empatia, la storia
dell’America e dunque di tutti gli americani. Citai Evan Cornog quando
afferma che: “…dalle origini della Repubblica americana fino ai giorni
nostri coloro che hanno cercato di conquistare le cariche più alte dello
stato hanno dovuto raccontare a chi aveva il potere di eleggerli delle storie
convincenti sulla nazione, sui suoi problemi, e soprattutto su loro stessi,
perché senza una storia giusta non c’è né potere né gloria”.
Mi fermai per riprendere fiato. Non sono mai riuscito a tirarla tanto in
lungo senza mai fare una pausa. Mi accorsi con piacere che chi avevo visto
parlottare con il vicino si era girato dalla mia parte per ascoltare con attenzione quanto stavo dicendo. Non dovevo assolutamente allentare la presa
ed ero pronto per il round finale. Continuai a ragionare affermando che “La
Casta” non era un’inchiesta giornalistica, ma una raccolta di storie politiche.
Una lunga serie di storie negative sui politici che avevano trovato un
ambiente ospitale dove riprodursi e propagarsi. Tutto quello che restava
della canonica comunicazione politica nella quale rientravano stuoli di
ridondanti opinioni, mandrie di fatue prese di posizione e branchi di sterili comunicati, erano diventati dei signal hurdle**. Messaggi inutili che gli elettori annoiati saltavano a piedi pari. Se il Partito Democratico, più di ogni
altro, aveva intercettato i malumori sprigionati da “La casta” - (come si
sosteneva in tutte le sedi) - era necessario adottare gli stessi rimedi che la
Nike aveva posto in campo quando si era trovata a dover fronteggiare la
storia dei bambini sfruttati che cucivano i palloni in qualche sperduto paese
del terzo mondo. Cosa aveva fatto la Nike? Non solo aveva rivisto le sue
politiche commerciali introducendo regole ferree nell’aggiudicazione e
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nella gestione degli appalti, ma si era messa a scrivere storie sulla riconversione. Storie buone da opporre a quelle cattive. Storie da usare come antidoto al diffondersi incontrollato del presente. Storie di un partito nascente, storie di un’impresa epica. Tante storie per consolidare un sogno e rendere più umani i leader democratici”.
Questo era il succo del mio progetto che avrei spedito a tutti all’indomani spiegando nei dettagli come declinarlo nella realtà. I circoli, per esempio, sarebbero stati rimodernati tecnologicamente fino a diventare delle
Street tv. Questo e molto altro ancora. Fine! Non dissi nient’altro.
Mi guardai attorno facendomi delle domande. Ero stato troppo prolisso? Spocchioso? O avevo messo troppa carne al fuoco? Un attimo di
silenzio e incominciarono ad arrivarmi alcune benevole occhiate. Qualcuno
mi sorrise, ma la maggior parte dei presenti sembrava che stesse ancora pensando alle mie parole. Li avevo colpiti, non c’è dubbio. Il signore che mi sedeva di fronte, un regista cinematografico con la barba non fatta, mi strizzò
prima l’occhiolino, quindi scosse la testa e col pollice e l’indice rivolto verso
di me a mo’ di pistola mi sparò facendomi intendere che avevo centrato il
problema. Anche il responsabile esecutivo della comunicazione “fece sì”
con la testa sibilando un “bravo!” tra i denti. Sorrise e passò la parola ad
un altro dirigente. Gli interventi che seguirono, compreso l’ultimo, quello
dell’Onorevole Gentiloni, mi citarono più volte e, senza darlo a vedere, fui
travolto dalla felicità. Lo storytelling, quale metodo di lavoro, sarebbe stato
adottato dal partito all’unanimità dei presenti. Così mi ero illuso di credere. Terminata la riunione seguì un buffet dove alcuni colleghi mi chiesero
se all’indomani avrei potuto inviare a tutti il testo dell’intervento.
Due ragazze, una più carina dell’altra, (incaricate di seguire i siti internet e le varie redazioni di YouDem l’emittente, modello YouTube, del partito)
mi vennero incontro e anche loro mi fecero i complimenti. Le contraccambiai dicendo che mi sarebbe piaciuto lavorare insieme a loro e per un breve
periodo sarei stato disposto a farlo gratuitamente. Anzi, dissi che mi sarei
offerto volontario e che sarei andato a casa soltanto per prendere lo spazzolino, lasciare mia moglie, e mettere mio figlio all’orfanotrofio.
Avrei voluto tornare a Roma il giorno seguente, ma da quel giorno
non si fece sentire nessuno. In politica, evidentemente, anche le buone idee
hanno bisogno di una “spintarella” per essere adottate.
* È interessante notare come la sparizione delle cabine telefoniche sia stata accompagnata dalla
scomparsa dei bagni pubblici con il successivo proliferare delle deiezioni, liquide e solide, nelle strade e
nelle piazze di molte città. Un altro effetto della spettacolarizzazione della privacy nel quale rientra l’urinare in pubblico.
** I Signal hurdle sono messaggi che ottengono lo stesso risultato dei cavalletti usati per la corsa ad
ostacoli. Basta osservare un cittadino mentre fa colazione al bar, e contemporaneamente legge il giornale, per accorgesi di come gli articoli che trattano argomenti di politica siano letteralmente saltati dal suo
sguardo.
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Il calderone di Medea
“Viviamo in un’epoca che è in preda ai
dolori del parto e tutte le forme di pensiero e
di attività, che posseggono un largo patrimonio d’utilità o una segreta virtù, sono messe
in persistenza a una prova suprema per
rinascere sotto nuove parvenze. Il mondo di
oggi è come un enorme calderone di Medea
ove tutto viene fuso, smembrato, sperimentato, combinato e ricombinato, per servire di
materia a nuove forme, risorgere in una
nuova giovinezza e nuovi modi d’esistenza”.
S r i A u r o b i n d o Poeta e filosofo
“Quindi se ho ben capito” – rimuginò la Pubblica accusa carezzandosi la barba bianca – “i partiti, questi strani agglomerati umani che hanno
preso vita e si sono messi a pensare, assistono impassibili alla morte della
loro stessa ragion d’essere. Dal ponte di comando, senza muovere un dito,
la guardano mentre affonda in un oceano di “momenti presenti” dove ad ogni
azione se ne sovrappone un’altra. È questo quello che ha voluto dirci?”
chiese.
“Storia - recitano i vocabolari - altro non è che una diffusa narrazione di fatti, avvenimenti e cose degne di cui si vuol tramandare ai posteri la memoria” – asserì l’imputato – “e, contrariamente a quello che
dovrebbe essere, i partiti, come qualsiasi forma vivente, non hanno bisogno di nessun’altra ragion d’essere se non quella, l’unica, che permette loro
di sopravvivere e la storia non è inclusa fra queste. Il resto, le altre ragioni,
sono solo i richiami dell’uccellatore le cui prede si fanno ogni giorno più
furbe. Anzi, rinunciare ad avere una storia alleggerisce dalle responsabilità
di dover restare fedeli a quello per cui si è combattuto. Liberi di poter fare
tutto quello che si vuole e il contrario di tutto ciò che si è stati. Nella
“dimensione adesso”, così come l’abbiamo descritta finora, il cambiamento
non è più quell’addivenire inarrestabile di istanti dove ci si lascia alle spalle frammenti di presente congelati nella memoria, ma uno stato indispen119
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sabile alla costruzione di un’attesa permanente, che non possiede né capo
né coda, ed è la condizione adottata dai capi per non pagare un prezzo alla
propria incapacità.
Le cose vanno male? Cambiando miglioreranno. Il partito non funziona? Fondiamone un altro. La legge elettorale è imperfetta? Variamone una
nuova. Veltroni è inadeguato? Mandiamolo a casa! Casini dissente? Via
dalla coalizione! Fini si lamenta? Rinasca un nuovo PDL senza di lui!
Questi cambiamenti sono l’osso buttato in pasto ad una muta di cani
latranti che non ne può più di sentirsi dire che tutto cambierà presto. Tanto
che agli altri, ai cani tranquilli, non importa più sapere se si è cambiati in
meglio o in peggio, per loro ciò che conta è cambiare. Cambiare ad ogni
istante così che i dubbiosi resteranno in educata attesa del benefico effetto prodotto dal cambiamento. Da quando sono entrato in politica, ormai dieci
anni or sono, ho assistito ad un estenuante susseguirsi di rinnovamenti che
avrebbero dovuto produrre un miglioramento dei partiti, dell’intero sistema politico, delle istituzioni, del paese, ed è stato tutto un moltiplicarsi di
metamorfosi senza che mai una volta, una sola volta, mi sia capitato d’incontrare qualcuno veramente interessato a valutare l’efficacia della trasformazione. Viceversa erano tutti troppo presi dalla nuova, sempre diversa,
trasmutazione in corso, così che ad un fuoco che avrebbe potuto diventare un faro si è preferito dare vita ad un firmamento di fiammiferi accesi
sulle teste di un nutrito popolo di “attendenti”.
Prendete un qualsiasi politico e domandategli cosa stia facendo nel
momento in cui lo interrogate. Vi risponderà a caldo affermando che sta
preparando un congresso, fondando una corrente, istituendo un’associazione, collaborando alla stesura di una legge. Nove volte su dieci vi descriverà un’azione, dilatata all’infinito, il cui compimento produrrà un significativo miglioramento dello stato delle cose. La stessa azione dei partiti non
si valuta più dai risultati raggiunti, ma dalla capacità di far credere che i millantati cambiamenti produrranno un effetto. Un esempio su tutti: il famigerato “contratto con gli italiani” firmato da Silvio Berlusconi a Porta a porta.
Di cosa si è trattato se non della spettacolarizzazione di una promessa che
si è dilatata all’infinito e continua a tutt’oggi ad espandersi come una gigantesca macchia d’olio? A quale verifica o analisi è stata mai sottoposta?
In verità, la politica muta senza produrre mutamenti, questo è il vero
problema. La Lega continua a cacciare i clandestini, il Pdl continua a non
far pagare le tasse agli italiani e la sinistra continua a rappresentare la parte
migliore del paese. Ecco a cosa è servito l’essere riusciti a dilatare il presente: è stato di fatto impedito a chiunque di giungere alle conclusioni”.
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Un bambino di non più di dodici anni saltò il parapetto di legno che
conteneva il pubblico correndo vicino all’imputato.
“La prego” – implorò il fanciullo – “La prego, ci racconti un’altra storia come quella di Carlo Sabattini”
Due ufficiali gli si lanciarono addosso per portarlo via, ma il giudice
fece segno di soprassedere.
“D’accordo” – disse l’imputato – “ti racconterò la storia di un altro
spirito libero che ha dimostrato quanto sia feroce l’azione coordinata degli
uomini. Il genio è il vero martire della storia”
Il processo aveva preso una piega anomala. L’Accusa ebbe come l’impressione di trovarsi davanti ad un navigato conferenziere. Dove vuole
condurmi l’imputato? Quale strategia persegue? Si domandò dentro di sé e
poi guardò in un angolo della sala come per nascondere lo sguardo alla
Giuria.
“Interessante, molto interessante, continui” annuì il giudice dispensando sguardi benevoli in direzione dell’imputato.
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Sacrificate in nome della scienza
“Dovunque e comunque si manifesti l’eccellenza, subito la generale mediocrità si allea e
congiura per soffocarla”
A. Schopenhauer
“Il Dottor Semmelweis, visse a cavallo dell’Ottocento, e la sua storia
rappresenta un buon esempio di quella ‘guerra all’eccellenza’ combattuta
senza tregua in ogni angolo del globo dalle associazioni umane.
Nel maggio del 1847, Ignác Semmelweis, subito dopo la morte di un
amico che si era accidentalmente ferito col bisturi utilizzato per sezionare
un cadavere, formulò l’ipotesi che la febbre puerperale, una piaga che mieteva migliaia di vittime tra donne e neonati, potesse dipendere dalla mancanza di adeguate norme igieniche. Bisogna far presente che a quei tempi
le cognizioni di microbiologia erano pressoché inesistenti e soltanto nel
1864, quasi diciassette anni dopo l’inizio di questa storia, il biologo francese Louis Pasteur riuscirà a dimostrare scientificamente che i microbi sono
incapaci di generarsi spontaneamente in ambienti sterilizzati e mantenuti
tali nel tempo. Intuizione questa sulla quale si fonderanno le linee di igiene
e profilassi adottate nelle odierne strutture sanitarie. Semmelweis partendo
dal bisturi infetto che aveva ucciso il collega Jakob Kolletschka, la cui salma
presentava lesioni simili a quelle prodotte dalla febbre puerperale, scoprì
che nel suo ospedale tutti gli studenti di medicina, così come i medici e il
personale infermieristico, dopo aver frequentato i tavoli anatomici, si trasferivano nei reparti di ostetricia venendo a contatto con le partorienti.
Considerato che nessuno cambiava l’abito e nemmeno si disinfettava le
mani, i germi si trasmettevano dai cadaveri alle degenti che nel giro di poco
tempo si ammalavano e morivano. Il medico ungherese intuì, molto prima
di Pasteur, che un’adeguata disinfezione avrebbe potuto ridurre la trasmissione delle malattie. Convinto di questo costrinse il personale ospedaliero
a lavarsi le mani in una soluzione battericida di cloruro di calcio e da quel
momento i numeri incominciarono a dargli ragione. Dopo il primo anno
di sperimentazione le morti di donne e neonati si dimezzarono e l’anno
successivo si ridussero del 99%.
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Da quel momento il metodo del dottor Semmelweis fu adottato in
tutti gli ospedali salvando così milioni di vite. Al padre di questa benefica
innovazione furono conferite le più alte onorificenze del paese e l’intero
mondo accademico europeo gareggiò per averlo come relatore nei propri
convegni mentre gli editori più prestigiosi si sbranavano per garantirsi l’autobiografia dell’eroe che passerà alla storia come il Salvatore delle madri. La
città natale, Budapest, diede il suo nome all’ospedale comunale, nonché al
museo della medicina, ed eresse una statua monumentale scolpita in
memoria della sconfitta della febbre puerperale. Negli anni che seguirono
Ignác Semmelweis visse negli onori e nella gloria. Ma le cose andarono
proprio così? Nel modo in cui le ho raccontate? Ognuno di voi, tutti i giurati dal primo all’ultimo intendo, vogliono con tutto il cuore – immagino che siano andate in questo modo. Sbaglio forse?”
I membri della Giuria guardarono l’imputato con occhi assenzienti.
Alcuni, i più entusiasti del racconto, si spinsero ad annuire con la testa. No,
mi spiace. L’imputato scosse il capo.
“Le cose”- continuò l’imputato con aria affranta - “andarono molto
diversamente. Ignác Semmelweis, forte dei suoi numeri, informò il mondo
accademico, ma nessuno gli diede ascolto tanto che il tasso di mortalità
negli altri ospedali non diminuì affatto. La scoperta avvalorata dai risultati
ottenuti gli attirarono addosso le gelosie e le invidie di molti colleghi a
incominciare dal direttore dell’ospedale dove prestava servizio che si sentì
scavalcato dalle decisioni prese da un sottoposto gerarchico. Come si permette questo Semmelweis di impartire disposizioni di mia esclusiva competenza? Le infermiere si sentirono umiliate dal doversi lavare le mani e le
pazienti non gradirono l’aumento dei costi determinati dai cambi frequenti delle lenzuola. Sulla base di queste argomentazioni non gli fu rinnovato
il contratto cosicché il precursore di Pasteur, Koch e di Joseph Lister (la cui
storia assomiglia per alcuni aspetti a quella del suo antesignano ungherese)
si ritrovò disoccupato. Cadde in depressione e fu rinchiuso in manicomio.
Qualche giorno dopo essere stato percosso dagli inservienti dell’istituto
manicomiale morì di setticemia, sebbene la medicina del tempo, per voce
di qualche antenato di Re Picos, abbia attribuito la causa della morte ad una
sifilide contratta in gioventù. Sarà solo nel 1965 che un’indagine paleopatologica smentirà definitivamente questa ipotesi squalificante. Viene quindi da chiedersi perché la comunità scientifica del tempo scelse di non avvalersi del metodo scientifico per verificare l’ipotesi formulata dal dottor
Semmelweis. La risposta è più semplice di quanto si possa credere: la
comunità scientifica risponde alle stesse regole a cui sono assoggettati i
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partiti politici e di conseguenza, come ho già avuto modo di spiegare, non
può essere concesso nessun merito personale se la popolarità che ne deriva non ricade anche sulla comunità di individui che deve dispensare il riconoscimento. Non a caso, se tutti i colleghi di Semmelweis avessero accettato all’unanimità la tesi delle ‘mani sporche’, Ignác sarebbe diventato un eroe
e gli altri medici una manica di untori assassini. Non sia mai! La corporazione medica, la creatura, ha difeso se stessa infrangendo il Giuramento di
Ippocrate. Tutta la scienza pare averla seguita dimenticando i presupposti
fondamentali dai quali si è originata. Dal libro scritto dal Prof. Evandro
Agazzi (Il bene, il male e la scienza):
‘Ma un passo ancora più impegnativo fu presto compiuto: esso concentrava la critica della scienza non più sul suo possibile impiego e sulle sue
conseguenze, ma direttamente sulla sua struttura noetica (cioè conoscitiva), negando che essa fosse quel modello di conoscenza imparziale,
pubblica, controllabile e critica che, a lungo, si era creduto che fosse. Si
proclamò, al contrario, che la scienza è sempre il prodotto di una comunità sociale, che essa cresce a partire dalle fondamentali visioni del
mondo e dalle convinzioni preconcette che caratterizzano una tale
comunità, che essa tende a servire inevitabilmente gli interessi della classe dominante, a sostenere i suoi fondamenti ideologici, a fornirle strumenti intellettuali e pratici per preservare le sue posizioni di privilegio.
La pretesa oggettività e controllabilità delle dottrine scientifiche fu
dichiarata puramente fittizia, mentre si sottolineò fino all’eccesso che
l’organizzazione gerarchica della comunità scientifica, i legami tra i suoi
leader ed il potere politico e/o economico, il controllo esercitato sulle
pubblicazioni, l’accesso ai fondi per la ricerca, l’effettiva possibilità di
esprimere opinioni (scientifiche) dissidenti, erano tutte determinate da
potenti fattori extra-scientifici’.
Se persino la scienza si è piegata al volere scaturito dalla maggioranza è
segno che l’occidente non è più soltanto al tramonto, ma è precipitato nella
notte più profonda. Basta guardarsi attorno per scoprire che non sono soltanto le discipline scientifiche, ma anche tutte le altre attività umane ad
essersi politicizzate. Il vecchio metodo scientifico fondato sui risultati dove
1+1 ha sempre fatto 2 in qualsiasi parte della terra è stato soppiantato dal
‘dogma maggioritario’ secondo il quale 1+1 può anche fare 3. Fa 3 se è la maggioranza ad esserne convinta mentre i sostenitori del 2 soccombono. La
capacità di stringere e consolidare relazioni, la costruzione di un’alleanza
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capace di dominare l’intero gruppo, ha prevalso sui risultati.
Dalla medicina al libero mercato non sono più le merci che devono incontrare i favori del pubblico per essere acquistate, ma sono le condizioni create dalle maggioranze che dominano il mercato a decidere quali prodotti si
guadagneranno l’apprezzamento degli acquirenti e quali non raggiungeranno mai gli scaffali dei punti vendita. Le società miste pubblico - privato, le
cosiddette multi – utility italiane rappresentano solo la punta dell’iceberg.
Non hanno concorrenti, non sono soggette al controllo dei rappresentanti del popolo (se non a costo di ottemperare a lunghe trafile burocratiche),
hanno la piena facoltà di stabilire i prezzi dei servizi erogati. Sebbene non
ci sia nulla di che rallegrarsi si tratta di un fenomeno globalmente diffuso
che permette di spiegare come certi ‘grandi’ manager siano riusciti a restare in sella malgrado i pessimi risultati descritti dal Corriere della Sera (30
marzo 2009) con queste parole: ‘Rick Wagoner, (ndr numero uno della
General Motors) sopravvissuto a tutti i disastri degli ultimi anni – crolli delle
vendite, perdite record, accordi falliti, errori nella scelta di nuovi prodotti
– se ne va’. L’articolo continua spiegando che per scalzare questo guru
delle perdite non è bastata l’evidenza dei fatti, ma ci sono voluti 38 miliardi di dollari del Governo Americano concessi in cambio delle sue dimissioni. La politica ha dovuto pagare fior di quattrini per ottenere la testa di Rick
dalla maggioranza che lo ha prima incoronato e subito dopo mantenuto al
suo posto durante una lunga reggenza da incapace.
A Grillo lasciamo il compito di descrivere le qualità dei nostri manager:
‘Mediobanca, quotata in Borsa, è lo snodo della finanza italiana. Il
presidente Cesare Geronzi è indagato per il crack Parmalat per usura
aggravata e concorso in bancarotta fraudolenta. Per il crack Cirio è
indagato per frode, per l’emissione e il collocamento dei bond Cirio tramite Capitalia. Per il crack Italcase è stato condannato in primo grado
per bancarotta a un anno e otto mesi più l’interdizione di esercitare
uffici direttivi presso qualunque impresa per due anni, poi è stato
assolto in appello… Fatevi dunque qualche domanda: perché chi dirige le banche è milionario anche se i suoi clienti perdono soldi? Milioni
di euro di stipendi senza risultati. Fai fallire un’azienda e in cambio
ottieni, quasi come per Alitalia, Ferrovie dello Stato, Telecom Italia, bonus
a volontà, stock option, compensi da mille e una notte’.
(A riveder le stelle, Rizzoli)
Di che lamentarsi se i partiti, che dovrebbero dare il buon esempio,
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hanno abolito per primi tutte le conseguenze che derivano dagli errori e
dalle sconfitte? Perché illudersi che gli altri facciano diversamente?
La triste verità è che in questo “paese per vecchi” le persone geniali sono esiliate da maggioranze che non possiedono nessun’altro talento se non quello di essere le più abili tessitrici di una fitta rete di relazioni fondate sulle
convenienze reciproche. Se non sei parte del gioco, non sei nessuno!”
“Vuole convincere quel povero bambino che la propensione dell’uomo a
collaborare è quanto di più nefasto ci possa essere? Vuol fare di lui un individualista a cui non importa un accidente della società? Un anarchico bombarolo?” Domandò con voce roboante la Pubblica accusa.
“Niente affatto” – ribatté l’imputato – “Voglio solo metterlo in guardia
così che un giorno possa difendersi dalle degenerazioni associative. D’altra
parte, se qualcuno dovesse mai rifarsi ai padri della ‘psicologia delle organizzazioni” troverebbe numerose conferme alla mia teoria. Si prenda Sofer quando afferma che se i fattori individuali finiscono per prevalere sulle esigenze generali
dell’organizzazione essi finiscono con l’impedire all’organizzazione di realizzare i propri obiettivi’. Compito della medicina è quello di salvare la vita umana e se
alcuni medici sono venuti meno a questo principio lo si deve alla vanità
dalla quale non si sono saputi difendere. Ma la vocazione a ripetere dell’essere umano non ha limiti. I partiti, allo stato attuale dei fatti, non sono
forse affetti dalla stessa sindrome che ha colpito i medici nemici di
Semmelweis più di cento anni or sono? E lei…” – continuò fissando intensamente l’accusa negli occhi – “sarebbe contento di sapere che il chirurgo
che le estirperà quel malevolo polipo dalla gola non è diventato primario
grazie alle medaglie guadagnate sul campo, ma in virtù delle importanti
amicizie che ha saputo coltivare? Come si possono spiegare altrimenti quei
novanta pazienti che muoiono ogni giorno nei nostri ospedali per errori
medici? (fonte: Beppe Grillo). Questi biechi trafficoni non sono forse i figli
dei figli dei figli di quei criminali che pur di non dare ragione a Semmelweis
fecero morire molte donne e molti bambini di febbre puerperale!”
L’accusa si toccò il collo e deglutì. Avrebbe voluto dissentire, ma tacque
miserevolmente perché l’imputato aveva ragione.
“Questa e la verità!” – gridò l’imputato – “Tutti i politici che ogni giorno vanno in giro a raccontare il contrario hanno incentivato la lottizzazione politica del sistema sanitario e sono stati così tenaci da obnubilare la
mente dei burocrati ospedalieri che sono diventati più realisti del Re. A
Bologna, come avrò modo di raccontare, uno stimato chirurgo, al secolo
Ignazio Marino, non è stato arruolato dal prestigioso ospedale Sant’Orsola
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soltanto perché si è reso colpevole di essersi presentato alle primarie contrapponendosi al candidato protetto dal Presidente della Regione Emilia
Romagna Vasco Errani. Signori e signore della Giuria, quando vi ritroverete distesi sul tavolo operatorio non dimenticate mai di domandare al chirurgo, un attimo prima che intinga il bisturi nelle vostre carni, per chi ha
votato alle primarie del Pd. Chiedete o potrebbe esservi fatale. Un medico
raccomandato dispone sempre di tutti i mezzi che gli servono, salvo forse
l’unico mezzo veramente indispensabile: il talento. Ma che importa: cosa
sarebbe stato Michelangelo se il Papa non gli avesse pagato pennelli e colori? Sicchè oggi è meglio avere degli imbianchini col pennello, che non dei
Picasso a mani vuote e lo stesso vale per i medici”.
L’imputato si calmò e quando riprese a parlare il tono era mansueto:
“Volevo convincere quel bambino soltanto di questo e non mi sarei mai
sognato di mettere in dubbio i grandi progressi dell’umanità, frutto, mi si
permetta un’espressione calcistica, di un gioco di squadra. Il problema è di
natura strutturale e non può essere circoscritto a nient’altro. Compito dei
partiti sarà quello di trasformarsi o morire.”
“Suvvia, dica la verità” – insinuò l’accusa con aria mefistofelica – “dica la
verità e confessi che lei teme gli uomini quando si uniscono. Ammetta che
vorrebbe che ogni cittadino vivesse da eremita!”
“È vero: temo gli uomini! Ma non quando portano doni, soltanto quando si associano ” – confermò l’accusato – “e non sono il solo”.
Forse era giunto il momento per l’imputato di alleggerire il dibattito.
Il terzo uomo
Gabriele era un romagnolo di una volta, schietto, sincero e sanguigno,
tanto amante del Sangiovese quanto delle belle donne. Sarà forse per via di
queste caratteristiche che non si è mail librato nei cieli alti della politica
restando confinato nei recinti malmessi del partito verde. Soltanto in
un’occasione gli permisero di indossare l’abito da assessore ai lavori pubblici. Ma poi si mise a porre le solite domande seccanti:
“Perché quella strada costa più di quello che dovrebbe costare?”
“Perché dobbiamo aggiungere al bando di gara questo capoverso che
farà vincere soltanto quell’azienda?”
Gabriele non sapeva che certe questioni vanno nascoste sotto il tappeto come se fossero le briciole di un’abbuffata indecente. Va da sé che
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Gabriele lasciò ben presto la politica per dedicarsi alla lavorazione del
legno. Fu così che diventò uno stimato costruttore di nidi per uccelli selvatici che rivendeva personalmente nei mercatini di paese o durante gli stessi congressi ecologisti. Ma prima di allora, subito dopo essere stato licenziato dal Sindaco, tentò la strada del dirigente politico e in qualità di
Vicepresidente del Consiglio Federale Regionale fu spedito a sedare un contenzioso correntizio sorto a Modena. Prese armi e bagagli
e da Ravenna partì per la ridente cittadina emiliana.
Prima di uscire da casa telefonò alla federazione provinciale chiedendo di essere raggiunto alla stazione da
un membro dell’esecutivo modenese, voleva assolutamente un accompagnatore in grado di condurlo nel
luogo individuato per lo scontro tra correnti. Sceso
dal treno non trovò nessuno ad aspettarlo. Attese
prima un’ora e fece passare anche la seconda. Solo
alla terza, la pioggia cadeva copiosa ed era ormai
notte fonda, prese un taxi. Raggiunta la riunione chiese ragione dell’assenza del cocchiere promesso e scoprì che nessuno dei
litiganti si era spostato dalla stanza perché la discussione su chi dovesse
andarlo a prendere era ancora in corso. L’assenza di uno dei tre - stando a
quanto affermavano i presenti - avrebbe potuto comportare l’alleanza dei
rimasti e nessuno se la sentiva di finire in minoranza. Bastano due uomini
per fare un partito, il terzo farà da minoranza. Guardatevi dal vostro dirimpettaio. Potrebbe essersi alleato con il portiere e la donna delle pulizie.
“Ci ha parlato dei partiti, di questa creatura che come l’ircocervo è una e
un’altra allo stesso tempo, dei leader, ostaggi della creatura, ma non ci ha raccontato ancora nulla dei simboli politici. Di queste misteriose rappresentazioni che troviamo stampate sulla scheda elettorale” argomentò il Giudice.
“Non vorrei annoiarvi troppo con la teoria ” rispose l’imputato.
“Niente affatto!” – esclamò il giudice e quindi concluse –“Tuttavia, se
qualcuno dei Giurati dovesse annoiarsi potrà abbandonare l’aula per andare a
fumarsi una sigaretta, lavarsi le mani o bersi una bibita nel corridoio, senza
dover chiedere il permesso. Se vorrà, potrà rileggersi poi, in assoluta calma,
quanto messo a verbale”
“Mi oppongo!” – insorse l’Accusa –“questo tema non è pertinente”
“Opposizione respinta” – sentenziò il Giudice – “l’imputato risponda alla
domanda sui simboli politici”.
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Il sogno visionario del simbolo politico
Il simbolo è un atomo immobile nel caos. La verità può perdersi nei
boschi oscuri delle opinioni, la storia mutare, il tempo distorcersi, ma ogni
simbolo resta uguale a se stesso per tutta l’eternità e sembra vivere di
un’apparente indissolubilità che ha sempre affascinato gli uomini e le
donne nel profondo delle loro anime. Forse non ci crederete, ma quanto vi
racconterò è frutto di un sogno incubato durante una notte incredibilmente tormentata. I simboli possono morire, è vero, ma indubbiamente possiedono una vita infinitamente superiore a quella di tanti altri materiali considerati indistruttibili. Fu forse per questo che moltitudini di apprendisti stregoni al soldo dei regnanti si convinsero che il “grande nulla” poteva essere
sconfitto da un sapiente uso delle dinamiche simboliche. Incominciarono
a sperimentare empiricamente tutti quei procedimenti destinati alla conservazione degli involucri di carne, un tempo dimora dell’anima regale del Re.
I corpi dei regnanti defunti furono trattati con muffe, esposti a climi secchi per disidratarli, spalmati di unguenti e infine liberati da viscere e fluidi
marcescibili. Questo lungo processo d’imbalsamazione sottraeva i corpi al
disfacimento, ma allo stesso tempo li trasfigurava in fantocci deformi di
carne secca e brunastra che poco o nulla ricordavano lo splendore magnificente del sovrano. Si pensò allora di costruire un sarcofago, vale a dire un
involucro che fosse allo stesso tempo la fedele riproduzione del regnante,
quando ancora era vivo, e il contenitore della salma dopo la morte. Scrigni,
come calchi corporei rovesciati, impreziositi dall’oro e dalle pietre preziose, scolpiti per tramandare l’immagine regale e proteggere la “prova” e cioè
la mummia che si trovava così ad assolvere un’importante funzione “probante”. Il sarcofago è una statua cava, scolpita a grandezza naturale, che
riproduce fedelmente l’originale all’esterno e ne conserva all’interno ciò
che resta. Si tratta di un simbolo che mostra e documenta. Questa manipolazione di significati mi induce a ritenere che sebbene i maghi abbiano iniziato a manipolare i simboli fin dai tempi più remoti, incominciarono solo
da questo momento a farne un uso talmente complesso da generare nuove
forme di vita parallele fino a quel momento sconosciute. Già allora, quel
sarcofago, non conteneva un solo corpo, ma due, e alludo ai due corpi del
Re, secondo la celebre definizione di Ernest Kantorowicz. Il corpo del sovra129
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no era mortale ed eterno allo stesso tempo perchè le sue carni non erano formate dalle cellule e dai tessuti, ma dagli individui che formano il “corpo politico” dello stato raffigurato nel Re Leviatano di Thomas Hobbes a cui si è già accennato in precedenza. Gli stregoni, incantati da questa scoperta, giunsero alla
conclusione che sarebbe stato possibile invertire il sistema delle relazioni
non appena l’evolversi della democrazia, nonché dei sistemi sociali e dell’economia, lo avessero permesso. Con il passare del tempo il sarcofago
cessò di contenere il corpo mummificato del Re che fu spodestato dal suo
stesso corpo politico. Non fu quindi un caso se alle antiche autocrazie
subentrarono nuove forme democratiche che fecero perdere al sarcofago
il suo aspetto antropomorfo che non tardò a trasformarsi in bandiere ed
emblemi. Ma allora, prima di questa mutazione, posando l’orecchio sul
torace di quella anomala entità si poteva sentire il brusio delle piccole creature presenti al suo interno. Se anche una
di queste fosse morta, un’altra avrebbe
preso il suo posto. La grande madre, il
simbolo, incominciò a sentirsi essa stessa un essere vivente e si chiese: “non fa
forse parte della vita delle api il tronco
cavo, l’albero morto, dove è insediato il
favo?”
Non potendo esprimersi personalmente chiese alle piccole creature di trovare qualcuno che lo facesse in nome di
entrambe, un leader capace di assolvere
ai compiti un tempo affidati al Sovrano, ma questa volta non era il Re che
avrebbe determinato il suo seguito, ma viceversa era il seguito ad indicare
chi doveva parlare a nome di tutti gli altri.
Nacque così quello strano sodalizio che lega da sempre gli uomini ai
simboli “inumani” che loro stessi si sono scelti e che servono con grande
abnegazione dal giorno in cui fu stretto il patto.
Ancora oggi, i resti di quell’accordo primordiale si ritrovano all’interno di molte cerimonie rituali. Le salme dei soldati sono rimpatriate avvolte nelle bandiere. La bandiera prende così la forma del corpo, mentre il
corpo diventa la bandiera. Si tratta di uno scambio consolatorio dove il
simbolo viene usato come un sudario, ossia come un sarcofago molle, che
presuppone al suo interno la vita perenne originata da tutte le creature che
quel simbolo lo vivono e lo servono. Al termine della celebrazione la bandiera viene tolta dalla bara per essere ripiegata a forma di triangolo e subi130
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to dopo è nuovamente ammainata in cima al
pennone. La morte è ancora una volta sconfitta da un procedimento di trans-mutazione simbolica. Si può quindi ipotizzare che i simboli
moderni, dalle bandiere alle marche commerciali, come gli stessi simboli politici, abbiano
continuato a collocarsi all’interno di molti
processi che scaturiscono dal desiderio di
immortalità presente nell’inconscio umano,
ma ciò che più mi interessa descrivere è il conflitto che nasce tra gli esseri “contenuti” e la
creatura “contenitore”. Alludo ad una guerra
combattuta tra gli esseri umani che servono i
simboli (e vorrebbero a loro volta mutarsi in
essi) e i simboli che non vogliono concedere a
nessun altro il loro “status d’immortalità” così
duramente conquistato. Già, proprio così, le
marche, esattamente come i
Testimonial senza un’identità precisa
loro antenati, i sarcofagi
(sarko – phagos mangiatore di carne), hanno un disperato bisogno di esseri viventi per continuare
a vivere. Si comportano come un parassita che sopravvive solo in presenza di un
ospite da sfruttare. La Nike ingaggia Michael
Jordan. La Marlboro preferisce affidarsi ad un
rude cow boy senza nome, mentre l’importante
catena di ristorazione Pizza Hut assume un pezzo
vivente della storia del novecento, l’uomo che ha mandato
in pensione la “guerra fredda”, il leader carismatico dell’ex
Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov. McDonald intraprende
una via intermedia tra il “testimonial senza identità anagrafica”
della Marlboro e la mascotte di una squadra di calcio sottoponendo i “due archi dorati” ad un morphing capace di trasfigurarli in Ronald McDonald, un inquietante pagliaccio
che si presenta al pubblico in due versioni, una di plastica posizionata sui prati dei McDrive e un’altra in carne ed
ossa, impersonata da un attore, che compare tanto ai
compleanni dei bambini quanto negli spot tv. La Coca
cola punta tutto su Babbo Natale, belle ragazRonald McDonald:
un testimonial un po’
maschera e un po’ mascotte
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ze e famiglia. Come sostiene Naomi Klein, le marche possono fare a meno
di tutto, persino delle stesse merci sulle quali sono stampate o incise o degli
stabilimenti di produzione che, come nel caso della catena di montaggio
della Ford T, le hanno rese famose, ma non possono rinunciare ad un
uomo, o ad una donna che insuffli la vita all’interno della loro vuota apparenza.
D’altronde le marche cercano di instaurare delle relazioni con il proprio pubblico, relazioni tali dall’essere considerate alla stregua di quelle che
intercorrono tra un individuo ed un altro, (Manaresi 1999) ed è quindi normale che per riuscire in un’impresa simile antepongano un essere umano
tra se stesse e i consumatori. Questa “vestizione carnale” della marca non è
esente da effetti collaterali. Uno fra tutti, nel caso della già citata Nike, la
popolarità di Jordan si è saldata così bene al brand della nota produttrice
di scarpe da costringerla ad accettare una sorta di sub-marca denominata
Air Jordan. Michael Jordan reclutato per lanciare un brand si è trasformato esso stesso in un brand come spiega Vanni Codeluppi: “Nel corso degli
anni, infatti, Jordan si è sempre più fuso con la marca Nike, mentre quest’ultima, a sua volta, si è progressivamente incarnata in lui. Nike, cioè, ha
portato sino alle estreme conseguenze le possibilità offerte dall’impiego del
testimonial da parte di una marca, sfruttando totalmente l’immagine del
personaggio scelto, ma assumendo anche tutti i rischi conseguenti all’associazione con esso”.
Conflitto iconico: il simbolo/la marca Nike e il testimonial (Michael Jordan), marca “autogenerata”
Lo stesso conflitto si registra in campo politico tra leader politici e
simboli elettorali. Bisogna ricordare che se e le merci servono per vendere
le marche ai consumatori (Klein), i politici servono per smerciare i partiti
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agli elettori. Bisogna però rilevare che questa relazione mutualistica, in
ambito politico si presenta come un fenomeno reversibile e i ruoli tendono spesso a rovesciarsi. Ciò accade quando i partiti s’indeboliscono o si
screditano sotto il peso degli scandali, della corruzione o di altri fenomeni
di “malapolitica”. Ecco allora che i simboli politici lasciano il posto ai volti
dei candidati che vengono usati in dosi sempre più massicce durante le
odierne campagne elettorali.
Candidati “desimbolizzati”
A questo utilizzo feticistico della fisiognomica si accompagna l’esibizione di alcuni aspetti “caratteriali”, che se ad una prima analisi potrebbero
apparire controproducenti, servono in realtà sd avvicinare il politico
all’elettore medio.
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L’uso e il riuso del volto produce lo stesso fenomeno di “iconizzazione
corporea” subito da Jordan. Si osservi in tal senso l’evoluzione grafica del
primo piano di Obama raffigurato sopra la parola “change”. Una foto iperrealista prima, un’illustrazione a due colori poi e infine una macchia schematica che gli esperti di tecnologie digitali chiamano bit-map. Il simbolo dei
Democratici americani, l’asinello, si ritrova nelle stesse condizioni della
Nike ed è costretto a competere con l’icona Obama.
Iconizzazione di un leader politico
L’aspetto esteriore del simbolo subisce lo stesso processo di semplificazione anche quando la mutazione non inizia da un essere umano. La
mela dell’Apple computer, che nasce come un’insegna araldica scolpita nel
legno, si trasfigura nella siluette di una mela colorata dall’arcobaleno. Se la
osserviamo a distanza di trent’anni vediamo che ha perduto la scritta sottostante e assomiglia ad un ectoplasma o meglio ad una goccia di gelatina
trasparente che sembra essere caduta accidentalmente sul computer. Sui
portatili lo stesso logo figura inciso e la sua forma si delinea grazie al chiaroscuro composto da ombre, parti piene e parti vuote, come se si trattasse
di un calco o di un bassorilievo invertito. Il percorso di dissoluzione della
marca è più che evidente.
2010
1976
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A cosa si deve questo progressivo impoverimento? La prima ragione
risiede nella necessità di non essere osservati, ma percepiti in frazioni di
tempo infinitesimali. La slide di chiusura degli spot, dove compare il logo
della marca, dura pochissimi secondi. Lo sguardo di un automobilista che
cade sul cartellone pubblicitario si riduce ad un’occhiata fugace. Un logo
non ha il tempo di pavoneggiarsi indossando un vestito fatto di fronzoli e
merletti. Appare e scompare come una macchia che si deve incollare alla
memoria. Bisogna infine far notare che si tratta di un procedimento dove
i significati cosparsi sul logo sono stati con il tempo interiorizzati dallo
spettatore. Costui non ha più bisogno di trovare conferma del fatto che la
mela è la metafora del desiderio, che il morso è sinonimo di conoscenza, che
l’arcobaleno rappresenta la speranza, mentre i colori dell’arcobaleno (invertiti di posizione) richiamano l’anarchia. Gli aficionados dell’Apple sanno il
perché della mela e dell’arcobaleno rovesciato e non importa ricordarglielo ancora.
Uomini che diventano marche come Jordan e marche che diventano
esseri “umani” come Ronald McDonald. I simboli, siano questi un logo
pubblicitario o emblemi politici, non sono per nulla immutabili come
potrebbe sembrare ad una lettura superficiale. I simboli si muovono, cambiano, sembrano affetti da un continuo “dinamismo simbolico”. Ma credo, ed
è quello che tenterò di dimostrare, che dietro a questa metamorfosi, legata
perlopiù a ragioni pratiche, si nasconda un procedimento di “spoliazione”
che consente alla marca di superare la barriera dell’iconema, di quell’ “immagine finale, di confine, che permette ancora la riconoscibilità del soggetto”
(Giorgio Celli citando Thomas Maldonado) trasformandosi in puro significato.
Ogni marca ambisce quindi ad assumere uno status simile a quello rivestito da una divinità. Sarebbe a questo punto molto interessante riuscire a calcolare quanto tempo l’intera umanità dedica alle marche e quanto invece
alla religione. Forse Dio, come ci ha suggerito John Lennon, (“i Beatles sono
diventati più famosi di Gesù”) ha perso la guerra degli ascolti. Le marche
sono acquistate, mangiate, bevute, indossate, vissute molto di più di qualsiasi altro “immaginario sacro” e ci sono riuscite prima ancora di essere ascese agli spazi celesti. Sono ancora qui, sulla terra, intorno a noi, ma per gran
parte di esse l’apoteosi è già incominciata. Si osservi quindi la Disney il cui
aspetto grafico è cambiato poco o nulla dalla sua nascita ai giorni nostri.
Alla firma usata come logo si è aggiunto un castello, sullo sfondo, che
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rende esplicita la vocazione edificatoria del simbolo. Non è infatti un caso
se la Disney è l’unica marca che ti permette di vivere al suo interno e come
tale può essere considerata la prima e più importante “marca abitabile” sul
mercato. Anche l’Holiday Inn, la famosa catena di hotel, ti permette di soggiornare nelle sue confortevoli camere, così come quando si pranza da
McDonald’s si consuma il pranzo all’interno di una sala ristorante, ma
entrare in un parco tematico è un’esperienza completamente diversa dove
ti viene proposta un’alternativa al mondo di tutti i giorni, un’altra dimensione fantastica e ricca di nuovi stimoli. Inoltre, ogni strategia commerciale perseguita dalle “marche abitabili” mira a trattenere i visitatori all’interno
del proprio corpo per il maggior lasso di tempo possibile. “Più resti e più
guadagno!”questo è il principio da perseguire. La Disney, pur di raggiungere
questo scopo, è disposta a tutto, finanche a creare uno “stile di vita” che
mira a trattenere il cliente per sempre. Walt Disney attrae i consumatori
con la sua aria paterna, materializza personaggi di fantasia e concede a tutti
gli adulti l’opportunità di poter ascoltare di nuovo le favole senza farli sentire ridicoli. Walt, un uomo, diventa la Disney, una donna, nel disperato
tentativo di riconciliare la dolorosa separazione dalla madre, citando Otto
Rank, con il desiderio di ritornare al grembo materno. La marca si è quindi sostituita al simbolo che da sempre ci ha permesso di mantenere un legame con la realtà originaria dalla quale ci siamo separati attenuando il trauma che n’è scaturito.
La Disney è una madre modello il cui intento prioritario è quello di
avocarsi quanti più figli riesce. Per questo motivo, Disneyland è il discendente in linea retta del primo Leviatano, una cugina di segno femminile, ma
per capire meglio di cosa stiamo parlando bisogna incominciare l’analisi dal
padre Walt e non da sua figlia. Sappiamo tutti chi è Walt Disney, un genio,
forse l’unico grande talento del secolo scorso. Incominciò la carriera disegnando delle creature antropomorfe che diventarono ben presto i beniamini delle platee di mezzo mondo. Topolino, Minnie, Pippo, Pluto, chi non li
conosce? Dopo una breve vita a due dimensioni scesero dallo schermo
come nel film di Woody Allen “La rosa purpurea del Cairo” per colonizzare
gran parte del mercato, dall’abbigliamento all’industria dolciaria, dall’editoria alla tv. Sull’onda del successo economico e con le rendite accumulate si
materializzarono all’interno di una città fantastica fatta costruire appositamente per loro così che i bambini potessero non solo guardare i propri
beniamini al cinema e alla tv, ma anche incontrarli di persona e trascorrere
un po’ di tempo insieme a loro. Il fatto che gli adulti siano sempre stati
molto felici di regredire alla propria infanzia per assecondare i desideri dei
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figli rappresenta l’intuizione più geniale mai avuta dallo Zio Walt. Ancora
oggi, folle immense di visitatori, di tutte le età, fanno la fila per poter entrare nel castello di Cenerentola. Visitatori, ma anche “consumatori che hanno
smesso di consumare per essere consumati” (Fight club) dalla marca.
Disneyland nasce nel 1955 dove prima c’era un frutteto di arance a
circa 40 chilometri da Los Angeles. L’idea è semplice, creare un luogo dove
il cittadino medio americano possa trascorrere il fine settimana con i figli.
Non un comune “luna park”, bensì un parco dei divertimenti dove si possa
vivere nelle favole. Nasce così un “alter orbis” ricostruito di tutto punto con
strade, alberghi e ristoranti che si trasformerà 14 anni dopo nel Walt Disney
World Resort, la più grande fabbrica del divertimento esistente, a sua volta
suddivisa in 4 parchi tematici. Uno dei quattro parchi, Epcot, la cui attrazione regina è rappresentata da una sfera sarà interamente dedicato alla scienza e alle innovazioni della tecnologia, in una parola, al futuro. Ma non solo.
La marca Disney, dopo essersi espansa e aver occupato uno spazio fisico,
incomincia a ragionare come un essere vivente che s’interroga sui rapporti di
natura mutualistica che bisogna instaurare con il simbionte di riferimento:
l’uomo. Punta quindi ad allocarlo in una condizione di felicità stabile non
accontentandosi più di
fornirgli un transitorio
divertimento. Per questo
Walt Disney aveva previsto che Epcot, acronimo
di Experimental Prototype
Community Of Tomorrow,
incorporasse una comunità pilota in grado di
testare un nuovo stile di
vita derivato da ricercate
prossemiche urbanistiche
e inediti assetti sociali che
lo stesso Walt descrisse
Il geode di Epcot
così: “Sarà una comunità
pianificata e controllata, una vetrina dell’industria e della ricerca, delle scuole e dalle infinite possibilità culturali ed educative. In Epcot non ci saranno slums perché non lasceremo che ne sorgano. Non ci saranno proprietari terrieri e quindi nessun controllo elettorale. La gente affitterà le case,
invece di comprarle, e gli affitti saranno modesti. Non ci saranno pensionati. Tutti dovranno avere un’occupazione” (Thomas 1980).
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Il papà di Topolino non riuscirà a materializzare quest’ultima idea, ma la Disney, rimasta
orfana del suo creatore, impianterà altrove gli
embrioni che sarebbero dovuti crescere ad
Epcot.
Celebration, è il prototipo della città
perfetta che si sviluppa tra casettine rassicuranti, laghetti, campi da golf, siepi topiarie e
boschetti tropicali in miniatura. Chiunque vi
risieda ha scelto la propria abitazione fra i sei
Il “rover” di “The prisoner”
modelli presenti in catalogo e ha dovuto sottoscrivere un severo regolamento che lo obbliga a tagliare il prato settimanalmente, a non stendere i panni davanti a casa o non ridipingere lo steccato
senza attenersi all’elenco di tinte pastello approvate: grigio perla, verde
penicillina, bianco ghiaccio. In ultimo, non si può stare lontani da casa per
più di tre mesi (Giroux 1999). Quest’ultima regola ricorda il villaggio neopalladiano della serie The Prisoner nel quale vige una diffusa tranquillità che
stona in confronto alle ragioni che ne hanno determinato la nascita. Si tratta infatti di una prigione dove sono stati segregati i membri ribelli dei servizi segreti internazionali. Chiunque tenti di fuggire viene raggiunto da una
gigantesca sfera bianca denominata Rover, quindi soffocato oppure stordito e riportato a casa. Una sfera simile al geode di Epcot. Il villaggio di The
prisoner e Celebration, oltre alla sfera geodetica, hanno in comune una
caduca serenità dove si tenta con insoddisfacenti risultati di rievocare “l’età
della quiete, della sicurezza e della stabilità, quando la società non era ancora minacciata dai fastidi e dai pericoli della modernità” - all’interno di una
comunità artificiale che - “si rivolge all’insicura classe media americana, che
si ricorda tuttora della vita autentica vissuta dai propri nonni in luoghi
dove i bambini potevano ancora giocare per strada e dove tutti i vicini
erano amici” (Steiner 1996).
Come gli animali clonati, che pur risultando identici ai genitori muoiono a pochi mesi dalla nascita, così Celebration sopravvive di vuota apparenza riconfermandosi come un’utopia propriamente detta è cioè come
un “luogo felice, ma inesistente” (Wikipedia) o se esitente - rovescaindo il
principio - fintamente felice. Tanto è vero che “In questo sogno di cartapesta” – come fanno giustamente osservare Gianni Emilio Simonetti e
Stefano Montani nel testo di una delle loro esercitazioni – “l’ordine, la quiete, la ricchezza, la sparizione della storia nascondono il culmine della violenza simbolica, perché eliminano dall’idea di felicità ogni suo carattere
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soggettivo. Qui, l’arroganza dei world-menders del capitale finanziario ha
rimpiazzato le utopie sociali e politiche (che sono sempre state caratterizzate da passioni rigorose battute da un vento di follia) con le utopie tecniche, capaci di realizzare una formidabile economia del reale che, però, ha
il suo topos fuori dalla storia, oltre ogni speranza, nei deserti della forma di
spettacolo. Così, quella incommensurabile distanza – che una volta fondava l’ontologia classica – tra l’idea e la realtà, il possibile e l’attuale, il necessario e l’utile ha perso a Celebration ogni senso. Ad un piano urbanistico
rigoroso dei luoghi corrisponde un programma rigoroso della vita dei suoi
abitanti. Paradossalmente questo “sito abitativo protetto” fuori dalla storia è
ossessionato dall’impiego del tempo che qui non può lasciare all’imprevisto nessun margine, né spezzarsi tra tempo di lavoro e tempo libero. A
Celebration incombe un’idea di tempo sociale per il quale l’ozio, a dispetto di Paul Lafargue, è il più grande dei delitti!”.
Celebration è quindi un “non luogo” esente da ogni qual si voglia indicazione capace di ricondurre la materia vivente alla scintilla che l’ha generata. Non a caso quindi si presenta in tutto e per tutto “deiconizzata”. In
ogni strada, piazza o locale pubblico, la pubblicità è bandita! Niente
Starbucks, Virgin, McDonald’s! Neanche la stessa Disney, può infrangere il
divieto. Il vecchio parco tematico ha fatto il suo tempo e gli americani che
possono permetterselo preferiscono un eden dove la marca Disney per
prima ha rinunciato alla sua stessa rappresentazione secondo un riformulato divieto “antico testamentario”. Celebration è quindi una marca che non
ha più bisogno di una rappresentazione, è una marca sublimata, è l’essenza stessa dell’idea consumista che
punta ad un’accettazione incondizionata della merce da parte del
consumatore. Al marketing subentra la fede.
Se Dio è infinto
anche
Celebration lo è malgrado occupi
poco più di 27 mila acri. Digitate il
suo nome su “Google ricerca immagini” e al contrario di quello che
accade con qualsiasi altra marca
“terrena” non vedrete comparire
sullo schermo nessun simbolo grafico riconducibile ad essa, bensì
una serie infinita di paesaggi, scorUna pubblicità di Celebration, si noti
l’assenza totale di simboli e marche.
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ci e vedute. Case e prati, prati e case, talvolta, molto raramente, un anziano dall’aria felice. Non troverete neppure una sola figura antonomastica
che possa essere considerata rappresentativa di quello “stato inesistente”.
Celebration non è la Parigi della Tour Eiffel o la Roma del Colosseo. Celebration
è un luogo formato da infiniti luoghi. Una cosmologia di immagini, ogni volta
diverse, ma con la stessa atmosfera riconoscibile. Celebration esiste, ma non può
essere congelata all’interno di un immaginario stabile e le sue raffigurazioni sono
come le cellule dell’epidermide, muoiono e si riformano continuamente all’interno di un icomosaico dinamico, una immagine di derivazione “aiconica” che
raffigura senza raffigurare.
L’icomosaico Celebration tratto da “Google immagini”
Giunti a questo punto assume un’importanza particolare la decisone
di Walt Disney di farsi ibernare. Non desidero sapere se ciò corrisponda al
vero, ciò che m’interessa è verificare se la mia tesi continua a funzionare
dopo aver inserito nel mosaico questa nuova tessera.
Il corpo congelato di Walt equivale alle spoglie mummificate del
sovrano, la marca Disney è il prezioso sarcofago sepolcrale, Celebration
rappresenta l’emancipazione da entrambi, il punto di arrivo del processo di
mitogenesi che ha permesso all’essere umano Disney di elevarsi al rango di
Dio. Non si può intravvedere Walt Disney in Celebration come non si può
vedere Dio. Ma Cristo, visibile, è Dio. Certo, come Celebration è Disney.
L’analogia è certamente azzardata, ma interessante quanto basta per essere
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approfondita. Ricapitoliamo: Walt Disney è il corpo, il doppio corpo del
sovrano; la marca Disney è la sua raffigurazione, Celebration è allo stesso
tempo la marca che ha preso vita e l’uomo che si è elevato dalla sua condizione terrena. Il risultato è un’entità terrena e divina, individuale e collettiva, che potrebbe essere definita come una “metamarca”.
L’archeologo Howard Carter esamina il sarcofago
di Tutankamon rinvenuto nella tomba da lui stesso
scoperta
Due operatori della Alcor sistemano un corpo
all’interno di una capsula criogenica affinché sia
ibernato. (da www.alcor.org)
Accostiamoci pertanto alla religione cristiana dove troviamo alcuni
elementi simili: il corpo di Cristo, la croce, lo Spirito Santo. Prima di approfondire questo parallelismo mi servo dell’esempio offerto da Michel
Scoumarnec nel suo volume (I simboli cristiani) per definire la differenza esistente tra segno e simbolo: “quando si vede una bandiera dai colori blu,
bianco e rosso, si riconosce la bandiera francese (segno), ma quando si issa
questa bandiera in uno stadio olimpico dopo la vittoria di un atleta francese, costui si mette a piangere per l’emozione e i telespettatori si emozionano a loro volta, è l’atleta che diventa un simbolo”.
Si tratta sostanzialmente del conflitto tra uomini e simboli che abbiamo già incontrato quando abbiamo parlato della Nike e di Michael Jordan,
ma per entrare nel merito del fenomeno citiamo ancora Scoumarnec
“…per i non francesi durante i mondiali di calcio la bandiera era un segno.
Per i francesi invece, quando la loro squadra ha vinto, l’hanno portata in
giro, sventolata ed esibita, ed era” - diventata – “come un simbolo fortissi141
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mo d’identità, di appartenenza, integrazione, di fierezza e di giubilo”
Questo sostanzialmente dimostra che un segno, per poter diventare un
simbolo, e cioè acquisire degli ulteriori significati mitici trascendendo quelli puramente informativi, deve essere caricato dell’energia necessaria a farlo
risplendere di quell’alone magico che i francesi chiamano “allure” e che fa
risplendere i simboli nell’universo caotico di segni. Questa energia deriva
da un avvenimento che si compie, nella fattispecie: la finale di un campionato mondiale di calcio. La reazione che trasforma un segno in simbolo
avviene solo se si usa come catalizzatore una storia. Ecco allora che nella
religione cristiana troviamo sia il segno che il simbolo. Un segno, la croce
essenziale, quella formata due segmenti legnosi di lunghezze diverse che
s’intersecano perpendicolarmente e un simbolo rappresentato dalla stessa
croce unita al corpo di Cristo. Bisogna poi non dimenticare che vi è una
terza “raffigurazione cristologica” riconducibile alla figura del Messia decontestualizzato dalla croce. Si pensi all’Ultima cena di Leonardo da Vinci, ma questa branca può essere considerata come una sorta di preparazione dell’evento catalizzatore simile alle partite del campionato che precedono la finale che
si concluderà con il pianto dell’atleta.
La chiave di volta del mio ragionamento si fonda sulle ragioni che non
hanno pemesso al fenomeno di spoliazione di far scomparire completamente il corpo di Cristo dalla croce. Come è potuto succedere? Per quale
motivo sono sopravvissuti due simboli omologhi contrariamente a quello
che accade solitamente? Si può azzardare l’ipotesi che le due versioni della
croce siano come i due toni di un mantra. Segno e simbolo sono sopravissuti per acconsentire il dispiegarsi di una storia a “loop”, di un prima e di un
dopo che si ripetono, come in quelle cartoline lenticolari che mostrano
un’immagine o un’altra a seconda del punto di vista. Le due croci sarebbero quindi i due “frame” della crocefissione e al contempo i due estremi
all’interno dei quali si compie la mitogenesi del primo simbolo della cristianità in una sorta di antropoclastia reversibile. La crocefissione è in primis il
dispiegamento del processo di “sfigurazione” di Gesù Cristo, la rimozione
della carne intorno allo spirito. Lo stesso San Leone Magno paragona il
Redentore ad un agnello che accetta mansueto di essere liberato da “l’inutile
ingombro delle sue lane”. Non rimane giustappunto soltanto la croce a rappresentare “il corpo della chiesa” dopo la deposizione del “corpo”? Potrebbe essere la parabola del corpo, quello vero, che soccombe al suo alter ego metaforico? La passione dura 18 ore, ma la distruzione corporea inizia ancor
prima della cattura. Il Nazareno, rifugiatosi nel giardino dei getsemani, suda
sangue. Questa “autotomia” dovrebbe indurre a considerare gli artefici della
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scarnificazione come gli esecutori inconsapevoli di un rito doloroso, ma
necessario. Tutt’altra cosa da quello che Caifa o lo stesso Pilato immaginano. Credono scioccamente di uccidere un uomo senza sapere che sono gli
artefici inconsapevoli della sua immortalità. Cristo, condotto nel Sinedrio,
viene percosso dai guardiani, processato sommariamente e quindi consegnato a Ponzio Pilato che lo condanna formalmente e lo fa legare alla
colonna del supplizio dopo averlo denudato. Le fruste dei legionari si
abbattono con violenza sulla schiena, sui fianchi, sulle gambe, per oltre le
quaranta volte consentite. Leggendo l’impronta della sindone c’è chi dice
persino che non siano state meno di cento. I flagelli sono strumenti micidiali che producono ferite esiziali, così profonde da provocare la morte.
Proprio per questo, molte punizioni ingiunte per reati politici a quel tempo
si mutarono in esecuzioni capitali mascherate con la complicità del boia.
L’usanza di versare un obolo al fustigatore da parte del pubblico abbiente
si diffuse a tal punto da diventare una consuetudine necessaria alla buona
riuscita dello spettacolo punitivo. Al robusto manico del “flagrum” romano
sono fissati fino quattro strisce di cuoio, talvolta nervi o tendini di cavallo,
annodati a chiodi uncinati, frammenti taglienti di ossa frantumate di montone (dette talus). Si usano anche delle perle di ferro il cui compito è quello di aggiungere contusioni ai già numerosi tagli prodotti dallo strumento
di sofferenza. A forza di colpire si strappa la pelle lasciando scoperti i
muscoli, s’intravvedono i nervi, le viscere, affiora il biancore screziato di
rosso delle costole. “Al termine della flagellazione il corpo di Cristo, si
trova ridotto ad una massa gonfia e informe di carne lacerata e sanguinante” (Will Durant) tanto che appare come “una sola ferita” (Maria di Agreda).
Quando cessa la punizione e gli sono sciolte le funi il messia cade riverso
a terra, ma gli è subito gettata addosso dell’acqua fredda per farlo rinvenire. Gli cingono la testa con la corona di spine, lo vestono di un abito color
della porpora, lo schiaffeggiano ancora (Giovanni) e quindi lo costringono
a salire al Golgota trascinando la croce sulle spalle. Intorno a mezzogiorno, ciò che resta del suo corpo viene inchiodato alla croce che si carica di
tutta la drammaticità dell’evento e dell’intera storia di Gesù Cristo, simbolo e segno si uniscono per generare un immaginario di “secondi sensi”, che
renderanno vivi due inanimati pezzi di legno per i secoli a venire. Malgrado
ciò, le carni del simbolo, inchiodate al segno, sono ancora ben visibili. Il
simbolo, l’atleta che piange di cui ci ha parlato Scoumarnec, deve trasmettersi al segno perché è il segno che deve cessare di essere tale per diventare simbolo e, data l’importanza che si troverà a rivestire, non ammette doppioni. Per questo il corpo del Signore continua ad essere martoriato, dalla
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lancia di Longino piantata nel costato, svuotato dal sangue che cola dalle
stigmate e delle ferite riportate durante la flagellazione, umiliato all’interno
dall’aceto versato nella bocca. Un accanimento senza fine. Soltanto dopo
18 ore il “corpo simbolo” sarà liberato dalla “croce simbolo” per essere prima
coperto dal sudario, equivalente povero dell’antico sarcofago, e quindi
deposto nel sepolcro. Da questo punto di vista la successiva resurrezione
di Cristo può essere considerata come la rivincita postuma del corpo sulla
croce o la storia che ricomincia da capo, da una croce vuota, secondo lo
schema circolare di cui si è accennato in precedenza. La coesistenza dei due
simboli cristiani, uno sintetico e l’altro, per così dire barocco, impedisce
che uno prevalga sull’altro e crea nella mente dello spettatore una sorta di
“immagine iconica reversibile”. Alla luce di questo non sembra poi così casuale
che la religione cristiana, nel corso della sua storia, abbia continuato a mortificare il corpo con lunghi digiuni, privazioni di ogni genere (voto di castità,
riduzione al silenzio) e auto flagellazioni. Straziando le carni, debilitando il
corpo con lunghi digiuni, ha continuato a recitare il mantra della creazione
simbolica senza smettere mai di chiedere la liberazione da quell’uomo effimero che continua ad opprimere tutte le croci dalla nascita del cristianesimo ai
giorni nostri. Dirò di più, al primo corpo di Cristo, si sono aggiunti quelli dei
martiri cristiani votati al martirio per nutrire la croce di nuove scarnificazioni
e altre inedite storie. Per questo possono essere considerati i primi “spin story”
sacrificati, non in onore di un partito, ma per ispessire il corpo delle narrazioni religiose.
In molti si chiederanno come mai mi sono spinto ad elaborare una simile tesi. Francamente non lo so neppure io, ma posso solo dire che in prigione c’è sempre tutto il tempo che serve per pensare, leggere e scrivere.
La carne del simbolo nell’era della riproducibilità seriale
Fu una frase che mi fece nascere nella testa alcune considerazioni dalle
quali sono partito per giungere alle conclusioni che ho illustrato.
L’intervento di Massimo D’Alema al Congresso Costituente dei Verdi,
conclusosi con la riconferma di Grazia Francescato alla guida del partito
dei Verdi nel 2000, si aprì con una frase che ordinava molte confuse supposizioni che mi erano girate per la testa fino a quel giorno:
“La politica” - disse lanciando un sorriso mefistofelico alla debuttan144
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te - “ha bisogno di carne fresca per poter sopravvivere”.
Il partito, l’emblema gigantesco che sovrastava minacciosamente la
platea di Chianciano, aveva una fame irragionevole. Fame di nuove idee,
fame di un linguaggio inedito, fame di tutto l’entusiasmo che solo il neofita possiede. In cinque semplici parole: aveva fame della mia carne.
Nei mesi che seguirono mi confortò sapere che non ero l’unico ad
essere affetto dalla “logofobia”. Il terrore di diventare la “carne” da buttare in
pasto ai simboli era talmente diffuso che ogni persona alla quale domandavo di tesserarsi rifiutava la proposta per paura di essere “marchiata”. Non
a torto evidentemente, alla luce di quanto affermato poc’anzi, la parola
“stigmate”, una delle tante conseguenze che derivano dall’essere letteralmente inchiodati ad un segno, deriva dal greco “stigma” che significa “marchio”.
Nel bene e nel male, tra un marchio e una marca, tra un marchio e un
simbolo, non c’era quindi una gran differenza e non si comprendeva come
mai le paure si concentrassero solo sui simboli della partitocrazia e non su
tutti gli altri.
Mi chiesi se gli obiettori temevano inconsciamente di subire lo stesso
destino di Cristo o se, molto più semplicemente, non volevano sentirsi
“omologati” e cioè inseriti all’interno di quel procedimento che impone ai
membri di un’associazione di uniformarsi gli uni agli altri. Forse, era l’una
e l’altra cosa. Decisi che l’analisi sui simboli andava ulteriormente approfondita e ricondotta al rapporto storico esistente tra la merce e il suo produttore. Mi convinsi leggendo Marx che nei processi di produzione l’eliminazione dell’artefice manifatturiero è iniziata nel momento stesso in cui la
sua firma è stata sostituita da una sigla che solo più tardi diventerà un “marchio” e dopo ancora una “marca”, e cioè quando l’atto del firmare il manufatto sarà sostituito da un segno impresso meccanicamente sullo stesso.
Questo passaggio significativo ha reso immortale la merce non più percepita come il frutto di un uomo la cui morte avrebbe comportato la fine
della produzione di una raccolta di opere uniche, ma come il prodotto di
un processo costruttivo a sé stante, gestibile da chiunque e indipendente
dal creatore del primo pezzo della serie, da quell’oggetto “primogenito”
che in epoca industriale prenderà il nome di prototipo. Nei partiti, come
nei processi di produzione seriale, nulla cambia. Sulla rivista Anarchy, John
Zerzan in apertura del capitolo “Il simbolico come impero” ha scritto:
“L’esito dell’imperialismo del simbolico è il triste luogo comune
per il quale l’essere umano non gioca alcun ruolo essenziale nel
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funzionamento della ragione o della mente. Anzi, è vitale per eliminare la possibilità che le cose siano state diverse una volta. La
postmodernità elimina risolutamente il soggetto all’origine”.
Per questo motivo, la quasi totalità dei cittadini, che temono di “essere
marchiati” da un simbolo politico non vogliono perdere la propria unicità e
non sono nemmeno disposti a barattarla per l’eternità che ogni simbolo
potrebbe “faustianamente” concedere loro in cambio. Neanche vogliono
lasciarsi assorbire da un processo di significazione che sacrificherà il loro
corpo in nome di una seconda vita del segno.
Ecco quindi spiegata la relazione esistente tra il simbolo e l’uomo, tra
il partito e il suo rappresentato: amore per la bandiera e morte del cavaliere. Amore e morte. Si ritorna sempre a loro.
Effetti collaterali
La Pubblica accusa fece entrare due commessi che trascinarono al
centro dell’aula la riproduzione ingigantita di tre fotogrammi tratti dal circuito chiuso della banca. Nella prima immagine si poteva vedere l’imputato a volto scoperto fotografato nell’istante esatto in cui impugna la pistola
contro il cassiere.
“Come potete vedere si tratta dell’imputato. Non vi è alcun dubbio”
esordì l’accusa.
L’avvocato della Difesa si alzò di scatto dalla sedia e con fare risoluto
domandò:
“Sono d’accordo, siamo tutti d’accordo. Quell’uomo è l’imputato, ma
non è ancora stato dimostrato che in quel momento stesse impugnando
una pistola”
“Come no” – sorrise beffardamente l’Accusa beccando la controparte con una battuta:
“Quello che stringe nella mano è forse un ombrello?”
“Se quella è un’arma” – rispose la Difesa – “chiedo che sia prodotta
come prova” – e proseguì con grinta – “ La voglio qui. Adesso!” – batté
con forza il pugno sul tavolo – “Subito! Voglio che sia mostrata l’arma del
crimine ai Giurati”
L’Accusa cadde a sedere, piantò i gomiti sul piano e si coprì il volto
con le mani. Il pubblico, le stenografe, i commessi, tutti i presenti si scam146
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biarono occhiate perplesse. L’Accusa appariva paralizzata dalla vergogna.
Quel pover’uomo avrebbe voluto trovarsi da un’altra parte. Ovunque, ma
non lì, non davanti a tutti, genuflesso com’era dalla vergogna.
“Non è possibile” - rispose una voce tremolante – “Il reperto n°1, il
famigerato revolver sequestrato dalle forze dell’ordine è sparito”
“E che fine ha fatto?” chiese tra l’incuriosito e il severo il signor
Giudice.
L’Accusa si alzò in piedi e dopo essersi aggiustata la toga:
“Presumo” – argomentò – “che dopo essere stata catalogata e archiviata nel deposito generale nella scansia numero 12…”
“Al bando i dettagli: che fine ha fatto l’arma del crimine?!” lo chiamò
all’ordine con foga.
“Quando ho avanzato ufficiale richiesta all’archivio, mi è stato risposto che se la sono…” – afferrò un foglio dattiloscritto fingendo malamente di leggerlo per la prima volta – “c’è scritto così anche se può apparire
ridicolo”
“Scritto cosa?” chiese la Difesa
Lesse testualmente dalla minuta:
“Ignoti si sono mangiati l’arma del crimine”
Il Giudice fece un salto sulla sedia: “Mangiati cosa?” domandò con
occhi esterrefatti.
“Mio Dio, come hanno fatto ad inghiottire una pistola di ferro?”
“Potrei avanzare un’ipotesi se mi promette di non prendersela con
me” rispose l’avvocato della Difesa.
Il Giudice assentì.
“Malgrado fosse in tutto e per tutto identica ad una Smith and Wesson,
stesso colore, dimensioni e peso, difettava in un solo particolare”
“Quale?” domandò la Difesa stringendo l’Accusa nell’angolo.
“Era una pistola di cioccolata”concluse la Difesa.
Nell’aula esplose un boato di risate.
“Silenzio!” – gridò il Giudice – “Fate silenzio o farò sgombrare l’aula”.
“Quando si mangia di gusto, si finisce sempre per mordersi le mani”
– intervenne l’imputato – “Ho sempre saputo che la mia pistola sarebbe
finita nello stomaco di qualcuno. È dai tempi di Adamo ed Eva che l’uomo
non si trattiene dal prendersi ciò che desidera. Una mela, del cioccolato, del
denaro, una bella donna. La storia dell’uomo è affastellata di furti come una
galleria d’arte lo è di quadri. La stessa democrazia è un furto. Proprio così,
avete capito bene, signori e signore della Giuria. La democrazia è lo strumento che ha sempre permesso ai politici di rubare il consenso al popolo
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per farne ciò che più piaceva ai ladri. Con i voti ricevuti hanno fatto di
tutto, tutto tranne quello che il derubato avrebbe voluto. Ma ogni azione di
questa siffatta natura non è mai indolore e genera molteplici effetti collaterali dei quali vorrei parlarvi in maniera più approfondita”…
Conflitti tra deleghe
È opinione abbastanza diffusa che il politico debba, o quantomeno
dovrebbe, rendere conto a chi lo ha votato e cioè ai cittadini. Ahimè, non
potrà quasi mai mantenere fede alla promessa e dopo la sua elezione sarà
il partito a dettar legge. D’altronde è il partito che lo ha messo in lista ed è
sempre il partito che detiene il simbolo. Nei sistemi proporzionali che prevedono l’uso della preferenza, (le elezioni europee, le comunali e parte
delle regionali) vale la stessa regola, e al candidato, se non altro, è lasciata
la possibilità di rivendicare la propria autonomia attraverso il numero di
consensi, alludo alle preferenze, che ha raccolto personalmente. Come dire
che gli si lascia un’arma in mano con la quale potrà tentare malamente di
difendersi dalle scelte che gli verranno imposte. Nonostante questo, se tenterà di ribellarsi, gli sarà subito ricordato che le “sue” 18.000 preferenze
personali non sarebbero bastate a farlo entrare a Strasburgo. Infatti, se
avesse voluto diventare Onorevole senza l’aiuto del partito avrebbe dovuto trovarsi altri cinquecentomila voti che sono andati al simbolo. Il partito
si considera quindi il custode di una dimensione metafisica formata dai
“voti senza preferenza”, in altre parole, le croci sui simboli. Proprio così, ogni
partito può essere visto come un cimitero straripante di croci normalmente utilizzate per redimere l’indipendenza di tutti coloro che sono stati eletti dal popolo.
Capita talvolta che nello stesso territorio dove il candidato ha raccolto le 18.000 preferenze siano attivi dei dirigenti politici che non sono
riusciti a produrre un adeguato numero di iscritti. Si delinea così un conflitto tra due tipi di deleghe diverse, tra quella concessa dall’elettore al candidato e quella concessa dagli iscritti al partito. Pertanto, un Parlamentare
Europeo, destinatario di queste 18.000 preferenze, si può ritrovare nelle
penose condizioni di dover sottostare al volere di un Presidente Regionale
eletto dai centoventi miseri iscritti che hanno partecipato al congresso
regionale. La vecchia Democrazia Cristiana, per risolvere questo conflitto,
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convertiva il voto di preferenza in una adeguata quota di rappresentanza
che l’eletto poteva utilizzare nelle votazioni congressuali. Come dire che
saggiamente non si consideravano gli elettori come soggetti diversi dagli
iscritti e senza alcun potere nelle dinamiche interne, ma come elargitori di
un consenso che andava smistato tra la sede elettiva e l’organizzazione
politica. (fonte: Patrizio Gattuso) Del modello statutario della Dc verrebbe
da dire quello che un noto urbanista disse dell’architettura fascista: l’abbiamo sempre considerata malissimo fino a quando non abbiamo visto quello che sarebbe venuto dopo. Bisogna infine ricordare che se i risultati prodotti dal sistema elettorale, e cioè il numero di preferenze assegnate a ogni
candidato, sono certificate e reali, lo stesso non può dirsi per gli iscritti al
partito. Secondo Marco Travaglio, (Annozero del 12/03/2009) i tesserati
della Margherita a Gioia Tauro erano 168 mentre gli elettori che avevano
votato per lo stesso partito soltanto 55. A Locri i diellini sfioravano quota
255 a fronte di 123 voti. A Siderno c’erano 95 iscritti e solo 21 preferenze.
Insomma, più iscritti che votanti.
Nomine e preferenze
Il movimento di Beppe Grillo è certamente la vera novità di questi
ultimi anni. Se non avessi avuto paura di veder andare in pezzi un sogno
per la terza volta, dopo essere stato esiliato dal Partito Democratico, avrei
certamente aderito a questa strana entità che in fondo è una rivisitazione
dei Verdi in salsa giustizialista. Senza contare che non avrebbero mai accettato un ex membro della casta, transfugo da ben due partiti e rapinatore di
banche. Il MoVimento 5 stelle appare come un “metapartito”, in quanto si
tratta di un “gruppo” che pur affermando di non essere un partito deve svolgere gli stessi compiti. Ma questa non è la sola contraddizione. Ve n’è un’altra certamente più evidente.
Una delle prime battaglie del comico genovese, che si è conclusa con
una raccolta firme per l’istituzione di una legge che non verrà mai varata,
prevede la reintroduzione delle preferenze nei sistemi elettorali. Grillo
crede, e lo credo anch’io, che debba essere assolutamente ripristinata una
relazione diretta tra il voto dei cittadini e gli eletti, mettendo così fine alle
dinastie di parlamentari “nominati” dai partiti. Beppe Grillo si dice convinto che se non ci fossero le liste bloccate, pregiudicati della peggior razza
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non riuscirebbero ad entrare in Parlamento. Non sono pienamente d’accordo, ma sono quantomeno disposto ad ammettere che l’uso della preferenza rappresenta l’unica maniera per impedire ai politici indipendenti,
sgraditi all’establishment, di entrare in Senato e Parlamento. Come dire che ci
sarà sempre un politico disonesto che riuscirà a farsi eleggere comprando
le preferenze una ad una, ma quantomeno non ne sarà negata la possibilità, come invece accade ora, a tutti gli altri politici che raccolgono voti per
le idee che possiedono e i progetti che propongono.
Sicché, quando Beppe Grillo ha presentato le liste civiche Città a cinque stelle non si è candidato a Sindaco in nessun luogo lasciando che fossero i cittadini, senza nessuna esperienza alle spalle, a farlo. Così facendo ha
dato luogo ad una palese contraddizione rispetto alla battaglia combattuta
in favore della preferenza. Infatti, ogni consigliere eletto dalle liste civiche
di Grillo è riuscito ad entrare in Consiglio Comunale soltanto perché si trovava nella posizione privilegiata di candidato sindaco e non invece per aver
ottenuto il numero più alto di preferenze tra tutti i 44 candidati che correvano insieme a lui. Come dire che i meet-up hanno mandato in consiglio
comunale il proprio candidato usando lo stesso principio sul quale si fondano le liste bloccate dove viene eletto il primo della lista. A seconda dei
voti presi dalla lista viene proclamato un secondo eletto e così via. Alle
comunali, per fortuna, questo secondo eletto è rappresentato dal candidato consigliere che ha incassato il maggior numero di voti. Grillo avrebbe
fatto bene a presentarsi in testa ad ogni lista (con la promessa di dimettersi il giorno dopo la vittoria) permettendo in questo modo a chi si è guadagnato il maggior numero di preferenze di ricevere gli allori del trionfo.
Mai ripetere gli errori degli altri.
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Tutto per colpa di una scarpa
Le preferenze sono state abolite perché favorivano la genesi del tristemente noto “voto di scambio” o almeno così si vocifera nei corridoi della
politica. Ti viene poi ricordato che al sud è persino successo che ogni preferenza concessa era sempre ricambiata con un pacco di pasta. Dopo la
guerra, agli spaghetti sono subentrate le scarpe. Prima si consegnava una
scarpa sola come anticipo e dopo il voto, riscontrata la preferenza, era recapitata anche l’altra del paio. Con il passare del tempo e al crescere del costo
della vita, calzature e generi alimentari sono stati soppiantati dai posti di
lavoro, dalle case popolari o dai finanziamenti a pioggia di ogni genere,
basti solo ricordare che in Calabria il “finanziamento pubblico” rappresenta la
prima industria del paese. Per questo, per arginare questo dilagante fenomeno, sì è pensato di riformare il sistema elettorale eliminando la preferenza che aveva contraddistinto intere generazioni di politici nati e vissuti
durante quella che oggi è conosciuta come la “Prima Repubblica”. Così, se
oggi non possiamo votare per chi ci pare, la colpa è di una scarpa
I partiti, la Telecom e gli elefanti
“Siamo come marionette in balia
di un branco di elefanti”
Edgar Allan Poe
Quando sono andato ad abitare in un bosco per rimarginare le mie
ferite ho chiesto alla Telecom di dotarmi di una normalissima linea telefonica. L’abitazione accanto, che non distava più di cinquanta metri dalla mia,
era dotata di un bellissimo telefono di bachelite e ciò mi convinse che non
si trattava di una richiesta onerosa. Mi sbagliavo. Con il diffondersi dei telefonini le reti fisse sono cadute in disgrazia e chiedere di essere raggiunti da
un filo è un’impresa disperata. Ma la cosa che mi colpì fu l’invalicabile
impermeabilità che la Telecom era riuscita a creare attorno a sé. Se telefo151
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navo al call - center ricevevo risposte evasive a domande semplicissime del
tipo: “Entro quanto tempo potrò avere un telefono?”.
Gli operatori si alternavano con una tenacia incrollabile: “Pronto? Sono
Francesco cosa posso fare per lei?” Sono Paola. Michela. Susanna. Franco.
Cambiavano i nomi, ma non le chiose: “Abbiamo preso nota e le faremo
sapere”. Oppure: “la sua posizione è all’attenzione degli incaricati”.
Ad un certo punto, sfinito dal susseguirsi da questi “rosari” di rifiuti,
incominciai ad insistere:
“D’accordo, ma non mi potrebbe passare il suo superiore?”
“Sono spiacente, ma non siamo tenuti a darle questa informazione”
“Almeno mi dica il nome di un incaricato qualsiasi - per Diana! - e
provvederò a cercarlo sull’elenco del telefono”
“Neppure noi abbiamo accesso a questo genere d’informazioni. Le
ricordo che la sua pratica è in iter e molto presto le faremo sapere. Grazie
per averci chiamato. Arrivederci” e riattaccavano.
Una mattina vidi un uomo in giardino con l’atteggiamento di chi compie un sopralluogo. Buon segno: in fondo alla strada sterrata era parcheggiato un furgone bianco dotato di scala e matasse di filo legati sul tettuccio. Dopo aver indossato frettolosamente l’accappatoio gli andai incontro.
Si trattava effettivamente della ditta che avrebbe dovuto portarmi il filo, ma
non spettava a lei decidere quando incominciare il lavoro. Il loro compito
consisteva solo nel redigere un rapporto con indicati i tempi necessari, i
costi e altre eventuali informazioni tecniche. D’accordo, non sapevano
dirmi nulla, ma forse potevano indicarmi il nome del responsabile di zona
e quindi chiesi:
“Mi serve nome e cognome di chi la paga”
“Riceviamo gli ordini via e-mail da aziende terze che non sono la
Telecom e abbiamo ragione di credere che neanche il personale con il quale
ci rapportiamo possieda le informazioni che la interessano”.
“Ma non lavorate mica per la Cia” – mi guardò storto, ma continuai a
lavorarmelo - “non mi vorrà far credere che se bisogna riparare un palo del
telefono abbattuto da un fulmine le lasciano un comunicato anonimo nella
buchetta”
Se ne restò in silenzio e mi guardò con l’aria mesta di chi si trova in difficoltà.
“Un’e-mail?” rilanciai.
“Dobbiamo chiedere l’autorizzazione prima di cederla a terzi” rispose.
Ottenere il nome di un funzionario della Telecom appariva praticamente impossibile e questa smisurata riservatezza adottata dall’azienda mi
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parve pari solo a quella di una società massonica. Di conseguenza non mi
restavano molte strade da prendere. Dovevo tramortirlo, trascinarlo in
casa, legarlo e infine torturarlo fino a fargli sputare un nome e un numero
telefonico. Non feci naturalmente nulla di tutto ciò limitandomi a chiamare alcuni miei amici giornalisti per informarli che la Telecom avrebbe
impiegato più di un anno per stendere 50 metri di filo.
Un paio di giorni dopo squillò il telefono e dall’altra parte della cornetta risuonò la voce calda di un uomo. Si presentò dicendo di essere
“l’agente” Telecom addetto alla pratica. Chiesi di sapere con chi stavo parlando, il nome e il cognome del misterioso interlocutore.
“No, non può. Le basti sapere che nel giro di qualche giorno avrà il
suo telefono” rispose e riattaccò. Fortuna volle che a distanza di una settimana il telefono fu finalmente installato, ma i miei guai non ancora finiti.
La Telecom inserì un indirizzo sbagliato nel contratto. Telefonai - non
ricordo neanche più quante volte - al call center senza mai essere preso sul
serio così che le bollette continuarono ad essere recapitate altrove. Al mancato ricevimento delle fatture conseguì un ritardo nel pagamento e la soppressione del servizio da parte della compagnia telefonica. Stufo di non
riuscire a far valere le mie ragioni, inacidito dal dover ripetere la storia dal
principio tutte le volte che chiedevo ragione delle sanzioni legate al ritardo
dei pagamenti, cambiai compagnia passando a Fastweb.
A quel punto, la Telecom diede incarico all’agenzia di recupero crediti di farla rientrare dei soldi che ancora le dovevo. In tutta risposta la trascinai davanti al difensore civico regionale e al comitato regionale radiotelevisivo
a cui era delegato questo genere di contenziosi. Non solo ottenni ragione,
ma mia moglie (l’intestataria del contratto) spuntò persino un risarcimento
per ingiusta interruzione del servizio.
Da quel giorno mi sono convinto che le grandi multinazionali spendono più risorse per difendersi dai clienti anziché investire energie nella
risoluzione dei problemi. Gli stessi manager, profumatamente pagati, che
dovrebbero essere quanto mai attenti alle possibili falle che si aprono nel
sistema, preferiscono trincerarsi dietro a plotoni di operatori telefonici il
cui unico scopo consiste nel sollevare i superiori dalle scocciature. Se poi i
clienti diminuiscono non ci s’interroga sui motivi, ma ci s’indebita per
pagare attori di grido e campagne pubblicitarie miliardarie che vengono
pompate dai mezzi di comunicazione a suon di spot. In tutta questa sarabanda, i poveri clienti, quelli che in fondo tirano fuori la grana per pagare
i sottopagati operatori del call - center e tutto il resto della “banda” sono solo
l’ultimo e dimenticato anello della catena. La marionetta in balia del bran153
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co di elefanti. Aumentare i clienti senza dover rendere conto di nulla agli stessi, e nemmeno agli azionisti, a nessuno insomma, sembra questo l’obiettivo
da raggiungere. Sono occupati alla creazione di entità economiche che devono diventare autonome dal giudizio di chi si avvale dei beni e dei servizi delle
stesse. Questo mi spinge a pensare che se le grandi aziende hanno istituito i
call center per le ragioni prese in esame, i partiti, che ormai sono diventati
anch’essi aziende, hanno varato i sistemi elettorali a lista bloccata per non
essere in totale balia dell’elettorato. Evidentemente entrambi, i partiti come le
aziende, vogliono imporci il loro operato senza dover rendere conto di nulla.
Si può dire lo stesso dei “Governi tecnici” “di transizione” o “di salute nazionale”che
si formano senza aver consultato il popolo.
The fly
Il finto proporzionale a liste bloccate introdotto da Berlusconi ha generato alcuni mostri degni di
un film dell’orrore. Seth Brundle, lo scienziato del
film “la mosca”, compie esperimenti sul teletrasporto. Una mattina entra nella cabina di smaterializzazione con una mosca e si ricompone mescolato
all’insetto.
Dalla nostra cabina elettorale nel 2006, per non
essere da meno del regista David Cronenberg, siamo
“La mosca” di D. Cronenberg
riusciti a far uscire un politico mezzo animalista e
mezzo cacciatore. Tutto incominciò quando i Verdi e i Comunisti Italiani,
per meglio sopravvivere alla nuova soglia di sbarramento si fusero originando una lista rosso – verde. In Emilia Romagna fu collocato a capo di questa lista Armando Cossutta mentre Sauro Turroni, verde fin dalla nascita,
finì al secondo posto. A fronte di un bacino di voti che avrebbe eletto un
solo rappresentante, si comprese che gli elettori “rossi” sarebbero stati premiati a scapito di quelli “verdi” e così fu. Quindi, ogni animalista che ha
votato per i Verdi avendo in mente di fare del bene agli animali (da sempre
i Verdi si sono dichiarati vicini alle associazioni protezioniste), ha mandato
in Senato un politico a capo di un partito che è stato da sempre vicino alle
associazioni venatorie e per questo inviso agli animalisti. Un po’ sconcertato, quando incontrai la consigliera regionale del partito verde, Daniela
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Arregu, le accennai a questo palese controsenso mi rispose con gli occhietti di chi ritiene di aver fatto una furbata:
“Ma che t’importa? Se qui da noi eleggiamo un amico dei cacciatori
con i voti degli animalisti, da un’altra parte eleggeremo un animalista con i
voti dei cacciatori!”
Quando i giochi di prestigio non sono frutto dell’abilità del mago, ma
della disonestà di un baro le mosche sono le prime a finire schiacciate,
tanto è vero che dopo le politiche del 2008 Verdi e Comunisti Italiani
hanno cessato di amalgamarsi e sono spariti per sempre da Senati e
Parlamenti, ma c’è chi continua a sostenere che è stata tutta colpa di
Veltroni e del suo “andiamo da soli”.
Tana libera tutti.
Subito dopo le politiche del 2006, controllando la posta elettronica, mi
accorsi di aver ricevuto un’e-mail dove mi si chiedeva di firmare una petizione a favore di una candidata affinché potesse essere eletta una volta per
tutte. Restai di stucco. C’eravamo da poco lasciati alle spalle le operazioni
di scrutinio e pensavo che tutti i giochi fossero fatti. Eppure non era così,
le elezioni continuavano all’interno delle segreterie dei partiti. La petizione
spiegava che la candidata dal nome esotico, Tana, era stata presentata al
secondo posto in un collegio, al terzo in un altro, al quinto in un altro ancora. Nel collegio dove lei riteneva di aver alzato i maggiori consensi si ritrovava davanti il Presidente del suo partito che si era autocandidato capolista
in tutte le circoscrizioni. In breve quella povera ragazza, (se il Presidente
non si fosse dimesso) non sarebbe mai entrata in Parlamento. Sicché il
potere di eleggere i membri di Senato e Parlamento era stato trafugato al
popolo da politici e partiti.
La mail chiedeva quindi di scrivere all’onnipotente Presidente per invitarlo
a “non optare” – come si dice in gergo – “per il collegio di Tania”. L’alternativa
fornita a chi apprezzava l’operato del Dio dell’elettività consisteva nel
domandargli genericamente di far dimettere altri candidati in altri collegi,
così da poter, da una parte o dall’altra, eleggere la beniamina degli elettori
“fregati” che figurava al quarto e al terzo posto in altre circoscrizioni.
C’era quindi un piano A ed un piano B di riserva, entrambi costruiti
su di un “ingranaggio” o meglio “un gioco a incastro” che poteva essere fatto
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funzionare solamente da un certo numero di azioni prodotte internamente al partito. M’immaginai il Presidente seduto nel suo ufficio mentre giocava a risiko con le riproduzioni miniaturizzate dei candidati. “Questo lo
facciamo entrare in Parlamento, questo no. Questo si, quest’altro no” –
afferrava i “soldatini/candidati” e li buttava nel cestino - “Quest’altro è stato
tanto, tanto, cattivo, ma niente sculacciate, meglio non farlo eleggere”. E
via un altro.
Contrariamente a quello che si crede comunemente, il popolo è molto
meno sovrano di quello che ci s’immagina!
Post scriptum:Tana De Zulueta rientra in Parlamento
L’Esecutivo nazionale dei Verdi ha definito le opzioni relative ad
Alfonso Pecoraro Scanio e Stefano Boco, in modo tale da consentire
l’elezione di Tana De Zulueta alla Camera dei Deputati nella circoscrizione della Toscana. Il presidente Pecoraro Scanio ha ringraziato la
Federazione regionale della Calabria per aver accolto l’opzione di
Boco in quella regione. L’Esecutivo del ‘Sole che ride’ ha chiesto a
Stefano Boco la disponibilità ad essere indicato dai Verdi per un incarico di Sottosegretario. Ex corrispondente del settimanale Economist
in Italia, De Zulueta ha lanciato nei mesi scorsi la campagna per
‘Un’altra tv’, con una proposta di legge d’iniziativa popolare per una
profonda riforma del servizio pubblico radiotelevisivo per la quale è
in corso la raccolta delle firme.
(http://www.verdi.it/politica/8569-elezioni.-verdi—tana-de-zuluetarientra-in-parlamento.html)
Liti elettive
Sono molti i film dove ad un certo punto della trama compare una
scena nella quale due donne incominciano a picchiarsi per le ragioni più
varie. Mentre le scazzottate tra uomini sono descritte in maniera drammatica, i litigi femminili scadono quasi sempre nel ridicolo consumandosi tra
graffi, gambe all’aria, capelli tirati e borsette che volano da tutte le parti.
Anche la lotta per uno strapuntino tra Onorevoli non è da meno di questi
“round in gonnella”. Alla sconcertante petizione in sostegno di Tana, qualche
giorno dopo, ne seguì un’altra pressoché identica a firma di tale Alessandro
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Ronchi di Forlì che non ho mai conosciuto malgrado appartenesse al partito in cui militavo.
Era una lunga lettera che riporto nelle sue parti più significative.
“Lettera di sostegno per l’elezione di Sauro Turroni al Senato.
I giornali di tutta la regione hanno pubblicato con grande risalto la notizia della esclusione
da parte della direzione dei Comunisti italiani di Sauro Turroni dal Senato. L’organismo politico di quel partito avrebbe indicato a Armando Cossutta di optare per l’Emilia Romagna
non accettando la Lombardia, né le Marche o la Toscana dove pure è stato eletto. Cossutta,
durante tutte le manifestazioni pubbliche a cui ha partecipato in Emilia Romagna, ha dichiarato pubblicamente che non avrebbe optato per l’Emilia Romagna e che Sauro Turroni
sarebbe diventato il futuro Senatore della regione. Dal canto suo, Sauro Turroni in tutte le
manifestazioni (organizzate dai Comunisti italiani per altro) era sempre indicato come
“Capolista dei Verdi”. Non conosciamo i motivi che hanno indotto i Comunisti Italiani a
cambiare le precedenti decisioni e disattendere gli accordi, ma ciò è per noi inaccettabile per
i motivi che seguono. I comunisti italiani non possono decidere chi sono i parlamentari dei
verdi. Se ciò accadesse la nostra credibilità sarebbe ridotta a meno di zero. I parlamentari dei
verdi sono decisi dagli organismi verdi…Non riteniamo accettabile che l’Emilia Romagna
che dà ai verdi il 10 % dei loro voti e il 10 % degli iscritti, che ha sempre avuto tutte le province riconosciute, non abbia neppure un eletto mentre altre regioni come la Lombardia con
l’esclusione di Sauro verrebbero ad averne addirittura 4, mentre l’unico altro posto in regione è appannaggio dell’esecutivo nazionale.…Invitiamo quindi il presidente dei verdi e l’esecutivo a respingere il tentativo di esclusione messo in atto dai comunisti italiani e di chiedere loro di rispettare quei patti che lo stesso Cossutta ha così chiaramente reso noti in tutte le
manifestazioni pubbliche a cui ha partecipato, e che anche nelle ultime ore si dichiara del
tutto disponibile a mantenere. Invitiamo altresì il presidente dei verdi e l’esecutivo a rispettare le precedenti decisioni concretizzatesi nell’indicazione secca di Sauro Turroni dopo
Cossutta in Emilia Romagna, indicazione fatta in tale modo proprio perché Cossutta al momento dell’opzione non danneggiasse esponenti del nostro partito né noi potessimo danneggiare
esponenti del suo. Ogni altra decisione infine premierebbe personaggi che in particolare in questo ultimo periodo hanno cercato di contrastare l’azione politica di Sauro Turroni che con rigore applicava le posizioni della federazione nazionale e del suo presidente”.
Questo giochetto delle “eleggibilità ad incastro” si presta magnificamente ad eliminare i possibili rivali di tutti i segretari nazionali. Non c’è che
dire, si tratta di un mezzo efficace, ma è terribilmente umiliante nei confronti degli elettori. Fui colto dalla nausea pensando che nel mio paese
stesse succedendo una tragedia del genere. I cittadini italiani, terminate le
elezioni, si vedevano costretti a raccogliere le firme e sottoscrivere lettere
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di protesta per cercare di eleggere il proprio candidato. Deve essere l’assuefazione al peggio che impedisce al popolo di fare la rivoluzione, altrimenti non
me lo spiego proprio tutto questo dimesso silenzio.
Apostoli, body bag e le false maggioranze
Il Marchese di Condorcet
Chi vota non è certo che sarà rappresentato. Ma chi non vota potrebbe perfino rimetterci la vita. Ne sapeva qualcosa Jean Antoine Nicolas de
Caritat, meglio conosciuto con il nome di Marchese di Condorcet, che teorizzò il paradosso che da lui prende il nome. Fu il primo a capire che “se non
ti occupi di politica, la politica, prima o poi, si occuperà di te”.
La dimostrazione più esplicita del paradosso di Condorcet la si ritrova
nelle elezioni a doppio turno. Se tre partiti si confrontano, solo due parteciperanno allo spareggio. La vittoria potrebbe essere incassata da un partito numericamente inferiore rispetto alla somma degli elettori appartenenti
ai due schieramenti sconfitti.
Nella Bologna di Sergio Cofferati lo stesso principio si manifestò in modo
analogo, ma in forma ancora diversa. I Democratici di Sinistra e la Margherita
disponevano - da soli - di un numero di voti consiliari superiore alla
somma di Verdi, Rifondazione, Lista Di Pietro e Occhetto – facenti parte del
centrosinistra – e di tutta l’opposizione composta dalla lista civica la Tua
Bologna, Alleanza Nazionale e Forza Italia. Una diarchia che comportò l’esclusione dal Governo non solo di chi aveva perso - è ovvio - ma anche delle
forze minori che avevano legittimamente contribuito alla vittoria del sindacalista. Dal micro al macro, il paradosso si ripete. Negli Stati Uniti, durante un alternarsi di Presidenti pressoché identici è sempre andato a votare il
50% degli aventi diritto. In quelle occasioni, il primo cittadino americano è
nato dal grembo di una palese minoranza. Infatti può ben dire di aver vinto
con il 26% degli aventi diritto al voto, sbaragliando 24% degli elettori che
hanno votato contro la sua nomina e il 50% dei cittadini che non sono
andati a votare. La maggioranza del paese, il 74% dei “potenziali” votanti, è
stata posta sotto il giogo di un minoritario 26%. Se a questo si aggiunge
che lo schieramento vincente discende da un’elite politica estremamente
ridotta si può concludere, che pochi uomini, danarosi e ben attrezzati, decidono del destino di un intero popolo. Paolo Ricci (su di un sito che ha ces158
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sato la sua esistenza da tempo, www.osservatorio politico.org) commentò
la vittoria di Bush con queste parole:
“Il 49% dei neri d’America se ne infischia di votare. Alle ultime
elezioni di questo 49% di votanti, il 90% avrebbe votato Gore e il 10%
Bush. Questo 49% di afro americani, non andando a votare, ha perpetrato un’autentica follia: ha consegnato il potere alla destra guerrafondaia di Cheney, Wolfowitz, Pearl e soci. Il risultato finale di questo astensionismo suicida? La destra ha scatenato la guerra in Iraq. Ma i soldati
mandati a combattere di che colore sono? Sono in maggioranza neri o
ispanici e figli delle classi bianche meno agiate. L’astensionismo nero e
ispanico ha creato le condizioni affinché i figli dei poveri vengano massacrati in una guerra sponsorizzata da una maggioranza bianca, sostenitrice di oligarchie finanziarie, che ha consegnato il potere a Bush
votandolo al 54%, ma prima si è fatta garantire che i propri figli non
sarebbero stati spediti in Iraq per farsi sbudellare. Ora che quei poveri
ragazzi ritornano chiusi nei “body bags”, i poveri si rendono conto di
cosa significhi “perdere per una manciata di voti”: un voto nero compatto
avrebbe evitato che Bush vincesse contro Gore”.
Dal vangelo secondo Matteo: beati i poveri di spirito perché di essi è il regno
dei cieli. Sono d’accordo, ma l’apostolo avrebbe dovuto aggiungere: beati
anche i poveri di voti perché il regno della terra è già nelle loro mani.
Maggioritario con proporzionale e paracadute
Ai tempi del vecchio “mattarellum” le cose non andavano certo meglio di
oggi. I candidati, soprattutto i leader, che perdevano nei collegi maggioritari,
erano “ripescati” e subito dopo rieletti forzatamente in Parlamento grazie ad
una lista proporzionale dove si erano fatti posizionare ai primi posti. Si trattava del famigerato “paracadute”, al quale nessun politico ha mai rinunciato, eccezion fatta per Massimo D'Alema quando decise di correre esclusivamente nel
collegio uninominale di Gallipoli. La sua rinuncia diventò un evento epico e
talmente inconsueto che si guadagnò le prime pagine dei giornali. Mia nonna,
che era solita stirare le camicie davanti alla televisione, ascoltando questa notizia, sentenziò: "Credevo che D'Alema avesse una barca, non un aeroplano".
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Rappresentatività surrealista dell’assenza
Come dimostrato dalle conclusioni espresse da molti esponenti politici
in merito al mancato raggiungimento del quorum sui “referendum in materia
di fecondazione assistita”, i non votanti e cioè coloro che se ne rimangono a
casa durante una consultazione popolare sono diventati soggetti, che al pari
dei votanti, esprimono una presa di posizione. La competizione non si era
affatto consumata tra chi aveva cercato di convincere i cittadini a votare sì o
no, ma tra due schieramenti che domandarono, il primo di partecipare alle
consultazioni e il secondo, capeggiato dalla Chiesa, di disertare le urne rendendo nullo il referendum per mancato raggiungimento del quorum. Casini e
Pera, che all’epoca indossavano due importanti vesti istituzionali, teorizzarono la triplice possibilità di voto: votare sì, votare no o non andare a votare.
Come se non andare a votare fosse diventata una terza opzione di voto rieditata sottoforma dell’ossimoro del “non volere è potere”, il potere di non esercitare lo strumento referendario per consolidare la posizione di una parte politica. Sarebbe come se una squadra di calcio decidesse di non gareggiare contro
un’avversaria perché ha paura di perdere.
La verità è che i politici temono le decisioni del popolo come i Troiani
temevano i Greci (Timeo danaos et dona ferentes). Con una scusa o con l’altra,
“andate al mare, ai monti a mangiar fuori, ma non recatevi assolutamente alle
urne” convincono il popolo a lasciarsi mutilare senzareagire.
A quei tempi ricordo di aver pensato che qualcuno avrebbe finito per istituire il Partito dell’astensionista, che non ha un presidente perché la base si rifiuta di votarlo, non ha un programma perché nessun dirigente si cura di redigerlo e non possiede un solo aderente perché ciascuna iscrizione viene rispedita al mittente ...non esistendo una sede, non può esistere neanche la buchetta delle lettere. Insomma, sarà un partito fondato sull’inesitenza elevata ad
attività politica.
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Vota la pipa di Magritte!
Il grande regista spagnolo, Luis Bunuel, sul finire della sua vita, scrisse
che l’esperienza surrealista era finita perché la modernità stava abbondantemente superando le capacità oniriche dell’uomo. Gli avvenimenti quotidiani erano, e lo sono ancor più oggi, molto più assurdi di “una macchina da
cucire che incontra un ombrello sul tavolo del chirurgo” (Max Ernst citando
Lautréamont). Qualche mese dopo le polemiche nate intorno al referendum
sulla fecondazione assistita, navigando nella rete, incontrai la pagina di un
nuovo partito. Appariva ai miei occhi increduli come l’avverarsi della “profezia surrealista”.
“16 milioni di italiani non vanno a votare. Per loro è nato il
“partito” degli astensionisti che, con una lista civica nazionale recante
nel proprio simbolo la scritta “IO NON VOTO”, sarà presente, in
tutta Italia, alle prossime elezioni politiche. Come è illustrato nell’animazione in home page, barrando questo simbolo di colore rosa, ogni
elettore che, ancora una volta o per la prima volta, vorrà astenersi potrà
recarsi a manifestare, validamente, nella discrezione della cabina elettorale, il proprio legittimo desiderio di non votare. Ma la straordinaria
novità consiste nel doppio valore di questo voto : da un lato, l’elettore
potrà dare la massima dignità ai sentimenti che finora lo hanno indotto a disertare le urne e, dall’altro, potrà attribuire al proprio voto un
ulteriore e importantissimo significato umanitario”. (estratto il 20
marzo 2006 da: www.iononvoto.it)
I contributi elettorali incamerati dall’assenso astensionista sono devoluti alla ricerca sul cancro. Almeno una buona idea arde nella pipa di
Magritte.
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Romero’s party.
Come tutti sanno, in taluni casi, è necessario raccogliere un certo
numero di firme per poter presentare una lista di candidati alle elezioni.
Qualche giorno dopo la nascita del partito astensionista, e qualche
mese prima delle elezioni, incappai in una storiella divertente. Me la raccontò il protagonista in persona, un tipo alla John Belushi che fumava il
toscano e bazzicava quelle zone grigie situate tra il centrodestra e le liste
civiche. Si faceva chiamare Cicci Bau o qualcosa del genere e davanti ad un
buon bicchiere di vino rosso incominciò il racconto.
Due anni prima, se ne stava seduto ad un tavolino per la raccolta firme
posizionato sotto uno dei portici bolognesi. Restava in attesa che qualcuno si fermasse per siglare quei moduli di vitale importanza per la sopravvivenza elettorale del partito. Malgrado si fosse vantato con l’avvenente
segretaria bionda di essere il miglior mietitore di firme di tutta la regione
non era riuscito a strapparne neanche una ai passanti. Faceva un freddo
cane e tutti tiravano dritto senza degnarlo di uno sguardo. Si chiese cosa
avrebbe detto la segretaria, dopo di lei i dirigenti, quegli insopportabili
damerini in doppiopetto blu. Ci pensò sopra fino a quando prese atto che
la leggenda di Cicci Bau, il grande mietitore, sarebbe colata a picco un
istante dopo che tutti lo avessero visto rientrare a mani vuote. Fu così scosso dalla paura che quasi svenne. Per riprendersi entrò in un bar accogliente della zona universitaria e lì rimase per un paio d’ore pensando a come
poteva cavarsi da quella brutta situazione. Dopo essersi mangiato una messicana, quella pasta a forma di lumaca, uscì in strada e bighellonò per le
arterie che dal centro si diramano in periferia. Camminò a lungo fino a
quando non si trovò davanti all’entrata del cimitero monumentale.
Aggirandosi tra i rigogliosi bossi della Certosa e pensando al film di George
Andrew Romero, La notte dei morti viventi, che aveva visto la sera prima in televisione, gli prese forma nella mente un’idea luminosa. Dalle lapidi trascris-
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se i nomi, i cognomi e le date di nascita sui moduli elettorali. Si disse certo
che nessuno dei defunti avrebbe avuto a che ridire. Aveva ragione. Anzi,
sarebbe filato tutto liscio se non si fosse messa in mezzo la curiosità di uno
zelante dipendente dell’ufficio elettorale che con i suoi controlli incrociati
fece venire a galla la storia dei sottoscrittori zombie.
Di storie come questa la politica è piena, ma nessun Parlamentare,
eletto in un’elezione truccata in questo modo, ha mai dovuto rinunciare alla
propria poltrona. Ma cosa importa? Se riusciamo a rappresentare gli astensionisti perché dovremmo far mancare una rappresentanza ai morti?
Ghost stories
Tempo fa, la trasmissione satirica, Le Iene, ha mostrato il Parlamento
Regionale Siciliano durante una particolarissima seduta. Si tratta di un vero
e proprio cammeo partorito dai nostri emicicli rappresentativi. Il
Presidente dell’Assemblea Siciliana- ripreso dalla telecamera - approvava
una delibera dopo l’altra sputacchiando le parole alla velocità di un mitragliatore. Nemmeno il timpano più fine avrebbe potuto comprendere una
sola sillaba, figurarsi il senso degli atti amministrativi. In aula erano presenti solo dieci consiglieri e le numerose assenze non erano casuali. I provvedimenti posti in votazione avvallavano l’ennesimo condono edilizio e
altrettante discutibili deroghe venatorie. Il Presidente “mitraglietta”, intervistato da una iena, rispondeva dicendo che la partecipazione risicata era il
frutto di un accordo tra la maggioranza e l’opposizione. Aggiunse che non
accade nulla negli organi legiferanti - al Parlamento Nazionale pare sia una
consuetudine consolidata - senza un accordo precedentemente stilato tra
maggioranza e opposizione. Ma ai telespettatori cosa importava di sapere
che c’era un accordo? Se anche c’era, come si può addurlo a giustificazione? Indipendentemente da questo, quel giorno, non stavano votando i presenti, bensì gli assenti che permettevano ai primi di agire incontrastati.
Questo è un classico esempio di voto degli assenti.
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I deputati vestono Yankees!
L'attore Leonardo di Caprio nel film “Prova a prendermi” interpreta Frank
Abbagnale, un falsario che per un molto tempo ha viaggiato gratuitamente
sulle linee aeree della Pan Am fingendosi un pilota di linea. Quando l'Fbi
decide di catturare questo impostore semina agenti in borghese in ogni
aeroporto. Frank, messo alle strette, si ricorda di una conversazione fatta
col padre a proposito di una squadra di baseball.
Il padre di Frank: "Sai perché gli Yankees vincono sempre Frank?"
Frank: "Perché hanno Mickey Mantle?"
Il padre di Frank: "Naah. Perché gli avversari non riescono a staccare gli occhi
dalle righine delle loro divise."
Memore di quella chiacchierata si circonda di bellissime ragazze vestite da hostess. Da quel momento, tutti coloro che si trovano in aeroporto,
agenti infiltrati dell'Fbi e comuni passeggeri, sono attratti dalle affascinanti signorine e nessuno presta attenzione all'impostore. Il padre di Frank
aveva ragione, le ragazze sono come le righine della divisa degli Yankees!
Così arriva il giorno in cui la
Camera
deve
riscrivere un articolo della legge
sulla caccia per
adeguarlo alla normativa europea. Il
popolo degli animalisti si mobilita
per chiedere agli
Onorevoli italiani
di non votare
quella modifica
Leonardo Di Caprio in una scenda del film “Prova a prendermi”
che comporterebbe l’allungamento della stagione venatoria di ben 10 giorni. Partono centi164
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naia di e-mail, lettere e cartoline indirizzate agli eletti. Il rischio di finire sulla
“black-list” dei nemici degli animali è
molto alto. A questo punto, qualcuno,
impossibile sapere con esattezza chi sia
stato, decide di far indossare ai deputati
la divisa a righe degli Yankees in maniera
da far sì che l'attenzione non si focalizzi
sui fatti.
Il giorno dopo il voto, sul “pianeta
facebook”, incominciano a circolare gli
esiti delle votazioni. Un mio amico che si
occupa di fotografia naturalistica, un fervente protezionista, apre il dibattito chiedendo agli elettori di sinistra se non sono
Mickey Mantle con la divisa a righe
rimasti delusi dal fatto che il Partito
Democratico si sia astenuto, mentre la Lega abbia votato contro in modo
compatto. Si moltiplicano i commenti degli animalisti che inneggiano al
Carroccio e non è la prima volta dato che il partito di Bossi è stato l'unico che
si è opposto duramente al recepimento della direttiva europea sulla macellazione rituale degli animali.
Incomincio a preoccuparmi: anche se le tematiche animaliste diventano patrimonio dalla Lega non mi resta che fare il cosiddetto “salto della quaglia” tanto per restare in tema di uccellini. Ma prima della decisione irrevocabile scrivo a Carla Carrara, responsabile regionale della Lac, la Lega Anti
Caccia. Le chiedo conferma di quanto successo. Mi risponde affermando
che quanto ho imparato è vero, ma bisogna interpretare il voto.
Interpretare il voto? Si vota a favore, contro o ci si astiene. Cosa ci sarà mai
da interpretare? In politica tutto è possibile, avrei dovuto immaginarlo. Mi
racconta che il voto contrario della Lega è stato determinato dai dieci giorni della deroga, il Carroccio ne voleva venti e per ripicca si è schierato contro il provvedimento. Così vado a leggere i verbali sul sito della camera scoprendo che la maggior parte dei voti contrari appartengono proprio a quei
deputati che si definiscono degli sfegatati sostenitori dei cacciatori.
Porgo quindi i miei più sentiti complimenti ai “registi occulti” che
sono riusciti a rimodellare “la pietra del contendere” facendo passare per
animalisti chi ha votato per l’allungamento del calendario venatorio. Pare
proprio che ad accorgersi di questo controsenso sia stato solo
l'Onorevole Giulio Santagata, che ha dichiarato in aula:
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“Signor Presidente, quest'anno prendo la mia quarantaquattresima
licenza di caccia, ma non ci sto a farmi iscrivere al gruppo di chi pensa
che i cacciatori abbiano diritto ad un'attività non regolata. Mi ero orientato a votare contro questo emendamento, perché ritengo un crimine
aumentare di dieci giorni la pressione venatoria sulle specie migranti.
Ma, visto l'atteggiamento dell'altro gruppo, dovrò votare a favore e lo
farò convintamente, da cacciatore”.
Se io fossi stato alla Camera quel giorno, dato che sono contrario
all’aumento della stagione venatoria anche di un solo giorno, mi sarei ritrovato affratellato ai rappresentanti della lobby dei cacciatori e avverso a
quella parte di deputati ambientalisti che hanno concesso 10 giorni oggi
per non doverne concedere 20 domani. Senza contare che gli Onorevoli,
grazie a questo versatile risultato, potranno dire agli animalisti di aver votato contro la caccia perché sono dei veri amici degli animali e alle doppiette
che sono dalla loro parte a tal punto che volevano il doppio delle giornate
concesse al calendario di caccia dal Governo Berlusconi.
Non c'è che dire, si tratta proprio di una gran bella divisa a righe!
Professione fontaniere
L’Accusa frugava nei corposi incartamenti accumulati sul piano del
tavolo. Muoveva la testa come il rullo scorsoio di una vecchia macchina da
scrivere che sopravanza lentamente ad ogni battuta per poi tornare indietro di scatto quando arriva alla fine della riga. Il pubblico, le parti civili, tutti
quanti insomma, erano in attesa di sapere quale sarebbe stato il prossimo
argomento dibattuto. L’imputato dispensava un’aria annoiata.
“Fate entrare il teste Zeta” recitò l’Accusa.
Un uomo alto e dall’espressione contrita si affacciò sulla porta della
sala. Si guardò attorno spaesato camminando con passo deciso. Andò a
sedersi al banco dei testimoni, si aggiustò gli occhiali e ripose lo stuzzicadenti che aveva tenuto in bocca fino a quel momento dentro al taschino
della salopette. L’Accusa incominciò l’interrogatorio dalle formalità:
“Potrebbe gentilmente declinare le sue generalità ad alta voce?”
Il testimone pronunciò il nome, l’indirizzo di casa e la data di nascita.
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Parlava con molta calma così che la stenodattilografa potesse trascrivere
l’interrogatorio senza errori. La cadenza risentiva di un greve accento
romano.
“Qual è la sua professione?” chiese l’Accusa.
“ A Stagnino”
“Potrebbe essere più preciso?” lo incalzò.
“E che te devo dì? Fontaniere? Idraulico? Stura – cessi? Ognuno me dà
er nome che vò”
Stura – cessi? Pensò il Giudice prima di scuotere la testa.
“Conosce l’imputato?” chiese l’Accusa.
“Ce puoi scommettere tu sorella!”
Nella sala scoppiò un boato di risate assortite.
“Risponda solo con un sì o un no e non faccia commenti che potrebbero influenzare la Giuria”. Riprese quindi ad interrogarlo:
“Come vi siete incontrati?”
“Per via der cesso, quante volte te lo devo dì che sturo de tutto? ”
Altre risate. L’idraulico scrollò le spalle come per fare intendere che non
aveva voluto far ridere nessuno.
“Si è mai occupato di politica?”
“me possino cecà”
“Si reca alle urne quando ci sono le elezioni”
“Regolarmente come se annassi de corpo”
Esplosero altre risate ancora.
“Non sono un qualunquista ” – argomentò l’idraulico – “ma non me
fido di quello che stanno a fà i politici e così dentro alla scheda je
metto na’ bella fetta de mortadella e ce scrivo sopra: provate a magnavve
pure questa!”
“La finisca con queste volgarità!” – lo troncò l’Accusa – “se continua
la farò radiare dall’aula!”.
Scese il silenzio e un velo di rossa vergogna calò sul volto dell’artigiano. La Pubblica Accusa si rese conto di averlo stretto in un angolo. Era
venuto il momento di mandarlo a tappeto senza concedergli la benché
minima tregua:
“Se è vero che non si è mai occupato di politica e se è vero anche che
annulla ogni volta la scheda, mi spieghi perché mai ha deciso di iscriversi al
partito dell’imputato” Alzò una busta trasparente che conteneva un talloncino di cartone verde grande quanto una carta di credito. La sventolò come
il cartellino rosso di un arbitro per attirare l’attenzione su quella che riteneva una prova inoppugnabile.
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“La firma che si trova su questa tessera non è forse la sua?”
“È la mia: buon Dio! Dove l’avete trovata?” Rispose in perfetto italiano.
“Siamo noi che facciamo le domande qui! Forza: mi risponda! Come
mai ha deciso di iscriversi ad un partito se la politica non la riguarda?”
“ Che te devo dì?” – deglutì rumorosamente
“Eccola qua la verità signori e signore!” - proseguì l’Accusa - “Ma non
basta! anzi, dimostrerò che un migliaio di individui inermi, giovani e vecchi, ricchi e poveri, si sono lasciati abbindolare dall’imputato che li ha trasformati in un branco di topi al servizio di un cinico pifferaio magico. Tutti
noi conosciamo la fine di quelle povere bestie: non è vero? Possiedo un
lungo elenco di testimoni che chiameremo a questo banco, tutti, uno per
uno, per farci raccontare quello che poc’anzi abbiamo già sentito dall’idraulico”.
“Non ce ne sarà bisogno” lo fermò l’imputato dopo essersi alzato in
piedi.
“Ancora una volta confesso senza nessuna vergogna”
“Bene” – sogghignò l’Accusa – “Se si è deciso a vuotare il sacco ci racconti tutto sulle tessere da lei prodotte senza dimenticare il minimo dettaglio”
Cimitero vivente
“Tesseramenti gonfiati no. Perché nei nostri congressi votano le
persone e non le tessere. Può capitare che quando ci sono i congressi
ci sia un numero spropositato di iscritti che servono per vincere il congresso. Poi magari, l’anno dopo, quando non c’è più il congresso, gli
iscritti diminuiscono. Non è una pratica simpatica e bisognerebbe metterci mano. Io credo che il tesseramento sia importante. Non mi convince contrapporre il partito delle tessere con il partito delle primarie.
In fondo, con la stessa logica con cui un notabile può comprare molte
tessere per molti cittadini può portare molti cittadini a votare alle primarie. Il tesseramento è importante perché è la forma in cui il partito
assume il carattere di una comunità di persone”.
Massimo D’Alema
(Intervistato da Zoro durante la festa del tesseramento del PD)
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“Una volta, pochi giorni prima che morisse, chiesi a mio padre cosa
bisognava cambiare per far vincere la giustizia in Italia. Lui mi rispose
che fino a quando una tessera di partito avrebbe avuto più valore di
un uomo dello Stato, la mafia non sarebbe mai stata battuta”.
Nando dalla Chiesa
intervistato all’Altra televisione.
Partecipare alle primarie costa solo un euro, mentre per acquistare una
tessera bisogna sborsare da sette, a trenta, sino a 120 volte di più, dipende
dal partito al quale si intende aderire e dal tipo di tessera. In ogni caso si
tratta di un divario consistente pari a quello che divide il costo di un biglietto per un cinema parrocchiale da quello che ti permette di entrare a teatro
per assistere ad un’opera lirica. Senza contare che l’iscrizione comporta una
sorta di schedatura, mentre la partecipazione alle primarie è aperta a tutti.
Risulta quindi evidente che gli uomini di partito “alla vecchia maniera” preferiscano tesseramenti e congressi alle insidiose consultazioni pubbliche. I
pregi del primo metodo sono molteplici. Il partito incassa un maggior
numero di risorse, riesce a gestire internamente tutte le fasi congressuali e
le dirigenze possono prevedere in anticipo i risultati. Pochi rischi e incognite ridotte a zero. Questi sono i desiderata di ogni politico di professione la
cui vita è già abbastanza tribolata senza che qualcuno si metta d’impegno
per complicarla ancora di più. Se dovessimo sezionare il fenomeno congressuale nella sua interezza si verrebbero ad avere sei momenti che prenderò in esame attentamente nelle pagine a venire.
Apertura del tesseramento.
Chiusura del tesseramento.
Conta delle tessere.
Formazione delle cordate
Congresso.
Votazioni.
Scrutinio.
Vincitori e vinti.
È opinione abbastanza diffusa che il correntismo e la suddivisione
delle correnti in sottoprodotti conosciuti con il nome di “pacchetti di tessere”
siano “articoli congressuali” legati alla Prima Repubblica. Si è lavorato duramente in tutti questi anni per archiviare entrambe le cose o meglio si è tentato
malamente di nasconderle sotto i tappeti della storia. Ma da sotto i tappe169
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ti, come dal “cimitero vivente” di Stephen King, si può sempre fare ritorno:
“Adesso la Margherita torinese inizia a somigliare davvero alla sua lontana antenata: alla Dc, insomma. Le correnti si moltiplicano come cellule impazzite che si separano l’ una dall’ altra. E si moltiplicano le tessere: sarebbero 28 mila secondo alcuni, 33 mila per altri, numeri da
Prima Repubblica appunto. Tessere tutte da verificare (i vertici regionali hanno già disposto controlli) ma che serviranno per pesare di più
nei prossimi mesi, per far sì che le diverse anime del partito possano
ottenere quei posti (di governo, ma soprattutto di sottogoverno) senza
i quali come ben sanno gli eredi del Biancofiore (o quelli arrivati negli
ultimi tempi da altri lidi, come Giusi La Ganga) non si va da nessuna
parte”.
Repubblica del 29 novembre 2005 sezione: Torino
Una sola tessera, analizzata singolarmente, è un pezzo di carta senza
valore, ma se aumenta il numero di tessere è tutto un altro discorso perché
questi, all’apparenza innocui, tasselli colorati che ricordano una carta di
credito, sono l’unità di misura con la quale si esprime la potenza di un politico. Chiunque metta piede in un partito si rende subito conto che senza
il controllo di un discreto numero di tesserati “non si va da nessuna parte”. Le
conferme non mancano di certo. Rosy Bindi parlando di un suo collega
Ministro sul “Il Resto del Carlino” del 25 maggio 2006, e non ai tempi del
“divo Giulio” o di Cirino Pomicino, ammette che sono le tessere che “fanno il
bello e il cattivo tempo” e qualche volta anche i Ministri della Repubblica
Italiana:
“Gli hanno dato quel ministero perché nel partito ha più tessere. C’è
stata un’assoluta attribuzione con criteri cencelliani, tanto ai partiti e
dentro ai partiti, tanto alle correnti…io non ne ho quasi nessuna, a
parte la mia e quella di qualche amico, ho sostenuto che forse potevano anche non mandarmi al governo se il criterio era questo”.
Tesserare serve. Serviva ieri e continua a servire oggi. Per ogni politico
agli esordi, questa pratica è diventata un pretesto per ottenere una posizione di prestigio bruciando le tappe all’ombra di queste periodiche rese dei
conti che si consumano tra i leader dello stesso partito. Per quelli che sfornano tessere diventa più che naturale abbandonare le sane motivazioni di
una volta per assecondare il proprio tornaconto personale. Tutti sanno che
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le tessere servono al leader quanto le fiches al giocatore d’azzardo. Il capo
saprà ricompensarti a dovere se riuscirai a metterne insieme così tante da
fargli giocare una bella partita. Per questa ragione le tessere crescono
copiosamente ovunque, tanto nei territori mal governati del sud, quanto
nelle circoscrizioni del nord, fulgidi esempi di buona amministrazione.
L’inesistenza di una correlazione tra la cattiva o la buona politica e le adesioni ai partiti che ne consegue, dimostrano come il tesseramento sia un
fenomeno a sé stante, interno ad una sub-comunità e indecifrabile dai
comuni cittadini:
“Eravamo convinti, per esempio, che l’ epicentro della crisi del Pd fosse
Napoli. Napoli, la città dello scandalo Romeo, degli assessori arrestati,
del sindaco col registratore, del tramonto di Bassolino. La città di
Riccardo Villari, il «presidente eletto» che s’era incollato alla poltrona,
mirabile esempio di homo novus del Pd. Proprio a Napoli, credevamo,
la base si ribellerà con più rabbia. E sbagliavamo. Perché i numeri - la
forza della matematica - dicono che sta succedendo l’ esatto contrario: i
napoletani sono così soddisfatti che corrono a prendere la tessera del
Pd. Al contrario del resto d’ Italia, dove c’ è un’ emorragia di adesioni,
solo a Fuorigrotta le tessere sono aumentate del 360 per cento, da 600 a
2177. Più scandali scoppiano, più iscritti arrivano. Evidentemente c’ è
qualcosa che sfugge”.
Sebastiano Messina (su Repubblica del 29 gennaio 2009)
Da Napoli a Bologna la musica non cambia, ed è tutto un fiorire di adesioni indipendenti dai rifiuti per le strade, dalla malavita o dagli scandali che
scoppiano nel cuore della vetrina rossa:
“Pd, il caso Delbono non frena le tessere. + 1300 nel 2010. “Chi si
aspettava che il Cinzia-gate con le conseguenti dimissioni del Sindaco
Delbono avesse provocato un crollo delle tessere del Partito democratico dovrà, almeno per ora, ricredersi. Perché il primo bilancio del partito, aggiornato al 15 febbraio parla di 10.830 tessere rinnovate contro
le 9.500 già sottoscritte nello stesso periodo del 2009”.
Olivio Romanini sul Corriere della sera del 28 febbraio 2010. Edizione
di Bologna.
Ogni attività, umana, ripetuta per un numero spropositato di volte,
perde la sua ragion d’essere trasformandosi in un’azione meccanica e se a
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farla da padrone sono i numeri, tutti i mezzi diventano leciti:
“Chi ha danneggiato il nostro partito deve pagare». Nando Dalla
Chiesa – sottosegretario al ministero dell’ Università e della Ricerca e
presidente cittadino della Margherita - ha deciso: «Depositerò una
denuncia in Procura contro chi ha presentato false tessere della
Margherita milanese». Pare di capire che lei sappia chi è il responsabile... «Abbiamo un’ idea ben precisa, ma sarà la magistratura a individuare il responsabile… Ma come vi siete accorti del tesseramento fantasma? «Quando ho ricevuto l’elenco dei presunti tesserati, come presidente cittadino ho scritto una lettera di ringraziamento. Così ho ricevuto lettere e telefonate di persone stupite perché del tutto estranee alla
Margherita”.
(Ferruccio Sansa su Repubblica del 4 dicembre 2006
sezione:
Milano).
Il responsabile non sarà mai individuato, ma nel frattempo continuano a
piovere tessere, anche nelle tasche di tutti quei politici, che al contrario dei
cattolici della Margherita, pensano che la religione sia l’oppio dei popoli:
“…C’è anche la denuncia del segretario PRC Mario Giordano: “metà
della nostra direzione provinciale di Milano ha ricevuto la tessera della
Margherita”.
(Ibidem del 26 ottobre 2006)
Nemmeno ai nemici più agguerriti è risparmiata l’adesione forzata al
partito di Prodi:
“A denunciare il caso è il consigliere regionale e vice coordinatore
pugliese di Forza Italia, Massimo Cassano, il quale accusa che lo scandalo delle tessere false della Margherita è arrivato a Bari e ha riguardato due iscritti baresi di Forza Italia: Riccardo Russo e Maria
Gabriella Daniello. «Le persone che hanno ricevuto le tessere non le
avevano mai neanche richieste, ovviamente - afferma Cassano - si
sono viste recapitare a casa una lettera a firma di Francesco Rutelli
con i simboli di Ulivo e Margherita, con cui li si ringraziava per aver
aderito alla Margherita e gli si inviava la tessera personalizzata con
nome, cognome, data di nascita, indirizzo e numero di tessera”.
(Ibidem del 7 novembre 2006 sezione: Bari)
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Quando Endrigo cantava che “per fare un tavolo ci vuole il legno” non avrebbe mai immaginato che “per fare una tessera del PD ci sarebbe voluto un
circolo”. Uso il condizionale perché in politica – è risaputo – le deroghe
sono frequenti:
“Il circolo fantasma del Pd di Ponte di Nona, chiuso e inattivo dal
primo giorno della sua fondazione, ha consegnato alla federazione
romana 200 tessere di pseudo - nuovi iscritti». A denunciare il fatto è
il coordinatore del Pd del Municipio VIII, Andrea Sgrulletti. «È
molto singolare - prosegue Sgrulletti - che le stesse persone che sono
rimaste inerti per mesi abbiano ritrovato slancio e zelo proprio nel
momento in cui bisogna riempire i cedolini utili al congresso del partito”.
(Ibidem 29 luglio 2009, sezione: Roma).
Ogni “circolo fantasma” ha degli indiscutibili vantaggi che gli altri non
possiedono. Per esempio ci si può ritrovare iscritti senza dover sborsare la
quota d’iscrizione e subito dopo, senza neppure esserne informati, si viene
promossi dal grado di semplice iscritto al rango superiore:
“In uno sperduto paesino della Sicilia, un signore che vuole iscriversi alla Margherita si presenta nel giorno, nell’ora e nel luogo che gli
sono stati indicati. Solo che si tratta di un BAR, e per giunta chiuso.
Dopo poco però gli si avvicina un tale, «Non ti preoccupare: sei
iscritto lo stesso al circolo della Margherita, e anzi sei anche già stato
eletto delegato”.
(La Stampa del 18 marzo 2007. Ed. Nazionale. Rampino Antonella)
Bisogna però ricordare che qualcuno, quantomeno, ha tentato di darsi
delle regole per evitare che tra i suoi iscritti ci finisse chinque. Si naviga a
vista, ma si può anche tesserare a vista:
“L’Udc inaugura la formula dei “tesserati a vista”, vale a dire che chi
intende aderire alla campagna di tesseramento del nuovo partito a
Genova, dovrà iscriversi di persona e solo durante le manifestazioni con i leader nazionali organizzati dai dirigenti liguri e genovesi”
Il deputato Gianni Cozzi spiega le motivazioni che hanno ispirato
il provvedimento: “Questo tipo di tesseramento lo abbiamo deciso
per evitare “i signori delle tessere”: per avere iscrizioni dirette, traspa173
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renti, perché si riteneva che alcune persone venissero iscritte non
dico contro la loro volontà ma senza quell’ impegno che l’ adesione ad un partito richiede”.
(Ibidem del 7 ottobre 2003 sezione: Genova).
Le regole non servono se sono i numeri a farla da padrone.
Chiunque, e dico chiunque, anche un criminale, può prendere il comando
di un pezzo, seppur marginale, del partito.
“Trovo davvero incredibile che un criminale che già 13 anni fa era
stato coinvolto in odiosi reati di violenza sessuale possa essere arrivato a coordinare un circolo del Pd”. È un duro attacco quello che
il senatore Ignazio Marino, medico-candidato alle primarie del
Partito democratico, scaglia contro i criteri di selezione dei dirigenti locali riferendosi all’arresto dello stupratore seriale a Roma,
coordinatore di un circolo democratico nella Capitale.
(http://www.corriere.it)
Se chi naviga a vista naufraga, chi “tessera a vista” finisce per incagliarsi in
un banco di sabbia:
“Il congresso dell’UDC, che era stato già fissato per il mese di febbraio e’ stato rinviato a data da destinarsi. Lo ha deciso ieri la direzione del partito e il vero motivo, al di là delle spiegazioni ufficiali,
sta nella sorprendente dilatazione del numero delle tessere rilevato
il 10 dicembre, data ultima per il tesseramento che ha avuto picchi
altissimi soprattutto a Catania e Siracusa. Nel corso della riunione
non sono mancati momenti di forte tensione”
(La Stampa del 27 gennaio 2005)
Insomma, pur di “far tessere” non ci si ferma davanti a niente, neppure
davanti ai confini che la natura ci impone:
“Dopo il caso del consigliere comunale Giulio Cesare Rattazzi, che
pur non essendo iscritto alla Margherita da quattro anni continua a
ricevere la tessera, spunta il talloncino con il nome di un defunto.
È arrivato lunedì in via Monastir 40, zona Mirafiori Sud, nella buca
delle lettere di Dino Banzi, scomparso a luglio. L’iscrizione è finita
nelle mani del figlio Maurizio che ha telefonato a Striscia la notizia
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per un nuovo caso di tessere fantasma.
(La Repubblica del 18 ottobre 2006 sez. Torino, Diego Longhin).
Ci si può tesserare da vivi come da morti, per questo il rinnovo della tessera è indipendente dallo stato di salute dell’iscritto. Lo rivela Angelo
Sanza, ex DC, che alla Stampa dichiara:
“La verità è che molti dei defunti erano stati tesserati sul serio,
quando erano in vita, però continuavano a esser tali anche da
morti”.
Giunti a questo punto, una domanda sorge spontanea: perché la maggior
parte dei politici si butta in questo disperato tesseramento selvaggio? Cosa
ci si guadagna di tanto importante? È presto detto: il potere. O, male che
vada, una posizione politicamente redditizia:
“L’era dei blitz mette alla berlina i partiti. Un paio di settimane fa
un pacchetto inaspettato di 200 tessere, pari a un terzo del totale,
ribalta la geografia interna dei Verdi eleggendo lo psichiatra Gianni
Varrasi nuovo portavoce. E se oggi il gruppo storico fiorentino
(che con Vincenzo Bugliani e Tommaso Franci ha portato i suoi
uomini alle responsabilità del governo cittadino e regionale) è finito in minoranza, domani rischia di essere estromesso da tutto”
(Ibidem del 4 marzo 2003 sezione: Firenze, Massimo Vanni).
Ben vengano quelli che rinunciano ad un’importante posizione politica
per dedicarsi ad una luminosa carriera. Tessere permettendo:
“Era stato arrestato a ottobre per tangenti e adesso uno dei manager della sanità pubblica milanese ha confessato: rastrellava centinaia di tessere di Forza Italia tra amici e collaboratori perché i “cartoncini azzurri”, pagati di tasca sua, erano la via più breve e sicura
per la scalata verso il successo. A tre mesi dall’avvio dell’inchiesta
sulla corruzione dentro gli Istituti clinici di perfezionamento, la
procura è alle prese anche a Milano con un “caso Odasso” (il direttore generale delle Molinette di Torino che si garantiva una posizione di potere attraverso il mercato delle tessere di Forza Italia).
(Ibidem del 31 gennaio 2003, pagina 28).
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Viene citato Odasso non a caso. Quando era conosciuto come l’illustre
manager del più importante ospedale torinese intascava tangenti che in parte
convertiva in tessere di Forza Italia, come se il denaro contante, ma anche bot
e cct, derivati e futures, valessero meno dei “titoli di adesione” emessi dai partiti.
Un investimento imponente, quello di Odasso, che gli consentì di controllare il 3% di tutti gli azzurri piemontesi (la Stampa del 2/2/2002. Cronaca
Piemonte). Ma come può prendere corpo un’anomalia così strana?
Evidentemente deve trattarsi di una convinzione abbastanza diffusa se è vero
che a Bari, sei anni dopo, a proposito di alcune nomine:
“I carabinieri stanno verificando se ci sia stata una spartizione
politica che coinvolgerebbe una serie di esponenti del centrosinistra e un paio di situazioni anche del centrodestra: l’ipotesi è che,
in alcune Asl, si sia proceduto alle nomine non per meriti o curriculum ma per tessere di partito. Niente tangenti, ma in cambio
sostegni elettorali per le elezioni politiche, amministrative o in alcuni casi per appoggi congressuali nei singoli partiti.
(da La Repubblica del 20 settembre 2009, sezione: Bari)
Eppure se poni il problema nelle sedi preposte ti senti rispondere che si
tratta di invenzioni giornalistiche. E “se anche fosse vero quello che sostieni” ti sbattono in faccia un pilatesco lavaggio di mani: “si tratta dell’ iniziativa presa da un singolo. Il partito è parte lesa in tutta questa storia”. Sarà,
ma provate a mettervi contro “ a chi comanda” o contro ai candidati scelti
“da chi comanda”. Provateci e nel giro di pochi giorni vi ritroverete esiliati,
diffamati e schiacciati dal potente che avete avuto la cattiva idea di sfidare.
Se a mettersi di traverso è un illustre chirurgo di fama internazionale, il
risultato non cambia. Non cambia niente neppure se il luminare fa parte
dello stesso partito di “chi comanda”. Come ho già tentato di dimostrare, in
politica, la guerra è un fenomeno indipendente dagli schieramenti. Ciò che
conta è che quando sei contro “a chi comanda”, amico o nemico che sia, sei
contro. E se sei contro, sei un nemico da abbattere!
L’ episodio che ha coinvolto Ignazio Marino, il senatore chirurgo
lascia uno strascico amaro. Riassumo i fatti: nella primavera del
2009 Marino, che ha continuato anche dopo il rientro dall’ America
ad operare, nel campo dei trapianti di fegato, riceve la visita del
direttore generale del più grande ospedale di Bologna, il Sant’
Orsola, Augusto Cavina, venuto appositamente a Roma per caldeg176
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giare l’ offerta a Marino di un contratto per eseguire i trapianti nella
struttura bolognese. Marino è ben contento, ha molti pazienti ed
avere una collocazione stabile dove operare è importante.
Ricevendo uno stipendio da parlamentare non vuole, però, alcun
compenso dai malati, ma solo un rimborso spese dall’ amministrazione di 2000 euro lordi per trapianto. La sua attività si svolgerà
solo il lunedì, quando il Senato è chiuso. Dopo poco il contratto gli
arriva con decorso dal 22 giugno. In quel periodo, con la proclamazione delle primarie Pd, matura in Marino l’idea di parteciparvi,
nella illusione, più o meno motivata, di rappresentare, tra Bersani e
Franceschini, quella società civile, a parole tanto corteggiata. Preso
dagli adempimenti elettorali e dalla formazione della sua lista, trascura per qualche settimana di firmare il contratto, cosa che, peraltro fa’ a metà agosto, scusandosi per il ritardo. A questo punto,
però, il direttore generale ci ripensa, scopre all’ improvviso che
deve ristrutturare le sale operatorie, che non c’ è più posto neppure il lunedì, che Marino è meglio ripassi nel 2011. A questo punto
Marino si preoccupa dei suoi malati di cancro al fegato che non
possono attendere e cerca altri posti dove operare. A chi gli chiede
cosa sia successo, risponde: «I dirigenti sanitari emiliani hanno
cambiato idea. Sul perché non ho una risposta». Risposta che viene
da una inchiesta già in corso della procura di Bologna sulla sanità,
dove emergono intercettazioni a bizzeffe sul fatto che lo sgambetto a Marino sarebbe scattato come ritorsione alla sua decisione di
candidarsi contro i due big emiliani, Bersani e Franceschini.
Naturalmente ora tutti negano e si stracciano le vesti.
(Ibidem del 25 gennaio 2010, sezione: commenti, a firma di
Mario Pirani)
Non è poi così grave emarginare un chirurgo di chiara fama per fini congressuali. Suvvia, sono solo “quisquilie e pinzillacchere”. Per mettere in produzione tessere ad un livello industriale si è fatto di peggio. Certo, sono
d’accordo: i fini giustificano i mezzi. Da Machiavelli ai nostri giorni nessuno è mai riuscito a smentire questa regola. Anzi gli avvenimenti la confermano. Uno a caso:
“Il finto onorevole prometteva assunzioni nella telefonia. Vantava
amicizie altolocate nella politica che conta. Chiedeva denari per i
suoi amici che avrebbero garantito i posti di lavoro. Ma una parte
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di quei soldi, su un totale di sette miliardi di vecchie lire, sono invece stati utilizzati per comprare tessere del Ccd. Conclusione: chi
cercava una occupazione, chi ha pagato, è rimasto senza lavoro, ma
si è ritrovato iscritto ai cristiano-democratici. Racconta questo e
molto altro l’ inchiesta del pm Vincenzo Piscitelli approdata ieri a
4 arresti”.
(Ibidem del 4 ottobre 2002, sezione: Napoli)
Il vitello d’oro
“Una tessera costa 30 euro. Chi ha speso
tanti soldi per comprare tessere false dimostra
di avere disponibilità economiche e una visione del partito come di una società per azioni,
dove compri le quote per conquistarne il controllo”.
Nando dalla Chiesa su Repubblica
(ed. Milano) del 4 Dicembre 2006
Dopo questa lunga carrellata di incontrovertibili fatti si può solo concludere che il “fenomeno del tesseramento” è diventato indipendente dalla storia
dei partiti come da qualsiasi altro ragionamento collaterale che esuli dalla
quantità. I grandi tesseramenti che hanno contraddistinto la Prima
Repubblica non sono quindi da considerasi come un tratto caratteristico di
quell’epoca, ma come la comparsa del primo sintomo di una malattia che
si è poi trasformata in una sorta di “metro” universalmente adottato. Se il
potere del leader si basa sul numero di tessere che controlla, gli ascolti televisivi si valutano contando i telespettatori. L’Auditel e i congressi si assomigliano, in fondo, sono entrambi uno strumento di misura. Evidentemente,
non s’impara mai nulla dalla storia che ci siamo lasciati alle spalle. Nessuno
sembra fare tesoro di quello che il Comandante Che Guevara ha scritto: non
è mai la grandezza di un esercito a sovvertire il nemico, ma la forza delle
motivazioni nutrite da ciascun singolo uomo, sia questo un generale o un
semplice soldato. L’audience televisiva non ti dirà mai se gli otto milioni di
telespettatori seduti davanti al televisore erano soddisfatti del programma
o dormivano sulla poltrona, così come un qualsiasi congresso di partito
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non potrà mai certificare la buona fede dei tesserati ammessi alla conta. Il
modello consumista ha finito per far credere a tutti noi che per ottenere il
consenso, che precede immancabilmente il successo, non resta che individuare la scorciatoia più comoda. In fondo, il pubblico non distingue chi si
è guadagnato la parte grazie alla costanza dedicata allo studio del personaggio da chi ha ottenuto lo stesso risultato passando dal letto del produttore.
Al successo, come al “caval donato” del proverbio, “non si guarda in bocca”. Lo
accettiamo indifferentemente dalle ragioni che l’hanno prodotto. Il successo produce un’attenzione contemplativa come la televisione dalla quale il
più delle volte si origina. È la rivisitazione in chiave moderna del biblico
vitello d’oro nato dall’assenza, e non dalla presenza, di un Profeta. Il successo
assolve perciò da ogni colpa. Ne sono consapevoli anche quei cantanti in
corsa al festival di San Remo (come appurato da Striscia la notizia in più
occasioni) che hanno commissionato ad agenzie specializzate la spedizione di centinaia di migliaia di sms inviati a sostegno della loro canzone. Pupo,
intervistato dall’inviato Staffelli, non aggira la domanda. Nemmeno si prende il disturbo di mentire. Stringe a sè Staffelli e sussurra al suo orecchio.
Nessuno saprà mai cosa si sono detti, ma un simile comportamento presuppone l’esistenza di un deprecabile segreto che non può essere confessato ai telespettatori. La tv esige prove iperrealiste incontrovertibili, non
versioni riportate all’orecchio che possono essere prima dette e poi smentite. La linea di Striscia la Notizia è un’altra, si fonda sulla ricerca implacabile della verità. Staffelli si reca per la seconda volta presso la società di telemarketing che ha spedito gli sms su richiesta di un “fantomatico” committente. Interroga la responsabile che, senza fare nomi, ammette di essere stata
assunta da un cantante. Striscia ricostruisce l’identikit di Pupo attraverso
una lunga serie di coincidenze.
È davvero Pupo? Il noto cantante si è comprato gli sms per taroccare il
risultato oppure no? Non lo sapremo mai, ma nemmeno è importante
saperlo dal momento che Pupo ha vinto.
Ecco dimostrato come l’autocostruzione del consenso non sia più un
“modus operandi” confinato negli asfittici agoni congressuali, ma abbia finito per dilagare in ogni campo delle attività umane. L’idea dostoevskijana
che identificava il genio quale frutto di “una lunga pazienza” è stata soppiantata dalla ricerca di una strada furbesca, breve e in discesa. La nostra è
diventata una sociètà fondata su presupposti che sono esentati da ogni qual
si voglia verifica, che aprono la strada ai bari, ai prestigiatori facoltosi, alle
bande di affaristi mercenari che non finiscono più dietro alla sbarre. Anzi,
di loro ci vengono mostrate in tv le avvenenti amanti, lussuose auto o sfar179
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zose ville dai cancelli di ferro decorato. I bilanci falsi della Enron come gli
sms taroccati Sanremesi, i “titoli tossici” come le tessere inviate ai morti. In
ogni caso, sono sempre i furbi e i disonesti a fare la differenza in questa
“società della falsificazione”.
Per tutti questi motivi è diventato normale identificare ciascuna tessera
con un’azione societaria. Maggiori sono le tessere azionarie e maggiore sarà
il controllo esercitabile sulla Spa (Società Partito per Azioni) e c’è persino chi
prova a fare due conti su quello che costa acquisire il controllo totale del
Partito Democratico:
“Napoli. Sei milioni di euro. Occorrono non più di sei milioni, a 15
euro a tessera, per fare un’ Opa totalitaria sul Pd. Neanche quel che
costa rilevare una microazienda in difficoltà, forse meno di quello
che Berlusconi spende ogni anno per Villa Certosa… Per godere di
visibilità congressuale contano le percentuali, per cui a Milano se si
vuole contare basta spendere poco e avere ottomila tesserati (120
mila euro), invece degli 80 mila, quattro volte quelli di Roma e cinque quelli della Liguria, che la principesca megalomania partenopea
impone, conquistando più di un quinto del totale nazionale delle
tessere. Ma, si sa, qui le cose si fanno in grande…” Alberto Statera.
Ibidem del 16 luglio 2009 sezione: politica interna.
Questo è quello che succede così come lo raccontano le cronache. Ma
cosa accade realmente a chi si trova a dover mettere insieme un pacchetto
di tessere?
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A pranzo con Quentin Tarantino
Il film “Le iene” diretto da Quentin Tarantino incomincia all’interno di
una caratteristica trattoria americana con un gruppo di gangster seduti
intorno ad un tavolo. Mangiano e discutono. Di scene così se ne sono già
viste a bizzeffe nei film statunitensi, ma immaginate quegli stessi gangster,
con le stesse facce, seduti al ristorante sotto casa vostra nel suo giorno di
chiusura. Il titolare ha fatto venire appositamente per loro il cuoco e il
cameriere. Nessun altro, oltre a noi, può ascoltare quello che si dicono.
Mister Pink: “Quante sono in tutto? Mille e duecento?”
Mister Black: “Mille e trecento per l’esattezza”
Mister Red: “Come dividiamo?”
Mister Pink: “In parti uguali se non vi dispiace”
Boss: “Non siamo in un consiglio comunale del cazzo, tu farai
quello che dico io ”
Mister Black: “Giusto e poi i conti non tornano, c’è una differenza tra
chi ne ha di più e chi di meno. Stiamo ragionando come se avessimo lavorato tutti quanti nello stesso modo”
Ora vi chiederete di cosa discutano. L’unica cosa certa è che si tratta
di una spartizione. Di denaro? Forse… ma non ne sarei così sicuro, perché
l’oro, come il demonio, può assumere sembianze diverse.
Mister Pink: “Faremo il possibile perché non accada. Mister Black si
prende il segretario nazionale, la mia corrente il tesoriere mentre mister
Red si porta a casa le presidenze, Copasir, Antitrust e compagnia bella”
Mister Red: “Si può fare, ma solo se blindiamo il congresso”
Ora è chiaro, non si tratta di gangster, ma di capi corrente che si dividono il potere e dietro alla porta che sta per aprirsi su quel pittoresco cenacolo mi sento a disagio nella mia inedita veste di “signore delle tessere”.
Provate ad immaginarmi pettinato, con indosso il vestito nuovo della
domenica e la testa piena di sogni vanagloriosi del tipo: “per abbattere le rego181
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le bisogna usare le regole”. Balle! Le regole non dipendono da noi, ma da qualcuno che ha tutto l’interesse a mantenerle come sono. Mi consola solo
sapere che altri potranno un giorno riuscire dove io ho fallito. In fondo, il
primo passo di qualcuno è sempre l’ultimo passo di chi lo ha preceduto.
Ma torniamo a quel ristorante nel giorno di chiusura settimanale.
Quando entrai nella sala nessuno ci fece caso e tutte quelle iene continuarono a discutere davanti alle bottiglie di vino mezze vuote e ai resti delle
fiorentine spolpate sparsi nei piatti. Un rumore di stoviglie, forse qualcuno
le stava riponendo dopo averle lavate, giungeva attraverso la porta aperta
della cucina. Sul fondo della sala il cameriere sistemava i coperti, una forchetta là, un tovagliolo lì, aveva un’aria così disinteressata che mi venne il
sospetto che il pranzo fosse stato offerto dal gestore in cambio di chissà
quale favore. Forse quella veranda che sbordava sulla strada era la ragione
di tanta cortesia.
L’Onorevole Torrazzi, che sperava di avermi dalla sua parte, si alzò da
tavola e mi venne incontro. Una veloce stretta di mano, un sorriso abbozzato malamente e mi prese sotto braccio per condurmi sul retro dove mi
avrebbe spiegato come andavano le cose nel partito e quella fu davvero una
gran fortuna perché in politica nessuno ti spiega mai niente e devi sempre
capire tutto al volo da solo.
“Vedi, mio caro ragazzo” - disse camminando - “nel nostro
mondo…” - mi piacque quell’espressione tra il settario e il paternalistico,
mi sembrò veramente di essere finito dentro ad un film americano - “Nel
nostro mondo il numero di tessere che controlli è l’unica cosa che conta.
Tutto il resto, gli ideali, le qualità personali, l’iniziativa, la cultura, sono solo
bigiotterie e comunque concorrono solo in minima parte al successo di un
politico”. Bigiotterie? Come esempio calzava a pennello. Gli ideali paragonati a ninnoli di scarso valore, luccicanti quel che basta per rifilarli al popolo. Compresi che in quel pomeriggio avrei imparato molto di più sui partiti e i loro scagnozzi che in un anno trascorso a leggere La Repubblica di
Platone. Ascoltai il seguito con attenzione.
“Se il mondo produce beni, noi produciamo tessere, voti e nient’altro.
Vedi un po’ tu come organizzarti”. Si staccò dal mio braccio per andarsi a
sedere su di una sedia abbandonata in quel grande giardino disteso sul retro
del ristorante. Il peso la fece scricchiolare e solo quando fu certo che avrebbe resistito si accese un toscano, ma prima buttò un’occhiata sfuggente alla
finestra aperta dalla quale s’intravedevano i commensali di prima. Ridevano
e parlottavano senza dare l’idea di tessere una trama criminosa alle nostre
spalle. Diede un’altra bella boccata al toscano e mi chiese:
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“Li vedi quelli là?” - feci segno con la testa che li vedevo -”Dovrai farci
due conti se vuoi fare carriera. Se invece hai abbastanza tessere da prenderti in mano tutto il partito da solo puoi mandarli a puttane, ma te lo sconsiglio caldamente perché sono una bella squadra di piantagrane e se non
vuoi rogne devi tirare un osso nel mucchio per tenerteli buoni. Sia che
vinci e sia che perdi. Ma se tu dovessi vincere il congresso e fai tutto da
solo non te li cavi più da torno. Non t’immagini nemmeno lontanamente
cosa sono capaci d’inventarsi per farti le scarpe”
Sbuffò un anello di fumo che salì al cielo tremolante, chinò la testa e
parve appisolarsi. Ne approfittai per guardarmi intorno, sopra i fiori del
prato ronzavano le api e poco sotto, nascosti tra i ciuffi d’erba, frinivano i
grilli. Musica di una natura selvaggia della quale incominciavo a sentire una
certa mancanza.
“Quante ne alzi?” chiese tenendo le palpebre abbassate.
Mi girai verso di lui: “Di cosa?”
“Di tessere! Per Diana” – s’irritò bruscamente sgranando gli occhi
come due palle da biliardo - “Di cosa abbiamo parlato fino adesso se no?”
L’impulso incontrollabile del pivello mi lasciò sfuggire una titubante
risposta. Sbagliai rovinosamente: non bisogna mai rivelare il numero dei
cannoni a quelli che all’indomani potrebbero diventare tuoi nemici.
“Cento?” - fiatai con un filo di voce e ripetei – “Cento, bastano?”
“Ci fai la birra” rispose.
Dopodiché scrutò il cielo con fare pensoso.
“Va bene, ti rifaccio la domanda: quante tessere riesci a pagarti?”
Compresi che non dovevo farmi intimorire, anzi, bisognava prendere
il toro per le corna e dargli una bella strizzata.
“Centocinquanta e ciascuno si paga il biglietto del cinema”
“Pagarsi il biglietto del cinema” significava che avrei avviato una campagna
di tesseramento chiedendo i soldi a ciascun tesserato. Una simile usanza
presuppone l’impiego del doppio, se non addirittura del triplo, del tempo
richiesto per fabbricare una sola tessera in altre circostanze più favorevoli.
Si tratta di convincere le persone ad entrare in politica seriamente e perciò
bisogna dar fondo a tutte le munizioni sparando fino all’ultima cartuccia:
progetti, idee, entusiasmo. Chi più ne ha, più ne metta.
Al contrario, se chiedi a ciascuno di farti un favore personale che si risolve
con un paio d’ore spese al congresso è tutto molto più semplice, se poi
scambi le tessere con i favori, che fingi di poter fare, fila tutto liscio come
l’olio senza che neanche te ne accorgi.
Sorrise beffardamente. Gli avevo appena buttato un amo e sapevo che
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sarebbe stato lui a proporsi come finanziatore. Un paio di giorni e avrei
ricevuto la visita di un “Agente arancio” con un bel pacco di banconote tenute insieme da una graffetta. Così fu e abboccò come un vecchio tonno rimbambito dall’età.
“Se ci riesci” – mi disse eccitato – “te le ricompro tutte sborsandoti il
20% in più per ogni cammello. Bada bene che deve restare lì fino alla fine,
deve votare! Hai capito? Non parlo di ‘ipotetici iscritti’, ma di voti dentro
all’urna! Pago per quelli mica per dei pezzi carta. Se tutto va bene, ti intaschi il costo vivo di ogni cammello che viene a votare e in più ci aggiungo
una bella provvigione. Un 10% di rimborso spese con il quale potrai farti
una bella vacanza quando sarà tutto finito”
Sulle prime non compresi a cosa alludesse, mi vide perplesso e spiegò:
“Non sei mica come il Senatore Steno Varani che fa tutto per telefono
e promette posti a cani e porci. Te li dovrai lavorare per bene i tuoi iscritti
e metti caso che per convincerli li devi portare in pizzeria o che bisogna
affittare una sala da ballo, salatini, qualche bibita, un po’ di musica. Ti
vengo incontro anche sugli extra. Va bene?”
Restammo in silenzio. Pensai che mi faceva un po’ schifo reclutare
delle persone per poi rivenderle al primo venuto come se fossero state dei
tranci salati di stoccafisso. Lo fissai cercando di restare impassibile. Faceva
un caldo terribile, si deterse la fronte dal sudore e guardando la punta
incandescente del toscano fumante argomentò:
“Senti un po’” – diede un’altra boccata – “Centocinquanta sono un
po’ pochine: non è che riesci ad alzarti fino a quota trecento?” – mi aveva
appena promosso da mandriano di vacche a pilota di linea – “Ma non provarci nemmeno ad iscrivere qualcuno alla ‘boia di un Giuda’ perché ti giuro
che se scopro che bari non caccio un centesimo e ci rimetti più di ventimila euro, tra spese, tessere, baracca e burattini”.
Baracca e burattini, un’altra metafora del congresso che calzava a
meraviglia. Continuò imperterrito a disquisire senza accorgersi dello stato
assorto nel quale ero sprofondato, sentivo le sue parole in sottofondo:
“D’altronde il prossimo non sarà uno di quei congressi preconfezionati con l’esito deciso dai capi-bastone a tavolino. Ci conteremo a vicenda
fino all’ultimo voto e nessuno potrà bleffare. Quindi niente tessere riconducibili a morti, bambini o battone reclutate sui viali”.
Battone reclutate sui viali. Ecco un’altra mirabolante allegoria degna
del “dolce stil novo”. Incominciai a riflettere ad una velocità supersonica.
Pensava che mi sarei accodato alla comitiva in cambio di qualche spicciolo. Si sbagliava. A quel tempo credevo veramente che avrei cambiato il
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mondo e non mi andava di rivendermi sottobanco le persone che avrebbero scelto volontariamente di stare dalla mia parte. Sapevo che mi sarei sporcato le mani comunque, ma non volevo metterle a bagno completamente
nella lordura, tutt’al più contaminarmi con qualche impercettibile schizzo
di opportunismo che avrei lavato via facilmente. In fondo, si trattava di un
gioco dalla natura intrinsecamente strumentale, una partita corrotta a prescindere dal comportamento dei giocatori, una giostra dalla quale era
impossibile uscirne puliti.
“Mi porterò al congresso centocinquanta tessere” – e guardandolo
dritto negli occhi aggiunsi – “E non ti rivendo un bel niente”
Questo, in parole povere, voleva dire che gli stavo facendo un torto
non accettando la sua proposta.
“Fai come credi” disse.
Rientrammo nella sala, prese il borsello dal quale sfilò una copia dello
statuto che mi consegnò con una smorfia e prima di rimettersi a tavola con
gli altri mi salutò con freddezza. Anni dopo venni a sapere che non aveva
nessuna intenzione di allearsi con me e quella bella pantomima era stata
architettata di comune accordo con tutti gli altri capi corrente che si sarebbero divisi le mie tessere in parti uguali e senza quindi alterare il potere di
ciascuna corrente. Fortuna volle che il vento girasse quel che bastava da
cambiare tutte le carte in tavola. L’Onorevole, che era un tipo iracondo che
perdeva la pazienza facilmente, dichiarò guerra alle altre correnti a pochi
mesi dalle elezioni regionali.
Ma intanto, quel maledetto pomeriggio di un giorno da cani, avevano
fatto un accordo alle mie spalle prima ancora che potessi mettere piede
ufficialmente dentro al partito. Un accordo, per loro, davvero conveniente:
il partito ci guadagnava le quote d’iscrizione, l’equilibrio interno non ne
avrebbe risentito e l’ultimo arrivato, il sottoscritto, si sarebbe ritrovato con
un pugno di mosche in mano.
Non c’è che dire: una gran bella accoglienza.
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Lo statuto del Cacao meravigliao
“La prima regola è che non ci sono regole”
Fight Club di David Fincher
Lo statuto del partito, epurato dagli scopi, non era altro che un
insieme articolato di regole che coesistevano a stento, alcune si contraddicevano, altre parevano enigmi irrisolvibili. Purtroppo mi resi ben presto
conto che dietro a quel brogliaccio si nascondeva un’altra sorpresa. Le
poche regole che parevano chiare mutavano al mutare di chi le doveva, di
volta in volta, far valere. A modo loro incarnavano l’idea weberiana dei “principi riconosciuti” che non sono più considerati come “assoluti” ma diventano
“relativi”. Di che lamentarsi, non si è forse sempre detto che “le leggi s’interpretano per gli amici e si applicano ai nemici”? Bene, quello statuto era un capolavoro di arbitrarietà e come tale, aveva bisogno di qualcuno che lo interpretasse ufficialmente. Tutte le volte che sorgevano delle questioni che
potevano essere risolte soltanto dal libello, e qualche malcapitato se ne
avvaleva, si materializzava l’Onorevole Torrazzi, soprannominato da Aldo
Maccione “Torrao meravigliao”. Questo perché Roma lo aveva investito dell’incarico di pompiere, grande cerimoniere delle beghe e soffocatore di
tutti i conflitti nord-orientali. Quando lo si vedeva giungere sul luogo dell’incendio si portava appresso la pesante valigia di pelle marrone che conteneva un minuzioso archivio cartaceo. Voilà! Sfilava un foglio consunto da un
mazzo e lo faceva girare in modo che tutti potessero leggerlo. Era l’interpretazione di una regola che ne stravolgeva il senso o lo ribadiva a seconda delle necessità. Tale interpretazione della norma risultava essere stata
approvata dall’Esecutivo Nazionale il giorno tal dei tali del tal’altro mese
dell’anno “parapapà”. Guarda caso, questi brogliacci riesumati in “zona
Cesarini” davano sempre inconfutabilmente ragione a quella parte di litiganti che Roma aveva deciso dovesse aver ragione e mai agli altri.
In questi frangenti diventava chiaro da che parte bisognasse stare
per accattivarsi le simpatie di Torrazzi che poi avrebbe consegnato “a chi di
dovere”, come diceva lui, la lista dei buoni e dei cattivi. Così, anche i più
agguerriti sostenitori della “norma”, chiamata in causa e diventata oggetto
del dibattimento, cambiavano repentinamente opinione allineandosi al
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volere di Roma. Queste damascate conversioni avvenivano in qualsiasi
momento, perfino nel bel mezzo di una discussione in corso. Bastava
anche solo una telefonata ed ecco che, con facce di bronzo da manuale, ti
ritrovavi contro tutti quelli che fino ad un istante prima avevano sostenuto
la tua stessa opinione. Dallo stupore che nasceva da situazioni come queste derivò appunto il nomignolo di Torrazzi, alias Torrao Meravigliao, un
derivato politico della nota trasmissione Indietro tutta, ideata da Renzo
Arbore. Indietro tutta non solo dalla rotta, ma anche dalle opinioni.Ai tempi
del Partito Comunista questa performance era ricordata con la frase esemplare e ricorrente: “contrordine compagni!”
Quando mi capitò di sporcarmi le mani con un grumo d’inchiostro
fresco incollato ad una firma posta su di un deliberato vecchio di tre anni
smisi per sempre di perdere tempo con le “questioni statutarie” e mi dedicai
ad altro.
Intermezzo
Il mutare improvviso delle opinioni è uno dei fenomeni più frequenti
con il quale mi sono ritrovato a fare i conti e non riguarda soltanto gli argomenti di natura statutaria.
Ricordo di quella volta quando mi ritrovai a discutere con alcuni consiglieri comunali di un fatto accaduto durante le festività natalizie. Ero da
poco entrato nel gruppo del Partito democratico quando l’Assessore alla
sanità, dopo essersi candidato come membro del consiglio di amministrazione di una Società delegata all’informatizzazione delle istituzioni pubbliche, si era visto sbarrare la strada dal Direttore generale del Comune che
sosteneva la sua incompatibilità in quanto membro della Giunta. Questo
avvenimento fu dipinto dalla stampa come uno dei tanti fattacci riconducibili alla casta e sebbene i consiglieri comunali non ci avessero trovato
nulla di male, l’assessore Giuseppe Mariuolo decise ugualmente di convocarli per illustrare i fatti.
Mi colpì l’intervento di un collega, un conosciuto e apprezzato primario di ostetricia in servizio presso il più grande ospedale della città.
Sosteneva che l’assessore - nella vita svolgeva la mansione di informatico era il più indicato a ricoprire quell’incarico. La riunione continuò al grido
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di: “Viva l’assessore!”, “Non sprechiamo le competenze!”, “Morte ai politici che millantano professionalità che non possiedono!”, “viva Socrate che la pensava come noi!” e
via discorrendo. L’assessore si sentì sollevato da tanta calorosità e se ne
ritornò felicemente in ufficio mentre i Consiglieri salivano le scale per raggiungere l’aula del consiglio Comunale in procinto di aprire i lavori.
Presero posto in sala e votarono la prima delibera che insediava un collega
alla Presidenza della commissione sanità del Comune di Bologna.
Vi chiederete chi fu il beneficiario di tale incarico?
Fu forse il professore di ostetricia? O un suo collega, anch’esso promosso
al rango di consigliere dopo una vita dedicata alla cardiologia?
No, tutt’altro. Come presidente della commissione sanità fu eletto un professore del liceo Copernico e tutti votarono a favore dicendo negli interventi che era la persona più indicata.
L’idraulico
Decisi così che non mi restava altro da fare: avrei avviato una produzione intensiva di tessere. Ancora oggi non saprei ricordarne il numero
esatto, ma la prima, la prima tessera staccata dal blocchetto, quella non si
scorda mai.
“Ecco qua” mi disse consegnandomi il sifone del mio lavandino bucato dalla ruggine. Era un tipo casereccio, romano di nascita, ma bolognese
d’adozione. Da dove venisse non aveva nessuna importanza e credo che
dalle Alpi alla Sicilia si sarebbero comportati tutti come lui rispetto a quello che sono in procinto di narrare. Il rispetto che nutriva nei miei confronti lo si intuiva dal modo con cui si sforzava di parlare in italiano corretto,
mettendo da parte il grossolano accento capitolino.
Misi una mano in tasca e gli allungai una banconota da cento che
afferrò istintivamente. Ci ripensò ed estrasse il centone dalla tasca.
“Ma no dai, sono troppe” – e aggiunse – “ne bastano ottanta”
Lo guardai come se mi avesse offeso e lui se ne stupì.
“Da quanto tempo sei il mio fontaniere?” domandai.
Mi fissò con un’aria tra lo stupito e il perplesso.
“Da quanto tempo?” lo incalzai.
“Non saprei? Vediamo” appoggiò la cassetta da idraulico a terra e alzò
due occhi pensosi al cielo.
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“Dieci anni circa” mugugnò.
Un vecchio trucco che mi hanno insegnato quando vendevo aspirapolvere, e ne vendevo sempre tanti, è che non devi mai permettere al cliente di razionalizzare, di chiedersi se sta facendo una cosa giusta. Il suo primo
impulso è quello di fare acquisti, perciò devi andargli sotto come un pugile che ha stretto l’avversario nell’angolo. Il cliente avrà tutto il tempo per
pensare se ha fatto un buon affare dopo che te ne sei andato con l’ordine
firmato in tasca.
“Dieci anni” - dissi - “Sono dieci anni che ci conosciamo e mi spiace
se non ci vedremo più. Sei stato il migliore idraulico che abbia mai avuto:
sempre disponibile, economico, ingegnoso” – annuì compiaciuto –
“Ricordi quando sei riuscito a ripararmi quel vecchio sciacquone usando
una molletta per capelli?”. Sorrise.
“Cosa vuoi mai” – continuai – “Ho ficcato il naso dove non avrei
dovuto quando sono andato a vedere come funzionano gli appalti per la
manutenzione annuale dei bagni comunali. I miei colleghi, quei bastardi,
volevano dare l’incarico ad una ditta di amici loro”
L’idraulico scosse la testa con l’espressione tipica di chi pensa che la
politica non si smentisce mai.
“Mica sono come te, sono una masnada di fannulloni” aggiunsi.
Mentre lo arringavo gli vidi accendersi una luce negli occhi, una scintilla che non avevo mai visto prima.
“ Sai” – era bene mettere altra carne al fuoco - “Non sono come
quei politici che lucrano sui lavori dell’Amministrazione” - feci schioccare
la lingua e scossi la testa - “Credo, proprio, di no. Mi accontento soltanto
di promuovere le persone che hanno voglia di lavorare molto e ad un prezzo conveniente, ma purtroppo, per via di questi manigoldi dovrò andarmene dopo il prossimo congresso. Sai com’è: loro controllano molti più iscritti di me”.
Un altro, al suo posto, si sarebbe prima chiesto perché stavo raccontando gli affari miei proprio a lui, tanto più che avevo finito per illustrargli
un argomento delicato in maniera forzata. Ma lui non si pose nessuna
domanda e forse neanche mi ascoltava. In quel preciso momento se ne
stava con la “pinza grip” stretta nella mano mentre una sola cosa, e una soltanto, gli girava per la testa: l’appalto annuale di manutenzione dei gabinetti pubblici. Tutto il resto non aveva più nessuna importanza. Appalti e politica. Quante volte aveva sentito pronunciare queste due parole in televisione a proposito di questa o quell’altra inchiesta. Possibile che fossero sempre gli altri a concludere affari d’oro mentre a lui toccava farsi venire i calli
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sulle mani per un tozzo di pane? Pensava a questo mentre correva faticosamente da una casa all’altra per sturare lavandini e liberare cessi intasati
dalle defecazioni altrui. Ma ora, gli era stata appena offerta la possibilità di
entrare nel gran bazar “partitini, affari e affini”. Mai e poi mai avrebbe
sospettato che il fautore di tanta fortuna non contava un accidente di niente. Se il mio idraulico fosse stato contattato da un membro di un’azienda
importante si sarebbe informato della posizione ricoperta dall’interlocutore, invece diede per buono quello che gli stavo facendo credere senza
approfondire alcunché. Come lui, la maggior parte delle persone che si
affacciano sul mondo dei partiti, s’illudono che i politici siano potenti a
prescindere. Ignorano che il potere, quello che può cambiare il corso di
un’esistenza, lo si conquista duramente nel corso degli anni. Per ogni uomo
di potere ce ne sono almeno mille, gli “ominicchi” di Sciascia, che non contano assolutamente nulla pur rientrando nella categoria dei politici.
Abbassò la testa come se si vergognasse e mi chiese:
“Cosa posso fare per aiutarti?”
“Quanti siete in famiglia?” domandai.
L’idraulico aderì al partito pagandosi persino la quota e a quella prima
iscrizione ne seguirono altre, quelle dei fratelli, della moglie, della madre,
del vicino di casa e così via. Consegnavo ogni tessera di mio pugno e quando andavo in visita al nuovo iscritto offrivo caffè o aperitivi, dipendeva dall’ora. Consegnare la tessera ai single insieme ad un paio di pizze fumant,.
specialmente all’ora di cena, produceva reazioni appassionate. Chi si
mostrava disponibile otteneva un ulteriore trattamento in omaggio mirato
ad ottenere un maggior coinvolgimento.
La strategia che funzionava meglio era la solita, quella dei cattivi che
vogliono sempre fare fuori l’ultimo arrivato animato da ferventi ideali. Ma
ciò che cambiava di volta in volta era la causa, già perché le cause da combattere sono come le puttane: ognuno ha la sua. Dovevo solo tirare a indovinare quale fosse.
”Le vogliono tagliare l’albero in giardino?” e m’incatenavo al tronco
per fermare le motoseghe. “Ti hanno rinchiuso il cane al canile?” e l’andavo a riprendere. “Ti vogliono montare l’antenna davanti alla finestra?” e
occupavo il tetto dopo aver convocato la stampa. Per cui posso ben dire di
essere stato il più grande trasformista di tutti i tempi, un Arturo Brachetti
della “causa persa” che a forza di fingersi barricadiero lo è inconsapevolmente diventato. Già, proprio così, se avessi saputo quando fermarmi,
quando cessare di fare l’interesse della gente, la mia carriera politica non
sarebbe finita nel peggiore dei modi e in questo momento mi starei gustan190
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do un piatto di “cavatelli al salmone e zucchine” alla buvette di Montecitorio.
Quando fai l’interesse della gente finisci per farti prendere la mano, mentre un vero politico sa sempre come rivendersi la causa al miglior offerente sulla piazza. Una fabbrica di asfalti inquina il quartiere? Se ti metti dalla
parte dei cittadini stai sicuro che, presto tardi, ti dimenticheranno. Diranno
che hai fatto soltanto il tuo dovere! Se invece sposi la causa degli asfaltatori abusivi aiuti e ricompense non mancheranno mai. Per questo i politici
avanzano e quelli come me restano al palo. Per questo sono diventato un
nemico del popolo - illustrissimi signori e signore della Giuria! - per via di
coloro che predicano invocando da più parti la buona politica, ma che poi,
nell’urna, razzolano male, così male da eleggere le peggiori canaglie del circondario. Basta tombole, basta crescentine e polka. Basta bigliettini! Che
il popolo - una buona volta - incominci scegliersi i suoi rappresentanti
senza farsi consigliare da qualcuno!
Ma torniamo a quei pomeriggi passati a consegnare le tessere.
Non fu difficile, anzi, direi che essendo quella la prima volta, è stata una
passeggiata. Mi ritrovai accanto a uomini e donne di tutti i tipi. Parrucchieri,
ingegneri, agronomi, cugine, zie, vecchi compagni di scuola, entrarono tutti
a far parte della mia corrente e, lo confesso, entrarono anche un paio di
quelle “battone dei viali” di cui Torrazzi non voleva assolutamente sentir parlare. A ripensarci non erano certo le più anomale di tutta la compagnia. Ero
riuscito a tesserare un “clochard” che si guadagnava da vivere disegnando la
pietà di Michelangelo sul marciapiede di via Rizzoli. Gli scroccai l’adesione in
cambio di una cassa di birre e un bagno caldo. Assoldai un rumeno che
partecipava alle corse clandestine di automobili senza sapere come si guadagnasse da vivere, un esule cubano, una famiglia di cinesi dello Zhejiang,
un esperto di peronospora, due pakistani che gestivano un negozio di frutta
e verdura, un tassista e il presidente di un’associazione ufologica romagnola. Mai, come a quei tempi, sono stato tanto vicino al popolo, a tutto il
popolo, indipendentemente dalle classi sociali, dall’età e dal colore della
pelle. Nonostante questa folta schiera di amici devo tutto al mio idraulico.
Ogni processo aggregante inizia sempre dal primo uomo che decide di
seguirti, senza di lui nessuno farebbe altrettanto.
Lo ricordo con affetto, ma c’è una cosa che non gli ho mai detto: a
quei tempi non esisteva nessun appalto per la manutenzione dei bagni pubblici.
...mai fidarsi dei politici.
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A ciascuno il suo
Sono sempre stato criticato aspramente per i miei tesseramenti selvaggi, ma
nessuno è mai riuscito a punirmi per questo. Il partito ci guadagnava denaro,
iscritti, incontri, e, in fondo, non ho mai fatto nulla di male. Non ho mai tesserato un morto e nemmeno ho barattato pacchetti di tessere in cambio di
denaro, favori o prestazioni sessuali. Una sola volta mi sono fatto pagare le
quote d’iscrizione da uno “sponsor” poco prima di mandare tutto a monte.
E, infine, chi mi dice che compito del politico non sia anche questo: andare
in mezzo alla gente per reclutarla, ma solo dopo averla convinta che non tutto
è perduto? Screditati com’erano i partiti, e come continuano ad esserlo tuttora, credo di aver cercato di riavvicinare la politica al popolo. Mi sbaglio? Le mie
erano soltanto le strategie di un topo cresciuto nella dispensa della bassa cucina politica? Nessun’altro, se fosse stato al mio posto, avrebbe tesserato il suo
idraulico? Pensate questo?
Recentemente ho letto un articolo interessante sul Corriere della Sera.
Durante uno dei tanti comizi di Barack Obama, l’allora candidato presidente
degli Stati Uniti fu messo in serie difficoltà da una domanda sulle tasse rivoltagli da un anonimo cittadino. John McCain, l’acerrimo avversario di Obama, proprio in quel momento stava assistendo all’evento seduto davanti alla tv. Senza
pensarci due volte decise che avrebbe tolto dall’anonimato Joseph Wurzelbache,
l’uomo della domanda insidiosa. Da lì a poco lo lo fece diventare la mascotte
della campagna elettorale dei Repubblicani in quanto rappresentava al meglio
il “simbolo di quell’America semplice e profonda che ha sempre rifiutato l’attivismo fiscale di
Washington” (Paolo Valentino). Dopo la campagna elettorale che vide McCaine
perdere sonoramente contro Obama, Joseph Wurzelbacher si rivoltò contro il
Senatore che l’aveva reso celebre: “Non gli devo nulla, mi ha rovinato la vita.
McCain ha cercato di usarmi, è un complotto!” dichiarò alla stampa colui che
nel frattempo era diventato celebre con il nome di Joe the plumber, così soprannominato per via della sua professione di fontaniere. Evidentemente, non
tutti gli idraulici la prendono con filosofia quando scoprono che non esiste nessun appalto
Joe “The plumber”, e Barak Obama
per la manutenzione
dei bagni pubblici.
A Bologna come a
Washington.
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L’accordo
“…per gli avvocati, le probabilità di vincere una causa
civile in tribunale sono due contro una. Pensate: avete
più possibilità di sopravvivere alla roulette russa che di
vincere una causa in dibattimento. Allora perché tutti lo
fanno? Non lo fanno, si accordano!”
Dal film “A civil action”
Dopo aver raccolto un certo numero di tessere, seduto nel mio ufficio,
ripensai a quel pomeriggio in giardino e al discorso dell’Onorevole.
Ero giunto alla conclusione che non sarei mai riuscito ad alzare un numero
di tessere necessarie per prendere in mano il partito da solo. Nessuno può
immaginare quanto desiderassi levarmi di torno tutte quelle iene. Avrei tanto
voluto sostituirle con gente nuova, non ancora logorata, ma dato che mancava meno di un mese all’ora x era praticamente impossibile alzarmi in volo
a quota 500 tessere. Con 500 seguaci sarebbe stato un gioco da ragazzi, con
150 una battaglia strategica giocata sulle alleanze. Apparentemente poteva
sembrare una cosa da nulla costruire un patto robusto, ma le alleanze sono
come i ponti e non sai mai se reggeranno per il tempo che serve ad arrivare
dall’altra parte. Solo per il fatto che il congresso era diventato per ogni capobastone un fatto di vita o di morte mi ritrovavo in una posizione di svantaggio. Al contrario dei miei rivali non avevo nulla da offrire, al massimo una
tessera rilasciata in omaggio che di fatto non serviva a niente. A ciò si
aggiunga che le correnti andavano scremate in quanto non tutte erano
arruolabili. Ad esempio, nel gruppo consiliare regionale, lavoravano un
paio di ragazzi che si fingevano indipendenti e dicevano di controllare due
pacchetti da 15 e 25 tessere ciascuno. Malgrado mercanteggiassero tessere
a destra e a manca sapevo che non avrebbero mai rischiato di perdere lo
stipendio fisso elargito dal gruppo mettendosi contro al consigliere regionale Daniela Arregu e forse era proprio lei che li spingeva a contrattare per
capire cosa si muovesse nella “friggitoria” precongressuale. Come quei due,
altri politici, assessori e consiglieri comunali, avevano ottenuto il loro posto
grazie ad un “padrinato” instaurato con qualche Onorevole e molto difficilmente avrebbero buttato a mare il benefattore che li aveva messi dov’era193
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no. Quindi bisognava guardare attentamente dentro a questa massa informe di politici, convincere i “cani sciolti” come Davide Fabri di Cesena o
Alessandro Piloti di Forlì e infine trovare i marescialli scontenti che potevano consacrarsi al nuovo. Quindi incominciai a lavorare alla costruzione di
quello che comunemente viene chiamato un “accordo”. Cos’è un accordo?
Detto così sembrerebbe una sorta di promessa e certamente lo è, ma perché l’accordo regga, ogni contraente che fa parte di questo patto deve essere beneficiato da una convenienza. Per cui, immaginatevi che un accordo
stretto tra correnti non sia altro che una pesca parrocchiale dove ogni giocatore che afferra un tappo deve per forza portarsi a casa un un premio. Sindaci,
assessori, consiglieri comunali, ma anche le presidenze delle società miste
pubblico/privato, i consigli di amministrazione degli enti pubblici, sono i
tesori luccicanti che attirano i politici più ingordi. La loro distribuzione è
garantita dagli “accordi” sanciti tra i membri di una stessa cordata.
Nel partito in cui mi trovavo allora non c’era molto da spartirsi: una presidenza regionale con al seguito un esecutivo che avrebbero determinato le
cariche elettive (consiglieri regionali, assessori e quant’altro) conseguenti ai
risultati delle imminenti elezioni regionali.
A quei tempi pensavo che l’accordo fosse un fenomeno prettamente congressuale. Solo più tardi ho capito che gli accordi sono uno dei tratti ricorrenti del nostro sistema sociale e se mai un sociologo dovesse occuparsi di
questo fenomeno in maniera scientifica scoprirebbe che il loro numero è
certamente superiore a quello degli accordi sottoscritti nelle sedi ufficiali.
Non si sanciscono accordi soltanto all’interno del partito, ma fra partiti
diversi e persino con partiti avversari. Accordi tra politica e stampa, accordi tra tecnici e politici, accordi tra politici di partito e schiere di politici eletti, tra politici e associazioni di categoria, tra politici e sindacati, tra forze
dell’ordine e politici. Accordi, accordi, accordi. Tutto il nostro mondo gira
intorno a questa parola e sembra che non possa succedere nulla senza di
essi. Una qualsiasi azione illuminata per la società, per quanto intelligente
o indispensabile possa essere, non viene minimamente presa in considerazione se non rientra in un accordo che produce delle convenienze bilaterali ai contraenti. Per ogni patto visibile ci sono sotto almeno dieci accordi
stretti segretamente.
Parla Luciano Violante alla Camera nel 2003:
“L’Onorevole Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia
piena - non adesso, ma nel 1994 – che non gli sarebbero state toccate
le televisioni, lo sa lui e lo sa l’Onorevole Letta. Qui la questione è
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un’altra, voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto
il conflitto di interesse, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi
nonostante le concessioni, mentre il fatturato di Mediaset, durante il
centrosinistra, è aumentato di 25 volte”.
Da Viva Zapatero di Sabina Guzzanti
Indubbiamente, questo descritto da Violante, rappresenta un accordo.
Telefonai al mio amico Onorevole e gli domandai se gli andava di pranzare al solito ristorante. Il lunedì, durante il giorno di chiusura, come sempre. Da quel luogo alla Quentin Tarantino avrei iniziato a tessere le mie
prime alleanze, tanto più che la guerra tra correnti era stata dichiarata ufficialmente. I giochi si erano riaperti e il precedente accordo che mi aveva
tagliato fuori da tutto era saltato.
Caramelle colorate
Quando entrai nel locale trovai l’Onorevole già seduto a tavola. Mi salutò
dicendo:“Ho saputo delle due battone che hai reclutato” Mi costrinsi a restare buono e risposi con sarcasmo: “Perché me lo domandi: forse ti interessano?”
Touché! Fece una smorfia. Presi posto a sedere mentre congedava una
ragazza che doveva aver pranzato con lui. Mi domandai se pranzasse sempre
due volte a mezzogiorno.
“Direi che possiamo presentare due mozioni collegate ad un unico presidente regionale da eleggere” disse sbucciando la mela.
Non risposi e lui pensò che dovevo essere d’accordo tanto che continuò
a lavorarsi il frutto:
“Non la voglio fare troppo lunga” - non la voleva mai fare troppo lunga,
anzi questo suo modo cinico di andare al sodo mi mortificava facendomi sentire come un suo simile - “Non la voglio fare troppo lunga perché al prossimo congresso nessuno di noi due avrà i numeri per vincere, ma…” - sul viso
prese corpo un’espressione luciferina - “Ma se uniamo le forze, la loro sarà
una “vittoria di Pirro” con solo uno, forse due voti, di distanza da noi.
Vinceranno, ma saranno costretti a trattare, tanto più che ho una mezza idea
di fare ricorso e chiedere l’annullamento del congresso”.
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“Mi domando come possiamo inoltrare un ricorso prima ancora di aver
messo in piedi il congresso” chiesi ingenuamente. ...Devo ammettere che
non avevo ancora iniziato a ragionare da politico.
“Adesso mi è tutto chiaro: non ci stai con la testa?”
Ma chi è questo qua? – meditai - Cosa vuole da me? Non ci conosciamo neanche da un mese e mi tratta come se fossi il suo maggiordomo.
Stavo giusto pensando a quando gli avevo concesso di darmi del tu che si
mise a ridere fragorosamente:
“Non hai capito un cazzo e io che perdo tempo con te devo essermi
bevuto il cervello”
Era diventato paonazzo per le risate, ma finalmente trovò la maniera di
continuare a parlare:
“Credi davvero che basti gettare le tessere sul tavolo del congresso e
vedere chi ha una doppia coppia e chi un poker?”
“Dimmelo tu” risposi.
“Ragiona” – si mostrava paziente - “se i nostri avversari avessero una
maggioranza schiacciante, un ricorso non avrebbe alcun senso. Ma se loro
si ritrovano con due ceci a far la differenza tra un ristorante e l’altro, può
darsi che Roma si convinca a passare dalla nostra parte. Lasciatelo dire, i
romani sono stanchi di fare le donne di servizio, muoiono dalla voglia di
aver voce in capitolo” – sprizzava eccitazione da tutti i pori - “pensa come
vuoi, ma dobbiamo spingere i nostri nemici sulla fune come se fossero dei
saltimbanchi dilettanti e quando saranno arrivati a metà, li lasceremo lì, a
cuocersi per benino, mentre sentono il nostro fiato caldo sul collo. Un colpetto e... Puf! Si ritrovano sfracellati per terra”.
Ecco a voi - signori e signore - lo stupefacente numero del Re funambolo.
La principale condizione in cui si trovano avvinti i nostri leader. Ma anche
tutti i gruppi dirigenti o Governi che siano, si fondano sul controllo che
altri gruppi riescono ad esercitare su di esso. Questo dominio può essere
messo in pratica mediante il ricatto diretto, ma anche attraverso uno stato
di precarietà che può essere creato “ad hoc”. Le vicende che hanno visto il
moltiplicarsi di ricorsi durante le elezioni regionali del 24 e 25 marzo 2009
dimostrano inconfutabilmente che “il numero del Re funambolo” condiziona
strumenti che dovrebbero dare luogo a istituzioni rappresentative fondate
su esiti inoppugnabili. Non bisogna meravigliarsi più di tanto quando si
scopre che vi sono corporazioni politiche, di destra e di sinistra, che lavorano alla stesura di patti che puntano alla costituzione di uno “stato di precarietà” permanente. Marazzo all’inizio dello scandalo si “autosospende” ed
evita le dimissioni da Governatore. Come lui il Sindaco Delbono dice di
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rimanere al suo posto malgrado l’improvvisa esplosione del “cinziagate”.
Entrambi hanno trovato frotte di sostenitori perché non c’è niente di
meglio per gli “affari” dell’avere un trono precario e un regno prossimo alla
caduta. Vasco Errani in Emilia Romagna, come Formigoni in Lombardia,
dopo due mandati non avrebbero potuto ricandidarsi, eppure lo hanno
fatto. Benvenuti nell’era del Re funambolo, oggi è sul filo, domani, chissà!
Domandai all’Onorevole cosa ci guadagnasse di tanto utile nel ritrovarsi dentro a un partito spaccato, commissariato, leso nelle capacità politiche, screditato agli occhi degli alleati e dei cittadini.
“Te l’ho già detto” - sbuffò seccato - “Se io non governo la Regione,
neanche loro la devono governare e si devono accordare per uscire dalla
secca”
Si trattava di una riedizione in salsa partititocratica dell’aforisma di
William Blake che suona così: “meglio regnare all’inferno piuttosto che servire in
paradiso”. Dio ci protegga da questi politici, molti si sono estinti, ma temo
che altri ne verranno.
“Se alludi a quello che posso spuntare” - il tono s’intrise di rancore “ti fermo subito dicendo che non sono cazzi tuoi!”
Cadde in silenzio per riflettere su quello che aveva detto e su come lo
aveva detto. Gli servivo come alleato e aggiustò il tiro:
“Ti farà piacere sapere che ho pensato di farti correre come capolista
alle prossime elezioni regionali”.
Ecco finalmente spiegato perché un politico si guadagna una posizione di prestigio senza aver mai fatto un solo discorso in pubblico. Grandi
ideali? Macché! Buone intenzioni? Nemmeno. Un’oratoria imbattibile?
Ma va. Una mente geniale? No.
Un pugno di tessere? Esatto!
Non c’è niente da fare, le tessere sono il fulcro della politca. Non
importa averne tante, piuttosto averne il numero sufficiente al momento giusto. Per chi gioca al congresso, come per chi gioca in borsa, non
conta tanto la quantità di denaro investita quanto il “dove” e il “quando”
s’investe. “Ci stai?” Chiese l’Onorevole che mi fissava come Jack
Nicholson scruta la moglie in Shining subito dopo aver buttato giù la porta
a colpi d’ascia.
Risposi senza esitazione che mi poteva andar bene, ascia a parte.
“Perciò” - disse l’Onorevole - “Te ne vai a casa e ti metti a scrivere
una bella mozione in sostegno del nostro candidato alla presidenza
regionale del partito che verrà fuori dal prossimo congresso”.
Chiesi chi fosse il nostro candidato presidente, ma lui non lo sapeva
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ancora e poi: “Uno vale l’altro” concluse.
Certo – rimuginai - uno vale l’altro. Come dire che il mio testo sarebbe potuto andar bene tanto per Theodore Roosvelt che doveva parlare al
Senato americano quanto per un congresso di Adolf Hitler tenuto in una
birreria della bassa Baviera.
“Ma poi” - argomentò - “le mozioni politiche sono soltanto la carta
colorata con cui s’impacchetta il “cioccolatino” e cioè l’accordo. Mica possiamo raccontare ai giornalisti che abbiamo messo in piedi una gigantesca
baracconata soltanto per spartirci le poltrone”.
No, certo che no. Non avevo più la forza di rispondere ed ero estenuato dall’aver dovuto tener testa a tutta quella boria che mi aveva sbrodolato addosso per l’intero pomeriggio. Gli ideali come ninnoli. I programmi
come bigiotterie. Le mozioni neanche buone per pulirsi il culo. Ancora
oggi mi chiedo se quell’uomo che non vedo da anni si è mai pentito di
essersi mostrato ai miei occhi in quel modo, non so se più cinico o amorale. Amorale? Non ne avevamo ancora parlato, ma non osavo chiedergli una
delle sue “ricercate” definizioni.
Mi chiedo se gli sia mai nato qualche dubbio sull’esempio che mi diede
e a chissà quanti altri lo diede... Forse è per questo che molti politici ecologisti vivono come eremiti sulle montagne. Ed è sempre per ragioni simili se il
“padre fondatore” del partito ecologista, molti anni or sono, si è impiccato ad un
pesco fiorito. Quali altre ragioni avrebbe dovuto avere altrimenti?
Ma oggi, a mente fredda, posso dire che Torrazzi non era un ecologista, ma l’usurpatore di una posizione politica che era stata creata da altri
che poi se n’erano andati o, peggio, si erano uccisi pensando che il mondo
fosse di esclusivo appannaggio di certa brutta gente.
I migliori se ne vanno, i Torrazzi restano.
Mozioni
Sebbene Torrazzi la pensasse diversamente, le mozioni sono “l’atto
di muovere i seguaci”, un catalizzatore che innesca una reazione a catena,
un’esplosione che imprime forza al gruppo spingendolo verso un obiettivo preciso. Le mozioni sono astrazioni, le uniche che riescono a produrre delle forti emozioni, quando sono scritte bene, s’intende. Sono le
“idee che diventeranno azioni” (parafrasando Pound). Si rivolgono tanto al
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cuore quanto alla testa. Nonostante questo ho ascoltato raramente dei
presentatori di mozioni che siano riusciti ad appassionare la platea che
avevano davanti. Molto spesso l’autore del testo appartiene alla categoria dei “ghost writer” scrittori fantasma passati al soldo della politica. Si
dividono sostanzialmente in due categorie. Ci sono quelli che hanno frequentato un corso di scrittura creativa e quelli che invece si sono formati ascoltando un comizio dopo l’altro. Quest’ultimi sfornano, nove volte su
dieci, le cosiddette “Mozioni copia e incolla” che sostanzialmente sono dei collage di vecchie mozioni usate in precedenza. Gli unici tratti che appartengono
al talento dei ghost writer “copia e incolla” sono i “passi attualizzanti”, quei punti
nevralgici dove una frase scopiazzata da un discorso di Togliatti è saldata ad
un episodio recente. Poi ci sono le “lime”, tornitori dediti all’ “aggiustaggio”
delle frasi che potrebbero indispettire qualcuno. Dormono con il vocabolario
dei sinonimi sotto il cuscino e sono abilissimi nel descrivere concetti dalle
molteplici interpretazioni.
Se la mozione deve incontrare il plauso di quelle categorie economiche
che fondano la propria esistenza sull’edilizia, il “fantasma” scriverà che
“bisogna riconsegnare alla storia della città gran parte dei luoghi attualmente dequalificati”. Quando si vuole chiudere un presidio ospedaliero
per tagliare i costi si farà presente che “è diventato necessario superare
la forma dell’attuale sistema sanitario cittadino”, per aumentare le tasse
si dirà che “bisogna rammodernare il profilo dei prelievi per una maggior equità fiscale”. Infine ci sono i gosth writer specializzati nelle
“mozioni tematiche” che contengono principi generali da seguire. Ad
esempio, ci si dichiara contrari alle guerre, allo sfruttamento del lavoro
minorile, alle mine antiuomo e ad un’infinità di altri temi condivisibili da
chiunque. Sono le compresse digestive, le alka-seltzer, in grado di curare
la sbronza di poltrone. Le mozioni sono effimeri feticci congressuali dai
quali non si può pretendere l’impossibile. Dopo la loro redazione sono
sottoscritte, duplicate, diffuse, messe ai voti e infine destinate ad una
lunga clausura trascorsa in solitudine, nel buio di un cassetto o sul ripiano polveroso di un archivio. Ci si può accorgere di quanta distanza esista tra le mozioni politiche e la realtà se le si decontestualizza. Alle
volte, per scherzo, trasformavo le mozioni che mi capitavano per le mani
in documenti storici che poi facevo girare in rete. Qualcuno si arrabbiava, ma altri ridevano a crepapelle. Ciò che conta è che Cristoforo Colombo
non avrebbe mai convinto la Regina di Spagna a concedergli tre
Caravelle se avesse usato – parafrasando il testo di una mozione – queste parole:
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“Facendo poche remate, ma fatte bene, navigando in modo critico,
con rigore e serietà, dopo aver studiato e approfondito a fondo la
volta celeste e intrapreso nuove rotte, innovative e poco radicali,
dopo aver promosso la cultura del buon equipaggio, troveremo una
nuova strada per l’India”.
Al contrario, inginocchiato dinanzi a Isabella di Castiglia, trasformò un
viaggio verso l’ignoto in un’impresa che ha cambiato la storia dell’umanità.
Sognante navigatore delle ipotesi è riuscito a dimostrare che la terra non è
piatta con tre malridotte caravelle, una ciurma di carcerati e un entusiasmo
sconfinato. Non so dire cosa si siano detti il navigatore italiano e la regina
di Spagna, ma sono certo, straordinariamente sicuro, che Cristoforo
Colombo non abbia usato lo stile di una delle nostre mozioni.
Una vita, mille battaglie
Così me ne andai a casa e scrissi la mia prima mozione intitolata “Una
vita, mille battaglie” di cui riporto l’inizio tanto per far comprendere qual è
l’abissale distanza che separa gli ideali contenuti in una mozione politica e
le allucinanti origini dalle quali è scaturita. Non essendo del tutto convinto
che tra un candidato presidente ed un altro non vi fosse differenza scelsi
di riferirmi al tema di cui il partito si faceva paladino: l’ambiente.
“Il pensiero verde è cresciuto ed è maturato nell’emergenza
ambientale. Per questo, essere ambientalisti significa avere piena
consapevolezza di quello che sta succedendo, dei pericoli ecologici
che incombono sul nostro pianeta e sui guasti irrimediabili che
sono già stati prodotti. Sappiamo che il futuro delle generazioni a
venire non sarà roseo, e questo deve spingerci a salvare il salvabile.
Essere ambientalista può significare non solo aver coscienza dei
disastri, ma conoscerne le cause e saper ipotizzare i rimedi possibili. Per cui militare nelle fila del nostro partito, vuole dire diventare
esperti di ecologia, acquisire, al di là di una coscienza politica, che
non basta, una consapevolezza scientifica. Non si esige da un verde
che acquisti la professionalità di uno scienziato, ma gli si chiede di
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raggiungere delle competenze tali da poter capire l’essenza dei problemi e in tal modo intraprendere un dialogo a due voci con gli
addetti ai lavori. Gli ambientalisti devono dar vita ad una sorta di
laboratorio politico, in cui le istanze culturali e scientifiche che presuppongono una gestione sostenibile del pianeta, vengano discusse, interpretate e sottoposte ad opzione critica. Solo la scienza può,
oggi, salvarci dalla scienza e lo stesso deve dirsi della tecnologia. Ci
è necessario elaborare una nuova nozione di progresso, inteso non
come crescita indiscriminata, ma come sviluppo armonico e, come
suol dirsi, sostenibile. Un progresso che faccia progredire insieme
l’uomo e la natura, le piante e gli animali, in forza di una nuova alleanza tra l’intelligenza, che crea e non distrugge, e la politica che
progetta il futuro e non l’accesso al potere.... ”
Il mio primo congresso costituente
Il pacchetto di tessere che misi insieme servì in due occasioni, al congresso regionale che mi indicò capolista alle elezioni regionali del 2000 e al
congresso costituente che si tenne a Chianciano. L’esperienza nella città termale fu certamente molto più istruttiva dell’altra.
Arrivai con qualche ora di anticipo sull’apertura formale del congresso che si teneva all’interno di una tensostruttura di plastica bianca che faceva assomigliare l’assise politica al tendone di un circo equestre. Quel giorno, in quel posto, sarebbero arrivati quindicimila congressisti per meno di
centocinquanta poltrone che avrebbero permesso ad un manipolo di miracolati di vivere agiatamente per i cinque anni successivi. Un fuoco di
Sant’Elmo dove la maggior parte dei convenuti sarebbero stati stritolati in
trame che neanche conoscevano. L’unico fatto accertato è che ci saraemmo ritrovati tutti al centro di uno scontro epocale consumato tra le manovalanze del nord-est provenienti dai centri sociali di Luca Sacarini e le truppe cammellate reclutate nel Napoletano e dintorni da Alfonso Bovaro Sgozzo.
I partiti battezzano sempre le località termali quali luoghi dove consumare gli scontri congressuali. Montecatini e Chianciano sono le cittadine più
gettonate, ma anche Fiuggi è stato il teatro di rinnovamenti radicali. I partiti, come anziani e malati convalescenti, sembrano volersi depurare dalle
impurità accumulate durante la reggenza eletta al congresso precedente.
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Talvolta si disintossicano completamente dal proprio passato, come accadde a Fiuggi, dove il Movimento Sociale Italiano si mutò in Alleanza Nazionale.
A dire la verità, suppongo che la scelta dipenda in gran parte da ragioni strettamente economiche dato che i partiti, come ebbe modo di confessarmi un tesoriere, ricevono provvigioni molto consistenti dagli albergatori che si ritrovano a riaprire hotel e pensioni al di fuori della stagione turistica. Chiunque può rendersi conto che alloggiare e nutrire dai tremila delegati ai dodicimila tesserati rappresenta un’occasione ghiotta per qualsiasi
commerciante.
L’albergo che il partito mi aveva prenotato, malgrado pagassi una bella
cifra, era fatiscente, con gli intonaci dei soffitti crepati, le mattonelle del
bagno risalenti alla prima guerra mondiale e le lenzuola sporche, nonché
cosparse di peli non miei. Non ci fu verso di trovare un’altra sistemazione,
la cittadella era al gran completo e fui costretto a restare all’Hotel Topaia.
Con me, oltre a mio padre, c’era Paolo, detto Radicchio, Lara, mia moglie, e
Piero il mio “fedele scudiero”, come lui stesso amava definirsi quando faceva
il cretino. In fondo, si trattava del primo congresso nazionale anche per lui.
Nel giro politico era noto come “il cubano” perché arrotondava lo stipendio da venditore “porta a porta” di enciclopedie impartendo lezioni private
di salsa, merengue e chissà cos’altro. L’avevo conosciuto per strada durante la
campagna del 1999 mentre attaccavo i manifesti di mio padre. Si avvicinò
chiedendomi se conoscevo quell’uomo, il professore amico degli animali,
che aveva visto alla televisione prima che sul manifesto. Quando risposi
che ero suo figlio restò di ghiaccio e mi chiese come mai dovevamo attaccarci i manifesti da soli senza ricevere nessun sostegno da parte del partito. Gli spiegai che il partito, come lo chiamava lui, se ne sbatteva altamente di entrambi.
“Telefona a tuo padre per dirgli che non siete più soli” mi disse e
aggiunse:
“Lavorerò per lui nel tempo libero senza chiedere in cambio nemmeno un centesimo”. Da quel giorno siamo diventati amici.
Piero, pur avendo un qualche annetto di troppo sulle spalle, sembrava
molto più giovane di quello che era per via del suo fisico asciutto e l’aspetto atletico. Possedeva inoltre una dote stranissima che non ho mai ritrovato in nessun’altra persona: ispirava familiarità fin dal primo istante in cui lo
incontravi. Ti sembrava di averlo sempre conosciuto tanto che anche un
spia del Kgb avrebbe finito per confidargli tutti i suoi segreti dopo neanche
un’ora di piacevole conversazione. Sta di fatto che non appena mise piede
a Chianciano, come al solito, incominciò a gironzolare in lungo e in largo
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ficcando il naso da tutte le parti tanto che s’imbatté in un curioso episodio.
Quando mi raccontò cos’era successo feci un po’ di fatica a credergli, ma
la sua ragazza, Manuela, aveva assistito anche lei alla scena e confermò la
storia di Piero dall’inizio alla fine.
Passeggiando nel viale centrale delle terme avevano notato un pullman
di napoletani fermo davanti all’albergo. Mentre l’autista e un altro tipo tarchiato scaricavano le valige, il buon Piero capì che non si trattava di turisti,
ma di tesserati. Si avvicinò per attaccare bottone come al solito e mentre
chiacchierava con un certo Mimmo, che metteva la lettera “zeta” al posto
della “esse”, gli cadde l’occhio sul fondo del bagagliaio aperto. Vide un
fascio di bandiere di Alleanza Nazionale e un po’ stupito chiese cosa ci
facessero lì. Si sentì rispondere che quell’allegra comitiva aveva deciso di
partecipare al congresso soltanto per fare un favore ad “Alfonzo”,
all’Onorevole che in quell’occasione era il padrone incontrastato della maggior parte delle tessere, che secondo un’antica tradizione italiana provengono principalmente dal sud, anzi, per dirla tutta, nel partito verde si diceva
con rammarico che le tessere si facevano al sud, mentre i voti si prendevano al nord. Quando Piero chiese ragione di questo palese controsenso si
sentì rispondere che prima di ogni altra cosa veniva l’amicizia. Alfonzo,
futuro ministro, era un buon amico e allo stesso tempo un ottimo investimento. Ribadì che alle elezioni nessuno avrebbe votato per il partito di
“ziniztra” di Alfonzo, ma per un congresso interno si poteva chiudere un
occhio. Prima di andarsene chiese a Piero se per caso non fosse anche lui
iscritto ad Alleanza Nazionale.
La notte che seguì a quel racconto allucinante non fece che confermare i presagi che avevo maturato nel pomeriggio. Mi rivedo ancora oggi con
una chiarezza straordinaria nel cuore della notte mentre vago da un albergo all’altro tentando di ricevere udienza da questo o da quell’altro capobastone. Compaiono nella mia memoria intrecci confusi di strade affastellate dove strisciano lunghe file di lumache dai gusci zeppi di tessere.
Fantasmi di portaborse vagano come navi alla deriva nelle hall degli alberghi, lividi faccendieri dagli sguardi guardinghi confabulano sottovoce in
fondo ai corridoi, larve di tirapiedi pranzano nei ristoranti deserti degli
alberghi.
Mi rivedo a consumare le interminabili attese che precedono le udienze. Eccomi seduto accanto ad altri politici dalle mani sudate. Ci troviamo
avvolti in atmosfere umide e fumose, rischiarati dalle flebili luci giallognole delle lampade a muro. Dietro al bancone della reception compare l’alba. Si staglia sul vetro appannato con il volto malaticcio di un sole pallido.
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Il capobastone in fondo alla stanza se ne sta seduto dietro ad un tavolo
imbandito di fogli sparsi. Stringe gli occhi, se li frega vigorosamente con i
pugni chiusi, ma poi si mostra imbarazzato quando il segretario lo informa
all’orecchio che c’è un tale con trenta tessere che chiede udienza. Scrolla le
spalle come per dire che non sono tante, ma poi ci ripensa e lo sento borbottare che “tutto fa brodo”. E sia! Sono pronto per tuffarmi nel brodo!
Speriamo solo di non bruciarci. Pensai al plurale per darmi coraggio. Mi fa
segno di entrare. Sorride. Senza fare tanti convenevoli apre il tabulato e
cioè un fascicolo con riportati tutti gli iscritti che si sono registrati al congresso. Accanto a ciascun nome si trovano le iniziali del promotore di ogni
tessera. Ma nel mio caso, come nel caso di tutti i poveretti che stanno sotto
le cento (tessere), c’è scritto nome e cognome per esteso. Mi chiede se sono
Daniele Cenni “venti” di Pavia. Rispondo che no, mi chiamo Celli e non
Cenni. Seguendo la sua logica dico di essere Davide “trenta” di Bologna. Si
assicura che sia proprio io e non il Davide Celli “cinque” di Piacenza.
Nessun errore è solo un omonimo. Ci pensa un po’ su, mi guarda, gli si
materializza sul viso un’espressione incerta. Chissà chi è? Si domanda.
Assume improvvisamente l’aria di chi si è convinto di aver sprecato una
buona parte del prezioso tempo che manca all’apertura del congresso.
Infine si decide: arrivederci e a presto “Davide trenta”, mi saluti tanto i suoi
cammelli. Presenterò, rispondo al signor “duemila” (tessere in tasca).
Quella notte vidi gli uomini dedicarsi anima e corpo ai numeri.
Numeri e ancora numeri. Matematici del consenso al lavoro su masse
informi di anonima carne umana. Addizioni esistenziali e anime divise per
gruppi. Della politica, quella che dovrebbe produrre argomentazioni, educare le masse, individuare nuove strade, neanche un’ombra sbiadita.
Nessun sogno, nessun ideale, nient’altro vale di più del numero di seguaci,
veri o finti che siano. E non importa a nessuno sapere se hai convinto i soldati che ti seguono con il cuore, con la forza della ragione, o se li hai comprati con del vile denaro, o elargendo favori come se piovesse, droga o puttane della peggior razza. Queste “sottili” differenze, ad un congresso, sono
del tutto ininfluenti. L’etica è morta. Andate ad un congresso qualsiasi e
tolte le belle parole dei comizianti chiamati uno ad uno sul podio ad argomentare, troverete solo delle marce ragioni, putridi giri di boa, fetide fratellanze. Per questo i politici sono quello che sono, se le ragioni che attribuiscono il potere sono queste, non potrebbero essere diversi neanche se lo
volessero.
La mattina che seguì ai pellegrinaggi notturni rientrai in albergo di
buonora. Nell’aria c’era odore di caffè caldo e croissant. Le mie “trenta tesse204
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re” prendevano posto ai tavoli apparecchiati per la colazione. Erano
all’oscuro di tutto e non appena mi videro entrare mi seppellirono di
domande. Volevano sapere se ero riuscito a mettere in piedi un gruppo in
grado di cambiare la politica. Da un tavolo chiesero se avevo conosciuto
qualcuno che ci avrebbe aiutato a diffondere i nostri progetti di riforestazione urbana. Sorrisi e mi mostrai entusiasta mentre rispondevo che sì,
tutti i temi erano all’attenzione dei più alti dirigenti del partito. Non era
vero. Per mentire a quel modo feci uno sforzo disumano e nessuno ha mai
saputo, per fortuna, come andarono veramente i fatti quella notte. Salutai
la compagnia facendo intendere che stava filando tutto liscio: “Ce la faremo”
– rincuorai gli astanti – “vi assicuro che riusciremo a cambiare la politica”. Dissi
così, lo ricordo bene. Dispensai questa colossale balla ai miei amici e me ne
vergogno ancora, anche se dicono tutti di avermi perdonato.
Me ne andai ad ubriacarmi non ricordo più dove e prima che il vino
facesse effetto rammento di aver combattuto contro un’incazzatura crescente convinto com’ero che gli uomini fossero diventate le creature più
spregevoli di tutto il creato, peggio persino dei tirannosauri che li avevano
preceduti. Se gente così finiva nella “stanza dei bottoni”, tutte le terre libere
sarebbero state occupate nel giro di una stagione e poco dopo inumate di
cemento. Le foreste abbattute, gli animali uccisi, l’acqua dolce dilapidata, i
mari ridotti a pozze salmastre dove neanche i batteri sarebbero riusciti a
sopravvivere. Il cielo… No, non esisterà più nessun cielo azzurro da guardare, ma solo un manto caliginoso di polveri fini. E questi sarebbero ecologisti? Macché: sono solo un esercito di occupazione permanente del pensiero ecologista. Conclusi al quinto bicchiere. Non c’è più niente da fare: il
mondo è perduto. Nessuno riuscirà a salvarlo. Prosit! E giù altro vino.
Addio. Insomma, la vidi più brutta di quello che era perché di veri ecologisti, come ebbi modo di scoprire negli anni a venire, ne ho incontrati moltissimi. Ognuno con la sua guerra, ognuno da solo e rimpiango solo di non
essere riuscito ad unirli.
Qualcuno mi riaccompagnò in albergo dove sfangai la balla, una delle
sbronze più colossali dalle quali sia uscito indenne. Mi svegliai all’inizio
della sera quando il congresso volgeva al termine. Sentivo i congressisti
vociare in strada, ridacchiare. Un piacevole brusio. Avrei voluto essere da
tutt’altra parte. Quella sera decisi che un giorno, dopo aver chiuso con la
politica, mi sarei ritirato in un bosco inospitale e disabitato, lontano dalla
civiltà. Desiderio che si è puntualmente avverato.
Inutile aggiungere che in quell’occasione non fui eletto dirigente, ma
presi coscienza di come funzionava la democrazia interna ai partiti. Non
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fui eletto perché mio padre era mal visto da tutti i suoi colleghi che non gli
avevano ancora perdonato di essere diventato un Parlamentare europeo
senza aver avuto bisogno del loro aiuto. Come per certe gravidanze, quando ci s’imbatte in un’elezione “non cercata” si manifestano immediatamente
tutti i comportamenti persecutori che derivano dalla mancata collettivizzazione della vittoria e non cessano fino a quando l’outsider non indossa il saio
di San Francesco e da fondo a tutte le sue finanze fino all’ultimo centesimo.
Poi dicono che i Parlamentari guadagnano molto, provateci voi a nutrire
una bolgia di inferociti questuanti e vedrete che i soldi non bastano mai.
Dopo l’elezione di mio padre al Parlamento europeo, infatti, non passava giorno senza che incontrassimo qualcuno - Onorevoli, dirigenti, politici di tutti i tipi, presidenti di pseudo comitati, ma anche semplici militanti –
con richieste che vertevano sull’assumere questo o quell’altro tirapiedi, stipendiare amanti, offrire “vacanze convegno” a giornalisti “d’area” che non avevamo
mai sentito nominare, reintegrare segretarie dismesse, comandare uscieri perché fossero promossi a commessi parlamentari, finanziare iniziative, acquistare servizi, libri, magliette, stock di biciclette cinesi da regalare ai passanti, o
mille altre stramberie. Ovviamente, senza dare nulla in cambio.
Non abbiamo mai capito se la gente ci provasse “d’ufficio” o fosse veramente convinta che il ruolo di un Onorevole dovesse necessariamente ridursi ad una sorta di Wunderkammer di favori. E ad ogni diniego, un altro nemico
andava ad aggiungersi alla già vasta galassia dei nostri detrattori.
Terminato il congresso un portaborse che
bighellonava nel parcheggio dell’albergo ci salutò
ricordandoci che il nostro non era un
partito, ma un movimento.
Aveva ragione, era proprio un
gran bel movimento, …di tessere
e cammelli.
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Tutta colpa di Pizzaballa
Uscito dall’albergo non feci subito ritorno a casa, ma decisi che avrei
fatto due passi a piedi per sgranchirmi le gambe. Gli ultimi congressisti
caricavano le valige in auto, ma il grosso del pubblico se n’era già andato
da un pezzo. Chianciano stava tornando ad essere la tranquilla cittadina
deserta che era stata fino a quando non si era deciso di farla diventare un
circo. Passai davanti all’albergo dov’ero stato durante la notte appena trascorsa. Dietro alla porta spalancata vidi la sala centrale che emanava un’aria
completamente diversa. Il sole, sebbene affaticato, aveva dissipato l’umidità e cancellato quella fastidiosa puzza di muffa. In giro non c’era nessuno,
una scena alla Matheson di “I am legend”. Nella sala dove avevo incontrato “il
signore delle tessere” erano sparsi dei pezzetti di carta che, a guardar bene,
erano conteggi di tessere, numeri di telefono, appunti indecifrabili. Pizzini
congressuali di tutte le fogge. Ne raccolsi uno da terra e lo lessi:
Ronchi lo trovi all’Hotel Impero,
ma non rompergli i coglioni se
non sono cose importanti.
Innocuo. Ne afferrai un altro:
Cervi
Bortolozzi
Canizza
Lotti
109
45
58
224
Siamo ancora sotto!
In alcuni c’erano persino i disegnini a tutela della privacy:
70 d
17 v
121 k
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I foglietti dedicati ai conteggi erano la maggioranza, ma quello che più
mi stupì fu questo:
Senti da Benetti che ha
degli iscritti antiabortisti che gli danno dei problemi con i cattolici di
Melissa Cordivilla. Ti conviene dargli in cambio sei
dei tuoi animalisti per
questi dieci e se ce la fai
mi richiami.
Dieci antiabortisti in cambio di sei animalisti. Tutto chiaro. Gli animalisti li puoi infilare dentro a qualsiasi corrente, tolta quella dei cacciatori,
mentre i cattolici sono meno malleabili. Fu allora che mi ricordai di quando giocavo con le figurine Panini. Durante la ricreazione ci scambiavamo
quelle rare con le altre più comuni e ricordo che Faustino Goffi valeva come
minimo duecento figurine che non sarei riuscito a raccogliere neanche se
avessi spalato le neve per tutto l’inverno. Ma il vero Graal, la figurina più
mitica che ritornava in tutte le conversazioni scaturite tra bambini era quella del portiere dell’Atalanta, dell’angelo biondo, Pier Luigi Pizzaballa. C’è chi
dice che non sia mai esistita e che si tratti di una bufala inventata da Luther
Blissett quando ancora portava i pantaloni corti, ma allora i bambini della
Lunetta Gamberini ci credevano - “eccome se ci credevano!” - alla figurina
di Pizzaballa. Ahimè, nessuno sapeva con esattezza quando sarebbe riuscito a vederla dal vivo. Mi tornò in mente il capobastone della sera precedente che non aveva preso minimamente in considerazione le mie tessere, ero
di nuovo là, davanti a lui nella penombra umidiccia di quel salone vuoto.
“Facciamo così” – dissi guardandolo fisso negli occhi – “le mia trenta
tessere per le tue tremila”
Il capobastone sussultò non sapendo se ridere o cacciarmi dalla sala.
“Ma alle mie trenta aggiungo la mitica Panini Pizzaballa”
“Pizza chi? Trenta tessere più quella di Pizzaballa? Fanno trentuno,
cambia poco” disse con l’aria furba di chi non vuol essere fregato.
Non c’era niente da fare. Trascorrevano tutto il tempo a scambiarsi
tessere come fossero figurine e non sapevano nulla della leggendaria figurina di Pizzaballa. Ma andatevene tutti a quel paese…
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Avrei potuto restarmene assorto nella lettura dei
bigliettini per un intero pomeriggio ricostruendo storie, situazioni e mercanteggiamenti di ogni tipo, ma
scelsi di farmi largo nella sala centrale dell’albergo
gironzolando tra le poltrone e i divani. Mi piaceva
quella calma piatta dopo la tempesta.
Una lattina di birra intonsa era appoggiata su di
un libretto stampato con una Xerox e malamente rilegato con dello spago. Avrei potuto bermi la birra alla
salute di chi l’aveva abbandonata, viceversa, fui attrat- La mitica figurina Pizzaballa
to da quell’oggetto insolito che fungeva da sottobicchiere. Spostai la birra e ad una prima occhiata mi sembrò di avere tra le mani
un manualetto usato per erudire un portaborse alle prime armi. Sulla copertina non c’era nessuna intestazione, ma pensai che avrei potuto mandarlo alle
stampe con il titolo “bestiario politico” per via dello stile che tra il serio e il faceto ricostruiva la vita delle chimere che si aggirano ai congressi.
La maggior parte delle voci erano schematiche come quelle di un glossario, ma integrate a dovere ne avrebbero fatto un’opera interessante, un
reperto di quella storia invisibile che si consuma all’ombra dei congressi.
Quella che segue e la descrizone di quel libello integrata da ricordi personali, appunti e aneddoti vari.
Bestiario politico
Ogni partito stabilisce un termine alla campagna di tesseramento così
da fermare le iscrizioni e permettere ai dirigenti di organizzare il congresso a “bocce ferme”. Il congresso, la grande conta, la resa finale dei conti, risulterebbe falsato se tutti i capi corrente continuassero ad immettere tessere
in circolo fino alla sera precedente all’apertura dei lavori.
Questa regola che tutti conoscono come la “chiusura del tesseramento” è straordinariamente simile alla tempistica dettata ai giocatori della roulette francese che non possono puntare il denaro dopo l’inizio del gioco.
Il partito, Chef de table, apre la partita dicendo:
“Faites vos jeux messieurs!”, (fate i vostri giochi).
A questo punto tutti i capibastone sistemano sul tappeto verde le tessere/fiches cercando, per quanto possibile, di puntare tutto sul rassemblement
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che viene dato per vincente. Dopodichè il capo croupier ferma le giocate gridando: “Le jeux sont faits, rien ne va plus!” (Il tesseramento è chiuso) e subito dopo apre i lavori tirando la pallina d’avorio dentro al piatto girevole. Si
contano le tessere, la tensione sale. E sale.
“Voilà monsieur le Président gagnant!” grida il bouler.
“Ecco a voi il futuro segretario nazionale del partito!” ripete in perfetto italiano.
È tutto molto più semplice di quanto si possa credere.
Tessere
Ogni tessera equivale ad un iscritto e
rappresenta la cifra più piccola di tutto il partito. In biologia sarebbe una cellula, in chimica un atomo, nel mondo delle unità di misura
ogni tessera equivarrebbe al millimetro, la corrente al centimetro, il partito al metro.
Ogni individuo riceve la tessera dopo aver
compilato il modulo di adesione e versato la quota
d’iscrizione. Tesserarsi – come si suol dire - costituisce la
prima azione necessaria per chi intraprende la carriera politica e il possedimento della tessera è un tratto che accomuna il militante di base al Presidente
Nazionale o a qualsiasi altro eletto nei ranghi più alti delle Istituzioni senza
distinzione alcuna. Si tratta di un’azione semplice, così semplice, che avremmo cinquanta milioni di iscritti ai partiti se fosse vero quanto si dice in giro
e cioè che “basta avere una tessera in tasca” per vincere gli appalti o lavorare alla
Rai. Infatti si dice che non basta “fare le tessere”, ma per fare affari è necessario sapere come “farle girare”. Le tessere riunendosi formano “le correnti” che
se a parole vengono paragonate a delle “metastasi” tumorali, nei fatti sono indispensabili per ogni leader che le deve organizzare all’interno di una cordata per
vincere il congresso e acquisire il controllo del partito. Se ne parla male in
pubblico e le si sfrutta nell’ombra e dato che il termine “correnti” equivale ad
una bestemmia pronunciata sul sagrato di una Chiesa è stato sostituito dalla
parola “area” che sta per “area di appartenenza” nella quale rientrano i semplici
tesserati come gli esponenti politici di lungo corso. Questo è l’unico cambiamento che si è verificato negli ultimi anni in fatto di tessere e correnti.
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Cammelli
Quelli che compongono il branco di tesserati possono essere suddivisi
in due grandi ordini. Il primo è formato da coloro che hanno ancora fiducia nella politica e per questo s’iscrivono liberamente e partecipano alle attività del partito. Sono pochi, pochissimi, delle mosche bianche. Il secondo
ordine comprende molti altri animali, ma i più numerosi sono i cammelli
che pur vivendo allo stato brado, dalle savane agli enti pubblici, sono soggetti a improvvise migrazioni che li conducono nelle oscurità delle cabine
congressuali dove non depongono uova nelle urne, ma schede precompilate. Come avviene esattamente questa strana migrazione?
I cammelli entrano alla spicciolata nella hall dell’albergo dove si svolge
il congresso e mentre si guardano intorno incuriositi sono presi al lazo dal
tirapiedi. Costui, che ha ricevuto l’incarico di organizzare le famigerate
“truppe cammellate” per conto del capobastone, infarina a dovere ciascun
gruppo di cammelli:
“Lasciate il cappotto al guardaroba, poi andate al banco degli accrediti
e date un documento, avrete in cambio il tesserino. Per il caffè c’è un buffet gratis al primo piano. La toelette, in fondo a destra. Il guardaroba al piano
interrato. Se vi interessa ascoltare gli interventi prendete posto in sala. No?
non siete interessati?” chiede il tirapiedi.
“No! Non ci interessa” è la risposta di un cammello.
“Andate pure, ma tornate qui alle sei quando si vota e mi raccomando
la puntualità ”.
Un istante prima del loro commiato sopraggiunge il cammelliere, capo
riconosciuto della corrente. Baci e abbracci o strette di mano e sorrisi, la
misura dipende dalla confidenza elargita a ciascun gruppo. I cammelli se ne
vanno quindi a zonzo sapendo di dover tornare quando serve se è vero che
non appena scatta l’ora x, e si aprono le urne, la hall si riempie nuovamente di quadrupedi. A quel punto ciascun “tirapiedi” distribuisce i fac-simile
delle schede, ovviamente, già precompilati. I cammelli girano i carteggi e le
rigirano nell’aria come fossero la cartina geografica nelle mani di un turista
sprovveduto. Puntano col ditino i nomi dei candidati e le mozioni collegate e chiedono: metto qui la croce? Più giù? Più su? Di là o di qua? Quando
finalmente hanno chiaro il punto dove far cadere la matita se ne vanno ad
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ingrossare le file davanti alle cabine elettorali. Votano e se ne vanno senza
aver udito nemmeno un solo discorso di tutti i politicanti che si sono avvicendati sul podio del congresso per arringare una platea semideserta.
Ogni uomo è moneta
La denominazione di “cammelli” riporta alla mente la storiella dell’avvenente fanciulla acquistata dal facoltoso sceicco in cambio di una mandria
di questi preziosi animali del deserto che non temono la sete. Il padre della
ragazza accetta i cammelli al posto del denaro. Questo significa che i cammelli sono stati utilizzati come un possibile sostituto della moneta corrente. Tutto ciò sembra essere confermato dall’analisi etimologica della parola “capitale” che deriva, appunto, dai capi di bestiame. Prima dell’avvento
della moneta coniata, il baratto, - lo scambio degli oggetti, ma anche degli
animali e quindi dei capi - era alla base di ogni commercio e l’addomesticamento degli animali e delle piante ha quindi coinciso con la nascita del
capitalismo primitivo. Chi disponeva di molti capi, possedeva quindi un
capitale. Attribuire il soprannome di cammelli ai delegati che partecipano
ad un congresso segna la regressione del denaro ad una delle sue tante
forme primordiali all’interno di un processo che vede un “agglomerato
umano” trasformarsi in merce commerciabile. Il bestiame è stato soppiantato dalle monete e la monete sono state tramutate nuovamente in corpi
biologici, quelli dei congressisti, il cerchio si chiude.
Per cui, per il politico moderno e più in generale per i partiti che fondano l’attribuzione del potere sulla base dei numeri, ogni uomo è moneta.
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Il canotto
Come emerso da una famosa inchiesta condotta da Striscia la Notizia
migliaia di cittadini si sono ritrovati misteriosamente iscritti alla Margherita
senza averlo mai chiesto. Sono stati tesserati, molto probabilmente, per
gonfiare i numeri delle correnti e nella speranza che il congresso si sarebbe chiuso con un esito “preconfezionato” e senza arrivare alla conta che assomiglia allo Showdown del poker, quando un giocatore dice: “Vedo le tue carte!”.
Quando un politico iscrive le persone a loro insaputa si dice che: “Ha
gonfiato un canotto per attraversare l’oceano” come dire che con i canotti e le tessere taroccate non si va da nessuna parte.
Le correnti
L’insieme delle tessere forma una corrente la cui forza sarà determinata tanto dal numero complessivo degli aderenti, quanto dalla quantità
di rappresentanti eletti nelle istituzioni o presenti nei vari enti satelliti. Il
partito è composto da una somma di correnti locali espresse dai quartieri,
dalle città e dalle regioni, che a loro volta, concorreranno alla creazione
delle correnti nazionali. Una corrente dopo essersi collocata all’interno di
una cordata mutua il suo nome in “componente”. Le componenti sono definite omogenee quando perseguono eguali linee politiche, eterogenee in caso
contrario. Pur avendo posizioni politiche opposte si incomincia a scalare il
potere venendo meno ai propri ideali.
Crociati e taumaturgi
Nelle cordate formate da componenti eterogenee può succedere che
prendano corpo alcuni conflitti programmatici dato che non si può essere
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allo stesso tempo laici e cattolici o animalisti e cacciatori. Come si riesce ad
accorciare le distanze e far convivere le diversità? Buona norma sarebbe
quella di sedersi a tavolino per trovare un punto d’incontro, ma ciò richiede tempo e fatica, meglio affidarsi a tecniche più sbrigative. La vecchia storia “del bastone e la carota” è certamente tra queste. Vediamo quindi come
funziona il bastone e come la carota che diventano “il crociato” e “il taumaturgo” nell’episodio che segue.
Un autorevole esponente del partito si leva a difesa dei cattolici bacchettando i gay. L’area del partito di cui fanno parte quelli che si battono
per i diritti civili, le “unioni di fatto” e altri temi simili, insorge duramente. Le
contestazioni si moltiplicano e in tanti annunciano l’imminente dipartita.
A queso punto, il partito argina l’emorragia di scontenti schierando una
punta, un leader della comunità gay che spegne tutte le animosità dicendo
che il “democratico crociato” ha parlato a titolo personale e quella “lavata di
testa” non rappresenta certo la linea del partito.
Missione compiuta: da un lato si è lanciato un segnale chiaro agli elettori cattolici e dall’altro si è riusciti a smentirlo rassicurando i gay. Un colpo
al cerchio assestato dal Crociato e un colpo alla botte inferto dal taumaturgo. Peccato solo che a forza di colpi, la botte si rompe.
Il crociato
CHIESA BOLOGNA. PD GELA I GAY: MANIFESTAZIONE INTOLLERANTE.
ACETO: OFFENDE TUTTI PER QUALCUNO CHE SBAGLIA, SERVE MODERAZIONE
(DIRE) Bologna, 24 apr. - Il Pd difende la Chiesa di Bologna, presa di mira oggi dalla manifestazione di Arcigay, Arcilesbica e Rete laica nel centro di Bologna contro le affermazioni
del cardinale Bertone in seguito allo scandalo pedofilia. Di”Intolleranza laicista”, parla
Pietro Aceto, responsabile Comunicazione del Pd. “In tutte le istituzioni ‘larghe’- sostiene il
democratico- può esserci qualcuno che sbaglia, però estendere a tutta la comunità ecclesiale le accuse di
Franco Grillini e’ un errore gigantesco e grossolano”. Per Aceto infatti “bisogna avere moderazione nell’esprimere concetti che offendono la dignità di persone oneste, caritatevoli e ben disposte ad aiutare il prossimo”. Inoltre “ingiusto e denigratorio” e’ inserire anche il leader nazionale del Pd Pierluigi
Bersani, accusato dai manifestanti di avere espresso solidarietà a senso unico per Bertone,
nel novero dei “baciapile” del Vaticano. “Bersani si e’ sempre dimostrato spirito aperto, laico e rispettoso di tutte le appartenenze”, sottolinea Aceto.
Gli insorti
Come da copione il PD difende chi ci insulta quotidianamente (e ci insulta tutti noi omosessuali, non solo quelli che sbagliano...). Non ricordo tanto impeto da parte del PD nel
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difendere la dignità delle persone omosessuali insultate.
Quel che è peggio il PD difende chi usa la propria influenza e credibilità sociale per nascondere abusi sessuali perpetrati nei confronti di bambini e, ancora una volta, nella dichiarazione rilasciata non c’è una sola parola per le vittime.
A mio avviso non vale la pena aggiungere altri commenti, siamo alle solite: il partito di “sinistra” difende i reazionari e finisce per essere più monarchico del re. Va bene così. D’altra
parte penso che ormai sia evidente a tutti cosa interessa davvero al Partito Democratico: i
voti (dei cattolici).
Di bugia in bugia, il mio voto se l’è giocato da un pezzo e credo di essere in buona compagnia.
Materiali tratti dalla nota di Sandro Mattioli su Facebook: Il Pd difende la Chiesa di Bologna (http://www.facebook.com/notes/sandro-mattioli/il-pd-difende-la-chiesa-dibologna/390267536737)
Il taumaturgo
Pietro Aceto ha parlato a titolo personale. Io non ho replicato perché ero a Londra e sono
tornato ieri sera. Oggi ho scritto due righe sul sito dell’Uaar che mi aveva chiesto il mio
parere:
Questo fine settimana sono stato all’estero e non ho avuto modo né di partecipare alla
manifestazione contro la pedofilia di sabato scorso né di leggere le reazioni alla manifestazioni prima di ieri sera. Ho letto con stupore le dichiarazioni di Pietro Aceto, che ovviamente non condivido, ed ho verificato subito con il segretario del PD di Bologna Andrea De
Maria se quelle dichiarazioni fossero state concordate con altri. Come ero certo, si tratta di
dichiarazioni personali non concordate né condivise dal PD di Bologna.
Per quanto riguarda il mio pensiero sull’argomento, ne ho scritto a più riprese sul mio blog
…Il segretario del Pd di Bologna mi ha confermato che la dichiarazione non solo non era
concordata ma non era da lui condivisa. Capirete quanto mi sono girati i girabili quando ho
letto (purtroppo due giorni dopo) quella dichiarazione. Però, ragazzi, non fatemi la scortesia di dire che se dico una cosa io parlo solo a nome mio e se la dice Aceto allora quella è
la linea del Pd!
(http://www.sergioloGiudice.it/blog/2010/03/21/pedofilia-e-omosessualita-cronaca-di-un-depistaggio/
http://www.sergioloGiudice.it/blog/2010/04/14/ma-mi-faccia-il-piacere/)
Immagine tratta dal sito www.chiesaviva.com
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Il Capobastone
Ciascuna corrente dipende da un capobastone (o capo corrente che
dir si voglia) che è stato delegato alla trattativa con gli altri capi dai membri del raggruppamento. Quasi sempre si tratta di Parlamentari o di eletti
che dispongono del denaro necessario per stipendiare un congruo numero di meccanici che faranno funzionare la “macchina” nel modo migliore. Le
risorse economiche del capo corrente servono inoltre, come si dice in
gergo, per “coprire le tessere”.
Il tirapiedi
Il tirapiedi è una sorta di maresciallo del capo corrente. È anche detto
sottopancia. Si tratta principalmente di un coordinatore delle risorse umane,
un po’ segretario, un po’ factotum, alle volte “imminenza grigia”, altre volte
“dog - sitter” e procacciatore di svaghi. Con l’avvento dei “social - network“ la
figura del tirapiedi si è molto evoluta diventando una sorta di “copia supplente”, un clone del capo che chatta e scrive post come se fosse il capo stesso
dal quale è stato costretto ad assorbire non solo il pensiero politico, ma i
tratti comportamentali, le battute di spirito e le espressioni ricorrenti.
I tirapiedi sono spesso utilizzati come assistenti durante le campagne elettorali del leader e dei suoi sottoposti. Dopo la proclamazione degli eletti, i
tirapiedi che li hanno serviti sono assunti come assistenti o segretari particolari, capi di gabinetto, addetti stampa, consulenti e messi così in carico ai contribuenti. Un Sindaco, per esempio, ha diversi tirapiedi: il suo sottopancia
personale, un altro indicato dal partito e un altro ancora indicato dalla corrente. Se il Sindaco viene da un’altra città si porta dietro il tirapiedi che aveva
nel luogo dal quale se n’è andato aggiungendo un altro fardello ai tre previsti
dall’etichetta.
Durante ogni congresso il tirapiedi sgrava il capobastone dal lavoro
logistico necessario allo spostamento della corrente. Deve informare gli
iscritti sulle date e il tempo richiesto, affitta pullman, prenota i biglietti del
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treno, spedisce mappe fotocopiate e lettere di richieste. Telefona e discute
le richieste dei leader territoriali o dei “pacchettari” (detentori di pacchetti di
tessere). Prenota l’albergo per il soggiorno dei tesserati (o dei delegati
dipende dalla natura del congresso). Organizza gli incontri del capobastone, indice riunioni e sceglie i ristoranti più adatti agli incontri riservati. I
capi bastone utilizzano i tirapiedi soltanto quando hanno piena fiducia in
loro e la prima qualità richiesta è quella di non essere coinvolti nelle vicende del partito. È capitato che questi fidati segretari siano perfino appartenuti ad altri partiti se non addirittura alle file degli avversari.
Il capo cordata
Il capobastone che riuscirà a realizzare l’alleanza più estesa è destinato a diventare il leader della cordata e da quel momento sarà conosciuto da
tutti con il nome di capo cordata, futuro numero uno del partito. Per riuscire in questa impresa titanica dovrà garantire uno spazio di visibilità adeguata a ciascuna corrente e ripartire oculatamente, e in anticipo, tutti i benefici che deriveranno dalla vittoria. Molto probabilmente la “collettivizzazione
del successo” deve la sua diffusione a questa prassi consolidata. Ancora una
volta, maggiori saranno i debiti contratti dal capo cordata e maggiore sarà
il controllo che i capi bastone eserciteranno su di lui secondo l’immortale
“regola dell’ostaggio”. Per questo motivo, i leader politici appaiono sempre più
deboli e meno carismatici dei loro predecessori, ma nonostante tutto continuano a governare fino a che non vengono dismessi dagli stessi uomini
che li hanno incoronati.
L’Agente arancio
Il capo corrente che organizza una corrente dovrà procurarsi le risorse di tasca propria oppure trovarsi uno sponsor. Nel secondo caso, può
anche accadere il contrario e cioè che sia lo sponsor a chiedere ad un politico di vestire i panni del leader per formare una corrente. Questo perché
lo sponsor, trasformato in un burattinaio, ha tutto l’interesse a restare
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nascosto così da non destare sospetti quando sarà ripagato con appalti e
quant’altro.
Le risorse economiche utilizzate in questo genere di operazioni sono
veicolate da galoppini comunemente chiamati agenti arancio. Per chi non lo
sapesse l’erbicida usato in Viet Nam, meglio noto come l’Agente Arancio, era
utilizzato dagli americani per rimuovere le foglie dagli alberi e spogliare le
foreste tropicali che nascondevano il nemico. Il termine agente arancio
viene quindi preso in prestito dalla storia moderna per descrivere il lavoro
di chi, recandosi da un finanziatore, riesce a fargli perdere le foglie e cioè il
denaro, le banconote, necessarie alla realizzazione di un progetto politico.
L’ufficiale di reclutamento
Come dice la parola stessa è la figura strategica che si occupa di procacciare i cammelli per conto del capobastone o più in generale di un politico che si presenta per la prima volta ad un congresso. L’ufficiale di reclutamento è l’uomo delle false promesse, pragmatico e spontaneo, disposto
a tutto pur di riuscire a coinvolgere il maggior numero di persone Non è
un caso se rimanda l’assolvimento delle promesse al giorno dopo la fine del
congresso. Assomiglia ai due Marines che nel film“Nato il 4 luglio ” vanno
in visita ai licei per illustrare le “fortune” del combattente. Nessuno ha mai
il piacere di incontrarli dopo aver perso le gambe su una mina.
Le mosche cocchiere
Alle mosche cocchiere è attribuito l’ingrato compito di trasportare i
cammelli renitenti al congresso. Quando le votazioni volgono al termine e
la vittoria è incerta, i capi bastone sguinzagliano un esercito di tirapiedi
motorizzati. Consultando una minuta riempita di indirizzi e numeri di telefono le “mosche cocchiere” vanno di casa in casa costringendo gli ultimi iscritti ad uscire di casa per recarsi al congresso. Corrono senza risparmiarsi da
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una parte all’altra della città, in macchina, in taxi o su orde di motorini
sgangherati, consapevoli che anche un solo voto potrebbe fare la differenza. Usano i più biechi ricatti e ogni inimmaginabile pressione per caricare
in auto quei cammelli che si sono persi per la strada.
Il pontiere
Il pontiere è un’altra figura emblematica in grado di determinare l’esito di un congresso. Se il capobastone è il generale che muove le truppe sul
campo, il pontiere è il diplomatico che lo precede. Se fosse un pezzo degli
scacchi sarebbe la torre che guarda lo spiegarsi geometrico delle truppe sul
campo, una via di mezzo tra una prostituta d’alto bordo e Machiavelli.
Il pontiere entra in scena quando si riesce a quantificare l’estensione esatta delle correnti. La strategia che persegue più di frequente è quella
che si fonda sulla costruzione di un’area formata da fazioni che sono sempre state avverse. La sorpresa e l’alleanza impossibile, sommate l’una all’altra, possono diventare un’arma dirompente. Il pontiere si mostra intelligente, affabile e deve dare l’idea di vivere al di sopra delle mediocrità senza
per questo apparire presuntuoso. La sua storia personale deve esibire un
alto profilo, un vero pontiere non deve essersi mai piegato apertamente ad
un capobastone ricevendo incarichi, soldi o favori dozzinali. Neanche deve
aver mai preso parte ad un gioco meschino o aver pagato buffoni, lestofanti e delatori di professione. Infine deve disporre di un discreto pacchetto di tessere, o altri benefici, da mettere in gioco.
Il cavallo ruffiano
Sappiate sempre distinguere il pontiere dal “Cavallo ruffiano”. Alcuni allevamenti equini, per accelerare i tempi di monta degli stalloni, usano far scaldare le puledre da un altro cavallo dalla razza incerta, ma dal temperamento
focoso. Sottratto alla femmina sul più bello lascerà il posto allo stallone di
razza. Un pontiere che alla chiusura di un accordo cede il suo posto allo sponsor o ad altre “eminenze grigie”, prende il nome di “Cavallo ruffiano”.
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I buffoni di corte
Per capire quali saranno gli
scenari congressuali i capi bastone liberano degli squallidi personaggi che di peggiori non se ne
trovano. Questi sono i buffoni di
corte, cagnetti attaccabrighe,
discendenti diretti dei “giullari”
che infestavano le corti medioevali. Sono stati addestrati alla
semina del vento che precede
l’immancabile tempesta.
Il Dott. Bovoli de Basoli (da giovane e senza gli occhiali da miope)
Attaccano gli avversari sui giornali, li bistrattano pubblicamente durante i comizi e spargono infamie nei
social - network e in tutti newsgroup dispersi nella rete. Si tratta di “mezzi uomini”, ciarpami di bassa lega, contro i quali si può sempre agire legalmente,
ma solo dopo aver deciso di perdere le spese processuali e l’onorario dell’avvocato. Non a caso tutti i buffoni sono dei “nullatenenti” che possiedono soltanto il proprio livore, quella cattiveria senza fine che ti vomitano
addosso quando ti vengono a cercare.
Come dicevo, ogni buffone è un innesco che riesce a far esplodere la
“friggitoria precongressuale” con qualche giorno d’anticipo sul congresso. Ne
dicono di tutti i colori sull’avversario che vogliono colpire e continuano ad
insultarlo fino a quando i difensori del diffamato, usciti allo scoperto, permettono al committente del buffone di tratteggiare il profilo della cordata
nemica che si presenterà al congresso.
I buffoni usano spesso nomi di fantasia. Alfredo Roccione, magazziniere
e filosofo, no global, durante il fine settimana si esprimeva a nome di tutto
il movimento cittadino all’interno del quale, ovviamente, nessuno sapeva
chi fosse. Poi c’era Flavia Vento, che non dispensava giudizi da velina, ma i
rimproveri severi di “una giovane cittadina” come lei stessa era solita firmarsi. Invece, l’anonimo mirabolino, profeta e professore in pensione, meglio
conosciuto come il bieco Bovoli, malgrado firmasse i libri con uno pseudonimo, durante i pubblici dibattiti preferiva attaccare a viso scoperto.
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Il bieco Bovoli
Il “bieco” Bovoli, all’anagrafe Alberto Basoli de Bovoli, mi ha perseguitato
per anni. Era un buffone insolito, assai tenace nel perseguire la distruzione
dell’avversario, un maestro nell’inventarsi accuse infondate. Aveva intuito
molto prima di altri che ogni diffamazione che si rispetta dev’essere
costruita partendo da una “mezza verità”. Se dicevi ad un tale che avresti
denunciato le sue malefatte e quelle della moglie stampando un manifesto
da affiggere sulla pubblica piazza, il luciferino Bovoli scriveva ai giornali
affermando che avevi minacciato di morte e con modi mafiosi alcuni compagni e le loro famiglie.
Quando mi capitò di chiedere ragione a Bovoli di quel suo modo
di fare mi rispose che considerava la realtà come creta, un materiale informe che attendeva di essere sottratto all’oscura incomprensibilità del
mondo. Disse di parlare spesso con la verità e di ricevere da parte sua tutto
il riconoscimento possibile.
Da affermazioni come queste avresti detto che era visibilmente
affetto da demenza, e invece, per via di un’incomprensibile lucidità che talvolta attraversa la follia più allucinata, sapeva fare il mestiere di calunniatore meglio di chiunque altro. Lo sentivi compiacersi di come una bugia, se
ripetuta per un numero imprecisato di volte, potesse trasformarsi in una
verità riconosciuta e tutte le volte, per dimostrare questa tesi, ti rammentava di questo o di quell’altro poveretto ai quali era riuscito ad appioppare
una nomea di tutt’altra natura da quella posseduta.
Questa era la gente con la quale sono stato costretto a vivere per servire il popolo e ditemi voi, signore e signori della Giuria, se non avrei meritato, solo in virtù di tutta la pazienza che ho speso in nome di una tenace resistenza, di essere premiato anziché abbandonato ad un malconcio destino da
pugile suonato.
Non saprei dire se Bovoli fosse massone - dubito che i massoni
accettino gente di questa fattura - ma si vantava di essere un esperto di esoterismo, e soprattutto un profondo conoscitore delle profezie di
Nostradamus. Non ci sarebbe stato da preoccuparsi se non fosse che illustri
Ministri e Consiglieri Regionali gli avessero pagato la stampa dei saggi sul
veggente occitano in cambio dei ferali servizi che dispensava. I rappresen221
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tanti più alti delle istituzioni si mescolavano ai rappresentanti più bassi e
abietti del sottobosco politico. C’era persino chi organizzava reading letterari dai quali gran parte del pubblico, giunto per ricambiare un favore al consigliere regionale Daniela Arregu, si defilava a gambe levate allo spegnersi
delle luci. Il bieco Bovoli non appariva insolito solo nel comportamento,
ma anche nell’aspetto esteriore. A vederlo avresti detto che si trattava una
creatura nata dalla mente di David Lynch (Eraserhead). Indossava pantaloni
dal cavallo alto abbottonati sopra lo stomaco, così corti che lasciavano
intravvedere i calzini. Le giacche di velluto marrone gli calavano malamente sulla camicia a quadretti come gli stracci indosso ad uno spaventapasseri. Attraverso le lenti degli occhiali, quelle spesse da miope, s’intravvedevano due perle grigiastre che ricordavano gli occhietti di un grosso topone.
Benché se ne andasse in giro così conciato non mi ha mai suscitato ilarità,
anzi, emanava la stessa inquietante ambiguità infantile di un film di Tim
Burton. Interrompeva puntualmente i miei interventi durante i congressi
additandomi come la reincarnazione di un despota tutte le volte diverso.
Questa considerazione, derivata da una quartina interpretata la sera precedente all’apertura dei lavori, avrebbe dovuto convincere i presenti a sbarrarmi la strada il prima possibile. Malgrado non mi dispiacesse affatto di
essere accomunato a tanti illustri personaggi della storia, tolto naturalmente Adolf Hitler, non gradivo assolutamente questo genere di intermezzi e se
avevo la malaugurata idea di rispondere a tono si alzava di scatto dalla sedia
roteando i pugni e gridava anatemi in latino nella mia direzione. Dopo di
che si precipitava sotto al palco e mi gettava manciate di sale che teneva in
tasca. I pochi presenti lo lasciavano fare ridacchiando della sua follia. Lui
credeva di essere divertente, al contrario, quelli che non erano spaventati da
una siffatta cattiveria d’animo, ridevano delle sue stramberie. In realtà, la
vita di quel povero uomo nascondeva un passato di tristi vicessitudini.
Professore di liceo, attivo nel volontariato, era incappato in un fatto
tanto grave da farlo finire alla gogna. Responsabile di un comunità di recupero di ex-tossicodipendenti lasciò senza controllo uno dei suoi assistiti
che trucidò la fidanzata a coltellate. Affranto dal giudizio degli altri, criticato e colpevolizzato, decise da quel momento che avrebbe scaricato sul
prossimo tutto il male ricevuto. Per questo fu facile per molti miei compagni additarmi ai suoi occhi spiritati come l’incarnazione di tutti coloro che
lo avevano fatto a pezzi ai tempi della disgrazia che rovinò la sua vita.
Come avrebbe detto Salomon, le storie ci permettono spesso di capire tante
cose, in questo caso quella feroce follia che possedeva un pover’uomo, grande esperto di congiure e maldicenze.
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Onoff man: l’uomo acceso-spento
Yesman! Chi non ha mai sentito parlare di loro? Sono gli uomini assenzienti che dicono sempre di sì. Il partito ordina e loro eseguono. In politica ce ne sono una moltitudine, ma nonostante ciò si tratta di un articolo
esaurito per via delle ingenti richieste.
Meno frequenti, sebbene siano più interessanti dal punto di vista fenomenologico, sono gli Onoffman, gli “uomini acceso – spento” che agiscono
come se fossero un codice binario e non hanno stati intermedi tra il manifestarsi e l’assenza di uno stato di coscienza.
Un mio collega che si chiamava Delly Lombar viveva due vite parallele,
quella del consigliere comunale e quella di funzionario di partito. In cinque
anni non l’ho mai sentito pronunciare una sola parola nei corridoi, in anticamera o per la strada. Giungeva silenziosamente in Comune e altrettanto
silenziosamente se ne andava. Pareva affetto da un mutismo di natura ascetica e il corollario di espressioni che comparivano sul quel viso da eremita
si riducevano a non più di due: l’espressione impassibile e l’altra impassibile. In quali circostanze si vedeva costretto ad infrangere il voto del silenzio? È presto detto. Capitava che durante una seduta di commissione, o nel
bel mezzo di un consiglio comunale, squillasse improvvisamente il cellulare di Delly Lombar. Il soldato silenzioso rispondeva sottovoce, quindi
ascoltava attentamente per un paio di minuti e infine riponeva l’apparecchio nella tasca. Qualcuno aveva chiamato dalla sede del partito per informarlo della posizione da assumere in merito all’argomento messo ai voti in
quel momento. Ciò accadeva solo quando il capogruppo delegato ufficialmente alle “prese di posizione” era assente o irraggiungibile.
A quel punto, Delly Lombar si accendeva per emettere i vocaboli di
un discorso, mai troppo lungo, mai troppo corto, mai pronunciato con
enfasi o facendo uso di termini ricercati, mai risentito o complimentoso.
Un capolavoro di atonalità simile alla lettura delle didascalie che si trovano nel libretto di istruzioni allegato a una lavastoviglie tedesca. Dopo di
ché si rimetteva a sedere spegnendosi fino alla successiva telefonata.
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Il baleniere, cacciatore di cani sciolti e perdute speranze
Non tutto il pubblico di un congresso é orientato nella scelta. Ancora
oggi continua a sopravvivere in tutti i partiti di sinistra una frazione di “cani
sciolti” composta dai “reduci” (ex comunisti, ex sessantottini, ex di qualcosa), dai “giocatori di ruolette russa” (quelli che si sono iscritti per corrispondenza sospinti solo dalla curiosità), dai militanti “non praticanti” (coloro che
passavano di lì per caso) e dai Peones che per varie ragioni non hanno mai
fatto parte di una cordata vincente. Il partito, stando all’opinione di questi
iscritti “non allineati”, è finito nelle mani dei “soliti noti” che lo hanno sempre usato, e continueranno ad usarlo, per fare carriera. Se tutti questi “cani
sciolti” non se ne vanno lo si deve alle strategie attuate dai dirigenti che puntano alla riduzione degli abbandoni. I balenieri devono quindi dimostrare
di essere dei veri rivoluzionari, leader indipendenti, avulsi alle logiche di
potere, allergici ai rituali e acerrimi nemici degli intrecci tra affari e politica. Sono il nuovo, e, come tali, si mostrano indomiti ed entusiasti, straboccanti di idee come un fiore lo è di nettare in estate. Insomma, possiedono
tutto quello che serve per arpionare i “cani sciolti” che hanno già un piede
fuori dalla porta. Cosa sarebbero state le primarie del Pd del 2009 se non
avesse partecipato l’illustre baleniere Ignazio Marino? Un avvilente scontro
interno tra due correnti. Non a caso, durante le presentazioni delle tre
mozioni, lo schema si è sempre ripresentato identico ogni volta. Gli interventi del pubblico in sostegno della mozione del famoso chirurgo erano
sempre molto duri nei confronti del Pd e dei suoi dirigenti, disillusi e anche
Un rappresentante della corrente dei “giocatori di roulette russa” (John Savage nel film “Il cacciatore” di M. Cimino)
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un po’ malinconici, ma non si sono mai conclusi
con la considerazione che era giunto il momento
di abbandonare il “progetto democratico”. Meglio assistere ancora ad un giro di pista concedendo un’altra chance al partito. Non è stato quindi un caso se
Marino è andato ben oltre le aspettative malgrado
avesse dietro di sé un gruppo di sostenitori giovani e non professionisti.
Sergio Gaetano Cofferati
Il Deus ex machina
Il Deus ex machina, comunemente detto “briscolone” dalle parti di Bologna,
è un candidato completamente estraneo alle correnti politiche presenti all’interno di un territorio. Se in una regione sussistono conflitti insanabili tra “correnti - enclavi” che continuano ad indire congressi con un dissanguamento estenuante del partito, i dirigenti nazionali, fanno apparire all’improvviso - come
gli Dei che scendevano sul palco delle tragedie greche - una candidatura “super
partes” e fuori dai giochi. Così facendo, tutti i capi corrente penseranno di avere
le stesse possibilità di accreditarsi al nuovo arrivato che si ritroverà con tutte le
porte aperte e un clima disteso dal quale ripartire. Il plebiscito che ne consegue blinda sempre, nel bene e nel male, ogni decisione futura del leader disceso dal cielo. Un esempio di Deus ex machina, traslato in campo elettorale, lo
si ritrova nella candidatura di Sergio Cofferati avvenuta a Bologna nel 2004.
Dopo le amministrative del 1999 che avevano visto il centrosinistra sfasciarsi
sotto i colpi delle faide interne consegnando Bologna alle destre, la discesa dall’alto del Cinese era l’unica via d’uscita per la coalizione. Tutti lo accolsero con
gioia facendolo camminare sulle palme, ma poi, passate le elezioni, si accorsero che avrebbe governato la città senza piegarsi alle richieste delle consorterie e
dei “gran ciambellani” che da tempi memorabili hanno sempre vissuto succhiando il sangue all’Amministrazione Comunale. Anzi, l’ex sindacalista della Cgil
mosse i primi passi in senso contrario, tagliò le teste inutili, azzerò gli sprechi
furbeschi e diede il via ad una serie di riforme che infransero la maggior parte
delle rendite di posizione considerate intoccabili fino a quel giorno. A quel
punto, l’odiarono tutti e tutti si coalizzarono per cacciarlo.
Alle volte si scende dal cielo, ma ti costringono ad uscire dalla porta di
servizio.
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Il falso nemico e le aringhe rosse
“Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico. La voce
che li comanda è la voce del loro nemico. E
chi parla del nemico è lui stesso il nemico”
Bertolt Brecht, “Breviario tedesco”
La storia insegna che il nemico non può essere lasciato a se stesso.
Tutt’altro! È necessario conoscerlo bene, frequentarlo, parlarci e se serve
finanziarlo o, all’occorrenza, proteggerlo. Bisogna avere con lui un solido
rapporto che sfiori la più sincera amicizia perché “è più facile concludere accordi, se questi vengono conclusi al piano attico, su di un terrazza dove tutti si conoscono”
(Five Mons Square).
Questa strategia viene spesso confusa con il fenomeno del “consociativismo”, ma si tratta di una dinamica molto più raffinata del banale patto di
spartizione dei benefici tra una maggioranza di governo e una minoranza
di opposizione. Siamo nel campo dell’alta politica. Devo dire che non presi
coscienza della “strategia del falso nemico” dopo aver letto Brecht, ma grazie ad
un bellissimo film italiano. Una sera giunsi a casa giusto in tempo per vedere l’inizio de La piazza delle cinque lune. Comparve il volto di un indimenticabile Donald Sutherland che nel film interpreta un vecchio magistrato in
pensione alla ricerca della verità sull’assassinio di Aldo Moro. Ad un certo
punto della storia s’imbatte in un uomo definito “entità” che spiega come
gli americani siano riusciti a controllare le Brigate Rosse, ma ciò che m’interessa maggiormente non sono le conclusioni alle quali arriva lo spettatore,
bensì il metodo. Cito a memoria:
“Molti anni or sono, a Parigi” – racconta il misterioso agente segreto – “…esisteva una scuola per interpreti chiamata Hyperion. Aveva
lo scopo di formare, addestrare e organizzare, le classi dirigenti dei
più efferati gruppi terroristici internazionali come l’Eta o l’Ira. Solo
in seguito si è scoperto che dietro all’Istituto, come in un gioco di
scatole cinesi, si nascondeva la Cia”,
Gli americani, in prima persona, favorivano la nascita dei luoghi dove
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si potessero annidare i loro nemici. Era come se avessero deciso volontariamente di covarsi “la serpe in seno”. Siamo di fronte alla riproposizione in
chiave strategico – politica dell’occupazione delle nicchie ecologiche che se
lasciate libere saranno prima o poi occupate dai cosiddetti animali colonizzatori. Per lo stesso motivo e cioè per impedire ad un nemico sconosciuto
di occupare una posizione, la Cia favoriva la nascita e l’insediamento di un
“nemico conosciuto”. A quel punto rammentai la cura adoperata per combattere il cancro del castagno. Mi era stata suggerita da un fitopatologo per guarire il castagneto di mia madre affetto da una strana infezione che screpolava le cortecce degli alberi e ingialliva le foglie. I tecnici avrebbero inoculato un ceppo virale addomesticato in grado di spodestare il virus all’origine dell’epidemia in corso. Questo secondo virus aveva rinunciato ad essere letale imparando a convivere con le piante senza necessariamente doverle uccidere come invece faceva il predecessore. I vecchi saggi orientali
hanno intuito che le nature universali, come il virus del Castagno, non sono
integre perché: “non c’è male che non contenga un po’ di bene e non c’è bene che non
contenga un po’ di male” e certamente non avrebbero mai immaginato che un
principio di questo genere avrebbe avuto le più diverse applicazioni, dalla
biologia alle scienze politiche, per finire ai congressi dei partiti.
Sono pochi i capi bastone che riescono a mettere in piedi una strategia congressuale simile. Quando succede creano per i loro nemici, ancora
non organizzati, un leader fantoccio che afferma di essere il più grande
nemico del suo creatore occulto. Il fantoccio inizia a raccogliere adesioni
che non tiene per sé, ma inocula all’interno della corrente avversa al burattinaio. I capi della cordata penseranno di aver avuto una linea politica premiante, e, cosa ancor più importante, non promuoveranno altre iscrizioni
avendone già tante. Così facendo, i nemici dello stratega si chiuderanno
nella trappola con le loro mani fidandosi del gruppo di “neo tesserati” misteriosi. Al congresso, il falso nemico e la folla di nuovi iscritti non si faranno
vedere lasciando i nemici dello stratega da soli, agnelli belanti in balia del
lupo.
Alle volte la strategia del “falso nemico” è conosciuta anche con il nome
di “aringa rossa” anche se, per essere più esatti, si tratta di una variazione sul
tema. L’arringa rossa non presuppone necessariamente la presenza di un
antagonismo tra leader diversi e indica generalmente l’utilizzo di “specchietti per le allodole” o di “false piste” come spiega la libera enciclopedia Wikipedia:
“L’espressione Aringa Rossa deriva sia dall’usanza di salare e affumicare le
aringhe (che con questo trattamento diventano rosso brunastre) per conservarle a lungo, ma anche dai trucchi in uso ai vecchi bracconieri. Le arin227
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ghe affumicate, durante le campagne di
caccia, potevano essere usate da un cacciatore per sviare i cani dei concorrenti
su false piste”
Le elezioni, di qualsiasi natura esse
siano, pullulano di “aringhe rosse”. Le si
usa per spaccare il quorum degli avversari, e cioè quell’insieme compatto di voti
che solitamente converge su quei partiti che si sono costruiti una solida
fama negli anni. Si incomincia clonando il partito da indebolitre che si
ritrova, così facendo, in competizione con un aringa rossa molto più
agguerrita e radicale di lui. Dopodiché si creano le condizioni affinche l’arringa possa nuotare nell’acquario elettorale attirando gli elettori nemici sul
simbolo di un “falso nemico”.
L’autenticazione delle firme necessarie alla presentazione di liste apertamente fasciste alle elezioni del 2005, avvenuta per mano di alcuni politici di sinistra, rientra perfettamente in questo schema . Macchiavelli insegna,
il nemico del mio nemico è mio amico:
“Un consigliere provinciale della Quercia “autentica” le firme della lista
Mussolini per le regionali. Atto formale, notarile, ma dalle immediate
conseguenze politiche. Il diessino protagonista della vicenda è Renato
Ballotta, che spiega così il suo ruolo: “Me lo hanno chiesto alcuni conoscenti di Forza Nuova, che erano in difficoltà. Resto convinto della correttezza istituzionale del mio comportamento. Ho solo garantito un diritto. E ora non si dica che ho “sdoganato” i fascisti. Non ho portato io le
firme in Tribunale, ho solo messo il mio nome sugli elenchi”. La capogruppo Ds a Palazzo Malvezzi, Gabriella Ercolini, prende subito le
distanze: “Iniziativa personale del consigliere Ballotta della quale non
sapevo nulla”. Ma a polemizzare è il deputato di An Enzo Raisi: “L’ Ulivo
ha fatto la stessa cosa anche in Toscana. Si chiarisce ora a chi sono funzionali le liste della Mussolini, c’è un piano nazionale dei Ds per legittimare Alternativa sociale contro la Casa delle Libertà e contro An in particolare. Vorrei sapere come ha fatto Ballotta a autenticare la lista
Mussolini. Si è seduto allo stesso banchetto di Forza Nuova per controllare e identificare centinaia di firmatari? Sono curioso di sapere come si
giustificherà la Quercia il prossimo 25 aprile”.
(Andrea Chiarini su La Repubblica del 6 marzo 2005, Ed. Bologna)
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Il cilindro del prestigiatore
Cosa ha in comune la “terrina di rombo con astice e salmone in macedonia di
quinoa alle mandorle tostate e salsa gazpacho” con l‘aristocratica tuba inglese del
prestigiatore? Nel mondo dei comuni mortali c’entra ben poco, ma quando si parla del “trucco della tuba” possono essere considerate come le due
facce di una medaglia. Ecco dunque che nel doppio fondo della tuba,
meglio conosciuta come il “cilindro del prestigiatore”, non si nascondono solo
colombe bianche e coniglietti, ma ben altri articoli che non svelerò per non
rompere la suspense.
A Imola in questo piccolo, ma decisivo seggio della provincia di
Bologna, il risultato congressuale del partito verde è sempre stato identico
fin dalla notte dei tempi e cioè da quando Daniela Arregu fu eletta consigliere regionale per la prima volta. Da allora è andato in scena sempre lo
stesso trucco. Se funziona, perché cambiare? Mormorava sempre il Dott.
Cianolu, braccio destro dell’Arregu, più fidato di un notaio e più attento di
un cane da guardia. Era lui che prima dell’inizio delle operazioni di voto
posizionava l’urna nella cabina elettorale. Come era preciso quando la sigillava e come seguiva le regole attentamente. Tutte le regole, tranne una: l’urna non era mai vuota. Se qualcuno avesse controllato avrebbe scoperto che
conteneva un certo numero di schede già votate a favore della corrente
“Arregu, Cianolu & figli”. A ciò si aggiunga che la signora Arregu era bravissima nel distogliere l’attenzione dei rappresentanti di lista inviati sul posto
dai suoi concorrenti. Queste sentinelle che avrebbero dovuto controllare lo
svolgersi regolare del congresso, o quantomeno confrontare il numero dei
partecipanti al congresso con le schede votate, hanno sempre preferito partecipare ai pranzi pantagruelici, divenuti poi leggendari, offerti dall’Arregu.
Banchetti luculliani che da mezzogiorno si protraevano fin quasi alla sera, ai
quali nessuno ha mai saputo opporre resistenza.
Questo insegna che quasi sempre sono le strategie più semplici a sortire i risultati migliori e si può dire che in questo caso la vittoria non la fecero gli iscritti al partito verde, ma il cuoco del rinomato San Domenico e come
si può facilmente intuire, “Uova mollet in crosta di pane con caviale, tortelli di ricotta, maggiorana e cannella in salsa di pachino e cialda croccante” possono valere
molto di più di un buon pacchetto di tessere.
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Il broglio voluto
Truccare le votazioni di un congresso è molto complicato, certamente non impossibile, ma è molto più facile riuscire a far credere che qualcuno abbia inquinato il procedimento così da poter chiedere l’annullamento
del congresso o quantomeno riportare la decisione in seno agli organi giudicanti del partito. In fondo, basta qualche banale incongruenza per mandare tutto all’aria e come ho già ripetuto in diverse occasioni, una legittimazione adombrata dai sospetti è quanto di meglio ci possa essere per esercitare il controllo sul neoeletto segretario.
L’arma del broglio é quindi giocata quando la sconfitta è pressoché
certa oppure quando il futuro trionfatore locale è sgradito alle dirigenze
nazionali che non sono riuscite a batterlo democraticamente nella sede
congressuale. Un broglio si mette a segno molto facilmente, basta inserire
nell’urna qualche scheda in più rispetto al numero dei votanti registrati.
Prima di tutto bisogna clonare la scheda di voto. Non è difficile, basta fotocopiare i fac-simile che girano tra le correnti un giorno in anticipo sulle
votazioni. Se invece non si dispone di un facsimile a portata di mano si può
sempre sottrarre una scheda al momento del voto. La confusione è tale che
nessuno presta mai la giusta attenzione all’inserimento nell’urna della scheda, ma se qualcuno dovesse aguzzare la vista si può sempre infilare un
foglio bianco al posto della scheda vera avendo cura di trattenere l’originale. La scheda sottratta, fotocopiata in una tabaccheria vicina, sarà consegnata ai complici che voteranno nel corso della giornata. Ottenute le copie
non resta che falsificare la vidimazione del Presidente del seggio. Non
importa neppure sforzarsi di falsisicarela firma perché le schede saranno
usate come prove per invalidare l’intero procedimento. Ricordo di un commissario che pensò di sventare un broglio dotandosi di un timbro. Il tirapiedi di un capobastone se ne accorse e si procurò un tappo di spumante.
Dopo averlo tagliuzzato lo usò a sua volta come valido sostituto del sigillo
originale.
Fogli bianchi, firme fasulle e schede taroccate in sovrannumero faranno impazzire gli scrutatori, litigare la presidenza e daranno il via ai ricorsi
e alle richieste di annullamento. Questo genere di contenziosi sono risolti
da Giurì e Collegi di Probiviri composti generalmente da avvocati radiati dal230
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l’albo e interdetti dai pubblici uffici al servizio di questo o quell’altro potentato. Se la democrazia si fonda sui partiti, i partiti si fondano su delle vere
e proprie truffe sulle quali nessuno indagherà mai. Questo è il più grande
paradosso dei nostri tempi.
L’unghia del diavolo
L’unghia del diavolo è un trucco poco diffuso che solo uno specialista
della contraffazione elettorale è capace di mettere a segno. Si dice che sia
utilizzato, non soltanto ai congressi, ma anche alle elezioni vere e proprie.
Prima di tutto bisogna riuscire a far entrare “il nostro uomo all’Avana” nel
comitato degli scrutatori. Sotto l’unghia del pollice - che deve essere lasciata crescere appena un po’ più delle altre, ma non così tanto da attirare l’attenzione - dovrà essere incollato il frammento di una mina di matita.
Generalmente si usa una colla “a presa rapida” e l’Attak è di gran lunga la
marca preferita. Immaginate che allo specialista, quando si trova a scrutinare le schede, ne capiti una bianca. Infilerà il pollice tra le due ante e mantenendo nascosto il dito sfregherà l’unghia sul simbolo da segnare. Alcuni
nel farlo tossiscono, altri chiedono chi ha bussato così che quando tutti si
girano in direzione della porta fanno scattare l’unghia.
La stanchezza dei presenti è sempre un grande alleato, ma non sempre si
riesce a tracciare una croce perfetta e bisogna quindi discutere animatamente per far passare come voti validi tutti i simboli barrati o semplicemente scarabocchiati.
L’assenza di schede bianche e un insolito proliferare di strani segnacci dimostrano sempre e inconfutabilmente la presenza di un diavolo dall’unghia di grafite.
Scavenger
Lo scavenger deve il nome agli archeologi americani che scavano nelle
discariche alla ricerca di reperti che risalgono all’inizio del secolo precedente.
Il business delle informazioni non risente della crisi e “gli uomini dei dos231
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sier”, quelli che scavano nelle vite degli altri, si arricchiscono accumulando
cifre vertiginose. Le informazioni, come appurato da numerose indagini
della magistratura, sono quotate da poche centinaia di euro fino a cifre che
toccano i centomila. Non resta quindi che prendere atto dell’inarrestabile
susseguirsi di scandali che si alternano sulle pagine dei quotidiani e che
delineano l’esistenza di una guerra permanente dove non volano i missili,
ma i titoli dei giornali. Notizie con licenza di uccidere che vanno e vengono da una barricata all’altra mentre si moltiplicano le intercettazioni e fioccano gli avvisi di garanzia relativi a processi di cui nessuno conoscerà mai
l’esito. In tutto questo liquame, quello che nuoce è il brusio di fondo, questa nube di suoni e immagini che offusca le verità più evidenti e rende ogni
azione, per giusta o sbagliata che sia, onesta o disonesta, uguale alle altre.
In questo modo si cancellano le differenze tra uno schieramento e l’altro e
ogni fazione diventa buona per i propri sostenitori e corrotta per gli avversari e viceversa. Come ha giustamente fatto osservare Barak Obama si finisce per rinunciare al proprio senso critico. Si perde il senso della misura
così che chi si macchia di un crimine ignobile viene riposto sullo stesso
piano di chi è stato accusato di una facezia. Chi poi finisce incastrato in
questa gogna mediatica vi rimane imprigionato malgrado ogni possibile
assoluzione che sopraggiunge. Una volta accusati si resta colpevoli per
sempre. In questo ribollire di vicende le strategie utili a far fuori l’avversario si moltiplicano.
L’analoinfamia è quel procedimento con il quale si cerca di estendere la
nomea di un personaggio delittuoso ad un altro. Se ad una cresima - a chi
non è mai capitato di essere invitato ad una cresima? - ti trovi seduto allo
stesso tavolo dove siede un mafioso, sei anche tu un mafioso. Se poi la
testata vuole evitare di pagare un risarcimento al diffamato costruirà l’intera inchiesta sulle domande. Quali rapporti legano il diffamato al mafioso?
La risposta sarebbe più che scontata: nessuno. A chiunque può capitare di
trovarsi accanto ad un poco di buono. Senza contare che chi si presenta ad
una festa non chiede il certificato penale ai convenuti o al padrone di casa.
Se anche ne facesse formale richiesta scoprirebbe che non è affatto facile
conoscere i precedenti penali di un libero cittadino. Per cui, oltre al danno
la beffa: non solo non ti puoi difendere dai malavitosi appurando i loro crimini, ma questi ti possono essere ritorti contro per procurare un danno alla
tua immagine pubblica. L’inchiesta prosegue elencando i crimini del mafioso con il quale hai pranzato. Proprio così: li si elenca tutti, uno per uno, con
dovizia di particolari e accostando sempre il tuo nome e non il suo. Al lettore non resta che accumunarti al traffico di droga, alla compravendita di
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voti, al commercio d’organi, alla prostituzione, ecc.
La criptoinfamia presuppone che i tuoi successi siano in realtà il frutto
di una strategia segreta e avulsi da qualsiasi merito personale. Una strategia
commerciale progettata a tavolino ha determinato il successo di Gomorra e
di Saviano. Berlusconi ha ricevuto i soldi dalla mafia per costruire il primo
impero immobiliare. Di Pietro ha ricevuto la laurea in legge dalla Cia. E via
dicendo. Che poi si tratti di menzogne è un secondo problema, ciò che
conta è che si tratta di uno schema logico che funziona.
La metainfamia è il procedimento che permette di costruire un’intera
campagna di diffamazione sulla base di una sola informazione che non sarà
mai verificata, il “caso Boffo” risulta esemplare in tal senso.
La rotoninfamia si fonda sulla rottura di un’aspettativa, Alberto Stasi
avrebbe dovuto amare la fidanzata e invece l’ha uccisa. La Franzoni avrebbe dovuto amare suo figlio e invece l’ha massacrato.
La logoinfamia salda un luogo comune ad un avvenimento. Tutti i genovesi sono tirchi, quindi Beppe Grillo (la sua ricchezza è sottointesa) fa
pagare l’albergo ai Grillini quando si reca in visita alle varie città dove si è
costituita una lista civica del MoVimento Cinque stelle.
Ci sono svariate decine di strategie, ma ciò che conta è l’humus. Ogni
strategia trae la sua forza dalla mancanza di punti di riferimento, dall’assenza di dati oggettivi, o come direbbe Marco Travaglio dalla “scomparsa dei
fatti”. Si è già colpevoli prima ancora di essersi potuti discolpare perché a
tutti interessa lo spettacolo prodotto intorno alle accuse, i commenti, le
dichiarazioni, i teatrini e non la dimostrazione della tua effettiva colpevolezza. Ecco un altro deleterio effetto della società dello spettacolo. Il pubblico adora gli idoli che cadono, si compiace nel guardarli andare in pezzi,
agonizzare e morire. Chi ha tirato le monetine a Craxi, chi ha reclamato i
patiboli, o festeggiato la morte suicida dei colpevoli, non ha mai chiesto
giustizia e non ha mai reclamato la verità, ma si è solo goduto lo spettacolo. Sono gli illustri discendenti di quel pubblico circense che con il pollice
verso chiedeva la morte di gloriosi gladiatori. Nessuno può, stando così le
cose, condannare un imputato con la certezza che dietro alle sue colpe non
si nasconda un complotto e questo è quanto di meglio ci possa essere per
i veri colpevoli. Nessuno può sapere se quel nemico del popolo sia veramente tale o se non sia al contrario il miglior difensore di quello stesso
pubblico che così brutalmente lo ha gettato in pasto ai leoni senza pensarci un istante. Provate voi a rompere quella cortina di parassiti, magnaccia e
brutta gente che ogni giorno assedia le istituzioni del paese e su queste
lucra e si arricchisce e vedrete cosa potranno mai dire di voi. Provateci e
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vedrete. E non sapreste neanche chi sono costoro senza le intercettazioni
e neanche di cosa sono stati disposti a fare pur di guadagnare denaro. Così
che ridere sui terremotati è stata una ben misera cosa rispetto a tutto quanto il resto.
Siamo tutti colpevoli e siamo tutti “non” colpevoli. L’unica verità alla
quale ci si può appellare è quella di un motto irlandese che recita: cerca di
entrare in paradiso prima che il Diavolo se ne accorga.
Tutti possiamo essere accusati, tutti noi dormiamo sulle colpe, piccole o grandi, non fa più nessuna differenza.
Il segreto del Re dannato
Un agente dei servizi segreti inglesi nel telefilm britannico “The prisoner” viene prima catturato e poi tradotto in un villaggio situato in una
imprecisata località dove sarà tenuto prigioniero. L’organizzazione per la
quale lavorava ha scoperto che il “numero 6”, questo è il nome che gli è stato
attribuito, è depositario di alcuni segreti che non vuole rivelare e per questo non può essere lasciato in libertà. Il numero 6, non rivelando i misteri
di cui è venuto a conoscenza nega ai compagni il loro status di membri dell’organizzazione. Proprio così, i segreti sono indipendenti dalla verità che
custodiscono, sono pezzi e pedine del grande gioco del potere. Come per
taluni “patti sinarchici” può accadere che il segreto sia rappresentato dall’inesistenza stessa di una qualsiasi verità da nascondere. Questo perché i
segreti, grandi o piccoli che siano, servono a cementare legami che a loro
volta devono restare segreti. Segreto chiama segreto. Berlusconi telefona a
Marazzo per informarlo delle voci che sono giunte alle sue orecchie.
Qualcuno - non sa dire chi - sta tentando di vendere ad un giornale il servizio fotografico che prova il coinvolgimento del Presidente della Regione
Lazio in losche storie di cocaina e transessuali. Ora tu sai che io so, siamo
legati dallo stesso segreto, potrei rovinarti, ma non ti rovino. Sottintende
Berlusconi a Marrazzo. A questo bisogna aggiungere che i segreti vengono
resi pubblici molto raramente. Un uomo che teme di essere rovinato è controllabile, mentre un uomo distrutto dagli scandali non ha più niente da
perdere. Il grande fratello, l’entità, chiamatela come vi pare, non ti uccide
come nel romanzo di Orwell, e non ti manda nessun O’Brie a torturarti. Il
grande fratello è felice se fumi crack o se pratichi la pedofilia, se sei un ladro
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o ti fai massaggiare l’inguine da una colf
alla quale non hai pagato i i contributi.
Farà delle tue depravazioni un argomento di pubblico dibattito non appena
romperai il patto che ti lega a lui. Ma
prima di allora, il grande fratello farà di
te una stella, perché più in alto ti farà
salire e da più in alto ti farà cadere. Da
ragionamenti come questi ne deriva che
un politico, paradossalmente, non deve
essere onesto, ma è bene che lo appaia
solamente. Anzi, più grandi saranno i
suoi crimini e maggiore sarà il numero
Patrick MacGohan interpreta il numero 6
di sostenitori sui quali potrà contare. In
nella serie “The prisoner”
un mondo dove l’etica è decaduta, dove
bene e male hanno cessato di serbare una differenza, dove alla “parola data”
e all’onore non è più attribuito alcun senso, i dossier riservati, come i servizi fotografici scandalistici acquistati e poi mantenuti riservati, sono le uniche garanzie rimaste ai taglieggiatori, sono le ceralacche putrescenti, il sangue infetto, con i quali sono siglati i patti. Ogni gruppo organizzato, non
credo si tratti neppure più di partiti, si avvale di leader dalla faccia pulita,
onesti padri di famiglia e laboriosi lavoratori, che lontano dai riflettori si
trasformano in belve. Regnanti non più soltanto nudi, ma morenti, depravati, dissipati sessualmente, drogati, corrotti. Politici di carta bruciano sulle
pire patinate dei quotidiani e riposano sotto i titoli cubitali come i morti
dormono a ridosso delle lapidi. Politici smascherati, politici torchiati dai
magistrati, politici che danzano in un vortice di cenere. Siate voi i politici o
non avrete più nessuno di cui avvalervi.
Una nuova agghiacciante bandiera si è dispiegata in quello spazio che
separa le più alte istituzioni dello Stato da quello scantinato sporco dove un Re
drogato e morente giace abbracciato ad un fatiscente transessuale. Il corpo del
Re si è corrotto perché il suo secondo corpo, l’hobbessiano leviatano, si è a sua
volta corrotto. Entrambi stanno morendo.
E tutti a interrogarsi sulle ragioni di questa dicotomia, del come sia potuto succedere che un partito abbia scelto “Giano bifronte” senza sapere cosa si
nascondesse dietro a quello smalto di luminescente, intonsa, integrità.
Lo sapevano cosa si nascondeva, lo sapevano eccome, anzi lo hanno scelto proprio per questo il loro “Re dannato”, così che fosse possibile avocarlo a
sé per tutto il tempo del suo regno.
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Il tatuaggio di un pennivendolo
La storia della mia sconfitta alle regionali del 2000 è stata raccontata
da una giornalista locale come uno scandalo di grande portata.
Naturalmente senza neppure darsi la pena di contattare il diretto interessato, ma anche in questo caso si tratta di ricostruire una diffamazione all’interno di un luogo comune. Dora Servi mi serve su di un piatto d’argento
il suo “benvenuto” usando uno stile più ironico che patetico su di una testata “free press” locale. Su “La tribuna” il tribuno scrive:
“Dai Gava ai Celli
Li chiamano figli d’arte, li troviamo ovunque tra gli attori, i giornalisti,
tra gli imprenditori, tra i professionisti. I giovani rampolli vengono
subito instradati sulle orme paterne. Se il padre canta loro gorgheggiano, se il genitore scrive, anche loro ben presto cominciano – come si
suol dire – a mettere nero su bianco. E via di questo passo…Succede
anche in politica. Ricordate la Prima Repubblica? I Gava, padre e figlio,
ad esempio, i De Martino, I Craxi… un conto è lasciare alla prole una
bottega da pizzicagnolo o uno studio dentistico… pretendere, invece,
di trasferire il consenso popolare sa troppo di clientela, di capi – bastone, di pastelle elettorali… Roba d’altri tempi, direte voi; ora, grazie al
pool di Milano, è scoppiata la virtù. Macché. Prendete la famiglia di
Armando Cossutta: Dario e Maura hanno seguito il loro cursus honorum sulla scia del padre; il primo fa il manager (pubblico, naturalmente), la seconda è parlamentare… Anche da noi, dunque, non scherziamo. Prendete il caso della famiglia Celli. Il padre aveva lasciato il posto
al figlio in lista … alla consultazione regionale. Ricordate quel giovane
che accarezzava un animaletto, forse un coniglio, sui manifesti murali?”
Era un gatto, ma in questo pamphlet i dettagli non contano più di tanto.
“Talis pater, talis filius: ambedue animalisti…chi di verde si veste, di sua
beltà si fida, diceva sempre mia nonna ogni volta che mi vedeva indossare un golfino che mi piaceva tanto. Si vede che non aveva mai incontrato i due Celli, senior e junior. Purtroppo, però, anche agli entomologi non sempre le ciambelle riescono col buco. Il padre desiderava sistemare il figlio in Consiglio Regionale. Invece è stato trombato. Apriti
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cielo! … si è incacchiato moltissimo. Sembrava Maurizio Costanzo
quando voleva piantare baracca e burattini, dopo che avevano cancellato il programma di Maria de Filippi…”.
Non si limita ad inserirmi nello stereotipo, ma si spinge ad inquadrarlo storicamente. Perfino una frase di sua nonna - riesumata dalla tomba torna buona per dimostrare quanto la mia candidatura fosse incastonata
nel malaffare millenario che vede i padri sistemare i figli. Naturalmente, per
non essere querelata, ha utilizzato un tono sarcastico e l’unico dettaglio
interessante che avrebbe fatto cadere il suo castello accusatorio è stato
sapientemente tralasciato. Infatti questa Servi non ha minimamente accennato al fatto che alle elezioni regionali del 2000 ero stato candidato capolista all’interno di un listino dove per essere eletti era necessario incassare un
numero considerevole di preferenze. Non ero quindi alla stregua di chi è
entrato in un consiglio di amministrazione dell’azienda di famiglia o di chi
vince un concorso bandito dalla facoltà presieduta dal padre. Io dovevo
prendere i voti e la gente non ti vota perché sei il figlio di qualcuno, semmai, delle due, pensa che tu sia un privilegiato. C’era una differenza nel mio
caso. C’è sempre una “maledetta” differenza quando ti accusano a torto.
C’è, ma nessuno se n’accorge.
Alta tensione!
I ricatti sono spesso affiancati ad altre forme di pressione più dolci
esercitate da chi detiene una posizione di potere.
Durante i lavori organizzativi che precedono i congressi (telefonate
frenetiche, spedizioni di lettere, organizzazione di incontri serali e aperitivi) mi capitò di condividere la stanza con una ragazza di nome Arianna che
faceva l’assessore in un piccolo comune della bassa.
Una sera in cui eravamo entrambi molto stanchi squillò il telefono. Fu
lei a rispondere e se ne restò in silenzio ascoltando attentamente chi le
stava parlando dall’altra parte del ricevitore. Improvvisamente la vidi sbiancare in volto e quando ripose la cornetta le domandai cosa fosse successo.
Mi disse che avrebbe dovuto rinunciare all’incarico d’assessore. A chiamarla era stato il Sindaco per il quale lavorava. Voleva informarla della conversazione intercorsa con un altro assessore di ben più elevato grado, il
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nostro “potentissimo” Assessore regionale alle politiche sociali G.B. Roghi.
Mi raccontò che Roghi aveva voluto far sapere al Primo Cittadino di
quel piccolo “comunello” che la “sua beneamata Arianna” militava in una corrente che da tempo voleva la testa del magnificente assessore Roghi. Per
questo semplice motivo l’Assessore Regionale si scusava con il Sindaco
perchè il settore alle politiche sociali, e cioè la Regione stessa, non avrebbe
più finanziato le attività giovanili che si tenevano nel suo comune.
“Corro il rischio” – affabulò Roghi – “che i miei soldi producano delle
tessere che possono essere usate contro di me al prossimo congresso, ma
se Arianna annunciasse ufficialmente il suo ritiro dall’evento congressuale
potrei anche ripensarci…” così disse testualmente Roghi al termine della
telefonata al Sindaco.
A quel punto, il Sindaco, come naturale conseguenza della dritta appena impartita, aveva telefonato ad Arianna per domandarle, in via del tutto
eccezionale, se ci tenesse davvero tanto al Congresso da non potersi dare
ammalata. Giunti a questo punto vi chiedo: cosa fece Arianna? Provate a
indovinare. Ma prima di rispondere vorrei ricordarvi che gli Assessori non
sono eletti dal popolo, ma sono scelti dai Sindaci.
Che brutto raffreddore si prese Arianna in quei giorni!
Il finto boicottaggio
Quando non si dispone di informazioni riservate e neanche ci si trova
nelle condizioni di poter esercitare una qualsiasi forma di pressione può
essere utile costruire ad arte un finto boicottaggio, in sostanza bisogna
inventarsi dal nulla una malefatta da accollare al politico che si vuole diffamare. A tutti i politici è capitato di essere boicottati e anche mio padre,
quando ancora era un parlamentare europeo, ha subito il fardello della
menzogna spacciata per vera. Il finto boicottaggio si differenzia dalla
comune diffamazione perché presuppone che lo sdegno si trasformi in
un’azione di contrasto attuata nei confronti del bersaglio.
Le liste dei candidati che correvano alle Elezioni Regionali del 2000
dovevano essere corredate da un certo numero di firme.
Nell’inverno di quell’anno, a Modena, gli ambientalisti locali delusi dal partito verde, a loro dire assai poco attento al problema dell’alta velocità che
da lì a breve avrebbe tagliato in due la bella Ghirlandina, architettarono un
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colpo gobbo da manuale. Ad una settimana dal deposito delle firme che
avrebbero permesso al partito di presentarsi alle elezioni, i ribelli modenesi informarono i dirigenti regionali di non averne raccolta neanche una.
Motivarono il sabotaggio affermando che l’assenza del partito verde alle
regionali avrebbe acceso l’attenzione su Modena e sull’imminente devastazione della Tav. Il partito si accorse improvvisamente di essere stato messo con
le spalle al muro. Senza i voti di Modena non si sarebbe raggiunto il quorum
per eleggere un solo consigliere regionale, una rovina perché, da che mondo
è mondo, le risorse dei gruppi consiliari servono per mantenere in piedi i piccoli partiti, compreso quello verde. Bisognava assolutamente correre ai ripari raccogliendo migliaia di firme in pochissimi giorni. Come riuscirci?
Il presidente nazionale, Francesca Graziato, cessò per un istante di conversare con l’Arcangelo Michele, come suo solito, e telefonò a mio padre. Nel
corso di una lunga conversazione lo pregò, anzi lo supplicò, di andare
davanti ai supermercati modenesi per attirare i passanti in virtù della sua
grande notorietà televisiva. Una volta avocate a sé frotte di cittadini avrebbe dovuto far firmare loro i moduli andati in bianco per colpa di quelli che
definì dei “poveri ecologisti idioti dal cappello di paglia in testa”, ma anche dei “deficienti, poveretti, piantagrane, rompicoglioni a caccia di visibilità”. Non avrebbe
potuto pensarla diversamente dato che la sua amica del cuore, tale Donata
Nani, che sedeva nel consiglio delle Ferrovie dello Stato, si era molto infastidita per le intemperanze degli ecologisti Anti - Tav. Chi ha orecchie per
intendere: intenda...
Sulle prime mio padre rispose che aveva già la valigia pronta e i biglietti dell’aereo in tasca. Non poteva certo cambiare programma su due piedi
rinunciando alla sessione del Parlamento Europeo che si teneva ogni mese a
Strasburgo. Tanto fece e tanto disse la Graziato che alla fine riuscì a convincerlo e fu così che Giorgio Celli se ne restò seduto davanti ad un supermercato modenese per una settimana intera. Mangiò panini sorseggiando
Malox per via di un’ulcera che gli si era da poco riaperta e conversò coi passanti e, ancora, si fece fotografare insieme ai bambini che ne fecevano
richiesta. Dopo soli quattro giorni di permanenza aveva raccolto quanto
serviva per consentire al partito verde dell’Emilia Romagna di presentarsi
alle elezioni. Avrebbero dovuto fargli un monumento. Sbaglio? Invece trovarono un modo molto originale per ringraziarlo.
Negli stessi giorni in cui mio padre non era al Parlamento perché
occupato nella raccolta firme, una Direttiva che apriva le porte dei mercati europei al surrogato di cioccolato fu approvata per soli due voti. Molti
giornali italiani incominciarono a chiedersi perché avremmo dovuto man239
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giarci del cioccolato di pessima qualità per colpa dell’assenteismo di due
Onorevoli italiani che se fossero stati al loro posto avrebbero evitato un
disastro.
“Piatto ricco, mi ci ficco!” - pensò il Consigliere uscente, Daniela
Arregu, alla quale avevo rubato la posizione da capolista facendola finire al
secondo posto. Radunò i suoi tirapiedi, li pagò profumatamente, distribuì i
copioni con le battute della farsa che bisognava recitare davanti ai giornalisti e si recò al più vicino discount per acquistare della cioccolata da distribuire al popolo. Dato che quel giorno i militanti disponibili erano quattro
gatti assoldò un trentina di comparse e inscenò la protesta in Piazza
Maggiore.
Daniela Arregu era una mia concorrente alle elezioni, se avesse parlato contro il capolista avrebbe fatto una figuraccia, ragion per cui lasciò il
microfono al portavoce cittadino, un certo Gianni Prugnoli, un radiologo dal
volto rubizzo e la voce pigolante.
“Un’assenza molto grave (quella di Celli) su una battaglia molto sentita”, ma sentite cosa dichiara ai quotidiani locali questo meschino Portavoce
Comunale mentre il giornalista, un altra “canaglietta” anonima che sapendo
di mestare nel torbido non si è neppure firmata, riprende lo stile malinconico: “Fra diffusi imbarazzi” - il portavoce Prugnoli, alias Pinocchio – “Si
prende la responsabilità di raccontare il disagio dei militanti”. Seguì una
gemebonda lamentazione scaturita dall’aver perso un’importante battaglia
sulla genuinità dei cibi e la salubrità del cioccolato.
Il Portavoce aggiunse al danno la beffa dicendo che ero stato candidato da Roma come dire che la mia era una “candidatura partitocratica”.
In tutta questa storia ad una sola domanda non sono ancora riuscito a rispondere. Mi chiedo come mai il presidente del partito Francesca
Graziato chiese di compiere il “miracolo” della raccolta firme a mio padre e
non al suo intimo amico, l’Arcangelo Michele. Evidentemente, come avrebbero detto i vecchi camuni, “chi mamgia i santi caga i diavoli!”
Nota: virgolettati tratti da La Repubblica (Edizione di Bologna) del 22 e 24 marzo 2000. Il motto
“Maia Signùr e càga Diaòi” è tratto da wikipedia.che a sua volta rimanda a: Lino Ertani. Vita camuna
d'un tempo. Esine, Litotipografia San marco, 1979.
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La regola della trincea
Giorgio Guazzaloca, il macellaio che sconfisse la sinistra a Bologna
dopo cinquant’anni di buon governo, spuntò la vittoria usando “la regola
della trincea”. Non si tratta di una strategia come le altre, ma piuttosto di una
convinzione da radicare nel pensiero comune.
Vi sono leader, senza qualità alcuna, che pur affermando di essere giusti opprimono i soldati senza ragione. Sono generosi nel dispensare tozzi
di pane nella stessa misura in cui sono tiranni, ma con il nemico alle porte
le truppe vivranno in trincea senza protestare, con l’elmetto in testa, i piedi
affondati nel fango umido e tenendo il fucile sempre puntato sull’orizzonte. Nessuno noterà quanto sia cattivo il rancio e quanto invece sia opulente il pasto del cattivo tenente. Nessuna importanza sarà data alle sfuriate,
alle scelte ingiuste e alle punizioni immeritate. Con il nemico alle porte nessuno penserà di ribellarsi se il nemico sarà ritenuto peggiore del tiranno.
Bravo sarà quel nemico che riuscirà a convincere i soldati avversari
della sua immensa bontà. Il nemico non combatte contro di voi, ma per
liberarvi dalla tirannia. Il nemico vuole farvi vivere come non avete mai vissuto prima e prepara per voi libertà e giustizia. Arrendetevi alla liberazione per il vostro bene! Tutto questo bisognerà riuscire a far credere ai soldati nemici per ottemperare alla regola della trincea.
Quando cessai di oppormi al consigliere regionale Daniela Arregu
e alle sue politiche “collaborazioniste”, il manipolo di tirapiedi che l’aveva
difesa fin dal mio ingresso nel partito incominciò a disgregarsi. Compresi
come la mia azione di contrasto politico l’avesse mantenuta in vita per tutto
quel tempo. Una folgorazione: l’avevo rafforzata anziché indebolirla. Ero
stato la sua linfa vitale senza saperlo e quando smisi di scorrere nelle sue
vene, e cioè cessai di sfidarla apertamente, lei iniziò a morire. Senza più un
nemico alla sua altezza dilapidò iscritti e voti. Si rinchiuse in un tetro castello e le poche volte che uscì alla luce del sole lo fece per correre in sostegno di questa o di quell’altra lista. Fu così che scoprì di essersi ridotta ad
una manciata di preferenze. Su tutti i giornali fu canzonata e additata come
incapace per i miseri risultati conseguiti, indegni, a detta di tutti, di un
Consigliere Regionale.
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L’alchimista
Comprate un libro intitolato “Elezioni di successo” * per comprendere la
reale importanza dello sponsor. Quello che non vi troverete scritto è perché un facoltoso sostenitore dovrebbe finanziarvi. Ma andiamo per gradi.
Lucio Libertini nel 1992 poneva la domanda da un’angolazione diversa:
“Per essere eletti sono necessari soldi e clientele e spesso grande
servilismo nei confronti dei boss delle lobbies. La soglia economica
dell’elezione è alta e cresce sempre. Oggi (il libro è stato stampato
nel 1992) va verso il miliardo (di lire). Senza appoggi finanziari e
politici non si è eletti. Dunque, questi meccanismi portano in parlamento persone già aperte alla corruzione e alla compromissione che
non hanno nella vita civile e professionale alternative valide o avide
di potere…”.
È incredibile leggere queste parole che pur risalendo a molto tempo fa
sono straordianriamente attuali, ma continuiamo a leggere Libertini:
“Sono sempre stato colpito dal fatto che l’opinione pubblica, sollecitata dalla stampa, si appassiona all’indennità e si preoccupa poco
delle spese elettorali e delle fonti di finanziamento. Se i parlamentari facessero le campagne elettorali a loro spese, senza sponsor
occulti o palesi, le indennità non sarebbero davvero elevate (ci vorrebbero cinque anni di legislatura solo per rientrare delle spese elettorali)”.
Lucio Libertini “La truffa svelata” (Ed. Roberto Napoleone).
Si tratta forse di una considerazione inedita, specchio della degenerazione politica alla fine del novecento? Direi proprio di no e guardandosi
alle spalle, andando molto indietro, si incontra Cicerone il cui pensiero pare
il riflesso speculare di quanto appena affermato:
“Coloro che comprano una carica si adoperano per esercitare la
loro carica in modo da riempire il vuoto del loro patrimonio”.
Dunque, vediamo un po’. Cicerone è nato e vissuto pressappoco
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cento anni prima di Cristo. Duemila e cento anni dopo, sulle pagine dei
quotidiani della mia città compare un articolo che informa la cittadinanza
di quanto denaro è stato stanziato da un imprenditore molto conosciuto e
rispettato che si è candidato Sindaco correndo contro Flavio Delbono, un
professore di economia, già assessore al bilancio di Vasco Errani,
Presidente della Regione Emilia Romagna:
“Alfredo Cazzola non ha badato a spese per candidarsi a sindaco di
Bologna, e la cifra esatta è stata pubblicata all’ albo pretorio: la campagna del candidato che ha costretto Flavio Delbono al ballottaggio, ma poi si è fermato sotto quota 40%, è costata 1.212.852,65
euro. Il record va ai tre grandi happening che hanno segnato la sua
corsa verso il voto, dalla fastosa convention del 16 febbraio a palazzo Re Enzo, alla presentazione di programma e candidati al
Paladozza il 18 maggio, fino alla chiusura della campagna elettorale il 3 giugno sul crescentone. Il tutto per 397.000 euro, quasi l’ intero importo dichiarato da Delbono. Ben 57.221 euro sono stati spesi
per l’ affitto delle sale, 99.692 per il catering delle cene a cui erano
invitati i cittadini nei quartieri, 240.456 per gli allestimenti. Altri
378.032,80 euro sono andati in materiale e mezzi di propaganda.
Per gli addetti stampa (ne ha cambiati diversi in corso d’ opera) ha
sborsato 108.024 euro. Di tasca propria ha messo 1,017 milioni,
raccogliendo contributi per 195.700 Euro”.
Tratto da la Repubblica del 29 luglio 2009, cronaca di Bologna.
Se Cazzola avesse vinto le elezioni avrebbe percepito uno stipendio
lordo pari a circa centomila euro all’anno che moltiplicati per i cinque anni
del mandato avrebbero toccato una cifra pari a cinquecentomila euro lordi.
Viene da chiedersi come pensasse di rientrare di tutti i soldi spesi. Nessun
imprenditore sano di mente dilapida un capitale sapendo in anticipo che
guadagnerà meno di quanto ha investito. Forse, Alfredo Cazzola non si era
fatto bene i conti. Oppure, ed è questa la ragione alla base della scelta, si
deve essere convinto che per una giusta causa si può anche investire denaro a fondo perduto. Ma gli altri? Quelli che non sono mossi dai buoni sentimenti e spendono almeno cinque volte di più di quello che guadagneranno dopo essere stati eletti? Come rientrano?
La risposta è semplice: rubano!
Perché stupirsi. Se in politica le qualità migliori dell’essere umano non servono, è più che naturale che i candidati finiscano per “acquistare” il consen243
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so con i soldi e non invece proponendo un programma o illustrando delle
buone idee. E nessuno s’illuda che sono solo gli italiani che hanno sostituito la passione e i programmi con il denaro. Tutto il mondo è paese, tanto
che Brioschi, nella sua Storia della corruzione, racconta che un Senatore americano deve accumulare circa settemila e cinquecento euro al giorno per
disporre delle risorse economiche che gli permetteranno di presentarsi alle
successive elezioni. Certamente lo stipendio non basta e bisogna trovarsi
dei finanziatori. Viene quindi da chiedersi come gli americani possano illudersi che un eletto, sia questo un Senatore o lo stesso Presidente degli Stati
Uniti, non ricambierà tutti quelli che hanno sborsato fior di quattrini per
la sua campagna elettorale. Sarebbe bello se gli sponsor agissero a “fin di
bene” o soltanto per detrarre le donazioni dalle tasse, ma l’esperienza insegna che ogni investimento, in politica come in qualsiasi altra attività commerciale, deve rientrare con tutti gli interessi. Solamente Barak Obama,
caso più unico che raro nella storia americana, ha rinunciato ai grandi
sponsor in favore delle migliaia di donazioni dei singoli cittadini rastrellate
usando principalmente la rete. Tutti gli altri candidati, lo sfidante McCain
prima di tutti, sono stati finanziati dalle potenti multinazionali d’oltreoceano. Il “Mc-candidato” farà l’interesse del popolo o del suo “Mc-Sponsor”, Re
degli hamburger? M’immagino quindi che sia per via dei contributi elargiti
alle campagne elettorali che non sono mai stati vietati i “Super Size Menu”,
concentrati letali di grassi e zuccheri. Si è lasciato che fosse l’azienda stessa che li produceva a ritirarli dal mercato, magari sull’onda del successo del
docufilm “Super size me” proiettato al Sundance film festival. Ed è probabilmente per lo stesso motivo che poco prima dell’uscita del film di Morgan Spurlok
è stata varata una legge che rende impossibile intentare una causa a tutte
quelle aziende alimentari che somministrano cibi che sono la causa principale di obesità, ipertensione e infarto. Si potrebbe obiettare che se bastasse pagare le campagne elettorali ai politici, le sette sorelle del tabacco non
si sarebbero ritrovate a dover risarcire i malati di cancro al polmone. È
vero, ma se sono state esemplarmente punite lo si deve sostanzialmente a
due ragioni: hanno scelto delle agenzie di pubbliche relazioni gestite da
incapaci e c’era bisogno di un capro espiatorio che riuscisse a dimostrare
che la politica continua a mantenersi dalla parte del popolo, malgrado tutti
Morgan Spurlok interprete e regista di Super Size me
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i contributi offerti dalle Corporation. Lo schema di molte trame hollywoodiane si fonda sull’idea che il “sistema America” tende alla corruzione, ma per
fortuna c’è sempre qualcuno - un eroe solitario, un giornalista incompreso,
un avvocato ossessionato dalla giustizia, un’associazione di cittadini, persino una segretaria, senza arte e ne parte, come Erin Brockovich - capace di
smascherare il complotto facendo trionfare verità e giustizia. I politici
hanno quindi adottato lo stesso “plot” lasciando che fosse inflitta all’industria del tabacco una vera e propria condanna a morte stando all’entità del
risarcimento. Da quel giorno questo film è stato proiettato agli americani
per dimostrare che i contributi versati dalle corporation non sono come le
“indulgenze” papali che ti assolvevano da colpe e peccati. Sostanzialmente si
è voluto “Colpirne una…” - parafrasando Mao - “per dimostrare di non essere
schiavi di cento multinazionali”.
Eppure, anche in Italia, passa quasi inosservata la strana coincidenza
determinata da quell’imprenditore che oltre ad essere titolare di un numero considerevole di appalti in mezza Italia è anche un importante finanziatore della Margherita (non faccio nomi per non datare queste riflessioni). I
giornali s’interrogano su questa “strana coincidenza” chiedendo ai politici se
l’imprenditore ha pagato delle tangenti per avere in cambio tutto quel “ben
di Dio” di lavoro. Il tesoriere risponde di aver dato il via ad un controllo a
tappeto. La questione appare quasi ridicola, il versamento di una tangente
si differenza dal “contributo” in forza di una ricevuta e la successiva iscrizione al bilancio. Un pezzo di carta, trasforma un crimine in un’azione consentita. Terminate le indagini, il tesoriere risponde: “è tutto regolare”.
Ma certo che è tutto regolare! Come potrebbe non esserlo! Che bisogno aveva l’imprenditore di finire in galera quando poteva versare gli oboli
legalmente? L’argomento sul quale sarebbe valsa la pena interrogarsi in circostanze come queste è un altro: l’imprenditore ha vinto tutti gli appalti
perché le sue aziende erano le migliori sul mercato in quel momento o,
viceversa, perché sono state scelte come conseguenza delle contribuzioni
elargite? Una prima risposta la individua un certo Geronimo, ex democristiano della prima repubblica, che senza remore nel suo libro (“Strettamente
riservato” Mondadori) scrive:
“Con la mia azione, comunque, crescevano gli investimenti al sud. Di
conseguenza aumentavano anche i fatturati di tutte le aziende. Di tutte
le aziende, sia chiaro, e dunque anche di quelle di proprietà dei miei
amici. In una fase di crescita economica è naturale che chi è da sempre
abituato a sostenere i partiti lo faccia in maniera più generosa. Non c’era
alcun collegamento però tra l’attività della pubblica amministrazione e i
finanziamenti ai partiti”.
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Perfetto, è riuscito a mettere in luce il nocciolo della questione che può essere riassunto così: il politico finanzia l’imprenditore e l’imprenditore finanzia il
partito, ma nessuno può mettere in relazione le due cose. Tanto più che la storia
del “finanziamento ai partiti politici” si è sviluppata a singhiozzo e si riassume in un
continuo alternarsi di “si può” e “non si può” come scrive lo stesso Geronimo:
“Quello del finanziamento illecito è un reato ben strano. Fino al 1974
non esisteva, poi nel 1981, venne in parte depenalizzato e totalmente
“cancellato” fino al 1989 con l’amnistia di quell’anno. Con la riforma del
1993 fu di nuovo ridotto ad illecito amministrativo. Si tratta di un raro
esemplare di reato a macchia di leopardo
Così, passata Tangentopoli, le tangenti sono diventate legali. Pur tuttavia
devono essere inserite nei bilanci pubblici del partito, sebbene, grazie ad una “leggina” denunciata in televisione solamente da Francesco Rutelli è possibile incassare
denaro dal proprio sponsor in forma anonima. Una vera novità: la firma del
benefattore viene registrata solo dopo aver superato cinquantamila euro di contributo elettorale. Il limite precedente era di seimila (Panorama del 16/03/2006).
Economia politica.
Non è certo facile trovare una soluzione valida al problema della corruzione. Il “dare e l’avere” sono collocati in un limbo dove i soldi contenuti
nelle valige si possono trasformare in servizi regolarmente fatturati. Io do
una cosa a te e tu dai una cosa a me. Io ti faccio vincere un appalto e tu mi
compri beni e servizi dove dico io. I giochi non sono sempre così lineari,
si evolvono. Il Sindaco del Comune acquista cento posti in un nido privato. L’ imprenditore sociale, in cambio, assume dieci dipendenti segnalati dal
Sindaco. Il Sindaco, a sua volta, si rivende i dieci posti di lavoro con attività volontaristiche svolte dai neo-assunti in campagna elettorale, oppure ci
ricava un “pacchetto di tessere” formato dalle famiglie dei lavoratori, o ancora, incamera i “contributi economici” devoluti dai padri apprensivi che hanno
voluto trovare un posto di lavoro ai figli. Poi ci sono un’infinità di variazioni sul tema, troppe per essere riportate tutte, e non sono gli schemi che
bisogna studiare, ma gli effetti degli stessi. Queste “catene di Sant’Antonio del
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beneficio” si innervano nel tessuto economico finendo per strangolare il
“libero mercato” e qualsiasi criterio di selezione meritocratico. “L’essere più
bravi” viene di fatto soppiantato da un intreccio di convenienze diverse e
quegli imprenditori che potrebbero fornire un “posto nido” ad un prezzo
inferiore di quello ottenuto dai “raccomandati” si ritrova tagliato fuori dai
giochi senza nemmeno sapere il perchè. Questo è l’unico vero problema
che si finge di non vedere: l’economia è morta e la politica ha preso il suo
posto!
Per questo poi, quando metti in vendita una compagnia come l’Alitalia
nessuno se la compra. Ormai è risaputo: nel nostro Paese gli appalti si vincono grazie agli “amici degli amici” e non più sulla base dell’offerta migliore.
Se non si è iscritti ad un partito non si può fornire nessun servizio alla pubblica amministrazione. In nessun campo, dalle arti al settore industriale,
non si fa strada senza avere “le spalle coperte”. Non è un caso se i simboli
immortali dell’economia italiana sono frutto del passato. Dove sono i
nuovi Gianni Agnelli e gli Enzo Ferrari? Gli Ermenegildo Zegna e i Fratelli
Ferretti della Riva? Dov’è il nuovo Federico Fellini? E andando ancora più
indietro: dove sono i successori di Leonardo da Vinci o Michelangelo Merisi?
Se nascessero oggi nel nostro paese avrebbero solo due possibilità: lavorare in un call center, un contratto “a chiamata”, un CoCoCo, o espatriare. In
politica poi, non ne parliamo. Stando così le cose non si diventa dei politici “di peso” se non si rientra nella categoria di “politicoop” è cioè in quel fenomeno amorale che Ivan Cicconi chiama “il rito emiliano” dove i dirigenti delle
cooperative diventano politici e i politici diventano dirigenti delle cooperative. Il fine deliberato di questo bipolarismo “economico - politico” è quello di
avvantaggiare la realtà dalla quale si proviene e alla quale si dovrà tornare
e non importa se si arriva dall’una o dall’altra parte, ciò che conta è mantenere attivo lo scambio. Questo ha imposto a tutte le aziende fornitrici di
beni o servizi, e non più solo alle cooperative, di adottare il “rito emiliano”
che ormai non è più un tratto esclusivo dell’economia “rossa”. Non ci
sarebbe nulla di male in tutto questo se le aziende competessero tra loro,
invece attuano una sorta di spartizione, anche in questo caso, mediata dal
potere politico. Ci si spartisce il lavoro tra i partiti e all’interno dei partiti lo
si ridivide per correnti - pardon! - per aree. Così, quando ti ritrovi seduto in
un comunissimo Consiglio comunale - (figuriamoci cosa può accadere
altrove) - scopri di essere accanto ad eletti che rappresentano appaltatori di
lavori pubblici, consorzi, “global service” e società per azioni. Anche chi risulta essere stato eletto da un gruppo di cittadini o da un’associazione, persino da un movimento religioso come può essere quello di “Comunione e libe247
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razione”, a ben guardarci scopri un cordone ombelicale che lo riconduce ad
una determinata realtà economica. Prova ne sia che gli eletti dal popolo
sono una componente residuale che non è mai superiore al 5% dei consiglieri totali e che non dura più di una legislatura. Il famigerato “conflitto d’interessi berlusconiano” rappresenta quindi la punta di un iceberg che galleggia
in un mare di piccoli ed numerosi conflitti d’interesse che, siccome sono
locali e non nazionali, non sono fatti rientrare nel fenomeno. A Bologna,
per esempio, la tipografia che vince la quota più consistente di appalti tra
Comune, Provincia e Regione è la stessa che stampa la propaganda elettorale per il partito più rilevante della città i cui eletti amministrano tutti e tre
gli enti. L’agenzia pubblicitaria che ha incassato dalla Regione Emilia
Romagna più di un milione di euro senza passare da una sola gara d’appalto include tra i suoi soci la moglie del capogruppo del Partito Democratico
in forza alla stessa Regione che ha dispensato il denaro (La Repubblica,
Bologna, del 20 marzo 2009). Esempi come tanti, che non danno neanche
più nell’occhio, tanto è fitto l’intreccio tra politica, parentele e aziende. I
soldi che escono dalle casse pubbliche ritornano nelle tasche dei politici
che li hanno fatti uscire o si trasformano in un voti che confluiscono in
questo o quell’altro partito o, ancora, rientrano in entrambi i modi.
Ma sì! Guardiamo in faccia alla realtà e cominciamo col dire che i
partiti sono diventati delle aziende. Come ogni impresa che si
rispetta promuovono il proprio marchio; dispongono di personale pagato; investono le proprie finanze in immobili,
azioni, giornali, televisioni; partecipano - seppur indirettamente - alla scalata di prestigiosi istituti di credito …quando ci riescono - realizzano parchi a tema (le
feste di partito) simili a giganteschi Disneyland del
comizio dove gli spazi pubblicitari, come ogni
stand, sono rivenduti a peso d’oro.
Eppure, una differenza, neppure
tanto piccola, c’è. Le aziende possono fallire, mentre i partiti prosperano negli sperperi dal momento che
godono del finanziamento pubblico pescato direttamente nelle
tasche dei cittadini. I partiti
sono immortali e per questo
continueranno a raschiare il
fondo del barile fino alla fine.
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I furbetti del quartierino
Al momento, malgrado gli utili inesistenti e le ingenti perdite
denunciate da gemebondi tesorieri, i partiti restano sempre al centro di
affari miliardari la cui riuscita dipende esclusivamente da loro.
Nonostante ciò si evince, con un certo stupore, una notevole disparità
di condizioni tra i malmessi bilanci dei partiti e la smodata ricchezza
degli imprenditori d’area e cioè di tutti coloro che gravitano intorno alla
politica. Macchine lussuose, abiti firmati, vacanze in Costa Smeralda da
una parte e l’Unità che chiude dall’altra. Ai politici, evidentemente, non
importa granché se il profitto è fuori dalle proprie casse e dentro a
un’impresa commerciale, ciò che conta è disporre di tutta la liquidità
necessaria quando serve. Come se la cassaforte migliore fosse quella
allocata nelle segrete stanze, in un luogo sconosciuto ai geografi e ai
magistrati, dove i favori accumulati nel tempo possono essere trasformati in moneta sonante da far rientrare nelle tesorerie, o nelle proprie
tasche, al momento opportuno. Per questo, il denaro, potrà sembrare
banale ribadirlo, è l’unico strumento finanziario che conta veramente,
tanto in economia quanto in politica. Maurras in “Mes idèes politiques”
(rielaborate da Fisichella ed estratte da “Il potere del denaro svuota le democrazie” edito da Settimo Sigillo Edizioni) è stato a sua volta molto chiaro nel
denunciarlo:
“Da qualunque parte lo si prenda, un dato risulta certo: è il denaro
che fa il potere in democrazia. Lo sceglie, lo crea, lo genera. Esso è
l’arbitro del potere democratico perché in sua assenza tale potere
precipita nel nulla. Niente denaro, niente elettori. Niente denaro,
niente opinione espressa. Il denaro è il genitore e il padre di ogni
potere democratico, di ogni potere eletto, di ogni potere tenuto
nelle dipendenza dell’opinione…Ciascun partito tenta di svergognare l’altro. Ma sono tutti svergognati nelle misura in cui sono
democratici e riconoscono al potere il diritto di nascere come
nasce. La folla non ne sa niente, ciò fa parte della farsa…”.
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Istruzioni per l’uso
Quindi se dopo essere diventati Sindaci, assessori o quant’altro e siete
interessati ad intascare dei soldi dall’azienda chi vi ha pagato la campagna
elettorale e che, del tutto casualmente, ha vinto le gare d’appalto emanate dall’amministrazione nella quale operate, non dovete mai, e dico mai, accettare
soldi, assegni, bonifici e neanche contanti. Semmai, se proprio avete bisogno
di liquidi, fatevi rigirare un bancomat così che nessuno possa sapere chi ha
prelevato il denaro. Geniale. Veramente geniale. Si tratta della prima tangente “On - demand”. In ogni caso evitate assolutamente che tutti quelli che passano dal vostro ufficio se ne vadano dimenticando una valigia, una busta, un
sacco nero, una scatola di spumante con doppio fondo o un cilindro da prestigiatore. Soltanto i corrotti meno fantasiosi, le menti impoverite da una
lunga degenza dentro ai palazzi del potere, i reduci dal bunker, accettano le
mazzette in questa maniera degradante e palese. Tutti gli altri, i veri artisti
della concussione, sempre ligi alla legge, fanno girare le mazzette in altre
mille fantasiose maniere. Il metodo più semplice, come già illustrato in precedenza, consiste nel chiedere che il denaro si trasformi in un contributo
elettorale. Il vostro migliore amico, un imprenditore di successo, dopo aver
versato soldi nelle casse del partito di Catania si ritroverà ad aver miracolosamente vinto un appalto a Trieste mentre l’imprenditore di Trieste vincerà
un appalto a Catania. È semplice, basta solo scambiarsi gli sponsor! Sembra
proprio che il denaro e gli appalti si comportino secondo la famosa teoria del
caos: “Se una farfalla sbatte le ali a Pechino, una tempesta si abbatte su New
York!”. Se poi non si vuole mandare un’azienda al confino si può sempre
chiedere al titolare di acquistare spazi pubblicitari sui
giornali e nelle tv del partito. Capite ora
perché è così importante per un partito,
da quello di Fassino alla Lega di Bossi, possedere una banca? Perché i soldi devono
girare. Triangolare. Andare dal punto A al
punto B per poi finire al punto C senza
farsi notare troppo. E chi meglio di una
banca riesce a spostare i soldi con discrezione? Se poi qualcuno dovesse incomin250
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ciare a mettere in relazione gli appalti con i versamenti elargiti al partito si
può sempre cambiare il tipo di triangolazione. Il finanziatore che intende
rendersi utile al politico può finanziare un’iniziativa pubblica dedicata ad un
tema a lui caro e se non dovesse bastare può sempre acquisire l’intero giornale mettendo la redazione al suo servizio o pagare lo stipendio dei suoi portaborse facendoli figurare come rappresentanti aziendali o, ancora, potrà
acquistare migliaia di tessere, pagare abiti, procurare escort, appianare debiti, ristrutturare l’appartamento dell’amante, assoldare massaggiatrici, colf,
cubiste, regalare appartamenti con vista sul Colosseo, ecc. Potrà fare tutte
queste cose legali senza dover pagare un prezzo alla giustizia. Per contro, il
politico disporrà a sua volta di un certo numero di articoli finanziari da proporre allo sponsor in maniera da ripagarlo di tutto, articoli che possiedono
nomi strani: edificabilità, indice di edificabilità, volumetria, edifici dismessi da
svendere per un nonnulla, terreni da riqualificare, urbanizzare, attrezzare. Si
pensi solo a quale guadagno produce trasformare un metro quadrato di terra
agricola in un equivalente metro quadrato edificabile. Con rapporti di guadagno che variano da uno 1 a 50 per borghi sperduti nelle provincie e da 2 a
3000 per le città, così da poter dire: “…et quello che hera tera et fango, nella
sua mano diventava oro”.
Il desiderio degli antichi regnanti che prendevano sotto protezione gli
alchimisti nella speranza che riuscissero a trasformare il piombo in oro si è
avverato. La terra può trasformarsi in valuta preziosa. E stiamo parlando di
prodotti finanziari con la percentuale di guadagno più alta perché ce ne sono
altri molto meno lucrosi, ma pur sempre appetibili. Ecco alcuni interessanti
fondi d’investimento: gli appalti di manutenzione delle strade, i servizi di
pulizia, la potatura delle piante, la produzione dei pasti per le mense scolastiche, posti nido, distribuzione e costruzione delle case pubbliche, la gestione
delle strutture sanitarie, le licenze (taxi in testa), l’affidamento dei parcheggi
pubblici, e così via tanto che potrei riempire pagine su pagine senza farmi
bastare un libro intero. Nei piccoli paesi dell’Appennino persino le autorizzazioni dei selecontrollori, ossia le licenze per la caccia agli ungulati destinate a coloro che si procacciano la carne gratuitamente, sono suddivise in percentuali derivate dai consensi elettorali dei partiti. Tutto ciò che gira intorno
all’amministrazione pubblica può essere monetizzato e ceduto in cambio del
denaro investito in politica, nei politici o nei partiti. Ed ecco spiegato perché
la spesa pubblica è salita fino a coprire il 50% del prodotto interno lordo e
continuerà a salire fino a quando la nostra classe politica, al sud come al nord,
si vedrà costretta a reperire il consenso attraverso la distribuzione delle finanze amministrate.
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Una scomoda verità
Sono certo che vi sentite profondamente disgustati da quanto ho raccontato, delusi da come sia facile aggirare le leggi per frodare lo stato. In
questo momento odiate i politici, ma siete veramente sicuri di essere diversi
da loro? Lo siete veramente? Diversi, intendo. Ve lo chiedo perché il vecchio
Giovanni della Casa nel suo Galateo ha scritto che “gli uomini odiano negli altri
uomini i loro stessi vizi”.
Ho scoperto che aveva ragione quando mi ritrovai a dover affrontare lo
scandalo sollevato dall’assessore del mio stesso partito in merito all’assegnazione “irregolare” delle case popolari che avveniva attraverso l’uso di una
commissione composta da politici. Se scrivo che mi ritrovai travolto è perché ogni giorno ero assalito dai giornalisti che mi chiedevano quanta verità
ci fosse in quella brutta faccenda, tanto che si spinsero a telefonarmi di notte
sperando che, ancora addormentato, mi sarei lasciato sfuggire qualche informazione. Ma la cosa degna di nota fu l’insolito comportamento di alcuni cittadini, fortuna volle che non fossero la maggioranza. In quei giorni capitava
spesso di incontrare uomini e donne dalle proposte indecenti. Dopo aver
esordito con un “ …Beh, se le cose stanno così come dice il tuo assessore” mi domandavano se ero in grado di procurare un alloggio senza i crediti necessari. E
da quel giorno è stato tutto un chiedere favori e violazioni in mille maniere
diverse. Paradossalmente proprio chi mi chiedeva di “aggiustare” i suoi problemi lo faceva a breve distanza dall’aver detto di non credere più nella politica e nemmeno nei politici, a suo dire, tutti ladri, dal primo all’ultimo. Dalle
classi benestanti a quelle povere, senza distinzione alcuna, sono fioccate proposte a tutto andare. Un attore cinematografico che non sentivo da alcuni
anni si fece vivo per chiedermi di permettere ad un suo progetto di rientrare all’interno di un concorso dopo la chiusura del bando. Tentennai e lui non
si fece più sentire. Un piastrellista mi domandò se riuscivo a fargli revocare
una multa per eccesso di velocità. Un professore universitario voleva che gli
facessi avere un “permesso handicap” senza passare dall’apposita commissione
sanitaria. Un fornaio che girava in Porsche mi spedì a casa un cabaret di paste
perché voleva una casa per la bellissima compagna slava. Un ballerino di salsa
cubana reclamò un aiuto per corrompere la commissione di esame in modo
da fargli avere un diploma di scuola superiore. Risposi che non potevo e lui
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si rivolse ad un consigliere regionale. Non so dirvi cosa rispose, ma il ballerino passò l’esame mlagrado fosse un totale analfabeta. Nessuno di questi mi
ha più votato e così mi sono convinto che gli elettori, per il politico onesto,
sono come le scaglie di un serpente, più ne perdi e più sei costretto a fartene spuntare delle nuove sotto le vecchie che hai perduto per sempre.
Non c’è niente da fare, gli uomini adorano sentirsi privilegiati rispetto
agli altri e lo amano a tal punto da chiederti di esercitare il potere anche quando non ce n’è bisogno. Ricordo di un artigiano che voleva un permesso per
circolare con l’auto nel centro storico. Gli dissi che per ottenerlo era più che
sufficiente procurarsi un estratto della Camera di Commercio dove si attestava
che la sua merceria era ubicata all’interno dell’area pedonalizzata. Insomma,
non aveva alcun bisogno che intervenissi personalmente facendo pesare il
mio “titolo” di Consigliere Comunale. Ma nonostante tutto continuò ad insistere dicendo che dovevo interessarmi personalmente. Per levarmelo di
torno, esasperato dalle continue richieste, mi feci consegnare i documenti
necessari e mi recai all’ufficio preposto senza dire chi fossi. Protocollarono
la richiesta rilasciandomi il permesso all’istante. Ancora oggi, quando incontro quell’artigiano, mi chiede cosa può fare per sdebitarsi. Mi offre regali,
aperitivi, pranzi, cene. Evidentemente, adora avere un politico al suo servizio. Al contrario, non ho mai incontrato nessuna persona pronta a sostenermi in virtù della mia attività. Ho impedito la devastazione di giardini pubblici, ho bloccato la penetrazione dei cacciatori nei territori comunali, sventato
l’abbattimento di almeno quaranta alberi monumentali, fermato immonde
cementificate, ne ho fatte tante da essere ricordato, ma neanche una che mi
abbia permesso di avere al fianco un esercito durante le mie campagne elettorali. A onor del vero ho avuto molti sostenitori disinteressati come Sandro
Bianchi, Giosuè Calabria, Francesco Eolini e la sua ragazza l’Antonella, Marco
Vincenzi, Maria Pia Rossi, la Iole e la signora Bianca. Senza dimenticare la mia
più grande sostenitrice, la professoressa di tedesco Daria De Bernadis. Tutti
costoro mi hanno sempre aiutato perchè credevano nelle mie idee, ma in
dieci anni di attività politica mi sembrano davvero pochi. La disonestà e i
clientelismi pagano di più di ogni altra buona azione che puoi compiere,
questo è fuor di dubbio. Una scomoda verità di cui ogni politico è consapevole, la stessa verità che restituisce al popolo i rappresentanti che si merita.
Per la maggior parte degli italiani i politici devono essere uomini integerrimi
in pubblico e degli abili contraffattori di concorsi pubblici in privato.
Altrimenti non si spiegherebbe perché i cittadini di Napoli eleggano amministratori che li fanno vivere in mezzo ai rifiuti. Tanti favori personali e nessun favore alla città nel suo insieme.
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Il Sonnambulo
I sonnambuli sono l’ombra del potere esterno all’associazione politica. Sono i figli dell’attività lobbistica, dei gruppi economici, della criptocrazia e dei comitati d’affari che non metteranno mai apertamente la firma
sotto il sostegno che elargiscono. Nascono e si riproducono di notte per
un proprio fine personale e camminano addormentati negando la relazioche li lega all’evento politico da condizionare. Non troverete in questo caso
una farfalla che sbatte le ali in cima alla montagna per far piovere a valle.
Vedrete sbattere le ali, questo sì, ma senza sapere dove si abbatterà la tempesta. Le armate invisibili istituiscono baluardi di sonnambuli a difesa del
proprio burattinaio. Sponde amiche dentro al sistema. Piccoli uomini politici - senza alcun peso - si ritrovano proiettati dalle stalle alle stelle, dopo
aver firmato il patto col Letzel delle ombre. La definizione di
“Sonnambulo” è tratta da un libro poco conosciuto su Adolf Hitler.
Secondo De Silva, autore del libro Il numero sette (Ed. Mondadori), è proprio nel sonnambulismo di Hitler che deve essere individuata la ragione
delle sue capacità devastanti:
“È veramente un dato interessante, perché ci dimostra che Hitler
era più amico della luna che del sole ed apparteneva alla pericolosa
minoranza dei nottambuli. C’è anzi da pensare che il suo strano
potere fosse intimamente legato a questa condizione. Non dimentichiamo che la notte è madre di tutte le grandi concezioni e di tutti i
delitti…sono notturne le grandi crisi psicologiche, notturno il
nascere e il morire, notturne le orge e la perpetrazione delle cose
orrende. Di notte sono stati scritti i più allucinanti poemi e tracciati i piani più temerari …è un dato curioso, ma importantissimo, l’irritato sonnambulismo di Adolf Hitler contribuì certo in maniera
non trascurabile alla sua grandezza ed alla sua catastrofe…Ecco
perché, appena nominato capo del piccolo partito che doveva condurlo al potere, rispondeva a tutti quelli che gli domandavano quale
fosse il suo programma: proseguirò per il mio cammino con la precisione di un sonnambulo”.
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Nel mondo dei sonnambuli si trova la risposta per spiegare tutto ciò
che accade, ma siccome a gente come me non è consentito entrare in quelle terre lascio ogni risposta inevasa e questo paragrafo incompleto.
Sonnambuli graduati
Nei congressi che determinano le elezioni comunali o provinciali,
cavalcano le orde sonnambule governate dai gruppi legati al mercato dell’edilizia. Dai congressi regionali fino ai congressi nazionali vivono i sonnambuli evocati dalla chimica, dalle biotecnologie, dalle mutue corporazioni, dalla massoneria e dalla mafia. Queste due ultime categorie meritano
un ragionamento a parte. Secondo la Dia, fonte Panorama del 13 agosto
2003, “…la densità criminale della Calabria, ove si operi un rapporto tra
affiliati ai clan e popolazione, è del 27 per cento. Nelle altre regioni il rapporto è rispettivamente, del 12 per cento in Campania, del 10 per cento in
Sicilia, e del 2 per cento in Puglia”.
Dati alla mano è logico concludere che la massa enorme di affiliati che non nutrono alcun timore ad apparentarsi ad associazioni illegali sicuramente più sconvenienti di un semplice ed innocuo partito politico - può
diventare un prolifico vivaio per la produzione standardizzata di sonnambuli. Non dimentichiamo il colossale mercimonio di voti che i mafiosi riescono a gestire in campagna elettorale dopo essere usciti dai ristretti ambiti della nanocrazia. Chiunque pensi che la mafia sia stata battuta per sempre non ha fatto bene i conti con la natura estremamente debole e permeabile delle associazioni politiche. Voti e tessere, due chiavi che chiunque può
afferrare e far girare come crede. Meglio non andare oltre e non minare le
fondamenta stesse del sistema…
Licio Gelli, il gran sonnambulo
La P2 è stata in passato la più grande generatrice di sonnambuli conosciuta ed è noto da tempo che questa arcana e settaria forma d’aggregazione sia penetrata nei processi politici finendo per occupare i gradini più alti
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delle istituzioni determinando avvenimenti che hanno tinto di sangue la
nostra Repubblica . La P2 è stata l’ultima operazione “tangibile” di “sonnambulizzazione” perchè ora, chi raduna e addestra truppe di sonnambuli se ne
guarda bene dal redigere elenchi o stilare programmi. Le moderne società
sonnambule sono associazioni rituali e mnesiche, si fondano cioè su raduni
episodici e sul loro ricordo. La loro forza si fonda proprio su questo, sulla
ricerca d’immaterialità. Per uno Stato non c’è nulla di più pericoloso del
silenzio e di un agire sconosciuto.
Resta il fatto che la P2 ha saputo cogliere nel profondo il repentino
cambiamento della politica italiana del tempo. Su questo conviene riguardarsi quanto scritto da Licio Gelli ponendo a confronto un passo chiave
del programma di “Rinascita Democratica” . Alla voce “procedimenti” si legge:
“Nei confronti del mondo politico occorre: selezionare gli uomini ai quali
può essere affidato il compito di promuovere la rivitalizzazione di ciascuna parte politica… in caso di risposta affermativa, affidare ai prescelti gli
strumenti sufficienti - con i dovuti controlli - a permettere loro di acquisire il predominio nei rispettivi partiti”. Tradotto: paghiamogli le tessere,
sosteniamo le campagne elettorali, e garantiamo una copertura mediatica
per averli dalla nostra. Si noti il trasversalismo degli “uomini ai quali affidare la rivitalizzazione di ciascuna parte politica”. Il vero partito è trasversale,
si estende da una “parte politica” all’altra e si fonda su denaro e affari.
Il Gran Maestro aveva capito tutto ...purtroppo.
Incursori
Mi è capitato spesso di incontrare colonie di sonnambuli chiamate a
raccolta dal partito egemone della coalizione. Milizie di sonnambuli incursori a “due velocità”, leggi con due tessere in tasca, sono state paracadutate
nei congressi dei partiti minori per agevolare i candidati più vicini al partito dominante. Quante storie potrei raccontare su questo... Tale procedimento prendeva il nome di “stabilizzazione” ed era molto in voga negli anni
novanta. I partitini del vecchio Ulivo erano assoggettati a periodiche azioni stabilizzanti, che taluni dirigenti chiamavano “lavaggi”, indicando la
necessità di scrostare quei politici che non gradivano le gestioni “supine”.
Con la crescita del bipolarismo, il fenomeno si è andato attenuando sebbene si ripresenti all’occorrenza: “…Persino a Firenze, le primarie che incoronarono Matteo Renzi, nuovo sindaco ragazzo, si narra che furono gonfiate dalle truppe berlusconiane di Denis Verdini”. Sarà vero? Chi può dirlo,
i veri sonnambuli sono invisibili.
(da La Repubblica del 16 luglio 2009 a pagina 13, politica interna)
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Il risveglio dei dormienti
Opporsi allo stato consolidato dei fatti può sembrare un’impresa
impossibile. Ogni cambiamento potrebbe rinnovare gli uomini, ma non i
loro comuni destini. Michels lo sapeva bene quando concluse le sue riflessioni scrivendo che proprio “coloro che avevano in precedenza accusato la democrazia di oligarchia salgono a loro volta nella classe dominante per permettere ai “nuovi
difensori della libertà” di insorgere in nome di una democrazia che non esiste.”
Sebbene ci si possa scoraggiare dinanzi a simili conclusioni, la storia dell’umanità è lastricata da dilemmi insolvibili risolti e cause perse vinte dalla
pervicacia di alcuni. Senza le eccezioni, nulla sarebbe cambiato. Non è
forse stato dimostrato dai navigatori che la terra è rotonda o che la gravità
esiste perché cadono le mele sulle teste assonnate dei fisici? Perché non
bisognerebbe fare altrettanto con i partiti politici? Le riflessioni di Michels
vanno lette in senso positivo e non come ammonimenti. Se quasi tutti finiscono per diventare il nemico che hanno sempre combattuto, nessuno può
esimersi dal dovere di provarci ancora una volta e forse sarà questa la volta
buona. McKenna ci ricorda delle catene di cui dobbiamo assolutamente liberarci:
“…da troppo tempo dormiamo incatenati dal potere che abbiamo
attribuito alle parti meno nobili di noi stessi e ai meno nobili della
nostra società…È ora di prendere la scatola degli attrezzi, i nostri animali e i sogni più antichi e di partire attraverso il panorama visionario
di una consapevolezza sempre più profonda”.
Proprio così, una consapevolezza capace di svegliare i dormienti
custodi degli ultimi “Frammenti di un insegnamento sconosciuto:
“Se vi sono due o tre uomini svegli tra una moltitudine di addormentati, quelli si riconosceranno subito, mentre gli addormentati, non sapranno distinguerli…Duecento uomini coscienti, che stimassero necessario
il loro intervento, basterebbero a cambiare tutte le condizioni dell’esistenza terrestre” (Ouspensky).
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Nel sonno cercherete i duecento uomini meno uno, che avvolti nella
fredda notte scura hanno mantenuto vivo il senso della giustizia. Con loro
riformerete gli statuti e affronterete le orde sonnambule. Con loro riscriverete le regole che una volta per tutte dovranno valere per sempre. Il gigante Tolkien a futura memoria dei dormienti che si sveglieranno ha scritto:
“Dalle ceneri rinascerà il fuoco, l’ombra sprigionerà una scintilla,
nuova sarà la lama ora rotta e Re quei ch’è senza corona”.
Mi “ f i d o ” di te.
Al prode cavaliere che preferisce i sentieri tranquilli all’infausto inferno congressuale non restano molte alternative.
Stanco di dover produrre tessere in continuazione arrivai alle conclusioni che sarebbe stato meglio trovare un altro modo per spendere i pochi
soldi che mi restavano. Ridendo e scherzando avevo dilapidato l’intera eredità che un vecchio zio mi aveva lasciato dieci anni prima.
Incominciai quindi a cercare un varco che mi consentisse di far politica senza gettare denaro al vento o promettere favori che non sarei riuscito
ad adempiere. Ero sfinito dal dover sempre temporeggiare in mille maniere diverse quando i questuanti si presentavano all’incasso per chiedere
assunzioni, lavoro e quant’altro. Tenere unito un gruppo all’interno di un
piccolo partito è incredibilmente snervante.
Dopo lunghe ricerche intravidi un ponte che faceva al caso mio, pochi
passi e mi sarei trovato a vivere anch’io nella terra dei balocchi. Lo sanno tutti,
anche le rane del mio stagno, che se entri in certi giri sei a posto fin che
vivi. Prima in Parlamento, poi consulente, poi membro di quel consiglio di
amministrazione e via così fino alla pensione.
Fu Maccione a condurmi dalla Fata Turchina che qualcuno aveva messo
a guardia del ponte. Era quello stesso Maccione che, anni dopo, avrebbe
tentato di convincermi a fondare una succursale del partito di Obama in
Italia. Ci recammo insieme all’appuntamento. Entrambi ne avevano piene
le scatole degli onorevoli ecologisti romani che si erano rammolliti a forza
di andare ai cocktail di beneficenza. Ormai frequentavano solo i salotti
romani, gli uffici stampa pieni di belle donne e i gran galà del Quirinale. Era
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invidia? Anche, ma non solo. Gli Onorevoli ecologisti se la cavavano soltanto a chiacchiere, mentre la gente ti chiedeva una forte presenza sul territorio e una risposta adeguata all’attacco ambientale, al consumo esasperato di territorio, agli organismi geneticamente modificati. I nostri papaveri
verdi, al contrario, sciorinavano quattro battute davanti ad un pubblico allibito dal logorroico politichese e se ne ritornavano a Roma dopo un pranzo a base di aragosta.
Ci recammo presso la sede di un nuovo partito fondato da un ex magistrato entrato da poco nell’agone politico. Questo signore non mi dispiaceva perché mescolava i modi diretti - volendo un po’ naïf - ad uno spirito bonario che gli consentiva di avere sempre la battuta pronta. Non era
riuscito ad allearsi alle due coalizioni dominanti per via di certe scelte
discutibili compiute da quelli che sulle prime avevano favorito la sua discesa in campo. Dopo avergli messo la bandiera in pugno avevano avuto la
faccia tosta di candidare alcuni personaggi a cui aveva dato la caccia quando era ancora un Magistrato. Ad esempio, riteneva che Giuliano
Amatopolino sarebbe dovuto starsene ad Hammamet con l’amico Bettino e
non a capo di quel ministero chiave che gli era già stato destinato in caso
di vittoria. Sui giornali non ne fece mistero e fu quindi messo alla porta.
L’aver rinunciato al premio di maggioranza che l’Ulivo dispensava agli
alleati “supini” era più che sufficiente per fare di lui un eroe e se a quell’epoca non gli ho dato manforte abbandonando l’acidulo partito verde è solo
perché amava farsi fotografare durante le battute di caccia al fagiano che si
svolgevano sulle montagne del Mugello. Odiavo la caccia e amavo i fagiani
vivi, capisco di non essere del tutto a casa, ma non posso nascondere la
verità.
Avrebbe quindi corso alle elezioni da solo, ma per riuscirci doveva
chiudere le liste al più presto. Purtroppo per lui non era ancora riuscito a
risolvere un problemino che nasce tutte le volte che si mette in piedi un
partito da zero: non aveva una lira. Per questo aveva incaricato i collaboratori di reperire ovunque tutte le risorse disponibili.
Il suo uomo all’Avana, in forza a Bologna, era una ragazza con le lentiggini, due occhi da cerbiatta e con due seni rotondi delicatamente adagiati in un corpetto a balconcino. Anche Maccione nutriva un certo interesse
per quelle due sfere celestiali. Nugoli di cupidi serafini, nati da esuberanti
fantasie che non era riuscito a trattenere, si mescolavano alle frasi sconnesse che gli cadevano fuori dalla bocca come pezzi di baccalà salato. Ancor
prima di essersi seduto al tavolo delle trattative aveva già deciso cosa fare.
L’avrebbe seguita, spada in pugno, fin nelle più sperdute lande parla259
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mentari. Con noi, da solo, con altri, non aveva nessuna importanza. Il dado
era tratto!
La fata turchina ci fece accomodare attorno al tavolo e se non fosse
stata così affascinante da farsi perdonare ogni crimine avrei classificato le
maniere con le quali ci propose di entrare a far parte del suo partito come
un atto di puro opportunismo mercantile degno di un fruttivendolo, tanto
per restare in tema di oggetti globiformi.
Chiunque si fosse voluto candidare doveva firmare una fideiussione
fino ad un massimo di cento milioni. Il costo dipendeva dal collegio scelto che saliva o scendeva eleggendosi ad unità di misura in base ai voti raccolti dal partito alle precedenti elezioni europee. Il dito della Fatina correva sulla carta geografica, mentre i pregi e i difetti delle circoscrizioni, erano
sviscerati in modo così meticoloso da farla apparire come un convincente
imbonitore televisivo in procinto di rifilarti l’ultimo modello di un noto
aspirapolvere. Il candidato avrebbe poi dovuto garantire la sua onorabilità allegando la documentazione inerente al possesso di immobili o di qualsiasi altro bene. Le Mercedes usate sarebbero state valutate in base ai chilometri. Quando domandai se le qualità personali incidessero sulla scelta
mi fu risposto: “non più di tanto…”. Qualora il partito avesse totalizzato
il quattro per cento, i soldi sarebbero stati restituiti. In caso contrario, smarriti completamente. Nel frattempo le perdite potevano essere compensate
dalla vendita di magliette, dalle percentuali sottratte alle cene elettorali, dai
gadget e quant’altro. Ingenuamente chiesi se era disponibile un collegio da
cinquecentomila lire. Mi guardò come si guarda un fesso e sorrise. Non c’era
nessun “collegio discount” alla portata delle mie finanze e fui costretto a
rinunciare. Prima di andarmene la salutai dicendo che speravo nei saldi di
primavera.
Quel partito si avvicinò al 4% senza raggiungerlo e così, in un primo
tempo, nessun candidato fu risarcito delle fideiussioni. Cambiarono la
legge e il finanziamento fu concesso anche ai partiti che non avevano raggiunto la percentuale richiesta, ma non ho mai saputo se l’investimento sia
poi rientrato nelle tasche dei candidati.
Maccione non venne eletto e soltanto un candidato di quel neonato
partito riuscì ad entrare in Parlamento grazie a indecifrabili alchimie elettorali. Questo fortunato signore, anzichè gioire e ringraziare, dopo neanche
un giorno, cambiò bandiera.
Se il diavolo fa le pentole, ognuno si sceglie i coperchi da solo.
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I salmoni
Niente paura, la strada della rappresentanza è dura ma non impossibile. Nulla deve essere lasciato intentato. Se un principe si trasforma in rospo
dopo essere stato baciato dalla principessa, un candidato può sempre trasformarsi in un pesce per essere eletto in Parlamento.
I salmoni risalgono i torrenti per raggiungere il lago di montagna dove
avviene la riproduzione. Si tratta di un viaggio lungo, disseminato di trappole e irto di ostacoli. Gli alberi caduti nel letto del torrente, gli orsi affamati e le stesse cascate che bisogna risalire nuotando controcorrente possono apparire come barriere insormontabili. Ma i salmoni possiedono un
corpo snello dotato di pinne mosse da vigorosi muscoli natatori che permettono considerevoli balzi in avanti. I salmoni hanno così imparato a saltare gli ostacoli nel corso dell’evoluzione. E non sono i soli.
“La determinazione” - si legge in (E)lezioni di successo di Alberto Cattaneo
e Paolo Zanetto, edito da Etas - “la determinazione delle liste elettorali è
comunemente compiuta dalle segreterie di partito e dai loro leader. Per
l’aspirante politico si tratta di “giocarsi” al meglio le relazioni che possiede con i decisori all’interno del partito per entrare a far parte della
lista.”
All’aspirante politico, sprovvisto di finanze e senza alcun seguito, non
resta quindi che “giocarsi” il capo “al meglio”. Il salmone invia doni assortiti al
capo, Champagne Magnum, libri, quadri, cd, dipende dai gusti. A Natale compone ceste natalizie, botanico dilettante cerca frutti sconosciuti, interroga gli
enologi sui vini rari così da imbandire ricche cornucopie. Ma ogni segretario
che si rispetta non dirotta gli aerei, ma i regali. Prende le ceste del salmone,
cambia il biglietto d’auguri e le rispedisce ad altri. Ci sono ceste di salmoni che,
a insaputa dei loro primi mittenti, hanno fatto promuovere un deputato a sottosegretario e un tirapiedi a senatore. Altre ceste natalizie, meno pregiate delle
precedenti, sono in viaggio da un ufficio a un altro da non meno di dieci anni
e sembra proprio che continueranno a girare dentro a Montecitorio ancora a
lungo. Il salmone è quindi costretto a ricominciare tutto da capo.
Batte i barbieri fino ad una calvizie indotta da forbici e rasoio.
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Frequenta i salumieri alle ore dedicate dall’Onorevole alla spesa salvo poi
scoprire che i “castigiani” mangiano tutti alla buvette. S’intrufola nei circoli
esclusivi, bridge, canottaggio, golf e tennis, dove mogli e figlie dei potenti
ammazzano la noia chiacchierando all’oscuro dell’imminente safari del salmone. Offre Martini e Cuba Libre con gli ombrellini, frizzantini a non finire, così da non far apparire troppo esplicito il suo scopo. Dispensa cocktail
a destra e a manca e riempie il calice a chiunque, anche ai ragionieri, maestri di rovescio, che poco o nulla hanno a che vedere con l’alta politica
romana.
Dai oggi e dai domani, dai cocktail è rovinato. Dai barman protestato.
Dai tribunali liquidato. Ma la corsa dei salmoni non si ferma nel disdoro
se la meta è una poltrona tutta d’oro.
Lo sponsor “ff a i d a t e ”
Se fallisce la vita da salmone e le risorse continuano a scarseggiare si
può sempre promuovere una campagna di finanziamento.
L’applicazione del found raising alla politica verte sostanzialmente sull’organizzazione di pranzi e cene la cui finalità viene spesso fraintesa.
Facciamo un passo indietro per capire cosa intendo.
Durante il vecchio proporzionale era consuetudine guadagnarsi le preferenze invitando gli elettori al ristorante. Il solito indiano di nome
Geronimo racconta che durante le vecchie campagne elettorali, quando
ancora viveva libero nelle sconfinate praterie della Prima Repubblica, per
pranzi e cene elettorali si poteva spendere fino a due miliardi di vecchie lire
per collegio. A quei tempi tutti gli invitati erano al corrente che alla fine del
pranzo, subito dopo il caffè e l’ammazzacaffè, nessuno avrebbe dovuto
aprire il portafoglio per saldare il conto. Bastava intascarsi il fac-simile
della scheda precompilata per andarsene dal locale senza aver sborsato un
centesimo. Tale consuetudine non è andata perduta e sopravvive ancora ai
giorni nostri pur rivolgendosi agli elettori, meno abbienti, del candidato.
Gli altri, quelli ricchi, subiscono un trattamento completamente diverso.
Tant’é vero che al termine del pranzo il santino elettorale giunge insieme
al conto. A quel punto si guardano tutti attorno imbarazzati. Si rendono
conto che il candidato non chiede soltanto il voto, ma anche un sostegno
economico alla campagna elettorale e si verifica cioè l’esatto contrario di
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quello che accadeva una volta. Qualcuno fugge di soppiatto, altri se ne
vanno fingendo di non aver capito, i meno fantasiosi si nascondono sotto
il tavolo. E questo improvviso smaterializzarsi di elettori non è l’unico
inconveniente. Bisogna fare sempre molta attenzione nel dividere gli invitati che mangeranno gratis da quelli che saranno costretti a diventare i
finanziatori della campagna elettorale.
È opportuno verificare ogni eventuale conoscenza, perché si può
facilmente incorrere nelle ire dei “paccati” *, il cui zio o cugino, invitato la
sera prima ad un banchetto simile, non ha dovuto cacciare cento euro per
una lasagna surgelata, affettati in vaschetta e vino con il coperchino schiarito col metabisolfito.
* Paccati: sinonimo gergale di fregato, destinatario di pacchi mancini.
Meno raccomandate per tutti
Spedire una lettera costa qualcosa di più di un caffè. Ma nel libero
mercato ciascuna azienda può decidere liberamente il prezzo dei servizi
erogati. Tempo addietro mi colpì una notizia apparsa sui quotidiani. A
chiunque fosse venuto in mente di presentare la propria candidatura al
Presidente “meno tasse per tutti” doveva sborsare una
decina di milioni solo per essere certo che la proposta finisse sulla scrivania di Arcore. Meno tasse per
tutti, ma non certo per i politici.
Quindi, per spedire il proprio curriculum
vitae, chiuso in un plico di pochi grammi, da
una qualsiasi località italiana in provincia di
Milano, restando pur sempre all’interno dei
confini nazionali, bisognava chiedere un
finanziamento alla banca.
Si trattava della spedizione più costosa
di tutta la storia postale dell’umanità. Sicché, se
i politici sono costretti a rubare la colpa non è
la loro, ma di quei corrieri che richiedono cifre
da capogiro per trasportare una lettera da una
città all’altra del paese.
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Ritorno in aula
L’imputato aveva terminato di leggere il bestiario di zoologia politica
ritrovato casualmente in quell’albergo di Chianciano. Malgrado la durata
dell’esposizione, tutto il pubblico presente in sala, la Giuria e i giornalisti,
non sembravano affatto stanchi. Anzi, grazie a tutti quegli aneddoti potevano finalmente vedere il mondo della politica con occhi diversi. Dalle
espressioni s’intuiva che volessero continuare ad ascoltare delle altre storie
e quello che doveva essere un processo si era mutato in un’avvincente confessione, nella resa dei conti di un uomo che non ha più nulla da perdere
se non le sue catene. Anche il Giudice, forse soprapensiero, si dimenticò
dell’Accusa che stava interrogando l’imputato e gli chiese se poteva ricominciare dal principio e cioè dal giorno in cui aveva deciso di entrare in
politica.
“Le motivazioni” – sottolineò il Giudice – “le motivazioni che l’hanno
spinta a fare il grande passo m’interessano particolarmente, quelle che l’hanno costretta ad abbandonare una vita normale per concedersi anima e corpo
alla creatura”
“Non vorrei deluderla” – si rammaricò l’imputato – “in principio non
credo di essere stato mosso da una ragione profonda. O meglio, diciamo così”
– fece un pausa per cercare le parole più adatte – “Quando presi coscienza che mio padre
aveva bisogno di un aiuto per via di alcuni
meschini politicanti che assediavano il partito
verde decisi che non avrei potuto restarmene
con le mani in mano. Dovevo arruolarmi per
consentirgli di fare quello per cui è sempre
stato tagliato e cioè un buon lavoro. Da quel
lontano 1999 i giorni, i mesi, gli anni, sono
volati via all’ombra di mille battaglie” - abbassò il capo - “soltanto quando vidi che la salute di mio padre era stata così duramente provata da costringerlo al ritiro, presi il suo posto.
Ma è bene, come mi chiede vostro Onore,
ricominciare dall’inizio”.
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Nani, alpinisti e ballerine
Nel 1999 il partito degli ambientalisti candidò mio padre: Giorgio Celli.
Questa decisione fu maturata dall’allora Presidente, Luigi Manicon e un ruolo
di primo piano lo giocò un mio caro amico di Rovigo, il dottor Claudio Modena,
che avevo conosciuto poco prima di girare un documentario sul Delta del Po.
Fu proprio lui, che lavorava per il Ministero dell’Ambiente ed era sempre a
Roma, ad intercedere con Manicon, il quale non sapeva neppure che mio mio
padre fosse iscritto al partito verde.
Mancon era un sociologo, un professore universitario, imprestato alla
politica per dare un senso al disordinato movimento verde. Si trattava di un
politico colto e dalle letture ricercate, anche se un po’ troppo sbilanciato sulle
questioni sociali. In seguito ho riscontrato quanto fosse diffusa questa attitudine. Alle riunioni degli ecologisti era molto più facile discutere di problemi
legati all’immigrazione e molto meno di biodiversità, quasi per niente di alberi e riforestazione urbana. In tempi più recenti, quando ho letto che a Milano
pianteranno 36 carpini in piazza Duomo ho capito di non aver lottato invano,
ma allora, quando il partito verde veleggiava intorno ad un misero 3%, se parlavi di alberi ti ridevano dietro. Insomma, Manicon era un ottimo presidente,
ma ugualmente ritengo che sarebbe stato più adatto a presiedere il Partito di
Rifondazione Comunista che non quello verde. Mancavano meno di tre mesi
alle elezioni europee. Tre soli mesi per raccogliere voti in una delle campagne
elettorali più assurde di tutto il sistema democratico. Alle europee i cittadini
sono costretti ad eleggere un rappresentante che entrerà a far parte di un’istituzione che, oltre a possedere dei poteri estremamente limitati, è scarsamente conosciuta. Da molti antieuropeisti è considerata un ente inutile, o peggio,
un covo di burocrati che vorrebbe dettar legge su tutto, compreso il diametro
dei fagiolini. Un tale discredito deriva dal fatto che la Comunità Europea, con
tutto l’apparato burocratico che la circonda, si fonda su processi decisionali
che finiscono per nascondere la paternità delle sue azioni attraverso una sorta
di scaricabarile all’incontrario. Solitamente, nei governi locali accade l’opposto. Se in una ridente cittadina di campagna il Comune decide di chiudere una
strada al transito, i commercianti, da quei grandi cacciatori di responsabilità
che sono sempre stati, andranno in Comune per farsi consegnare gli esiti delle
votazioni e procurarsi un’inconfutabile prova cartacea che il Consigliere Gino
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Bianchi ha votato a favore e Sandro Neri contro. Da quel momento, fra un etto
di prosciutto e un bicchiere di vino rosso, un biliardo e una camicia ritirata al
lavasecco, il Consigliere Bianchi sarà conosciuto per “…si dice in giro che
venda droga ai giardinetti d’infanzia” piuttosto che per essere riuscito a far
ristrutturare l’ospizio cittadino. Maldicenza dopo maldicenza, il Consigliere
Bianchi sarà passato per le armi al tramontar del sole.
La Comunità Europea risolve il problema dell’individuazione del colpevole. Intanto, solo un’esigua minoranza riesce a pagarsi un viaggio fino a
Bruxelles. E anche quando le finanze lo permettono non è affatto facile per i
manifestanti trovare la strada giusta per il Parlamento Europeo. Se vai a Parigi
e vuoi farti un giro ai magazzini generali puoi raggiungerli facilmente usando
il metrò perché sotto la fermata Chausée d’Antin, riportata su tutte le piantine,
ci trovi scritto La Fayette, mentre se vai nella capitale belga scoprirai che sotto
la fermata Schuman non c’è scritto nient’altro. Certo, chi conosce la storia può
facilmente immaginare che, essendo Robert Schuman uno dei padri fondatori
dell’Unione Europea, quella sia certamente la fermata più vicina
all’Europarlamento, ma per il povero contestatore straniero - poco incline al
francese e al fiammingo, spossato dalla lunga trasferta - il gioco si fa duro.
A tutto questo si aggiunga che le Direttive Comunitarie sono recepite a
distanza di anni da tutte le istituzioni sottoposte come Stati e Regioni, istituendo una comunità estesa di responsabili dove è impossibile individuare il capro
espiatorio da immolare sulla pubblica piazza. La decisione presa dalla UE che
permettere ai mussulmani di sgozzare i montoni (senza stordirli prima di
tagliar loro la gola) è stata presa quasi di nascosto. Solamente quando i
Parlamenti degli Stati Membri si sono trovati costretti a dover recepire la direttiva sulla “macellazione rituale” si è aperto un accalorato dibattito, ma ormai era
tardi per impedirne l’adozione.
“Non si può certo mettere l’Italia contro la Comunità Europea!”, sentenziarono molti Onorevoli che votarono a favore della legge, tolta la Lega è
pochi altri. Si è quindi trattato di un evento che rientra in quel fenomeno che
Ralf Dahrendorf ha definito come “emigrazione delle decisioni”, anche se sarebbe
stato meglio chiamarlo: “istituzione dell’impunità elettorale”.
Su questo, il sociologo tedesco si è espresso chiaramente:
“Comunque si definisca o si descriva lo spazio tradizionale delle istituzioni democratiche, almeno da un punto di vista europeo, è certo che esso sta
perdendo rapidamente terreno rispetto alle decisioni importanti: è la Banca
Centrale Europea a decidere i tassi d’interesse; è la Nato a pianificare gli
attacchi aerei; è il Fondo Monetario Internazionale a decidere chi debba o
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meno ricevere ulteriore aiuto da parte della comunità internazionale. In
questi casi, almeno, ci si confronta con delle istituzioni”.
Per questo e per molti altri motivi, in primis l’estensione del collegio,
le elezioni europee costringono i partiti alla scelta di candidati la cui fama
riesca a compensare la scarsa conoscenza del Governo Europeo. La scena
si popola allora dei cosiddetti “nani e ballerine” così sopranominati in maniera dispregiativa dagli stessi politici di professione che soffrono non poco
per la celebrità altrui che si trasforma nello stesso consenso elettorale che
a loro è costato lacrime e sangue.
Ce n’è per tutti i gusti: transessuali, calciatori, modelle, igieniste dentali, massaggiatori sportivi, cartomanti, imbonitori e, come nel caso di mio
padre, conduttori televisivi. Sono la “carne da cannone” con la quale i partiti
tentano di succhiare al popolo tutti quei voti che non sarebbero mai concessi ai simboli politici, ma solo alle persone celebri. Questi candidati
saranno ripagati nel peggiore dei modi perché lo stesso partito, concentrando ad hoc le preferenze di cui dispone li farà cadere fulminati come
mosche, bollandoli con fare dispregiativo con il nome di “trombati”.
Non vi era quindi miglior “nano” che gli ambientalisti potessero scegliersi nel 1999 quando candidarono Giorgio Celli, mio padre.
Il Professore, così lo chiamavano tutti, amici e nemici, studenti ed amanti, annoverava molto talento e un’infinità di frecce al suo arco: autore televisivo, presentatore, scrittore, drammaturgo, poeta, critico d’arte, adoratore dei
gatti, ecologista, etologo, entomologo, professore all’ultimo grado della scala
universitaria, fondatore della prima bio - fabbrica italiana di insetti utili, curatore di percorsi museali e leggendario donnaiolo. Insomma, non avrebbe avuto
rivali rastrellando voti in ogni dove, dalle metropoli alle sperdute province. Ma
se chiodo scaccia chiodo confezionarono per lui una di quelle trappole di cui
nessuno immaginerebbe mai l’esistenza. Dopo che mio padre aveva sottoscritto la cosiddetta “accettazione della candidatura” candidarono una leggenda
vivente dell’alpinismo, al secolo Reinnhold Ermes. Alla fama opposero la fama
sperando di annullarle entrambe per trarne il maggior beneficio possibile per
loro, per i dirigenti romani del partito verde, s’intende. L’avventura non stava
quindi filando liscia come l’olio, anzi in giro c’era solo dell’appiccicoso catrame nero sparso da chi aveva tutto l’interesse che Giorgio Celli perdesse le elezioni.
In un tardo pomeriggio di inizio estate mio padre alzò il telefono e mi
chiamò. Per la prima volta nella mia vita aveva bisogno del mio aiuto e non
io del suo.
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Attenti al lupo
Avevo da tempo maturato l’idea che dietro all’apparenza innocua degli
avvenimenti, anche i più banali, si nascondesse l’agire occulto di qualcuno.
Ero così convinto nell’affermare questo principio che in casa mi ero guadagnato la nomea di dietrologo. Qualcosa mi diceva che una dote di questa
strana natura, mi sarebbe prima o poi servita a sopravvivere e così fu.
Quel tardo pomeriggio, quando incontrai mio padre nel suo studio
all’Università, faceva un caldo terribile malgrado ci trovassimo solo all’inizio dell’estate. Mi chiese di scendere a fare due passi nel giardino della
facoltà: un eden arboreo arroccato dietro alle vecchie mura medioevali
della città dove in seguito, le solite cooperative, avrebbero poi costruito un
parcheggio. All’ombra dei tigli profumati c’erano due file di casettine colorate delle api, poco distanti dalla panchina dove solitamente andavamo a
sederci. Davanti a noi, proprio all’ingresso del giardino, dimorava la maestosa e possente quercia centenaria sotto la quale avevo trascorso gran
parte dei pomeriggi della mia infanzia mentre l’illustre Professor Celli faceva lezione agli studenti bramosi di conoscere i segreti delle coccinelle, avide
divoratrici di afidi.
Mio padre si fermò a controllare le telecamere che usava per scoprire
se gli apoidei possedessero una mente cognitiva. Una leggera brezza accarezzò i nostri volti concedendoci una tregua dal caldo, mentre l’impeccabile silenzio di quel pomeriggio era rotto solo dal ronzio delle api che bottinavano i fiori del prato. Mi lanciò uno sguardo sornione:
“Se sei un dietrologo” – disse – “ spiegami un po’ perché, dopo avermi candidato, nessuno mi risponde più al telefono?”.
Il grande professore, emulo di Karl Von Frisch, malgrado avesse studiato per tutta la vita l’etologia degli animali, non riusciva a trovare una risposta ad un comportamento umano.
Dopo essere rientrati nel suo studio mi ritrovai fra le mani un volume
di uno dei padri dell’Entomologia, vissuto a cavallo del secolo, Cavaliere
Templare degli scarabei, nonché maestro di mio padre: il professor Guido
Grandi. Una frase di questo libro dedicato agli insetti mi colpì così profondamente da identificarla come un segno del destino:
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“È una tale apocalittica stirpe di esseri che noi tenteremo di porre
innanzi, con parole piane, al lettore, perché impari a conoscere
alcune delle più occulte e stupefacenti manifestazioni della vita, e a
trarne i dovuti e salutiferi insegnamenti”.
La più occulta e stupefacente manifestazione della vita è certamente la
politica e l’apocalittica stirpe di esseri sono, senza dubbio alcuno i politici
e non certo gli innocui insetti. Guardai il Professore mettere in ordine la
scrivania. Chiusi il libro e accettai l’incarico: “Ci penso io!” – dissi.
Il dietrologo aveva appena raccolto il guanto di sfida lanciato da suo
padre. Stavo per diventare un politico, o forse, lo ero sempre stato senza
saperlo.
La sede del partito
Incominciai così a frequentare la federazione locale del partito. Il
Presidente provinciale Filippo Boriazzi aveva avuto la brillante idea di affittare un’ex pellicceria. Non si era preso neppure il disturbo di cambiare l’arredamento, così, quando entravi, ti saresti aspettato di trovarti faccia a faccia con una lontra morta o uno zibellino cucito a forma di sciarpa.
Si accedeva alla sede oltrepassando una vetrina situata sotto il portico
di via Augusto Righi, al fianco della pizzeria Il rosso, ora soltanto ristorante,
ma pur sempre un luogo caratteristico della Bologna di una volta. Un centinaio di metri quadrati erano stati divisi in tre uffici di rappresentanza (l’ufficio e l’anticamera del Parlamentare eletto nel collegio e la segreteria del
partito regionale governata da un’acida signora di 200 chili), una cucina con
tanto di stoviglie arrugginite, un bagno, e una grande sala conferenze che
sfoggiava un colossale tavolo di marmo color tabacco. Alle pareti erano
rimasti appesi alcuni specchi incorniciati da croste dorate mentre sui muri
spiccava una carta da parati turchese. C’erano poi degli stucchi sugli spigoli e un decoro floreale di gesso incollato al soffitto. Una mostruosa pacchianeria frutto della fusione di un film Peplum con un pub situato nella
zona rossa di Amsterdam gestito da studenti fricchettoni con il pallino della
politica. In giro ci potevi trovare di tutto: fasci di manifesti, torri pendenti
di pieghevoli, bandiere sporche, lattine vuote di birra, manifesti arrotolati.
Odore di polvere e di carta vecchia si mescolavano al fumo delle sigarette
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di cui si faceva un gran uso durante le riunioni. Ma quello che più ti colpiva era la scollatura esistente tra il programma elettorale e lo stato delle cose.
Nessuno differenziava la carta. Lo sciacquone del bagno scrosciava acqua
in continuazione per via di un manicotto rotto e non certo per ionizzare
l’ambiente come una fontanella zen. Per arrivare alla sala riunioni bisognava arrampicarsi su per una scala ripida e tortuosa che avrebbe dissuaso ogni
handicappato in carrozzina giunto ad una riunione dei vertici locali del partito per chiedere l’abolizione delle barriere architettoniche. Nessuno sembrava convincersi del fatto che chiunque fosse entrato in quel posto, dopo
aver fatto due più due, avrebbe detto addio per sempre agli ecologisti scesi
in politica per far valere le ragioni dell’ambiente. Evidentemente, se il partito continuava a sopravvivere tra gli zero virgola delle percentuali elettorali, lo doveva alla scarsa conoscenza che gli elettori avevano della sua sede
o quantomeno alla mancanza di una valida alternativa.
Ogni giovedi sera si svolgeva la consueta riunione settimanale moderata
dal Portavoce Comunale, Gianni Prugnoli, il tecnico di radiologia che viveva
nella speranza di essere prima o poi trasferito in Regione o presso un gruppo
istituzionale in modo da potersi dedicare interamente al partito.
Renzo Banderuoli era sul libro paga del cognato Onorevole e faceva
sempre gli onori di casa con la discrezione di un maggiordomo inglese. Tra
tutti era il più simpatico e quando rideva gli spuntavano dalle labbra due
grossi fanoni di balena a forma di zappa ai quali subentrò nel giro di pochi
anni una bella dentiera. Ci parlavo volentieri, anche se rimaneva inguaribilmente fedele alla linea dettata dal partito, e cioè a quella del cognato.
Franco Piana, era pelato e con la barba. Ci teneva particolarmente a
far risaltare un aspetto riflessivo stringendo la sigaretta tra l’anulare e il
mignolo. Parlava poco e quando apriva bocca il tono era pacato, alle volte
così sussurrato che si faticava a sentirlo, ciò nonostante le sue deduzioni
erano intrise di maldicenze maleodoranti quanto lo sarebbe potuto essere
un pannolino sporco. Infine c’era Amed Birichini un arabo che era riuscito
a farsi assumere alla Regione come responsabile “parapapà” di un non
meglio precisato “organo istituzionale”. Si diceva comprasse i voti per cinquanta mila delle vecchie lire da quei pochi extracomunitari che potevano
votare. Un voto oggi a Tizio e un voto domani a Caio ed ecco che si era
sistemato per tutta la vita alla faccia dei poveretti che devono alzarsi tutte
le mattine per andare a scaricare le cassette di frutta nei mercati.
Alle riunioni partecipavano raramente gli eletti, quasi mai i cittadini e
non tardai a comprenderne le ragioni. I convenuti seduti ordinatamente
davanti a Prugnoli, che con l’andar del tempo aveva finito per assomiglia270
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re ad una pustola arrossata in procinto di scoppiare, discutevano ogni volta
sul ruolo e il peso che il partito verde avrebbe dovuto avere all’interno
dell’Ulivo. Dibattiti noiosi, talvolta combattuti, che si mutavano in discussioni sul ruolo che ogni presente avrebbe dovuto rivestire in questo o quell’altro ente di secondo grado o in un’altra appetitosa istituzione dove imboscarsi e vivere per sempre alle spalle della collettività. Nel corso della serata si spartivano tutti i posti liberi da Cattolica a Piacenza salvo poi convenire
che i Ds erano così cattivi ed egoisti che avrebbero tenuto tutte le cariche
per loro.
Dopodiché si apriva un dibattito che verteva sul decidere quali eletti si
erano resi colpevoli di aver male interpretato la linea dettata dal partito.
Citando il pensiero degli innumerevoli elettori assenti - solo i presenti riuscivano a coniugarne le aspettative – sentenziavano condanne a tutto spiano malgrado l’indisposizione degli imputati. Individuati i capi d’accusa, la
serata terminava scrivendo lunghi papiri di scomunica inviati ai consiglieri
comunali di ogni dove che regolarmente levavano le tende dal partito senza
farselo ripetere due volte. Non si trattava tanto di pavoneggiare la forza
delle dirigenze elette da qualche congresso taroccato, quanto di godersi il
gusto particolare di essere riusciti a scacciare qualcuno. Credo ci godessero. Anzi si vantavano persino e quando litigavano tra loro si minacciavano
appellandosi a tutte le espulsioni di cui dicevano di essere stati gli unici
artefici. Se poi ti mettevi ad indagare scoprivi che gli espulsi erano stati
troppo autonomi da quel gruppo di lunatici ecologisti. In una parola avevano fatto quello che ritenevano giusto in nome di chi li aveva eletti senza
cedere alle richieste di chi voleva spuntare qualche poltrona per sé.
Quando restava un po’ di tempo erano indette decine di azioni suddivise tra volantinaggi e manifestazioni, quasi tutte rimandate a data da destinarsi per mancanza di volontari. Imparai ben presto che se volevo proporre un’azione politica questa doveva rispondere a due requisiti. Non doveva
contestare alcunché che gravasse intorno ai Ds e soprattutto andava proposta in privata sede e in anticipo a Prugnoli, cosicché lui avrebbe potuto
presentarla come un’iniziativa sua che veniva affidata a me. Detto questo
chiunque poteva aderire, ma siccome ero l’ultimo arrivato nessuno aderiva.
Così che tutti gli alberi che ho piantumato in città me li sono sempre piantati da solo.
Per un paio di volte tentai di vivacizzare le serate invitando alcuni
amici all’oscuro di tutto, ma al termine della riunione mi sentivo in dovere
di offrire loro da bere in cambio della pessima serata e a quel punto mi
chiedevano come riuscissi a sopportare uno “sfogatoio” simile. Usarono pro271
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prio questo termine che non avevo mai sentito e che si adattava benissimo
a quelle serate: da incubo. Se questa è la politica: tenetevela! Salutavano e
chi li vedeva più? Lo sa bene Piero Nobile che correva dietro ai fuggiaschi
cercando di trattenerli in tutti i modi.
Se penso agli anni che hanno preceduto Genova mi convinco di averli vissuti in un clima opprimente, attarversato da relazioni acide e altri rancori. Mi ritornano alla mente quei sedili di plastica della sala riunioni, risento le voci di quelle tediose serate, ritornano i manifesti ingialliti e mezzo
scollati dalle pareti e l’odore artificioso del deumidificatore nel quale la
segretaria della federazione versava dolciastre essenze di pino silvestre.
Dopo un’esperienza del genere chiunque avrebbe visto nel nuovo
Portavoce Roy - tuttavia ancora molto lontano - l’angelo della salvezza.
Appuntamento al buio
Ad ogni occasione domandavo di conoscere la linea del partito e cioè
chiedevo di conoscere con esattezza quali strumenti organizzativi sarebbero stati posti in campo per animare la campagna elettorale, ma gli interpellati lasciavano cadere la domanda con una certa indifferenza. Immaginavo,
forse ingenuamente, che i candidati al parlamento europeo sarebbero
dovuti essere invitati ad un certo numero di iniziative organizzate dal partito, un “plafond” di incontri dove veniva illustrato il programma e le battaglie più significative da combattere in sede europea. Al contrario, incominciai a capire che la promozione elettorale era affidata all’intraprendenza dei
singoli. Il capo di quella banda, il famigerato parlamentare di collegio, dopo
molte insistenze, mi concesse un appuntamento. Passai due ore seduto in
anticamera aspettando di ricevere udienza. Quando finalmente arrivarono
alcuni suoi amici pensai che era finalmente arrivato il mio turno e che
prima di farli entrare avrebbe ascoltato quanto avevo da dirgli. Mi sbagliavo. L’Onorevole uscì dalla porta, abbozzò un sorriso nella mia direzione e
abbracciò festoso i visitatori tra i quali riconobbi Nando della Cattedrale che
a quel tempo portava ancora due corposi baffoni. Li guardai andar via
mentre si facevano inghiottire dalla ripida scala uno dopo l’altro. Dalla finestra li vidi mentre attraversavano la strada ed entravano nella pizzeria di
fronte.
Poco dopo comparve l’elefantesca segretaria che uscendo bofonchiò
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che quando me ne fossi andato avrei dovuto tirarmi dietro la porta. Ero
rimasto solo in quel posto deserto mentre la controparte del mio appuntamento stava molto probabilmente mangiando a quattro palmenti. Me ne
restai lì da solo e ancora una volta mi guardai intorno. Solo la poltrona che
vedevo attraverso la fessura della porta che dava sull’ufficio dell’Onorevole
emanava la solita autorevolezza di sempre. Lo schienale ovale, slanciato
verso l’alto, richiamava il trapezio muscoloso del culturista, mentre l’essenza legnosa, lucidata a specchio, incorniciava un’imbottitura di raso vermiglio incoronata da una fila di borchie dorate. L’ utilizzatore finale era ovviamente il deputato che se n’era appena andato. Un tipo spettinato che ai cortei indossava sempre completi sdruciti di jeans e scarpe a tennis, girava in
bici, ma poi, quando rientrava in ufficio si stravaccava su quella bella poltrona da “commenda”. Aveva rinunciato a tutto, ma non a quei pochi feticci
che dall’antica Roma a oggi hanno sempre fatto da corollario all’attività dei
politici.
Tornai a casa verso l’alba, ma prima di andarmene mi ero trascritto
l’agenda del partito. La lasciavano sempre abbandonata sui tavoli dei segretari e non c’era niente di male nel servirsene per contattare qualcuno a
Roma. Ero deciso: avrei preso il toro per le corna.
Voti uno, eleggi due
Dopo un’infinità di Senatori, Deputati, Portaborse e Segretarie – le
donne delle pulizie furono le più gentili - compresi che nessuno avrebbe
fugato i miei dubbi. Rispondevano evasivamente, con frasi fatte, o affermazioni banali. Decisi allora di fare l’unica cosa possibile: imbastire una
strategia. Ma prima, avrei dovuto scoprire il trucco, perché ogni silenzio
non può che nascondere un disegno.
Contattai un mio carissimo amico, uno studente di scienze politiche scrutatore perditempo - esperto di sistemi elettorali quanto basta per farsi
un’idea di quello che i politici combinano. Gli spiegai che mio padre era
stato candidato in due collegi: nord est (Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia
Giulia, Trentino Alto Adige) e nord ovest (Piemonte, Lombardia, Liguria, Val
d’Aosta). I candidati che avrebbero potuto vincere erano sostanzialmente
tre: Gianni Ramino, l’europarlamentare uscente, mio padre e l’alpinista
Reinnhold Ermes; quest’ultimo correva come capolista in entrambi i colle273
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gi, mentre il Professore, come secondo nel nord-ovest e come terzo, dopo
Ramino, nel nord-est.
Nord ovest
Lista al Nord est
Reinnhold Ermes
Giorgio Celli
Reinnhold Ermes
Gianni Ramino
Giorgio Celli
Non ci volle molto per arrivare alla soluzione dell’enigma e il mio
amico mi spiegò quanto segue. Il vincitore della competizione era dato dal
numero di preferenze totalizzate da ogni singolo concorrente indipendentemente dalla sua posizione di lista. Come dire che anche l’ultimo candidato della lista avrebbe potuto vincere se totalizzava più preferenze degli altri.
Bisognava poi tenere a mente un’altra informazione molto importante. Su
ciascuna scheda elettorale potevano essere espresse contemporaneamente
due preferenze e cioè l’elettore avrebbe potuto votare contemporaneamente per due candidati presenti nella stessa lista. Ed era proprio la possibilità
di poter accoppiare le preferenze che avrebbe influito sui risultati. Ma
intanto bisognava partire dal presupposto che Reinnhold Ermes, ineguagliabile scalatore di vette e testimonial di una nota marca di acqua minerale che lo mandava in onda a suon di spot a tutte le ore del giorno e della
notte, era il cavallo dato per favorito e come tale avrebbe incassato il risultato migliore. Restava quindi da capire come il bacino di voti dell’alpinista
sarebbe stato usato strumentalmente dal partito verde.
Dopo un giro di telefonate scoprimmo che il partito aveva dispensato
l’ordine a tutte le sedi locali presenti nel nord est di convincere gli iscritti
ad esprimere una doppia preferenza: una per l’alpinista Ermes e l’altra per
Ramino, il Parlamentare uscente. Alle sedi del nord ovest era invece stato
ordinato tassativamente di votare e fare campagna elettorale attiva solo
esclusivamente per Reinnhold Ermes. Questo “escamotage” era la chiave di
volta del gioco politico orchestrato alle spalle di mio padre. Per il mio
amico era tutto chiaro come il sole. L’alpinista avrebbe vinto in entrambi i
collegi, sia al nord est che al nord ovest e a quel punto avrebbe dovuto scegliere il collegio di elezione optando per il nord ovest, dove il partito non
aveva indicato nessun altro nome oltre a lui. A mio padre, sconfitto al nord
ovest, sarebbe rimasto il nord est dove l’uscente Ramino, sebbene fosse un
politico pressoché sconosciuto, era stato accoppiato a Reinnhold Ermes.
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Questa insolita fusione avrebbe fatto sì che i voti di Ramino si sarebbero
sommati al rigoglioso bacino elettorale di Reinnhold. Così facendo, mio
padre sarebbe stato sonoramente battuto. Ma da chi esattamente? Da un
candidato più bravo e quindi più meritevole di lui? No di certo, da un candidato più furbo che si era gemellato ad un altro candidato per sfruttarne
biecamente la fama.
L’accordo del partito con l’alpinista diventò chiaro nella mia testa. Il
Presidente del partito, un istante prima di stringere la mano a Reinnhold,
doveva aver scoperto le carte in tavola:
“Noi ti eleggiamo, ma tu ci consenti di eleggere uno dei nostri con i
tuoi voti”.
Ma quanto sono furbi questi politici! Mi dissi mentre ribollivo di collera. Non c’era dubbio, la sindrome della “ballerina trombata” si stava profilando all’orizzonte. Ecco spiegata una volta per tutte la ragione del silenzio: stavano fregando mio padre. E questo non potevo certo permetterlo.
Cannonate
Mio padre aveva effettivamente bisogno dei voti del partito? Certamente
no, ma bisognava far sapere a tutti che era candidato e l’unico modo - d’altra
parte “à la guerre comme à la guerre” - era quello di sparare cannonate sul partito verde ribadendo la presenza in lista di se stesso. Può sembrare paradossale, ma viviamo nell’era dell’insulto, tanto è vero che se sputi in faccia a qualcuno, lo insulti o gli salti addosso, finisci sul giornale, se invece gli dedichi un
poema e lo incensi nessuno ne parlerà. Così - su mio consiglio - uscirono le
prime bordate del Professore che denunciavano la truffa confezionata alle sue
spalle:
“Il presidente è una lingua biforcuta!” - gridò! …e giù a rigirare il coltello nella piaga - “Mi hanno usato per poi trombarmi.! Non cadete nella trappola, potrebbe essere eletto Reinnhold! Non votate per me!”.
Avete mai sentito un candidato chiedere al popolo di non votarlo?
Eppure, queste affermazioni sfondarono le prime pagine dei giornali. In realtà, mio padre stimava molto il Presidente Luigi Manicon, lo riteneva una delle
poche persone intelligenti del partito, aveva perfino letto gran parte dei suoi
libri, ma sapeva di dover sparare le ultime cartucce. Ora tutti conoscevano
l’esistenza di mio padre che andava tuttavia ribadita con una buona campagna
pubblicitaria.
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Un gatto alla riscossa
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“Avete candidato Celli? Mi spiace per lui
che le api non possano votare.”
Battuta di Romano Prodi a Filippo
Boriani.
Da tempo avevo incominciato a riflettere su quale potesse essere l’idea
visiva da sfruttare nella campagna elettorale. In fondo era la mia specializzazione, fin dalla più tenera età ho sempre disegnato di tutto: fumetti, illustrazioni, simboli pubblicitari e per un certo tempo, dai dodici ai diciassette anni, ero riuscito a mantenermi disegnando vignette per il Corriere di
Romagna diretto a quel tempo da Michele Bovi. Quando, in estate, mettevo da
parte la matita arrotondavo qualche spicciolo recitando come attore e molti
registi, primo fra tutti Pupi Avati, mi hanno fatto conoscere il mondo del
cinema. Avevo ragionato lungamente passando in rassegna l’arte sacra alla
ricerca di un simbolo che fosse fortemente evocativo. Indubbiamente la
palma d’oro andava alla crocefissione. Ma scartai subito l’ipotesi perché la
reputai troppo difficile da citare. Ma ve n’era un’altra di immagini, anch’essa conosciuta e molto meno cruenta della Passione: la madonna con bambino. È un’icona universale, archetipica, e magnetica. Risplende di un amore
puro, è la prima e più importante figura di tutto l’immaginario umano.
Davide Celli e Pupi Avati sul set di “Una domenica si”
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Tutte le madri della terra, dalla comparsa dell’ Homo sapiens fino ad oggi,
hanno stretto i figli tra le braccia per proteggerli dai pericoli del mondo.
Avrei potuto ricalcarla assoldando il bambino di un amico, ma poi mi ricordai di aver letto su di una rivista di propaganda americana che la maggior
parte degli elettori ritiene che la politica sia per sua natura sporca e per questo non ama veder coinvolti i bambini nelle campagne di comunicazione.
Avrei quindi dovuto trovare un degno sostituto del Bambin Gesù.
Un lampo mi attraversò improvvisamente la mente: Lucy, l’adorabile
gatta di mio padre avrebbe fatto al caso nostro. Ingaggiai un fotografo e lo
convocai a casa di mio padre. Una volta piazzata la macchina sul treppiedi
chiesi a Giorgio di prendere in braccio Lucy e stringerla a sé. Così nacque
un manifesto unico nella storia della propaganda politica che Dino Gavina,
il famoso Designer del mobile, definì geniale. L’immagine del professore con
un gatto tra le braccia - icona rassicurante dell’uomo custode della vita indifesa, Madonna barbuta con gatto bambino - s’insufflò di vita propria e
prese a navigare da sola nell’immaginario collettivo. Il simbolo del Partito
verde scompariva al confronto di quella maternità felina. L’uomo era riuscito a trasformarsi in un simbolo senza essere stato ucciso dalla metamorfosi, per questo valeva mille volte di più di qualsiasi araldo che chiedeva in
pegno la carne del portabandiera. Ancora oggi i politici per i quali lavoro
mi domandano un’idea magnetiGiorgio Celli e la gatta Lucy
ca quanto quella prima intuizione. Dispenso sempre loro un
lampo, una scintilla luminosa,
che vale più di tutto il denaro che
possono racimolare, perché
niente a questo mondo è più
forte dell’ispirazione e della fantasia messe e insieme.
Stampai oltre ventimila copie
tra cartoline depliant e manifesti e
con la mia Twingo (stracolma di
rulli, secchi e colle) incominciai a
battere le regioni del collegio.
Quando montavo in macchina alla
mattina Lara, mia moglie, la riempiva di cibo sapendo che sarei
potuto tornare alla sera come
dopo un’intera settimana.
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Attaccai personalmente cinquemila manifesti e in meno di due mesi
accumulai talmente tanti chilometri da dover dire addio per sempre alla mia
amata automobile che se ne andò in pensione sostituita da una ben più
capiente Suzuki Baleno. Ovunque andassi, accompagnato da Piero - detto il
cubano - incontravo persone che si facevano in quattro per aiutarci.
Tutti, gattari, gelatai, piccionare, postini, chiedevano di poter attaccare personalmente il “signore dei gatti”. Lo stesso Gabriele Salvatores, incontrato casualmente per strada, mi interrogò sulla presenza di Lucy e gli risposi
che per la prima volta stavamo tentando di far eleggere un gatto al
Parlamento europeo. Il signore che lo stringeva tra le braccia, il professor
Celli, faceva solo da testimonial in sostegno al candidato gatto. Deve avermi preso per matto.
Dove non riuscivo ad arrivare mi sostituiva Paolo, l’instancabile assistente di mio padre e quando non ce la feci più assoldai un commando di
“attacca stacca”.
Ormai era una guerra aperta tra candidati, ma i miei attacchini erano
imbattibili, tanto che mi telefonò l’Onorevole Sauro Torrazzi dicendo che
se avessi continuato a stracciare i manifesti di Ramino in quel di Forlì mi
avrebbe fatto spaccare braccia e gambe da un amico scaricatore di porto.
Non male per un Parlamentare della Repubblica Italiana. Rimpiango solo
di non aver avuto un registratore a portata di mano.
Gatti, cani e un tapiro
Ma il vero colpo di fortuna, l’altro animale che fece la differenza, doveva ancora uscire dalla savana. Dio salvi pure la Regina, ma non si dimentichi
di proteggere l’antico ordine cavalleresco dei tapiri, animali erranti, dal vello
d’oro, che hanno preso il posto degli antichi cavalieri di Re Artù.
Qualcuno, non si è mai saputo chi, spedì a Striscia la Notizia una rivista
tedesca dove Reinnhold Ermes veniva fotografato in primo piano mentre
imbracciava un fucile a cannocchiale che teneva puntato sul lettore. Era la
copertina di un servizio dedicato alla caccia e ai suoi trofei. Dopo qualche
giorno, un inviato del telegiornale satirico, il grande Sir Parsifal de la Staffel, consegnò al famoso scalatore il tapiro d’oro chiedendo come mai, il capolista del
partito verde (che si batte per abolire la caccia, che si dichiara animalista e a
favore dei vegetariani) pubblicizzasse un fucile da caccia. Reinnhold si arrab278
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biò scacciando l’inviato di striscia in malo modo come se ignorasse di essere
ripreso. Se l’avesse buttata sul ridere, nessuno ci avrebbe fatto caso, invece
s’infilò nella trappola con le proprie mani.
I fatti che seguirono sono storia nota, l’alpinista si allarmò e smise di farsi
campagna elettorale nel nord-ovest, optando per il luogo a lui più congeniale, ovvero per il collegio dove era nato e vissuto: il nord-est.
Bingo! Il vento girava, questa volta, dalla nostra parte.
Nei giorni seguenti, mio padre si trovò subissato dalle richieste degli
ambientalisti del nord ovest che erano rimasti orfani del capolista Ermes.
Ognuno reclamava la presenza di un candidato e ancor più di una persona
meno compromessa con le armi da caccia. Dal canto suo l’alpinista incominciò a vedere nell’accoppiata con il Parlamentare uscente Ramino un concorrente che avrebbe potuto sottrargli dei voti. Così smise di chiedere all’elettorato di esprimere due preferenze, rivendicandone una soltanto, per sé e nessun altro. Allo stesso tempo incominciò a scalare i palazzi comunali di molte
città adombrando completamente la visibilità di Gianni Ramino. La malevola
strategia ordita dal partito andò in mille pezzi grazie al fendente di un pavido
tele-moschettiere di Canale cinque. Mio padre fu eletto al Nord ovest e l’alpinista al Nord est, il povero Ramino fu costretto a
ritornare a casa. Se c’è qualcuno che ha fatto eleggere il Professore non sono stati gli Onorevoli
Verdi, ma un signore che anche nell’aspetto fisico
ricorda molto uno dei tre moschettieri di Dumas,
tale Antonio Ricci de D’Artagnan, da sempre schierato contro i “cardinali Richelieu” che affliggono la
terra con le loro tiranniche congiure. Un autore
televisivo che ha rivoluzionato la satira italiana gettando le basi di un nuovo modo di fare giornalismo
fondato sull’agguato, sull’ostinazione dei reporter e
sulla ricerca della verità. Elementi questi che saranno poi ripresi integralmente non solo da altri proAntonio Ricci
grammi televisivi, ma dallo stesso movimento di
Beppe Grillo. Insomma, per concludere: viva Antonio!
Alle cinque di mattina, ricevetti una telefonata da un mio carissimo amico
che m’informava dell’avvenuta elezione di mio padre al parlamento europeo.
Ce l’aveva fatta!
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Il burattinaio
In quell’estate calda del 1999 il partito verde crollò miserevolmente
incassando la percentuale elettorale più bassa di tutta la sua storia. Per questa ragione l’esecutivo che reggeva il Presidente Luigi Manicon imputò a lui
tutte le ragioni adducibili alla cocente sconfitta e dopo averlo scacciato in
malo modo sciolse il partito per entrare in una fase costituente che avrebbe dovuto far risorgere l’ecologismo entro le regionali del 2000. Quello fu
l’inizio di una nuova fase costituente segnata dall’ingresso di un garante
messo a capo di un esecutivo transitorio in grado di rappresentare tutte le
correnti superstiti. Entrambi, reggente ed esecutivo, avrebbero traghettato
il partito fino al congresso di Chianciano, alla devastante Hiroshima di tessere che ho descritto in precedenza. Il garante sarebbe quindi stato eletto
da un posticcio congresso organizzato su due piedi. La ritenni un’occasione da non perdere per assistere ad un partito morente che risorgeva come
una fenice dalle sue ceneri fumanti. Per questo decisi che mi sarei trasferito a Roma per un paio di giorni. Durante il viaggio in treno mi ritrovai con
alcuni compagni ecologisti provenienti da diverse province dell’Emilia
Romagna. Si lamentavano per quanto riportato dai giornali quella stessa
mattina. La Repubblica anticipava l’esito del congresso affermando che si
sarebbe concluso con l’elezione di Francesca Graziato, una giornalista ecologista, stimata e conosciuta nella galassia ecologista. A quel punto, tutti i
presenti si chiedevano cosa andavamo a fare a Roma se avevano gia deciso
tutto a tavolino. E giù a dirne di tutti i colori.
Il congresso si svolgeva in una sala interrata come un bunker, rivestita di marmo marrone e in prossimità della Tiburtina. Fin dal primo intervento si accesero le ostilità verso la decisione “già presa” e da quel momento si discusse solo di quello. Durante questo fiume ininterrotto di lamentele e soliloqui notai che attorno ai parlamentari si formavano dei gruppetti
di persone confabulanti. A turno si sguinzagliavano in sala formando altri
gruppetti e questo brulicare febbricitante di formiche continuò senza placarsi per tutto il pomeriggio. Finalmente, dopo l’ultimo intervento, che per
la centesima volta chiedeva ragione della decisione inopportuna, si alzò
dalla sedia un tale, forse un senatore, e disse: “Bene, bravi, ma adesso la
facciamo finita e votiamo per alzata di mano. Alzi la mano chi è a favore
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della candidata. Alzi chi è contro. Alzi chi si astiene”.
Votarono tutti a favore senza neanche un voto contrario.
Da quel momento compresi che il partito verde, unico produttore di
eletti ecologisti in tutte le istituzioni, non era nelle mani dei congressi che
già erano taroccati, bensì al servizio di entità ignote che nell’oscurità di
qualche segreta stanza riuscivano a far approvare decisioni prese in barba
ad ogni organo statutario. Chi erano i burattinai? Gli Onorevoli? Non sono
mai riuscito a saperlo con esattezza, ma riporto un passaggio tratto dal
libro “Politica occulta” scritto da Marco Dolcetta. I conti tornano:
“…è infatti agevole riscontrare come funzionari dalle medie capacità
organizzative e professionali, per giunta non strettamente allineati con
l’uno o con l’altro dei partiti dominanti, vengano insediati ai vertici di
compagnie pubbliche o di aziende dalle ingenti proporzioni, e riescano
a mantenere questa loro posizione nonostante le crisi di mercato, le
alternanze fra maggioranza e opposizione, e simili. Specie in Italia, si
verifica poi che i leader di partiti politici quasi inesistenti, creati ad hoc
e comunque dalla consistenza elettorale insignificante, vengono chiamati a far parte di governi, e spesso si vedano affidati alcuni dei ministeri chiave, oppure la guida di sindacati nazionali, la presidenza di
commissioni parlamentari di importanza strategica. In simili casi l’azione della commissione, del comitato o di entrambi non può essere sottaciuta, e spesso vale come ricompensa per servigi precedentemente
prestati o per avere a suo tempo favorito l’uno o l’altro esponente in
ascesa.”
Anche in questo caso “tutto il mondo è paese” e capita ancora oggi di non
sapere dove e da chi siano state prese le decisioni. Anzi si è persino coniato un termine ad hoc per indicare le cosiddette “riunioni del caminetto”, dove
sono definite le azioni alle quali tutti i mortali cittadini dovranno poi,
volenti o nolenti, adeguarsi. Quando mi chiedono come mai - all’estero, in
Francia, in Germania - i Verdi stranieri raggiungono percentuali vicine al
20% mentre in Italia spariscono, rispondo raccontando la storia di come
fu eletta Francesca Graziato. Una storia che la dice lunga, molto lunga, su
come il partito verde sia stato pilotato da parte di finti ecologisti e manovrato da orde di sconosciuti sonnambuli. Proprio così, io credo si sia impedito
agli ecologisti di esprimere una linea politica capace di opporsi alla cementificazione, all’inquinamento e alla costruzione degli inceneritori. Beppe Grillo,
che di fatto è subentrato al partito Verde, ha sfondato una porta aperta
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conferendo all’ecologismo politico la dignità che merita e che non gli è mai
stata concessa fino ad oggi.
L’inizio della fine ai primi di giugno del 2004
Dopo l’elezione di mio padre mi dedicai ai congressi locali. Per difenderlo
dai latrati dei cani organizzai una corrente e diventai un capo corrente. Praticai
l’ecumenica arte del pontiere. Mi elessi a baleniere e senza mai pentirmi incarnai
ruoli e strategie prima di allora incomprensibili alla mia vecchia vita. Ai libri di
poesie si sostituirono i dossier, alla creatività le acuminate lame delle diffamazioni da scampare. Pugnalai alle spalle e fui pugnalato diventando la cosa più lontana dal bambino che rivedevo seduto nel giardino della scuola. Sotto i ciliegi fioriti la maestra raccontava la storia della fionda e del gigante. Spiegava ai miei
compagni delle elementari che il mio nome, veniva da lontano, dallo stesso luogo
dove nascono le fiabe. Significava “amato” e per il Re che lo portava “amato da
Dio”. Amato. Quanto mi suonava lontana quella parola! Cosa stavo facendo per
essere amato? Il contrario di quello che avrei dovuto fare. Ma le regole non le
avevo scritte di mio pugno e mai, ancor meno in quel momento, sarei riuscito a
cambiarle. Forse era proprio questo il gigante da abbattere. Ma ci sarebbe voluto molto tempo ancora prima di poterlo affrontare “faccia a faccia” e le elezioni si
avvicinavano. Dovevo scegliere e scelsi. Il partito, stando al numero spropositato di tessere di cui lo rifornivo, accettò di buon cuore la mia candidatura, pensò,
forse a ragione, che si sarebbero trasformate in un discreto numero di voti. Credo
che a Roma si fossero convinti di riuscire a fare con me tutto quello che non
erano riusciti a fare con mio padre. Proprio così, fui candidato perché volevano
impartirmi una bella lezione. Ridurmi ad una sonora sconfitta. Ma, ancora una
volta, sarei riuscito a stravolgere le loro aspettative.
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Un disegno di Giuseppe Leoni
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Il vecchio leone
Se i cittadini sapessero quanto tempo perdono i politici nelle campagne
elettorali sarebbero certamente più comprensivi. Se non finisci “cotto” per
bene, come si usa dire quando si cade in uno stato di confusione permanente, s’insegue un solo obiettivo. Soltanto quello ti preme: essere eletto. Gli affetti, la famiglia, le amicizie, tutto ciò a cui tieni veramente, viene dopo.
Quando mi recai all’ospedale e lo vidi disteso sul letto, dolorante, afflitto da un cancro incurabile, compresi che questa volta non avrebbe potuto aiutarmi. E dire che prima di vederlo avevo pensato ad un acciacco da poco,
un’ulcera, un’ernia iettale, nulla di cui preoccuparsi insomma.
Giuseppe, era la persona più introversa, scontrosa e geniale allo stesso
tempo che mi sia mai capitato d’incontrare. Da ragazzi, al liceo, ci capitava
spesso di marinare la scuola. Al contrario di quello che facevano molti nostri
coetanei non abbiamo mai sprecato le mattine nelle sale giochi. Sui vecchi
tavolacci dei caffè della Cirenaica, tra boccali di birre nere bevute di mattina,
mi insegnò ad affinare le tecniche del disegno. Conservo ancora i suoi schizzi: le Divine Commedie, i Promessi sposi, i Malavoglia, raccontati a fumetti sulle
tovaglie di carta gialla da salumiere. Una matita dal talento inestinguibile a cui
devo il senso dell’umorismo, una sorgente alla quale ho attinto gran parte del
mio talento. Se mai un giorno avrò il potere di farlo mi piacerebbe occuparmi degli artisti che vivono nell’anonimato. In questo paese di passacarte, l’arte e le idee non hanno più alcuna rilevanza. Non servono a nessuno, non
fanno guadagnare, anzi, costringono la gente a pensare. Meglio, molto meglio,
trasformare il popolo in pubblico così da non dovergli più dare nient’altro di
diverso dalle tette e dai culi che la televisione sforna ogni giorno.
Giuseppe, non era solo un fine umorista ed un grande disegnatore, era
un temerario, un cowboy cresciuto all’ombra del ponte di via Libia e lungo i
terrapieni della ferrovia, quelle praterie sassose dove crescono soltanto i
cespugli di sambuco e gli alberi del paradiso. Non mancò mai di vivere all’altezza della sua leggenda incominciando dalla nostra prima gita scolastica. In
una discoteca di Siena un gruppo di militari in libera uscita importunarono le
nostre compagne. Erano in tanti, grossi e forse ubriachi. Ma ciò non impedì
a Beppe di esprimere a tutti loro un benvenuto da gentleman inglese:
“Mi
punge vaghezza che siate solo un branco di pezzenti maleducati”.
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Non ricordo bene cosa accadde dopo. L’infrangersi di un’onda umana
sui nostri corpi. Mani svolazzanti. Grida. Rumore di schiaffi. Colletti strappati della camicia. Dopo, un buco nero. Insondabile, totale.
Non ci volle altro per costringerci alla fuga verso l’Istituto d’Arte. La misura dei nostri insegnanti era colma. O ve ne andate o ci penseremo noi. Così
suonò l’ultimatum del Preside e a nulla servì prendere in ostaggio le cavie del
laboratorio di biologia per cambiare le cose. Emigrammo dal Copernico fra la
fine dell’estate e l’inizio dell’inverno. Ma il problema di fondo che ci aveva
spinto a naufragare altrove si ripresentava puntualmente alla fine di ogni anno
scolastico. Ma questa volta la sensibilità del personale scolastico era diversa.
Le altezzose e agghindate professoresse di latino avevano lasciato il posto a
pittori scapestrati, docenti di tempere, estimatori di anici e “punte secche”,
acqueforti, rossi di Montalcino e pennelli di Martora. Non eravamo più così soli
come prima. Tuttavia qualche professore conformista continuava la sua guerra all’”arte degenerata”. La temibile Volpi, ad un passo dalla pensione, per lei era
peggio della morte, decise che avrebbe trascinato nell’Ade quanti più asini
poteva. Eravamo i primi della lista, indisciplinati, depravati e beoni, ma anche
vignettisti strafottenti e questo faceva di noi dei perfetti “capri espiatori” da giustiziare. Fu così che il collegio docenti si trasformò in un’aula giudiziaria e la
Volpi chiese e ottenne il voto consiliare. Il nostro professore di grafica, un
gigante dagli occhi azzurri conosciuto da tutti come “il buon Mazzoli” chiese
la parola per tessere le lodi di “quei due, solo in apparenza, disastrati”. Mi
sembra ancora di sentirlo parlare dietro all’uscio di quel conciliabolo: “Non è
forse stato bocciato dal politecnico Evariste Galois, illustre matematico.
Ebbene sì! Cara professoressa Volpi, lei ci vorrebbe forse far credere che il
padre dell’algebra astratta fosse un cretino così come dovremmo dedurre che
lo siano questi due ragazzi? Ma non sono i numeri astratti quanto l’arte che
consuma questi studenti distratti?” - Numeri astratti e studenti distratti dall’arte, Mazzoli era un genio – “Così, secondo lei, noi tutti, dovremmo passare alla storia con la stessa fama di coloro che non seppero riconoscere il talento di Vincent Van Gogh e di Amedeo Modigliani? Passi pure vivere nella memoria di tutti come un insegnante che ha fatto il suo dovere, non sia mai come
colui che non ha saputo distinguere la genialità dall’irrequietezza”.
Fu chiaro a tutti in quel momento, a Di Bernardo tiratore scelto di pistola
a spruzzo e alla Carla Casarini eroina dell’ecolina, come a Costa che dipingeva
trenini, che non potevamo essere dei cretini. Quel pomeriggio, chino dietro
alla porta, appresi i primi rudimenti di retorica: le parole servivano allo studente, quanto un pennello serve al pittore… almeno per non rimanere confinato a scuola per tutta la vita. Da quel giorno andammo spesso a trovare
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Mazzoli nella sua casa in campagna e dopo averci accomodato all’ombra delle
viti, sul patio della casa, ci stappava una bottiglia di vino contadino. Davanti a
noi restavano solo i bicchieri vuoti e gli sterminati campi di grano dorato
appena mietuto e tutte quelle conversazioni pregne di aneddoti sui vecchi
tipografi bolognesi che continuavano fino nel cuore della notte. Quando ci
capitò di chiedere a Mazzoli se credeva veramente alle cose che aveva detto al
consiglio di classe si mise a ridere fragorosamente e solo quando riuscì a calmarsi ci chiese: “non mi dire che ve la siete bevutà anche voi la storia di
Modigliani e Van Gogh?”.
Giuseppe, oltre ai fumetti, coltivava un grande interesse per la storia.
Conosceva il succedersi degli avvenimenti, le battaglie, le armi e i mezzi corazzati. Aveva trascorso l’infanzia leggendo libri e riviste di strategia militare.
Una volta - scherzando - gli domandai con quanti bulloni era tenuto
insieme il caccia zero dei kamikaze giapponesi. Mi stupì prima ancora di
rispondere, chiedendo se alludevo al modello più conosciuto, al Mitsubishi
A6M o alla sua variante, l’A6M3. Era fatto così, un’enciclopedia ambulante.
Se fosse nato in America avrebbe fatto fortuna, magari ad Hollywood. Dico
questo perchè era praticamente impossibile vedere un film di guerra in sua
compagnia. Durante la proiezione di Pearl Harbor fummo scacciati dalla
maschera dopo neanche mezz’ora perché aveva strillato per tutto il tempo
maledicendo il consulente militare che aveva sbagliato il colore dei caccia.
Quando Beppe si ammalò mi ritrovai diviso tra lui e la campagna elettorale
che non poteva capitare in un momento peggiore. Le iniziative mi impedivano di andarlo a trovare ogni giorno e così quando gli facevo visita lo trovavo
visibilmente peggiorato. La radioterapia gli aveva fatto cadere tutti i capelli e
il cortisone lo stava sfigurando. Incominciò a soffrire moltissimo. Solo chi è
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stato vicino ad un malato terminale può sapere cosa prova. Le dosi di morfina continuavano a crescere, ma nulla sembrava placare quel mostro asserragliato nello stomaco. Dopo aver domandato il permesso ai genitori presi l’iniziativa e telefonai alla responsabile di un centro “antidolore per malati terminali”.
Chiesi se lo potevano accogliere e liberare da quel male lancinante. La direttrice fu molto cordiale, il suo maestro - un illustrissimo oncologo scomparso
da qualche anno - era stato un grande amico di mio padre. Mi consigliò di
richiedere una visita presso un ospedale cittadino abilitato al vaglio delle
richieste. Così feci, ma il medico, dopo averlo visitato, scartò la richiesta
dicendo che non si trattava di un malato terminale. Diagnosi sbagliata in
pieno! Giuseppe spirò sette giorni dopo. Quando sua madre mi informò del
diniego mi convinsi che certi fiori all’occhiello della nostra regione crescono
solo nel giardino del Re e per entrarci bisogna conoscere il giardiniere giusto.
Proprio così. La famosa imparzialità dell’amministrazione pubblica è soltanto
una mera utopia.
Gli amici degli amici hanno la possibilità di salvarsi la pelle entrando nelle
strutture sanitarie all’avanguardia. Gli altri, gli amici di nessuno, crepano come
cani rabbiosi. Avete capito bene: crepano! Lasciate che lo ripeta ancora signori e signore della Giuria. Gli altri, quelli che non sono raccomandati da nessuno, trapassano nel loro letto tra le maledizioni gridate a squarcia gola.
Giuseppe, il mio inseparabile amico, una settimana prima del voto, si spense
nel suo letto di casa poco dopo aver chiesto ai genitori di salutarmi. Non ero
con lui. Ero troppo occupato a dimostrare che si poteva ancora credere nel
sistema. Che pazzo sono stato. Non ti dimenticherò mai vecchio leone e
come avresti detto tu: “Go oder creve! Marcia o crepa!”.
(motto dei mercenari in tre lingue)
Giuseppe Leoni e Davide Pavlidis
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Area addestramento cani
Mi colpì molto quando Giovanni Cossiga descrisse al giornalista di un
quotidiano la sua innata predilezione per i segreti. Ne parlò così affettuosamente da farli sembrare gli oggetti rari di una collezione. Si collezionano
soldatini, farfalle, francobolli e infine c’è chi raccoglie e conserva i “segreti”.
Mi chiedo dove Cossiga li conservi, se in una scatola entomologica o nella
sua memoria o dietro alla libreria girevole di certi film degli anni 50 con
Vincent Price. Tirando il primo volume del “secretum secretorum”, un’opera di
origine araba, scorrono gli scaffali e si può accedere a una “camera grigia”
che funge da museo delle verità trafugate alla storia. Vi lavorano uscieri
mascherati che sorvegliano le opere esposte: la borsa di Aldo Moro, l’agenda rossa di Paolo Borsellino, la mappa che indica dov’è sepolto il tesoro di
Mussolini, il capitolo scomparso del romanzo Petrolio che pare abbia causato la morte di Pier Paolo Pasolini, i tracciati radar di Ustica, i quaderni scomparsi di Ilaria Alpi. I segreti appaiono irrisolvibili, legati ad ambienti importanti, irraggiungibili dai comuni mortali. Ciò nonostante, i segreti crescono
ovunque, nascono nelle segrete stanze e si diffondono nelle istituzioni
incominciando proprio da quella Amministrazione comunale in cui stavo
tentando disperatamente di entrare. Questo che racconterò fu solo il primo
di una lunga serie di segreti che conservo nell’armadio dei miei segreti
abbattuti. Come si uccide un segreto? Nella maniera più semplice: svelandolo.
Ad un paio di mesi dalle elezioni si fece vivo un certo Rousseau che abitava a Borgo Panigale. Malgrado il suo accento emiliano avesse ben poco
da spartire con l’omonimo doganiere francese, manteneva l’aspetto distinto e pacato dell’ex impiegato delle ferrovie in pensione. Nei suoi occhi
balenavano i lampi di un’ingenuità alla quale non aveva mai rinunciato nel
corso degli anni.
Alcuni cacciatori, quella stessa mattina, armati di pali e reti, avevano
recintato un parco pubblico facendolo diventare un’area dedicata all’addestramento dei cani da caccia. Era inferocito perché questa novità nuoceva
ad un’oasi felina dove trascorreva il tempo accudendo un gruppo di gatti
abbandonati. Dal giorno in cui si erano fatti vedere i cani, quelle povere
bestie erano state costrette alla vita arboricola. Come se non bastasse, tutti
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i cittadini, desiderosi di far passeggiare il cane lungo il fiume e assai poco
inclini all’inseguimento di quaglie e fagiani, dovevano sottoscrivere l’adesione all’associazione venatoria. Dulcis in fundo: avrebbero dovuto pagare un
biglietto per accedere ad un luogo che avevano frequentato gratuitamente
fino al giorno prima.
Alle prime richieste di delucidazioni, mi furono consegnate le autorizzazioni in materia di caccia, indispensabili all’esercizio di un’attività prevista dalla legge. Apparentemente sembrava tutto regolare, ma una vocina, il
vecchio e mai sopito istinto da cacciatore di lupi mannari, mi sussurrava
che i conti non tornavano. Aiutai Rousseau a compilare gli esposti da consegnare al Comune, alla Regione e all’Azienda Sanitaria Locale.
Quest’ultima andava informata della casa di legno posta su di un basamento di cemento armato appena gettato. Impossibile capire chi fosse il proprietario dal momento che non vi era affisso nessun cartello recante i
numeri delle autorizzazioni edilizie e il nome del direttore dei lavori. Agli
esposti non seguì alcuna risposta. Insieme a Sandro, il presidente cittadino
degli “Animalisti Italiani”, convocai una conferenza stampa sul posto, ma a
nessun giornalista venne la voglia di passare da quelle parti. E lo credo
bene, l’Amministrazione era di destra, mentre il Quartiere era governato
dalla sinistra. Si trattava di un inciucio dal quale si tenevano tutti alla larga.
Ero finito nel vicolo cieco dell’indifferenza e non mi restò che chiamare
Marmiroli, il mio avvocato. Concordammo un appuntamento. Seduti al
tavolino di un bar sotto l’orologio di Piazza Maggiore buttò un occhio alle
carte: “non dicono assolutamente niente” – disse scuotendo il capo –“ abilitano l’associazione all’esercizio di un’attività venatoria, ma non citano
affatto l’autorizzazione del proprietario del terreno. Mi spiego, chiunque ti
può autorizzare ad aprire un bar, ma bisogna verificare se qualcuno ti ha
affittato i locali. La prima cosa da scoprire è il proprietario dell area. È il
Comune o la Regione?”.
Prese il fascicolo e lo ripose nella borsa. Fece per andarsene quando lo
trattenni per stringergli la mano. Sapevo che soltanto lui poteva mettermi
sulla strada giusta. Quanto emerse in seguito, si annovera tra le cose più
sconcertanti alle quali mi sia mai capitato di assistere. Dalle carte, negate
per almeno tre volte e ottenute a colpi di diffide, risultò che il terreno su
cui sorgeva l’area di addestramento, era di proprietà del demanio regionale. Nessuno dei suoi responsabili aveva autorizzato alcunché – anzi - attraverso una lettera, era stato fatto presente all’associazione dei cacciatori
rapinosi, che il terreno era stato ceduto al Comune affinché lo trasformasse in un parco, presupposto in netto contrasto con un’attività fondata sul289
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l’esclusività di accesso imposta dai cacciatori.
I Vigili urbani del quartiere, messi alle strette, furono persino costretti a dichiarare che l’area era stata concessa dal Quartiere malgrado “non
avesse alcun titolo per farlo”.
Quindi, per concludere, un parco pubblico era stato sottratto ai cittadini
per un paio di mesi senza che nessun rappresentante istituzionale avesse nulla
da ridire. E non si poteva neppure pensare che le autorità competenti non lo
sapessero dato che gli esposti di Rousseau, ai quali si erano aggiunti quelli più
circostanziati dell’avvocato Marmiroli, erano stati regolarmente protocollati.
Finalmente la questione finì sui giornali grazie alla costanza di Sandro. La
baracca fu demolita, le reti abbattute, i cacciatori scacciati e il parco “rubato”
tornò alla cittadinanza. Nonostante questo, nessuno ha mai pagato il conto
per quanto accaduto, anzi il Presidente del Quartiere, tale Rolis Pora, che aveva
permesso una simile ignominia, fu persino eletto sindaco di un paesello vicino. Ecco come ho ucciso il mio primo segreto che in molti hanno cercato di
proteggere.
Qualche giorno dopo suonò il campanello e un vigile urbano con una
busta stretta fra le mani mi disse: “Buon giorno Consigliere” – allungò la
busta – “Complimenti e benvenuto in Comune”.
Gli animalisti italiani: al centro Sandro Bianchi, Davide Celli e, a sinistra, Giosuè Calabria
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L’ape operaia delle cause da combattere
Stringendo la lettera di proclamazione mi recai al Comune dove furono tutti molto gentili. I dirigenti dello Staff mi consegnarono le chiavi dell’ufficio e aggiunsero una nuova segretaria all’altra che già prestava servizio
al gruppo consiliare di cui sarei diventato Presidente. Avevamo preso il 5%
e al crescere dei voti erano cresciuti i benefici. Si raccomandarono di non
disertare assolutamente il primo consiglio comunale. Chiunque incrociassi
nei corridoi mi sorrideva e si complimentava e mi chiedeva cosa avrebbe
potuto fare per farmi sentire a mio agio. Ma tutta quella cordialità, nei giorni che seguirono, si dissolse e i Consiglieri di opposizione, che fino a quel
momento avevano mantenuto un atteggiamento distaccato, resi lividi dalla
sconfitta, si trasformarono in un banco di pescecani. Questo mi convinse
fin dal principio che l’esercizio della democrazia all’interno delle istituzioni non era solo incessante, ma anche faticoso. Rituale ed avvilente. Non ci
volle molto a capire che i consiglieri comunali trascorrono gran parte del
loro tempo esercitando le uniche due facoltà che sono a loro attribuite: il
controllo e l’indirizzo politico. Per fare un buon lavoro bisogna quindi
dedicarvi tutta la settimana e talvolta anche il sabato e la domenica. Quello
del consigliere comunale è un’occupazione che non prevede orari, è mal
remunerata e ti procura più nemici che amici. Non a caso si usa dire che:
in Comune ti pagano poco per fare l’eroe, mentre in Regione ti coprono
d’oro per fare il bastardo e cioè per farti girare dall’altra parte quando l’istituzione non fa gli interessi dei cittadini.
L’attività prevalente dei consiglieri Comunali consiste nel chiedere la
convocazione di tutte quelle commissioni che servono per affrontare e
discutere i temi importanti della città. Le commissioni sono quindi il teatro
di accese discussioni che si fondano su argomenti molto diversi che spaziano da quelli al limite del ridicolo fino alle questioni di vita e di morte. Dalle
cimici rosse che infestano gli olmi in 4^ commissione alle 9.30 si passa alla
discussione sull’accanimento terapeutico promossa dalla 5^ commissione in
tarda mattinata. Dalla grandezza dei caratteri impressi sui segnali di “rimozione forzata” ci si sposta alle politiche per la riduzione del danno in materia di
sostanze stupefacenti. Dal micro al macro. Il Consigliere comunale che cade
in questa bolgia è travolto da un incessante addivenire di cause da combatte291
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re che si alternano e talvolta si sovrappongono senza mai arrestarsi. Ma ci si
adegua in fretta ai tempi e ai modi della guerra consiliare che si è chiamati a
combattere. Personalmente, soprattutto per resistere alla tensione, incominciai a scrivere dei resoconti dedicati agli avvenimenti nei quali mi ritrovavo
implicato di volta in volta. Scrivere mi aiutava ad estraniarmi, mi faceva sentire come un cavaliere che non avrebbe mai perso se stesso nella selva oscura. Proprio così, questo era ciò che temevo di più, non volevo diventare
un’altra persona o perdere l’entusiasmo o quella fiducia che mi spingeva a
credere che il mondo sarebbe potuto essere diverso da come si presentava
sempre. I racconti che seguono non hanno nessuna ambizione se non quella di lasciare una traccia a mio figlio Lorenzo. Sono il diario di bordo di quel
viaggio che mi portò ad oltrepassare le Colonne d’Ercole per addentrarmi
nei territori sconosciuti della democrazia.
L’anello
La prima cosa che mi colpì del Consiglio Comunale fu la sua forma.
Alludo alla disposizione dei banchi consiliari che pur essendo contenuti nella
pianta rettangolare dell’aula rivelano un’inconfutabile natura circolare.
Presero così corpo nella mia mente alcune relazioni confuse che non
riuscivo a dipanare. Giunto a casa, tormentato da forze sconosciute, mi
buttai sul divano stringendo fra le mani il “Signore degli anelli”. Ero sospinto dalla convinzione irrazionale che sarei uscito da quel brutto incantesimo
scrutando quel libro come un’indovina insegue il futuro altrui nelle viscere di un animale sventrato. Lessi dell’impavido Frodo e del difficile compito assegnatogli dal destino: custodire l’anello senza mai indossarlo.
“Un anello per domarli. Un anello per trovarli e nel buio incatenarli”.
Chi viene fatto prigioniero dall’anello? Mi sembra evidente: i politici.
Tutti i luoghi destinati all’emanazione delle leggi, dall’emiciclo della
comunità europea sino ai Parlamenti nazionali, scendendo fino ai ben più
modesti consigli di quartiere, possiedono una struttura circolare, la stessa
identica forma di un anello.
Tolkien, fra le pieghe del suo romanzo, ci ha dispensato un consiglio:
se volete sopravvivere al potere non assimilatevi ad esso. Portate l’anello
senza mai calzarlo perché altrimenti diventerete tutt’uno con lui.
A voi la scelta.
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Il primo giorno
Sono appena stato eletto,
eppure non sono contento. I conti
non tornano.
Scrissi queste parole sul “diario di bordo” il giorno in cui entrai per la prima
volta in consiglio comunale. La mia, era una battaglia persa in partenza e mi
ritrovavo dentro ad una maggioranza composta da due grandi partiti e da tre
minori. Anche senza i voti degli ecologisti la diarchia avrebbe marciato ugualmente. Se un lungo viaggio incomincia con un solo passo, il mio primo passo
poggiava sull’Apocalisse. Non importa, mi confortai tra me.
“Combatterò
ugualmente
senza
mostrarmi impaurito e abbaglierò i
nemici con la purezza delle mie
ragioni migliori”
Rileggendo queste parole a distanza di tanto tempo, mi convinco di
aver sbagliato a non aver mantenuto questa linea fino alla fine. Quando ti
voti ad una causa tanto nobile quanto persa non credere mai di aver raggiunto la meta e neanche devi illuderti di pensare che i tuoi nemici ti ascolteranno se andrai con loro cessando così di combatterli.
Lotta sempre e non fare nient’altro e trova il modo di fartelo bastare.
La gente te ne sarà grata. Se non lo sarà: che vadano tutti alla malora!
Il resto è solo umana vanità.
Conflitti di maggioranza
L’autonomia totale di cui godeva la diarchia Ds - Margherita produsse
la nascita di un’opposizione all’interno della maggioranza. Un “rassemblement des enfants sauvages” formato da due consiglieri di Rifondazione Comunista,
Forteventi e Sconciaforni e da un reduce dall’Italia dei Valori al secolo Serafino
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D’Onofrio. Tutti insieme
finimmo per oscurare l’opposizione ufficiale formata
da Forza Italia, Alleanza
Nazionale e da La Tua
Bologna.
Dopo essermi
Marlon Brando e Martin Sheen in Apocalypse Now di Francis Frord Coppola
unito ai ribelli, nel frattempo soprannominati “l’altra
sinistra”, incominciai ad avanzare richieste che puntualmente venivano bocciate. Gli inflessibili “diarchi” non volevano riconoscere nessun merito ai tre
fratelli minori che avevano contribuito alla vittoria. Dopo lunghe ore di
esacerbati dibattiti sentivo crescere nel mio cuore il desiderio di vendetta,
ma non ho mai ceduto a quel sentimento consapevole che non vi fosse
peggior cosa per un uomo di ritrovarsi improvvisamente cambiato rispetto a ciò che avrebbe voluto essere.
Ai voti contrari non opposi mai il mio voto preferendo motivare le
astensioni dichiarando quanto segue:
“Intanto ringrazio il capogruppo di maggioranza. Ultimamente
ogni sua parola è un’esecuzione. Ed è inutile infierire dal momento che la nostra battaglia è persa per sempre. Gli ambientalisti sconfitti giacciono sul campo di quest’aula. Ma uno strano incantesimo
ci tiene in vita riponendo nelle nostre mani le spade con cui colpire, questa volta, il vostro ordine del giorno. Un critico di Conrad ha
scritto di “Cuore di tenebra”: chi vive nella foresta, dentro alla ferocia
dell’evoluzione, che consente agli animali di sopravvivere con artigli e zanne ai loro simili, diventa l’essenza dell’evoluzione diventa la
temibile foresta. Chi combatte una guerra diventa la guerra. Siamo
noi ambientalisti la feroce evoluzione, siamo la foresta e la guerra?
La risposta è no. Non lo siamo. “Abbiamo risalito quel fiume, viaggiato a ritroso verso i più remoti primordi del mondo, quando la
vegetazione invadeva la terra, i grandi alberi ne erano sovrani e le
belve si dilaniavano. Abbiamo trovato uno spazio vuoto incantevole e misterioso una macchia bianca che un bambino può riempire
di sogni” * Nessuno degli apostoli vendette le vesti per comprare
le spade, neppure dopo il responso del Sinedrio. Se lo avessero
fatto nessuno avrebbe compreso la bontà del messaggio cristiano.
E voi un po’ ingenuamente avete pensato che avremmo fatto, noi
ecologisti, il contrario. Per questo riponiamo le nostre peggiori
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intenzioni e ci asterremo. Traggano i nostri compagni, le nostre
avverse lance, che questa sera si sono unite al nostro vero nemico,
il giusto insegnamento. Prometto a tutti voi consiglieri, di maggioranza e opposizione, che la prossima volta tornerò a parlare da
politico, così come si conviene, al buon gusto di un Consigliere
Comunale”.
Questo intervento non solo non sortì alcun cambiamento, ma neanche
si fece notare l’inedita prosa. Avevo volutamente stravolto l’oratoria consiliare usando una forma ricercata e nessuno ci aveva fatto caso. Così, al Consiglio
seguente recitai un brano della Divina Commedia e ancora una volta nessuno se
ne stupì. Fu poi la volta di un trattato di istologia, il manuale d’uso di un
videoregistratore, le tabelline, sotto la panca la capra campa... Nessuno ascoltava
gli interventi dei colleghi, figurarsi la maggioranza.
(*Conrad, Cuore di tenebra)
Dibattito sull’ora esatta
“Che diavolo ne so io della verità”
dissi. Ma la voce mi rispose: “non
preoccuparti della verità, io ti metterò
le parole in bocca” – e la voce continuò – “non credere che io ti parli di
verità eterna o verità definitiva o verità assoluta. Ti parlo di verità umane.
Transitorie e temporanee”.
Dal film Quinto potere
Dopo aver preso parte ad un certo numero di Consigli Comunali compresi che se la Dea della giustizia era bendata, la Dea della verità aveva i
tappi nelle orecchie. Se solo avesse sentito come gli uomini la tiravano per
la giacchetta, la stravolgevano e la sezionavano per poi ricomporne il corpo
in modo amorfo, si sarebbe certamente tolta la vita.
Pat Gatto, si chiamava così quel Consigliere che fu incaricato dall’opposizione di porre la famigerata “domanda delle cento pistole” all’assessore ai
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lavori pubblici, Mao Zam Burns, un tipo filiforme che era la copia identica
di Mr. Burns dei Simpson. Mancavano pochi istanti alla votazione del piano
traffico quando Pat aprì bocca: “Come mai?” – chiese inviperito – “come
mai non avete ancora installato i tabelloni luminosi che diffidano gli automobilisti dal varcare la Zona a Traffico Limitato?” – e concluse - “La vostra
non è pigrizia, ma un cinico calcolo. Gli automobilisti che incorrono nelle
sanzioni rimpinguano il vostro bilancio ed ecco scoperto il perché di tanto
torpore. Mi dica lei, caro assessore... Non ho forse ragione?”
Da tempo, forse da più di un mese, percorrevo la via che conduceva
al Comune passando sotto a questi, tanto invocati, tabelloni luminosi. Le
scritte, iridescenti e pulsanti, diffidavano le auto dal violare la Ztl senza un
permesso. Ma di che si lamenta? Mi domandai. L’assessore, ne ero ormai
certo, avrebbe fatto fare una gran brutta figura al Consigliere dopo averlo
invitato ad andare a vedere con i suoi occhi i tabelloni in tutto il loro
magnificente splendore elettronico. L’assessore Burns non menzionò
nemmeno alla lontana i tabelloni limitandosi ad enunciare pedissequamente i pregi del piano traffico. Fu allora che compresi quanto la verità non servisse più a nulla.
Il povero Schopenhauer, pur avendo ribadito con i 38 stratagemmi che
la dialettica si fonda molto di più sulla strategia retorica e molto meno sulla
realtà oggettiva dei fatti, non avrebbe mai immaginato che i presupposti
evidenti sui quali poggia ogni disputa sarebbero venuti meno fino al dissolvimento totale. Le discussioni alle quali assistevo non apparivano come
un dibattito dove ciascuno opponeva la propria tesi a quella dell’avversario, ma si erano trasformate in pure esposizioni vocali fini a se stesse.
Soliloqui di macchine parlanti che si perdevano negli sguardi annoiati dei
presenti. Fu così che vidi morire quel minimo di coerenza che impedisce
alla maggior parte delle persone di affermare una cosa un giorno e il suo
esatto contrario il giorno dopo. Se per gli ecologisti il
centro storico era invaso dalle automobili, agli
occhi dei commercianti si era desertificato. A chi
si lamentava del “Sindaco sceriffo”, le cui maniere
erano troppo repressive, si contrapponevano i
comitati di cittadini nati per contrastare il dilagare incontrollato del degrado. Tutti i Consiglieri
della vecchia amministrazione che avevano
sostenuto l’acquisto di questo strano tram chiamato Civis, finiti all’opposizione, se ne andavano
di negozio in negozio, di condominio in caseggia296
Mister Burns dei Simpson
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to, per incitare i cittadini alla rivolta e il fatto che fossero loro i padri di
quell’aborto su gomma rappresentava un fatto di scarsa importanza. Un
dettaglio del tutto inutile.
In questo clima di menzogne e verità centrifugate si poteva dire tutto
e il contrario di tutto, tanto che ogni ragione, anche giusta, si perdeva in
mezzo a mille inutili battibecchi. Ad un giornalista che pose questa domanda: “…intanto Bologna si conquista la fama internazionale di città proibizionista. Ormai è un luogo comune da programma satirico televisivo”
Libero Mancuso, pregiatissimo assessore alla sicurezza, rispose: “C’è chi
vuole liberalizzare gli orari dei locali, e chi chiede la repressione di comportamenti sgradevoli” – ammise ed aggiunse con una sincerità singolare:
“il curioso è che spesso si tratta delle stesse persone”*.
Proprio così, chiunque si poteva permettere di affermare una cosa e
rimangiarsela nel giro di venti minuti senza nessuna vergogna.
Ricordo di quella volta che mi scrisse il presidente di un comitato nato
per fronteggiare le notti selvagge di via del Pratello, una strada del centro
storico che attrae studenti fino a notte inoltrata grazie ad una massiccia
presenza di bar e osterie:
“…chiedo quale sia la sua posizione in merito al contenimento della
fruizione delle bevande alcoliche da parte dei giovani. Chiedo ciò perché
ritengo che lei non abbia agito in maniera abbastanza incisiva, anzi mi spingerei ad includerla fra coloro che non hanno mai mosso un dito per salvaguardare i nostri ragazzi da una vita dissoluta”
Una richiesta ineccepibile. Il politico eletto rappresenta tutti i cittadini
e non solo coloro che lo hanno votato, senza contare che ogni cittadino ha
il sacrosanto diritto di assumere la posizione politica che più gli aggrada.
Per questo motivo, la Presidente di quel comitato avrebbe avuto tutto il
diritto di interrogarmi in merito all’abuso di sostanze alcoliche se non fosse
stato per la professione da lei svolta. Che lavoro faceva? Lavorava presso
l’azienda del padre che era il più grosso importatore di liquori della città.
Giunti a questo punto sarebbe potuto succedere di tutto. Ho assistito a dibattiti pubblici dove un Consigliere Comunale che nella vita faceva
l’edicolante spiegò cosa fosse un’arma impropria a Libero Mancuso e cioè
ad uno dei più importanti magistrati italiani. Mi è poi capitato di essere presente mentre venivano presentati ordini del giorno che chiedevano l’introduzione di provvedimenti già adottati. Ne ricordo uno dedicato alla riduzione dell’Ici da applicare a chi avesse acquistato una porta blindata. Tutto
il Consiglio ne discusse per ore, fino a quando feci notare che le detrazioni erano già previste dalla passata Finanziaria (ndr avevo appena cambiato
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la porta di casa). Ho assistito alla presentazione di risoluzioni che furono
bocciate dagli stessi presentatori quando sedevano sui banchi della maggioranza nel precedente mandato.
Non erano solo i Consiglieri ad abusare di questo stato confusionale:
chiunque si poteva permettere il lusso di sparare balle pur di fare una bella
figura. Mi invitarono ad un dibattito radiofonico e dopo un primo scambio di battute litigai con Bruno Pizzimente, Presidente di una importantissima associazione ambientalista che ha sedi in tutta Italia. Quel giorno recitò la parte del saccente presuntuoso e quando si scagliò contro la mia inerzia politica decisi che non avrei incassato il colpo in silenzio. Così gli feci
notare che il numero delle battaglie perse dai politici era identico a quello
delle associazioni e lo inviati a smentirmi elencando i successi che aveva
conseguito personalmente. Divagò tanto che lo richiamai all’esposizione
dei fatti. Ci pensò un istante e si vantò di essere riuscito a fermare la costruzione di una centrale termica al quartiere Barca. Andava particolarmente
fiero di questa vittoria strappata ad un’attività industriale che aveva tutte le
carte in regola e le autorizzazioni urbanistiche approvate da almeno due
anni. In quel momento ricordo che mi fece piacere sapere che la centrale
era stata spenta, ma il giorno dopo, quando mi recai sul posto, la trovai in
piena attività con furgoncini che andavano e venivano dal cancello e sbuffi di fumo bianco che dalla ciminiera si disperdevano in cielo. Mentipizzi
aveva raccontato una balla senza paura di fare una brutta figura davanti ai
radioascoltatori. Aveva rischiato puntando la sua credibilità sulla mia ignoranza. Altro esempio, altra storia. Il deputato della Lega, Matteo Salvini,
viene sorpreso da una telecamera mentre intona una canzone razzista che
dileggia i napoletani. Il giorno seguente tutti i telegiornali annunciano le
dimissioni del deputato leghista facendo credere che la Lega sia un partito
che punisce chi esagera. Solo a due giorni di distanza si precisa che Salvini
si è dimesso da deputato italiano per ricoprire l’incarico di Deputato
Europeo, incompatibile col primo. Ma intanto, chi non è riuscito ad ascoltare questa seconda notizia è ancora convinto che la Lega non è poi così
razzista come sembra, anzi punisce persino gli eccessi dei suoi esponenti.
Ecco un altro effetto di questo mondo liofilizzato e istantaneo che manca
delle puntate precedenti e di quelle future. La nostra quotidianità è declinata al presente, ed è senza passato e senza futuro, è come il quadrante di un
orologio dal quale sono sparite le lancette come nel film “Il posto delle
fragole” di Igmar Bergman. Ognuno può dire di vivere nell’ora che più gli fa
comodo. Quelli che poi cercano la verità, in mezzo a tutte queste balle,
hanno un bel da fare...
* I miei sei mesi a Palazzo d’Accursio, intervista a Libero Mancuso di Michele Smargiassi, stampata sul quotidiano la Repubblica, edizione locale di Bologna, il 22 ottobre 2006, pagina 3.
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Grand Hotel Bunker
Sembra proprio di vivere dentro ad un sistema nato per farti perdere
ogni entusiasmo, ancor peggio, architettato per sottrarti alla realtà. Nel
corso della nostra storia è molto più facile incontrare Re prigionieri di loro
stessi piuttosto che del nemico. Hitler chiuso nel bunker ad un centinaio di
metri dagli alleati continuava a ripetere che la vittoria della guerra era prossima al compimento. Chi vive rinchiuso nella reggia nera della politica,
all’interno di uno dei tanti palazzi dove alberga il potere, si ammala ben
presto della “sindrome del bunker”. I sintomi sono chiari e ineludibili: la
mente si affatica, la ragione scompare mentre le affermazioni idiote si moltiplicano a tal punto da dover essere rigettate dal corpo. La delirante paura
di diventare meticci - emblematico esempio di mente bunkerizzata – è stata
illustrata da un nostro egregio presidente del Senato mentre si trovava
davanti ad una platea di filantropi che hanno costruito pozzi nel deserto,
scuole nella giungla, nutrito gli affamati, curato gli ammalati. Chi partecipa
a queste nobili imprese può ritrovare l’amore fra i colori della pelle più
diversi. Poco importa sapere che la metafora del “meticcio” è riferita ai valori perché il “meticciato culturale” è comunque offensivo fondandosi sull’idea di
una cultura bastarda nella quale crescono uomini impuri.
La peggiore oratoria da bar non possiede quindi alcun limite. I cittadini assuefatti ripiegano i giornali dopo aver letto che a Vicenza, il “Senatur”
ha aizzato la folla gridando: “Silvio ti devo dire che ce l’abbiamo duro ed
è per questo che qui è pieno di donne”. Ma quante volte l’abbiamo sentito? Berlusconi risponde a Bossi presentando pubblicamente la “sezione
menopausa” del partito che raccoglie un manipolo di attempate signore
freddate dalla battuta. Il Cavaliere, evidentemente, ignora che la fine dell’età fertile nella donna equivale ad una tragedia.
Dal genitale eretto, passando per la menopausa si giunge all’elogio
dello stupro. Due Capi di Stato hanno appena terminato la conferenza
stampa: “Mi saluti il suo presidente”, - debutta il primo- “Abbiamo scoperto che è piuttosto vigoroso!” - e continua – “Ha stuprato dieci donne,
non me l’aspettavo da lui”.
Infine, per non lasciare scoperta la sinistra, si leva uno stimato
esponente del Partito Democratico che dichiara che il nascente PD dovrà
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copiare l’organizzazione della Sacra Corona Unita se vuole vincere alle
Elezioni che verranno. Vincere cosa? Una guerra tra partiti o tra mafie?
Forse voleva suggerirci che sono la stessa cosa? Dall’estero all’Italia, da
destra a sinistra, sono in troppi ad essersi bevuti il cervello per sopravvivere alla solitudine del bunker.
Bruno Ganz interpreta Adolf Hitler nel film “La caduta”che narra degli ultimi giorni del fuhrer trascorsi all’interno del bunker
I campi elisi
Gli opliti erano dei fanti pesantemente armati comandati dallo strategos.
Di questi antichi soldati, malgrado i tendini recisi, gli stinchi scheggiati e il
sangue versato, non è rimasto nulla. Nulla rimane degli opliti come nulla
resta dei consiglieri comunali.Nulla degli uni e nel nulla gli altri.
Eppure questi soldati armati solo di parola hanno dato vita ad imprese leggendarie, sventato congiure, combattuto segreti e vinto le trame più
oscure. Soldati di cenere piangete per il fuoco che vi fece risplendere e che
vi ha ridotto a ciò che siete. Gridate la vostra rabbia quando sarete dispersi come polvere da quel vento caldo che spazza i deserti. M’illudo che qualcosa della mia vita trascorsa tra questi banchi resti impressa nei ricordi di
qualcuno, ma è solo una lontana speranza accarezzata da chi dormirà
sepolto sotto una spanna di terra insieme ai compianti suoi fratelli. Ma
oggi, in questo momento, mentre cammino verso l’aula del consiglio mi
domando dove siano finiti.
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“Dove siete?” chiedo. E loro rispondono alla chiamata.
Li sento respirare. Bisbigliano. Mi chiamano con la voce rauca dei fantasmi. Percepisco la loro presenza, ma non riesco a vederli. Immagino carcasse di ossa eburnee come le zanne di un elefante aggirarsi tra il sonno e
la veglia. Pezzi di armature arrugginite s’infrangono come barattoli di latta
sugli scogli delle dimenticanze. Spade spezzate che non sibileranno più nell’aria, goliere senza più gole da difendere, staffe ossidate orfane della vittoria di Poitiers. Quanta fatica hanno speso per ritrovarsi dimenticati.
Vogliono che io lo sappia, vogliono svelarmi quanto sia irriconoscente la
storia senza sapere che io
conosco già la verità. I consiglieri comunali condividono il sentiero delle ombre
con gli opliti, con i capi
sioux, con i trecento spartani e i
vecchi elefanti di Annibale.
Discutono fino all’alba chiedendosi se ferisca più l’acciaio o il verbo, più le parole
delle frecce, più il pensiero
delle lance, senza mai venirne a capo.
Gli antichi abitanti della
Gerard Butler interpreta Re leonida nel film “300” di Zack Svyder
valle di Borges cresciuti dentro
alle profondità degli specchi raccontano che si aprì un abisso davanti al
palazzo del Re. Un soldato armato di tutto punto, cavalcando lancia in
resta, vi si gettò dentro per sconfiggere la tenebra, ma da questa ne fu divorato. A quel soldato ne seguirono altri, ma del primo nessuno ricorda nulla.
Su quella voragine nera fu edificato il primo Parlamento a futura gloria del
soldato senza volto e sanza nome.
I grandi territorivori
Al cineclub di via Pietralata proiettano il film di Rosi “Le mani sulla
città”. Entro, mi siedo e penso: via Pietralata, che strano nome. Rifletto
sulla pietra con le ali. Da quando le pietre possono volare? Volteggiano
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sopra la mia testa, sono tante, sono un centinaio di pietre volanti. Si mescolano ai mattoni e all’impalpabile polvere di cemento, alle tegole. Una creatura vorticosa che volteggia nell’aria come una ballerina di Pigalle. Mi sveglio di soprassalto: quello non era l’inizio del film, ma un sogno. Lo spettacolo è incominciato mentre dormivo. Sullo schermo compare Edoardo
Nottola, che ricopre il doppio ruolo di speculatore edilizio e politico interpretato da un grande Rod Steiger. Arringa i tirapiedi su come si riesca a guadagnare denaro nella maniera più semplice:
“la città sta là, questa” - (indica la terra sotto i suoi piedi con un
bastone) – “è zona agricola e quanto può mai valere oggi. Trecento?
Cinquecento? Mille lire al metro quadrato? Ma domani questa terra,
questo stesso metro quadrato, ne può valere, sessanta, settantamila e
pure di più. Tutto dipende da noi. Cinquemila per cento di profitto.
Eccolo là: quello è l’oro” - (indica un gruppo di nascenti palazzoni) – “
e chi te lo da oggi l’oro? Il commercio? L’industria? L’avvenire industriale del Mezzogiorno? Si, investi i tuoi soldi in una fabbrica: sindacati, rivendicazioni, scioperi, cassa malattia… Ti fanno venire l’infarto e
invece, niente affanni e niente preoccupazioni. Tutto guadagno e nessun rischio. Noi dobbiamo solo fare in modo che il Comune ci porti
qua le strade, le fogne, l’acqua, il gas, la luce e il telefono”
All’inizio pensavo che la speculazione edilizia avrebbe colpito solamente il meridione. Ma poi vidi che molte città incominciarono ad essere
accerchiate da nuove costruzioni, invase da centri commerciali, ricoperte
da parcheggi pertinenziali, mentre le zone industriali esplodevano come i
puntini del morbillo sulla faccia di un bambino. Nulla a che vedere con le
vele di Scampia o l’Hotel Fuenti di Salerno, i nostri mansueti “territorivori”
hanno sempre mostrato un’indole saggia, ma non per questo meno voraRod Steiger in un’inquadratura del film “Le mani sulla città” di Francesco Rosi
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ce. In tutto il nord danno bella mostra di sé le cosiddette “villette a schiera”,
stecche di casette formate da cubetti abitativi incollati l’uno accanto all’altro. Chi te le vende le chiama “condomini orizzontali” come dire che hanno
tutte la comodità di un condominio e l’autonomia di una villetta. Ognuna
di queste casette sfoggia un prato verde in formato A4 dove ogni sera una
bella mogliettina, con il bambino in braccio, attende l’arrivo del marito. A
fianco si trova sempre il garage e il barbecue dove si rosolano gli hamburger così da allineare l’Italia allo stile statunitense. In fondo alla strada si erge
l’immancabile centro commerciale servito di tutto punto, ma non dai
mezzi pubblici. Questi centri abitati periferici sono comunità costruite a
misura di pneumatico, inutilizzabili da chi non possiede un’auto con la
quale fuggire da queste favelas di lusso. Nasce così lo “spostamento a scacchiera” e cioè da un parcheggio ad un altro. I percorsi schematici che servono
per congiungere le villette al “resto del mondo” diventano un agglomerato di
tubi, un intestino che decompone le comunità in corpi isolati.
Percorso a: villette – asilo - lavoro -villette.
Percorso b: villette – supermercato - villette.
Percorso c: villette - altre villette di amici e parenti - villette.
Percorso d: Villette – cinema – McDonald- villette.
Tutto quello che succede nei paraggi, fosse anche la rivoluzione o un
colpo di stato, è negato alle esistenze tubolari. Gli anziani che un tempo si
recavano ogni mattina al caffè dove incontravano gli amici, non disponendo più di un autobus, sono confinati in soffitta insieme alle cianfrusaglie o,
quando va male, rinchiusi in ricoveri specializzati. Tutto questo rappresenta il modello urbanistico indicato dai più grandi sociologi del momento
quale causa di morte delle metropoli.
Cambio scena.
Sono nell’ufficio del Capogruppo dei Ds, Lucio Medraghi, sono trascorsi pochi mesi dal giorno in cui sono stato eletto. Abbiamo avuto
entrambi una giornata dura ed è forse per questo che Medraghi, solitamente muto come un pesce, si lascia scappare alcune frasi in libertà. Me ne sto
seduto accanto a lui mentre osserva sul monitor del computer la pianta di
Casalecchio di Reno visto dall’alto. Si tratta di una cittadella alle porte di
Bologna di cui avrò modo di riparlare.
Googlemaps permette di setacciare il nucleo urbano nella sua interezza
e lungo tutte le direzioni.
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“gli agglomerati di vecchie case appaiono bordeaux per via dei tetti
foderati di coppi rossi, le zone industriali, con i capannoni, sono grigiastre.
Le aree adibite a parcheggio sono nere screziate di bianco. Le aree verdi
neanche a dirlo sono verdi. Le ultime, quelle edificabili si riconoscono dalle
tonalità marroni, erba secca, terreno incolto ” – spiega Medraghi “Guarda!” – aggiunge – “hanno quasi esaurito tutto il territorio che avevano a disposizione. Avanzano ancora cinquantamila metri quadrati di residenziale e dopo bisognerà occupare la collina, parco Talon, o le aree adiacenti al fiume. Questa decisione, come certo immagini anche tu, scatenerà
le ire della cittadinanza. Si rischia di perdere il consenso. Ma così, senza la
possibilità di costruire, senza più disporre del denaro proveniente dagli
oneri urbanistici, il Comune andrà in rosso e non avrà di che pagarsi i servizi sociali, le scuole, la manutenzione”.
È la descrizione di uno “scacco matto” amministrativo, qualunque sia la
mossa, si perde la partita comunque. Ma ciò che spaventa maggiormente è
l’idea che gli amministratori si sono fatti del territorio. Al di là di ogni successiva speculazione edilizia che non manca mai di aggiungersi alle altre, il
terreno è diventato la benzina necessaria al regolare funzionamento della
macchina amministrativa. La classe politica partorita dai partiti, esentata da
ogni forma di selezione, può solo vendere ciò che è di tutti pur di procrastinare se stessa. Nessuno cerca nuove fonti di approvvigionamento economico, nessuno progetta un’idea alternativa al consumo di suolo. Una
disfatta. Preso coscienza di questo, sul mio diario scrissi quanto segue:
Non voglio finire nel futuro che stanno progettando per me. Se lo tengano. La loro idea mi disgusta, figuriamoci cosa potrò pensare quando
avranno spinto l’acceleratore a tavoletta. Molti miei compagni - ecoguerrieri
discesi in politica negli ormai lontani anni ottanta - si trovarono prigionieri in mezzo al guado. Sulla riva opposta del torrente spiccava un mondo
devastato, inquinato e mortificato dal potere economico. Gli uomini non
ancora contenti di aver pianificato ogni tappa si erano spinti a blindare la
rovina con le leggi. Quanto di peggio potesse esserci per piegare all’amarezza ogni entusiasmo. Come i miei predecessori - avvinto ad un comune
destino - mi ritrovai con i piedi imprigionati nel fango, nel freddo fluire
della corrente. La felicità svaniva mantenendo gli occhi spalancati a forza
su quel che restava del mondo. In nome del profitto tutto quanto si spostava intorno a me, mutava, si espandeva. Una febbricitante umanità mordeva il territorio colando bave di cemento. Masticava terra umida e vomi304
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tava asfalto. Tesseva reti di strade e moltiplicava tralicci e alzava antenne sui
tetti. Nel silenzio ardevano milioni di fuochi imprigionati nei cilindri dei
motori a scoppio. Se qualcuno li avesse liberati dalla costrizione avrebbe
trasformato la terra in una stella ardente. Ma ciò che brucia nascosto nel
buio, distrugge ugualmente. Non si vede, ma penetra negli alveoli e ti divora peggio della febbre. L’importante era – e lo è tuttora - fare i soldi, immolarsi al Dio denaro, vivere spudoratamente al di sopra delle proprie forze,
senza fatiche, e senza pagare un prezzo. Quello che resta è ben misera cosa:
frattaglie, alibi pericolanti per coscienze lavabili in lavatrice. Pinocchi eletti
a regnanti. Le questioni ambientali sono legate alle sorelle economiche in
modo tale che se ne rifiuti una ti costringono a rifiutare anche l’altra. Se un
Amministratore permette la costruzione di un parcheggio privato si giustifica sostenendo che il ricavato servirà per finanziare la fascia boscata, promessa alla città da almeno vent’anni. Se costruiscono un casermone ti
omaggiano con un giardino, se rovesciano catrame per fare una strada ci
aggiungono una ciclabile, se abbattono un bosco per allargare una rotonda dicono che respirerai aria pulita senza avere più le auto ferme al semaforo del vecchio incrocio. Per costruire la nuova stazione fanno interrare i
treni lasciando che le ferrovie (private nei guadagni e pubbliche nelle perdite) si rivendano i vecchi depositi ai costruttori che ci costruiranno un
nuovo quartiere. Edificabilità in cambio di un servizio che il privato avrebbe dovuto pagarsi di tasca sua. L’ecologista che osa opporsi si ritrova seppellito sotto una pioggia di critiche tossite dai giornali. Scribacchini e pennivendoli si fanno in quattro per dileggiarlo nei trafiletti. Lo ricoprono
d’inchiostro mescolato alle accuse di essere contro gli ecologici treni elettrici e a favore delle lampade a petrolio, delle caverne, dei calessi, delle macchine da cucire a pedali. Ma il silenzio è d’oro, soprattutto in casi come
questo dove non si ha modo di rispondere. Tanto più che i sonnambuli
della betoniera sono riusciti a calare “l’atto del costruire” in una dimensione
irraggiungibile negata a tutti coloro che combattono l’inurbarsi del mondo.
Gli ecomostri (voraci terrivori tipici del periodo cementaceo) che l’impavido ecologista pensava di abbattere sono germinati da destinazioni urbanistiche approvate quando quest’ultimo non era ancora nato o giaceva in
fasce nella culla. L’ultima autorizzazione necessaria al compiersi definitivo
dello scempio è stata approvata nel precedente mandato e ogni provvedimento amministrativo varato non è revocabile. Come dicevano gli antichi
Faraoni, che in fatto di costruzioni ne sapevano qualcosa: “così è stato scritto
e così sarà fatto”. Sono riusciti a fare in modo che la colpa non sia di nessuno, tutt’al più di politici morti. L’urbanistica è un’opera al nero scritta da
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politici morti. Cadaveri sepolti. Il concetto di sviluppo immobiliare, non
prevede soste e si può permettere, al massimo, una fievole riduzione del
danno. La chiamano “perequazione”, come dire che le costruzioni - così
come ogni grande opera - non possono essere fermate, ma delocalizzate.
Trasportate nei luoghi abitati da
cittadini inermi, incapaci di
lamentarsi, addomesticabili con
l’urbanistica
partecipata.
Proprio così: laboratori di urbanistica partecipata. Sono luoghi abitati da fantasmi che dispensano
assensi persino al peggior grattacielo di cinquanta piani. Se poi
indaghi scopri che i membri di
questi conciliaboli sono dipendenti e amici del costruttore o
iscritti al partito che protegge il
costruttore, politici travestiti e
consiglieri comunali trombati.
Gente la cui moglie impedisce
loro di spostare una credenza da
una camera all’altra è chiamata a
decidere quanto grande dovrà
essere lunga la ciclabile ai piedi
del grattacielo. Posti di lavoro mal pagati, panchine e giardinetti sono le
consuete merci di scambio subentrate alle collane di perle e agli specchietti luccicanti, generosamente elargiti agli indigeni dai novelli Pizarro del
cemento in cambio dello spazio pubblico. Che male ci sarebbe nel dire di
no - almeno una volta - ad un’autostrada o all’ennesimo condominio?
Eppure dicono sempre tutti di sì perché l’affare è più seducente di qualsiasi altra esperienza. Ma torniamo a queste “natività edili”. Il terreno è svenduto al costruttore di turno perché occupato dai campi nomadi o da altrettanti pericolosi tralicci. Invaso da piaghe bibliche - di ogni genere e sorta
- quando manca una causa evidente. Il male sociale, ambientale e bestiale
si stempera tra i rigurgiti del nuovo eden immobiliare prossimo alla nascita e sono proprio le oculate Amministrazioni, il più delle volte, a risolvere
a spese proprie ciò che pareva irrisolvibile prima dell’arrivo di ruspe e mattoni. Ogni terreno agricolo, ogni fabbricato industriale smesso, ogni minuscolo frammento di spazio libero, giace opzionato dalla grande multinazio306
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nale del mattone in attesa di
veder nascere nuove edificabilità
e i giacimenti di buchi urbani
continuano ad essere la miglior
forma di finanziamento per i
padroni occulti dei camaleontici
piani regolatori. I demiurghi della
toponomastica, inchinati a caste
di eletti e baronie nominate spacciano l’ultima onda anomala di
cemento come una forma benevola di sviluppo, una delle tante
necessità legate alla crescita economica. Nella mia città, da almeno vent’anni, i giardini sono realizzati dagli
stessi costruttori. Mi domando quando un comune pagherà di tasca sua un
giardino senza farlo pagare ad un palazzinaro? Già, non si chiamano palazzinari, ma imprenditori, urbanisti, benefattori della riqualificazione, motori dello sviluppo e non fanno altro che sottrarre sabbia ai fiumi per trasformarla in cubetti abitabili che non saranno nemmeno usati come case, ma
contabilizzati sotto forma di fidi bancari usati per produrre altri cubetti
abitativi e via all’infinito di villetta in grattacielo. Che fantasia...
Paradossalmente, per crescere un albero ci vuole il cemento e da un
punto di vista politico non è del tutto sbagliato. Cosa produce un parco?
Produce svago e lo svago è l’anticamera dell’ozio. L’ozio è pensiero. Il pensiero è ragione. La ragione è rivoluzione. Così, per scampare alla rivoluzione, i politici riducono la dimensione dei parchi. Senza contare che diminuendo gli ettari di verde si riduce il divertimento e si aumenta il tempo
dedicato al lavoro. Eliminando l’ombra di un ippocastano si spinge l’impiegato a rimanere in ufficio durante la pausa. Ma queste sono solo fantasie.
Magari ci fosse dietro una strategia che punta ad opprimere il popolo.
Purtroppo non c’è più neanche quella. I soldi ci sono dietro, i soldi e nient’altro.
Alle Chiese succedono i supermercati, dove il “credo” diventa un “credito” non più mediato dal Sacerdote, ma dalla Visa. La fede cede il passo ai
fidi, ad una costellazione di segni e numeri - più e meno, meno e più - che
camminano in fila, quasi fossero formiche, sull’estratto conto. Questo è il
mio mondo e nessuno dica che non ho provato a cambiarlo.
*(http://www.youtube.com/watch?v=m_dbXrqghWo)
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Archeosupermarket!
“È tutta una questione di soldi.
Il resto è solo conversazione”
Gordon Gekko in
Wall Street di Oliver Stone
Fin dai lontani anni ottanta, il potere politico emiliano romagnolo,
dopo essersi insinuato e quindi stabilmente innervato in quello economico
si è liberato di tutti gli oppositori. Una dopo l’altra sono state limate le
asperità, dai politici non allineati sino agli intellettuali. Rispetto a questi, alle
“intelligenze di sinistra” bisogna far notare come la loro scomparsa abbia
creato le condizioni che hanno permesso al modello culturale berlusconiano, di forte impronta televisiva, di consolidarsi nel paese senza che gli fosse
opposto un degno rivale. Come dire che molti governi, troppi, si sono preoccupati di sviluppare prevalentemente l’economia favorendo il mercato
dell’edilizia, attuando una sorta di inarrestabile moltiplicazione dei contenitori vuoti, a scapito dei contenuti e cioè dei “valori culturali”.
Neanche gli imprenditori, quelli che non rientravano in una delle
variegate ali della politica si sono salvati. Del libero mercato, che aveva
fatto grande l’economia emiliana e permesso la nascita di industrie e marchi conosciuti nel mondo, è rimasto poco o niente se non l’aura di un passato che pur continuando a splendere non ha saputo adattarsi ai cambiamenti e ripetersi. Ricordo di aver letto da qualche parte che lo stesso
Berlusconi consigliò ai manager della Fiat di mettere il marchio Ferrari dappertutto. Che cos’è questo consiglio se non una palese abdicazione? Prova
ne sia che le piccole e medie imprese odierne, che si sono sostituite alle
grandi imprese del passato, dipendono principalmente dagli enti pubblici e
dal mondo della politica. Ciò lo si deve principalmente alla “buona amministrazione” che accompagnata ad un diffuso benessere rappresenta una panacea capace di assuefare i cittadini ai cambiamenti radicali che non producono alcun beneficio per loro. Ma torniamo agli albori della chimera economico-politica, a quegli anni ottanta in cui sugli schermi di mezzo mondo
impazzava il cinico Gordon Gekko di Wall street, un “cattivo maestro” che ha
ispirato intere generazioni di giovani manager che una volta cresciuti
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hanno occupato una “posizione chiave” e subito dopo si sono ritrovati al centro di scandali finanziari senza precedenti come la Enron, la bolla immobiliare, i mutui spazzatura e la truffa della Lehman Brothers. Senza più nessuno che potesse contrastarla, la chimera è uscita allo scoperto facendosi
sempre più arrogante, così arrogante da perdere il senso della misura. I
suoi frutti sono tutt’ora sotto gli occhi di tutti. Alle porte di Bologna, sul
ridente fiume Reno, è presente un borgo di case che se all’inizio del secolo poteva sembrare un villaggio fluviale, oggi può essere considerato come
una sorta di città satellite che orbita intorno al capoluogo emiliano. Al crescere del centro abitato sono quindi aumentate le richieste di servizi quali
supermercati, cinema, negozi, parcheggi e perché no, altre abitazioni che
non devono mai mancare.
Così, la lungimirante amministrazione Casalecchiese ha pensato di
costruire quello che può essere definito il satellite di un città satellite: il
quartiere Meridiana. Allo stato attuale, chi vuole fare due passi da quelle
parti può visitare questa città del “dormi, divertiti e compra” che si presenta
come un insediamento protetto da una quarantina di poderose torri condominiali. All’interno si trovano numerose attività produttive come un
supermercato Esselunga, una multisala cinematografica, negozi di abbigliamento, una libreria, bar, ristoranti, fontane, campi da tennis, da calcio, palestre, sale ricreative, giardini e piste ciclabili. Tutt’attorno si srotolano strade aggrovigliate, si alzano rampe e si curvano svincoli, rotonde, sottopassi
e gradinate per pedoni. Insomma, si tratta di una bella colata di cemento
servita di tutto punto.
Quando incominciai a frequentare il centro Meridiana – a quei tempi
ero ancora un giovane simpatizzante di sinistra – mi convinsi che fosse giusto riqualificare quegli assolati campi incolti che servivano solo a qualche
vecchio cane incontinente. Certo, si sarebbe potuto piantumarci un bosco,
ma reduce da les Halles di Parigi e dato che di spazio attorno a Casalecchio
ce n’era tanto conclusi che gli alberi avrebbero potuto aspettare mentre
valeva la pena lasciarsi andare ad una ventata di modernità.
Così credevo senza avere la minima idea di cosa si nascondesse sotto le
erbacce ingiallite. Anni dopo, quando mi ritrovai faccia a faccia con la verità ne fui sconvolto. Successe quando due carissimi amici, Emanuele e Teresa,
m’invitarono al compleanno della figlia Matilde. Per l’occasione avevano
preso in affitto una sala del quartiere sita nel complesso della Meridiana. Al
suo interno, affisse alle pareti, tra palloncini colorati e festoni, trovai la storia passata di quel luogo. Lessi attentamente i pannelli espositivi, uno in
particolare:
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“Fin dal secolo scorso il territorio di Casalecchio di Reno è stato
oggetto di ritrovamenti di notevole importanza. A partire dalla
metà degli anni ottanta l’ampio progetto di urbanizzazione dell’attuale quartiere Meridiana ha consentito alla soprintendenza per i
beni archeologici dell’Emilia Romagna di programmare un articolato intervento di tutela preventiva, grazie anche al concreto intervento dell’impresa Galotti spa. La complessa operazione è stata realizzata nel corso di oltre dieci campagne di scavo dirette dal Dr
Jacopo Ortalli, ed eseguite dai tecnici delle società archeologiche
Archeostudio, Csr, Lares e Tecne, talvolta affiancati da specialisti di
altre discipline (geologi, zoologi e archeobotanici). Le indagini
hanno consentito di delineare un quadro esauriente sull’evoluzione
insediativa, economica e ambientale della zona, lungo un arco cronologico di circa diecimila anni, dal Mesolitico all’Età moderna. La
distribuzione dei ritrovamenti archeologici nella zona dell’attuale
quartiere “Meridiana” ne evidenzia la vocazione insediativa: fin dai
tempi più remoti l’uomo ha trovato in quest’area un ambiente ideale per lo stanziamento e lo sviluppo delle proprie attività”
E deve essere la stessa cosa che hanno pensato i costruttori quando hanno deciso di trasformare un insediamento archeologico nell’ennesimo centro commerciale. Sembra che i resti archeologici presenti in loco
siano serviti per uniformare le decisioni del passato a quelle future, come
per far intendere che si è deciso di costruire dei condomini e dei supermercati dove gli antichi avrebbero fatto altrettanto se solo avessero potuto. Si
conia per questo una terminologia ad hoc: “vocazione abitativa” per rendere
al meglio l’idea. Evidentemente se c’è la vocazione religiosa ci può anche
essere quella abitativa. Insomma, si tratta di un alibi che dimostra come
tentano in tutti i modi di ammorbidire le decisioni sbagliate attraverso un
uso oculato del linguaggio. Riqualificare è diventato sinonimo di miglioramento. Per me, significa il contrario. Chi decide di sostituire gli alberi, le
foglie, l’erba profumata, i rospi, le lucertole e la terra umida con del cemento, dell’acciaio e del catrame compie una profonda ingiustizia subita dall’intera collettività.
Il disegno stampato sotto le parole è ancor più avvilente.
L’immagine raffigura la medusa “economopolitica” con torri e strade al posto
dei serpenti che dimorano sulla testa mitologica. Come tentacoli penetrano il territorio soffocando le tracce del passato. La tomba di un bambino
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di età neolitica è rimasta imprigionata al centro di uno svincolo stradale. Su
di un sepolcreto altomedievale è stato costruito un parcheggio. Un pozzo
dell’età del bronzo dimora in un giardino condominiale tra le panchine di
plastica. Una villa romana è finita sul lato di un campo da calcio. Resti
mesolitici accanto ai garage. Ma guardate voi stessi:
Un’istituzione che sacrifica la propria storia - se non la sacrifica
interamente la imprigiona all’interno di una speculazione commerciale non è poi così diversa dai barbari che facevano tabula rasa di tutto ciò che
incontravano sulla loro strada.
Non è questione di Magistratura, di lecito o illecito, di progresso o
arretramento economico, si tratta soltanto del rispetto per la cultura che
ogni popolo dovrebbe avere. Gli artefici di un tale scempio sono le stesse
persone che accusano Berlusconi di avere reso volgari gli italiani con le
televisioni private. Sono gli stessi che lamentano l’abusivismo nella Valle dei
Templi. Bene, a costoro chiedo: qual è il vostro progetto culturale? Questo?
Sarebbe bene farsi venire in mente un modello alternativo, anche una sola
idea potrebbe bastare. Una sola idea.
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Un certo fiuto per gli affari, degli altri
Una sera mi telefonò un signore e mi raccontò della notte precedente. Aveva avvertito un odore di nafta molto forte, così intenso che si era
messo a gironzolare per il quartiere cercando di capire da dove provenisse.
Dopo un lungo vagabondare si era imbattuto in un campo disseminato da
chiazze di gasolio. Aggiunse di aver stimato la perdita in molte migliaia di
litri, non rammento con esattezza il numero, ma sul momento pensai ad
una infiltrazione profonda che poteva aver contaminato la falda. Dopo di
ché mi riferì che i mezzi dell’Azienda Trasporti Comunali usavano abusivamente una cisterna di gasolio interrata che era situata proprio nel campo di
fronte all’ingresso del deposito. Sul momento ebbi l’impressione di parlare
con un dipendente comunale che non voleva denunciare apertamente un
disastro ambientale per motivi oscuri. Ribadì più volte - forse troppe - che
erano andati dispersi milioni e milioni di lire sotto forma di nafta. Lo spreco di denaro pubblico veniva prima del disastro ambientale.
Da un veloce accertamento appurai che si trattava di un terreno del
Comune mentre l’Azienda Trasporti Comunali chiamata in causa aveva le
cisterne dei carburanti da un’altra parte ed erano assoggettate a controlli di
sicurezza molto severi.
Perché qualcuno avrebbe dovuto usare una cisterna abusiva con tutti i
rischi che ne potevano derivare? Per far figurare un consumo di carburante superiore a quello effettivamente impiegato? Avanzai un’ipotesi.
Qualche autista truffaldino, prima di riconsegnare il mezzo, svuotava il serbatoio in maniera da rivendersi sottobanco il gasolio ad un distributore
nelle vicinanze. Ma forse quella sera qualcosa era andato per il verso sbagliato: durante il travaso il combustibile era finito nel campo anziché nella
vecchia cisterna. Ci pensai sopra a lungo convincendomi che si trattava di
una teoria assurda. Troppi rischi e troppo poco guadagno, le due cose non
vanno mai d’accordo. Senza contare che il campo era al centro di un agglomerato di palazzoni e nessuno si azzarda a giocare al piccolo contrabbandiere sotto gli occhi di tutti. Ve lo vedete l’autista di un bus che mette in
gioco la carriera per qualche milione di vecchie lire?
A scanso di equivoci scrissi un’interrogazione per il Consigliere in carica dove si chiedeva in forma semplice e diretta se dalle parti di via Marx si
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erano verificate delle perdite di gasolio. La risposta fu altrettanto concisa:
no, nessuno sapeva nulla di nulla.
Così mi dimenticai completamente di tutta quella faccenda e persi anche i
recapiti di quel signore che mi aveva segnalato l’accaduto.
Qualche anno dopo mi trovai davanti ad una delibera che prevedeva
la bonifica proprio di quel campo al centro di quella strana storia. Decisi
così di ricostruire l’intera faccenda che risaliva agli anni settanta. C’era una
volta un cameriere che aveva ereditato dalla propria padrona svariati ettari
di terreno sparsi per la città. Per uno di questi appezzamenti, nel lontano
1985, fece causa al Comune che lo aveva vincolato a verde pubblico senza
però darsi la cura di espropriarlo e di pagare un indennizzo. Il cameriere
ottenne ragione dalla Magistratura costringendo la controparte a sborsare
una cifra che si avvicinava al milione di euro. Questo credito fu quindi
acquistato da un costruttore che bussò alla porta del Sindaco con una proposta a suo dire allettante. L’imprenditore edile avrebbe rinunciato ad
incassare il milione di euro in cambio di un terreno dove costruire l’ennesimo condominio. A quel punto, l’Amministrazione propose proprio quel
campo dove si era verificatala la contaminazione, ma il costruttore fece
mettere a verbale che il costo di ogni eventuale bonifica sarebbe stato caricato sul Comune. Sapeva anche lui della perdita di carburante? No di certo,
la ragione addottata fu un’altra. Sotto al campo si trovava un ex-cava tombata negli anni settanta e quindi, da quelle parti, poteva esserci seppellito di
tutto. L’Amministrazione si trovò quindi a dover sborsare un milione di
risarcimento sotto forma di terreno edificabile più un altro milione di euro
per la bonifica, anche questo convertito in edificabilità. Quando incominciai a girare per gli uffici facendo intendere che c’era il sospetto che qualcuno avesse potuto inquinare volontariamente l’area, mi fu detto che se
anche era andata così nessuno sarebbe riuscito a dimostrarlo, come dire
che: “sarebbe stato come rovesciare del latte dentro a un caseificio”. Ci fu
anche chi mi avvicinò facendomi intendere che il mio voto contrario sarebbe stato smerciato alla città come il gesto irresponsabile di un ecologista
che si opponeva a prescindere, perfino alle bonifiche, pur di ritagliarsi quindici minuti di celebrità. Contattai i tecnici e passai un’intera mattinata al
Settore Ambiente senza cavarci un ragno da un buco. Ricordo di essere stato
trattato come un rompiscatole senza alcun titolo in geologia o risanamento ambientale che potesse in qualche modo giustificare quella strana storia
di inquinamento del terreno avvenuto per mano di ignoti. Neanche i giornalisti, a parte “Il Bologna”, s’interessarono della questione sollevata in sede
di commissione e mi sembrò che intorno a quella strana storia ci fossero
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troppi silenzi imbarazzati e altrettanti sorrisi tirati. Ad ogni modo giunsi
alle conclusioni che non avrei potuto votare contro se non a costo di passare per un idiota che voleva mantenere contaminata la città. In effetti non
ero tanto contrario alla bonifica quanto al fatto che dovesse essere il
Comune a pagarla immaginando che poi sarebbe stato costretto ad andare
ben oltre il primo milione di euro stanziato.
Incominciarono i lavori e si scoprì, guarda caso, che tutto il campo di
via Marx era intriso di gasolio mescolato all’acqua, forse “gasolio bianco”, un
combustibile prodotto per ridurre le emissioni nocive in ambienti urbani e
utilizzato dalle aziende di trasporti pubblici. Eppure l’Amministrazione era
stata avvertita della contaminazione da un gruppo consiliare prima ancora
di individuare il terreno da permutare. Un’ecologista, che non possedeva
nessun titolo in geologia o risanamento ambientale, ha saputo, ancor prima
dei tecnici comunali (i protocolli delle interrogazioni mi sono testimoni)
che in una data zona, oggetto di un accordo economico, sarebbe stato rilevato un inquinamento da gasolio. Ammetto quindi di non avere nessuna
preparazione, ma solo un certo fiuto. Un certo fiuto per gli affari, degli
altri, s’intende.
Oltre il giardino
Durante l’ultimo Natale mi sono rivisto con i parenti di mia madre che
non vedevo da tempo e abbiamo pranzato insieme in un agriturismo della
bassa. C’era anche mio cugino Gianluca, quello che da ragazzo chiamavo
“il mitico Gianluca”. Si è trasferito a Milano dove lavora come Art Director ed
è diventato “un pezzo da novanta”. Ci sediamo vicini e mi racconta di essersi divertito quando si è concesso per qualche mese alla politica. Era il
primo di una lista alle comunali, quella che ha sostenuto Dario Fo come
candidato Sindaco della Madunina. Non è stato eletto per un soffio, per un
voto di differenza, uno solo, peccato. Quando gli chiedo come gli è saltata
in mente l’idea di candidarsi mi risponde che a poche centinaia di metri da
casa sua c’è un giardinetto degradato. Così si mette a raccogliere le firme,
poi si reca nella sede del Pd per consegnarle al rappresentante di zona,
quindi diventa presidente di un comitato e vi risparmio tutto il resto, ma è
la solita storia della politica che ha bisogno di “carne fresca” per sopravvivere. In molti hanno incominciato così e anch’io ho avuto il mio giardinetto
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da riportare in seno alla cittadinanza. Quale politico non ne ha avuto
uno, dico io.
Il mio era un piccolissimo
appezzamento verde incastrato tra le
case vecchie del centro dove di verde
ce n’è poco o niente. Un luogo a
quel tempo frequentato solo da
spacciatori e ubriaconi, oltre al sottoscritto, tanto che attorno si chiedevano tutti come mai nessuno
avesse pensato di renderlo accogliente. Come mio cugino, diedi
prima il via ad una raccolta firme e
Peter Sellers è Chance giardiniere in “Oltre il giardino”
subito dopo convocai una riunione
di tutti i firmatari. Comprai vanghe e rastrelli. Un vicino vivaista mi regalò
degli arbusti malandati da rivitalizzare e delle bustine di semi scaduti che non
riusciva più a vendere. Un tubo di gomma rattoppato, ma funzionante, fu
gentilmente offerto dal barista all’angolo mentre un muratore tunisino mi
regalò tre panchine nuove che aveva in magazzino. Insomma, con l’aiuto di
tutto il vicinato e di un’instancabile nonnetta, spuntarono fiori, prati e giovani alberi, là dove prima c’era solo terra brulla e siringhe usate. Naturalmente,
terminato il lavoro, il politico del posto decise di mettere il cappello in testa al
nostro lavoro. Saltò sul carro a giochi fatti, e fatica spesa, per organizzare una
festa che, una chiacchiera dopo l’altra, si trasformò in una vera e propria inaugurazione tenuta a battesimo dal Quartiere, con tanto di Presidente, portaborse e tirapiedi. Mi rincuorai pensando che questo invadente “ultimo arrivato” in
cerca di popolarità me ne sarebbe stato almeno grato. Invece, il giorno dell’inaugurazione, fece fatica a salutarmi e tutte le volte che si avvicinava qualcuno per ringraziarmi me lo vedevo parare davanti biascicando frasi imbarazzate a denti stretti. Passata la festa non ebbi mai più il piacere di incontrarlo e
solo dopo tre lustri, una volta eletto consigliere, mi fu spiegato da un collega
il motivo di tanto malcelato livore. Quel giardinetto lo voleva rimettere a
posto lui. Per farlo aveva già incaricato una ditta di amici, ma non aveva ancora trovato i soldi. Per fare il lavoro dei “giardinieri senza gloria”, stando ai lucrosi preventivi che aveva raccolto, ci sarebbero voluti un pacco di milioni. Gli
avevo portato via, senza saperlo e neanche volerlo, il pane dalla bocca. Se i
giardini sotto casa restano incolti, chiusi, mal frequentati è per questi stessi
motivi: nessuno ci guadagna abbastanza dal renderli accoglienti.
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Le piramidi
Ricordo ancora di quando, ancora bambino, vidi il film “I dieci comandamenti”. Mi colpì la scena in cui la vecchia schiava rimane imprigionata nei
tronchi posati sotto i blocchi di pietra utilizzati per la costruzione delle
piramidi. Sarà lo stesso Mosè a salvarla. Fortunatamente, al giorno d’oggi
nessuno è più costretto a trascinare cubi di pietra di molte tonnellate a
costo di rimetterci la vita. Così credevo fino a quando non ho ascoltato
un’intervista a Ivan Cicconi sulla nuova sede del Comune di Bologna. Con la
scusa di non sborsare un solo centesimo l’Amministrazione ha varato quello che gli esperti di bilanci chiamano un programma di finanziamento.
Costruttori e banche mettono i soldi per pagare l’opera che costa (a
chi la costruisce) settantacinque milioni di euro. Terminati i lavori il
Comune prenderà possesso del bene pagando una sorta di canone semestrale per la durata di 28 anni durante i quali dovrà versare un totale di duecento milioni di euro prima di diventare l’unico proprietario dell’edificio e
cessare il pagamento dell’affitto. Quindi non si muore più per i colpi di sole
o per l’afa del deserto, di sete. Neanche si viene stritolati da qualche cubo
di pietra. Ugualmente ci si vede costretti a pagare cifre esorbitanti contratte a cuor leggero da spensierati amministratori pubblici. Debiti questi che
finiranno per appesantire la tarsu (la tassa dei rifiuti), l’Ici, le rette degli asili
e tutto il resto. Chi non potrà pagare sarà prima pignorato e poi buttato in
mezzo alla strada perché abitare in una città spendacciona diventerà un
lusso che solo una pregiatissima elite si potrà permettere. Tutti gli altri non
saranno presi a frustate come gli schiavi dell’antico Egitto, ma colpiti a sangue da salatissime imposte. Il caso vuole che il Governo egiziano abbia
dichiarato recentemente di aver scoperto che i costruttori delle piramidi
non erano schiavi, ma uomini liberi. Anche noi siamo liberi, liberi di andarcene per non pagare tasse esorbitanti.
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Il buco di bilancio prodotto dai fenici nel 1000 a.c.
Come abbiamo visto i Bolognesi pagheranno un canone esorbitante
per 28 anni. Sembrano tanti, ma questo è niente se si pensa a quello che
dovranno sborsare i sardi per rientrare delle spese sostenute per i lavori
della Maddalena. Ce lo rivela Fabrizio Gatti invitato ad Anno zero il 6 maggio
del 2010*. L’arsenale, questo monumentale complesso turistico, è stato
affittato al Gruppo Marcegalia per 65 mila euro al mese più il pagamento di
una cifra “una tantum”. Insomma per non farla troppo lunga, la Regione
Sardegna, per rientrare dei soldi che ha impiegato per l’intervento edilizio
e stando all’importo dell’affitto impiegherà tremila anni per rientrare dell’investimento. Viene da chiedersi cosa penserebbero i Sardi se i Fenici,
approdati lungo le loro coste intorno all’anno 1000 prima di Cristo, avessero lasciato un buco di bilancio che ancora oggi non si è chiuso.
Il bello di certi debiti è che il genere umano, molto probabilmente, si
estinguerà prima di vederli ripianati.
*youtube: L’affare 3/16
Canile Olimpo
Mi accorsi ben presto che la cosiddetta “questione urbanistica” come il
conseguente “consumo di territorio” erano di limitato interesse per gli organi
d’informazione. Non ho mai capito se questa scarsa propensione al tema
fosse determinata dall’ineluttabile corsa del progresso identificata con il
crescere incessante delle costruzioni o da tutti quegli annunci immobiliari
che spesso occupavano il doppio delle pagine dedicate alle cronache locali diventando così un’importante fonte di sussistenza.
Le commissioni indette per la revisione dei progetti “già approvati”
erano disertate tanto dai consiglieri quanto dagli stessi assessori che le ritenevano un’inutile perdita di tempo. Mi sentivo come se stessi tentando di
fermare una locomotiva lanciata in corsa sui binari, un’impresa impossibi317
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le. Per questo incominciai a dedicarmi ad altri temi pur sempre interessanti. Una delle favole decisamente strane giunta alle mie orecchie, era la storia di un canile ombra che operava in parallelo al servizio municipale.
Secondo le mie fonti i cani dei punkabbestia erano catturati e rinchiusi in
un luogo misterioso con modalità simili a quelle adottate dai centri di
detenzione temporanea, i Cpt previsti dalla Bossi - Fini sull’immigrazione.
L’Assessore alla Sicurezza del vecchio governo, tale Gianni Monguz,
abitante del pianeta Mongo di Flash Gordon e scrittore a tempo perso di
romanzi, aveva pensato bene di porre rimedio al proliferare di questi
molossi in maniera anomala e ciò che più m’infastidiva era che i suoi atti
amministrativi erano stati ereditati dalla nuova amministrazione senza che
nessuno si accorgesse della loro natura discriminante.
Queste delibere parlavano chiaro:
“ …nell’ambito degli interventi sui punkabbestia che gravitano nel
territorio si è reso necessario per motivi di sicurezza e cautela prevedere l’accalappiamento e il ricovero dei cani da essi detenuti” in quanto i punkabbestia - altra delibera - “vivono notoriamente
per strada con i loro cani, nella generalità dei casi sono dediti all’accattonaggio e poco inclini al rispetto delle fondamentali regole di
convivenza civile”.
E chi se ne frega, se esiste qualcuno che non appartiene al campo del
“notoriamente”. Ed è proprio su generalizzazioni come queste che si è avvallata la deportazione degli ebrei. I discendenti di Davide erano per i nazisti, “notoriamente” degli usurai le cui finanze compromettevano l’intera economia tedesca. Se uno era povero, per i nazi, era pericoloso ugualmente. Se s’istituisce il
campo del “notorio” non serve fare delle distinzioni. Quando si crede in una
razza superiore bisogna poi dimostrare che le altre sono inferiori, questo è il
principio su cui si fonda il razzismo. I punkabbestia possono anche non piacere, ma questo non autorizza qualcuno a fare delle discriminazioni o a violare il possesso delle loro cose, siano esse inanimate o viventi quanto un cane.
Vi erano poi altri aspetti incongruenti di natura economica e istituzionale. Il
gestore del canile municipale aveva vinto un appalto dove era scritto nero su
bianco che avrebbe dovuto accalappiare i cani in ogni occasione: “…al sabato, alla domenica, nei festivi, di giorno e di notte”.
Perché istituire un servizio “doppione” per la gioia della Corte dei Conti?
Perché non catturare i cani e farli portare al canile dal gestore regolarmente pagato e controllato per questo?
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Evidentemente, l’assessore non voleva far sapere ai punkabbestia dove
finivano gli animali sequestrati perché prima che il provvedimento entrasse in vigore chiunque di loro poteva andare al canile per riprendersi il cane
e tornare dopo neanche un’ora a bighellonare a Piazza Verdi, abituale ritrovo di tutti i perditempo con bestia, o senza, al seguito. Invece, lo stratagemma costruito da Monguz metteva l’Amministrazione nelle condizioni di
poter aprire una contrattazione:
…“Se mi prometti di sparire ti dico dove puoi andarti a riprendere il cane
che teniamo chiuso in un canile fantasma”.
Era un po’ come in certi film western dove lo sceriffo ti sbatte in galera fino a quando non ti decidi ad andartene da Tombstone city. Non potendo fare lo stesso con le persone lo si faceva con i cani. Questo provvedimento da far- west, indipendentemente dagli effetti che sortiva, esulava dalle
leggi sul randagismo, ingrigiva le procedure adottate comunemente (il servizio era controllato da un settore al quale non corrispondeva la delega
sugli animali) ed era costruito sulla base di ragionamenti beceri, indegni di
un’amministrazione pubblica. Furono catturati molti cani (non solo quelli
dei punkabbestia) e rinchiusi nel “canile Olimpo” fino a quando non incominciai a lamentarmi pubblicamente di questa palese ed ingiusta prevaricazione. L’assessore competente, Giuseppe Mariuolo, sulle prime negò perfino l’esistenza delle delibere, ma quando gli furono sbattute in faccia
durante un’accalorata riunione di commissione si rese conto del grosso
casino nel quale si stava infilando e me la diede vinta sospendendo le catture e il pagamento dell’affitto versato ai gestori del canile ombra. Ancora
oggi, non si sa nulla di circa una quarantina di “cani desaparecidos” che furono sequestrati a quei tempi. Dove sono finiti? Si dice che cinque alla volta
siano stati adottati in Calabria, ma temo che si tratti solo di una copertura.
Nessuna associazione animalista è mai voluta andare fino in fondo a
tutta questa storia, neanche quando il vecchio gestore fu cacciato in seguito al sequestro del canile ordinato della Magistratura.
Qualche giorno dopo la mia faticosa vittoria, alla Festa dell’Unità di
Bologna, due ragazzi, “notoriamente inclini al rispetto delle fondamentali regole di
convivenza civile” sventarono uno stupro. L’edizione locale di Repubblica
titolò: “Due punkabbestia hanno messo in fuga il violentatore” *.
Mi sono sempre chiesto se avessero con sé il cane o se si trovasse
ancora rinchiuso nel canile Olimpo.
*Amelia Esposito, su La Repubblica Bologna del 29 agosto 2006 (pag.3).
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Il lupo mannaro
Tutti i giorni accompagnavo mio figlio a scuola. Talvolta capitava che
la mensa scolastica chiudesse i battenti per sciopero lasciando gli alunni a
bocca asciutta. Informato per tempo mi fermavo al bar delle Caserme Rosse
per acquistare succo di frutta e panini in modo da non lasciare il piccolo
Lollo a pancia vuota. Un giorno mi capitò tra le mani il contratto che regolava il rapporto tra il Centro di Produzione
dei Pasti e l’Amministrazione Comunale.
Vi era scritto chiaro e tondo che in caso
di sciopero l’azienda produttrice dei
pasti doveva in ogni caso garantire il
cibo:
Art. 14 “…dovrà essere assicurato nei limiti del possibile un servizio alternativo alla somministrazione dei pasti”.
Moltiplicate il costo del panino
sostitutivo per il numero dei bambini
bolognesi, rimoltiplicate ancora per i giorni di sciopero e scoprirete che si è trattato
di un bel regalo che l’Amministrazione ha
concesso all’azienda di produzione pasti.
In compenso, un bambino, i cui
improduttivi genitori non erano riusciti a
pagare la retta della refezione, veniva regolarmente spedito in cortile a mangiarsi un
tramezzino portato da casa. Ve lo vedete
un bimbo tradotto dalle bidelle in giardino
come fosse un carcerato? Eccolo seduto
sulla panchina, da solo, mentre si domanda il perché della povertà. Era quel
genere di cose che mi causava un formicolio sulla schiena. Incominciai a sentire le unghie allungarsi mentre la saliva filava da un angolo della bocca. Mi
crebbero i canini e comparve una folta pelliccia grigia sul viso. Senza volerlo
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mi ritrovai ad ululare sulla scrivania del dirigente come un lupo mannaro affamato, pronto per un pranzo a base di burocrate. Fino a quando ho indossato
le vesti del Consigliere Comunale i bambini poveri hanno avuto di che sfamarsi. Fortuna vuole che a nessuno sia mai venuto in mente di acquistare dei
proiettili d’argento.
Amianto
Era incredibile riscontrare come fosse diverso l’approccio ai temi da
risolvere. La città trasudava amianto. Se i cittadini chiedevano di rimuovere un tetto sbriciolato, la risposta dei responsabili del controllo, suonava
così:
“ …per quello che si è potuto osservare, la copertura si presenta
corrosa all’esposizione degli agenti atmosferici.. è a pochi metri da
finestre e terrazze di civili abitazioni… un albero e la vegetazione
provocano la caduta di foglie e rami sul tetto… i supporti metallici di fissaggio della copertura sono precari…” - pur tuttavia - “si
invita il proprietario dell’immobile ad adottare gli opportuni provvedimenti per il controllo e la bonifica della copertura…entro
novanta giorni”.
Si invita!? Avrebbero dovuto ordinargli di farlo subito - “Porca miseria!”
- non chiederlo entro tre mesi. E se qualcuno - in quel fottuto lasso di tempo
- si fosse ammalato? Magari potevano spedire una cassa di vino al proprietario per convincerlo a “darsi una mossa” come si dice a Bologna e forse anche
altrove. Impiegarono 5 mesi per rimuovere quel tetto infetto.
L’amianto è sempre stato la coperta calda del capitale che isolava dal
freddo ad un prezzo irrisorio. Per non scoprire i piedi al “padrone” abbiamo impiegato anni per decidere, una volta per tutte, che l’amianto è pericoloso per la salute, ma noostante ciò, come si è visto, occorrono tempi
biblici per ottenerne la rimozione. Ricordo che quando alcuni operai delle
ferrovie scoprirono che le massicciate dei binari, quei cumuli di sassi bianchi su cui poggiano le traversine di legno, erano anch’esse di amianto, l’assessore Mariuolo non le fece rimuovere subito, ma tergiversò lungamente.
Le Ferrovie risposero che non c’era pericolo perché le pietre erano state
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coperte da un collante in grado di impedire la diffusione nell’aria delle particelle. Ma perché non rimuoverle definitivamente e per sempre? Chiesi allibito. Così saltò fuori che in regione c’erano ancora delle cave di amianto
funzionanti che davano il lavoro ad una cinquantina di persone. Se le pietre venivano rimosse, le cave avrebbero smesso di vendere inerti e cinquanta lavoratori sarebbero finiti in mezzo alla strada. Come dire che per non
far mancare il pane a qualcuno si deve far morire qualcun’altro. L’assessore
chiese alle Ferrovie di pagare un esperto che valutasse l’effettiva pericolosità delle pietre. Il luminare prescelto si espresse nel solito modo dichiarando che le pietre non erano pericolose, ma, prima o poi, bisognava rimuoverle. Intanto, per arrivare a questa conclusione elementare alla quale ci
sarebbe potuto arrivare anche un bambino, passò un altro anno.
Dopo quell’episodio ne incontrai altri. La pericolante scuola di mio
figlio, situata a pochi metri dai cantieri della Tav, era monitorata da uno
zelante ingegnere. Da chi era stipendiato costui? Neanche a dirlo da uno
dei costruttori impegnato a scavare un parcheggio interrato nelle vicinanze. Incominciai a capire che il “tecnico responsabile”, promosso al rango di
“controllore”, figurava sempre sul libro paga del controllato. Al Comune serviva un “capro espiatorio”, rigorosamente esterno alle burocrazie comunali, che
potesse essere immolato sul rogo al sopraggiungere inaspettato di una catastrofe. Questa è l’unica cosa che importa ai politici presenti negli enti pubblici: la certezza di “farla franca”. E la fanno sempre franca se è vero che
quando il Presidente dell’associazione esposti amianto denunciò la presenza di
condotte dell’acqua potabile in cemento amianto per una lunghezza di 14
chilometri nessun giornale ne parlò.
“Non è una notizia interessante” mi rispose una bella giornalista dai
capelli rossi. Già, ci sono talmente tante ragioni che possono procurare il
cancro che una in più non fa certo notizia. Aveva ragione lei...
Lavatrice per cani
Con gli occhi ancora chiusi tastai il piano del comodino facendo cadere l’orologio, degli spiccioli che tintinnarono e un bicchiere ancora pieno
d’acqua. Afferrai la cornetta e l’avvicinai all’orecchio senza chiedere chi ci
fosse dall’altra parte.
“Sono Lilia! Alzati corri alla Fiera dove c’è una ragazza che ti aspetta!
Allo Zoomark ci trovi un tale che lava i gatti con una lavatrice”
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“…ma figurati se mette i gatti.”
Riattaccò senza lasciarmi il tempo di capire se si era trattato di uno
scherzo. Presi i miei quattro stracci e chiamai un taxi. Nei periodi fieristici
trovarne uno equivale all’avvistamento dell’unicorno, quindi lasciai perdere e montai in automobile. Probabilmente si tratta di una bufala.
Riflettevo a voce alta mentre m’imbottigliavo nel traffico. Le animaliste
sono delle signore anziane facilmente impressionabili. Sarà sicuramente un
malinteso. Ma dai! È proprio fuori di testa questa Liliana. Lilia o Liliana?
Figurati se si può mettere un gatto nella lavastoviglie. Ti sbagli, mi corressi, era una lavatrice. Di quale modello? Boh, vattelappesca sapere cos’è successo realmente. Parcheggiai l’auto e corsi verso l’ingresso della manifestazione. Arrivato nel bel mezzo del viale, sito tra i padiglioni espositivi, trillò
il cellulare: “Sono Claudia, mi hanno detto di cercarti. Mi vedi? Sono
davanti a te” - chiese.
Guardai sul fondo e vidi una signora bassa, rotonda e con lo sguardo
ebete che parlava al cellulare. La solita eccentrica! Mi dissi, ma poi, dalle
spalle della signora spuntò una fanciulla alta e longilinea. Non nascondo
che se non ci fosse stato un gatto infradiciato da quelle parti sarei andato
a cercarlo fino in Groenlandia.
“Vieni ti accompagno” – disse prendendomi la mano.
Camminando mi raccontò del giorno precedente. Insieme ad un’amica aveva visto chiudere un gatto certosino dentro alla lavatrice dalla quale
era stato tirato fuori mezzo morto dopo quattro ore. I due ragazzi che lo
custodivano si erano giustificati con loro dicendo che operavano per conto
del Comune di Bologna.
Giunti davanti allo stand non riuscivo a credere ai miei occhi: un
ometto tarchiato, dai lineamenti spagnoli, illustrava i programmi di lavaggio di una lavatrice per cani e gatti che aveva la forma di un armadio con
un’anta di vetro e il rivestimento in acciaio inox. Una guardia giurata ci
aveva appena chiuso dentro un pastore tedesco. Incominciai a telefonare a
destra e a manca. Chiamai una prima volta i Vigili, una seconda e poi una
terza. Stanco di telefonare interpellai i Carabinieri, la Polizia, la Guardia
Forestale. Nessuno aveva tempo o voglia di intervenire per fermare quella
diabolica invenzione. Tempo addietro, avevo conosciuto un ispettore della
Polizia giudiziaria molto stimato nell’ambiente animalista. Era un pubblico
ufficiale preparato, un paladino degli animali e anche una brava persona.
Anche questa volta non mancò di alimentare la sua leggenda smuovendo
le montagne e minacciando di denunciare l’omissione di intervento.
Quando arrivarono i Vigili Urbani, il cane imprigionato nell’uggioso cunicolo, fu restituito al padrone e la lavatrice spenta per sempre. A quel punto,
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il ragazzo che aveva fornito gli animali per la dimostrazione, mi venne
incontro lamentandosi. Non aveva fatto nulla di male e anzi era stato l’ufficio degli animali del comune ad organizzare il servizio di “fornitura bestie”
allo spagnolo. Questo ragazzo era il figlio di un tizio che si spacciava per
animalista, ma che in realtà si guadagnava da vivere catturando i piccioni su
mandato di molte Amministrazioni pubbliche. Li custodiva dentro a delle
grandi voliere e nessuno ha mai saputo dove finissero. Diventavano cibo
per cani? Saltimbocca alla romana per mense caritatevoli? Bersagli rivenduti ai poligoni spagnoli dove si pratica il “tiro al piccione”?
Questo Giuliano era protetto politicamente, tanto che lo chiamavano
l’intoccabile di San Donato, dal nome del quartiere dove si trovava la sua
azienda agricola “animalista” che era in realtà un podere concesso in affitto
dal Comune per pochi miseri spiccioli. Quindi non mi meravigliai più di
tanto quando nel pomeriggio mi dissero che la polizia municipale se n’era
andata senza stendere neanche uno straccio di verbale. Insomma, era come
se non fosse successo niente.
“Sono passati per farsi quattro risate” rispose un agente alla richiesta
di spiegazioni. Quattro risate? Quando si assiste ad un palese insabbiamento non resta che rivolgersi ai giornali. Presi carta e penna e scrissi non ricordo neppure più quanti comunicati e fu così che la storia sulla lavatrice per
cani e gatti rimbalzò da una testata all’altra dello Stivale. Mi intervistarono
il Telegiornale Regionale e un paio di emittenti locali. Il resoconto dell’avvenimento finì in prima pagina sul Corriere della Sera provocando un corodi proteste in tutta Italia.
La Magistratura, messa di fronte all’accaduto dai media, aprì un’inchiesta
e da quel momento non ho più visto la lavatrice per cani e gatti in funzione da
qualche parte. La responsabile dell’ufficio animali, che nel frattempo era finita
al centro dello scandalo per aver fornito un servizio estraneo al suo ruolo, si
dimise dall’incarico di responsabile dell’Ufficio Animali. Credo che lavori in
una lavanderia, ma il proprietario le fa stirare solo i panni tenendola lontana
dalle lavatrici. Non si sa mai che le venga qualche strana idea.
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Le clientele altrui
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Avvalendomi di una delle due facoltà attribuite ai Consiglieri
Comunali, il fantomatico “potere di indirizzo”, pensai che sarebbe stato utile
lavorare all’istituzione di un consultorio per animali che potesse prevenire
il fenomeno del randagismo. Si tratta di una piaga insanabile che ogni estate affolla i canili di bestie abbandonate. Trovai quindi nella scuola di educatori cinofili dell’etologo Roberto Marchesini uno strumento ideale che si
sarebbe fondato sulla consulenza fornita ai proprietari di animali residenti
in città dagli allievi comportamentisti. La scuola cinofila aveva bisogno di
cani da educare e il Comune di educatori in grado di insegnare la nobile
arte della felice convivenza a chi avesse un problema con il fedele amico a
quattro zampe. Alla base di questa iniziativa c’era l’idea che prevenendo le
disfunzioni che talvolta insorgono all’interno del rapporto “uomo – animale” si sarebbe riuscito a diminuire il numero degli abbandoni.
Non vi era quindi un posto migliore del canile dove insediare il consultorio. Proposi di cedere alla scuola una modesta stanzetta che fino a quel
tempo era stata dimenticata da tutti. Storsero il naso in molti incominciando dall’Assessore Giuseppe Mariuolo che per primo si mise di traverso.
Secondo lui, una mansione di questo tipo, sarebbe degenerata in un conflitto di competenze con il gestore del canile e la stanzetta, fino a quel giorno adibita a ripostiglio per le scope, diventò improvvisamente indispensabile per svolgere altre mille irrinunciabili mansioni. Il malefico assessore mi
accusò di avvantaggiare i miei amici per ricavarne una manciata di voti.
Purtroppo c’era una differenza tra me e lui: io domandavo che
l’Amministrazione istituzionalizzasse un servizio gratuito, mentre lui aveva
insediato al canile un’associazione animalista fondata da un suo amico che
non aveva nessuna esperienza e che comunque veniva profumatamente pagato per gestire gli animali abbandonati. Mariuolo, vedendo che tenevo duro e
che avevo dalla mia parte la maggior parte delle associazioni animaliste, mise
in cantiere un accordo con l’opposizione per sbarrarmi la strada. Perciò, una
bella fetta di consiglieri, di destra e di sinistra, si opposero al consultorio sbandierando ragioni astruse e traballanti. Rimasi veramente sconcertato capendo
con quale facilità Mariuolo era risuscito a comprare l’appoggio di alcuni colleghi tirando un tozzo di pane secco nella mischia.
Da quel momento nessuno parlò più del consultorio e il canile conti325
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nuò ad essere gestito da questa associazione presieduta da un tipo che anni
dopo finì sul giornale come responsabile di una catena di siti internet che
pubblicizzavano i servizi di avvenenti battone. Cani e puttane, questi erano
i principali interessi dell’uomo scelto dall’assessore cattolico del Comune
dov’ero stato eletto come consigliere comunale.
Ora sapete perché i canili - nell’ottanta per cento dei casi - vanno a
catafascio. Le galere dei cani sono luoghi frequentati da cittadini disposti a
tutto pur di allietare la vita dei cani abbandonati e per questa banale ragione rappresentano un bocconcino prelibato per il politico a caccia di voti.
Ma se veramente si vuol essere certi che la forchetta finisca nella bocca giusta, nel partito giusto, bisogna farla tenere alle persone adatte e non lasciarla nelle mani di quelle preparate che, come tali, non devono niente a nessuno. In politica, quando si tratta di canili, è quindi molto meglio affidarsi
ad un “magnaccia” che non ad un etologo di chiara fama.
La nostra dose quotidiana di merda da ingoiare
Colpisce scoprire come la zootecnia abbia tentato, prima della diffusione del morbo della mucca pazza, di smaltire i rifiuti solidi urbani trasformandoli in mangimi ed è il sogno di ogni imprenditore quello di riuscire a
guadagnare denaro dai rifiuti anziché pagare per smaltirli. Si è arrivati persino a credere che fosse possibile liberarsi dei fanghi dei depuratori facendoli rientrare in circolo sotto forma di alimenti per animali. Anni fa sarebbe sembrato impossibile anche solo immaginare una cosa del genere, eppure il sospetto che le multinazionali ci rifilino della merda si è diffuso a tal
punto che Richard Linklater ha diretto un film incentrato su questo timore.
S’intitola Fast Food Nation e tra gli interpreti figura Bruce Willis artefice di
uno strepitoso cameo. È la storia di un manager che si reca in Messico per
scoprire come mai negli hamburger Big One siano presenti imponenti quantitativi di feci bovine. Giunto sul posto incontra Herry Riddell, l’intermediario tra le aziende di trasformazione della carne e le catene di fast food. Bruce
Willis, alias Herry, è al corrente della contaminazione fecale, ma non ritiene che si tratti di un grosso problema perché, in fondo in fondo, come lui
stesso afferma: “Tutti nella vita dobbiamo mangiare un po’ di merda prima
o poi”.
Anch’io, molto modestamente, mi sono occupato di sicurezza alimen326
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tare e in particolare di mense scolastiche. A quel tempo le mie indagini
venivano ostacolate in tutti i modi. Il
Centro di Produzione Pasti pur
essendo stato privatizzato continuava
a godere di una sorta di protezione.
Dopo un certo numero di richieste
inevase mi furono finalmente recapitate le tabelle merceologiche che
includevano la tracciabilità dei prodotti, i recapiti dei produttori e le certificazioni ottenute. Conservavo questo grosso incartamento a portata di
mano perché capitava piuttosto spesso che i genitori di alcuni scolari
venissero a lamentarsi di qualche
graffetta ritrovata nella minestra, pane gommoso, olio trasparente o conserva eccessivamente acida. Ed ecco spiegata la ragione di tanto interesse.
Proprio in quei giorni, come un fulmine a ciel sereno, scoppiò il famoso scandalo delle uova marce. I Nas, su ordine della Magistratura, avevano
messo sotto sequestro quattro stabilimenti alimentari. Uova marce, contenenti muffe e vermi, invece di essere smaltite in discarica, erano consegnate ad appositi impianti che le pastorizzavano, imbustavano e rimettevano in
circolazione sotto forma di un semilavorato alimentare che i giornali definivano con il termine di ovoprodotto, un ingrediente questo alla base di quasi
tutte le comuni merendine che si trovano in commercio. Spinto da turpi
sospetti mi precipitai a consultare l’incartamento scoprendo che una delle
aziende coinvolte nello scandalo ci rivendeva uova pastorizzate. Rivelai
l’accaduto in Consiglio pensando che i giornali ne avrebbero parlato.
Ancora una volta non apparve una sola riga, ma quantomeno i prodotti
sospetti furono eliminati dalle tavole imbandite dei bambini. Ma facciamo
un passo indietro.
Qualche anno prima dello scandalo delle uova marce l’associazione
illegale “Animal Liberation Front” mise a segno un boicottaggio contro la
Nestlè che si realizzò con la spedizione di due panettoni avvelenati alla redazione dell’Ansa di Bologna. Sopra ad ogni confezione i militanti dell’Alf si
preoccuparono di incollare un cartello che a caratteri cubitali avvertiva
della presenza del veleno così che a nessun giornalista sarebbe potuto venire in mente assaporare una bella fetta di panettone. Si trattò quindi di
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un’azione puramente dimostrativa.
Non appena Lilia, una nota animalista cittadina, lo imparò scrisse un
comunicato stampa per informare i giornali che approvava l’azione
dell’ALF. Personalmente non avrei fatto lo stesso, ma ugualmente ero interessato a conoscere le ragioni che l’avevano spinta e così le telefonai. Disse
che finalmente si era riusciti a destare l’attenzione di tutto il Paese sull’esistenza degli organismi geneticamente modificati di cui la Nestlè faceva un
grande uso. In questo aveva ragione, la spedizione dei panettoni avvelenati può essere considerata come il fiammifero che ha infiammato una
discussione che non si è ancora spenta. La povera Lilia si ritrova ancora
oggi a dover calcare le aule dei tribunali per difendersi dall’accusa di “apologia di reato” nonostante non abbia mai toccato un solo panettone della
Nestlè durante tutta la sua vita. Al contrario, lo Stato Italiano ha evitato
rigorosamente di far conoscere i nomi delle grandi aziende alimentari che
hanno acquistato e utilizzato l’ovoprodotto fabbricato con le uova marce,
muffe e vermi. Neppure il nome delle merendine inviate ai supermercati
sono state rese note. D’altronde il Natale, ormai alle porte, avrebbe riempito le case degli italiani di appetitosi panettoni e dorate fette di pandoro,
prelibatezze natalizie la cui produzione necessita di ingenti quantitativi di
ovoprodotto, marcio o meno che sia. Vogliamo forse mettere in ginocchio
l’industria alimentare? Vogliamo licenziare gli operai che ci lavorano?
Rovinare la più importante festività degli italiani? Così si devono essere
detti a Montecitorio rispondendo all’interrogazione dell’Onorevole Mauro
Bulgarelli rimasta inevasa.
Povera Lilia, avrebbe potuto aspettare qualche anno per gridare al
mondo con tutta la sua forza che i panettoni, tutti quanti e non soltanto
quelli spediti dall’ALF ai giornalisti, erano avvelenati. Avvelenati – per
Diana! - questa volta non da un anonimo insurrezionalista, ma da un elegante commerciante di uovo marcio capace di far soldi sulla pelle dei consumatori.
Ma di che ci lamentiamo? Il capitalismo è come il maiale, non si butta
via niente! Vendere, vendere e vendere. Vendere tutto a tutti. Neppure i
rifiuti devono essere buttati se qualcuno è in grado di trasformarli in un
business. In molti paesi le scorie nucleari rappresentano un problema,
mentre per gli Americani sono diventate una risorsa. Basta solo trasformarle in proiettili, inventarsi la guerra in Iraq, ed ecco come un paese normale diventa una discarica di uranio impoverito, una discarica situata lontano
dalle case di chi acquista l’energia dalle centrali nucleari e non ne vuol sapere di rifiuti dietro l’angolo. Ha proprio ragione Riddell: una dose di merda
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quotidiana ci spetta a tutti e quando si tratta soltanto di merda c’è
quasi da considerarsi fortunati!
Agli irakeni è andata peggio.
Strane storie
Incontrai i coniugi Horn - naturalmente il loro vero nome non è questo - all’inaugurazione della nuova sede del mio vecchio partito. Me li presentò un amico, un ingegnere dei trasporti che sembrava Beetlejuice, spiritello
porcello. Mi avvicinarono parlando con tono confidenziale, come se avessero sempre seguito la mia attività politica da vicino. Subito dopo avermi
stretto la mano, mi chiesero se potevo fare qualcosa per loro. Dissero di
vivere in un luogo funestato dalle onde elettromagnetiche. Tom Horn
aggiunse che la piccola fabbrica dove abitavano (e anche lavoravano) era
stata presa di mira dalla sua ex moglie che aveva assoldato un malfattore
con il deliberato compito di rendere inabitabile quel luogo nel raggio di
cinquanta metri. Mal di testa, diarrea, nausea e un’infinità di altri sintomi
impedivano lo svolgersi di una vita normale affliggendo non solo gli Horn,
ma tutti gli ospiti che invitavano a casa. La prospettiva di vivere in solitudine li deprimeva molto di più della sofferenza fisica.
Fino a quel giorno avevo sentito raccontare molte strane storie dai cittadini. C’era il furgone nero che rapiva i cani, il barone nero che si era arricchito importando illegalmente cuccioli dalla Romania, la ganga di assicuratori che nel tempo libero avvelenava i piccioni, ma un avvenimento del
genere era totalmente inedito. Forse si trattava solo di una forma delirante
di paranoia nata intorno ad una spinosissima causa di divorzio. Oppure era
l’inesorabile marcia delle antenne sui tetti delle case ad aver accresciuto le
paure inconsce della collettività. Li salutai dicendo di rivolgersi all’Arpa e
mi dimenticai completamente di quell’episodio. Dopo qualche settimana
ricevetti una telefonata di Tom. Aveva assoldato un tecnico del CNR che
purtroppo, colpito da diarrea e forti mal di testa, aveva rinunciato per sempre a venirne a capo. Mi chiese di andare sul posto. Le commissioni mi
impedivano di abbandonare i palazzi comunali e declinai l’invito, ma si rifecero vivi altre due volte e così per far cessare le richieste presi la motocicletta e guidai fino alla zona industriale. Correndo sulla via Emilia riflette329
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vo su quello che stavo facendo. Motivavo la mia entrata in questa faccenda assurda pensando che fosse giusto assecondare ogni richiesta dei cittadini smentendo così il solito tormentone sui politici che se ne sbattono
della gente. Ma che vita è quella del Consigliere Comunale? Pensavo.
Ammesso che questa storia sia vera: chi me lo fa fare di andare a casa di
qualcuno che neanche conosco per farmi venire mal di testa, crampi e diarrea? Forse conveniva andarci per avere un’altra storia da scrivere sul mio
diario di bordo. Ma si, come ragione mi poteva bastare.
Quando arrivai mi aspettavano in giardino tenendosi per mano. Lei era
vestita di bianco e indossava un paio di occhiali scuri che nascondevano
completamente lo sguardo. Tom indossava il solito gilet da pescatore con
cacciaviti e utensili multiuso Leatherman infilati nei taschini. Mi fecero salire due rampe di scale finché spalancarono l’uscio di casa che si affacciava
sul salone. La situazione mi apparve paradossale fin dalla prima occhiata.
Le pareti erano foderate di alluminio, le tapparelle abbassate erano state
inchiodate in modo che non potessero più alzarsi. Sulle cornici degli infissi era stato spalmato del silicone. Al centro del soggiorno, tra le scrivanie
e i divani, si trovava una baracca di lamiera, di quelle usate nei cantieri. Se
ne servivano per schermarsi dalle onde. Ovunque c’erano delle piante in
pessime condizioni usate come bioindicatori. Chiunque le avesse viste
avrebbe concluso che senza luce e aria fresca sarebbero morte indipendentemente da qualsiasi altra ragione. Sui tavoli c’era di tutto: misuratori di
campo, contatori geiger, maschere antigas e altre apparecchiature mai viste.
I computer, come i telefoni, e tutti gli altri elettrodomestici erano stati
smontati per cercare una cimice. Ma la cosa paradossale è un’altra.
Incominciai ad avvertire un malessere diffuso con un senso di compressione al torace e alla testa. Era come se mi sentissi imprigionato dentro al mio
stesso corpo e ancora oggi credo che fu quell’aria viziata a produrre un’improvvisa costipazione. Chiesi se potevamo uscire in giardino e seduto sotto
ad un bellissimo cedro del Libano ascoltai il racconto degli Horn. Avevano
ingaggiato un detective per smascherare le malefatte della prima moglie di
Tom, ma poi, come accade spesso in guerra, il mercenario si era venduto
al nemico. In un primo tempo avevano pensato ad un’arma elettromagnetica importata clandestinamente dall’est-Europa e per convincermi che non
si trattava di un’impresa impossibile mi mostrarono un giornale in cirillico
pieno di illustrazioni e fotografie di lanciafiamme, occhiali a infrarossi e
tante altre strane diavolerie in vendita a prezzi stracciati. Per questo avevano comprato i rilevatori che se ne stavano sparsi in giro. Non avevano rilevato nulla di strano, niente onde, radon, uranio e nemmeno un grammo di
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Zyklon b. Successivamente alle indagini svolte da un altro investigatore avevano scoperto che il persecutore era anche un tecnico di radioprotezione e
pensando di essere sottoposti ai raggi x si erano affidati ad un’azienda che
aveva posizionato densitometri ovunque. Infine mi raccontarono come “il
persecutore” fosse riuscito a deviare le chiamate del fax su altre destinazioni
con il deliberato fine di ostacolare le commesse dei clienti e far fallire
l’azienda. Aggiunsero che i vicini di casa li spiavano con microspie nascoste nel lampione di fronte alla finestra. Guardai il lampione. In effetti c’era
un lampione. Ma feci loro notare che messo a quel modo - aveva il fusto
piegato e dalla cappa penzolava una matassa di fili attaccata alla lampadina
– poteva servire a ben poco. Lei disse che era stato Tom ad urtarlo volutamente in modo da far cadere la microspia che poi non era mai stata trovata. La situazione oltre che paradossale stava diventando ridicola tanto che
incominciai a pensare che presto mi avrebbero parlato di quei piccoli omini
verdi che ogni notte passeggiavano sul tetto del capannone. Tornato a casa
scoprii l’unica cosa utile che forse può realmente interessare al lettore. Da
un rapporto di una commissione del Senato appresi che il nostro paese non
è in grado di fronteggiare le nuove armi elettromagnetiche. Chi dovesse
decidere di rovinare la salute al prossimo con gli ultimi ritrovati della scienza bellica può farlo senza correre il rischio di essere scoperto. Scorrendo le
pagine di alcune associazioni umanitarie incominciai a conoscere da vicino le armi ad onde magnetiche. Sono nate inizialmente per fronteggiare le
sommosse in ambiente urbano in quanto causano dolori lancinanti che
paralizzano i muscoli. A potenze inferiori la loro utilità non cessa del tutto
perché cagionano un diffuso senso di paranoia in grado di creare conflitti
all’interno dei gruppi organizzati che, per esempio, occupano uno stabile
per scopi dimostrativi. Sicché, se i coniugi Horn erano dei paranoici, poteva trattarsi benissimo dell’esposizione continuata a questo nuovo tipo di
tecnologia. Poveri Horn, se anche avessero avuto ragione nessuno avrebbe
potuto dimostrarlo e ancor meno punire chi li stava perseguitando.
Abbandonarono la fabbrica e vissero in un camper, spostandosi da una
località ad un’altra, senza soste e sempre inseguiti dall’ombra del persecutore, fino a quando li persi di vista per sempre.
Purtroppo, anch’io avevo i miei persecutori e mentre mi dannavo per
far incassare al mio partito due nuovi voti, c’era chi lavorava per perderne
uno: il mio.
L’esecutivo cittadino aveva tentato a più riprese di far dimettere il
nostro assessore alla casa e il mio ruolo era stato più volte messo in discussione perché non mi ero unito al gruppo. Come può un partito ripudiare
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un assessore indicato dagli stessi dirigenti politici al Sindaco soltanto pochi
mesi prima? Non può certo andare davanti ai cittadini e dire che si è sbagliato. Se avessimo imboccato questa direzione avremmo fatto la figura dei
peracottari. A dispetto di ciò, Daniela Arregu, cinica capo cordata del partito e dirigente nazionale, mi imputava ogni colpa. Non le importava se i
cavatori abusivi depredavano la sabbia del Po’ e neanche se spuntavano
batterie di villette abusive alla foce. Se i lavori della variante di valico stavano distruggendo il fiume Setta dal quale Bologna attinge gran parte dell’acqua potabile. L’unico problema ero io, il capogruppo del Partito Verde al
Comune. D’altronde, il clima avvelenato che avvolgeva la città dopo l’arrivo del Sindaco sceriffo, era perfetto per chi voleva liberarsi di uno scomodo concorrente.
Una delle due mozioni presentata dai miei nemici al Congresso appena concluso - firmata da Filippo Boriani e Silvia Zamboni, il primo era l’ex
Capogruppo e la seconda l’ex Assessore del precedente Governo amministrativo - parlava del mio operato senza peli sulla lingua:
“Si è purtroppo registrata una preoccupante debolezza della presenza istituzionale del partito, soprattutto in Comune, dove si è
registrata l’assenza di rappresentatività, incapacità di iniziativa politica e totale subordinazione ai ricatti, posti dal Sindaco, dai DS, e
dal partito del mattone e del motore, come è avvenuto per la poco
edificante vicenda sul voto del metrò. Certo è che l’improvvisazione e il nepotismo non aiutano, e vengono al pettine i nodi che ci
hanno portato a questa scelta”.
Compresi che c’era qualcosa di molto peggio dei piccoli omini verdi
che si aggiravano sui tetti di casa Horn ed erano i loro fratelli terrestri, sempre verdi, che vagavano nel mio stesso partito.
(Ndr Per correttezza di cronaca, Silvia Zamboni, mi telefonò il giorno dopo il congresso scusandosi e dicendo che aveva firmato la mozione
senza averla letta. Personalmente non le ho mai creduto).
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Il dentifricio di George Bush e i pomodori dei no-global.
“come molti altri, Victor Brack, fece di tutto per
mobilitare i medici tedeschi al servizio della vittoria.
Egli giustificava le atroci sperimentazioni mediche
con la necessità di trovare nuove terapie efficaci. La
guerra è la guerra – soleva ripetere”
C.D. juive contemporaine
Per molto tempo pensai di aver concesso troppo spazio alla storia dei
coniugi Horn. In realtà, incominciando dalle armi elettromagnetiche di
ultima generazione, ero finito per intraprendere un lungo viaggio all’interno delle ragioni che muovono i popoli alla guerra. Quasi un anno dopo,
Gianluca Borghi, eletto in Consiglio Regionale, mi chiamò alla presentazione di un documentario sul raggio della morte *.
Tutti i presenti si chiesero cosa avrei potuto dire e non dissi certo nulla
che non fosse già noto, ma è sempre bene ricordare come i grandi persuasori ci imbrogliano stravolgendo il senso delle parole. Repetita iuvant, dicevano gli antichi.
“Vietnam, il primo conflitto che ha mostrato al mondo cosa significa
combattere una guerra. Poco importa sapere se questa presa di coscienza
sia nata casualmente, ciò che conta veramente è aver avuto la possibilità di
vedere quella bambina che fugge nuda da un esplosione, o assistere alla
morte di quel ragazzo, un vietcong, trucidato con un colpo alla tempia dal
Generale Nguyen Ngoc Loan. Immagini indelebili che sono entrate a far
parte di quel grande immaginario collettivo che ci ricorda quanto sia terribile ogni guerra. Ma vi è un altro immaginario costruito di proposito
durante la prima Guerra del Golfo e contrapposto volutamente al primo.
Eddie Adams è stato un grande fotografo di guerra che con i suoi reportage ha raccontato 13 conflitti
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Anzi: chi si ricorda più della guerra del Vietnam? Da quel giorno, altre
immagini, questa volta rassicuranti hanno incominciato a conquistare le
sconfinate pianure dove crescono le tracce mnesiche della nostra memoria.
Alle 2 e 38 del mattino del 17 gennaio 1991 ha inizio l’operazione Desert
storm, la prima e più potente azione militare alleata dopo il 1945. Non è una
guerra come tutte le altre, ma la metamorfosi del significato stesso che è
sempre stato attribuito alla guerra. Cittadini del mondo non abbiate paura:
un ingorgo, una città bombardata, i risultati delle partite, i ritardi ferroviari, aerei che decollano da una portaerei, l’ultimo disco di Michael Jackson, un
conflitto globale… sono solo notizie!
La guerra è un avvenimento come
un’altro. Nulla di che spaventarsi.
Cittadini del mondo sedetevi a tavola
alle 20, cenate e non cambiate canale.
Nessun boccone, questa volta, vi
andrà di traverso. Abbiamo imparato
la lezione. Basta bombe, sangue e soldati morti che ritornano avvolti nelle
bandiere, basta con i vietcong che tirano
napalm sui rifugi dove gli adulti hanno
nascosto i bambini. Basta villaggi
incendiati dagli elicotteri. Ecco a voi L’inquadratura del jet che decolla dalla portaerei è l’immagine
la nuova, rassicurante, benefica, guer- più utilizzata dai telegiornali durante la prima guerra del golfo
ra globale. In tutti i telegiornali si susseguono le stesse identiche immagini di un “loop ipnotico” che si ripete per
tutta la giornata. Si crea un’atmosfera insolita, inquietante per chi non si
abbandona al lento e inarrestabile fluire dei messaggi. Le notizie si diradano, il tempo si contrae in uno spazio vuoto che tutto può essere fuorché
minaccioso. Ogni inquadratura per la prima volta nella storia della tv viene
studiata attentamente prima di essere mandata in onda. Aereo che decolla
da una portaerei. Niente di cui preoccuparsi è una guerra aerea.
Bombardamenti notturni ridotti a punti luminosi che rotolano sul cielo
verde. Niente di cui preoccuparsi è una guerra lontana. Edificio che esplode sul display di un armamento sconosciuto. Nulla di cui preoccuparsi è
una guerra tecnologica. Macchine contro macchine. Alle immagini si alternano i commenti dei giornalisti che parlano. E parlano. E parlano. Parlano
ininterrottamente, ma non dicono assolutamente nulla. Ribadiscono che
non c’e nulla di cui preoccuparsi. I Generali che compaiono nelle conferenze stampa, non più di tre per ogni giornata di guerra, sono rasati così
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bene che si può persino sentire l’odore del dopobarba. Vestono eleganti
divise con il colletto della camicia inamidato. I bottoni d’oro scintillano.
Malgrado le luci intense dello studio non mostrano una sola goccia di
sudore sul viso. Illustrano lo svolgimento della campagna con uno sguardo
tranquillo e il tono pacato. Ribadiscono anche loro, ancora una volta, che
non c’è nulla di cui preoccuparsi. Dall’altra parte dello schermo i telespettatori hanno bisogno soltanto di questo, di uno “spazio aperto sul mondo,
dove è possibile trattare con un sorriso qualsiasi tipo di notizia” (Slogan
della trasmissione Rai Matinée) .
Interrompiamo i programmi per informarvi che 10 missili Scud sono stati
lanciati su Israele! State calmi! Ancora una volta, non c’è nulla di cui preoccuparsi, alle 18 andrà in onda una nuova puntata di “ok il prezzo è giusto”
presentata da Iva Zanicchi. A seguire il telegiornale e dopo le venti non perdetevi la prima visione di “Trappola di cristallo” con Bruce Willis. Ma la vera
trappola di cristallo è proprio lei, la televisione tanto che l’immagine più
famosa di tutta la Guerra del Golfo è diventata la più grande bufala di tutta
la storia della comunicazione. Il famoso cormorano invischiato nel petrolio dei pozzi fatti saltare in aria da Saddam era in realtà la vittima di una
petroliera naufragata a molte miglia di distanza dall’Iraq. Esplodono i
pozzi? Finalmente potete preoccuparvi di qualcosa. Di cosa? Dei morti?
Dell’inquinamento del mare? Dei bambini irakeni intossicati? Ma no, non
sia mai, nella nostra “guerra educata” non succedono cose del genere.
Cittadini del mondo commuovetevi se proprio volete, ma solo per quel
povero uccellino che non siamo riusciti a salvare. Lui è l’unica vera vittima
di questa guerra che non abbiamo incominciato noi!
Da quel primo giorno di bombardamenti la guerra, la politica e i media
sono diventati una sola cosa. La guerra, quella vera, ha stretto un patto con
la politica, con l’unica creatura che sarebbe riuscita a manipolare i significati da gettare in pasto al popolo. Non l’aveva forse previsto anche Carl von
Clausewitz quando scrisse che “la prima vittima della guerra è la verità”? E quando incominci a mentire non puoi più fermarti. Se ogni guerra è uno scontro che si apre con la discesa in campo degli eserciti diventa nel giro di
breve tempo un conflitto semantico. Parole contro parole. Batterie di ossimori cannoneggiano i telespettatori prima ancora di aver colpito le postazioni nemiche. Che cosa sono gli ossimori? Delle contraddizioni rassicuranti. S’incominciò con la bomba atomica. Quando nacque, i giornalisti
presenti a Los Alamos, titolarono “baby is born”, letteralmente “il bambino è
nato”. Avrei preferito che quel bambino fosse andato all’asilo e mi sarebbe
piaciuto vederlo crescere. Invece quel “ragazzino”, Little boy per gli america335
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ni, fuoriuscì dal ventre della mater tenebrarum “Enola Gay” per infrangersi
sul Giappone provocando la morte di oltre un milione di persone, di cui
130 mila il primo giorno. Quel fanciullo nato e svezzato a Los Alamos può
essere considerato l’illustre antenato, ma anche il corpo bellico, il segno
capovolto, delle moderne bombe intelligenti nate dopo di lui. Ordigni che
sanno distinguere i nemici dai civili, discernere il bene dal male. Sono il
bisturi affilato di un’operazione chirurgica che amputa solo la parte malata, le metastasi militari del nemico, i soldati anonimi, i mezzi, i depositi
vuoti e mai i civili inermi, i feriti, i neonati. Poi scopri che le bombe vanno
a finire sul tetto di un ospedale e non sul deposito di carri armati se è vero
che i bambini rappresentano il 43% delle vittime degli attacchi aerei, mentre sono solo il 6,5% delle vittime dei conflitti a fuoco (Andrew Lawless). Ciò
vuol dire che un cervello umano collegato ad un fucile funziona meglio
delle bombe teleguidate dai satelliti e assistite dai computer. Non sono poi
così intelligenti come si vuol fare credere, forse devono prendere delle
lezioni private. Bombe intelligenti, ma ripetenti. Ci penso un po’ su e mi
convinco che forse sono davvero intelligenti perché si sono rifiutate di
obbedire agli ordini dei generali americani. Bombe così sagge che hanno
letto il saggio “disobbedienza civile” di Henry David Thoreau. I generali hanno
ordinato alle bombe di cascare qua e loro sono cascate là. Pazienza, le
bombe sono solo un aspetto di tutta la “guerra preventiva”. Proprio così, per
prevenire la guerra bisogna combattere un’altra guerra. Una prima guerra,
reale, mantenuta “sotto controllo”, serve per scongiurare l’esplosione di una
seconda guerra, questa volta ipotetica, ma molto più spaventosa e incontrollabile della precedente. Paradossalmente il termine “prevenzione” ha un
connotato sanitario se è vero che lo slogan di un dentifricio recitava che “è
meglio prevenire che combattere”. Se Bush fosse stato un dentista ci avrebbe
estratto tutti i denti sani per essere certo che non si sarebbero cariati. La
Videogiochi, film, soldatini e oggetti di abbigliamento sono i feticci che mescolandosi alle immagini reali attenuano la paura della guerra
Le scarpe Nike in stile “Desert storm”
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Ai feticci e alla neoestetiche si aggiungono le immagini provenienti dalle fonti vicine al dipartimento della difesa. Si tratta quasi
sempre macchine con un’evidente mancanza dei soldati che si mostreranno durante la seconda Guerra del Golfo grazie al diffondersi delle macchine digitali, videotelefonini, blog e social network..
“guerra preventiva” si trasforma così in una “guerra umanitaria”, dove, se anche
si è costretti ad uccidere lo si fa per evitare il genocidio che il nemico avrebbe compiuto se non fosse stato fermato dalle “forze del bene”. Si noti su questo come il termine di “guerra mondiale” non è stato più usato perchè troppo coinvolgente sebbene gli attuali conflitti militari coinvolgano un numero spropositato di nazioni disseminate da una parte all’altra del globo. La
guerra, cannibale dei significati, non si dà pace e continua a mutare senza
tregua. Si trasforma in una “guerra giusta” organizzata da “soldati – missionari di pace”.
Se poi si vince e si deve rimanere sul posto, la “guerra umanitaria”
diventa un “impegno umanitario” e l’esercito un “contingente di pace” che “non è
un esercito di occupazione!”. Ma se non siamo occupanti: cosa siamo? Turisti?
Tirate fuori subito la prenotazione dell’hotel! Studenti fuorisede? Dov’è
l’iscrizione all’Università? Spuntano le tende degli ospedali militari, bambini appena vaccinati sono tenuti in braccio dal medico di campo. Ruspe al
lavoro nel grande business della ricostruzione. Ma i colpi restano al caldo
dentro alle canne dei fucili, le mitragliatrici in cima alle torrette dei carri e
le bombe nei ventri freddi dei bombardieri. Chi desidera continuare l’ana-
Ai feticci si aggiungono neoestetiche fondate su immagini paradossali che pur provenendo da strumenti ipertecnologici, quali
visori a infrarossi e amplificatori di luce notturna, sono estremamente grossolane e poco dettagliate. Mostrano una guerra
“sgranata” attraverso immagini rarefatte e appiattite in un limitato numero di tintequali bianco e nero, verde e rosso.
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lisi può affidarsi alla rete scoprendo un aspetto ancora più paradossale, l’ultimo tassello, posto a coronamento della grande mistificazione. Digitando
“desert storm” su Google immagini compaiono le inquadrature di alcuni videogiochi mescolate agli scenari della guerra vera. È tutto solo un videogame!
Un War Game! Il prossimo livello: dopo la pubblicità!
Un’immagine tratta da un videogioco
Ad una settimana di distanza da quella sera in cui parlai della guerra, l’Altrasinistra, il gruppo trasversale di Consiglieri Comunali di cui facevo parte, mi chiese di firmare un comunicato congiunto in cui ci dichiaravamo contrari alla presenza delle Forze Armate durante le celebrazioni
della Repubblica. Quanto detesto la logica della linea tirata, del “di qua o di
là”, del “con noi o contro di noi”. Ma si potrà mai vivere al di fuori degli schieramenti imperanti per una sola volta? Non trovavo giusto imputare ai soldati una responsabilità. Piuttosto mi sembrava opportuno sottolineare una
contraddizione palese tra il dire e il fare. È il Governo che impone all’esercito di andare in guerra e il nostro nuovo governo (di centrosinistra) aveva
detto chiaramente di voler abbandonare l’Iraq. Perché prendersela con le
Forze Armate? Perché sposare la linea dei centri sociali a priori pur di
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mostrarsi come quelli “duri e puri”? La ricerca del consenso non deve comportare l’accoglimento di una posizione a prescindere. Semmai si poteva
affrontare un tema molto più profondo sul fenomeno della manifestazione estetica dello strumento militare. Perché sfoggiare le armi se la
Costituzione sulla quale si fonda la Repubblica Italiana ripudia la guerra?
Ripudiare la guerra non significa forse ripudiare anche i suoi strumenti,
incominciando proprio dalle armi quali fucili, pistole, carri e quant’altro? È
proprio sull’ambiguità del doversi difendere che s’incomincia a disseppellire le asce di guerra.
“Sì all’esercito e no alle armi e si dia il via ad un dibattito sulla fenomenologia dell’estetica militare” questo era l’emendamento che proposi.
Quando il Capogruppo di Rifondazione fece ritorno nel mio ufficio
con l’ultima versione del comunicato la mia frase era stata cassata tirandoci sopra una lunga linea rossa. L’Altra Sinistra non spedì alcun comunicato stampa e questo fece buon gioco ai soliti quattro Disobbedienti. Le
Forze Armate, durante la Festa della Repubblica, furono accolte al grido di
“mercenari” e “assassini” e da un copioso lancio di pomodori e uova marce.
I manifestanti erano per la pace, ma contro qualcuno.
Lo stesso ossimoro su cui si reggono le guerre.
Il Tex Willer di Magnus
Di nuovo in aula
L’imputato si arrestò improvvisamente e guardò nel vuoto.
“Sono tutte piccole storie” – disse con sguardo sognante - “Aneddoti che fanno parte della
routine di ogni consigliere comunale. Sarebbero
le sole storie che potrei raccontare se non fosse
stato per il Sindaco che governò la città, il
Sindaco Tex, come lo soprannominò la stampa”
“Il sindaco sceriffo!” esultò il Giudice.
“Proprio lui. Un uomo dalle letture ricercate,
cosa rara nell’ambiente. Mi andò a genio fin dal principio e come avrei
potuto fare altrimenti sapendo che teneva sul comodino il libro “Gli androidi sognano pecore elettriche?” dal quale è stato tratto l’immortale Blade Runner”
“Continui, la prego” supplicò il Giudice.
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Sergio Sebastian Borgia
“Ho fatto cose discutibili. Cose per cui il Dio
della biomeccanica non mi farebbe mai entrare nel suo paradiso”.
Roy in Blade Runner
Sono arrivato ad una conclusione sulla “legalità”, su questo proclama
rivendicato ossessivamente dal Sindaco sotto il quale ho prestato servizio.
Non si è trattato mai, neppure per una volta, di uno strumento di propaganda fine a se stesso, ma dell’urlo angosciato di un uomo afflitto dai ricatti, dall’amoralità e dall’ignoranza. La legalità è l’essenza stessa di tutte le
leggi. È l’angoscia del cavaliere che giace disarcionato a terra dopo aver
combattuto la battaglia più importante e leggendaria di tutta la sua vita. Per
questo, quando mi trovai a dover convalidare l’esito delle elezioni in
Consiglio Comunale, dedicai a Sebastian la poesia “O Capitano! Mio capitano!” scritta da Walt Whitman in onore di Abramo Lincoln. Nonostante questo dono non mi volle mai al suo fianco e mi trattò come il suo luogotenente Roy Battle. Entrambi, Roy e Sebastian intendo, benché siano ora due
acerrimi nemici, sono appartenuti alla stessa cerchia di uomini che sono
soliti combattere da soli. Dalla loro solitudine, e da nient’altro, traggono la
forza che li anima e li nutre.
Che gli Dei siano generosi con voi quanto lo sono stati con chi scrive.
Che gli Dei possano concedervi in dono i libri amati dai vostri avversari
Da sinistra a destra: Rutger Hauer alias Roy Batty in “Blade runner”, Cesare Borgia e lo storico francese Lucien Febvre
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perché se conoscerete i libri che leggono, o che hanno letto, saprete con
esattezza di quale pasta sono fatti.
E fu scorrendo le pagine di “Onore e patria” di Lucien Febvre, abbandonato accidentalmente sulla scrivania del Sindaco, che intravidi ciò che
sarebbe successo, scrutai quei “tratti selvaggi” di Sebastian che avrebbero
condizionato l’imminente futuro. Contemplai imprese e affanni, gioie e
dolori, tutti sommersi nelle acque iridescenti di queste parole:
“Ma cos’è dunque il senso dell’onore? L’onore è innanzitutto un
rifiuto, un rifiuto di scendere a patti con ciò che è brutto, basso volgare, interessato, non gratuito. Il rifiuto di inchinarsi dinanzi alla
forza in quanto tale, dinanzi alla pace in quanto tale, dinanzi alla fortuna in quanto tale. L’onore implica, in colui che lo porta, un senso
altero e risoluto del rischio, del gioco in cui si rischia di perdere la vita
o di guadagnarsi la stima dei propri pari, un senso tragico del destino e al tempo stesso della dignità nella cattiva sorte; e tutto ciò si
affianca sovente ad un grande desiderio di isolamento, a un grande
rifiuto di venire a patti col mondo, col male, e una gran voglia di ritirarsi nella sua torre d’avorio… Da qui l’obbligo di cancellare ogni
lordura. Di liberarsi di ogni onta per mantenere in tutta la sua purezza la dignità della propria persona, per restare fedeli a ciò che si è”.
Aristofane raffigurò la pace sotto le mentite spoglie di una puttana. Se
Cesare vuole la pace deve pagare i senatori, i mercanti e i generali e ciò fece
sino a quando l’insaziabile avidità si trasformò nelle siche acuminate dei congiurati. È vero, “un uomo che non si compra con 12 sesterzi si compra con
13”, ma è altrettanto vero che non ci sono mai abbastanza sesterzi per comprare tutti i cospiratori, come dimostrano le “idi di Marzo”. Tanto vale quindi
non ricompensare nessuno e dichiarare guerra al mondo intero.
Sebastian il creatore di replicanti insieme a Priss in una sscena di “Balde runner” (William Sanderson e Daryl Hannah)
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Quelle quattro nereidi che affascinarono Sebastian fin dal primo giorno,
strizzandosi i seni ai piedi del gigante oceanico, non domandarono giustizia a
chi avrebbe dovuto difendere il loro candido onore, ma denaro, favori, potere
e a queste richieste se ne aggiunsero altre, di altri. E furono così tanti i mercanti che bussarono alla porta da disgustare il capitano fin nel profondo del suo
cuore. Fu allora che sfiancato dalla battaglia, poco prima dell’alba, quando il
sole non era ancora sorto e la luna tramontata e tutto quel mondo intorno al
Nettuno dormiente appariva senza tempo, Sebastian fece un sogno. Cesare
Borgia e le sterminate terre di Romagna da lui donate al fedele luogotenente,
Ramiro Lorqua, detto poi, per via dell’agire sanguinario che lo distinse, Ramiro
dell’Orco. Ramiro dell’Orco, da quel nome e quella storia Sebastian fu rapito e
posseduto.
“Ramiro” - sussurrò il Valentino - “mio fedele Ramiro, prendi queste lande
rivoltose, questi borghi fradici di cospirazioni e cancrene e corruzione e in
nome del Borgia fanne un regno degno del mio nome e del mio onore. E non
lesinare le violenze, il sudore del boia e la rafia dei capestri perché i mezzi - Dio
non me ne voglia - giustificheranno sempre il fine”.
A quei tempi - come ai tempi di Sebastian poi - fu l’occupazione abusiva
di alcune case da parte degli uomini di Giannotto il francese ad innescare la rivolta. Da quel momento Ramiro, uomo tanto capace quanto brutale, mise ogni
contrada a ferro e fuoco, e arrossò i fiumi di sangue e torturò e uccise e fece
piangere come se piovesse. Fu detto anche che mise in vendita il grano dei villaggi e che era disonesto e che fece bruciare un paggio solo per aver versato
del vino fuori dal calice dorato. Fece così tanto male e per così tanto tempo
che i cittadini ne chiesero ragione al Valentino.
“Ramiro?” - chiese il Borgia al popolo riunito - “Ramiro il mio luogotenente? Ramiro servo di un principe retto nello spirito e leale e generoso verso
i cittadini del suo regno? Ramiro ha fatto tutte queste cose? “ domandò incalzante Cesare Borgia, Duca di Valentino.
“Sì, Ramiro. È stato lui, Ramiro!” Rispose il popolo fremente.
“Non sia mai!” - gridò il Borgia – “Non sia mai che qualcuno possa aver
compiuto cotanta abominevole ingiustizia a mia insaputa!”
Ramiro fu decapitato di mattina, davanti al popolo che aveva oppresso,
nel lontano dicembre del 1552, su ordine di Cesare Borgia che così dimostrò
quanto grande fosse il suo amore per la Romagna.
Le terre che un tempo furono patria di corruzione e disonestà rifiorirono
su quello stesso sangue che era stato versato per riportarle all’onorabilità perduta. Solo i grandi uomini hanno il potere di cambiare la storia, addivenire al
fine, e far dimenticare i mezzi. “Aut Caesar aut nihil”, o Cesare o niente.
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Dieci piccoli indiani
A Genova in quella lontana estate del 2001, su quel suolo che fu già
terra di navigatori, giullari, menestrelli e prostitute nacque questa storia. I
dieci piccoli indiani reduci da quel massacro che pose fine alle speranze dei
movimenti, si ritrovarono dispersi nella notte, impauriti, arenati in un
banco di sabbiosa disillusione. Alle prime luci dell’alba si convinsero che
avrebbero dovuto fuggire dalle urla che ancora strangolavano le strade, dai
vetri infranti, le auto incendiate, dai cattivi gendarmi. Lontano da quel
corpo che videro disteso inerme sull’asfalto. Liberato dalla maschera funeraria di un nero passamontagna si mutò in un bambino ucciso nella vastità del mondo.
Volevano dimenticare quei volti impauriti, i corpi rannicchiati, l’ardore dei carnefici. A loro non rimase nulla, se non quel treno di fuggiaschi
che lasciò dietro di sé una scia di sogni infranti.
Dimenticare tutto per ricominciare altrove. A Bologna, forse. A
Bologna dove un piccolo partito di ecologisti affaticati li avrebbe accolti a
braccia aperte. Insieme avrebbero marciato uniti per aprire un varco al
capitano d’aprile, alla maschera Balinese meglio nota con il nome di
“Cinese”.
I reduci dimostrarono, ancor prima di veder brillare le cinque nuove
stelle del mattino, che non tutto era perduto e che la politica poteva essere
cambiata.
Nella sede dove avevo contato le tessere, mercanteggiato uomini e
donne inconsapevoli della tratta, in quel luogo deputato alla noia, tempio
di livori e litigate, fiorirono dei giovani ragazzi, studentesse e scrittori di
talento.
Una primavera di idee, accarezzata da nuove brezze di parole, affastellata dai boccioli di inedite amicizie rinnovò il partito verde di Bologna che
in questa atmosfera crebbe in tutto il suo splendore.
Chi guidò i giovani e i forti, i saggi e i dubbiosi?
Roy Batty, il temerario. Roy Batty che combatté i maghi della torre e dai
maghi fu sconfitto, ma che mai indossò l’anello. Di Roy e dei reduci da
Genova, come dei dieci piccoli indiani, “alla fine non ne rimase nessuno”.
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Il Sindaco macellaio
Quella campagna elettorale del 2004 fu molto dura, di più, devastante
per chiunque vi avesse preso parte, vincitori e vinti.
Il vecchio Sindaco uscente, il macellaio di Palazzo, non appena vide i
risultati elettorali scacciò gli assistenti, congedò le segretarie e si rintanò nel
buio dell’ufficio. Girò due volte la chiave e due volte singhiozzò come un
animale ferito. Nessuno ha saputo cosa fece quella notte nella quale fu travolto dall’acrimonia ardente di una sconfitta evidente: 56% dei voti allo sfidante forestiero e 40 a lui, al Sindaco uscente. Com’era potuto succedere?
Lui, il Sindaco uscente, i portici li aveva mantenuti lustri e perfino il
Crescentone, nube di porfido lattescente, era emerso da un cielo grigio di millenaria sporcizia. Così la scalinata del Pincio, di bianco vestita, l’aveva concessa in sposa ad un rinnovato cassero di porta Galliera. Passò in rassegna i suoi
bambini, le sue creature, e carezzandole si disse: “Ho fatto di un forno
decrepito un museo d’arte moderna, di un cinema malmesso un auditorium, di un covo di lussuriosi omosessuali il museo della Madonna. Ho
alzato statue, rianimato santi di pietra e risvegliato garibaldini di bronzo”.
“E il parco di piazza Trento e Trieste?” chiese una voce misteriosa al
Sindaco affranto. Ma lui non rispose ad alta voce e si mise a pensare che se
qualcuno, un giorno, in un lontano futuro, avrebbe scritto di lui, del signor
Sindaco che fece rinascere quella piazza abbandonata, non si sarebbe certo
dimenticato della fontana che non ha più smesso di piangere dalla felicità per
le panchine nuove, i vialetti rifatti e per le siepi ben tosate. Sconfitti i comunisti, anzichè gli Austriaci, si era ripreso anche lui Trento e Trieste.
“Voglio vedere le aiuole fiorite!” - gridò il Sindaco macellaio rivivendo quella storica battaglia – “In fiore sempre! Bada bene: col caldo e con il
freddo, non deve far nessuna differenza!” E dal giorno in cui fu impartito
l’ordine fu tutto uno sboccato sbocciare di corolle e boccioli, un florilegio
di colori, un turbinio di delicati odori. Mughetti e bucaneve, violette e margherite, a primavera. Rose sempre. Calle in autunno, non bianche care ai
cimiteri, ma gialle, tutte quante fatte portare in piazza Trento e Trieste da
lui, e solo da lui, dal Sindaco Macellaio che è nato a Bologna e che è vissuto a Bologna e che ha respirato l’aria di Bologna fin da quando giravano
i tram e c’era Dozza come Sindaco. Proprio così era lui il Sindaco di
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Bologna e nessun altro avrebbe potuto prendere il suo posto.
Ancor meno uno straniero:
“Puttana!” gridò il Sindaco con tutta la forza che aveva.
Non inveiva contro la lista civica che lo aveva sostenuto o i nemici,
neanche imprecava alla fortuna. Lui malediceva lei, quella gran puttana
della signora dotta e grassa.
“Stramaledetta Bologna!” Gridò piangendo e obnubilato com’era dal
rancore, sbronzo di risentimento, intravide tra le lacrime il fantasma di una
possibile ragione, una vittoria invisibile che affiorava dal mare tumultuoso
della sconfitta.
“E se questa mia disfatta” – si chiese maligno – “Non fosse giunta per
caso, o per sventura funesta, o per scacciarmi, ma per assecondare il volere di certuni che ad un prigioniero volevano soltanto sostituirne un altro?”.
Aveva ragione. Quel giorno, 15 giugno, anno domini 2004, settecento
e non so quanti anni dopo, si stava ripetendo quanto accaduto in un lontano passato. Stregato da questa visione si domandò ad alta voce:
“Nel 1249, non fu forse catturato a Fossalta il sovrano di Sardegna, Re Enzo?
Non fu trasmesso in catene a Bologna? Rinchiuso in uno dei palazzi comunali che da lui prese il nome? Non vi morì, in qualche segreta nascosta dentro a
questi consumati mattoni, il figlio dell’Imperatore di Svevia? Così come accadde
allora, anche l’avversario che mi ha sconfitto creperà di dolore in questo tetro
palazzo che nasconde una galera. Ma non tirerà le cuoia con dolcezza.
Tutt’altro! Non lo immagina la mia cara Signora che il
forestiero le farà pagare ogni sua connivenza, ogni
tradimento, ogni ipocrisia. Lui, il mio nemico, mi
renderà vendetta. E sarai punita, vedrai, e non sai
quanto ti farà soffrire!”.
Rise e fu una risata roboante, infernale.
Chi vide il Sindaco macellaio mentre usciva dal palazzo del Podestà, raccontò di aver visto sul suo volto
un’espressione felice, quella di certi
naufraghi scampati a un tifone. Il
Sindaco macellaio non si stava
affatto ritirando di soppiatto. Il
Sindaco abbracciava la libertà
lasciando le catene al suo successore.
Il Sindaco Macellaio, Giorgio Guazzaloca
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Roy Batty
Era forse l’umana paura della sconfitta ad aver spinto Roy a compiere
i primi passi nel mondo dei movimenti, ma quella mattina, quando sua
madre gli domandò cosa intendesse fare dei suoi vecchi abiti, pareva essersene dimenticato per sempre. Ma era solo una dimenticanza momentanea
perché l’angoscia sarebbe tornata ben presto. Stringeva la felpa nera quasi
fosse il bozzolo da cui era appena uscita una farfalla palpitante desiderosa
di avventurarsi in un mondo inesplorato e immenso. Il cappuccio somigliava all’esuvia vuota di un passato che sebbene gli fosse andato bene fino a
quel giorno, gli era diventato improvvisamente troppo stretto. Non avrebbe più calato l’orlo nero sul viso per nascondersi agli scatti della Digos e tantomeno occupato le case sfitte, infrangendo porte o scavalcando cornicioni. Avrebbe fatto molto di più. Avrebbe soffocato nella culla le ragioni dei
diseredati liberando gli alloggi pubblici da ogni assedio. Per riuscirci, le
regole dovevano assolutamente cambiare perché ogni povero, giovane o
vecchio che fosse, meritava un tetto sulla testa. Ringraziò sua madre, lasciò
cadere la felpa nel cesto dei rifiuti, e strinse il nodo alla cravatta.
Viaggiando sul taxi quella mattina rimirava la città con un sentimento
inedito. Sentiva, per la prima volta, il senso di appartenenza mescolarsi alla
possessione. L’amava prima ancora di aver ricevuto il mandato ufficiale dal
Sindaco. Accarezzava i muri con lo sguardo, baciava i portici, sentiva scorrere sotto di sé i basoli del selciato. In una parola la stava facendo sua senza
averle domandato la mano. E come l’aveva lungamente corteggiata e quante attenzioni, quante premure, fatiche, aveva speso prima di quel viaggio
nuziale. Dopo Genova era nata la sua devozione, nel momento magico in
cui i centri sociali veneziani – di cui faceva parte ed era un saldo caporale
- gli avevano domandato di aprire la strada verso la grassa e dotta signora.
Con loro era politicamente sbarcato in città malgrado vi abitasse da tempo;
malauguratamente non vi è storia senza tradimenti e la sua pareva confermarlo. Si rese ben presto indipendente e crebbe i suoi nuovi paladini nella
terra nutrita dai compagni scacciati in minoranza per eccesso di disobbedienza. Condusse il suo gregge dentro al partito Verde protetto da potenti influenze romane dalle quali si sarebbe ben presto liberato. Come
Giovanna D’Arco in marcia su Orleans, la sua ascesa fu inarrestabile. Si
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alleò ai vecchi mentori ecologisti per sventare l’idea dell’invasore straniero e
solamente dopo aver varcato le colonne d’Ercole li annientò tradendo per la
seconda volta chi aveva creduto in lui. Questa volta, dentro al partito.
Non si sentiva in colpa per questo. Chiunque avrebbe fatto lo stesso,
lui era stato solo più abile. Non sanguinario, non infido, soltanto il più
bravo.
Malauguratamente per lui, le sconfitte insegnano molte più cose ai
condottieri delle stesse vittorie.
“Un generale che non è mai stato sconfitto almeno una volta, non è
un buon generale”, scriveva Sun Tzu molti secoli prima di Roy.
Questa assenza di sconfitte sulle quali riflettere, insieme ad una leggera mancanza di umiltà, l’avrebbe costretto, ineluttabilmente, a perdere. Ma
lui, quel giorno, non lo sapeva ancora. D’altronde, come avrebbe potuto
saperlo? Tra pochi istanti si sarebbe seduto accanto a Sebastian, alla persona più importante di cui aveva sempre sentito parlare o letto nei libri. Sì,
dentro ai mazzi di carta rilegata, sconosciuti ai suoi genitori immigrati nella
laboriosa Germania che gli aveva concesso i natali. Fin da giovane, esploratore delle lettere, era solito rincasare con appresso un bottino rapinoso,
libri rubati o chiesti in prestito poco importa, che rappresentava quel continente sconosciuto bagnato solo dal mare d’inchiostro nero nel quale
amava avventurarsi. Dentro alle miniere di lettere, in ogni riga, scendendo
di capoverso in capoverso, cercava instancabilmente suo padre, il padre
politico, la guida saggia che ognuno di noi desidera.
Era Sebastian suo padre? Erano il tormento e l’estasi, le fuggevoli dame
inseguite nelle sue notti insonni?
Dopo essere stato proclamato assesRoy Batty nella famosa scena finale di “Blade runner”
sore uscì dal Consiglio e ad attenderlo
trovò Cinzia, la sua vice, con un mazzo di
rose rosse. Accanto a lei, la sua ragazza e
i leali compagni. A loro bastava essere lì,
dentro all’istante fuggevole, soddisfatti
dal profondo legame che avevano con
Roy, con il loro presidente, leale condottiero, incoronato Assessore. Mi guardò
sorridendo e io ricambiai. L’uso astuto
delle lame damascate ci univa nella vittoria, concedendo ad entrambi il perdono
per la guerra appena consumata perché
ogni ascesa è una guerra.
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Sebastian
L’Aula del Consiglio, con i suoi giganti dipinti sulla volta, con quei
dolci cherubini svegliati all’alba dall’incendiarsi impetuoso di muranici lampadari, attendeva di veder ammainata la bandiera del nuovo governo. Non
vi era luogo, stanza o corridoio - vuoi popolato dai commessi, vuoi assediato dai cittadini sotto l’Ercole dell’omonima sala, vuoi calpestato dai frementi giornalisti - esonerato dall’apprensione e dal sudore. Il rito si doveva compiere ineludibile, così come si è sempre compiuto dalla nascita dei
Comuni ai giorni nostri. Il rito del nuovo Sindaco proclamato regnante.
Il Comandante sarebbe entrato con passo di velluto sfilando davanti
alla platea accecata dal bagliore carismatico del capitano d’aprile e avrebbe
preso posto dietro alla plancia di radica dove siede la Giunta, i luogotenenti del Comandante, e i tecnici della corvetta. Erano in molti ad immaginare le sue inoffensive mani, due rose lattiginose, guidare delicatamente il
microfono alla bocca per dissetare gli astanti con il verbo della vittoria.
Ma quel pomeriggio, Sebastian era in ritardo. Aveva preferito una passeggiata all’automobile di Palazzo. Salirvi significava anticipare l’evento,
perdere parte di quella magia che solo una residenza centenaria può donare al nuovo dimorante. Non era solo. Al suo fianco marciavano gli uomini
della scorta, non tanto per difenderlo, ma per materializzare l’idea stessa
della partecipazione, di questa fascinosa intuizione, costola del suo incontestabile trionfo. I passanti festosi lo salutavano. I commercianti uscivano
dalle botteghe per stringergli la mano mentre le anziane nonne, chinate sui
passeggini, indicavano ai nipoti il Primo Cittadino. Si sentiva al centro di
una città medioevale stretta nella morsa di una cintura selenitica, sciaguratamente, non solo da quella. Nessuno sembrava dolersi di una siffatta
costrizione. I portici esprimevano una diffusa tranquillità con le botteghe
degli orologiai, le vetrine straboccanti di mortadelle e i cesti ricolmi di tortellini fatti a mano. Ma tutti, in quella città, ignoravano che le cose sarebbero cambiate ben presto. Nessuno può chiudere un orso nella gabbia
senza averlo prima addomesticato e nessuno si era dato la premura di fare
altrettanto con Sebastian. Ce l’avevano spinto a forza in quel serraglio.
Senza chiedere, senza discutere, come spesso accade in politica, si erano
limitati ad aprire una porta dopo aver appiccato l’incendio che lo avrebbe
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fatto fuggire nella trappola. Gli orchi della rovere, gli ufficiali della tessera,
avevano ridotto il loro migliore capitano, l’armigero incendiario delle piazze, cotanto esperto nel fronteggiare i predoni del mestiere interinale, alla
resa definitiva. Non più lance sull’orizzonte sconfinato degli eserciti, ma
rotonde e cassonetti sporchi lo aspettavano.
“La pagheranno” - si diceva Sebastian nel suo incedere - “La pagheranno cara i fratelli. Pagheranno gli alleati e i loro scribacchini. Tanto i
mandanti e ancor di più i sicari. Tutti malediranno di avermi chiuso qui
dentro”
Che lo si voglia ammettere o meno, anche un bambino avrebbe riconosciuto in quell’uomo un condottiero rinchiuso a Sant’Elena. Il giorno
stesso in cui si dischiusero le porte di Chateau D’If, Edmond Dantès, Conte di
Montecristo, custodiva già nel suo cuore un disegno preciso. Da lì a poco, la
città sarebbe diventata un grande “reality show”.
Si illumina il teleschermo e compare Daria Bignardi:
“Benvenuti signori e signore! Benvenuti nel castello di Sebastian, tra
poco vedremo come il sindaco sbaraccherà i Rumeni dalle rive del fiume
Reno, ci racconterà come si tengono a bada i lavavetri e subito dopo il
Confessionale conosceremo le nomine della serata. Affrettatevi a votare
inviando un sms alla redazione. Chi volete eliminare da Chateau D’If ?
L’insolente Roy? Il Partito verde o quello di Rifondazione Comunista? O
le schiere di questuanti che vivono alle spalle di ogni amministrazione? O,
infine, chiederete la morte dell’autore di questa storia che vi stiamo narrando? Vi aspetto dopo la pubblicità”
Roy vs Forteventi
“…le domande più importanti, sono sempre
quelle che scegliamo di non fare”
dal film, Edison City
Bisogna a questo punto fare un passo indietro per cercare di capire
cosa aveva interrotto l’inarrestabile ascesa di Sebastian. Prima di indossare
la fascia tricolore, molto prima, aveva tenuto testa al governo di centro
destra sull’articolo 18 e per farlo si era visto costretto ad aizzare le folle,
incendiare girotondi e risvegliare movimenti. Nel giro di poco tempo era
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così diventato la risposta vivente all’urlo di Nanni Moretti, l’alternativa ai
Fassino e ai Rutelli, svillaneggiati dal regista che disse: “con questi qui non si
va da nessuna parte”.
Sebastian era il puro che si faceva strada nell’opposizione sonnolenta
dei partiti che molto poco gradivano di essere adombrati da questo straripante condottiero. Ma c’è sempre qualcosa che impedisce al bene di
sopraffare il male, al nuovo di redimere il vecchio.
Alcune e-mail, scritte da un consulente del lavoro caduto sotto i colpi
delle Brigate Rosse imputavano a Sebastian una sorta di responsabilità
morale. In quanto, lui ed altri oppositori alla riforma del lavoro, “criminalizzano la mia figura”, così aveva scritto allarmato il giuslavorista, poco prima
di essere ucciso. Le mail continuavano affermando che, sempre costoro,
avrebbero finito per attirare le attenzioni su di lui facendolo diventare un
bersaglio ideale per la Stella a cinque punte. All’epoca dei fatti, alludo all’inizio della caduta di Sebastian, queste e-mail furono rese pubbliche da un
mio collega Consigliere, un gigante dallo sguardo bonario, tale Valerio
Forteventi. Imponente come un giocatore di rugby, paladino dei diseredati,
trascorreva il resto delle giornate dirigendo l’edizione di un quindicinale
locale. C’è da dire che Forteventi se n’era guardato bene dal pubblicare le
lettere nella loro interezza e aveva omesso cautamente il passaggio su
Sebastian, ma i giornali si procurarono la versione integrale buttandola in
pasto ai lettori in tutta la sua interezza. Forse, per questa ragione, il buon
Sebastian era diventato refrattario all’umanità come la pietra di un camino
al calore del fuoco. Aveva imparato, a proprie spese, in che modo una
sacrosanta battaglia combattuta a fin di bene può essere all’occorrenza trasformata in una grave colpa o in pesanti insinuazioni che possono essere
scagliate come frecce avvelenate. È pur vero che quando si usa con forza
l’oratoria, si cade spesso fuori dalle righe, è normale, se tutti prendessero
per buone le parole accese, ogni cerino diventerebbe un bosco in fiamme
e tra il dire e il fare c’è pur sempre di mezzo il mare. Senza contare che non
sapremo mai chi divulgò le lettere del professore di diritto. Per questo non
ho mai pensato che Sebastian, un uomo mite che ascoltava Erik Satie,
fosse in grado di farsi volontariamente artefice di un clima che potesse in
un qualche modo minacciare la vita di qualcuno e la faccenda delle lettere,
nella mia testa, ha sempre emanato l’odore acre del lavoro sporco di quei
sonnambuli romani che da anni condizionano la vita politica italiana usando falsi scandali e mezze verità che solo in una colonia degli Stati Uniti
come la nostra possono essere fatti passare per veri. Il fatto poi che nessuno abbia mai voluto chiarire la questione, e neanche posto l’unica doman350
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da importante, avvalora di molto la mia tesi. Sta di fatto che da questo episodio nebbioso nacque il profondo rancore di Sebastian nei confronti del
gigante Forteventi e non vi fu per lui miglior rimedio di farsi curare il dolore da un altro acerrimo nemico del rugbista. Roy, infatti, aveva caparbiamente conteso la stessa area movimentista al suo titanico alter ego, leader
riconosciuto dei centri sociali cittadini. Ed era stato proprio là, in quel vecchio teatro trasformato in uno spazio polivalente, che si erano contesi la
leadership. Sebastian sapeva che solo il risentimento altrui, quello di Roy,
sarebbe stato capace di curare il suo.
La moltiplicazione geometrica dei replicanti
Durante il quarto giorno di mandato prese corpo il clima inacidito scaturito dalla corona di assessore che il Sindaco aveva riposto sul capo di Roy.
Era il primo sintomo – il presagio – del malessere che avrebbe accompagnato il laborioso amministratore delle case comunali.
Una famiglia di migranti stava per essere sbattuta in mezzo ad una
strada con tutti i figlioletti al seguito. Roy si precipitò sul posto per scacciare l’ufficiale giudiziario e ad attenderlo non trovò le palme distese sotto i
suoi nudi piedi qualche giorno prima, ma le associazioni di occupanti con
tanto di striscioni infamanti.
“Ti sei vestito per la festa, ma la festa te la facciamo noi!”, gridavano.
“Misero voltafaccia, hai usato la nostra causa per fare carriera”
Insulto dopo insulto il fiele cadeva copioso:
“Torna alla casa che hai preso in affitto sui colli e lasciaci alle nostre
miserie!”.
Era evidente: non importava a nessuno cosa avrebbe fatto degli sfrattati e anzi, per quanto paradossale potesse apparire, le sue intenzioni
rispondevano in pieno alle richieste degli insolenti manifestanti.
Chiese all’Ufficiale Giudiziario di rimandare lo sgombero e il solerte
impiegato si adeguò, ma gli insulti continuarono, perché Roy, sventurato
ingranaggio caduto per caso nell’orologio sbagliato, non serviva a nessuno
se non alla verità della giustizia. Per l’Ente Gestore delle Case Popolari era
uno spocchiosetto appena arrivato, reo di porre le uniche domande – le
uova di Colombo - rimaste inevase dalla notte dei tempi:
“Quante sono le vostre case? Quante sono sfitte?” – Sollecitava Roy 351
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“Quante in ristrutturazione?”, “Fermati Roy !” gli gridavo, ma lui continuava imperterrito: “Spiegatemi perché, quando l’ente gestore delle case chiede l’intervento di un auto spurgo per levare merda da una fogna, fa pagare all’Amministrazione il doppio di quanto richiesto ad un privato cittadino dalla stessa ditta?”
Un interessante interrogativo.
Per il Partito del Sindaco era un usurpatore seduto sopra la betoniera
di Chateau D’If, per Rifondazione il muro alzato attorno ad un tema infinitamente caro e per i movimenti – da ultimo - un arrivista traditore. Chi
denunciava l’interferenza dell’Amministratore sullo sfratto, (le agguerrite
Associazioni di Proprietari) - per un fatto stranamente incongruo - si ritrovava alleato a coloro che lamentavano il polso debole dell’ex compagno.
Feci salpare un’agenzia di stampa dopo aver dichiarato ai cronisti che
“Roy – prima di essere un Assessore - era un uomo” * e ogni uomo,
che si ritiene tale, non avrebbe permesso a due bambini di finire sotto un
ponte. Ed era ora di finirla con tutte queste occupazioni abusive cresciute
in modo abnorme. L’unico risultato che raggiungevano era quello di impedire ai legittimi destinatari, perlopiù vecchi e indigenti, di poter usufruire
dell’alloggio che faticosamente si erano conquistati. L’occupazione come
forma di lotta? Una baggianata bella e buona che permetteva ai manifestanti di vivere in una casa pubblica saltando le graduatorie. I partiti della
sinistra estrema, anziché condannare, sbrodolavano arringhe di condanna
nei confronti dell’assessore Roy e se qualcuno avesse avuto il buon cuore
di fargli due conti in tasca avrebbe scoperto che era riuscito a raddoppiare
il numero di alloggi elargiti al popolo. Ma ciò che volevano i detrattori era
proprio il contrario di quello che era giusto fare, ovverosia volevano appropriarsi di un’abitazione saltando leggi e regolamenti. Case per sé o per i
propri amici, solo questo nascondevano quei “gloriosi” dibattimenti che
vertevano sul dare un tetto a tutti.
Quello che conta è che non ci sarebbe potuto essere un mare in burrasca peggiore di questo, doppiando Capo Horn, tra gli oceani di sinistra
allo scontro. Le occupazioni crebbero così fino a toccare la cinquantina e
l’Amministrazione, che non aveva fino a quel giorno maturato la benché
minima idea di cosa fosse un occupante, si ritrovò a dover fronteggiare
un’armata di piedi di porco che si ingrossava al passare dei giorni. Ma gli
esperti incursori dei portoni, le vedette della finestra socchiusa, erano arrivati da tempo in città - già prima delle elezioni, sospinti dalla speranza che
il nuovo Sindaco avrebbe dispensato tetti e muri a chicchessia - o erano
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stati scientemente chiamati a raccolta da qualcuno per dimostrare l’incapacità del neonato assessore e dello stesso Sindaco?
Bella domanda.
* James Dean: “Prima di essere grandi attori, bisogna essere grandi uomini”
Sun Tzu e l’arte della guerra
I giorni seguenti al primo Consiglio Comunale offrirono la possibilità
di capire chi realmente fosse il prigioniero. Ma Sebastian appariva impermeabile ad ogni evento e alla più piccola confidenza. Il passato di quell’uomo pareva avergli congelato ogni qualsivoglia tratto emotivo. Se parlava,
emetteva suoni composti e scanditi, in modo da rendere chiaro il significato del discorso all’ascoltatore più disattento. Quando stava seduto dietro al
timone di comando esprimeva qualche piccolo tic che neppure un giocatore incallito di poker sarebbe riuscito a interpretare. Se incrociavi il suo
sguardo rispondeva con il flebile cenno di un sorriso e subito dopo appariva pensoso. In realtà non lo era affatto e più volte mi capitò di sentirmi
osservato. Mi scrutava con la stessa profondità del chirurgo. Rifletteva e
archiviava nella sua mente ogni particolare, anche il dettaglio più insignificante sapendo che prima o poi gli sarebbe potuto tornare utile. Anatomista
dell’anima, etologo del potere, entomologo degli emitteri eletti, prevedeva
in anticipo le mosse di ciascun consigliere. Talvolta, stirava le braccia per
liberare il dorso delle mani dai polsini. Se un giornalista gli poneva una
domanda insidiosa, per guadagnare un attimo di tempo, si allargava il colletto della camicia con un dito e faceva una leggera smorfia con la bocca,
come se volesse mascherare una fitta. Di fronte ai quesiti semplici si limitava ad aggiustarsi gli occhiali o li sfilava per guardare con un occhio mezzo
chiuso lo stato di pulizia di una lente. Prima di convincerti con le parole ci
provava coi gesti.
Neppure il suo ufficio poteva essere d’aiuto a chi voleva capire chi
fosse realmente Sebastian sebbene la sua scrivania apparisse come una cornucopia rovesciata. Un mazzo rosso di peperoncini, una piccola campana
di bronzo, una statuina di Tex Willer, la famosa maschera balinese usata per
lanciare messaggi criptati al grande vecchio che l’aveva rinchiuso a Palazzo
D’Accursio, monete, tagliacarte, soldatini e infine una corposa raccolta di
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vignette che gli avevo regalato durante i primi estenuanti Consigli
Comunali.
Quando qualcuno si sedeva davanti a lui finiva per chiedere ragione di
questo o quell’altro oggetto dando così modo a Sebastian di aggirare o
quantomeno ritardare le pedanti argomentazioni, quasi sempre richieste di
favori o denaro, con le quali ogni visitatore lo assillava. Ma in mezzo a
tutto questo ben di Dio si trovavano due indizi, due edizioni economiche
tolte a quell’oceano disordinato di libri ricevuti in omaggio che dormivano
sulle scaffalature ai lati dello studio. “Il manuale del leccaculo”, indispensabile
strumento in grado di farti comprendere se la stima dell’ospite è sincera, e
“l’Arte della guerra” - di Sun Tzu - in versione tascabile. Erano sempre lì nell’angolo a sinistra del grande piano di cristallo trasparente.
Questo la diceva lunga su Sebastian. Poteva anche indossare la
maschera balinese, o quella di Baldovino, ma una dichiarata predilezione
per il capostipite della nobile arte dei conflitti militari riconduceva quel
politico al raffinato stratega. Sebastian era quindi un combattente vigoroso che nascondeva una coriacea armatura, spade e pugnali, sotto l’aspetto
pacifico di un sindacalista in pensione. Quanto di meglio ci può essere per
farsi sottovalutare dal nemico che sarà così annientato da una forza con la
quale non avrebbe mai immaginato di doversi confrontare.
Per creare una spada è necessario fondere del buon acciaio di Laredo
e Sebastian lo sapeva bene, tanto, da aver fatto lo stesso con le deleghe.
L’urbanistica era stata spezzettata e divisa su tre assessorati. A Roy toccò
l’edilizia pubblica e privata, ad un compagno del partito di Sebastian, Mario
Merola, andò il piano regolatore, mentre i lavori pubblici finirono nelle
mani di un erede di Carlo Marx, l’assessore Mao Zamburns. In questo modo,
se il partito di Sebastian avesse voluto scavalcarlo usando un Assessore,
non ci sarebbe mai riuscito. Per costruire ci vogliono contemporaneamente queste tre deleghe e cioè le strade con tutte le utenze (non si può certo
arrivare al condominio in groppa ad un somaro), il piano regolatore (che
prenderà il nome di piano strutturale comunale) e la programmazione tra
pubblico e privato. Era come se nella fretta avessero lasciato entrare nel
castello, Dantès con il suo tesoro al seguito.
Ma una stecca incandescente, quanto la delega urbanistica appena
sciolta, non fa del ferro una daga tagliente. Bisogna battere a lungo prima
di veder spuntar fuori dai fumi della fucina una lama affilata e lucente.
A Sebastian mancava un martello.
Mi sembra di vedere Roy seduto nell’anticamera di Sebastian. Attende
composto sulla poltrona di fronte alla segretaria. Finalmente il Sindaco lo
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chiama a sé, lo fa sedere, chiede che gli sia servito un caffè, dopodiché,
quando lo vede a suo agio, gli sorride.
Sembra in procinto di confidargli un segreto:
“Caro vecchio Roy, ricordi quando hai accennato allo stato balcanizzato in cui versa il settore che si occupa di case pubbliche?”
Dovrebbe rispondere di sì, che ricorda, che sperava che proprio lui, il
sindaco in persona, gli dicesse di andare fino in fondo per rimettere le cose
a posto riportando la giustizia ancor prima dell’efficienza, là dove prima
c’erano solo clientele. Dovrebbe, ma non risponde. Riflette chiedendosi
dove Sebastian lo vuole condurre. Il tempo si ferma in quell’attimo dilatato di silenzio. Calmati Roy! Stai per essere promosso a luogotenente di
Sebastian.
Il Sindaco continua a fantasticare come soltanto lui sa fare. “non ti
preoccupare, risponderemo alle bordate degli occupanti. Riporteremo la
giustizia e la rispettabilità in questo borgo marcescente e noi due, da soli,
marceremo insieme verso l’empireo futuro che ci aspetta, cammineremo
sulle strade della storia fino a che non saremo ricordati per l’eternità e lo
saremo eccome. Lo saremo per aver sconfitto tutti quei balordi che impediscono alla sinistra di rinnovarsi e quegl’altri, le caste di approfittatori che
suggono linfa alle istituzioni e lucrano e rubano e ridono sui terremotati e
pensano solo a se stessi.
Io e te, Roy, cambieremo il mondo incominciando proprio da questa
città corrotta.
Da questo momento ti chiami Deckard* e sei un poliziotto assoldato
per cacciare i “lavori in pelle”** dai palazzi comunali.
* Rick Deckard, il poliziotto protagonista di Blade Runner . ** Un nome gergale dato ai replicanti
Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare
Gli androidi sognano le pecore elettriche perché le macchine sono
diventate più umane degli uomini. Ma cosa sognano le pecore elettriche?
Sognano di tornare ad essere gli animali dai quali discendono. Sognano di
potersi liberare dai simulacri di metallo in cui sono state imprigionate.
Sognano di conoscere la verità su se stesse e sul mondo che le circonda,
ma non c’è un solo luogo che non abbia il suo bel mattatoio dove si macel355
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lano tutte quelle povere bestie sognanti. Ma è presto ancora per vedere la
pecora morire. Eccola allora la nostra pecora elettrica mentre siede a pochi
metri da Sebastian e da Roy. Guardatemi come sono elegante con quella
giacca rapita alle tarme dell’armadio, nelle occasioni importanti.
Mi ero incontrato con Roy il giorno precedente e insieme avevamo
scritto la domanda che avrei dovuto porgli il giorno seguente in Consiglio
Comunale. Ma non c’è tempo per ricordare ancora perché il Presidente del
Consiglio mi ha appena concesso la parola:
“Consigliere Celli può illustrare la domanda all’assessore”.
Ancora oggi mi risuonano nella mente queste parole dal tono altisonante che cambiarono il corso della vita di Roy, della mia e di quella dell’intero partito verde.
Mi alzai in piedi e chiesi quanta verità vi fosse nelle dichiarazioni che
aveva rilasciato ai giornali una settimana prima:
“Si è forse sbagliato quando ha pubblicamente affermato che le case
sono state attribuite ai senzatetto dai politici sulla base di criteri clientelari?” domandai.
Roy pareva tranquillo. Non una sola goccia di sudore colava dalla sua
fronte. Non era ricurvo sul microfono, come sono soliti stare gli stanchi
assessori. Lo si vedeva impettito quanto una statua, sorretto sembrava, solo
da se stesso e neppure la risposta tanto agognata si piegò all’oratoria molliccia dei politici del tempo, anzi uscì dritta dalla bocca dell’interrogato con
la forza di una sarissa macedone:
“Io ne ho viste di cose che vuoi umani non potreste immaginare.
Regole in fiamme al largo delle nostre case popolari... Ho intravisto nel buio la ragione dei tecnici piegarsi ai desideri dei politici.
Ho visto uomini ricchi e benestanti accedere alla commissione, non
per ragione o necessità, ma sospinti dal vento caldo del potere. Ho
visto indigenti e poveretti calpestati nei propri sacrosanti diritti. Ho
visto la corruzione e l’ingiustizia dilagare nel cuore del sistema. E
tutte queste azioni delittuose non andranno perdute, ma le consegnerò all’eternità della giustizia. È tempo di morire. E sia questa la
sorte - poiché è la stessa che il fato assegnò a Sansone e ai Filistei
- di tutti i consiglieri che si sono attribuiti un alloggio o l’hanno
dispensato a chi non lo meritava” *
Il borbottio cessò improvvisamente nella sala. Alla resa dell’assessore
si era sostituita una dichiarazione di guerra a cui il Consiglio Comunale
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avrebbe potuto rispondere solo con l’istituzione di una commissione d’indagine. Se quanto affermato era vero, ogni documento - ogni lettera, e ogni
atto amministrativo - doveva essere passato al setaccio dai commissari eletti. Ne andava della rispettabilità della stessa Amministrazione.
* “Io ne ho viste cose che vuoi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... e ho visto i raggi b balenare nel buio vicino alle porte di
Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo
di morire.” Liberamente tratto da Blade Runner di Ridley Scott
Il codice di “fine esistenza”
Sapevo che non sarebbe stato semplice venire a capo dello scandalo
perché la forza che ti permette di vincere qualsiasi battaglia politica può
essere tratta solo dalle vere ragioni da cui è scaturita la tempesta. Spogliato
il dibattito dai depistaggi, dalle menzogne, dalla propaganda di parte, non
resta che l’essenza della verità alla quale ci si può asservire per far trionfare la giustizia. Quale rappresentante dei cittadini avevo quindi l’obbligo
morale di comprendere come erano state attribuite le case che rientravano
nel patrimonio immobiliare comunale.
Roy aveva composto un dossier dove sia i nomi dei beneficiati, sia i
cognomi dei Consiglieri Comunali - solerti costruttori dei “regali immobiliari” - comparivano censurati dalla grossa linea nera di un pennarello. Si trattava di mossa sbagliata: maledizione! Se vuoi fare una denuncia la dici tutta,
altrimenti sembra che tu stia contrattando la verità sottobanco con qualcuno. Ma forse erano stati i timori di Roy, che temeva di essere sepolto dalle
querele, ad averlo spinto ad intraprendere una strada tanto ambigua.
Stando così le cose, per ricostruire il documento, si dovevano mettere le
mani in un archivio che occupava almeno due stanze. Un’impresa che si
rivelerà lastricata d’insoliti imprevisti.
Ogni qual volta mi capitò di incontrare Roy, molto pedantemente rinnovavo la richiesta di avere il dossier in versione integrale. Ma ogni sforzo
fu vano. A suo dire non era questo un argomento alla mia portata. Come
ebbe più volte a ripetere, avrei finito per cacciarmi nei guai o, peggio, “mi
sarei fatto male”. Su, su, vai a giocare con i tuoi amici che con i grandi ci
gioco io. Vai a quel paese Roy! Lascia che te lo dica che a quei tempi eri
proprio un bastardo quando mi trattavi così. Ad ogni modo, non si era trat357
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tato solamente di mettere in piazza il malaffare politico, sotto c’era molto
di più. L’apice della freccia conficcata nella ferita aperta era la prima mossa
di un gioco molto più vasto di cui nessuno voleva svelarmi l’esistenza. Ma
in realtà Roy non era l’artefice della strategia, ma solamente un esecutore.
I tempi di cottura erano decisi in altra sede e da un altro chef. Quando questo mi fu chiaro, dichiarai ai giornali che “La povera gente non doveva diventare
merce di scambio politico”. Ma nessuno comprese cosa volessi dire e non ci fu
un solo giornalista che volle approfondire questa frase. La lasciarono lì, da
sola, in cima alle colonne, come una stele antica che nessuno ha mai voluto decifrare. Evidentemente temevano di addentrarsi in una terra ostile,
piena di insidie, dove si rischiava di non trovar più una via d’uscita.
Lo denunciai in più occasioni, lo sa solo Dio quante volte: i Consiglieri
comunali dovevano smetterla di giocare con i “poveretti”. Tutti quelli che si
erano rivolti agli uffici pubblici per scampare al freddo e agli stenti meritavano, non tanto un processo al passato, quantomeno una riforma del sistema e in ogni caso non andavano trattati come le pedine di un monopoli
politico.
In una sola cosa Roy aveva ragione. La vecchia commissione, distributrice di case alla cittadinanza, era uno strumento amministrativo “falsato”
dove i politici si erano andati a sostituire ai tecnici, contrariamente a quello che prevedeva la legge. Non a caso si trattava di un organo bipartisan,
composto dai membri di ogni partito presente in Consiglio Comunale (ad
eccezione del partito verde nel mandato 1999 – 2004). Insomma, di un bel
bacile straboccante di grigie decisioni in cui tutti avevano infilato le mani.
Incominciai a capire quanto sarebbe stato difficile per Roy ottenere ragione dal momento che, Sindaco a parte, si era messo contro tutti. E quando
tutti sono colpevoli – è già stato ribadito molte volte - nessuno è colpevole. Fin dai primi giorni ogni accadimento, ogni azione e comportamento,
sembrava confermare l’esistenza di un’entità sconosciuta che muoveva i fili
standosene nascosta nell’ombra. Chiesi di poter accedere agli archivi, ma
una fuga di gas radioattivo, incredibile a credersi, rendeva impossibile l’accesso. Poi si ruppe un tubo e fu la volta di un allagamento. “I funzionari
sono fuori ufficio…Ritenta e sarai più fortunato” - sembravano suggerirmi all’unisono i centralinisti. Alle scuse subentravano altre scuse.
Qualcuno, evidentemente, stava mettendo in ordine le carte e non gli fu
certo difficile farlo. Infatti, alla mia prima visita scoprii che non tutti i documenti archiviati erano protocollati. Come dicevano i latini, “Quod non est in
actis, non est in mundo” quello che non è negli atti, non è nel mondo. I documenti potevano quindi essere sostituiti o più semplicemente buttati nella
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spazzatura senza che nessuno se ne potesse accorgere. L’archivio era
un’entità mutevole che cambiava d’aspetto ad ogni visita così come il camaleonte cambia il colore del mantello al sopraggiungere di un predatore.
E fu proprio questa deliberata assenza dei protocolli che avrebbe
affossato lo scandalo liberando tutti quegli spettri che ancora oggi si possono vedere riflessi negli specchi del palazzo comunale. Ed è sempre su
questo dettaglio, sottovalutato da Roy, che si fondò la sconfitta
dell’Assessore alla casa del partito verde che aveva ricevuto la delega in
quella calda estate del lontano 2004.
Quando finalmente la torta fu pronta, Roy si prese la cura di inviarmi
gli estremi censurati del Dossier e quando mi trovai a difenderlo in commissione - caso per caso – presi coscienza per la seconda volta della sorte
predestinata del replicante. Nella totalità dei suoi esempi ce n’erano circa
venti su ottanta completamente infondati. Il ricco cinese si rivelò l’affittuario di una cantina dove manteneva la moglie, una figlia prostituta e un bambino analfabeta. Il benestante marocchino diventò un muratore malpagato e
malato di cancro che non riusciva neppure a saldare la retta del garage dove
abitava con la famiglia. Certo c’erano anche gli altri, il milionario che risiedeva nella casa popolare, l’idraulico indigente che girava in Ferrari, la ricca ereditiera con tre ville da mantenere sulle spalle, la figlia e l’amante del Presidente
di quartiere, ma perché mescolarci dei casi totalmente infondati?
I conti non mi tornavano e le domande si moltiplicavano nella mia
testa. Chi aveva aperto i cassetti a Roy? Chi disegnato una strategia all’apparenza sicura, ma disseminata di trappole nascoste? Chi - per Diana! aveva clonato uno scenario diverso dal reale? Molte le ipotesi in campo,
una sola la più attendibile.
Sebastian, dato il carattere estremamente infido del campo minato in cui
Roy si era avventurato, era stato così accorto da tatuare un “codice di fine esistenza” nel DNA del replicante. Se qualcosa fosse andato per il verso sbagliato, il
Dio della Biomeccanica, avrebbe potuto “terminare” in prima persona la sua
creatura. Ma non ve ne fu bisogno perché Roy si sarebbe “terminato” da solo.
Roy e Sebastian entrano alla Tyrrell Corporation per scoprire come si può annullare il “codice di fine esistenza” dei replicanti (da Blade Runner)
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Gli sponsor dei poveracci
Cosa realmente avesse visto Roy - prima dei cataclismi accaduti agli
archivi - nessuno può saperlo, ma la sua tesi era concettualmente fondata.
Potrebbe essere definita come la “Teoria dell’inclusione relativa”. Chiunque
necessitava di un alloggio poteva usare due strumenti: la graduatoria e la
Commissione Casa per le emergenze abitative. La prima ragionava con le
persone come se fossero dei numeri, la seconda le trattava da esseri umani.
In questo secondo girone di giudizio i consiglieri comunali stabilivano un
ordine di grandezza alla sfortuna che variava tutte le volte perché alla fine,
ciò che veramente importava, consisteva nel far quadrare i conti: tante case
ad un consigliere, tante case ad un altro, secondo il principio di “sponsorizzazione del poveretto” così chiamato dal Consigliere Davide Ferrari. I consiglieri consigliavano ai propri prescelti come supportare la disgrazia con le carte
e indicavano le strade giuste da intraprendere con la perniciosa pedanteria
del ragioniere. Il problema nasceva dal fatto che a pochi poteva venire in
mente di rivolgersi ad un politico della commissione. Dato questo carattere esclusivo - solo chi possedeva una certa dimestichezza con la politica
poteva pensare di intraprendere questa strada con successo – la commissione casa si era trasformata, a detta di Roy, in una macchina in grado di
ottenere voti in cambio di alloggi. Per eliminare una vocazione simile,
un’inascoltata legge tentava da almeno dieci anni di porvi rimedio. Stando
alla legge, l’operato del tecnico andava distinto da quello del politico,
soprattutto in materia di politiche abitative. Il tecnico attribuiva e il politico sorvegliava e non il contrario come stava succedendo.
Roy aveva ragione da vendere, ma non quanto basta a provarla,
quella sua stramaledetta ragione. Riguardai le carte del dossier ancora
una volta e ancora una volta ne fui rabbrividito trovandomi davanti a
storie incredibili. Un distinto signore, pur avendo un reddito da cento
milioni, aveva ottenuto un bilocale. L’anziana in affitto che pur avendo
già una casa ne ottenne un’altra più bella, questa volta pubblica. C’era la
badante extracomunitaria che si era messa sotto sfratto da sola, con
tanto di corrispondenza intercorsa con il consigliere che le suggeriva di
non pagare l’affitto in maniera da farsi sfrattare. Agli atti c’era persino
la lettera del suo avvocato:
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“Se mi può fare avere copia delle ricevute dei pagamenti le garantisco di riuscire a strappare al padrone dell’immobile un regolare contratto di locazione”. Niente ad fare, la badante rispondeva:
“…Non mi daranno mai la casa del Comune se possiedo un alloggio in affitto e per questo sono con la presente a revocarle il mandato”
Nonostante queste affermazioni fossero agli atti nessuno le vide e
le fu assegnata una casa. Avevano ripulito gli archivi da tutte le malefatte, ma, evidentemente, non proprio da tutte.
Insomma, c’era di tutto e di più, ma cosa vi fosse realmente non aveva
nessuna importanza perché le carte sarebbero mutate al mutare dell’inchiesta. Inoltre era praticamente impossibile collegare queste, chiamiamole
“buone azioni”, all’operato di un membro della commissione. Nessun consigliere avrebbe lasciato una firma sulle carte. Era un reato indicare la via
giusta al questuante? Se i Commissari esulavano dai compiti, era perché
qualcuno lo aveva permesso e questo qualcuno si chiamava Istituzione.
Difficile, anzi impossibile, addossarle la colpa.
Io so.
“Io so tutti questi nomi e so tutti
questi fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non
ho nemmeno indizi”
Pier Paolo Pasolini
Le commissioni politiche, salvo rarissime eccezioni, non sono mai servite a scoprire la verità, semmai a nasconderla. Sono il luogo che permette
ai politici di guadagnare il tempo che serve per tessere gli accordi. Sono il
mercato dove la verità è barattata col silenzio pagato a peso d’oro. Ma io
sapevo. Sapevo che dietro alla commissione si nascondeva Forteventi
defraudato da Sebastian del ruolo di “Sindacalista dei poveri”. Sapevo che
l’esiliato Sebastian minacciava di rendere pubblico tutto il marciume che
avrebbe infranto ciò che restava della “vetrina rossa” d’Italia mandando in
rovina il partito che era riuscito a costruire la propria leggenda sul “buon
governo” dei comunisti emiliani. Sapevo che i Consiglieri, di destra e di sinistra, non potendo più incidere sull’attribuzione delle case si ritrovavano
con una freccia in meno al proprio arco. Sapevo che tutti i nemici di
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Sebastian morivano dalla voglia di dargli
una lezione incominciando proprio da
un assessore della sua giunta. Sapevo che
i futuri transfughi dei Ds, la granitica
sinistra del partito, volevano tessere alleanze con Rifondazione che a sua volta
aveva preso a mal volere l’assessore alla
casa per via delle occupazioni combattute a suon di sgomberi, denunce e un
dispiegamento massiccio delle Forze dell’ordine. Sapevo tutte queste cose che
insieme ad altre formarono un coacervo
di intenzioni che poco o nulla avevano a
che fare con la giustizia e la buona politica.
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Pier Paolo Pasolini
Scaricatori di porto
Nel giro di poche sedute la commissione casa diventò un luogo impraticabile e di conseguenza un organo inutile. Il consigliere Alberto Zannini,
che per altro ricopriva l’incarico di presidente e per questo avrebbe dovuto garantire il regolare svolgimento dei lavori della commissione, all’unisono con il consigliere Paolo Foscherini, praticava una forma di ostruzionismo
fondato sull’insulto. Dopo averti concesso la parola ti azzannava improvvisamente senza darti nemmeno il tempo di reagire. Abbaiava offese e grugniva critiche e tra le bave filanti riusciva a farti tacere. Stando così le cose
sul verbale ci finivano solo gli interventi che erano considerati in linea con
l’opinione “corrente”. Per questo incominciai ad allontanarmi per lasciarlo
sfogare. Il tavolino dove i commessi riponevano il caffè caldo del mattino
fu eletto a rifugio, ma anche lì, il pedante Foscherini trovò il modo di molestrami. Mi si avvicinò alle spalle e sottovoce mi consigliò di lasciar perdere. Disse che avevano un dossier “bello caldo” sul mio conto ed erano pronti a renderlo pubblico. Gli domandai se avessero scoperto che alle medie
rubavo i “lecca lecca” a Samoggia che ne aveva tanti perché era il figlio di un
tabaccaio. Ora che ci penso devo avergli rubato anche una “gomma pane”.
Era colorata, di un bel verde smeraldo, le mie erano sempre state bianche,
poi la si poteva lavorare come se fosse “pongo”. Insomma, non ho resistito
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e la pagai con due giorni di ritardo e solo dopo che mia madre si accorse
del furto. Foscherini continuò a fissarmi con due occhietti taglienti che mi
parvero assi stonati su quel viso bonario da panda: “Non importa che tu
abbia fatto qualcosa di male o meno” – disse – “l’importante è riuscire a
far credere alla gente il peggio, così da sputtanarti per il tempo che serve”.
Mi ero trovato una bella compagnia, non c’è che dire. Fui costretto a
scrivere le mie considerazioni su dei pezzetti di carta che consegnavo al
Presidente affinché li mettesse a verbale. Se andava bene finivano nel cestino o restavano ammonticchiati sulla tavola. Quando era di cattivo umore li
faceva in tanti piccoli pezzi e me li buttava in faccia.
Così i lavori della commissione diventarono il teatro di una farsa. Gli
unici individui chiamati a testimoniare erano proprio quelli presi di mira nel
dossier di Roy, alludo ai tecnici e ai politici, che se ne guardarono bene dal
dire la verità. Quando questi testimoni ripetevano le loro banalità che
peraltro avevano già dichiarato ai giornali, i membri della commissione si
riunivano a gruppetti per confabulare su chissà quali misteri.
Pissi pissi, bau bau. Ma che importa? Mi dissi.
Tanto, era già stato tutto deciso.
Uomini di vetro
Roy non si vedeva in giro da tempo. Si era rinchiuso in se stesso.
Sfogliava le giornate guardando i piccioni svolazzare sulla piazza dalla finestra dell’ufficio. Aveva finalmente preso coscienza della sua fine imminente. Non vi è peggior destino per chi ha fatto del tradimento un’arte, di sentirsi a sua volta tradito. Sugli spalti del palazzo comunale - ne era ormai
certo - non avrebbe incontrato nessuno. Né Sebastian e neanche il suo fantasma. Era solo. Abbandonato dall’Edmond con cui sarebbe dovuto fuggire dal Castello. Forse l’aveva deluso, era andato oltre, troppo lontano da
lui. Qualunque fosse la ragione, non digeriva il fatto di essere stato costretto ad alcune connivenze che lui stesso aveva contestato ai suoi predecessori. Non era riuscito a scacciare gli affittuari arricchiti a tal punto da non
meritare più un alloggio e - cosa ancor più grave – si era visto obbligato ad
aumentare le quote attribuite alle emergenze abitative. Fino a prova contraria, una delle sue tesi affermava che la commissione casa per le emergenze
- l’orrendo mercimonio in mano ai consiglieri - aveva via via carpito
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immobili alle graduatorie destinate ai cittadini “senza conoscenze”. Così si
ritrovava smentito da un agire, imposto a forza, che non condivideva assolutamente. Tuttavia anche questo faceva parte della sistematica demolizione della sua autorevolezza organizzata proprio da quelle stesse persone che
aveva contestato duramente. Assediato dal proliferare delle milizie di occupanti che scacciate si riversavano in altri immobili con la rapidità dell’acqua. Inviso all’Ente “Paracomunale” delle Case Popolari che non tollerava di
sentirsi controllato a vista, non passava giorno senza che un’azione intangibile lo svuotasse ancora un po’ dei già miseri poteri che gli restavano.
Goccia dopo goccia, granello dopo granello, il suo corpo si era ridotto ad
un’armatura vuota, rilucente di un’instancabile volontà, è vero, ma pur
sempre vuota.
La pecora elettrica, attratta da questa storia oscura, avrebbe voluto aiutare Roy, ma si sentiva sempre rispondere nello stesso modo:
“Quando serbi un obiettivo chiaro non devi mai farti distogliere da
esso. Devi proseguire dritto verso di esso, in silenzio, e con grande determinazione. Non pensare al sapore dolce della vittoria e nemmeno ai corvi
neri che precedono l’amara disfatta. Null’altro puoi fare se non attendere
che il tuo destino si compia nel solco tracciato dal fato”.
Credo che amasse scrivere e con questa prosa volle farmi intendere
che la sconfitta doveva essere soltanto sua e di nessun’altro. Malgrado una
siffatta nobiltà non me ne facevo una ragione di doverlo lasciare solo.
Arrivò il giorno in cui avrei dovuto firmare la relazione della commissione casa. Se firmavo entravo senza volerlo nel campo dei suoi oppositori. Bloccai Roy in corridoio per chiedere se per caso non avrebbe voluto
qualcuno al fianco durante la battaglia risolutiva. Ma gli Dei accecano coloro
che vogliono perdere, tanto che rispose:
“Non importa, so cavarmela da solo”.
La relazione era un guazzabuglio commemorativo del lavoro dei commissari. Non ho mai visto nulla affermare tante cose senza arrivare ad una
sola conclusione. Neanche un funambolo sarebbe riuscito a camminare sul
filo di tutto quel nulla, ma chi scrisse una simile raccolta di scempiaggini,
tre anni dopo, si guadagnò per questo un seggio in consiglio regionale. Le
lettere non resero mai tanto neanche a Petrarca. Sicché, chi vuole arricchirsi, non deve passare le notti in bianco a rivisitare il dolce stil novo, ma è bene
che spenda il suo tempo a leggere le relazioni delle commissioni d’inchiesta. Secondo la relazione non era successo niente, nessun reato era stato
compiuto, nessun colpevole andava punito, ma questo bastava per distrug364
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gere la credibilità di Roy. La domanda era però un’altra: “Sebastian avrebbe lasciato giustiziare Roy?” Questo si chiedevano tutti a Palazzo e io con
loro. Pensai a quello che avrebbe potuto dire l’assessore e sulla falsa riga di
questa ipotetica supposizione scrissi un lungo intervento. Né glorie, ma
neanche dolori. Roy sarebbe potuto restarsene al suo posto senza l’onere
di dover pagare un prezzo per aver posto la questione per primo. Scelsi una
formula molto simile al salvagente lanciato al naufrago e mi presentai in
Consiglio il giorno in cui Roy avrebbe dovuto rispondere alle “tesi” espresse nella relazione partorita dalla Commissione d’indagine sulla casa.
“Non è dei forti la guerra, non è degli ambasciatori la velocità, perché
il caso e il tempo sono gli unici artefici dei nostri destini. * Se dico questo è perché durante tutti questi mesi in cui ho partecipato ai lavori della
commissione d’inchiesta, ho sempre avuto l’impressione di camminare
su di un lago ghiacciato. Ho marciato senza fermarmi accompagnato dal
dubbio e mi sono domandato chi mi avesse condotto su questa fragile
palpebra congelata. In molti credono che sia stato l’assessore ad accompagnarmi fin qui dopo avermi preso per mano. Può essere, ma chi lo ha
convinto a recarsi dove interi eserciti sono precipitati negli abissi siderali del lago dove tuttora riposano. È questo che si vuole? Qualcuno pensava forse che sarei annegato in silenzio con il mio assessore fra i costoni di ghiaccio spezzato? Io non ho paura. Tutt’altro. Siete voi che dovete aver paura. Paura della verità. Paura della giustizia. Paura del giudizio
dei cittadini.
Chi ha condotto l’assessore sul lago voleva farlo sprofondare con il
suo partito. Voleva dimostrare l’inattendibilità assoluta degli amministratori verdi e a questa prima ragione se ne sono aggiunte altre così che
ognuno ha potuto aggiungere la sua pietra al cumulo lapidario. Noi tutti
sappiamo, inutile nascondercelo, che la vecchia politica uccide la nuova
dopo averla usata per attingere i voti agli elettori innocenti che mai li
avrebbero concessi a politicanti di mestiere. Questa è la strategia di cui la
sinistra si è sempre servita. Non è vero? Ma mi chiedo cosa vi abbia spinti ad unire la destra con la sinistra, nell’adempimento di un simile disegno. Se è stato più l’interesse o gli affari che avete combinato”.
Sebastian mi fissò con uno sguardo impassibile, ma un rivolo di sudore gli colò lungo la tempia. Continuai imperterrito:
“Vi ho sentito molto convinti delle vostre ragioni. Percepisco la vostra
sicurezza. Mi sembra quasi di poterla toccare, ma questa neve che cade
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su di noi, su questo fragile lago ghiacciato, non è bianca e non è nera. La
neve che cade oggi è grigia. Quando si parla della vecchia commissione
casa bisogna fare attenzione a non finire come il contadino che deve trasportare il cavolo, la pecora e il lupo sulla barca. Il nostro cavolo è la vecchia commissione casa. La pecora è l’Assessore Roy. Il lupo è la commissione d’inchiesta istituita per far luce sulle ragioni che hanno spinto la
pecora a mangiarsi il cavolo. In molti vorrebbero, a questo punto, che il
lupo si mangiasse la pecora, se non altro per pura vendetta. Naturale: i
lupi finiscono sempre per divorare le pecore. Ma prima di lasciare cadere l’assessore nelle fauci umide della belva bisogna rispondere ad una
sola domanda. Se la commissione casa è stata abolita, una ragione ci
dovrà pur essere stata. Delle due l’una: o l’assessore si è sbagliato e bisogna istituire subito un’altra commissione di politici per attribuire gli
alloggi comunali, oppure l’Assessore ha fatto una cosa giusta e la commissione casa resta soppressa per sempre. Se resta soppressa, resta in
carica l’assessore. O mi sbaglio? Così dovrebbe essere, stando al buon
senso. Ma qualcuno mi corregga se sbaglio”.
La mia era logica allo stato puro. Li tenevo nell’angolo tanto che se
qualcuno dei consiglieri avesse voluto rispondermi si sarebbe dovuto
arrampicare sugli specchi. Mi lanciarono sguardi rabbiosi. Lividi. Altro che
lupo sulla barca, quelli erano un branco di leoni digiuni che avrebbero
voluto pasteggiare con le mie carni e succhiare il midollo fino all’ultima
delle mie ossa. Ma non cessai di infierire:
“Non vedo come si potrebbe convincere la città che l’Assessore viene
dimesso perché si è reso colpevole di aver preso una decisione giusta che
per questo non sarà modificata. L’uomo e il suo agire non potranno mai
essere disgiunti. Sono una cosa sola”.
Continuai a parlare per almeno un’altra ventina di minuti, ma nessuno
dei presenti, ad eccezione di Sebastian, parve cambiare opinione sebbene
quello strano silenzio mi fece capire che non tutti i silenzi sono uguali e per
questo bisogna imparare a distinguerne alcuni dagli altri. Quello era un
silenzio di vetro. Il silenzio degli uomini di vetro, che seppur appaiano forti
e arroganti, possono andare in mille pezzi improvvisamente.
Un reduce che ritorna a casa, dopo aver vissuto in trincea, trova ad
accoglierlo due possibilità. Può continuare a credere che combattere la
guerra sia stata una cosa giusta o concludere di essere stato preso per i fon366
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delli raccontando le ingiustizie, le atrocità e infine l’inutilità della guerra.
Roy scelse la prima lasciandosi cadere nel vuoto. In Consiglio ripeté le
ragioni e le accuse che già aveva espresso senza togliere o aggiungere nulla.
Rivendicò le sue convinzioni nel modo con cui un cane braccato, latrando
e mordendo, si sarebbe difeso dagli accalappiacani comunali.
Quando lo incontrai nel cortile era sera inoltrata. Le dimissioni erano
appena giunte sulla scrivania del Sindaco. Sebastian l’aveva salutato sommessamente ed era consapevole di essere in parte crollato con lui. Fino ad
allora si erano convinti in parecchi, compreso il sottoscritto, che Sebastian
fosse il cambiamento personificato, ma l’addio di Roy aveva infranto per
sempre la grande illusione. Ve lo vedete Butch Newman Cassidy che spara a
Sundance Redford Kid nel finale del film western di George Roy Hill dicendo:
- “Vecchio mio, non te lo volevo dire, ma ti ho appena venduto all’esercito boliviano”? Un finale così non me lo sarei mai aspettato.
Butch Cassidy e Sundance Kid nell’omonimo film di George Roy Hill sono interpretati da Paul Newman e Robert Redford
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Roy mi corse incontro a braccia aperte.
Sembrava come liberato da un peso
opprimente. Era fiero del suo gesto e
assaporava la fine nello stesso modo in cui
il pubblico si gusta le ultime sequenze di
un film americano di successo. Ma quella
sera, seduto sulle poltrone di quel cinema,
non c’era nessuno. Non c’erano i detenuti del carcere di Brubaker per l’ultimo saluto al direttore colpevole di aver tentato di
riformare il penitenziario. Non c’erano
neppure gli studenti dell’Attimo Fuggente,
in piedi - sui banchi - a gridare: “Capitano
o mio Capitano!”.
C’ero solo io. Ma cosa importa? Quel
“momento andrà perduto nel tempo come lacrime
nella pioggia” ** o forse colerà come
inchiostro sulle pagine di questo libro che
non leggerà mai nessuno.
* Munich di Steven Spielberg
** Blade Runner
Post scriptum a Roy
Robin Williams in “L’attimo fuggente”
Il cane accovacciato sulla tomba di questa storia attende ancora di
veder svelata la verità e non sa dire se il protagonista abbia agito da solo o
su ordine di Sebastian e neanche saprà mai se quest’ultimo si comportò
come Cesare Borgia. Può solo cercare nelle parole di Abramo Lincoln una
lontana ragione per spiegare il comportamento di Roy Battle il replicante
che sfidò il suo creatore:
“Molti uomini possono sopravvivere alle avversità, ma se volete
veramente mettere alla prova il carattere di un uomo, concedetegli il
potere”.
Al posto di Roy subentrò un magistrato andato da poco in pensione.
Roy, prima di abbandonare la carica, aveva spedito il dossier alla Procura e
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molti politici si domandavano se la scelta di un Giudice fosse stata imposta dalle circostanze che richiedevano la nascita di un nume tutelare. Solo
un paio di mesi dopo ci si rese conto che si era trattato di una coincidenza. Quando la Magistratura si ritrovò a dover affrontare lo scandalo delle
case popolari diede ragione a Roy . Proprio così, nella richiesta di archiviazione si può leggere testualmente:
“…sono infatti certamente fondati i rilievi di
illegittimità amministrativa dei provvedimenti
adottati dalla commissione casa nel periodo storico considerato così come ampiamente documentato dall’Assessore nei suoi numerosi
interventi pubblici”.
Ma una cosa è riconoscere la fondatezza delle accuse che hanno fatto
scoppiare l’indignazione generale e un’altra è trovare un colpevole all’interno di una comunità composta da figure istituzionali che non hanno dissentito, assistenti sociali ridotti al silenzio, uffici distratti e politici a detta loro
inconsapevoli. Una comunità non soltanto estesa, ma diffusa capillarmente nel tessuto amministrativo. Roy non mi aveva mai ostacolato da quando
era stato eletto Presidente del partito. Mi lasciò sempre inseguire i miei
castelli in aria senza distruggerli, contrariamente a quello che avevano fatto
i predecessori. Per la pecora elettrica, cresciuta nel fiele avvelenato della
politica, non fu questa una piccola cosa. Sotto di lui il partito verde crebbe
fino a superare il 5% unico caso nella storia di quel tempo. Guidato da Roy
diventò la terza formazione di sinistra della città e se i dirigenti di allora
fossero stati mossi da ben più nobili ideali e non dal desiderio di tenere il
culo incollato alla poltrona sarebbero certamente riusciti ad ottenere la
tanto promessa piantumazione di un albero per ciascun voto ricevuto. In
questo modo avrebbero consolidato l’eccellente risultato elettorale e continuato l’esperienza amministrativa nel migliore dei modi. Se questa crescita poteva apparire ai più come un merito non lo fu certo per il mio partito che scacciò Roy (l’unico espulso della sua storia) e non lo fu per i movimenti, nel bene e nel male era pur sempre uno di loro, e nemmeno per tutti
quelli che si videro profanati del proprio decrepito potere messo a dura
prova dal rinnovamento politico che seguì ai fatti di Genova. Sebastian non
solo aveva distrutto la sua creatura, ma anche i boschi nei quali era nata e
cresciuta. Perché lo fece? Perché la sua strategia, così tanto contestata dalla
città, si fondava sulla demolizione sistematica di tutto quello che aveva
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intorno. Immagino si fosse convinto che una nuova macchina amministrativa, moderna ed efficiente, poteva essere ricostruita soltanto ripartendo da
zero e non sui cascami di una fitta rete di consuetudini e di scambi politici e di clientelismi che avrebbero soffocato qualsiasi riforma. Questo fu
certo un progetto ambizioso, così ambizioso da inabissarsi trascinando con
sé tutti quelli che ne fecero parte o ne furono soltanto testimoni. Non so
dire che cosa ottenne Sebastian dallo scandalo delle case popolari. Forse un
seggio al Parlamento Europeo? Nessuno lo saprà mai, ma basti al lettore
sapere che dopo la cacciata di Roy, le famose deleghe si ricomposero, tornando ad essere, quello che erano prima. L’urbanistica tornò all’ovile e il
mio partito verde all’1% di consenso elettorale, in una parola sparì completamente dalla politica italiana. In città qualcosa stava cambiando per sempre e gli ultimi avvenimenti erano solo un cristallo di neve nella bufera. Il
Partito Democratico stava per nascere e Sebastian aveva egregiamente
dimostrato a Veltroni come ci si può liberare dagli alleati “minori” logorandoli fino alla loro morte.
Qualche anno dopo
Roy tentò invano di entrare in altri partiti senza successo, la sua fama di
“cavaliere della legalità” lo precedeva facendo di lui il fardello che ogni politico
non avrebbe mai voluto ritrovarsi accanto. La complessità del gioco in cui si
era trovato invischiato e l’incapacità di spiegarlo chiaramente, con umiltà e
ammettendo i propri errori, lo mutarono in una figura indecifrabile che si prestava ad essere infangata da chiunque, magari proprio da chi non aveva capito assolutamente nulla dello scandalo delle case popolari. Roy non è stato un
voltagabbana e neanche un arrivista, certamente ha finito per diventare la
pedina di un gioco molto più grande di lui. Ad ogni modo mi sono convinto
che Roy sia sempre stato stato mosso da nobili ideali e da un grande altruismo. Tentò la carriera del giornalista entrando nella radio di un noto
imprenditore immobiliare. Svolse una decina di inchieste con la grinta di
sempre prima di essere licenziato in tronco e buttato in mezzo a una strada. Fu sostituito da una rubrica radiofonica di satira demenziale. Infine
pubblicò un libro sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna presso un
editore semisconosciuto, ma le librerie si rifiutarono di venderlo. Roy continuò così a vivere nell’anonimato senza vedersi riconoscere alcun merito.
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Ancora oggi, quando il sambuco imbianca le chiome di fiori e i tigli
profumano l’aria, penso a quel giugno del 2004. Mi domando dove siano
finiti tutti quei ragazzi, reduci da Genova, che hanno creduto con così
tanto ardore nella politica. Mi pare di risentire i loro discorsi appassionati,
così immensamente solidali con il mondo intero, se vuoi un po’ ingenui,
ma sinceri e puri. Li ascolto ridere. Li rivedo mentre raccolgono offerte
vendendo birre ai passanti. Mi chiedo se continuano a credere in quello che
fanno o se hanno finito per non credere più in niente. A voi, dieci piccoli
indiani, brindo nelle mie sere d’estate. Non lo sapete perchè ci siamo persi
di vista, ma anch’io sono stato ucciso. Sono solo l’ultimo di tutti voi, l’ultimo dei dieci piccoli indiani di cui non ne rimase nessuno.
Per quanto mi riguarda continuai la mia attività di Consigliere
Comunale consapevole che il mio partito aveva dimostrato di non essere
un soggetto politico affidabile. Un consigliere senza un partito alle spalle,
volente o nolente, perde gran parte della sua forza. Diventa il reduce di una
guerra persa. Un relitto alla deriva che può essere salvato soltanto dalla sua
ardente passione per le ingiustizie da combattere. Per questo lasciai il partito verde un attimo prima di vederlo colare a picco per lo scandalo dei
rifiuti napoletani. Quando il Presidente del partito, illustrissimo Ministro
dell’Ambiente, rispose alla stampa affermando che si trattava di una questione che non lo riguardava me ne andai verso altre formazioni ecologiste
dove non ebbi nessuna fortuna.
Gli spari sopra
“Sono in ritardo e gli altri non mi aspetteranno” - pensai entrando nel
cantiere. Dopo aver salito le scale raggiunsi la terrazza appena restaurata scelta per l’appuntamento. Il responsabile delle collezioni comunali ci avrebbe
accompagnato in visita dentro alla nuova Galleria d’Arte Moderna nata sulle
ceneri del vecchio forno del pane. Ma intanto, un uomo e una donna, due consiglieri comunali, passeggiavano chiacchierando amabilmente. Lui pareva leggermente seccato, ma lei lo confortava con dovizia di particolari: “La pratica
non era completa” – mi lanciò un’occhiata, forse aveva sentito tintinnare i tasti
della macchina da scrivere dietro alla porta del mio sgabuzzino – “Ero andata
da loro in veste non ufficiale…” – rafforzò il tono - “… come un cittadino
che conosce le cose” – mi fissò per comprendere se avevo inteso la precisazione - “Ho ribadito che nessuno avrebbe scambiato la permanenza senza titolo
con un’occupazione, altrimenti - se fosse malauguratamente successo - avreb371
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bero cestinato la richiesta di alloggio. Poi gli ho preso un appuntamento col
funzionario preposto, ma loro non si sono presentati e non sono neppure passati a prendere dal mio ufficio l’ISE e l’ISEE ” - alludeva a delle certificazioni sul reddito rilasciate dall’amministrazione pubblica – “..e adesso vanno in
giro a dire che non vogliamo dare loro la casa, dopo tutta la fatica che ho
fatto…”.
Si era da poco chiuso lo scandalo delle case popolari e già c’era chi istruiva le pratiche per i senzatetto che poi sarebbero stati cooptati in qualche progetto politico. Povero Roy, pensavi veramente di far vincere l’imparzialità
amministrativa facendo a pezzi un tavolo di legno? Me ne andai disgustato e
montai su un taxi per fare ritorno a casa. La radio andava a tutto volume sparando nell’aria le parole di una nota canzone di Vasco Rossi:
“… È sempre stato facile fare delle Ingiustizie! Prendere.
Manipolare. Fare credere!........ma adesso state più attenti!
Perché ogni cosa è scritta! E se si girano gli eserciti e spariscono
gli eroi. Se la guerra (poi adesso) cominciamo a farla noi. Non
sorridete, gli spari sopra, sono per voi! Non sorridete, gli spari
sopra, sono per voi!”
Un avvertimento sensato quello di Vasco. Sensato, ma improbabile.
Gli Italiani perdonano sempre tutto ai loro governanti. La fiducia è il
nostro tratto migliore. Se così non fosse così, non oso pensare a cosa
potrebbe succedere.
L’uomo che sfidò il generale M a p a c h e
“Vado a prendere il diavolo per la coda”
Crazy Lee in “The wild bunch”
di Sam Peckinpah
Siete stanchi, demotivati, angosciati e disillusi. Il mondo che vi ho
mostrato è irrimediabilmente perso. Non è così. L’arte di raccontare belle
storie vincerà sempre su quelle mediocri, sulle povertà umane e sulla gente
che spreca la propria vita in scaramucce senza importanza o si vende l’anima per un caffè. Fate della vostra esistenza una bella storia e andate a prendere il Diavolo per la coda! Siate gli eroi di voi stessi prima che degli altri
perché a tutti si può mentire, ma non al proprio cuore.
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Tombstone
“Tutti sogniamo di tornare bambini,
anche i peggiori di noi. Forse i peggiori
lo sognano più di tutti”
Don Jose in “The wild bunch” di
Sam Peckinpah
Il Sindaco decise di spegnere il vigile elettronico utilizzato per multare le auto non autorizzate che entrano in centro. Strumento indispensabile
per contenere l’inquinamento e i suoi nefasti effetti sulla salute. Spento per
le feste natalizie e spento al sabato per sempre. Ero stato fino a quel giorno un politico naïf, ma nulla di più. Malgrado non volessi affatto diventare Pike Bishop, il capo del leggendario Mucchio selvaggio, non sapevo ancora
che gli avvenimenti futuri, come sempre, avrebbero serbato molte sorprese. Presentai un ordine del giorno che ne chiedeva la riaccensione.
Mi convocò il capogruppo dei DS, la persona più tranquilla che abbia
mai incontrato, ma non per questo meno spietata di quanto il suo ruolo di
capo gli imponesse.
“Ritiralo e vota a favore del nostro Odg” mi ordinò Lucio Medraghi
“Non è giusto” risposi
“Non è mai questione di giusto e sbagliato. Non devi mai dire quello
che pensi, bensì devi pensare a quello che ti conviene dire. Tutto qui.”
Sentenziò andandosene.
Voleva solo farmi capire che in politica non importa avere veramente
ragione, ma è sufficiente riuscire a farlo credere. Se non avesse pronunciato quella frase avrei certamente ritirato l’ordine del giorno.
Mi sono sempre chiesto perchè Pike Bishop e i suoi compagni che formano quel meraviglioso “Mucchio Selvaggio” del film di Sam Peckimpah, non
si prendono i soldi del Generale Mapache senza per forza rivolere indietro il
loro amico Angel. In fondo, è stato proprio Angel a mettersi nei guai regalando una cassa di fucili ai nemici del generale. Sono solo dei banditi quelli di Wild Bunch, ma come la maggior parte dei rapinatori di banche sono
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anche delle brave persone. Da bambino, quando vidi questo film, compresi che vi sono momenti nella vita di ogni uomo in cui è necessario andare
fino in fondo. È il destino che bussa alla tua porta e ti chiede se vuoi far
parte della storia o preferisci passare il resto della vita in pantofole.
Nelle ore che seguirono ammirai la verità svelata mentre esce dalla
confusione infernale. La scorsi camminare come una dama bianca in
mezzo alle pressioni degli alleati, accanto alle minacce palesate dal Primo
Cittadino, dentro alle notti irrequiete e ai frugali pasti ingozzati nella fretta. Felice, come solo le donne sanno essere. La guardai stregato. Dovevo
ritrovare il bambino che ero stato un tempo. Prenderlo per mano e fare la
cosa giusta. ero pronto alla sfida.
Composi l’intervento di presentazione all’ordine del giorno e lo lessi
in Consiglio. La terza e più importante spada sono le parole, quelle parole
che non si fermano davanti a niente:
“Ora voi vi aspettate un mio intervento da politico. Non lo sarà. Non
può esserlo quando emerge un sentimento profondo che ti impone di
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dire quello che pensi e non a pensare a ciò che, in veste di politico, sia
conveniente dire. A Tombston, Arizona, c’è un cimitero. Su di una lapide è possibile leggere un epitaffio che ci riporta a questo Consiglio
Comunale. Qualcuno ha scolpito là sopra queste parole per renderle
immortali:
Era un brav’uomo e aveva ragione.
Ma noi eravamo di più e
l’abbiamo impiccato.
Se incomincio il mio intervento partendo da una sperduta località
dove la legge americana ha trovato i suoi fondamenti imbracciando
Winchester, Colt e doppiette belghe, è solo perché in questo preciso
momento non stiamo discutendo solamente di tenere acceso un vigile elettronico. La nostra discussione esula completamente da questa
domanda. Oggi il partito più importante della coalizione di centro
sinistra deciderà, se i numeri devono prevalere sulla ragionevolezza.
In questa città, inutile ricordarlo, le forze minori hanno contribuito alla
vittoria del Sindaco. Ora io vi chiedo: passata la festa gabbato lo santo?
Di questo si discute oggi. Può il mio partito che ha totalizzato più del
5% essere messo alla porta in seguito alle richieste di un’Associazione
di commercianti? Di questo stiamo discutendo oggi. Ci tengo a precisare che riconosco l’Associazione di commercianti di cui parlo, sono
convinto che rappresenti un’opinione di cui si deve tenere conto, ma
ritengo improponibile e dannoso porre la sua opinione al di sopra dei
partiti che si sono presentati al voto e che compongono questo consiglio comunale. Entro poi nel merito ricordando l’esempio fatto da me
in commissione. Prendiamo un bicchiere. Riempiamolo fino a farlo
tracimare. È tracimato! Voi mi dite che ci vuole una sperimentazione
per arrivare alle conclusioni. E sia! Prendiamo un altro bicchiere, riempiamolo nuovamente, questa volta davanti ai comitati, agli esperti, ai
commercianti con i loro scontrini e rovesciamolo nuovamente nel bicchiere già colmo d’acqua. Qualcuno avrà il coraggio di sostenere che
il bicchiere non tracimerà? Che la tracimazione è finalmente controllata, monitorata, studiata? Cosa diversa sarebbe stata se si fosse deciso
di stabilire un prima e un dopo, una città sperimentata con il vigile
spento e una città sperimentata con il vigile acceso. In questo caso
potrei intravedere lo spettro delle buone intenzioni sulla sperimentazione, ma anche su questo ci avete detto di no. Un “sì” avrebbe rap375
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presentato entrambi gli interessi. Avrebbe posto l’economia sul piatto
della bilancia scientifica del monitoraggio accanto alla salute. No alla
data e no all’alternanza, cosa rimaneva per noi ecologisti? Nulla. Dove
sono tutte le proposte ventilate alla stampa che ci sarebbero state fatte
oggi? Dormono sulla collina di Tomb Stone. Ecco dove sono!
Vengo al nostro bene amato Assessore alla Mobilità. In commissione abbiamo appreso che il vigile elettronico non è servito a diminuire l’inquinamento. Brutta frase questa perché potrebbe portare
all’abolizione completa dello strumento. Un pensiero sventurato o un
opinione servita su di un piatto d’argento alla futura commissione per
il monitoraggio? Ma la cosa ancor più grave è che l’Assessore non parlava ai consiglieri, ma alle loro coscienze. Sedava i loro mal di pancia
dicendo: “Se anche oscuriamo il vigile elettronico non vi saranno
rischi maggiori rispetto a quelli a cui sono stati soggetti i cittadini fino
ad oggi”. Rifiuto questa logica, rifiuto il bucato di coscienza.
Il vigile elettronico spento non lava più bianco. Rifiuto la sperimentazione sugli animali e tanto più quella sugli uomini. Detto questo
mi appello io, questa volta, ai consiglieri e spero che il finale non assomigli al mezzogiorno di fuoco che ha riempito il cimitero di Tomb
Stone. Quanti tra di noi si riconoscono nell’epitaffio della lapide?. Nel
“aveva ragione, ma noi eravamo di più e l’abbiamo ammazzato”? E
quanti nel “era un brav’uomo e aveva ragione”. Ora, voi tutti pensate
che io abbia finito. Non è così. Gli ecologisti, e mi saranno grati i colleghi consiglieri della Margherita, “hanno venduto le vesti e comprato
la spada”. Quindi come ultimo desiderio concesso al condannato a
morte intendo rivolgere un pensiero al primo cittadino.
Dalle sue dichiarazioni ho avuto l’impressione che lei non abbia ben
compreso l’essenza del nostro comportamento. Mi spiego, recentemente ha detto che presto diventeranno incompatibili i ruoli assolti
dagli ambientalisti all’interno di tutte le istituzioni rette dal centrosinistra e mi riferisco alle Presidenze della Commissione Cultura e del
Quartiere. Come se noi, noi ambientalisti, subentrati in una guerra non
incominciata da noi, e lo ricordo, ma appoggiata per uno sgarbo, per
un’Elena dal suo senno fuggita, dubitassimo che lei non riuscirà a ribadire, ancora una volta, che è il più forte in questa città. Che i ribelli
pagheranno care le loro scelte. Eravamo certi di questo, perché chi
cammina all’inferno non teme di tenere in mano un fiammifero acceso. La rassicuro, lei è il più forte. Se oggi i suoi consiglieri non brandissero un pulsante, ma una spada, non potremmo neppure ricordare
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ai nostri figli come sono andate le cose, perché come lei sa bene, e ce
lo ricorda un po’ troppo spesso, la storia la scrive chi vince, o meglio
chi ha i numeri per vincere. Quasi sempre. Non sempre certo, è accaduto anche il contrario. Ma non ci interessa affatto dimostrare il contrario o rappresentare l’eccezione, stiamo solo tornando all’origine,
torno io, figliolo prodigo, in seno alla sua falange minacciosa ordinata
nei ranghi dai miei stessi compagni, un tempo ventre della madre ulivista, che mi ha permesso di essere qui oggi in Consiglio, davanti a lei,
davanti al padre che mi ha abbandonato in mezzo al guado, al padre
che ho amato e che continuo ad amare, che ho chiamato solo pochi
mesi or sono “Capitano o mio capitano” e che, temo, divorerà tra
poco i suoi figli così come fece Crono. Questo per ribadire che non vi
è nessuna prova di forza se lei ha deciso di fare una cosa sbagliata, ma
solo un sacrificio. Un sacrificio, travolto dal tema della legalità destinato forse a non essere neppure compreso. Sono le aspettative che avevamo, i sogni, l’amore per un orizzonte che sembrava vicino. Perfino
io, il gattaro, lo sciocco Forrest Gump della politica, perfino io, ho creduto che lei fosse il sogno che aspettavo da una vita. Speravo che lei
mi avrebbe fatto crescere e non combattere contro i miei fratelli.
Celebrerò, celebreremo, in questa sede quella che i giapponesi chiamano la nobiltà della sconfitta, la perdita dei nostri comuni e condivisi
obiettivi che ci eravamo dati e ai quali ci sacrifichiamo onorevolmente
in loro ricordo. Si ricordi però che uccidermi, uccidere gli ecologisti sul
campo di quest’aula, sterminarli in ciascuna istituzione da loro retta,
farà di lei un tiranno, della sua maggioranza fedele un esercito poco
motivato e dei nostri sogni solo uno sbiadito ricordo”.
Seguì un istante congelato dal silenzio. I consiglieri sembravano ancora assorti nelle mie parole. L’opposizione - mentre il gigante di
Rifondazione si tergeva gli occhi lucidi – fece scattare l’applauso.
I plaudenti furono redarguiti dal Presidente del Consiglio, il mite
Professor Sofri:
“Non applaudite!” - gridò e dopo aver riflettuto un istante aggiunse
sconsolato:
“..semmai ci vorrebbe un minuto di silenzio”.
Il Presidente provinciale dei Ds, Salvatore Monarca, seduto anche lui sui
banchi del Consiglio mi si parò davanti. Mi aveva sempre intimorito, non
certo per i galloni cuciti sulla giacca, forse di più, per l’aspetto fiero e lo
sguardo magnetico del principe tuareg appena scampato al Ghibli della
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Libia. Sulle prime pensai che mi avrebbe coperto d’insulti, invece, scosse
la testa come per dirmi: “ben fatto!” e strinse forte il palmo della mia
mano. Alle sue spalle, in fila, attendevano per complimentarsi tutti quanti i
miei compagni d’aula. L’ordine del giorno fu bocciato, chi cresce le querce, custodisce le asce. La mia maggioranza si avvalse delle spade nemiche,
ma nell’esercito più forte quattro guerrieri decisero di non partecipare
all’esecuzione premendo il pulsante dell’astensione. Per la prima volta il
partito dei Democratici di sinistra si spaccò in due pezzi. Non fu quindi un
guerriero di lungo corso e nobili origini che riuscì a spezzare quell’inossidabile fraterna unità, ma un perdente eletto dalle gattare cittadine e protetto solamente dal grande gatto Fritz che ci domina dall’alto dei cieli.
Il giorno seguente, il Primo Cittadino ritirò l’ordine del giorno sulla
legalità con cui avrebbe scacciato il partito Verde e Rifondazione
Comunista dalla maggioranza. Non ho mai pensato di essere stato io a convincerlo, un armigero che ha saputo tener testa al grande cavaliere nero
delle televisioni non si fa certo intimorire dalle parole di un gattaro - ma
quando racconto la favola della fionda a mio figlio, mi piace lasciargli credere il contrario:
“C’era una volta un fanciullo di nome Davide. Il fanciullo era molto
amato dagli abitanti del villaggio e per questo li proteggeva con la sua
fionda. La sapeva maneggiare tanto bene che nessun drago, orco o
gigante osava avvicinarsi. Ma una notte, un gigante cattivo fece sparire tutte le pietre. Così, il fanciullo, quando si svegliò, si trovò senza più
nulla da scagliare. Ma lui era molto saggio e decise che avrebbe usato
le parole al posto delle pietre sapendo che ferivano molto di più e non
uccidevano nessuno. Fu così che gli fece un indovinello”.
“Quale indovinello babbo?” chiese Lorenzo.
“Come si fa a far entrare un elefante dentro ad una cinquecento in tre
mosse?”
“Come si fa, dimmi” insistette Lollo.
“Si apre la porta, lo si fa entrare, si chiude la porta”.
Dormi piccino, dormi tranquillo, dormi vicino al tuo babbo. Domani ti
racconterò del piccolo sole che tutti chiamavano Sirio, e di quello stesso fanciullo che fece pentire il gigante cinese per aver spento una stella del firmamento.
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Arrivederci ragazzi!
Avevo perso insegnando a tutti come farlo nel modo migliore. Ero
diventato un politico vero, uno di quelli che riescono a far cambiare idea ai
compagni e ai nemici pronunciando un discorso. Chi l’avrebbe mai detto?
I giornalisti di tutta Italia mi telefonarono per chiedermi se potevo inviare
alla redazione il testo integrale del mio intervento. Quella sera il Sindaco si
era complimentato dicendo:
“Hai trasformato un melodramma in una tragedia greca. Bravo!” e
prima di andarsene mi regalò un’onorificenza d’argento che aveva ricevuto
dal Governo Cileno. Da un lato vi era impressa l’effigie di Gabriela Mistral e
dall’altra il profilo di Pablo Neruda.
“Conservala con la stessa cura con la quale ti scegli le parole” mi disse.
Quando uscii nel chiostro del Palazzo, il campanile batteva la mezzanotte. La piazza si era spopolata, un vento sottile che sapeva dei boschi
dell’Appennino sembrava voler trascinare via con sé tutta la tensione della
serata. Mentre andavo a riprendermi mio figlio - lasciato ai vicini di casa pensai che, malgrado tutto, - malgrado le tessere, i coltelli, e i veleni - la
politica rimaneva l’unico luogo dove avrei potuto combattere. Non era
vero ciò che avevo sempre pensato e cioè che le parole in politica non contano nulla, che solo le tessere concedono il potere. Mi sbagliavo. Il mio partito era poi l’unico soggetto che mi avrebbe sempre permesso di dire ciò
che pensavo. Onore alla politica, onore al mio partito. Mi ripetevo.
Tornato in casa strinsi fra le braccia Lorenzo. I suoi occhioni brillavano di una gioia luminosa nel buio della notte. Lo misi a letto e gli rimboccai le coperte. Sul plaid vidi disegnate tante buffe ranocchie verdi, le
rane di Sabattini proteggevano il mio bimbo e, suo padre, il vecchio
Davide, avrebbe dovuto a sua volta proteggerle. Tutto tornava, tutto torna
sempre quando si difende la natura e tutti i suoi figli.
Ma, forse, sarebbe stato meglio dire addio alle mie battaglie.
Ritirarmi per sempre dalla politica per stare con Lorenzo e Lara. Avrei
dovuto farlo. No. Non lo feci e decisi che non avrei mai abbandonato quel
mestiere da cowboy delle parole. Mi sbagliavo, ma quella sera pensavo che
ci fossero ancora tante battaglie da combattere. Vidi stagliarsi all’orizzonte
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nuovi inceneritori da affrontare, colsi l’inarrestabile incedere delle orde
venatorie, ascoltai il frastuono delle armate al soldo dei palazzinari mentre
battevano le benne sugli scudi. Animali da difendere, ambienti da preservare, diritti da far valere. Avrei dovuto continuare a combattere perché
quelle battaglie erano diventate la mia vita.
Alzate al cielo i calici oh miei soldati! Alzate le coppe in alto, così in
alto, da brindare alle stelle del mattino. Stringete le lance al petto e respirate un’ultima volta l’aria pulita di questa notte perché domani all’alba una
nuova impresa ci aspetta. E se mai dovessi cadere un giorno in battaglia,
continuate voi, eroi che ancora dovete nascere, dall’impronta lasciata dal
mio ultimo passo.
28 novembre 2005
Cosi credevo senza sapere che dopo essere entrato nel Partito
Democratico sarei stato miseramente sconfitto e umiliato.
“Ma questa” - come direbbe Conan, il Re dei cimmeri - “è tutta un’altra storia”.
Verso la conclusione del processo
I membri della Giuria sembrarono entusiasti del racconto malgrado
facessero di tutto per nasconderlo, qualcuno si asciugò le lacrime fingendo
di essere stato colto da un attacco improvviso di allergia. Era evidente che
l’imputato era riuscito a toccare i loro cuori. Ma i volti dei giurati si rannuvolarono subito dopo e dagli sguardi un po’ persi subentrati all’iniziale
emozione s’intuì quale fosse lo stato d’animo in cui si trovavano: l’imputato meritava di essere altrove, a combattere per un mondo migliore, e non
dentro a quell’aula. Ma il reato di cui si era macchiato era pur sempre una
colpa indelebile. La Pubblica accusa, che meglio di chiunque altro seppe
cogliere quel benevolo sentimento soffocato, andò in escandescenze:
“Lei vorrebbe veramente farci credere di essere diverso dagli altri politici? Ma andiamo, non mi faccia ridere! Abbiamo tutte le prove per dimostrare che lei è colpevole di un’infinità di reati e per quanto riguarda il suo
eroe, quel Roy, è un disoccupato della peggior razza, Sebastian un perdente che ha mentito spudoratamente dicendo di volersi dedicare al figlio salvo
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poi farsi eleggere a Strasburgo. E quell’altro, quel Sabattini, ancora oggi
non ci risulta sia stato riabilitato dalla follia che gli fu ascritta. Senza contare che l’imputato si è molto probabilmente inventato di sana pianta tutte le
storie che ci ha raccontato”.
“Ha perfettamente ragione!” - rispose l’imputato alzandosi - “Ma non
ha nessuna importanza che le mie storie, come le chiama lei, siano vere o
false, l’importante è che io sia riuscito a convincere anche un solo ragazzo
o una sola ragazza, presenti in quest’aula, che la politica non può essere
lasciata a se stessa”.
Chinò il capo e mantenendo gli occhi bassi continuò a parlare:
“Ho perso tutte le mie ultime guerre, questo è vero. Ho rinunciato agli
ideali in cui credevo e non ricordo nemmeno più quante soddisfazioni possono scaturire dal combattere una giusta causa. Io sono colpevole, ma non
sono colpevole di aver rapinato una banca. Io sono colpevole di essere un
politico. Ditemi voi: è più colpevole chi compie un atto criminoso alla luce
del sole o chi compie quello stesso identico gesto mascherandosi in mille
maniere? È più criminoso privare una banca dei suoi soldi impugnando
una pistola o è più criminoso fare la stessa cosa falsificando i bilanci della
Parmalat. È più criminoso gridare “mani in alto” o avvelenare le merendine
dei bambini con uova marce o i succhi di frutta con degli inchiostri cancerogeni. Avete forse visto qualcuno pagare un prezzo per questi reati? È più
criminoso far stendere la gente a terra nel caveau o rovesciare merda nei
fiumi facendo rinchiudere in manicomio, come malato di mente, chi si
oppone? È più criminoso fuggire nella notte col bottino o cambiare i piani
regolatori rubando pezzi di terra alla città per donarli ai propri amici
costruttori che meglio di chiunque altro sanno come ricambiare cotanta
generosità? Io sono un criminale che ha rapinato una banca: è vero! Lo
sono! Non lo nego. Ma almeno mi si riconosca di averlo fatto a volto scoperto e non calzando un passamontagna da Onorevole o da Palazzinaro o
da Lobbysta. Io sono un criminale che mostrando di essere se stesso ha
compiuto un impareggiabile gesto di onesta lealtà verso il mondo.
Condannatemi signori della Giuria, se lo credete giusto, ma condannatemi
per aver rinunciato ai miei propositi, per aver abusato dei miei elettori, per
essere diventato un politico come tutti gli altri. Condannatemi! E sia! Ma
per la misericordia di Dio, non infliggetemi una pena per aver rapinato un
banca! Per essere stato l’artefice dell’unica azione onesta, limpida e visibile, di tutta la mia vita! L’unica che incontrerete da qui alla fine dei vostri
giorni. Io sono un rapinatore di banche, l’uomo più onesto che abbiate mai
incontrato!”
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La Pubblica Accusa decise che non poteva lasciare che l’imputato continuasse ad arringare la Giuria:
“Invece no!” – gridò – “Io chiedo per lei la massima pena computabile così che possa marcire nelle peggiori galere del paese e se non dovesse
bastare io sono pronto ad accusarla anche….”
Intervenne il Giudice:
“Si calmi per favore” disse con voce calma e leggermente seccata e
continuò: “La vorrei pregare di mantenersi all’interno della consueta dialettica consona alla sede in cui si trova. Per un attimo ho avuto come l’impressione che l’imputato fosse lei”.
La Giuria e il pubblico risero fragorosamente.
“Chiedo quindi ai giurati di ritirarsi” – continuò il Giudice – “e chiedo inoltre che l’imputato sia ricondotto in cella. La seduta è sciolta. Ci
aggiorniamo a domani per il verdetto”.
L’imputato fu preso in consegna dagli agenti mentre la Giuria si ritirava nella saletta riservata. Il Giudice si accomiatò con le frasi di rito:
“Durante questa lunga deposizione l’imputato si è volutamente allontanato dal crimine che ha commesso e per il quale sarà giudicato, per questo ricordo a tutti i Giurati, e sia messo a verbale, di giungere ad un verdetto che stabilisca se l’imputato si è reso colpevole di aver rapinato una banca
o se al contrario è innocente. Il resto non ci interessa. A domani allora”.
In cella
Quando l’imputato rientrò in cella trovò ad attenderlo il suo vecchio
amico di sempre, quell’Aldo Maccione che per molte indecifrabili coincidenze gli era stato sempre accanto nella buona e nella cattiva sorte. Gli
buttò le braccia al collo stringendolo con forza mentre l’imputato restava
impassibile senza ricambiare tutta quella inutile calorosità.
“Sei stato fantastico!” – disse eccitato Maccione – “Ho seguito il processo su Sky dall’inizio alla fine”.
L’imputato scosse la testa come per fargli capire chiaramente di non
essere più interessato a quanto accadeva nel mondo.
“Ma dai, non fare cosi!” – lo rincuorò Maccione – “Tutti parlano di te,
dell’onesto rapinatore di banche. Gli indici d’ascolto sono schizzati alle
stelle, persino l’Espresso ti ha dedicato l’ultima copertina. Ma non capisci?
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Sei l’uomo del momento, un eroe del popolo!” L’imputato si andò a sedere sulla brandina senza mostrare alcuna emozione. Maccione senza mollarlo un istante andò a sedergli accanto e lo strinse nuovamente a sé con
forza, come un allenatore stringe il campione.
“Ricordi quella fondazione di cui ti ho parlato?” – chiese Maccione –
“Quella messa in piedi dal numero uno degli industriali? Quella dove confluiranno anche Francesco e Gianfranco. Anzi, pare persino che anche
Pierferdinando sarà della partita. Come puoi ben immaginare cercano
gente in grado di gestire un nuovo partito creato ad hoc per scalzare l’ormai logoro Berlusconi. Anche loro ti conoscono e mi hanno parlato molto
bene di te. Così mi sono permesso di venirti a reclutare personalmente,
come ai vecchi tempi di Tonino. Ricordi? Ma questa volta non hai altra
scelta mi par di capire” Maccione rise da solo della battuta.
“Infatti: questa volta non ho altra scelta. Non uscirò da qui per i prossimi cinque anni” lo bloccò l’imputato.
“Sbagli perché ho preso tutte le informazioni del caso e sono pronto
a corrompere tutti i giurati se serve, tutti, dal primo all’ultimo, ci rifaremo
dei soldi col partito”.
“Sei sempre stato un gradasso”.
“Può darsi, ma come disse Giulio Cesare, un uomo che non si compra con 12 sesterzi lo si compra con 13. Te ne sei dimenticato? Mi è sempre piaciuto quel tuo modo di fingerti cinico per poi voler dimostrare tutto
il contrario…”.
“Francamente” - argomentò l’imputato – “non penso proprio che il
nostro paese abbia bisogno di un altro partito. Lo stato in cui versano le
finanze, la disoccupazione crescente, questo susseguirsi senza fine di scandali, processi, intercettazioni. Quello che si scopa la ragazzina, quell’altro
che si fa fare le seghe in cambio di un appalto. Questo scontro permanente di cui non s’intravvede la fine mescolato ad una melassa maleodorante…
Il nostro paese avrebbe bisogno soltanto di una bella rivoluzione, questo
sì. E quando i tempi saranno maturi, molte teste cadranno dai patiboli! E
vedrai quante ne cadranno! Il popolo non potrà sopportare ancora a
lungo”.
“È qui che ti sbagli” – Maccione si fregò le mani compiaciuto – “Il popolo - il tuo popolo – è morto! Guarda cos’è successo in Grecia. Hai visto forse
una folla incendiare i Parlamenti? Manifestanti in strada che lanciano le monetine come ai tempi di Craxi? Tutt’altro. Non è successo un benedetto accidente di niente, se non un morto e qualche scaramuccia. Si lasciano colare a picco!
Questa è la verità! Gliel’hanno data vinta! …e lo sai perché?”
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“Dimmelo tu” L’imputato fece no con la testa.
“La caduta è iniziata da tempo e come i passeggeri del Titanic continuiamo tutti quanti a far finta di niente. Ma che importa... Devi solo decidere da
quale parte stare: se startene dalla parte di chi avrà di che godersela fino alla
fine dei suoi giorni o dalla parte di chi continua a ballare sul ponte della nave
prima di andare a fondo. Se così non fosse, prova a spiegarmi perché la corruzione dilaga ovunque. Te lo dico io perché, perchè ognuno vuole la sua
parte, il suo fondo nero personale, la sua scialuppa di salvataggio, la sua casa
con vista sul Colosseo. Per questo ci vuole un nuovo partito, per riportare l’ordine e permettere soltanto ad alcuni di beneficiare di un’agiata pensione. Che
diamine! Non ci sono mai abbastanza scialuppe per tutti”.
“Per un istante mi ero quasi illuso che il tuo nuovo partito avrebbe rimesso a posto il Paese, riportato l’ordine, come tu stesso hai detto e invece è la
solita storia del lupo che perde il pelo, ma non il vizio di assecondare la deviata natura che lo possiede. Ma lo sanno gli altri tuoi compagni che serbi questi
progetti?” chiese beffardamente l’imputato senza ottenere risposta.
Si alzò in piedi e accompagnò Maccione alla porta. Congedandolo disse:
“Come sai, in tanti anni, non mi sono mai permesso di entrare a far parte
di una lista bloccata e la mia vecchia veste da consigliere comunale me la sono
sempre sudata con le preferenze. Dal popolo sono nato e al giudizio del
popolo voglio fare ritorno. Come dire che preferisco marcire in galera piuttosto che illuderere la gente ancora una volta. Avresti dovuto immaginarlo” sorrise - “Da quando rapino le banche ho messo la testa a posto, sono diventato una brava persona. Cosa credevi?”.
Maccione lo guardò, sorrise a sua volta e lo abbracciò con forza. In quel
preciso istante capì che non si sarebbero più rivisti e ne fu profondamente
commosso.
Quando Maccione si ritrovò fermo davanti alla stazione dei treni infilò la
mano in tasca per afferrare il denaro da consegnare al tassista. Insieme alle
banconote trovò la pagina strappata di un libro.
Lesse distrattamente quelle poche righe tratte dalla “Storia di Roma” di Sallustio:
“I potenti incominciarono a mutare la dignità in boria e la libertà del
popolo in licenza. Ognuno di loro afferrava tutto ciò che poteva, strappava, rubava. Tutto si divise in partiti e questi straziarono lo stato governandolo con l'arbitrio di pochi. Controllavano il tesoro, le provincie, le
cariche, la gloria, i trionfi. I cittadini erano oppressi dalla miseria, costretti al servizio nelle legioni. I capi si dividevano le prede, mentre le persone erano scacciate dalle loro terre, se per sventura, erano desiderate da un
potente. Gli esponenti dei partiti profanavano e devastavano tutto. Nulla
premeva loro e nulla consideravano sacro. Finché sprofondarono nell'abisso scavato dalle loro mani”.
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Il verdetto
Non fu certo una decisone facile. I giurati restarono reclusi per tutta
la giornata e per l’intera notte seguente. Fu solo verso l'una del giorno
dopo che presero posto in aula.
"Siete giunti ad un verdetto unanime?" chiese il Giudice quando li vide
seduti.
Il Presidente della Giuria si alzò e annuì con la testa:
"Potrebbe gentilmente dirci se avete ritenuto l'imputato colpevole o
innocente?"
Il Presidente della Giuria restò in silenzio per un tempo infinitamente
lungo. Il Giudice lo incalzò:
“Vi ho gentilmente chiesto se siete giunti ad un verdetto?”.
Il presidente della Giuria tacque.
“Esigo una risposta dalla Giuria popolare!” gridò,
ma nessuno rispose.
Il banco dell’Altrasinistra: Roberto Panzacchi, DavideCelli e
Serafino D’Onofrio
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Stampato nel mese di luglio del 2010
presso:
Tipografia Fd
via San Felice 18 a
40122 Bologna
051/227879
L’EDITORE INESISTENTE
c/o Davide Celli
Via dell’Unione 8
40126 Bologna
320/4731739
[email protected]
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