Erzsebet Bathory, sangue e perfezione
Transcript
Erzsebet Bathory, sangue e perfezione
Disponibile anche: Libro: 13,90 euro e-book su CD in libreria: 8,99 euro SIMONA GERVASONE Erzsébet Bàthory sangue e perfezione www.0111edizioni.com www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com Erzsébet Bàthory 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Zerounoundici Edizioni Simona Gervasone ISBN 978-88-6578-065-7 Il peggior sporco è quello morale: istiga ad un bagno di sangue. Stanislaw Lec La bellezza non è nel viso. La bellezza è nella luce nel cuore. Kahlil Gibran Temo che tutte le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà pura, più di qualsiasi altra cosa. I loro istinti sono meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma esse rimangono schiave sempre in cerca di un padrone. Amano essere dominate. Oscar Wilde La giovinezza non ha età. Pablo Picasso Dedico questo romanzo alla mia famiglia e alla mia prima figlia che nascerà a novembre. PREFAZIONE Parlare di horror, tanto in letteratura quanto al cinema, spesso e volentieri evoca nell’immaginario collettivo figure irreali che popolano più le antiche tradizioni o i nostri peggiori incubi che non la vita reale. Ma quando è la realtà a superare la fantasia, quando una leggenda affonda le proprie radici in fatti storici documentati, ecco che il discorso prende tutta un’altra piega e si intuisce che, alla base di “certe storie”, esiste sempre un fondo di verità. Uno degli esempi più classici è quello dei vampiri, esseri votati al Male che si aggirano nella notte assetati di sangue e che rimandano a certi miti dell’antichità come quello delle lamie: una delle rappresentazioni più moderne di questo archetipo è quella del nobile, o della nobi- le, che di giorno si comporta in maniera affabile e gentile e che di notte si trasforma nel terrore dei suoi concittadini. Questo modello prende la propria origine da personaggi realmente esistiti che hanno saputo creare e ritagliare intorno alla propria figura una sapiente miscela di arcano mistero leggendario e macabra e sanguinaria realtà. E’ il caso del conte Dracula, ispirato a un aristocratico rumeno noto per la sua fama di “impalatore dei nemici” che portava il nome di Drakul. E’ il caso della contessa ungherese Bàthory, soprannominata in epoca più recente e non a caso, “Contessa Dracula”. E’ il caso, raccontato con sapiente maestria, del nuovo romanzo di Simona Gervasone, eclettica scrittrice del fantastico in grado di passare da un genere all’altro con un’agilità di stile e linguaggio senza pari, riuscendo sempre a trasmetterci il cuore pulsante dei suoi protagonisti, siano essi buoni o malvagi. Anche stavolta, con la storia delle contessa Bàthory e della sua corte, Simona è stata capace di regalarci un’opera fantastica che trae a piene mani linfa vitale dalle leggende che a loro volta trovano riscontro in fatti storici documentati e realmente accaduti. Preparatevi a sorseggiare un dosato cocktail a metà tra fantasia e realtà, pronti a saltellare ora da una parte ora dall’altra del sottile limite che separa i due mondi. Preparatevi ad affrontare la famigerata “Contessa Dracula” in tutto il suo sanguinario splendore! Davide Longoni Webmaster www.lazonamorta.it PARTE PRIMA I 1597 Era una giornata splendida. Le pesanti tende di velluto vennero scostate per far entrare la luce del giorno nell’ampia stanza. Erzsébet scese dal letto senza degnare di uno sguardo la giovane cameriera che aveva l’atteggiamento spaventato di chi sa di essere una succulenta preda nella tana di una terribile belva. La cameriera sentiva come bruciare il punto della sua schiena in cui era agganciato lo sguardo crudele della sua padrona. Se lo sentiva addosso e anche senza voltarsi, sapeva che la donna era seduta, immobile sul bordo del letto. La giovane, con le mani che tremavano vistosamente, il respiro corto e le lacrime quasi sul punto di inondarle il viso, finì di legare la tenda. Quand’ebbe finito, si voltò di scatto col terrore dipinto in vol- to e se la ritrovò davanti. In piedi, con la cuffia da notte ancora calata sul capo. Lo sguardo ben piantato nel suo, l’espressione di chi sta fantasticando di sgozzare chi ha davanti. La giovane abbassò il viso fino a fissare il pavimento, una lacrima scese lenta nonostante lo sforzo per trattenerla. La contessa alzò solo una mano, indicandole la porta e la giovane sembrò riprendere a respirare solo in quel momento. Tremando come se si trovasse nuda in mezzo a una bufera di neve, corse verso la porta col cuore che batteva troppo veloce e il terrore di udire l’ordine di fermarsi prima che fosse fuori da lì. La contessa seguì la sua breve corsa fino a che la porta non si richiuse lasciandola sola. La sua attenzione venne catturata dalla macchia scura sul pavimento. Nonostante le erbe che avevano bruciato per tutta la notte spandendo il loro gradevole profumo, l’odore del sangue era ancora forte. Inspirò a pieni polmoni come se quel nauseabondo odore fosse il più piacevole mai sentito. Qualcuno bussò alla porta interrompendo questo suo rito mattutino. “Entra.” Disse aprendo di nuovo gli occhi su quegli alloggi grandi e freddi. Klàra entrò portando con sé un fumante intruglio di erbe e lo posò sul ripiano della toeletta. Erzsébet attese senza parlare che la giovane dai capelli lunghi e biondi strettamente intrecciati, le portasse la sedia. Si sedette con le mani in grembo e si voltò verso la finestra da cui entravano obliqui i raggi caldi del sole. Klàra recuperò la spazzola e il catino con l’intruglio fumante e prese a spazzolare i lunghi capelli scuri che avevano assunto riflessi dorati grazie alle lunghe ore passate a farsi pettinare sotto i raggi solari con quella pozione schiarente. La pelle bianca più del latte veniva protetta da una sostanza cremosa a base di grasso animale. Non amava discorrere con le sue cameriere né tantomeno amava vederle aggirarsi per il castello, ma vi era costretta. Quello che più di tutto amava, era scoprire una loro mancanza, un loro errore. Amava punirle e amava non sapere se e quando sarebbe finita la punizione. Aprì gli occhi che durante quella gradevole carezza ai capelli teneva chiusi e si vol- tò verso la vetrata. Nella zona più in ombra scorse il viso attento della fanciulla. Quanti anni poteva avere? Non lo sapeva, ma sapeva quanti anni aveva lei. Trentasette. Trentasette anni! Quella giovane non doveva averne più di sedici. Aveva la pelle liscia e bianca. Troppo liscia e troppo bianca per appartenere a una cameriera. E i capelli troppo biondi. Biondi come li avrebbe desiderati lei. Invece era costretta a stare lì seduta per ore ogni giorno per far sì che divenissero più chiari e mai e poi mai avrebbero assunto quello splendido colore che sotto i raggi del sole sembrava oro fuso. Digrignò i denti e s’irrigidì sotto le attente spazzolate. Klàra se ne avvide e rallentò i movimenti già temendo una possibile punizione. “Da dove vieni?” domandò asciutta, stupendo Klàra che quasi fece cadere spazzola e catino. La ragazza deglutì prima di riuscire a trovare il coraggio di rispondere. “Da Lèkà.” Rispose con un tremito, domandandosi perché mai la contessa fosse interessata a discorrere con lei delle sue origini. Erzsébet assentì muovendo appena il capo. Lèkà. Quanti orrendi ricordi legati a quel luogo che non poteva che farle venire in mente Orsolya. Aveva sprecato così tanti anni al cospetto di quella suocera glaciale e rigida da non ricordare neppure quanti. Tutta la sua gioventù, sprecata tra quelle mura a imparare le arti della padrona di casa, avendo sempre alle calcagna l’austera donna che più di ogni altra cosa desiderava una sposa degna di suo figlio. Erano lontani i tempi in cui scorazzava serenamente nella dimora dei propri genitori. Era stato a causa della morte di suo padre quando aveva appena dieci anni che sua madre, Anna Bàthory, decise di prometterla in sposa a Ferencz Nàdasdy, la cui antica famiglia era ricca e importante. Ricca per merito di suo suocero, Tomàs, grande palatino che aveva contribuito fortemente all’elezione dell’imperatore Ferdinando. La ricchezza venne proprio servendo gli Asburgo. E da povero e ignorante divenne ricco e colto, stu- diando addirittura all’università di Bologna. Il riflesso di Klàra divenne più nitido quando alcune nuvole passarono pigre davanti alla palla infuocata del sole. Erzsébet colse una fuggevole occhiata della ragazza. “Non trovi abbastanza interessante pettinare i miei capelli?” domandò acida. “Sì mia signora.” Rispose quasi ansimando per lo spavento. “Bugiarda!” sibilò tra i denti voltandosi di scatto e arpionando i polsi candidi della giovane in una stretta violenta. “Dorkò!” gridò e non passarono che pochi secondi che comparve sulla porta la figura sgraziata e goffa della donna. “Sì, mia signora?” “Chiama Ficzkò, subito!” ordinò strattonando la giovane che, con gli occhi sbarrati, si guardava intorno con la speranza di poter ancora fuggire. Dorkò uscì di corsa dalla stanza e i suoi passi veloci risuonarono nel corridoio del vecchio castello. Urla concitate e di nuovo passi che correvano nel senso opposto. La porta fu riaperta e Dorkò fece segno al deforme nano di entrare al cospetto della contessa. “Dove hai trovato questa giovane?” domandò prendendola per i capelli. “A Lèkà mia signora.” “Non portarmi mai più serve trovate in quel luogo! E’ ignorante, sporca e incapace!” “A qualcosa può servire mia cara.” Intervenne Dorkò ghignando. Qualcosa che poteva vagamente somigliare a un sorriso piegò gli angoli della bocca ancora bella di Erzsébet. Sì, a qualcosa poteva servire. Senza che la giovane se n’avvedesse e con la velocità di un rapace, Erzébeth sfilò l’attizzatoio dal suo supporto e, prendendolo a due mani, lo calò con violenza sul viso della giovane che urlò di dolore portandosi le mani al naso devastato. Con il solo sguardo e senza bisogno alcuno di parole, ordinò a Dorkò e Ficzkò di tenerla ferma. Gli occhi azzurri e grandi della ragazza saettavano dall’uno all’altro e con qualche parola biascicata tra i denti rotti e il sangue che sgorgava rosso e lucido, tentava di chiedere pietà. Bella, troppo bella. Con quella pelle così liscia e bianca. Bianca come non lo era mai stata quando lavorava ancora nei campi di Lèkà. Era grazie a lei se ora poteva permettersi di lavarsi e mantenere la pelle pallida di una nobildonna. Era grazie a lei se quei capelli biondi come l’oro mantenevano il loro splendore. Si voltò verso lo specchio, dove spiccavano le sottili rughe sulle fronte alta. Lei stava invecchiando e quello spreco di gioventù invece le sbatteva in faccia la sua perfezione! Ma Dorkò le aveva insegnato molte cose in tutti quegli anni. Molte cose che avevano limitato di molto i danni del tempo. Nonostante i suoi trentasette anni, manteneva ancora un aspetto giovane e la sua bellezza era ancora rinomata. Nessun uomo era mai rimasto impassibile davanti alla sua bellezza e sempre sarebbe stato così, grazie agli insegnamenti di Dorkò e alla sua predisposizione naturale. “Vi prego… mia Signora… vi prego…” piagnucolava la giovane. Aveva sentito di punizioni crudeli e terribili cui erano state sottoposte alcune giovani camerie- re e lei era sempre stata così attenta a non fare nulla che potesse attirare su di sé tali punizioni. Ma cos’aveva fatto? Era stata attenta! Sempre! Ma nemmeno immaginava cos’avevano in mente per lei. Niente spilloni infilati nelle carni, niente capelli strappati a forza, niente tagli sul seno o morsi alle cosce. Quello che l’aspettava era molto, molto peggio di tutto ciò che le era stato raccontato fino a quel momento. II Le urla percorrevano i corridoi, rimbalzando da una parete all’altra. Ogni serva si fermò e quasi smise di respirare. Ogni faccenda fu interrotta mentre quelle grida disumane arrivavano anche negli antri più nascosti a sollevare i peli delle braccia e i capelli sulla nuca. La contessa era di cattivo umore. Erano giorni che regnava la quiete e ognuna di loro si aspettava che da un momento all’altro sarebbe accaduto. Ognuna di loro desiderava solo starle più alla larga possibile. Nessuna aveva certo invidiato Klàra quando era stata scelta quella mattina per pettinare la contessa. Avevano sentito tutte chiaramente quando aveva chiamato Dorkò e questo poteva significare solo una cosa: le cantine. Tutte, chi più chi meno, avevano provato sulla propria pelle la crudeltà della contessa, ma nessuna era mai stata portate nelle cantine, perché tutte coloro che vi erano state condotte non erano più lì per poterlo raccontare. Insieme alle urla sembrava fosse arrivato un refolo gelido di morte. I passi nel corridoio fecero chinare la testa alle giovani serve che, senza proferir verbo, continuarono i loro servizi. Qualcuna di loro vide il nano sporco e puzzolente trattenere forte i capelli della giovane che per questo camminava con il busto chinato in avanti. Il viso si voltò un poco quando il suo sguardo incrociò le vesti di un’altra serva indaffarata, ma nessuno ebbe il coraggio di guardarla. Di incrociare quegli occhi azzurri e spalancati. Per paura di suscitare l’ira della contessa e per timore di non poter più prendere sonno con il ricordo di quegli occhi nella mente. Dorkò le serrava le braccia dietro la schiena in modo che non potesse liberarsi dalla stretta di Ficzkò. Erzsébet camminava ritta e composta dietro di loro come se nulla di strano stesse accadendo. Solo ogni tanto si portava la mano pallida al capo, su cui i capelli erano stati velocemente appuntati prima di uscire dalla stanza da letto. “Aiutatemi!” gridò la giovane che quasi non aveva più voce. Qualcuna pianse per lei; quelle che potevano perché più nascoste alla vista della contessa. Qualcuna rabbrividì soltanto, sperando di non dover mai avere a che fare ella stessa con la padrona di casa. Le scale ripide che conducevano nelle cantine erano prive d’illuminazione e Dorkò accese alcune fiaccole. Le pareti umide e coperte di muschio erano grigie e vischiose. L’aria stantia e pregna degli odori forti della paura e del sangue sembrava essere una presenze palpabile e concreta. Lunghe catene pendevano dal soffitto accanto alla lavanderia. “Legatela.” Disse. L’illuminazione dei ceri le feriva gli occhi che avrebbero preferito di gran lunga il buio sicuro e gradevole di poco prima, ma al contempo desiderava vedere. Vedere la paura negli occhi di quella lurida contadina. Voleva vedere il suo sangue e voleva fare tutto con calma, gustandosi ogni sua espressione, ogni sua occhiata e vederla mentre esalava l’ultimo respiro. Le braccia di Klàra vennero incatenate alte sulla testa da Dorkò mentre Ficzkò si occupava delle caviglie senza disdegnare qualche sporca carezza sulla carne tiepida delle gambe e su, tra le cosce serrate. La contessa lo lasciò fare e forse questa volta gli avrebbe anche permesso di rimanere un po’ da solo con il corpo esanime della ragazza. In fondo anche lui era un uomo e il suo aspetto orrendo e sporco di certo non gli dava modo di sfogare i suoi istinti con donne consenzienti. Appena finito di legarla, i due si allontanarono e lasciarono che la contessa soppesasse i vari strumenti di tortura appoggiati in modo ordinato sul tavolaccio contro la parete. Prese le pinze e con un cenno ordinò a Ficzkò di strapparle gli abiti. Ficzkò non se lo fece ripetere due volte e ridendo con cattiveria si avvicinò alla ragazza che ancora sperava di poter fare ritorno alla sua vita e che per questo rimase in silenzio anche quando sentì le mani piccole e callose strizzare i seni scoperti e insinuarsi tra le sue gambe. “Basta!” ordinò Erzsébet infastidita dalle troppe iniziative del nano. Ficzkò si allontanò e tornò al fianco di Dorkò che a mezza voce pronunciava uno dei suoi incantesimi. Erzsébet si pose di fronte alla fanciulla e attese che Dorkò finisse con la sua malia prima di affondare la pinza nella carne tenera dell’addome. Le urla divennero insopportabili, tanto insopportabili che Erzsébet posò la pinza e prese un grosso ago. “Vi pregoooooooooo…” piagnucolò la ragazza, ma l’ago entrò nella carne morbida del labbro inferiore mentre Dorkò la teneva salda. Le labbra furono cucite strettamente e il sangue scendeva copioso sul mento e sui seni grandi e pieni. Anche lei aveva seni pieni un tempo. Prima di avere quattro figli. Quei figli che non aveva mai desiderato, ma che era stata costretta ad avere per dare un erede ai Nàdasdy. Dorkò tagliò lo spesso filo e lo annodò in modo che la ragazza non potesse rovinare quell’accurato lavoro di cucito. La con- tessa si fermò davanti al tavolaccio e osservò con attenzione i vari utensili prima di scegliere un grosso coltello affilato e una coppa di ceramica. Diede la coppa a Dorkò e senza attendere un secondo incise in profondità il seno della giovane che ora non poteva far altro che gridare sommessamente lacerando ancora di più le labbra martoriate. Gli occhi stralunati non avevano più lacrime ed erano rossi e asciutti. Dorkò raccolse il sangue che sgorgava dalla ferita e quando ritenne che fosse abbastanza lo portò sul tavolaccio e vi aggiunse pizzichi di erbe essiccate pronunciando parole incomprensibili. Quand’ebbe finito, riportò la coppa dinnanzi a Erzsébet che bevve il sangue tutto d’un fiato facendolo colare sulla gorgiera d’argento nel quale spiccavano le perle bianche che ora si chiazzavano di rosso. La fanciulla chiuse gli occhi inorridita. Il suo sangue. Quel fluido scuro e denso che scorreva nelle sue vene e le dava la vita, stava scendendo nella gola di quella donna. Solo allora si rese conto che i suoi piedi sfioravano della ceramica e non la pietra grigia delle cantine. Un catino, molto grosso, simile a una vasca stava sotto di lei. Il suo sangue… il suo sangue… Il sangue era raccolto in quel catino incastonato nel pavimento di pietra e voluto fortemente dalla contessa. Il corpo dissanguato di Klàra venne buttato da parte come fosse solo spazzatura. La morte non era arrivata in fretta e tante erano le torture a cui era stata sottoposta prima che una taglio netto della gola ponesse fine al dolore, ai pensieri, alla speranza. Sì, perché la speranza era davvero l’ultima a morire; l’ultima ad abbandonare il corpo, addirittura dopo l’anima che già vagava alla ricerca di un luogo sicuro dove poter vivere per l’eternità. La speranza che tutto ancora poteva cambiare. Un uomo forte avrebbe potuto entrare e salvarla, magari avvertito da una delle altre serve. Magari il conte Nàdasdy e forse avrebbe fatto rinchiudere la contessa e magari sposato lei. La vecchia e orrida Dorkò avrebbe potuto pentirsi, sentire il richiamo di Dio e magari aiutarla a fuggire. Ficzkò avrebbe potuto scoprirsi innamorato di lei e colpire le sue due aguzzine con la scure che aveva lì di fianco. Oppure Erzsébet avrebbe potuto semplicemente fermarsi. Lasciare che vivesse. Ma tutto questo non accadde e mentre la luce si affievoliva e i suoi occhi diventavano fissi, ancora la speranza le sussurrava parole di conforto. Dorkò sparì verso le scale e tornò con due serve robuste che l’aiutarono a portare il grosso catino verso le stanze della contessa. Non fecero domande e fecero attenzione a non rovesciare nemmeno una goccia di quel prezioso sangue. Sapevano di chi era e sapevano che avrebbe potuto essere il loro. Ficzkò aspettava in disparte. “Prenditela. È ancora calda.” Disse la contessa senza voltarsi e dirigendosi anch’ella verso la scala. Ficzkò rise sguaiatamente e non attese di sentire richiudere la pesante porta che già abbassava i luridi pantaloni. Erzsébet percorse i corridoi; salì la scala. Al suo passaggio tutte le serve s’irrigidivano come se la mano fredda di uno scheletro si fosse poggiata sulle loro schiene. Tutte cercavano di darsi da fare con i loro compiti senza fare rumore e senza fiatare. Terrorizzate dall’idea di poter attirare in qualche modo la sua attenzione. Riprendevano a respirare e il cuore rallentava i battiti solo quando lei scompariva dietro un angolo o si chiudeva alle spalle una porta. Dorkò aveva già pensato a tutto. Il profumo di gelsomino aleggiava nell’aria, le candele rendevano più gradevole la fredda stanza. Le pesanti tende di velluto di Genova erano ben tirate per impedire che la luce del sole rovinasse quel rito così importante. Dorkò l’aiutò a liberarsi dell’abito e dei gioielli e l’accompagnò, nuda e bianchissima verso la vasca in cui era stato versato il sangue della serva. Erzsébet s’immerse nel liquido tiepido rabbrividendo. Certo se avesse potuto scaldarlo un poco… ma non si poteva. Si sarebbe rovinato. Doveva essere fresco e pulito per poter compiere il miracolo. Si lasciò lambire dal liquido vischioso mentre Dorkò le carezzava i capelli. “Più sono giovani e meglio è.” Disse con calma. “Giovani…” “Sì, giovani. Il sangue giovane nutrirà la vostra pelle candida come la luna e la renderà sempre più bella, sempre più levigata. Ogni segno lasciato dal tempo, dalle gravidanze verrà cancellato. La vostra pelle assorbirà l’essenza della loro giovinezza così come la terra assorbe l’acqua.” Erzsébet si lasciò massaggiare la schiena e le spalle. L’olio profumato fu versato nella vasca e si formarono ghirlande fatte di minuscole gocce lucide. Non ricordava quando era stata la prima volta che aveva provocato la morte. Era passato ormai troppo tempo. Ricordava solo di aver sentito una sorta di disagio che però era passato velocemente, lasciando il posto a una sensazione di benessere che sfiorava la beatitudine. Immerse le mani nel sangue quasi freddo e se lo portò al viso che prese a massaggiare con attenti movimenti circolari. Jò Ilona si sarebbe occupata del cadavere. Non aveva nulla di cui preoccuparsi se non prendersi cura del proprio corpo, nell’attesa che qualche uomo vi posasse gli occhi per desiderarlo e qualche donna per invidiarlo. III I colpi sulla porta lo svegliarono di soprassalto. Cosa poteva essere accaduto di così grave da svegliarlo nel cuore della notte? Janòs Ponikenus, pastore di Csejthe buttò da parte la pesante coperta e infilò le vecchie scarpe dirigendosi verso la porta. “Chi è? Sapete che ore sono?” domandò innervosito da tanta insistenza. “Sono io.” Sibilò Dorkò e subito Janòs si affrettò ad aprire la porta con il cuore che batteva all’impazzata. Era l’incubo di ogni pastore essere svegliato nel cuore della notte da quell’orrida strega che somigliava in modo impressionante a un demonio. Non che lui ne avesse mai visto uno, ma era certo che se fosse accaduto avrebbe colto la somiglianza con quella vecchia. Quando se la trovò davanti, i brividi lo percorsero in tutto il corpo. Ossuta, brutta e con addosso un odore nauseabondo, stava lì di fronte a lui con le mani piantate sui fianchi e il ghigno beffardo di chi sa che può chiedere qualsiasi cosa. “Cosa volete a quest’ora?” domandò Ponikenus cercando di non guardarla troppo a lungo per paura di non riuscire più a prendere sonno per il resto della sua vita. “Un funerale.” “Un funerale? Che non può attendere fino all’alba?” “No, non può attendere. La contessa ci tiene molto.” Sottolineò le ultime parole che suonarono come una minaccia. “Datemi il tempo di mettermi qualcosa addosso.” Rispose voltandosi e chiudendo la porta. Dorkò infilò un piede tra i battenti e fissò a lungo i suoi occhi da rapace in quelli del pastore prima di lasciare che quest’ultimo chiudesse la porta. “Vi aspetto qui fuori.” Concluse. Jànos avrebbe voluto dirle che, suo malgrado, conosceva la strada e non vi era alcun bisogno che rimanesse lì ad aspettarlo. Si sfilò la veste da notte e si buttò addosso gli abiti che aveva lasciato appoggiati con ordine sulla sedia. La stanza era fredda e umida e il pavimento di legno scricchiolava a ogni suo movimento. Si sedette sul letto per infilarsi le scarpe e invece si lasciò un attimo andare prendendosi la testa tra le mani e scotendola vigorosamente. Che cosa succedeva in quel castello? Perché tutti quei funerali alle ore più impensate? Che avessero ragione le tante voci che aveva sentito sul conto della contessa? Non lo sapeva. Non ne aveva idea. Sapeva solo che la donna che lo aspettava fuori dalla porta gli faceva venire i brividi più del freddo di gennaio. Che avesse ragione Andràs Berthoni, suo predecessore? Eppure gli era sembrata una donna così a modo. Così distinta e persino regale. La sua bellezza era imbarazzante, è vero, ma nulla si poteva dire del suo ineccepibile comportamento. E poi, Ferencz era un uomo così buono, coraggioso e di famiglia così distinta che non poteva credere che avesse in moglie una donna capace di torturare e uccidere come le voci dicevano. Per giunta, tutto quel gran chiacchiericcio proveniva da Vienna. Come la chiamavano? Die Blutgräfin… contessa sanguinaria. Forse avrebbe dovuto indagare un po’ più a fondo. Forti colpi alla porta lo riportarono alla realtà e all’incombenza che aveva da svolgere. S’infilò le scarpe in tutta fretta e uscì nell’aria gelida. “Seguitemi.” Sibilò Dorkò. Camminarono fino al castello, dove tre figure scure e immobili attendevano vicino a una malfatta cassa. Quando fu più vicino si accorse che una delle figure era Jò Ilona e le altre due erano donnoni grandi e grossi infagottati in pesanti mantelli. Senza dire una sola parola, le tre donne sollevarono la cassa e Dorkò fece cenno al pastore di seguirle. Camminarono ancora nella notte stellata. I residui dell’ultima nevicata scricchiolavano sotto il loro passo. Giunsero fino al cimitero che non era distante dal luogo da cui erano partiti. Perché farlo uscire in piena notte per venire fin lì quando avrebbero potuto portare la bara e chiamarlo dopo? Una delle donne inciampò e la cassa cadde rumorosamente a terra facendo saltare i chiodi mal messi. Ciò che vide lo lasciò di sasso. La ragazza all’interno della bara non doveva avere più di diciassette anni. Il viso era tumefatto, il naso rotto in più punti non sembrava far parte di quel viso, ma quello che più lo terrorizzò furono le labbra. Cos’aveva sulle labbra? Dorkò imprecò e subito le donne si misero all’opera per risistemare la cassa. Erano cucite… le labbra erano cucite… “Che cos’è accaduto a questa fanciulla?” domandò con un filo di voce. Non avrebbe voluto domandarlo. Aveva paura di domandarlo e sapere, ma le parole erano uscite dalla sua bocca senza che se ne accorgesse. “E’ caduta. Era una ragazza disattenta.” Rispose Dorkò fissandolo. Era caduta… caduta con le labbra cucite… Cos’avevano fatto a quella creatura? IV L’alba arrivò di nuovo, il cielo era pesante di neve. Erzsébet si fece pettinare come ogni mattina, dalle mani attente e tremanti di una servetta in carne. Era soddisfatta della cura di bellezza del giorno prima e forse, se la serva avesse commesso qualche errore, le avrebbe concesso la grazia. Forse. La serva non commise errori e pettinò i lunghi capelli con delicatezza e attenzione. Prese la retina di perle, la posò sulla sommità del capo e iniziò il lungo lavoro d’intreccio. Quand’ebbe finito, Erzsébet si rimirò allo specchio soddisfatta. Sollevò una mano per congedare la serva e attese che il suo posto venisse preso da una delle tante dame di compagnia, che si sarebbe occupata di massaggiarle il viso con le essenze velenose e sbiancanti di stramonio e poi di truccarla. Kata non la fece attendere. Entrò sempre guardando il pavimento e si affaccendò subito con gli arnesi da toeletta. Dopo ore di massaggi, le truccò gli occhi scuri con olio di nocciola e ravvivò le labbra con un unguento rosso brillante. Quando fu pronta congedò Kata che uscì dalla stanza. Ogni ragazza al servizio della contessa temeva quel momento. Terminata la seduta mattutina di bellezza, si sarebbe aggirata per il castello, osservando e valutando l’operato di ognuna e quasi sempre trovava qualcosa che non era fatto nel modo giusto. Qualcosa da punire. Qualcuno da torturare. Ma quel giorno era forse diverso perché passò nei corridoi senza degnare di uno sguardo le sarte al lavoro o la sguattera che lucidava il corrimano della scala. Erzsébet camminò lentamente nei corridoi, posando lo sguardo su ogni specchio che incontrava. Sembrava soddisfatta della propria immagine riflessa o forse lo era perché solo pochi attimi prima, un messo le aveva portato una proposta che mai avrebbe potuto rifiutare. Una delle più antiche famiglie ungheresi le aveva appena proposto che Anna, la sua figlia maggiore, andasse in sposa all’erede Miklòs Zrinyi. Dorkò si sarebbe occupata dei preparativi per il fidanzamento della figlia dodicenne. Dal fondo del corridoio giunsero dei passi pesanti e sicuri. Erzsébet si bloccò lasciandosi scappare un gemito. Si voltò per tornare indietro cercando di camminare veloce, ma senza dare a vedere che aveva fretta di andarsene da lì. “Contessa.” Salutò una voce profonda e tutt’altro che amichevole. Erzsébet si voltò e si trovò davanti all’unica persona al mondo che riuscisse a turbarla: Megyery il Rosso, tutore del suo ultimogenito Pàl di poco più di un anno. “Megyery.” Salutò lei voltandosi per continuare la sua ritirata. “Mi pare che abbiate molta fretta questa mattina. Ha forse a che fare con il fatto che vi è stato un funerale questa notte?” Erzsébet sgranò gli occhi e fece un passo indietro, ma immediatamente si ordinò di mantenere i nervi saldi. “Non capisco che cosa intendiate, ma vi consiglio di occuparvi del vostro compito e non degli affari che non vi riguardano.” Megyery sorrise fissandola negli occhi con insistenza. Aveva capito che cosa stava accadendo in quel castello e prima o poi avrebbe trovato il modo di far giungere quelle notizie alle orecchie di chi di dovere. Era solo questione di tempo e anche lei lo sapeva. Glielo leggeva negli occhi. Avrebbe posto fine a quei diabolici massacri. Era stata una giovinetta di tredici anni a confidargli ciò che accadeva nelle cantine del castello. Erano pochi mesi che si occupava dell’educazione dell’erede Nàdasdy e come tutte le mattine, stava godendosi una sostanziosa colazione a base di pane appena sfornato e vino caldo aromatizzato. La giovinetta aveva attraversato le cucine piangendo e singhiozzando e si era rintanata in un angolo della dispensa. Di corsa dietro di lei era giunta Jò Ilona con il suo passo pesante e il fiato corto. Si era guardata intorno mentre lui la osservava con un’espressione che era un misto d’orrore e fastidio. “Cos’avete da fissarmi?” aveva domandato brusca. “Puzzi.” Aveva risposto lui con un’espressione di disgusto e scostando i rimasugli di colazione che non aveva più voglia di finire. La donna lo incenerì senza rispondere e continuò a perlustrare la cucina in lungo e in largo. Quando fu abbastanza vicina alla dispensa, Megyery il Rosso non poté non fare nulla. “Esci dalla cucina se non sei capace di lavarti.” Aveva tuonato. “Cosa? Voi ordinate a me di uscire dalla cucina?” “E’ esattamente ciò che ho appena fatto.” Jò Ilona aveva supposto che la ragazza non fosse in cucina dato l’atteggiamento sicuro dell’uomo, ma una volta sulla soglia si era voltata ancora. “La contessa non sarà felice di sapere del vostro atteggiamento.” E se n’era andata battendo forte i piedi con la sua grossa mole. Megyery si era avvicinato alla porta e aveva sbirciato per vedere se realmente la donna si fosse allontanata prima di dirigersi verso la dispensa e scostare la pesante tenda. La ragazza non doveva avere più di tredici anni. Era rannicchiata in un angolo, tremante e piangente. “Vi prego…” aveva sussurrato, tirando su col naso. “Vieni. Non avere timore. È andata via. Cos’è accaduto per sconvolgerti a tal punto?” La ragazza aveva ripreso a piangere nonostante lo sforzo visibile di ritrovare il contegno. “Judith… l’hanno uccisa…” “Cosa?” Megyery aveva sorriso incredulo “Sei certa di ciò che dici?” Aveva sentito parlare delle pesanti punizioni inflitte dalla contessa alla servitù che commetteva errori, ma non credeva che si sarebbe mai spinta fino a tal punto. Forse la ragazza aveva visto mettere in atto una di queste famose punizioni e aveva tratto conclusioni affrettate. Per questo motivo, si fece accompagnare dalla ragazza nelle cantine e ciò che vide gli tolse ogni dubbio. Una giovane dai capelli rossi e ondulati era legata a pesanti catene che scende- vano dal soffitto. Larghe pozze di sangue si allargavano sotto i suoi piedi martoriati. I segni di centinaia di bruciature ne ricoprivano il corpo morbido. Megyery si era avvicinato col cuore che batteva all’impazzata e la bocca secca. La ragazza aveva due spilloni piantati negli occhi sbarrati e uno più spesso trapassava la lingua rosea. “Per l’amor di Dio… chi è stato a fare questo?” sussurrò più a se stesso che alla ragazza che lo aveva accompagnato a vedere quello scempio. “La contessa e Dorkò.” Piagnucolò la giovinetta. La colazione minacciò di abbandonare il suo stomaco. Già alcune mosche passeggiavano frenetiche sulle ferite aperte. Si premette una mano sulla bocca e tornò sui suoi passi prendendo per mano la giovinetta tremante. Un rumore di passi li gelò. Megyery aveva fatto segno alla ragazza di fare silenzio e tirandola da una parte si erano nascosti in un antro buio. Ciò che avevano visto dopo era stato anche peggio. Ficzkò era giunto in compagnia di Jò Ilona e insieme avevano liberato le braccia della fanciulla. L’avevano stesa a terra e con un cenno d’intesa, la vecchia donna aveva abbandonato le cantine lasciando che Ficzkò approfittasse di quel corpo defunto. A quel punto Megyery aveva vomitato. Che cosa avrebbero fatto alla creatura che aveva per mano una volta che l’avessero trovata? Non voleva saperlo, ma poteva fare qualcosa. “Vattene. Scappa subito e non fare parola di ciò che hai visto con nessuno.” Le aveva detto, spingendola fuori. La fanciulla si era guardata attorno infreddolita mentre la neve cadeva candida e leggera e poi era corsa via. Quello stesso pomeriggio, la contessa l’aveva fatto chiamare nei suoi appartamenti e già Megyery immaginava di cosa gli volesse parlare. “Chi credete d’essere?” era stata la prima domanda che la donna aveva posto. “Perdonatemi, ma non capisco che cosa intendete.” Aveva risposto beffardo. “Non fate finta di non capire. Jò Ilona mi ha messo al corrente del vostro at- teggiamento e voglio che sappiate che su certe cose non transigo.” Megyery aveva sorriso e un’espressione di puro stupore si era dipinta sul viso della contessa. “Che cos’avete da sorridere?” “Ho avuto modo di vedere con questi stessi occhi il fatto che su certe cose non transigete. Forse, se anche vostro marito ne venisse a conoscenza…” Per la prima volta, la contessa era parsa spaventata. “Conosce le punizioni che uso impartire alle serve inette.” “Sì, ma forse non sa fino a che punto si spingono e forse non sa che un lurido nano approfitta dei loro corpi martoriati quando già la vita li ha abbandonati.” La contessa ebbe un sussultò e sgranò gli occhi. “Andatevene.” Aveva tuonato. “Come desiderate.” Era stata la sua laconica risposta. Da quel momento in avanti, la donna aveva cercato di non incontrare mai il tutore di suo figlio lungo i corridoi del castello e non vedeva l’ora che si levas- se dai piedi per andare a stare nel castello di Sàrvàr. “Se vi è stato un funerale non credo che sia vostro interesse parlarne.” Lo ridestò dai suoi pensieri. “E’ strano che troviate sempre domestiche di salute così cagionevole. Siete sfortunata contessa.” Sibilò lasciando intendere che non avrebbe mollato la presa. “Ora dovete scusarmi Megyery, ma devo occuparmi di cose ben più importanti delle vostre fantasie.” Terminò ripercorrendo il corridoio con passo deciso. Megyery rimase a fissarla a lungo mentre la figura scompariva nel buio del lungo corridoio. Quale stregoneria la manteneva così bella e perfetta? Si domandò. V La cerimonia di fidanzamento era stata un gran successo e ora, Anna aveva raggiunto la famiglia del suo futuro marito. Un grattacapo in meno al castello. Erzsébet si sedette sul bordo del letto. Era inquieta. Erano passati mesi dall’ultima visita di suo marito e altrettanti mesi dall’ultimo viaggio a Vienna. La noia minacciava di ucciderla proprio come le succedeva quando, ancora ragazzina, era costretta nel castello di Lèkà con Orsolya. Aprì il baule e tirò fuori tutti gli abiti in esso contenuti. Stupendi velluti di Venezia, corsetti tempestati di perle bianchissime. “Kata!” gridò. “Sì mia signora.” “Devo cambiarmi d’abito.” “Sì mia signora.” Kata scomparve e tornò poco dopo accompagnata da due giovanissime sarte. “Chi sono?” domandò guardandole di traverso e con tono basso. “Elanhia e Anna.” “Quanti anni hanno?” “Dodici e quattordici.” “Devono riprendere questo abito.” Disse facendo segno a Kata di aiutarla a indossarlo. Senza pudore, rimase nuda e bianchissima al centro della stanza mentre Kata l’aiutava a infilare il pesante abito di velluto rosso cupo. Le giovani sarte mantennero lo sguardo fisso a terra per timore di suscitare le sue ire e fecero bene perché un solo sguardo avrebbe provocato la sua reazione spropositata. Quando l’abito fu indossato e ben stretto sul petto, la contessa ordinò loro di eliminare i difetti. Le due giovani si avvicinarono con il necessario già pronto. Aghi appuntanti sul corsetto, fili colorati che uscivano dalle tasche. Si scambiarono uno sguardo impaurito quando ebbero finito di controllare l’abito da ogni lato. Non vi era alcun difetto visibile e non potevano far finta di averne trovato uno a caso sulla spalla perché la contessa poteva non averne notato uno lì, ma in vita o sul petto. “Cos’avete da guardare? Cosa state aspettando? Io non ho tempo da perdere!” tuonò. “Sono ancora inesperte contessa.” S’intromise Kata non senza cattiveria. “Io non ho bisogno di sarte inesperte in questo castello!” Le ragazzine fecero un passo indietro, ognuna augurandosi che fosse l’altra a subire la punizione. La contessa si voltò verso di loro, osservò i loro visi impauriti e questo la fece infuriare ancora di più. Odiava quegli sguardi terrorizzati ed ebeti. Odiava quelle pelli bianche immeritate, ma più di tutto, odiava le sarte incapaci. Con un movimento repentino lasciò andare un manrovescio a entrambe. La più piccola si lasciò sfuggire un grido mentre Anna represse il pianto con stoicismo. Elanhia… aveva l’età di sua figlia pensò, ma questo non fermò la sua mano che prese il polso della ragazzina e la strattonò con violenza, tanto da farle perdere l’equilibrio. La lasciò cadere come un sacco e sbattere il viso sul pavimento freddo prima di portarsi le mani alla testa e gridare con tutto il fiato che aveva in corpo e tutta la rabbia del mondo. “Portala via!” gridò, indicando la più grande che non riusciva a credere d’essere stata risparmiata. Non c’era spazio per la pietà. Non avrebbe fatto nulla per difendere l’altra sartina. Avrebbe solo trovato un posto sicuro e si sarebbe messa a piangere per il sollievo. Kata allontanò la ragazza e chiamò Jò Ilona e Dorkò che entrarono nella stanza con le tende tirate. “Cosa accade mia signora?” domandò Dorkò. “Abbiamo una sarta che non sa fare il suo mestiere. Questo è inammissibile!” Dorkò sogghignò e si avvicinò alla ragazzina che piangeva sommessamente tenendosi le braccia strette al corpo. La prese per i capelli e tirò con forza, quasi sollevandola da terra. “Incapace, sporca, piccola puttana.” Sibilò tra i denti marci. “Battetela finché non si accorgerà del difetto di quest’abito.” Jò Ilona sorrise crudelmente e raggiunse Dorkò che già schiaffeggiava la ragazzina. Ella, impaurita tentava di difendersi alzando le braccia paffute, ma gli schiaffi, i graffi, gli strattoni arrivavano da tutte le parti. Dorkò le piantò le unghie sporche e lunghe nella pelle rosea della guancia e tirò con forza fino a staccare brandelli di carne sanguinante. “Basta!” gridò la contessa. “Ora vedi il difetto?” Elanhia, squassata dai singhiozzi, tenendosi le mani sul viso sanguinante si avvicinò all’abito e con la forza della disperazione osservò con occhio attento fino a individuare un lievissimo difetto nel corsetto, di fianco a una delle tante perle. Con la mano che tremava tanto da non riuscire a indicare un punto ben preciso, avvicinò l’indice all’impercettibile grinza. La contessa sorrise soddisfatta. “Toglilo.” Sibilò mentre Dorkò e Jò Ilona ghignavano soddisfatte. Quando la sartina ebbe finito il suo lavoro, venne letteralmente scaraventata fuori dalla stanza. La contessa si rimirò soddisfatta nello specchio, ma subito dopo si accorse che anche quel passatempo era terminato. La noia tornò ad agitare il suo animo. La noia e il desiderio. Quanti mesi erano passati dall’ultima visita di suo marito? Non li contava più. Dorkò parve comprendere al volo ciò di cui la sua padrona aveva bisogno. “Vi chiamo Lazlo?” La contessa assentì senza voltarsi. VI Lazlo si stava occupando del cavallo della contessa. Come tutte le mattine, lo pettinava, gli dava la biada, lo spazzolava e immaginava di essere al posto del cavallo quando la contessa partiva al galoppo, diretta verso la foresta. Non che non avesse mai avuto l’onore. Lo aveva avuto eccome! D’altra parte, come poteva una donna così bella e sensuale rimanere tanto a lungo senza un uomo nel letto? Suo marito faceva ritorno al castello molto di rado e gli impegni mondani non erano poi molti in certi periodi dell’anno. Sentì il passo pesante e riconoscibile di Dorkò che attraversava il cortile. Odiava quella donna! Vecchia, sporca e odiosa strega! “Lazlo!” lo chiamò. “Sì?” Rispose lui senza voltarsi e continuando a spazzolare il cavallo nero. “La contessa ti attende.” Comunicò sogghignando e mettendo in mostra i pochi denti neri che le rimanevano. Lazlo sorrise tra sé e posò la spazzola. Diede due pacche al cavallo e pensò che i suoi desideri erano stati esauditi. Senza farselo ripetere, oltrepassò la donna e corse verso l’entrata del castello. Molte serve erano all’opera in giro per le stanze. Passò accanto a Elanhia e le palpò il sedere sodo. La ragazzina si girò disgustata, ma senza lamentarsi o allontanarsi. Il viso ancora tumefatto e pieno di segni rossi ancora freschi gli fece capire che aveva combinato qualcosa di molto grave. Sapeva delle punizioni, ma questo non faceva che rendere ancora più affascinante quella donna austera e bianca come il latte. Salì la scalinata saltando i gradini a due a due e in men che non si dica si ritrovò dinnanzi alla porta delle sue stanze. Bussò con garbo e attese di essere invitato a entrare. “Avanti.” L’abito rosso cupo giaceva ai piedi del letto e la figura bianca di Erzsébet spiccava persino sulle lenzuola di lino che non potevano paragonarsi al biancore della sua pelle. Non era donna da farsi corteggiare o da fingere disinteresse per il sesso. Un’altra al suo posto avrebbe finto di averlo chiamato per qualche mansione, si sarebbe fatta adulare e corteggiare prima di iniziare a cedere al potere della carne, ma lei no. Lei non amava perdere tempo in quelle assurde ballate di passione. Lei amava andare al sodo e Lazlo gliene era grato. Non conosceva l’amor cortese e non sapeva che farsene di una donna frivola e civettuola. Senza proferir verbo, si strappò gli abiti di dosso e si gettò sull’alto letto a baldacchino con i suoi pesanti intarsi di legno scuro. “Siete meravigliosa.” Sospirò, già palesemente desideroso di farla sua. “Massaggiami la schiena.” Gli ordinò porgendogli una boccetta di unguento profumato. Lui sospirò reprimendo un sorriso e si versò maldestramente l’olio profumato sulle mani callose. Sapeva di stalla, di lavaggi poco frequenti e di maschio, mentre lei aveva addosso un forte profumo di gelsomino che nascondeva l’odore forte della pelle lavata con sangue e delle creme a base di grasso animale. Lazlo prese a massaggiarle la schiena liscia. Con la mano callosa seguì la linea della spina dorsale fino a scendere sui glutei morbidi. Come faceva a conservare una tale bellezza nonostante l’età? Si domandò mentre massaggiava e lentamente la sua mano scendeva e s’insinuava tra le gambe. Erzsébet gemette. Vogliosa come e forse più di lui. Desiderosa di sentire un uomo dentro di lei. Desiderosa di godere e di vedere negli occhi dell’altro, la passione più sfrenata. Sentì le dita ruvide accarezzarla nel più intimo e dischiuse le gambe per agevolare le carezze che le davano piacere. Lazlo le baciò la schiena, il collo, i capelli e si sdraiò sopra di lei. Lei amava il sesso “fatto come gli animali”, per questo Lazlo non si preoccupò di farla voltare nella classica posizione del missionario. Già umida, si inarcò e lasciò che lui la penetrasse con foga. Niente preliminari con lei… non servivano. Non fecero l’amore. Fecero sesso, puro e semplice. Senza se né ma. Senza vie di mezzo. Gridando e contorcendosi; spingendo e ansimando. Come due bestie in cerca solo del culmine. E il culmine arrivò una volta e poi una seconda e anche una terza per tutti e due. Forse quel desiderio animale era di famiglia. Un po’ come la gotta oppure l’epilessia che a quei tempi aveva un nome molto meno scientifico: crisi del cervello. Forse il fatto stesso che fosse figlia di due cugini non aveva fatto che renderla ancora peggiore. Non era l’unica infatti a denotare un carattere particolarmente crudele e cupo. Lo zio Stefano, re di Polonia aveva sempre sofferto di queste crisi. Lo zio Istvàn era un ladro, bugiardo e arrivista che per un periodo fu palatino di Transilvania e dalla quale fuggì portando con sé tutto il denaro che riuscì a trovare. Gàbor, suo cugino e re di Transilvania era anch’egli di una crudeltà inaudita e finì ucciso tra le montagne, ma non prima di aver dato libero sfogo all’incestuosa passione per la sorella Anna. Un altro Gàbor, zio questa volta, passò la vita a tentare di scacciare il demonio che sentiva avere dentro di sé. E poi c’era Klàra, zia prediletta di Erzsébet che dopo quattro mariti, svariati amanti non si limitò a portare nel proprio letto degli uomini e iniziò la stessa Erzsébet all’amore fra donne. Non erano dello stesso stampo i suoi genitori che pur essendo cugini, si amarono rispettosamente per molti anni. Gyorgy era solo l’ultimo di tre mariti per Anna e apparteneva al ramo Ecsed, mentre Anna al ramo Somlyò. Erzsébet quindi non disdegnava avere nel letto una delle damigelle, ma c’erano dei momenti in cui non le bastava. Dei momenti in cui desiderava quello che le poteva dare solo un uomo e ne desiderava anche gli odori, il tono di voce, la barba ispida, le mani callose. Lazlo faceva al caso suo. Ignorante, ma prestante. Forte e dotato. Più giovane di lei di cinque anni, la guardava con adorazione ogni volta che s’incrociavano al di fuori del castello. Nei suoi occhi leg- geva passione e adorazione e questo lei voleva. Voleva essere venerata come una dea. Rimanere per sempre sulla pelle del mondo senza per questo subire i ricatti del tempo. Lazlo si alzò dal letto sfatto e passo i polpastrelli callosi sulla schiena di Erzsébet che pareva dormire. “Siete stupenda. Bellissima e le vostre bocche sono entrambe voraci e lussuriose. Siete sprecata per un solo uomo.” Sussurrò posandole un bacio umido sulla schiena. VII Gli aveva scritto tante lettere in cui non mancava mai di tenerlo aggiornato su tutto ciò che accadeva al castello. Non proprio tutto forse, perché lui non avrebbe capito certi suoi passatempi. Tutti erano in gran fermento per il suo ritorno. Le serve non facevano che lustrare e riordinare, le cuoche cucinavano con perizia la cacciagione ed Erzsébet riposava, coperta da cataplasmi di belladonna. Il viso massaggiato dalle mani sapienti di Natò, la sua dama di compagnia prediletta, ma non per questo risparmiata dalle punizioni. Desiderava vederlo? Sì, ma allo stesso tempo, sapeva che la sua presenza le avrebbe precluso per tutta la sua permanenza al castello, una parte importante della sua vita. Le mani scivolavano sulla sua fronte alta mentre le foglie di belladonna sbiancavano e ammorbidivano la pelle del corpo. Erzsébet digrignò i denti, presa da un moto di rabbia inaspettato e devastante come un fulmine senza nubi. Sangue… di questo avrebbe avuto bisogno in quel momento. Da spalmare sul proprio corpo. Sangue da cui assorbire l’essenza vitale, ma non c’era tempo. Sarebbe arrivato da un momento all’altro. Forse però avrebbe almeno potuto scaricare l’ira che sentiva crescerle dentro come una malattia mortale che le avvelenava l’anima. Forse per quello un po’ di tempo lo aveva ancora. “Fa venire Judith.” Ordinò portandosi le mani al capo preso nella morsa di fitte lancinanti che altro non erano che il preavviso di una sfuriata. Natò si ripulì le mani unte sul grembiule ricamato e senza far passare un solo secondo, si diresse verso la porta e uscì. Tornò pochi minuti dopo. Sul suo volto era dipinta l’ansia che l’aveva presa quando non aveva trovato Judith nella stanza dei ricami, ma solo dopo aver cercato in ogni altra stanza del primo piano. Ci aveva messo troppo tempo? “Falla avvicinare.” Ordinò Erzsébet senza voltarsi, fissando sempre con ostinazione il soffitto della stanza. Natò spintonò la giovane che incespicando e guardandosi attorno nervosa, si avvicinò alla contessa. “Mia signora…” sussurrò terrorizzata. Ancora recava i segni delle percosse subite da Dorkò la settimana precedente. Senza preavviso e con un movimento repentino e collerico, la contessa si mise in posizione seduta facendo scivolare i cataplasmi dal petto che rimase nudo. Le afferrò un braccio e strappò la manica. Judith fu tentata di ritrarre il braccio, ma non ebbe il tempo di mettere in atto quel pensiero che già i denti della contessa affondavano nella carne morbida dell’avambraccio. Judith gridò, con gli occhi che si riempivano di lacrime, ma non tentò di divincolarsi, immaginando per questo una punizione ben peggiore di un morso e forse eterna. La contessa scosse la testa come un lupo rabbioso e strappò la carne pallida quasi fino all’osso. Lasciò il braccio della serva e masticò avidamente la carne calda e sanguinolenta socchiudendo gli occhi grandi e scuri. Natò rimase immobile accanto alla porta rabbrividendo di terrore e disgusto, mentre Judith si portava il braccio martoriato al petto e con profondi singhiozzi premeva la ferita. “Vattene!” gridò allora la contessa infastidita ora dalla sua presenza, quasi come se fosse stata interrotta nel bel mezzo di una rilassante seduta di bellezza per volere della serva stessa. Judith corse via piangendo e premendosi il braccio che sanguinava copiosamente. “Cosa fai lì impalata? Abbiamo ancora molte cose da fare!” aggredì Natò. Natò torno accanto alla contessa e con le mani che tremavano, ricominciò il suo massaggio. Quando ritenne che la seduta fosse durata abbastanza, ordinò a Natò di prendere l’abito di velluto avorio e rosso. Il suo corpo venne sciacquato con acqua profumata e i capelli pettinati e unti con unguenti al gelsomino. L’abito, di una bellezza impeccabile, venne stretto sul busto. Natò le infilò le scarpe un momento prima che un gran trambusto al piano di sotto indicasse che il momento era arrivato. Ferencz era al castello. Erzsébet era invasa da sentimenti in netto contrasto tra di loro. Non era amore quello che sentiva per il marito. Non aveva mai provato quel sentimento per nessuno e non credeva esistesse davvero. Credeva piuttosto che fosse una bugia, inventata per far da cornice alle ballate e alle storie che aveva sentito raccontare e che venivano dai salotti italiani. Lo rispettava… questo sì. Sentiva rispetto e fastidio al contempo. Rispetto per quel guerriero coraggioso e bello. Scuro di capelli e dal portamento fiero. E fastidio. Fastidio per il suo intrufolarsi nella sua vita al castello, rovinandole i piani. “Mia signora…” la salutò lui rimanendo ai piedi della scala. “Mio signore.” Lo ricambiò lei con un cenno del capo riccamente adornato. “Gradite una coppa di vino?” domandò lei da buona padrona di casa. “Perché no!” rispose sorridendo e fissando quegli occhi misteriosi e profondi. Anche lui non poteva dire di provare amore per quella donna rigida e distante, ma una sorta di passione malata. In quegli occhi vedeva il fuoco dell’inferno. Lingue che si toccavano, labbra che si schiudevano. Urla di piacere e gemiti. La considerava un’ottima padrona di casa. Severa, ma giusta. Sorrideva ai racconti delle punizioni inflitte alla servitù e che mai si avvicinavano davvero a ciò che accadeva veramente al casello di Csejthe. L’aveva conosciuta quando lei aveva dodici anni ed era poco più che una bambina. L’avevano scelta come sua sposa anche se lui era ben distante dal considerare l’idea del matrimonio. Eppure sapeva di doverlo fare. Era l’unico figlio maschio dei Nàdasdy ed era indispensabile che portasse avanti il nome di famiglia. Troppo impegnato nelle battaglie contro i Turchi già allora, tornava a casa di rado. Ogni volta che tornava, scopriva una nuova Erzsébet. Più grande, più matura, più istruita e con una carica erotica che non faceva che accrescere il suo desiderio di matrimonio. Quando si sposarono, lei aveva quindici anni ed era nel pieno della sua giovane bellezza. Non aveva potuto fare a meno di ammirarla nel suo abito nuziale e immaginarla senza. Ma tutto ciò che aveva immaginato, nemmeno si avvicinava a ciò che lei gli aveva fatto provare tra le coltri del letto a baldacchino che avevano diviso la prima notte di nozze. Nulla al confronto delle sue passate esperienze “amorose”. Nemmeno la più consumata delle prostitute era andata così vicino a farlo impazzire di piacere. Non poteva che essere grato ai suoi genitori per la scelta che avevano fatto. Non tornava al castello molto spesso. C’era sempre qualche battaglia da portare avanti. Qualche turco da uccidere. L’Ungheria da proteggere. Ma quando tornava, sapeva che avrebbe passato giornate di festa. Cibo ben cucinato, vino a fiumi, risate, passeggiate a cavallo e sesso. Tanto sesso sfrenato. Il desiderio che le leggeva ogni volta negli occhi, bastava a fargli credere che lo a- masse e che non attendesse che lui per dare sfogo alla sua sana libido. Certo non immaginava la tresca con Lazlo o le giovinette con cui si intratteneva quando non aveva voglia di Lazlo. Erzsébet scese con grazia gli scalini. Ferencz le porgeva la mano e lei la prese con garbo. Entrambi sentirono una scarica di energia che percorreva i loro corpi desiderosi l’uno dell’altro. Ma non potevano ascoltare quel richiamo come animali. Vi era tutto un rituale fatto di buona educazione da seguire scrupolosamente prima di lasciarsi andare ai propri istinti, al riparo delle spesse pareti della camera da letto. Scendendo insieme la scala si diressero verso il lungo tavolo che avrebbe ospitato la cena con ogni ben di Dio. Con uno scampanellio, Erzsébet chiamò la serva addetta alla cucina e ordinò due bicchieri di vino speziato. Ferencz si stupiva sempre dell’innato atteggiamento da padrona di casa della moglie. Non mancava di riservare sempre un’occhiata profonda e severa alla servitù che pareva avere di lei molta soggezione e forse anche un po’ di pau- ra. Tutto filava liscio al castello proprio per questa ragione, pensava. Una donna forte e capace, non avvezza ai piagnistei soliti delle altre donne o a crisi di debolezza. Erzsébet non gli dava questi pensieri. Sapeva che, anche sola e distante da lui, non faticava a tenere a bada servitù, figli e l’intero paese se fosse stato necessario. Già… i figli… “I nostri figli?” Erzsébet osservò silenziosa la donna grassa e rosea che posava le due coppe di vino aromatizzato con cannella, chiodi di garofano e miele. Solo quando ella se ne fu andata, sollevò i suoi occhi cupi verso il marito che attendeva risposta. Anche gli occhi di lui erano profondi, ma in fondo buoni, umani. In essi si scorgevano i normali sentimenti che scuotono l’animo di ogni uomo, ma in quelli di lei… un mondo ignoto e senza fine si dibatteva dietro quelle iridi scure. “Stanno bene.” Fu la sua risposta concisa. “Anna?” “Ho ricevuto una sua missiva ieri. Si trova molto bene con la sua nuova fa- miglia e pare non veda l’ora di convolare a nozze.” “Ne sono lieto. Non c’è nulla di meglio che trovare la persona giusta per dividere la propria vita in eterno.” Sussurrò guardandola fissa. Erzsébet socchiuse gli occhi, come se dita invisibili le stessero sfiorando il corpo sinuoso. Reclinò il capo come a voler godere di quelle carezze inesistenti. “Vi desidero…” sussurrò ancora Ferencz sentendo l’eccitazione diventare troppo impetuosa per poter ancora attendere. Erzsébet fece un passo indietro e si addosso alla parete fredda. Un brivido la percorse in tutto il corpo. Anche lei non voleva più aspettare. Complice il bel portamento di lui, i suoi occhi profondi e vogliosi, la sua barba scura e che lo faceva somigliare a un dio guerriero e quella voce lenta e profonda che sembrava volersi insinuare in ogni parte del suo corpo. Percepì il respiro di lui sul collo dove la gorgiera d’argento terminava in sapienti ghirigori. Sentì le sue mani grandi e callose che le si posavano sui fianchi. Niente esisteva più attorno a loro. Esistevano solo più i loro corpi. Il loro desiderio. Erzsébet si ritrasse di scatto. “Cosa vi prende?” le domandò Ferencz con disappunto. “Non è il luogo adatto per questo genere di cose. Voi mi tentate. Mi spingete a fare cose che non si dovrebbero nemmeno pensare in pubblico.” Disse asciutta, nascondendo quella parte di sé che invece non teneva in nessun conto il buon costume. “Avete ragione. Perdonatemi.” Rispose Ferencz, violentando la propria eccitazione. “Bevete il vostro vino finch’è tiepido.” Consigliò lei abbozzando un sorriso che sembrò più una smorfia. Forse l’abitudine a non sorridere mai aveva in qualche modo fatto sì che i muscoli del viso non fossero più in grado di farlo. Bevvero il vino e parlarono dei loro figli. Pàl cresceva, Kata diventava una signorina come anche Orsolya. Non venne mai menzionato il nome di Megyery il Rosso nonostante Erzsébet sognasse di vederlo infilzato dalla spada di Ferencz. “Desiderate fare una passeggiata?” domandò lei posando la coppa vuota. “Sì, una passeggiata è forse quello che ci vuole.” Disse non senza un pizzico d’ironia. Uno scampanellio prodotto dalla contessa fece accorrere Kata. “Portami il mantello.” Disse asciutta. Kata ritornò quasi di corsa, con il mantello di velluto e pelliccia e glielo posò sulle spalle senza che lei muovesse un solo dito per agevolarle il compito. Ferencz ammirava quel modo austero e la desiderava ogni volta di più. Desiderava domare quel corpo bianchissimo e quel carattere forte e ribelle che tra le lenzuola diventava caldo e arrendevole oppure aggressivo e selvatico. Era come farlo con donne diverse e contrapposte allo stesso tempo. Era come cambiare donna ogni volta. Forse per questo non smetteva di desiderarla nemmeno quando giaceva con una prostituta nel cuore dell’accampamento da guerra. Sempre lei nei suoi pensieri. Sempre lei, muta e bellissima, con il suo corpo nato per fargli sfiorare il piacere più alto. Riprese anche lui il proprio mantello e le porse il braccio. Il cielo era terso e non minacciava più di nevicare come nei giorni passati. Sembrava un abbozzo di primavera e le chiazze di neve, giacevano semisciolte ai bordi della strada. Passeggiarono in silenzio, guardandosi attorno. I rami spogli degli alberi si stagliavano netti sul cielo azzurro. Il rumore delle sterpaglie appena riapparse dai cumuli invernali di neve scricchiolavano come se fossero percorsi da piccole lepri. Le orme di un lupo percorrevano la loro stessa strada. Ricordava l’ultima volta che avevano percorso quel sentiero. Era successo poco prima di ottobre dell’anno passato. Faceva già freddo eppure una donna completamente nuda stava al centro della radura. Aveva guardato accigliato e poi si era voltato verso Erzsébet che non appariva per nulla stupita da quella visione. “Chi è quella donna?” le aveva domandato incredulo. “Una serva.” Aveva risposto lei seria. “Che cosa fa una serva nuda in mezzo al bosco?” “Ha rovesciato e rotto un vaso di miele. È una punizione.” Ferencz aveva guardato il corpo della donna che si lamentava senza però urlare. “In cosa consiste la punizione?” “Il suo corpo è cosparso di miele. Lo stesso miele che è andato sprecato per un suo errore. Ora come vedi almeno serve a qualcosa. Serve a farle capire che non deve più commettere errori. Le formiche amano il miele, ma non credo che lei ami altrettanto i morsi delle formiche.” Così dicendo si era allontanata attendendo che lui la seguisse come sempre faceva. Era rimasto ancora un momento a contemplare quello spettacolo e poi era scoppiato in una grassa risata seguendola. “Siete piena d’inventiva moglie mia! Sono certo che non rovescerà mai più il vostro prezioso miele!” Solitamente non ricordava mai i visi delle donne al servizio di sua moglie, ma il viso di quella ragazza gli era rimasto impresso. Nei giorni successivi l’aveva cercata, ma senza alcun risulta- to. Non sapeva certo che Dorkò aveva terminato il lavoro iniziato da sua moglie e che Berthoni si era occupato di tumularla in fretta e furia. Seguirono quello stesso sentiero fino ad arrivare alla medesima radura dove però non c’era la ragazza di quella volta, ma solo un palo dimenticato. “Cosa mi dite di ciò che avete passato negli ultimi mesi?” domandò lei. “Niente di più di ciò che già vi ho scritto. Non desidero parlare della guerra ora che sono a casa. Piuttosto, vorrei darvi un consiglio. Ho dimenticato di scrivervelo l’ultima volta e so che stavate cercando un rimedio con due domestiche.” “Vi riferite al modo di intervenire su svenimenti ed epilessia?” “Sì. Purtroppo l’isterismo non colpisce solo le donne e ho dovuto farvi fronte in più di un caso negli ultimi tempi.” Fissò per un lungo istante l’orizzonte come a voler ricordare ogni particolare di quei momenti. “L’ultimo periodo è stato duro e molti uomini, soprattutto i più giovani, si sono lasciati andare a vere e proprie crisi che non sapevo più come gestire. Il ri- medio è arrivato per caso. Il ragazzo era sdraiato per terra in preda alle convulsioni isteriche quando una candela è caduta e ha dato fuoco a un pezzo di carta. In un attimo le fiamme hanno lambito i piedi del giovane che si è come ripreso in modo istantaneo. Credo che il fuoco cancelli le crisi di cervello.” Erzsébet lo guardò sgranando gli occhi come se non avesse mai pensato a commettere una tale tortura ai danni di una delle sue domestiche. “Sembrate sconvolta.” “No. Sono ammirata. Siete riuscito casualmente a trovare un rimedio a una piaga che affligge più di una domestica. Non mancherò di mettere in atto il vostro consiglio non appena si presenterà l’occasione e non mancherò di scrivervi l’effetto che ha avuto.” “Sono felice di potervi essere in qualche modo utile nella gestione del castello.” Sorrise accarezzandole una guancia. “Avete la pelle più bella che io abbia mai veduto.” Sospirò di nuovo in preda al desiderio. Se glielo avesse concesso, l’avrebbe presa lì, tra la neve che si scioglieva al sole ancora debole. Passeggiarono tra gli alberi ancora addormentati dall’inverno giunto quasi al suo naturale termine e lo sgocciolio della neve. Quando rientrarono, infreddoliti e soddisfatti, si fecero portare altre due coppe di vino fumante e lo sorseggiarono in silenzio. “Mi ritiro per prepararmi alla cena.” Disse lei quand’ebbe finito la sua coppa. “Certo.” Assentì lui osservandola mentre si allontanava verso la scalinata. Per l’occasione erano stati invitati alcuni amici di famiglia che avrebbero goduto della loro compagnia e assaporato la cacciagione splendidamente cucinata. Ferencz non fece caso alla giovinetta dallo sguardo terrorizzato con l’avambraccio fasciato strettamente e non fece caso neppure agli occhi supplichevoli di altre domestiche. Parevano chiedergli di non andarsene più perché quando c’era lui, potevano respirare… potevano non piangere… e alcune potevano continuare a vivere. VIII La tavola era imbandita. Ogni tipo di carne fumava e profumava la sala da pranzo. Tutti gli invitati avevano preso posto e assaporavano rumorosamente i grossi pezzi dorati. Non vi era nessuno che si facesse problemi a masticare con la bocca aperta o bere risucchiando. Se Erzsébet e le altre signore avevano fatto tutto il possibile per essere profumate anche se non lavate, gli uomini recavano con sé l’odore forte e acre dei campi di battaglia. Sudore vecchio, urina stantia, polvere e sangue coprivano le loro pelli coriacee. Tra risate grasse e rumorosi grugniti, la cena volse al termine. Erzsébet sedeva ritta e composta, completamente adornata da perle e ori. Ascoltava senza parlare. Guardava senza vedere. Osservava ogni movimento delle sue domestiche e se lo imprimeva nella memoria in modo da non passare sopra a qualche loro mancanza. Il fio sarebbe arrivato alla partenza di Ferencz. Era felice di quel banchetto, di quella deviazione dalla solita routine, ma al contempo non vedeva l’ora di riappropriarsi del suo tempo. Di poter gestire come meglio credeva gli affari del castello. Di ritrovare il silenzio di quei corridoi. Aveva anche desiderio di tornare a Vienna. Si sentiva bella come non mai e nuovi abiti erano arrivati pochi giorni prima dall’Italia e dalla Francia. Abiti curati nei minimi dettagli che sottolineavano la sua figura e che avrebbero dovuto essere ammirati alle corti di Vienna. Presa da questi pensieri contrastanti, vide la sera passare e gli invitati congedarsi per tornare alle loro dimore. Finalmente soli. “Siete stanca?” “No.” Senza aspettare oltre, Ferencz le si avvicinò e le porse la mano. Lei la prese con garbo abbassando gli occhi come fosse una vergine alla sua prima notte e si alzò dalla pesante sedia di legno. Salirono in silenzio la scala mentre nei loro animi si agitava un mondo sommerso e fatto di solo buio e lingue di fiamma. La porta della stanza venne aperta e richiusa con uno scricchiolio. All’interno bruciavano lampade a olio che spandevano i loro aromi dolciastri e illuminavano i pesanti arazzi dai colori tristi. Qualche ciocco scoppiettava nel piccolo camino. “Vi ho desiderata ogni giorno e ogni notte.” Sussurrò lui baciandole il petto, dove la pelle scoperta fremeva. “Niente e nessuno riesce a cancellare la vostra immagine dalla mia mente.” Continuò. Lei fece un passo indietro verso il letto rischiarato dalla tremolante luce delle lampade a olio e dal fremere più vivo delle lingue di fuoco nel caminetto. Si sdraiò facendo vagare lo sguardo, in attesa di sentire le mani di lui addosso. Non poteva dirgli quello che agognava. Non poteva dirgli che desiderava la violenza e il dolore, ma rimase ferma, immobile nel suo pallore attendendo che fosse lui a comprendere ciò che più la poteva eccitare in quel momento. Non carezze di velluto e baci setosi. Non parole d’amore e rispetto di marito, ma rudi mani ovunque. Immaginava la veste strappata di dosso con foga. Immaginava carezze pesanti, graffi e morsi. Immaginava lui, che senza preamboli s’insinuava tra le sue carni pulsanti. Immaginava l’odore forte del suo sesso. Ferencz parve comprendere appieno quei desideri nascosti o forse seguì semplicemente i suoi di desideri. Lacerò l’abito costoso e stupendo che cadde di lato a brandelli. Con un movimento fulmineo strappò via la gorgiera che racchiudeva l’esile collo e centinaia di perle perfette rotolarono sul pavimento. Poggiò le labbra su quel collo tiepido. Sotto le labbra, il pulsare ritmico delle vene e i gemiti di piacere. Rimase con le labbra incollate al collo mentre lei s’inarcava come a volergli dire di non abbandonare quella posizione di dominanza. Morsicò la pelle morbida che subito si chiazzò di rosso. Fece scivolare un braccio dietro la testa di lei e con rudezza la prese strettamente per i capelli. Erzsébet sentiva attraverso la stoffa dei pantaloni, l’eccitazione maschia del marito che non vedeva da mesi, ma di cui ricordava la passione irrefrenabile tanto quanto la sua. Un bacio profondo le riempì la bocca. Sapore di cibi gustati da poco, odore di tabacco e sudore sulla barba lunga. Saliva che si mischiava e odore di gelsomino delle lampade a olio. Con un ginocchio, le scostò bruscamente le gambe l’una dall’altra. Così, osservando il suo corpo nudo con cupidigia, si sollevò e si liberò degli abiti per poi tornare immediatamente su quella pelle tanto bianca da sembrare lucente. Ripiombò sul suo collo e lei reagì mordendolo a sua volta, ma con meno riserve di quelle di lui. Un rivolo di sangue sgorgò dalla pelle coriacea e le bagnò le labbra già rosse di trucco. “Lo desiderate più di me non è vero?” domandò sorridendo e guardando un momento quegli occhi immensi e quelle labbra umide del suo sangue. La baciò di nuovo, sentendo il sapore ferroso di quel vitale liquido rosso. Erzsébet non rispose. Non ce n’era bisogno, le parole non avrebbero fatto al- tro che rovinare un momento perfetto. Un momento in cui si sentiva come avrebbe voluto sentirsi sempre, in preda alla più devastante lussuria. Sospesa nel tempo, con la noia lontana anni luce e le forze della natura al suo cospetto. Questo sempre avrebbe voluto. Voleva che quel momento non finisse mai. Desiderava il sesso dentro al suo, i movimenti forti e violenti, la furia di un uomo dentro di sé e il culmine del piacere, ma allo stesso modo lo temeva perché avrebbe portato all’inevitabile fine e lei sarebbe tornata a sentire la noia che le attanagliava l’anima. Le forze della natura che si rintanavano nel loro mondo parallelo senza darle più conforto. Di nuovo la luce del giorno che lei mal sopportava e di nuovo le solite noiose faccende di ogni giorno. Invece lei desiderava solo questo. Solo un eterno dibattersi del desiderio. Anche lui sembrava non voler giungere troppo in fretta alla fine e per questo ancora non si era congiunto con la moglie che pure gli dimostrava tutta la sua cupidigia. “Siete così meravigliosa che non posso credere di aver avuto tanta fortuna.” Sospirò. “Voi siete un uomo meraviglioso.” Rispose senza nemmeno pensare a ciò che diceva. Le mani di lui si soffermarono sui seni ancora turgidi nonostante le gravidanze. Li baciò con foga, senza riguardi, senza delicatezza, strofinando la barba spessa sulla pelle delicata. Succhiò come un infante affamato, ogni tanto mordendo, ogni tanto baciando. Lasciò che ancora quell’eccitazione sublime non trovasse sfogo in una penetrazione, ma poi dovette arrendersi alla propria natura ed entrò dentro di lei. Lei gemette forte quando sentì il piacere misto al leggero dolore della penetrazione forzata, ma subito si mosse contro di lui come se non ne avesse ancora abbastanza. Come se desiderasse tutto il corpo di lui dentro se stessa. Come se quella parte da sola non bastasse a saziarla. Lui spinse con tutte le forze dei lombi, senza mai rallentare e senza per questo arrivare a un troppo veloce epilogo. Si fermò, la girò sulla pancia e la penetrò ancora, mentre lei s’inarcava e spingeva indietro come una qualsiasi bestia in calore. Le mani di lui calarono violentemente sulle rotondità del sedere facendola sussultare. Le unghie penetrarono nella pelle scavando leggeri solchi violacei e lei non pensò minimamente al suo biancore rovinato oppure alla sua perfezione deturpata. Pensò solo al piacere che stava provando e che raggiunse il suo apice. Passarono ore di quella guerra chiamata sesso e solo quando entrambi sentirono la soddisfazione completa, si sdraiarono stremati l’uno di fianco all’altra. Non ci sarebbero state coccole e carezze. Lei non le amava e lui glien’era grato. Nessun uomo vero amava passare il proprio tempo a coccolare una donna, ma tollerava di doverlo fare per amore della famiglia. Sì, si riteneva davvero fortunato oltre ogni limite. “Siete tutto ciò che un uomo può desiderare.” Sospirò scostandole i capelli sciolti dal volto accaldato e roseo. Lei lo stupì baciandogli il palmo della mano. “Vorrei andare a Vienna.” Disse, già dimentica di quella notte di passione. Già sentiva che tutto stava ripiombando nella solita mediocrità e non poteva sopportarlo. Aveva bisogno di svago, di cambiare aria. “Siete incredibile! Avete una tale vitalità… ho appena usato il vostro corpo a mio piacimento per ore e voi avete la forza di pensare a un viaggio!” “Verrete con me non è vero?” chiese tradendo un senso di debolezza che non era da lei. Ferencz si accorse di quella debolezza e aggrottò la fronte quasi come fosse preoccupato. “Vi sentite bene? C’è qualcosa che avete dimenticato di dirmi?” domandò. “No. Desidero solo lasciare per un po’ questo castello e le incombenze dell’inverno passato.” “Non avete che da chiederlo. Partiremo immediatamente. Anche io non disdegno un viaggio a Vienna ora che l’inverno è ormai alle spalle.” La notte consumò l’olio dei lumi e la legna nel caminetto divenne sonnacchiosa brace mentre le tende tenevano fuori i primi raggi di luce. IX Era tutto pronto. Le carrozze erano state caricate con i bauli colmi d’abiti all’ultima moda e le serve erano pronte per partire. La contessa discese la scala in compagnia di Ferencz discorrendo degli ultimi accordi. Non sarebbe partito con lei, ma l’avrebbe raggiunta nei giorni successivi e questo la metteva di cattivo umore. Non voleva che rimanesse da solo al castello con Megyery il Rosso pronto a pugnalarla alle spalle rivelandogli i suoi passatempi. Detestava viaggiare da sola e non avere le attenzioni di un uomo. Questo la mandava letteralmente in bestia. Costretta a passare lunghissimi mesi da sola, non tollerava che anche in quell’occasione ci fosse qualcosa a tenerla chiusa nella sua solitudine. Una solitudine che non era fisica perché attorno a lei c’erano sempre centinaia di persone e ora che stava andando a Vienna ce ne sarebbero state ancora di più. La sua era una solitudine ben peggiore: quella congenita che alberga l’anima e che ti strazia lo stomaco. Quella che fa sì che tutto attorno a te sia avvelenato da sentimenti di tristezza. La sensazione di essere sempre sospesa in un mondo liquido fatto di frivolezza che mai sarebbe arrivato a percepire la vera profondità dell’anima. Eppure, ella stessa era sempre in cerca di frivolezza. La stessa bellezza che rincorreva da sempre era frivolezza, ma non per lei. Per lei quella perfezione bianchissima era alla base della propria esistenza. Alla base del legame instabile con la propria anima e ancora, alla base del suo legame con il mondo che la circondava. Senza quell’eterea perfezione non era nulla. La natura era perfezione e lei non desiderava che assorbire tale perfezione da tutto ciò che poteva. Infusi di erbe, im- pacchi di foglie, animali essiccati, ma in primis… il sangue dei suoi simili. Non ricordava quando avesse cominciato a ritenerlo alla base stessa della sua felicità. Ricordava di aver sempre avuto scatti rabbiosi contro la servitù e una naturale predisposizione per il comando. Forse tutto era accaduto accidentalmente la prima volta. Una visione indistinta le si presentò davanti agli occhi. Una ragazza di un anno più grande di lei. Doveva avere circa 16 anni perché era accaduto l’anno dopo il matrimonio, quando ancora era in vita sua suocera e i balli a Vienna erano solo sogni. L’aveva schiaffeggiata con qualche pretesto che ora le sfuggiva e colpendola, le aveva fatto sanguinare il naso. Era inorridita quando aveva visto la propria mano sporca di quel sangue contadino e il polsino dell’abito irrimediabilmente rovinato. Urlando e imprecando aveva preso a strofinare via quelle macchie rendendosi poi conto che il sangue della contadina, aveva reso la pelle più morbida e più bianca. Non si era chiesta se quell’effetto fosse una conseguenza del suo strofinare in modo ossessivo. “Siamo pronti mia signora.” Jò Ilona interruppe i suoi pensieri. Assentì con un lieve cenno del capo e salì sulla carrozza salutando il conte che per tutto il tempo era rimasto in silenziosa attesa. Aveva compreso che non sarebbe stata una buona scelta aprir bocca davanti allo sguardo ferreo di Erzsébet. Le inviò un silenzioso bacio quando la vide sporgersi dalla carrozza e voltarsi verso di lui, ma nulla fece pensare che se ne fosse accorta. Il viaggio non era troppo lungo, ma spesso Erzsébet cambiava posizione, spazientita, come se avesse avuto una corona di spilli sulla seduta. La notte stava per calare di nuovo quando giunsero finalmente nei pressi della grande residenza viennese. Poco distante, troneggiava il palazzo imperiale dove Massimiliano II si preparava ad abdicare in favore del figlio Rodolfo II. Era risaputo il loro interesse sfrenato per la magia e per l’occulto e forse an- che per questa ragione, Erzsébet amava frequentarli. Vienna rappresentava tutto il meglio e tutte le novità in fatto di magia e pozioni e la contessa non mancava mai di visitare ogni piccola bottega per trovare le erbe migliori, le pietre più magiche, le pozioni più efficaci. Jò Ilona scese dalla carrozza in coda e sbraitando, diede le prime consegne alle giovani serve. “Desiderate che qualche fanciulla in particolare vi sia riservata per questa sera mia signora?” ghignò con cattiveria. Quando non era la contessa a urlare per avere una fanciulla da torturare, era lei stessa che le proponeva un diversivo. Forse perché la conosceva ormai talmente bene da non aver bisogno di attendere l’ultimo momento. Vedeva bene che da un momento all’altro sarebbe esplosa. Perché allora aspettare che fosse troppo tardi? “Sì.” Il suo viso non tradiva alcuna emozione. Gli occhi guardavano distante. Forse guardavano un mondo diverso da quello che vedevano i comuni mortali. Forse una realtà parallela fatta di cieli grigi carichi di elettricità, alberi curvi trasudanti di sostanze sconosciute. La carrozza ripartì alla volta del palazzo imperiale. Una serata movimentata e allegra l’attendeva e per l’occasione aveva scelto uno degli abiti più belli, arrivato dalla Francia solo pochi giorni prima. Ecco lo splendido palazzo imperiale solo a pochi metri ormai. La carrozza si fermò e Ficzkò le porse la mano per aiutarla a scendere. L’aria era pungente sul fare della sera e Erzsébet si riparava come meglio poteva per non rischiare di fare la sua entrata a palazzo con le gote rosse di una qualsiasi contadina. La voce baritonale di Massimiliano II l’accolse non appena mise piede dentro il palazzo. Schiere di giovani serve accorsero a sollevarle la stola di pelliccia dalle spalle, a riscaldarle le mani con un panno caldo. “Cara, cara, cara contessa Bàthory! Quale piacere riavervi qui a Vienna!” con un inchino le sfiorò la mano gelida con le labbra. “Imperatore, è un onore essere ancora una volta a Palazzo in vostra gradevole compagnia.” S’inchinò lei. “Desiderate del vino caldo? L’inverno non ha ancora abbandonato queste terre purtroppo. Pensate che solo pochi giorni fa è stato qui un rinomato pittore italiano e mi ha narrato delle splendide giornate primaverili che già si godono nella piccola Italia! Oh… beati loro!” rise gioviale. Aveva anche lei conosciuto alcuni artisti italiani e ne aveva ammirato la fantasia e le capacità, ma non avrebbe mai potuto risiedere in Italia. Troppo ciarlieri. Troppo solari. “Venite. Sedetevi accanto al camino.” Erzsébet lo seguì senza controbattere. “Immaginavo che il conte Ferencz Nàdasdy sarebbe giunto in vostra compagnia… mi auguro che vada tutto per il meglio.” “Sì, mi raggiungerà tra qualche giorno a causa di una questione di famiglia che non poteva in alcun modo essere rimandata.” “Ah bene! E i vostri figli? Che mi dite dei vostri figli?” “Stanno bene. Sono grandi ormai e Anna è persino fidanzata con un giovane di ottima famiglia.” “Ma cosa mi dite! La piccola Anna già in età da marito! Il tempo passa troppo velocemente… troppo… ma voi siete splendida come non mai! Dovete confessare qualcosa?” Erzsébet ebbe un tuffo al cuore. Come faceva a sapere? “Vi sentite bene? Mi sembrate più pallida del solito.” Domandò Massimiliano II con aria preoccupata. “Sì, è solo il viaggio…” “Ecco il vino.” Disse prendendo la coppa dalle mani di una giovinetta dalle guance paffute e rosee. “Bevete, vi sentirete subito meglio.” Erzsébet prese la coppa e sorseggiò il vino bollente. “Siete davvero senza tempo mia cara. Non sembrate avere un solo anno di più rispetto a quando avete sposato il giovane Ferencz. La natura vi ha fatto un dono mia cara.” Erzsébet sentì il peso sullo stomaco disciogliersi fino a scomparire, e pensò a tutto ciò che faceva per far sì che il tempo davvero si fermasse. Rimasero soli a discorrere delle erbe migliori e dei nodi magici che percorrevano la terra. Delle salmordine dalle gocce di sangue e di altre pietre dai poteri ultraterreni. Gli invitati arrivarono presto e il salone si trasformò in un allegro via vai di dame in abiti sgargianti e gentiluomini dalle mani delicate. Erzsébet guardò con invidia queste coppie volteggiare allegramente per la sala fino a che non arrivo l’ora di lasciare il ricevimento. Quando arrivò alla sua residenza sentiva dentro di sé che si stava preparando un esplosione di rabbia senza precedenti. Varcò la soglia con furia e salì le scale sbuffando e digrignando i denti come fosse una bestia feroce. “Jò Ilona!” gridò e ogni fanciulla in quella casa iniziò a pregare. Jò Ilona accorse e si fermò sulla soglia in attesa di ricevere ordini che già conosceva. Erzsébet ansimava come una belva ferita, gli occhi pieni di lacrime mai versate e rabbia repressa per troppo tempo. Con una manata spazzò via ogni oggetto posato sulla toeletta, compreso il bauletto di corno dove conservava i suoi più potenti oggetti magici. Fu tentata di gettare a terra anche lo specchio, ma con le mani atteggiate ad artiglio e il viso sfigurato dalla malvagità, si fermò e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Si girò verso Jò Ilona. Nei suoi occhi non vi era più nulla di umano. Il viso era talmente bianco e gli occhi talmente vasti e neri da dare l’impressione di poterci annegare dentro. E annegare dentro quegli occhi significava annegare tra le fiamme dell’inferno. Si sentiva come svuotata. Tutta quella gente che l’aveva guardata e ammirata l’aveva anche come consumata. La sua bellezza senza tempo era stata messa a dura prova dal viaggio e poi era stata “rubata” dagli occhi bramosi di donne e uomini e da quelli dello stesso imperatore! Mesi e mesi di cataplasmi, massaggi, unguenti e un solo giorno per avvizzire! Tutti l’avevano ammirata quella sera! Tutti l’avevano desiderata! Tutti avevano preso una parte di lei! Divorata dagli occhi desiderosi e lussuriosi. Jò Ilona non aspettò che fosse lei a ordinare una giovane; ne portò una, la prima che le capitò a tiro. Tanto piccola da sembrare ancora una bambina, ma già sviluppata come una donna. Erzsébet la fissò con disgusto. La natura aveva concesso a quella creatura di non essere una nana, ma solo per poco… molto poco. Con passo pesante e deciso uscì dalla stanza e scese le scale. La fanciulla cominciò a strillare e disperarsi perché sapeva che qualche possibilità di uscire viva da quella camera c’era, ma dalla lavanderia… no. X La giovane di bassa statura giaceva già a terra, gli abiti sparsi tutt’attorno, il viso contorto per il dolore e le percosse. La carne dei seni completamente bruciata dai tizzoni ardenti. Non le aveva dato alcuna soddisfazione! Era morta quasi subito. Il colpo inferto alla testa con l’attizzatoio era stato fatale e la contessa si era infuriata ancora di più. Aveva gridato tanto da far pensare che le sarebbero saltate via le corde vocali o che le sarebbero esplose le vene del collo. Scapigliata e coperta di sangue, ora stava ferma come una statua davanti alla nuova preda. La fissava come un leone fissa una gazzella prima di spiccare il balzo letale. La giovane teneva gli occhi bassi e mormorava qualcosa, forse una preghiera. Sentiva freddo, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per arrivare al punto di non sentirlo più. Tremava per la paura e per la bassa temperatura. Ogni tanto i denti sbattevano gli uni contro gli altri e un violento scossone le percorreva il corpo. Quel corpo che Erzsébet stava fissando da quasi mezz’ora, in preda a una sorta di trance, come se stesse aspettando che una voce che solo lei poteva udire finisse di recitare un antico rituale. Fece un passo avanti. Le palpebre non si chiudevano mai su quegli occhi enormi, dove un intero mondo si stava battendo per avere il sopravvento su quello che invece la circondava. Le arrivò tanto vicino da sentire l’odore della sua pelle. L’annusò e cambiò direzione. La fanciulla sospirò profondamente e alzò gli occhi al cielo come a voler ringraziare Dio di averla salvata da quegli occhi che ora però si stavano concentrando sugli attrezzi disposti ordinatamente sul tavolaccio. Troppo in fretta… stava pensando Erzsébet. Tutto era andato troppo in fretta con la prima. Prese gli spilloni e li tenne sul palmo aperto come a soppesarli. Erano così leggeri e sottili! Sembravano così innocui! Doveva frenare il desiderio e lasciarsi guidare dalla calma. Immaginò di essere nel ventre freddo e buio del bosco, dove tutto segue i cicli lenti e naturali della vita, dove la rugiada gocciola pigramente dalle foglie. Immaginò che il sangue di quella serva fosse proprio come la rugiada del mattino. Indispensabile presenza discreta. Si girò respirando a fondo e quasi le sembrava di sentire l’odore del sottobosco anziché l’olezzo di sangue vecchio e morte. Dorkò si fece avanti e aspettò un cenno della contessa per sapere che cosa avrebbe dovuto fare. Erzsébet si fermò davanti alla giovane e guardandola fisso le carezzò una guancia; un gesto che la fece quasi sembrare umana. “Le mani.” Disse senza smettere di carezzare quel volto e perdersi in quegli occhi così azzurri. Dorkò slegò le mani e aiutata da Jò Ilona tenne stretta la ragazza. “Cosa volete farmi?” chiese la ragazza tra un singhiozzo e l’altro. Erzsébet le sollevò la mano sinistra, la lisciò constatandone la morbidezza e la freschezza nonostante il lavoro poco nobile che svolgeva e, senza fretta, infilò lo spillone tra l’unghia e la carne del pollice, spingendo fino a che non rimase fuori che la capocchia. La giovane gridò di dolore e le piccole gocce di sangue presero a scivolare con lentezza fino a tuffarsi nel catino posto sotto di lei. Erzsébet prese un altro spillo e sempre senza fretta lo infilò alla stregua del primo, nell’indice. La giovane non doveva aspettarsi un nuovo dolore tanto forte, perché si dibatté inaspettatamente tra le braccia di Jò Ilona che per un attimo temette di farsela sfuggire. Certo non avrebbe potuto andare distante, ma avrebbe potuto ferire la contessa e questa era l’ultima cosa che Jò Ilona voleva che accadesse. La strattonò prendendola per i capelli e pestandole il piede col tacco della scarpa. Erzsébet si stava rigirando il terzo spillo tra le mani, ma le urla della ragazza la stavano infastidendo più del dovuto. Si portò le mani alla testa come se fosse in preda ai suoi soliti mal di capo e lasciò andare un ceffone alla cieca, colpendo in pieno il viso spaventato e urlante. La forza della sberla e la tenuta salda di Dorkò ebbero il risultato di strappare alla radice una grande ciocca di sottili capelli biondi. Il sopraciglio riportava una profonda ferita e la pelle scalzata metteva a nudo la carne lucida di umori, là dove il pesante anello d’oro aveva colpito. “Zitta.” Disse sibilando come un serpente “Sta zitta.” La ragazza che continuava a piangere disperatamente, chiuse la bocca tentando di porre un freno alle grida che le nascevano nel profondo delle viscere. A guardarla ora, non si sarebbe mai potuto pensare che fosse la più bella tra le serve della contessa. I suoi occhi azzurri e glaciali erano ora arrossati e semichiusi per il dolore e le percosse. La pelle bianca e liscia era arrossata, graffiata, livida. I bei capelli dorati, erano spettinati e sporchi di sangue. Erzsébet parve soddisfatta dal grado di silenzio raggiunto e proseguì a piantare gli spilli, dito dopo dito, mentre le urla riprendevano. Il sonno all’interno del monastero degli agostiniani fu turbato per gran parte del- la notte da urla che sembravano provenire direttamente dall’inferno. Nessuno mancò di farsi più volte il segno della croce e di pregare per l’anima addolorata della fanciulla. Qualcuno di loro sospettava di sapere da dove provenissero quelle urla, ma nessuno mai avrebbe potuto sostenerlo con certezza. Certo le voci non tardavano a correre di bocca in bocca. Per la fanciulla fu la notte più lunga della sua vita e anche l’ultima. La contessa sembrava aver raggiunto un grado più elevato nelle torture che infliggeva alle sue vittime. Sembrava avere meno fretta e gustare di più ogni singolo momento. Sembrava che la sua sete di sangue fosse in qualche modo maturata. Non mancò anche di mettere in atto il suggerimento datole dal marito quando la fanciulla, stremata svenne tra le braccia di Jò Ilona. “Presto, della carta oleata!” sbraitò a Ficzkò, poi gli spiegò cosa avrebbe dovuto fare e si allontanò di due passi per godersi lo spettacolo nella sua interezza. Ficzkò aveva obbedito ghignando come un demonio deforme e più cattivo e crudele di qualunque altro, proprio perché così fisicamente poco dotato dalla natura. Aveva dato fuoco alla carta e l’aveva posizionata tra le gambe nude della giovane. Subito il pelo pubico aveva preso fuoco sfrigolando; la pelle si era arrossata e coperta velocemente di bolle mentre la ragazza apriva di scatto gli occhi e riprendeva a urlare più forte di prima, tentando di chiudere le gambe saldamente tenute da Dorkò e Jò Ilona. La contessa sorrise tra sé immaginando il momento in cui avrebbe comunicato a Ferencz che il suo metodo contro le crisi di cervello funzionava alla perfezione anche con le serve. Avrebbe tralasciato il fatto di non aver usato i piedi della malcapitata. In fondo non era affar suo. Alla fine del rito, quando ormai solo un flebile respiro lasciava supporre che la fanciulla fosse ancora in vita, Dorkò le tagliò i polsi e lasciò che il poco sangue ancora rimastole in corpo scendesse nel catino. Erzsébet rimase fino all’ultimo. Le piaceva vedere gli ultimi fremiti di vita, come l’ultimo battito d’ali di una farfalla. Le piaceva vedere le membra che si rilassavano fino a svuotarsi com- pletamente dell’anima. Non rimaneva che un involucro vuoto di sangue e di anima e pronto per una veloce quanto discreta sepoltura. Ficzkò, un po’ schifato dallo stato in cui versavano i genitali della giovane vittima, non volle approfittarne e andò a prendere una vecchia carriola con cui spostare il corpo. Della sepoltura si sarebbe occupato più tardi, insieme alle due vecchie donne che da quel momento in avanti sarebbero state impegnate con la contessa e il suo meritatissimo bagno di sangue. Non capiva bene a cosa servisse né in realtà voleva saperlo; sapeva solo che la sua vita la doveva proprio ai conti di Nàdasdy che lo avevano salvato dalla strada e allevato a castello dandogli un buon letto su cui dormire e del cibo caldo da mettere sullo stomaco; senza dimenticare la concessione che gli veniva fatta quando veniva lasciato a dilettarsi con i bellissimi corpi ancora tiepidi delle servette. Erano lontani i tempi in cui rallegrava le serate a castello con acrobazie e buffonate, ma non ne aveva nostalgia. Ora viveva di più nell’ombra e gli stava bene così. XI Erzsébet si spogliò del pretenzioso abito, aiutata da Dorkò e s’immerse nel tiepido liquido rosso. Faceva freddo nella stanza e per questo, Dorkò aveva fatto in modo che il caminetto fosse carico di legna da ardere e che la grossa vasca fosse disposta vicino ad esso, ma non troppo per non rovinare il prezioso trattamento di bellezza. La contessa si rilassò appoggiando la testa e chiudendo gli occhi. Con la memoria andò alle esperienze di poco prima. Si sentiva rilassata e appagata come dopo una giornata di duro, ma soddisfacente lavoro. Dorkò uscì dalla stanza lasciandola sola, con il caminetto che scoppiettava e le riscaldava le membra. Percepiva ogni poro della sua pelle come fosse vivo e indipendente, nutrirsi del sangue che l’avvolgeva. Come tante piccole bocche fameliche, assorbivano i nutrimenti e la magica essenza. Si strofinò le braccia e subito si accorse che la pelle era più tesa, più bianca, più viva. Nulla era efficace come quei bagni ringiovanenti. Nessuna erba, nessun decotto potevano tanto. Il suo segreto le avrebbe permesso di rimanere giovane e desiderabile per sempre. Gli elementi preziosi del sangue, si depositavano sul suo corpo, ricostruendo come solidi mattoni, la pelle stanca e spenta. Rimase ore a massaggiarsi e toccarsi nel suo più intimo. Avrebbe desiderato che Ferencz fosse lì con lei in quel momento. Avrebbe desiderato che fosse sua la mano che sentiva tra le gambe. Prese lo specchio che Dorkò le aveva messo accanto alla vasca e si rimirò per un lungo momento. Con sguardo critico e attento, osservò gli occhi che parevano avere profondità mai conosciute. Le sottili rughe che aveva notato poco prima erano come svanite. Lo sguardo era fresco e giovane e nulla invidiava a quello che aveva a vent’anni. Anche la fronte, alta e liscia sembrava lontana dall’avere problemi di rughe d’espressione. La pelle era ben distesa e piena, nutrita fin nel più profondo dalle immense qualità del sangue ormai freddo. Ora non era altro che un liquido senza doti; sfruttato fino all’ultimo elemento. Chiamò Dorkò e si fece porgere un telo in cui avvolgersi. Non si sarebbe risciacquata per evitare di interrompere anche gli ultimi benefici che poteva darle. Nonostante la stanza fosse gelida, la contessa sembrava non percepire il freddo. Ritemprata, si preparò per la notte e s’infilò sotto le spesse trapunte. Non sognò nulla. Era rilassata e tranquilla. Nessun senso di colpa, che avrebbe certamente colpito qualunque donna con un’anima, andò a turbarle il sonno. Nessuna immagine di donna che urlava con le carni straziate la svegliò in piena notte. Dormì come un innocente bambino che da tempo ha passato la fase della paura del buio. Nessun chiarore di luna in quella stanza. Nessun baluginio di stelle. Solo l’odore del sangue che comincia il suo lento e inarrestabile decomporsi. Solo il lieve russare di una donna appagata che dorme il sonno dei giusti. XII Ferencz arrivò, come promesso, pochi giorni dopo. Fu accolto con tutti i festeggiamenti del caso e come sempre, rimase abbagliato dalla bellezza e dalla freschezza della sua sposa. A palazzo, ballarono e risero persino mentre Ilona Harczy li dilettava con la sua voce melodiosa e così simile al canto di un angelo. “Quella donna ha la voce di un angelo.” Sospirò Massimiliano II. “ se doveste stancarvi di lei, vi prego di fare in modo che io lo sappia. In questo palazzo manca una simile delizia per le orecchie ed è di una bellezza così semplice e al contempo regale.” D’improvviso Erzsébet s’indurì e posò gli occhi su quella giovane dai capelli scuri e lisci che pareva trovare la voce nel più profondo del suo ventre. Una sensualità e una forza che facevano vibrare i cuori, scaturiva da quella gola. L’osservazione dell’imperatore gliela fece vedere in modo diverso. Non era più solo una voce senza corpo che dilettava ora il palazzo di Csejthe con le ballate slovacche, ora la chiesa con i salmi. Era una donna con un corpo bello e giovane, uno sguardo vivo e magico. Un sentimento d’odio impalpabile le crebbe dentro lo stomaco e s’irradiò in tutto il suo corpo, facendolo vibrare di elettrica ostilità. Nessuna donna poteva ricevere complimenti tanto importanti in sua presenza. Nessuna che non fosse lei! Seduta compostamente, non perse mai di vista quella giovane donna che invadeva tutta la sala con la sua voce chiara e argentina. Le mani strette in grembo come due artigli. “Siete stanca?” domandò Ferencz vedendola così taciturna e con lo sguardo fisso. “Sì, desidererei tornare se non vi dispiace.” Disse seccamente. Si alzarono e si diressero verso Massimiliano II che sorrideva e sorseggiava il vino rosso, senza perdersi un passaggio vocale della giovane Ilona. “Vi dispiace se trattengo la vostra giovane cantante? La farò riaccompagnare tra non molto.” Erzsébet ebbe un moto di rabbia che riuscì a stento a trattenere, ma lui dovette scorgere l’odio che la invadeva perché subito si affrettò ad aggiungere “Se per voi non è un problema.” Vedendo Erzsébet torturarsi le mani e fissare senza rispondere, fu Ferencz a dire: “Ma certo. Riaccompagnatela quando più vi fa comodo.” “Siete certi di non volermela lasciare per sempre? Vi ripagherei nel giusto modo.” “Non credo sia un prob…” fece per dire Ferencz. “No!” lo interruppe Erzsébet. Nessuno le avrebbe tolto quella preziosa creatura! “Come dite?” chiese l’imperatore stupito dall’irruenza della contessa. “Ho in programma dei banchetti per quando saremo di nuovo a Csejthe e tut- ti aspettano di sentire Ilona cantare. Inoltre ha un impegno importante con la chiesa. Non posso lasciarvela per quanto lo vorrei, ma non dubitate… se dovessi stancarmi di lei, sarete il primo a saperlo.” Rispose risoluta e cercando di mantenere un tono cortese nonostante la rabbia che minacciava di farle tremare la voce. In quel momento avrebbe desiderato che la coppa che teneva in mano fosse piena del sangue stesso dell’imperatore, e non di semplice vino speziato. Ferencz non le chiese che cose le fosse preso. Era avvezzo a certi scatti d’ira inspiegabili, soprattutto quando la contessa si sentiva più stanca e, data l’ora tarda, imputò quella reazione proprio alla stanchezza. Per questo non volle abusare del suo corpo e lasciò che si addormentasse accanto a lui, senza sapere che lei non dormiva ma aspettava. Aspettava un suo cenno. Aspettava una sua dimostrazione d’interesse e quando non venne, quando lo sentì russare profondamente, la rabbia divenne incontenibile. Se avesse potuto, avrebbe ucciso anche lui. Gli avrebbe tagliato la gola in quello stesso istante! Era certa che non avesse posato le sue mani su di lei per un buon motivo e quel motivo aveva un nome: Ilona. Come l’imperatore, anche lui era rimasto folgorato da quella bella giovane dalla voce d’angelo e non aveva trovato altro modo di farla sua se non quello di addormentarsi e sognarla. Con rabbia si girò e si rigirò più volte mentre immaginava i sogni di suo marito. Sogni in cui prendeva tra le braccia quella giovane, ne spogliava il corpo prosperoso e con mani avide ne sondava ogni centimetro. Più i minuti passavano, più la rabbia cresceva e più sentiva quella rabbia e quella stanchezza rovinare gli effetti di quei benefici bagni di sangue. Per colpa di quella puttana, il giorno successivo avrebbe avuto una pessima cera! Contò i rintocchi delle campane fino all’alba quando, più rabbiosa che mai, si alzò prima del marito e, preparatasi in fretta e furia senza l’aiuto della damigella, scese fino alle cucine e ordinò che le venisse preparata la colazione in anticipo. L’anziana serva addetta alle cucine, rabbrividì quando la vide ferma sulla soglia. Fece colazione con il vino caldo e una pagnotta dopo aver ordinato che fosse preparata la portantina per andare nella parte vecchia di Vienna. Quella dove poteva trovare le pietre magiche più preziose e le erbe migliori. Aveva necessità di uscire e allontanarsi da quelle mura perché con il conte presente, non poteva dare libero sfogo alla rabbia che le cresceva dentro minacciando di farla esplodere. Doveva occupare il tempo in qualche modo e fare scorte di filtri ed erbe. Tutto il desiderio che l’aveva pervasa prima che Ferencz arrivasse a Vienna, era scemato del tutto e aveva lasciato il posto a un fastidio così profondo da roderle l’anima. In quel momento non era più il desiderato marito che aveva atteso per giorni interi con impazienza, ma uno sconosciuto invasore che limitava la sua libertà e di conseguenza la sua possibilità di essere in qualche modo felice. Un estraneo che dormiva nel suo letto e sognava un’altra donna, mentre il suo corpo fremeva di desiderio inappagato. Una fanciulla che poteva avere non più di quattordici anni le posò di fronte il vassoio con un’altra coppa di vino. Erzsébet le afferrò il polso con mano salda. La giovane sussultò con un gemito, ma non si tirò indietro per timore di suscitare una reazione della contessa che sapeva essere terribile. Uno schiaffo le raggiunse il volto e fu tanto forte da farle lacrimare gli occhi e bruciare il naso. Non reagì e non protestò quando la contessa la spinse via con ferocia, facendola cadere a terra con il vassoio vuoto. Ferencz apparve sugli ultimi gradini e osservò senza parlare la giovinetta a terra che raccoglieva con nervosismo i cocci del piatto in cui fino a poco prima era adagiata una pagnotta calda. Sapeva della durezza di Erzsébet verso la servitù e nonostante non fosse sua abitudine comportarsi allo stesso modo, comprendeva la difficoltà di una donna che per la maggior parte del tempo era sola. Doveva in qualche modo far sì che tutto procedesse sempre in modo impeccabile e la durezza faceva parte dei suoi metodi. Gli tornarono in mente le parole di Megyery il Rosso. Forse doveva parlarne con Erzsébet. “Buongiorno.” Le disse avvicinandosi. “Vi siete alzata molto presto questa mattina.” “Sì, ho delle commissioni da sbrigare.” Rispose dura. “Volete che vi accompagni?” “No. Sono cose che una donna deve poter fare da sola.” Ferencz si sedette di fronte a lei, fissandola con sguardo interrogativo. Non capiva quella freddezza. “Avete ancora un momento da dedicarmi?” “Non molto per la verità, ma ditemi.” “Ho avuto modo di discorrere con Megyery il Rosso…” Erzsébet sollevò d’improvviso lo sguardo. Gli occhi sgranati e indagatori si posarono su di lui. “Mi ha chiesto di scoprire che fine avesse fatto una giovane serva che pare sia sparita nel nulla.” “Nessuna serva sparisce nel nulla!” rispose acida. “Pare che abbia avuto dei problemi mentre era a servizio da noi e che lui le abbia suggerito di tornare a casa.” “Che genere di problemi?” domandò insospettita. Quel maledetto poteva avergli raccontato tutto! “Non ha voluto spiegarmelo, ma ho chiesto in paese e pare che non sia mai tornata a casa. Una delle domestiche mi ha raccontato che cosa le è successo.” Erzsébet sentì il sangue defluirle dal corpo. “Cosa vi ha detto?” “Che ha sentito dire che la giovane è stata aggredita proprio mentre stava tornando verso casa. Probabilmente da un balordo.” Erzsébet si distese annuendo. “E’ probabile. Di questi tempi una donna è in pericolo se gira per strada da sola. Vi ha detto qualcos’altro che possa essere utile a comprendere quali problemi possa aver avuto?” “No. Non ha voluto parlarmene. Ha detto che erano questioni personali della fanciulla.” Erzsébet sorseggiò le ultime gocce di vino e posò la coppa sul vassoio. “Vorrei rimanere ancora qui a discorrere con voi, ma la portantina mi attende.” Ferencz la guardò mentre si allontanava con quella camminata sicura e sensuale che ben conosceva. La desiderava sempre e se solo gli avesse fatto un cenno, la notte appena trascorsa, sarebbe stata piena di passione. Sospirando, si rilassò sulla sedia e attese che gli venisse portato il vino caldo. La portantina passava negli stretti vicoli dove botteghe e negozi sfilavano invitanti. Si fermò in molti e acquistò decine di filtri, zampe essiccate d’animali, pietre dalle infinite qualità. Tutti la conoscevano e quando poggiava i piedi in una di queste botteghe, nessuno osava incrociare il suo sguardo demoniaco. Le voci correvano lungo le vie come i rivoli di pioggia in primavera. Voci di delitti, torture, grida e sangue. Voci che non trovavano mai fine e che si propagavano da Csejthe a Vienna. La soddisfazione di vendere, andava di pari passo con il terrore che provocava la visione di quella contessa dal portamento leggero e gli occhi crudeli. Nessuno desiderava scontentarla e ogni volta che lei domandava qualche erba particolare, si poteva toccare l’ansia che pervadeva i venditori, terrorizzati dall’idea di non avere ciò che lei chiedeva. Quasi mai però usciva insoddisfatta da una di quelle botteghe e quasi sempre vi trovava ciò che cercava. Quando rientrò l’ora del pranzo era già arrivata e la tavola imbandita aspettava solo di essere coperta dai piatti con le portate di carne. I vari pacchetti furono portati nelle sue stanze dalle giovani serve che l’avevano accompagnata. Nessuna aveva dovuto subire molestie quella mattina. Ferencz rientrò poco dopo di lei da una lunga cavalcata. “Avete trovato quello che cercavate?” “Sì.” Rispose facendosi aiutare a togliere il pesante mantello scuro. Il caminetto spandeva il suo piacevole calore. Il profumo delle carni arrosto invase la sala quando i piatti di portata furono appoggiati al centro del tavolo. “Domattina dovrò ripartire.” Comunicò Ferencz. Erzsébet sollevò la testa e lo fissò per un lungo momento, indispettita e furente per la notizia inaspettata. “Dovevate rimanere fino alla fine del mese.” Rispose serrando la mascella. “Ci sono stati alcuni problemi. I Turchi hanno nuovamente attaccato ed è necessaria la mia presenza.” La contessa non rispose. “Mi dispiace di deludere le vostre aspettative, ma comprenderete che non posso abbandonare i miei uomini per banchettare a Vienna. Non è questo il mio posto in questo momento.” “Certo. Lo comprendo.” Rispose adirata e al contempo sollevata. Adirata perché un’intera notte era stata sprecata per colpa di quella puttana dalla voce d’angelo e perché non sapeva quanti mesi sarebbero di nuovo trascorsi prima che Ferencz decidesse di tornare a farle visita. Per molto tempo avrebbe quindi dovuto accontentarsi di Lazlo o di qualche saffico incontro consigliatole dalla zia, ma la vera passione e il vero desiderio sarebbero partiti insieme a Ferencz che più di tutti riusciva a farla sentire donna e che concepiva il sesso come a lei piaceva. Sollevata perché in qualche modo, quella notizia, le dava modo di riappropriarsi della sua vita. Tutta la rabbia che sentiva in corpo, avrebbe potuto trovare uno sfogo altrimenti negato. Si morse il labbro con tanta forza da sentire il sapore acidulo del sangue che si mescolava alla saliva. Se non avesse dovuto seguire le regole dell’educazione e del buon costume, avrebbe certamente condotto Ferencz al piano di sopra per poter sentire ancora addosso il peso del suo corpo, ma non poteva lasciarsi andare come una qualsiasi poco di buono. Doveva comportarsi come volevano il suo rango e la sua posizione e quella mancanza di libertà di azione le pesò come non mai. Non desiderava la sua anima e il suo amore, ma solo il suo corpo. Solo la carne. Si torse le mani con foga per ricacciare indietro quel desiderio che sembrava farsi largo a bracciate dentro la sua mente e più cercava di scacciarlo, più tornava prepotentemente. Il desiderio pulsava là dove la carne era più morbida e debole. “So che vi dispiace questo cambiamento di programma. Dispiace molto anche a me, credetemi. Desiderate fare qualcosa di particolare questo pomeriggio? Vorrei portare con me il ricordo di voi, felice.” Erzsébet sollevò gli angoli della bocca in uno stentato quanto poco sentito sorriso. Avrebbe voluto gridargli che desiderava solo passare il resto della giornata chiusa nelle loro stanze con lui, ma non poteva rendere così palese il suo desiderio. “Non saprei… voi avete qualche proposta?” domandò cercando di rendere il tono più malizioso possibile. Ferencz sembrò rifletterci un momento, poi scosse la testa. “Fuori fa ancora molto freddo di questa stagione… desiderate recarvi a palazzo?” L’ultima cosa che desiderava era andare a palazzo. Non si sentiva abbastanza in forma da poter fronteggiare le belle donne di corte e non aveva desiderio di dividere le attenzioni di Ferencz con nessuno. Lo voleva solo per sé. Ma possibile che lui non sentisse l’esigenza di fare l’amore con lei? Possibile che fosse insensibile alla sua bellezza giovane e inalterata dal tempo? Non capiva. Non riusciva a capacitarsene. Pensando ai duri e lunghi mesi di campo, come poteva non desiderare il suo corpo per l’ultima volta? Ferencz aspettava silenzioso che lei gli comunicasse ciò che avrebbe desiderato fare. Se fosse stato per lui, l’avrebbe stretta tra le braccia e l’avrebbe tenuta per sé tutto il pomeriggio. Si sarebbe rotolato con lei tra le coperte e avrebbe riversato in lei tutto se stesso, ma come poteva chiederle di rinunciare a una giornata a palazzo dopo che lui l’aveva così delusa annunciandole una prematura partenza? Per mesi non avrebbe fatto che vivere nel ricordo di quelle notti di passione estrema e avrebbe rivisto lei in ogni prostituta che avesse dato sollievo al guerriero lontano da casa. Con delicatezza, fece una cosa che non era sua abitudine fare: posò una mano sulla sua che scoprì essere fredda e rigida. Rabbrividì a quel contatto e la strinse piano. “Non voglio che rinunciate a una giornata a palazzo a causa mia. So di avervi dato un dolore… e mi dispiace più di quanto possiate immaginare.” Erzsébet si fece violenza per non ritrarre la mano. Quel contatto le dava la nausea. Quel suo modo di considerarla donna debole e romantica quando ciò che aveva in mente era ben altro. Come poteva non capirlo? Come poteva un uomo non avere il suo stesso desiderio, decuplicato? “Non scusatevi. È vostro dovere raggiungere i vostri uomini.” Rispose alzandosi e salendo le scale. Ferencz la osservò sparire e udì la porta della camera che si apriva e si richiudeva. Fu tentato di raggiungerla e di strapparle di dosso quell’abito così costoso e ben rifinito, ma non volle disturbarla. XIII Il conte partì la mattina molto presto, quando ancora le luci dell’alba non erano che un lontano presagio e il freddo pungente e duro permeava la terra e sembrava non volersene andare mai più. Erzsébet udì la carrozza che veniva preparata e più tardi, il galoppo dei cavalli che si allontanavano. In quel momento decise che non si sarebbe fermata un momento di più a Vienna. Voleva tornare al più presto a Csejthe. Si mise addosso la lunga vestaglia di velluto e scese le scale. Una busta posata sul tavolo. La prese e se la rigirò tra le mani. L’aprì. Alla mia gentilissima contessa, parto che ancora il sole non è sorto e il freddo è tagliente, ma vi porto nel cuore e per questo non temo il buio e non agogno il caldo. Voi siete la mia luce e il mio tepore. Vi scriverò non appena raggiungerò il campo. Cercate di riposare e di dilettarvi a palazzo anche se so che la mia partenza vi ha arrecato un dolore.. Vostro. Conte Ferencz Nàdasdy Erzsébet accartocciò con rabbia la pagina e la gettò tra le alte lingue di fuoco. Riposo? Si domandò. Aveva forse il viso stanco? Dilettarsi a palazzo? Come poteva ora che tutta la sua vitalità se n’era andata a causa di quel triste disinteresse che le aveva dimostrato? Come una furia vagò per tutta la casa, bussando alle porte e gridando ai quattro venti. “Svegliatevi! Voglio andarmene da qui subito!” In preda a una crisi isterica, percepiva già il forte mal di capo che l’avrebbe afflitta per il resto della giornata. Jò Ilona e Dorkò furono le prime ad accorrere ancora scarmigliate e con il viso pesante di sonno. In brevissimo tempo tutta la servitù fu in piedi e nel giro di poche ore, tutto fu pronto per l’imminente partenza. I cavalli attaccati alla carrozza, i bauli caricati, le serve imbacuccate in pesanti scialli e mantelli. La contessa rabbrividì stretta nel suo mantello e salì sulla carrozza. Dopo di lei salirono le damigelle preposte a tenerle compagnia durante il viaggio. Le guardò una a una e poi con sgarbo, ne prese una per il braccio e la gettò giù dalla carrozza. La ragazza inciampò e rotolò a terra graffiandosi le mani sulle pietre aguzze. “Portatemi Ilona Harczy!” gridò furente. XIV Jò Ilona non se lo fece ripetere. Con il suo sorriso sdentato e maligno, si diresse verso la carrozza che ospitava alcune serve e la giovane cantante. Lo sguardo crudele e derisorio si posò su di lei che si stringeva nel mantello invernale che non riparava abbastanza da quel freddo così pungente. “Vieni giù.” Le disse sgarbata. Ilona guardò una per una le altre ragazze che non osavano sollevare il viso e incrociare i suoi occhi spaventati. Quasi come volessero fondersi con la tappezzeria della carrozza e diventare trasparenti, si ammassavano l’una accanto all’altra. Ilona non aveva mai avuto a che fare con la contessa personalmente, ma tutte le ragazze che lavoravano al castello erano al corrente di alcune atro- cità. Non sapevano tutto forse, ma le punizioni inflitte dalla contessa erano argomento di tutti i giorni. Ilona si domandò che cosa avesse portato la contessa a chiedere di lei. Non credeva di meritare una punizione per qualche motivo. Aveva cantato e l’aveva fatto bene come sempre. Con il cuore e con l’anima e tutti le avevano fatto gran complimenti per la sua voce. No, non poteva volerla punire. Forse desiderava invece sentirla cantare durante il viaggio. Sarebbe stata una richiesta fuori dal comune per lei, ma poteva farlo senza problemi anche senza accompagnamento musicale. Ne sarebbe stata anzi felice, almeno il viaggio sarebbe stato meno noioso e più divertente. “Cos’aspetti?” sbraitò Jò Ilona sporgendosi nell’abitacolo e prendendola per un polso. La giovane ebbe la tentazione di ribellarsi a quei modi non consoni, ma lo sguardo intenso e penetrante di Kata la fece desistere. Aveva il terrore negli occhi e pareva volesse dirle: taci, non fiatare per nessun motivo. Così fece e facendosi spazio scese dalla carrozza. Si diede ancora un’occhiata attorno e poi, seguita da Jò Ilona che non mancò di spintonarla un paio di volte rischiando di farla cadere sulle pozze di ghiaccio raggiunse la contessa. La carrozza di Erzsébet era completamente rivestita di velluto verde scuro. Anche le tendine ai vetri erano di quel colore un po’ cupo. “Eccola.” Disse Jò Ilona producendosi in un inchino quasi ridicolo che metteva in mostra tutta la sua poca grazia. Erzsébet, che fissava qualcosa che evidentemente la interessava molto e solo lei poteva vedere, sembrò ridestarsi e si voltò verso la ragazza facendole un cenno per invitarla a salire. Ilona si sentì gli occhi della contessa addosso come una presenza fisica e concreta. Occhi che non avevano nulla di buono e che la fissavano con insistenza come a volerla trapassare da un momento all’altro. Prese posto di fronte a lei cercando di far finta di nulla e di risultare impegnata in un attento lavoro di sistemazione dell’abito e della piccola borsa da viaggio da cui non si sepa- rava mai. Voleva rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto incontrare quegli occhi. Tanto aveva desiderato incontrare quelli delle serve di poco prima quanto non desiderava incontrare quelli di quella donna. Jò Ilona scomparve facendole tirare un sospiro di sollievo. Se non saliva anche lei sulla carrozza, significava che la contessa non aveva cattive intenzioni, ma non appena ebbe concluso quel pensiero, la vecchia riapparve in compagnia di Dorkò ed entrambe salirono sulla carrozza di fianco a lei. Nessuno parlava. Dorkò E Jò Ilona si scambiavano sorrisi e cenni mentre la contessa continuava a fissarla senza parlare. Quei due occhi così grandi e scuri sembravano però contenere tutte le parole del mondo. Sembrava che tutto l’universo ci fosse annegato dentro e non sapesse più come uscirne. Ilona si perse in quegli occhi e fu sicura di vedere le anime dell’inferno che si contorcevano rabbiosamente tra le fiamme. Desiderò più di qualsiasi altra cosa al mondo di potersi fare il segno della croce, ma non osò arrivare a tanto, sfidando quegli occhi. Non era salita solo Jò Ilona sulla carrozza, ma anche Dorkò… questo non poteva significare altro che guai. Sentiva più freddo rispetto a prima, nonostante la carrozza fosse più riparata e maggiormente tappezzata di quella dove stava la servitù. Era un freddo diverso da quello che l’aveva schiaffeggiata fuori perché veniva da tutto. Veniva da dentro. Veniva dalla contessa. Era come avere davanti a sé un cadavere ripescato dalle acque dell’artico. Desiderava solo che quel silenzio e quello sguardo insistente terminassero, ma non sapeva quanto l’avrebbe rimpianto. Erzsébet accarezzò un cofanetto di legno che stava adagiato accanto a lei. Lo accarezzò più volte come fosse il suo prediletto animale da compagnia, quasi con affetto, anche se “affetto” era per lei una parola sconosciuta. Fece scattare le chiusure mettendo in mostra un contenuto quanto meno singolare per una contessa e forse più adatto a un medico. C’erano pinze, aghi, coltellini simili a bisturi. Uncini e spesso filo. Ilona s’irrigidì senza accorgersene e si tirò indietro. Subito Dorkò le afferrò un braccio e la strattonò intimandole di non muoversi. “Cosa succede?” domandò spaventata e confusa. Non poteva credere che qualcuno volesse farle del male. Che cos’aveva fatto per meritarsi una punizione? “Niente che ti riguardi.” Rispose secca Jò Ilona. “Voglio che me lo dica la contessa non voi!” si ribellò la giovane stupendo le tre donne che si scambiarono un’occhiata sbigottita. “Canti molto bene.” Rispose allora Erzsébet tutta intenta a scegliere con cura l’attrezzo più giusto per l’occasione. “Per questo volete punirmi?” domandò Ilona incredula. “No, certo che no. Ti punirò per la tua irriverenza.” “Quale irriverenza?” volle sapere. “Quella che stai dimostrando in questo momento. Ti stai rivolgendo con toni d’arroganza e irriverenza a me… Erzsébet Bàthory contessa Nàdasdy.” “Ma voi mi avete chiamata prima che io mi rivolgessi con irriverenza! Voi avevate già in mente ciò che volevate farmi! Perché?” domandò con le lacrime agli occhi. Le guance erano rosse per la rabbia e la paura. Chiedeva pietà e allo stesso tempo chiedeva giustizia. Due cose che la contessa non conosceva. Con gli occhi lucidi guardò ora Jò Ilona, ora Dorkò che non si trattennero e le risero in faccia. Una lacrima le solcò il viso andando a fermarsi sul labbro superiore che tremava fortemente. Erzsébet era già stanca di tutte quelle domande e soprattutto era stanca di avere davanti una poco di buono boriosa che si permetteva di parlarle a quel modo solo perché la natura le aveva fornito una voce gradevole. Ebbe l’impulso di trafiggerle la gola con un solo colpo e lasciarla morire dissanguata tra il ghiaccio di Vienna, ma tutto sarebbe andato perso se avesse agito d’impulso. No, lei voleva che il suo rientro a Csejthe venisse dilettato da un buon bagno di bellezza di cui sentiva un’urgenza rabbiosa. La carrozza partì sballottando le donne. Non aveva origini nobili quella fanciulla, eppure era aggraziata e di rara bellezza. Il viso ovale aveva un incarnato pallido e senza imperfezioni, incorniciato da folti e ondulati capelli scuri che teneva raccolti sulla sommità del capo in spesse ciocche lucenti. Gli occhi scuri e grandi avevano un ché di orientale che riusciva ad ammagliare gli uomini. Ma la voce era la cosa che più infastidiva Erzsébet. Quella voce che andava al di là dell’umano e sfiorava quasi il divino. Cos’avrebbe dato per riuscire a trattenersi fino al castello, dove avrebbe potuto utilizzare altri metodi e dove le comodità non mancavano, ma non poteva. Doveva farlo subito. Posò il piccolo coltello e prese un grosso ago. Lo porse a Dorkò insieme al filo spesso. Non ebbe necessità di dire che cosa desiderava che facesse perché la vecchia già sapeva. Jò Ilona rinforzò la presa afferrando entrambe le braccia della giovane che strillò di dolore e sorpresa. Dorkò infilò il filo nella cruna dell’ago e, prima che la giovane potesse com- prendere ciò che stava per fare, pinzò le labbra della ragazza tra l’indice e il pollice con mano salda e infilò l’ago nella carne tenera. Ilona si ribellò con tanto impeto da cogliere le due donne impreparate. Jò Ilona fu scaraventata contro la paratia e Dorkò scalciata maldestramente contro l’altra. “Puttana…” sibilò Jò Ilona riprendendo la sua posizione. Erzsébet osservava indispettita e stupita da tanta aggressività. Prese una spessa corda e la gettò in grembo a Dorkò che aiutò l’altra donna a legare strettamente le braccia di Ilona dietro la schiena. Il sangue colava sul mento e l’ago pendeva dal labbro superiore trafitto dall’ago. La bocca semiaperta in un grido lasciava intravedere il filo che congiungeva le due labbra. “Vi pregoooooo!” gridò per quanto poteva, dibattendosi con vigore. Un altro pezzo di corda servì a legare le caviglie che subito si chiazzarono di rosso là dove la corda stringeva. Jò Ilona l’afferrò per la vita con un braccio e con l’altro afferrò i capelli in modo che non potesse più muovere la testa. Dorkò afferrò l’ago e tirò forte verso l’alto in modo da stringere il primo passaggio fatto. Ilona cercò di divincolarsi, ma la presa di Jò Ilona non mollava. Un altro punto venne dato e già la bocca era per metà chiusa. Le labbra pulsavano e formicolavano e il sangue gocciolava sull’abito immacolato. Quando l’ultimo punto fu concluso, Dorkò fece un nodo doppio e con i denti marci strappò il resto del filo. Ilona piangeva a dirotto e dietro il velo di lacrime vedeva il volto spettrale della contessa. Dentro di sé pregava e prometteva davanti a Dio che mai più avrebbe cantato e mai più avrebbe desiderato un uomo se solo l’avesse salvata. Prometteva che avrebbe dedicato solo a lui il resto della sua esistenza e che mai e poi mai avrebbe tradito la sua fiducia. Ma Dio non c’era in quella carrozza. Forse anche lui troppo impaurito da quella sua creatura che aveva ceduto e venduto l’anima al male. Erzsébet scelse con attenzione il secondo attrezzo e lo porse a Dorkò. Non aveva voglia di imbrattarsi di sangue du- rante il viaggio. Preferiva che fosse la sua fedele serva ad intrattenerla fino al castello. Per ora le sarebbe bastato guardare. Dorkò accolse sul palmo della mano la pinza di ferro. Con un cenno indicò le mani della ragazza, ma Erzsébet abbassò lo sguardo sulle sue caviglie. Dorkò comprese e si chinò a sfilare le scarpe. Jò Ilona si spostò indietro e tirò la giovane verso di sé in modo che Dorkò potesse sollevarle le gambe e avere i piedi in grembo. Erano gelati e quasi bluastri per il freddo. Le unghie corte e pulite. Sarebbe stato più arduo il suo lavoro con unghie così corte, ma lei non si faceva intimorire dal lavoro. Le piaceva fare ciò che faceva. Si divertiva. Se Erzsébet aveva un’anima votata al male era perché i suoi stessi geni malati gliel’imponevano. La cattiveria era nata con lei come una malattia congenita che le divorava l’anima ogni giorno di più. Il mancato ricambio di sangue nella sua famiglia aveva fatto sì che lei agognasse sangue nuovo. Dorkò e Jò Ilona godevano delle atrocità compiute perché esseri abbietti e meschini. Brutte e scar- samente intelligenti, non potevano che non incontrare mai soddisfazioni e affetti. Vedere la sofferenza nelle belle giovani che potevano avere tutto dalla vita, era per loro una fonte di gioia senza precedenti. Ilona tremava e mugolava. Il viso bagnato di lacrime e sangue si stava come disfacendo. Dorkò pinzò saldamente l’unghia dell’alluce e senza tentennare tirò con quanta più forza poté. Ilona provò un dolore talmente forte da non riuscire a non gridare. Il labbro superiore si squarciò per metà e la giovane gridò riempiendosi la bocca di sangue e lacrime. Una parte del labbro pendeva sanguinante e nella foga di gridare, lo fece scivolare in bocca e lo morsicò inavvertitamente. La sensazione della sua stessa carne, ancora attaccata al suo corpo e pregna di terminazioni nervose che veniva morsicata là dove nemmeno più la pelle poteva proteggerla, le fece perdere i sensi. Il sapore metallico del sangue e quello salato delle lacrime si confuse accompagnandola oltre la soglia dell’incoscienza. Dorkò pinzò un’altra unghia e tirò di nuovo strappando l’unghia. La giovane si rianimò e non ci fu bisogno di ricorrere al fuoco. Una a una le unghie vennero strappate. Sia dalle mani che dai piedi. Le labbra furono ricucite per quanto era ancora possibile, ma non bastò. Ilona non era una serva e non aveva l’anima da serva. Lei aveva un dono e se fino a un attimo prima aveva provato orrore e disperazione per ciò che le stavano facendo, ora sentiva solo rabbia furente e desiderio di vendetta. I suoi occhi non avevano più lacrime e l’espressione non era più di forzata sottomissione. Era lo sguardo di chi sa che non ha più nulla da perdere… forse. Erzsébet si accorse subito di quel cambiamento. Gli occhi scuri e arrossati di Ilona la fissavano sferzanti come se fossero due stelle. Nessuna paura né riverenza. Ilona forse pensò che non poteva accaderle niente di peggio. Che la punizione fosse giunta al suo culmine. Sfigurata per sempre, coperta di sangue, cosa poteva accaderle di più? Erzsébet prese un altro ago, più sottile del primo e del filo, anch’esso più sottile di quello utilizzato per le labbra. Questa volta Dorkò non comprese subito che cosa desiderava la contessa, ma le bastò un cenno per farsi intendere. Dorkò fece in modo che anche Jò Ilona capisse ciò che si accingeva a fare. La vecchia assentì e strinse bene capelli e braccia. La carrozza sobbalzava meno da quando avevano abbandonato una vecchia strada che attraversava i campi per poi immettersi su quella che li avrebbe portati direttamente al castello. Dorkò ringraziò per questo, ma sembrò lo stesso titubante. Erzsébet aggrottò le sopracciglia non capendo perché aspettasse tanto prima di compiere il suo dovere. Per un attimo Dorkò sembrò spiazzata dalla richiesta della contessa. Incredibilmente, c’era ancora qualcosa che la stupiva. Ilona mugolò qualcosa che poteva essere una preghiera di smettere e Dorkò avvicinò minacciosamente l’ago al suo viso. Con lentezza esasperante, l’ago risalì dal naso allo zigomo e poi si fermò davanti all’occhio grande e rosso di capillari rotti. Con mano decisa e ferma, quasi che fosse un chirurgo, iniziò a cucire le palpebre. Prima la palpebra inferiore e poi quella superiore. Punti vicini e stretti, che ridussero l’occhio a una rivoltante cicatrice bitorzoluta e rossa di sangue che poteva vagamente somigliare all’intestino di un animale squartato. Ilona continuava a tentare una qualche ribellione che però veniva soffocata dalle braccia forti di Jò Ilona e dalla mano ferma e decisa di Dorkò. Diede il primo punto alle palpebre dell’occhio destro quando la carrozza s’inclinò fortemente a sinistra. L’ago trafisse l’occhio e l’ulteriore sobbalzo ne dilaniò la materia. Sangue e umori colarono sulla guancia mentre Ilona percepiva le ultime forze scemare. Erzsébet sembrò indispettita dall’accaduto, ma all’orizzonte si sta- gliava il castello e il suo meritato bagno caldo. Con un nuovo brillio negli occhi, fece cenno a Dorkò di fermarsi. La carrozza percorse gli ultimi metri e poi s’infilò nel cortile. Le serve scesero cercando di non guardare mai in direzione della carrozza della contessa. Avevano ben sentito le urla strazianti di Ilona e mai, per nessuna ragione, volevano che la contessa si accorgesse di loro. Presero i bauli e tutte insieme, come se l’unione potesse fare una qualche differenza, portarono tutto all’interno e si occuparono di sistemare ogni cosa al suo posto. Dorkò e Jò Ilona scesero tenendo Ilona una per lato. Erzsébet scese a sua volta e senza dire una parola si diresse verso i sotterranei, dove Ilona arrivò senza più la forza né la volontà di lottare. La legarono com’erano solite fare. Il rasoio, guidato da Dorkò incise la carne denudata e non risparmiò la ragazza nemmeno dei malati giochi erotici che tanto piacevano alla sua padrona. La candela accesa si avvicino alle ben tornite cosce e mentre Jò Ilona le teneva ben divaricate, la car- ne e la fitta peluria iniziarono a sfrigolare mentre quella maschera di sangue senza più bocca né occhi tentava di dar fiato ad un grido mostruoso. La fiamma si spense quando venne a contatto con la calda umidità del sesso e scivolò con forza nel suo corpo, liberando il fiotto di sangue che ne accertava la verginità. Erzsébet era in estasi. Le sue mani sfioravano i suoi stessi seni e un mugolio sommesso di piacere uscì dalle sue labbra ancora rosse di trucco. Sazia e soddisfatta restò a guardare Dorkò che con una lunga forbice tagliava in profondità le vene dei polsi. Il sangue uscì ancora copioso e si raccolse nella tinozza. Un ultimo sussulto di Ilona che poi si accasciò esanime. Quella volta non attese che il sangue fosse portato nelle sue stanze. Era troppo che aspettava quel momento e il freddo che regnava in quella parte di castello non la fermò. In un attimo i suoi vestiti caddero a terra e i suoi piedi entrarono nella tinozza dove fino a poco prima era sospeso il corpo della giovane cantante. Si strofinò con foga dappertutto. XV Era notte fonda quando i colpi alla porta lo svegliarono nuovamente di soprassalto. Immaginava chi potesse essere e non aveva voglia di averne la conferma. Si rigirò mettendosi il consunto cuscino sulla testa. I colpi si fecero ancora più insistenti. Sapevano che era in casa. Dove poteva essere altrimenti? E non avrebbero mollato fino a che lui non avesse aperto quella dannata porta. Si avvolse nella coperta e ciabattando innervosito si fermò dietro il legno martoriato dai colpi. “Chi è?” domandò già sapendo la risposta. “Abbiamo bisogno di voi.” “Non ditemi che è morto qualcun altro…” “Purtroppo sì. C’è stato un incidente e la contessa desidera che il corpo venga seppellito sta notte stessa.” Incidente? C’era sempre qualche strano incidente che implicava la figura della contessa. Com’era possibile? Dovevano essere proprio vere tutte quelle voci che la vedevano responsabile di torture e uccisioni. Aveva rifiutato di crederci per molti anni e gli erano sempre bastate le giustificazioni addotte dalle due vecchie serve, ma ora, dopo l’ennesima richiesta di sepoltura notturna, cominciava a credere che le voci che giungevano anche da Vienna non fossero calunnie. Lo stesso Andràs Berthoni aveva lasciato scritte nelle sue cronache di Csejthe di aver dovuto spesso occuparsi di sepolture notturne e che una volta aveva usato la cripta sotto la chiesa per occultare i cadaveri di nove giovinette i cui corpi erano irriconoscibili. Non poteva più far finta di nulla. Doveva in qualche modo fare chiarezza e giurò a se stesso che questa volta avrebbe perlustrato da cima a fondo la cripta per avere la certezza che ciò che Berthoni aveva scritto fosse la verità. Si vestì in fretta e furia e uscì nell’aria gelida. Dorkò e Jò Ilona erano come al solito insieme e ghignavano scambiandosi occhiate segrete. L’una magra, ricurva e sdentata, l’altra grassa, maleodorante e col naso adunco. Le seguì fino a che non scorse la solita bara di legno chiaro e senza pretese. “Qual è il nome del defunto?” domandò già sapendo che non poteva che essere una fanciulla. “Ilona Harczy.” Ponikenus sbarrò gli occhi esterrefatto. “Cosa? Ilona Harczy? La fanciulla dalla voce d’angelo?” “Lei. Qualcosa non va?” “Per quale ragione è morta?” Dorkò gli riservò un’occhiata infastidita e d’ammonimento. “Cosa vi importa? Dovete solo fare il vostro dovere e tacere o volete che ve lo ordini direttamente la contessa?” Ponikenus abbassò lo sguardo e sospirò. Cosa poteva fare lui solo contro il potere della contessa? Non poteva certo an- dare da lei e pretendere delle spiegazioni o forse sì? “Portatemi da lei allora.” Disse risoluto e con il cuore che batteva all’impazzata. Dorkò scosse la testa e rise mentre Jò Ilona dava colpetti con la punta della scarpa alla cassa appoggiata a terra. Senza una parola imboccò il sentiero che portava al castello e Ponikenus la seguì a distanza di sicurezza. Non voleva camminare vicino a quella donna che non era una donna, ma di certo un essere creato dal demonio. Quando attraversò la sala del castello, stupì nel vedere decine e decine di gatti neri che scorazzavano indisturbati. Si fece il segno della croce e salì le scale. Dorkò bussò alla porta della stanza della contessa e attese con pazienza. “Entrate.” Una voce spazientita. Quando la porta venne aperta, una zaffata nauseabonda lo investì. Odore di carne marcia, di sangue rappreso che tentava di venire camuffato da oli profumati che bruciavano qua e là. Erzsébet era in piedi accanto al suo adorato specchio. Quello che lei stessa aveva disegnato e fatto costruire. “Che cosa accade a quest’ora della notte?” domandò aggrottando la fronte. “Contessa… Ponikenus desidera avere delucidazioni sulla morte improvvisa di Ilona Harczy.” Erzsébet posò il suo sguardo crudele sull’uomo e attese che fosse lui a parlare. “Sì contessa. Vorrei sapere che cosa è accaduto alla povera Ilona.” “Da quando vi interessate dei motivi per cui una fanciulla smette di respirare? Sono cose che accadono. La morte è una presenza costante nelle nostre vite e capita a volte che anche chi ha doni come Ilona Harczy ne sia preda.” “Non avete però risposto alla mia domanda. Com’è sopraggiunta la morte?” Erzsébet parve spazientirsi e sbuffò annoiata. “Era una ribelle. Ha avuto atteggiamenti equivoci con il conte e ho dovuto punirla. Purtroppo non era nostra intenzione privarla della vita, ma ha perso l’equilibrio ed è caduta dalle scale. È stato un incidente come vedete, ma gradirei che durante la cerimonia fosse det- to che ha perso la vita a causa della sua disobbedienza.” Ponikenus scosse la testa incredulo. “No. Non dirò una tal falsità al cospetto di Dio. E sarà l’ultima volta che mi presterò a tali sepolture.” Erzsébet lo fissò a lungo, combattuta tra il desiderio di staccargli la testa dal collo o farlo scaraventare giù dalla finestra. Strinse i pugni fino a sentire dolore. “Non dite nulla allora, ma impicciatevi degli affari vostri. Quel che riguarda il castello non è affar vostro.” Con un cenno della mano fece intendere a Dorkò di uscire dalla stanza. Ponikenus fece ritorno al luogo dove Jò Ilona attendeva accanto alla bara. Con le lacrime agli occhi portò a termine la sepoltura, ma senza dire ciò che aveva ordinato la contessa. Una creatura come Ilona Harczy non nasce in tutte le epoche, pensò. Una tale voce, capace di toccare le anime e arrivare fino al cielo non meritava una fine tanto orribile. Il desiderio di poter vedere quel corpo non lo lasciò per tutto il tempo. La curiosità di sapere come l’avevano ridotta… ma non poteva certo aprire la bara davanti alle due vecchie e non poteva nemmeno disseppellirla dopo. Si strinse nel mantello e, con gli occhi lucidi, rimase a dire ancora una preghiera mentre Dorkò e Jò Ilona si allontanavano soddisfatte e i loro corpi sbiadivano nella nebbia del primo mattino. Ponikenus tornò quasi correndo verso la propria dimora. Si chiuse nella stanza e corse accanto alle braci ancora vive del piccolo focolare. Attese che i brividi passassero e senza aspettare un attimo di più, prese il lume e corse verso la chiesa. Doveva porre fine a quelle domande che gli vorticavano in testa e non lo lasciavano più in pace. Doveva sapere se Berthoni si era inventato tutto o se invece era stato lui a non vedere la verità per così tanto tempo. Percorse la breve navata e scese nella cripta facendo attenzione a non inciampare negli sconnessi scalini. Davanti a sé si apriva la grande cripta che ospitava le spoglie mortali di Christofer Orszàgh di Giath, proprietario di Csejthe e del castello passato poi ai Nàdasdy oltre che judex curiae e consigliere dell’imperatore Mattia. Ponike- nus si coprì la bocca e il naso con il mantello; l’aria era pesante e intrisa degli odori forti della decomposizione. La fiamma incerta del lume, rischiarò la stanza, creando angoscianti ombre tutt’attorno. “Oh mio Dio… abbi pietà di noi…” sospirò poi vedendo accatastate intorno all’imponente sarcofago, le tante bare di legno. Un rumore alle sue spalle lo fece sobbalzare e quasi inciampare. L’ultima cosa che desiderava era cadere e perdere i sensi in quel luogo sinistro, magari dando fuoco al vecchio legno con il lume che stringeva in mano. Un grosso ratto attraversò di corsa la cripta. Tremando, tirò un sospiro che poteva essere di sollievo. Fece ancora qualche passo e appoggiò il lume sul sarcofago. Doveva vedere. Doveva sapere. A mani nude, prese il coperchio di una delle bare e il legno marcio scricchiolò. Tirò forte e una parte del coperchio saltò via. Con frenesia e sempre guardandosi attorno intimorito, staccò grossi pezzi di legno fino a portare alla luce il corpo decomposto e nero di una giovane i cui capelli erano ancora folti attorno al viso scuro. Un osso sporgeva da una grossa ferita sullo zigomo. Era come se vi fossero passati sopra con le ruote di una carrozza. Il viso era deformato a causa delle ossa rotte; il naso piegato da una parte. Era nuda e i seni incartapecoriti recavano vari segni che sembravano morsi profondi. Si fece di nuovo il segno della croce e nemmeno si accorse che stava sussurrando preghiere. Tra le gambe della giovane, un grosso bastone sporgeva e sembrava anch’esso coperto di sostanze un tempo vive, come il sangue. Ma la cosa che più lo impressionò e che rischiò di fargli perdere la ragione, fu l’incisione sull’addome. Pareva che l’avessero squartata; i lembi di pelle e carne erano stati aperti. Da quell’apertura si vedeva chiaramente il resto del bastone che era risalito dal suo più intimo e aveva distrutto tutto ciò che aveva incontrato sul suo cammino, fino quasi ad arrivare al cuore. Si voltò in preda a forti conati. Si appoggiò al muro e vi poggiò la fronte chiudendo gli occhi, in attesa che passasse il malessere. Come potevano aver compiuto certe atrocità? Quanti anni poteva avere quella giovane? A giudicare dai seni appena accennati e dal corpo minuto, non poteva averne più di quattordici e forse anche meno. Come poteva una donna, fare una cosa del genere a un’altra donna che, data l’età, avrebbe potuto essere sua figlia? Perché causare tanto dolore a una creatura indifesa? Erano tutte domande a cui non sapeva dare una risposta. Come preso da una frenesia e da una rabbia incontrollabili, si avventò sulle altre bare e una dopo l’altra, ne scardinò i coperchi. Solo quando anche l’ultima vittima venne rischiarata dalla luce del lume, si accasciò a terra ansimando e piangendo. Di cosa era stato complice fino a quel momento? Che cosa aveva fatto? Dio l’avrebbe mai perdonato? Erano tutte giovani e recavano tute i segni di mostruose torture che solo il diavolo poteva aver suggerito. Nessun essere umano poteva spingersi a tal punto! Rimase nella cripta a lungo. A piangere e porsi domande per cui non vi era una risposta. Era sconvolto da quelle visioni di morte, ma più di tutto piangeva la scomparsa di Ilona per cui il suo cuore di uomo aveva perso qualche battito facendogli dimenticare di essere un uomo di Dio. Decise in quell’istante che sarebbe andato da Elias Lanyi, sovrintendente di Bicse per denunciare ciò che aveva scoperto. PARTE SECONDA I Ferencz Nàdasdy era morto il 4 gennaio 1604 lasciandola sola. La sua primogenita si era sposata ed Erzsébet aveva davanti a sé una vita di solitudine che non riusciva ad accettare. Solitudine che sembrava volesse prepararla alla vecchiaia che sopraggiungeva e a cui non riusciva a rassegnarsi. Qualche ruga le solcava il viso austero nonostante le continue accortezze. Necessitava di qualcosa di più e fu per questa ragione che invitò al castello una donna che tutti sapevano essere una potente strega in contatto con tutti gli elementi della natura. Erzsébet stava ritta in mezzo alla sua stanza, nuda e bianchissima e osservava con cipiglio il corpo riflesso dallo specchio. Stava per ore così. Immobile e silenziosa a scrutare ogni centimetro di pelle e si domandava perché, dopo tanti sacrifici, il suo corpo risentiva del tempo. Con i pugni stretti, la pelle d’oca per il freddo e la mandibola serrata, aspettava che Dorkò le annunciasse l’arrivo della strega che le avrebbe dato qualche buon consiglio. Come a esaudire questo suo desiderio, bussarono alla porta. Ferma in mezzo alla stanza e senza alcun pudore, invitò all’entrata. Dorkò si materializzò sulla porta in compagnia di una donna alta e magra come uno spettro. Nessuna delle due sembrò imbarazzata dalla nudità della contessa che nonostante l’età e le maternità poteva ancora vantare un bel corpo. “Ho portato la strega della foresta contessa. Il suo nome è Darvulia.” Disse facendosi da parte per permettere alla contessa di avere piena visione della strega. “E così voi sareste la potente strega di cui tutti bisbigliano.” “Sì contessa Bàthory Nàdasdy. Sono io. E voi siete la contessa che corre dietro alla gioventù.” “Dorkò, lasciaci sole.” Ordinò brusca. “Entrate.” Disse rivolgendosi a Darvulia e avvolgendosi in una pesante vestaglia di broccato. “Che cos’avete fatto fino ad ora e come mai non siete soddisfatta dei risultati?” “Il sangue delle giovani non basta più. Il mio corpo invecchia, le rughe solcano il mio viso, lo sguardo non è più fresco come un tempo. Sono io che vi chiedo cosa fare per ottenere risultati.” “Quante volte il sangue di queste giovani ha rinvigorito il vostro corpo?” Erzsébet scosse la testa. “Non saprei rispondere. Non c’è mai stato un appuntamento prestabilito, ma senz’altro non meno di due volte al mese.” Darvulia sorrise e scosse la testa come se avesse già compreso i motivi per cui le attenzioni utilizzate dalla contessa non avessero funzionato. “Che età avevano le fanciulle e di quale estrazione sociale erano?” “Alcune dodici, altre anche venticinque ed erano tutte contadine, serve dal sangue forte.” “Avete sbagliato contessa.” Erzsébet che non era abituata a sentirsi dire che aveva commesso un errore divenne rossa in viso per la rabbia, ma senza rispondere, la ricacciò indietro. Aveva bisogno di Darvulia e non voleva che se ne andasse senza averle rivelato i segreti che custodiva gelosamente. “Dite allora! Cosa è stato sbagliato!” rispose impaziente. “Le giovani… non devono avere più di diciotto anni e non devono mai aver conosciuto l’amore o il loro sangue non avrà ricchezza da donarvi. I benefici che avete ottenuto bagnandovi con il sangue delle giovinette di dodici anni è stato come annullato dal sangue povero di quelle troppo vecchie.” Erzsébet sembrò soppesare a lungo quelle parole. “Volete dire che non potrò utilizzare le mie serve?” “No. Potete farlo, ma solo di quelle molto giovani. Due volte al mese è abbastanza per una giovane donna, ma superati i trent’anni è necessario che i bagni siano ravvicinati se si desidera che l’effetto sia duraturo.” “Da quanto tempo è scomparso vostro marito?” domandò all’improvviso, lasciando Erzsébet senza parole. “Da otto mesi.” Rispose rattristata. Nella sua mente, la figura di Ferencz stanca e adagiata sul letto, le strinse il cuore. Non conosceva la parola amore, ma forse qualcosa aveva provato per quell’uomo così forte e importante che l’aveva presa con sé ancora bambina. Se quando era ancora in vita, lei aveva avuto giornate che si avvicinavano un poco a essere giornate felici, ora non vi era più nulla dentro di lei che lo facesse sperare. Tutto era andato perduto e non c’era nemmeno più il pensiero di riaverlo nel proprio letto a rassicurarla e farla sentire desiderabile. Non necessitava di un uomo qualsiasi lei. Aveva bisogno di un uomo potente e bramoso del suo corpo. Un uomo che tornava dalle battaglie assetato e affamato di lei. Se nel passato, quando lui era ancora in vita, aveva risparmiato molte delle fanciulle torturate, dal momento della sua scomparsa nessuna aveva più visto la luce dopo che lei ci aveva posato gli occhi. Una rabbia incontenibile si era impos- sessata di lei. Una durezza mai vista aveva sconvolto i suoi lineamenti che ora risultavano più marcati. Se ogni tanto le sue labbra si erano piegate in un vago sorriso di soddisfazione quando anche lui era distante, ora non ve ne era più traccia. “Avete bisogno di sfogare il vostro essere per rendere più bella la pelle. Se non desiderate che sia un uomo a portarvi all’estasi, fatelo fare da una donna, ma non trattenete la potenza del vostro sesso perché rischierà di farvi marcire. Erzsébet ascoltò con attenzione. Vi era stata una sola donna che aveva davvero fatto sfogare i suoi istinti come fosse un uomo. Sua cugina. Aveva cercato ancora di provare quelle sensazioni obbligando alcune sue damigelle a fare ciò che desiderava, ma nulla era stato come quella volta. Nemmeno sua zia era riuscita a farle provare tanto piacere. Pensò a Lazlo che continuava a occuparsi dei cavalli, ma che nulla aveva dell’uomo che era stato suo marito. Aveva ragione Darvulia. Quella mancanza di sfoghi sessuali l’avrebbe avvelenata a lungo andare e non poteva permet- tere che questo si ripercuotesse sul suo corpo. Pensò a quante volte negli ultimi tempi si era lasciata andare a pratiche di autoerotismo mentre rimirava il suo corpo riflesso nello specchio e a quanto il suo desiderio, anziché diminuire, aumentava rabbiosamente facendole desiderare solo di poter uccidere per placarlo almeno un poco. “Desidero che facciate tutto il possibile per rallentare se non eliminare l’avanzare dei segni che il tempo sta lasciando sul mio corpo e desidero che facciate qualcosa per eliminare coloro che tramano contro di me.” Darvulia scoppiò in una risata terribile e allo stesso tempo affascinante che lasciò Erzsébet di stucco. A Darvulia non pareva vero di poter fare ciò che più amava, agli ordini di una nobildonna così potente e che l’avrebbe protetta. L’anziana scheletrica con la pelle tesa sulle ossa del viso come fosse un cadavere appena uscito dalla tomba assentì ridendo ancora. “Vi state per caso prendendo gioco di me?” domandò Erzsébet seria. “No… certo che no contessa. Sarò lieta di aiutarvi nei vostri intenti. Non dovrete più temere il tempo e nemmeno i vostri nemici. Vi preparerò una pergamena incantata da portare sempre con voi e che vi proteggerà. Farò in modo che il dolce zucchero di una torta diventi veleno e tolga di mezzo i vostri contestatori. Domani vi farò avere dei dolci e voi li farete portare come segno d’amicizia a uno dei vostri nemici. Solo uno… non dimenticate. L’incantesimo deve essere fatto pensando ad una sola vittima o perderà il suo potere. Questa notte le erbe malvagie della foresta faranno il loro dovere e le forze della natura si apriranno a me come sempre hanno fatto.” Erzsébet assentì, convinta da quel discorso. “Ora ditemi: quale nome volete che venga pronunciato durante l’incantesimo?” “Janòs Ponikenus.” “E sia!” disse girandosi verso la porta e uscendo dalla stanza. Erzsébet rimase così, sola nella sua stanza strofinandosi le mani con rabbia. Aveva sbagliato tutto! Aveva usato sangue vecchio che aveva limitato i poteri del sangue giovane! Tutto per non affidarsi a una vera strega! Era arrabbiata con se stessa, per non aver chiesto prima l’intervento di una vera strega che conoscesse fin nell’intimo gli incantesimi della luna e della natura. Chiamò Dorkò strillando come un’ossessa e le ordinò di preparare le più giovani serve e di portarle nelle celle. Lei sarebbe scesa non appena fossero state tutte riunite. II Aveva ragione Darvulia. Dopo il bagno di sangue fatto la sera precedente, la sua pelle sembrava davvero radiosa. Sette erano state le vittime e Dorkò era stata come sempre impeccabile ed erotica. I dolci promessi dalla strega erano arrivati. Erzsébet era entusiasta e incaricò subito una giovane serva di portarli a Ponikenus e di consegnargli una sua lettera. La giovane prese con sé il piccolo vassoio ancora tiepido, che spandeva un profumo tanto invitante da tentarla più volte mentre percorreva veloce la strada deserta che portava alla chiesa. Non li toccò perché era certa che la contessa li avesse contati e non voleva in alcun modo attirare su di sé la sua ira. L’aria cominciava a essere meno fredda e ogni tanto il sole riusciva a bucare le spesse nubi e riscaldare la terra fredda. La giovane si fermò a rimirare l’erba, gli alberi e il fiumiciattolo. Respirò a pieni polmoni desiderando solo di poter stare all’aria aperta per sempre e di non dover tornare mai più tra le mura di quel castello. Avrebbe preferito di gran lunga lavorare la terra al freddo di gennaio piuttosto che rammendare tovaglie al caldo del castello di Csejthe. Aveva spesso meditato di fuggire, ma in molte le avevano detto che se fosse fuggita, avrebbe dovuto davvero scomparire e in fretta perché se i seguaci della contessa l’avessero ritrovata, per lei non ci sarebbe stato più nulla da fare. E chissà quanto tempo avrebbe voluto tenerla in vita prima di lasciarla volare verso la pace che in ultimo avrebbe implorato. Già, perché chi provava l’ira della contessa non supplicava più che le fosse risparmiata la vita, ma solo di porre fine al dolore. Si domandava perché fosse toccato proprio a lei di dover andare a servizio da quel demonio. Aveva tanti desideri quando era solo una bambina e ancora viveva con la sua famiglia. De- siderava una casa tutta sua, un marito, tanti figli... non le importava di non avere legna per scaldarsi o solo pane raffermo da mangiare. Le interessava solo il tiepido calore della sua famiglia stretta attorno, fatta di risa, di pianti, di confidenze e di litigi. Non era vita quella che stava vivendo adesso. Costretta a cucire in tombale silenzio per tutto il giorno. Senza una famiglia e senza una vera amicizia. Le altre giovani che lavoravano con lei non si potevano considerare delle amiche perché ognuna di loro pensava solo alla propria salvezza. Lei stessa era stata costretta da Dorkò a cucire per due interi giorni senza interruzioni e completamente nuda nel cortile. Il corpo livido di freddo e le dita indurite avevano continuato a lavorare freneticamente per finire la tovaglia prima di svenire o di morire. Aveva avuto paura. Paura che quello fosse solo l’inizio della punizione e che poi le sarebbe toccato visitare di persona le lavanderie, ma evidentemente, la contessa era di buon umore quel giorno perché dopo averla guardata a lungo con un sorriso dipinto sulle labbra rosse, aveva detto a Dorkò che la punizione era terminata. Capitava spesso che qualcuna di loro dovesse patire queste umiliazioni, ma la peggiore punizione che avesse visto fu quella inflitta a Varduska. Era inciampata maldestramente e aveva fatto cadere il vassoio con la colazione della contessa proprio ai suoi piedi, sporcandole le scarpe e l’orlo dell’abito. La contessa era rimasta immobile, con la mandibola contratta e le mani ad artiglio. Varduska non aveva osato alzarsi fino a che non era stata la stessa Erzsébet a ordinarglielo. Quando fu in piedi di fronte a lei, Erzsébet la schiaffeggiò con forza prima di chiamare Dorkò e ordinarle di denudarla e portarla in cortile dove le avrebbe raggiunte dopo aver indossato un abito più adatto e pesante. Varduska venne privata dei vestiti e lasciata nuda in mezzo al cortile ancora innevato. La ragazza tremava. Doveva avere sedici anni e il suo corpo di donna era bello e aggraziato. Gli addetti alle stalle guardavano di sottecchi quel corpo desiderabile e anziché sognare di immergersi tra quelle carni, pregavano per lei. Erzsébet arrivò e tutti proseguirono senza voltarsi mentre lei li osservava uno a uno senza proferir verbo. Il fiato le si condensava davanti al viso in bianche nuvolette quando ordinò a quattro degli addetti alle stalle di approfittare di quel corpo nudo. Nessuno di loro avrebbe voluto insozzare il corpo di quella giovane che ben conoscevano e che era una brava fanciulla, davanti agli occhi bramosi e crudeli di quella donna senza Dio, ma non poterono rifiutarsi. Non esisteva l’amicizia in quel castello. Ognuno pensava per sé o avrebbe dovuto pagare con la vita. Varduska fu violentata da quattro uomini che ci misero parecchio prima di essere sessualmente pronti e che per questo fecero perdere la pazienza alla contessa che li accusò di non essere veri uomini. Loro erano uomini, ma la loro libido non era affatto stimolata da quella situazione. Quando finalmente la contessa fu soddisfatta, Varduska pianse tutte le sue lacrime per l’umiliazione, il dolore, il freddo, la purezza che aveva riservato per il vero amore e perduta per sempre, ma credé anche che la sua punizione fosse giunta al termine. Si sbagliava perché la contessa ancora non riusciva a togliersi dalla testa il suo bell’abito sporcato dal vino. Ordinò a Dorkò di bagnarla con l’acqua del pozzo e di lasciarla in mezzo al cortile fino al giorno seguente. Varduska non arrivò al giorno seguente. Morì durante la notte. Il suo sangue le si gelò nelle vene e al mattino, uno degli inservienti, mosso a compassione le si avvicinò e la trovò cadavere. Non aveva vie d’uscita. Non poteva fuggire perché prima ancora di aver trovato un rifugio sicuro, l’avrebbero trovata. Non le restava che tacere e godere di quei pochi momenti di libertà che ancora la facevano sognare a occhi aperti. Bussò alla porta di Ponikenus e attese guardandosi intorno. Un cane randagio le passò di fianco scodinzolandole e lei allungò una mano e gli carezzò la grossa testa pelosa prima che zampettasse via; magro ma felice. Ponikenus aprì la porta e rimase stupito di vedere la giovane. Non gli pareva di conoscerla. “Padre… mi manda la contessa. Desidera che leggiate questa lettera e che accettiate il suo dono.” Disse abbassando gli occhi. Ponikenus prese il vassoio e sollevò il canovaccio che ne ricopriva il contenuto. “Paste…” sospirò, ma sembrava spaventato anziché contento. Prese la lettera e la aprì. Carissimo Janòs Ponikenus, gradite questi dolciumi fatti a regola d’arte come pegno d’amicizia e lasciate che le passate incomprensioni vengano abbandonate in favore di un futuro di pace. Ponikenus fu tentato di accartocciare la lettera, ma ebbe timore che questo suo gesto potesse essere riportato dalle labbra rosate della fanciulla che aveva di fronte. La contessa aveva occhi e orecchie dappertutto e lo sapeva bene. Rientrò e posò il vassoio sul tavolo guardan- dolo con sospetto come se potesse saltargli addosso come una bestia selvatica non appena lui avesse voltato le spalle. “Ringrazia la contessa da parte mia e comunicale che è anche mio desiderio vivere in pace.” La ragazza scosse la testa incredula e intimorita. “Cosa ti prende?” chiese preoccupato. “Vi prego… scrivetele… non obbligatemi a parlare con lei… vi prego…” supplicò con le lacrime agli occhi. Subito la giovane si pentì di quell’istintiva richiesta perché Ponikenus avrebbe potuto riferirlo alla contessa, ma proprio perché spinta dall’istinto di sopravvivenza, quel dubbio non le sfiorò la mente prima di parlare. “Che cosa temi? Che cosa ti ha fatto?” Lei scosse la testa con vigore. “Niente. Niente. È solo che…” “A me puoi dirlo. Io so che razza di demonio sia.” “Vi prego, non obbligatemi a parlare. Scrivetele e fatemi rientrare. Se ci metterò troppo tempo, lei…” le lacrime scivolarono copiose sulle guance arrossate dall’aria fresca. Ponikenus non volle insistere. Anche lui ne aveva paura e non poteva giudicare quella giovane per la scelta di tacere. Si riavvicinò al tavolo e prese la stessa lettera della contessa ove appose alcune frasi prima di restituirla alla ragazza che aspettava sulla soglia, asciugandosi frettolosamente il viso con il bordo del grembiule. La vide fuggire via come avesse il diavolo alle calcagna in uno svolazzare di gonna. Qualcuno doveva porre fine all’orrore che regnava in quel castello. Decise che sarebbe andato quel giorno stesso da Elias Lanyi a Bicse. Non aveva avuto il coraggio di andare dopo la morte di Ilona, ma era venuto il momento di prendere una decisione. Si avvicinò al tavolo e scoprì il vassoio con le paste. Il profumo era forte e si spandeva in tutta la stanza. Non le avrebbe mangiate per nessuna ragione al mondo. C’era una scrofa in una stalla poco distante da lì. Una scrofa che presto sarebbe stata macellata. Prese il mantello e corse verso la stalla tenendo il vassoio distante dal corpo come se avesse timore anche solo del contatto di quel dono. Entrò nella stalla e i maiali grugnirono all’unisono spaventati dalla sua irruenza forse. Si avvicino all’animale e fece scivolare un pasticcino nel recinto invitandolo ad assaggiarlo. La giovane scrofa grufolò, sembrò non degnarlo di uno sguardo e poi, vorace, lo mangiò. Ponikenus rimase nella stalla per ore, osservando l’animale che mangiava e grugniva. Stava quasi per darsi dello stupido, quando un forte grugnito precedette la morte dell’animale che stramazzò al suolo. L’uomo guardò i restanti pasticcini che teneva in grembo e poi l’animale morto. “Sarebbe morta comunque… domani… macellata…” si disse per allontanare il vago senso di colpa. Fuggì dalla stalla e rientrato in casa, gettò i pasticcini nel fuoco del camino. Forse fu solo una sua impressione, ma le lingue di fuoco sembravano urlare del grido degl’inferi e parevano prendere la forma di orride maschere di dolore. III Le voci si facevano ogni giorno più insistenti ed Erzsébet cominciava a temere che Megyery avrebbe potuto parlare e calunniarla. Fece fare un incantesimo anche per lui e ogni giorno lo pronunciava per far sì di tenerlo a bada. Se solo fosse morto! Darvulia le aveva ordinato un trattamento per quel giorno e le aveva insegnato molte cose durante le loro chiacchierate. Ciò che le aveva detto era stato importante perché ora non uccideva più per il solo piacere di potersi bagnare nel sangue, ma proprio per togliere la vita. Le aveva spiegato che la natura e Satana stesso le avrebbero dato ciò che chiedeva se lei avesse sacrificato delle vite e se questo l’avesse fatto per loro e non per se stessa. Ponikenus non era morto e questo la infastidiva, ma sapeva che non aveva mangiato i pasticcini preparati da Darvulia per questo non glie ne faceva una colpa. Sospettava di lei e per questo non si era lasciato ingannare. Quello stesso giorno era stato intercettato da una delle sue fidate serve mentre si recava di gran fretta a Bicse. Non era stato difficile farlo desistere dal suo intento. Privo di midollo! Dorkò comparve sulla soglia. “Sono pronte.” Senza rispondere, Erzsébet uscì dalla stanza seguita da Dorkò. Nei sotterranei di fredda pietra, si sentivano singhiozzi soffocati. Il fuoco era acceso e la gabbia da poco acquistata era sospesa a mezz’aria. Quanto amava quei sotterranei dove l’odore umido della terra la faceva sentire protetta come nel ventre materno. Lì nessuno poteva raggiungerla e farle del male. Lì non esisteva la contessa, la madre di famiglia, la vedova inconsolabile. Esisteva solo Erzsébet, la donna sospesa nel tempo che si lavava nel sangue, che ne assaporava l’aroma metallico rigirandoselo in bocca come fosse un vino invec- chiato. Il tempo era fermo. La rivoluzione tra cattolici e protestanti che imperversava in Ungheria non era nulla; non esisteva. Niente aveva valore tra quelle mura in cui il muschio che rifuggiva la luce cresceva indisturbato. Non sentiva le preghiere delle giovinette. Non sentiva le loro suppliche. Respirava a fondo come le era stato consigliato da Darvulia e si preparava a fare da tramite tra quel mondo che ben conosceva e quello degli elementi e di Satana. Nulla l’avrebbe fermata. Nemmeno le voci che volevano che in qualche luogo distante, forse in Inghilterra, si preparasse una possibile caccia alle streghe. Lei non si sarebbe fermata perché a Csejthe era la padrona indiscussa e nessuno mai avrebbe potuto schiacciarla. Respirando a fondo, sentiva i battiti del proprio cuore e come per magia, sentiva lo sciabordio delle onde, il frinire delle cicale, il rumoreggiare delle fronde degli alberi. Il vento freddo del nord le accarezzava il corpo e il calore del fuoco le scaldava la pelle. C’era tutto quello di cui aveva bisogno. Tutti gli elementi erano con lei come non lo erano mai stati e tutto grazie alle sagge parole di Darvulia che le aveva insegnato tutto ciò che sapeva. Si avvicinò alla cella e indicò con mano ferma una delle giovani che subito si tirò indietro e prese a piangere più forte. Quando Dorkò aprì la cella, furono le sue stesse compagne a spingerla fuori come se quel gesto meschino potesse in qualche modo salvarle, ma Erzsébet nemmeno lo notò. Lo considerò un gesto dovuto e non ci si soffermò per più di un secondo. La giovane aveva tredici anni. Era robusta e aveva capelli così neri da risaltare come carbone sulla neve. Jò Ilona fece calare la gabbia con un gran fracasso di catene e Dorkò spinse dentro la ragazza nuda e terrorizzata. A tredici anni ancora non aveva peli pubici e il seno era appena accennato. Di certo ancora non aveva conosciuto l’amore. Ficzkò si teneva in disparte e ogni tanto pungolava una delle altre prigioniere con la punta di una grossa lancia. Rideva sguaiata- mente fino a che la contessa non lo redarguì con un’occhiata. La gabbia venne risollevata da Jò Ilona e con l’aiuto di Dorkò, data la mole tutt’altro che sottile della giovane. La catena fu bloccata a un ferro attaccato alla parete e Ficzkò porse la lancia alla contessa che già si era rimboccata le maniche. La punta della lancia venne avviluppata dalle fiamme fino a divenire rossa e lucente come una cometa. Erzsébet la infilò tra le sbarre e iniziò a pungolare lievemente la giovane. Le urla si fecero subito acute e il dolore inimmaginabile la costrinse a scattare da una parte all’altra della gabbia ferendosi profondamente con gli spuntoni di ferro di quell’arma di tortura che solo una mente malata poteva aver concepito. La giovane cercava di proteggere da quegli aculei almeno il viso stravolto dal dolore e dal terrore. Il sangue scivolava lungo le sbarre della gabbia e gocciolava lucente e vivo nella tinozza. Ficzkò ridacchiava e indicava la vittima alle giovani ancora nella cella. Si divertiva a vedere il terrore dipinto sui loro volti e a pregustare il momento in cui un’altra avrebbe varcato la soglia della cella già sapendo che cosa l’aspettava. Guardava la contessa e la immaginava nuda sul suo corpo. Chi non l’avrebbe fatto? Era la donna più sensuale che avesse mai visto nonostante fosse già in là con l’età. Lo eccitava il suo potere assoluto e il suo essere impavida di fronte a qualsiasi cosa. Aveva odiato i momenti in cui il conte Nàdasdy ritornava al castello e giaceva con lei per tutta la notte. Spesso sentiva il cigolio del letto e l’ansimare dei due. Quante volte si era alzato da suo giaciglio ed era rimasto silenzioso dietro quella porta ad ascoltare il godere. Sapeva di non avere alcuna speranza, ma in cuor suo continuava a sognare una notte con lei. La natura lo aveva reso orrido e storpio senza nessuna possibilità di essere felice. Chissà come sarebbe stato se fosse nato normale? Ricordava che da piccolo, quando ancora la sua deformità non era così evidente e ancora credeva che sarebbe cresciuto come gli altri, sognava di innamorarsi e di avere una famiglia. Scacciò quei pensieri con un gesto della mano come fossero insetti fastidiosi. Si sarebbe perso tutto questo se fosse stato normale e sarebbe stato un vero peccato, si disse. In fondo che cosa gli mancava? Una moglie piagnucolante? Dei figli da sfamare? Il duro lavoro della terra? No, stava bene così. A guardare una dea della natura che usava tutto il suo potere. A stuprare i cadaveri ancora caldi e dal corpo martoriato. Sì, questo gli piaceva e non gli mancava proprio nulla. La fanciulla nella gabbia sbatteva da una parte all’altra come una colomba impazzita e su tutto il corpo erano evidenti le perforazioni causate dalle punte di ferro. Piangeva e si stringeva il corpo con le braccia là dove la carne era più delicata. Ancora la lancia arroventata tocco la pelle, ma questa volta non si fermo e affondò nel fianco morbido strappando un altro grido. La fanciulla si accasciò sul fondo, forse svenuta. Erzsébet fece un cenno a Dorkò che prese a far calare la gabbia. Nella tinozza già si raccoglieva una buona quantità di sangue. La gabbia si appoggiò a terra e Jò Ilona l’aprì e prese per un braccio la povera vittima tirando- la fuori di peso. Rimase a terra immobile e svenuta fino a ché Dorkò utilizzò il metodo testato da Ferencz e con una pira di carta oleata e infuocata, bruciò la carne dei seni e delle cosce. Subito la giovane rinvenne scattando all’indietro. Si guardò attorno incredula d’essere ancora viva e fuori dalla gabbia. Come se fosse possibile, scivolò all’indietro tentando una fuga che finì subito contro le gambe ben piantate di Jò Ilona. Erzsébet fece un passo indietro e reclinò la testa come se stesse ammirando una rara opera d’arte e volesse imprimere tutti i particolari nella memoria per poterli raccontare ad amici e parenti. Percepiva la presenza di Satana proprio come le aveva preannunciato Darvulia. E pensare che per tanto tempo non aveva dato peso alle forze della natura e aveva fatto tutto questo solo per il suo piacere. Dorkò attese un suo cenno e quando ci fu, tirò su di peso la giovane e la incatenò con le braccia alte sulla testa. Era bassa e legata così, i suoi piedi non arrivavano a toccare terra. Le braccia tese le facevano male per il peso del corpo da sostenere. Erzsébet si avvicinò al tavolo e prese un coltello sottile dalla lama corta e ricurva. Ritornò di fronte alla giovane che supplicava e mormorava parole senza senso. Forse il suo cervello aveva già abbandonato la ragione per tuffarsi in un fiume di pazzia che potesse preservarlo in quegli ultimi momenti. La lama affondo nell’ascella accanto all’attaccatura del piccolo seno e con un gesto deciso, ne seguì tutto il contorno fino a tornare la punto di partenza. Dorkò era già pronta con la carta oleata, ma la giovane non svenne. Erzsébet posò il coltello e lo cambiò con un paio di pinze piuttosto grandi che aveva fatto costruire apposta. Aprì quella sorta di dentatura di ferro che in quel momento sembrava un animale preistorico affamato e racchiuse il seno già mezzo distaccato. Le ganasce entrarono nella ferita aperta e la contessa tirò verso di sé con forza. La mammella si distaccò portando con sé lembi di carne, di muscolo e il sangue uscì in un fiotto grande. La fanciulla a questo punto svenne e Dorkò la riportò di nuovo alla realtà. Non aveva più forza per gridare e gli occhi le si chiudevano. La vita la stava abbandonando e già si notava la minore luminosità dello sguardo. La mammella fu posta su un piatto che Jò Ilona le porgeva e poi messa a sfrigolare sulla griglia accanto al fuoco. Erzsébet posò l’attrezzo e si ripulì le mani con un canovaccio. Dorkò, da quel gesto, capì che era venuto il momento di porre fine a quell’agonia. Con le fidate forbici, incise i polsi e l’ultimo sangue si raccolse nella tinozza mentre la giovane boccheggiava come un pesce fuor d’acqua. Ficzkò aprì la cella e ne fece uscire un’altra giovane. Bella, con i capelli di un rosso sgargiante, la pelle bianca come il latte e leggere efelidi. La spintonò verso la contessa. “Vi prego contessa, io prometto che farò ogni cosa voi mi domandiate…” disse singhiozzando. “Io ti domando allora di farti sacrificare per il mio bene.” Rispose allora dura. “No… vi prego.” Pianse. “Sei una bugiarda allora! Non mantieni la parola che mi hai appena dato!” sbottò. Dorkò la immobilizzò e la legò alle catene. Se la prima ragazza aveva ricevuto un trattamento pietoso perché non aveva fatto nulla per contrariarla, la seconda subì anche tutta la rabbia che con il suo atteggiamento da bugiarda, le aveva suscitato. Parti del suo corpo vennero strappate. Le dita della mano destra, le unghie dei piedi, il labbro superiore e la lingua che venne uncinata, pinzata e tirata fuori fin dal suo principio e scaraventata sulla griglia dove ancora sfrigolava la mammella della prima vittima. Svenne molte volte e altrettante Dorkò si limitò a bruciarle il sesso per farla rinvenire. Gli occhi furono trafitti da lunghi spilloni e finalmente sopraggiunse la morte. Solo dopo la terza, Erzsébet guardò rassegnata la cella e ordinò a Jò Ilona di prepararne altre per il giorno successivo. Si sentiva in forze e non avrebbe voluto fermarsi ancora, ma Darvulia era stata chiara. Per dieci giorni era necessario un bagno di sangue e se non si fosse fermata, le serve non sarebbero bastate. Già si era premurata di mandare in paese Jò Ilona a reclutarne delle altre, ma non era stata una settimana fortunata e avrebbe dovuto cercare ancora, magari in paesi distanti da Csejthe. Immerse una coppa nella tinozza e la riempì di sangue. Lo bevve tutto d’un fiato facendoselo colare sul mento come se fosse assetata. Poco dopo l’ultima vittima, Jò Ilona tornò nei sotterranei con altre cinque giovani di età compresa tra gli undici e i quattordici anni. Le scaraventò una ad una nella cella tra i corpi martoriati delle compagne. Ficzkò si stava dilettando con una di loro e non fece caso agli sguardi terrorizzati e schifati delle nuove arrivate. Tutto era terminato. Le urla erano finite e il sangue nella tinozza era abbastanza. Senza pudore, Erzsébet si sfilò l’abito intriso di sangue e s’immerse chiudendo gli occhi e godendo il meritato riposo. Dorkò spostò l’ultimo corpo e lo depositò accanto al tavolo. Con un coltellaccio taglio fette di carne dalle cosce e le buttò accanto al fuoco. Quando reputò che fossero cotte, le sistemò su un vassoio e si avvicinò alla cella. Le giovani scivolarono indietro schiacciandosi contro la parete. “Forza! Non avete fame?” rise mostrando i pochi denti neri. Nessuna delle fanciulle si avvicinò alle sbarre. Jò Ilona raggiunse Dorkò e prese le chiavi della cella; in mano stringeva un forcone. “Mangiate oppure farete i conti con questo.” Disse indicando l’attrezzo. La più coraggiosa tra loro, si fece avanti e prese il vassoio. L’istinto di sopravvivenza le convinse a mangiare la carne delle loro compagne e la speranza di venire risparmiate fece sì che i conati di vomito non impedissero quell’abominevole pratica. Erzsébet rimase a lungo nella tinozza accanto al fuoco. Ogni tanto rabbrividiva per il freddo, ma voleva che quel momento durasse il più a lungo possibile per poter sfruttare appieno tutto il potere che c’era in quel prezioso liquido. IV Era partita una settimana prima per recarsi al castello di Pistyàn. In quel luogo dove la natura regalava agli uomini le sue più preziose cure, si recava almeno una volta l’anno per potersi immergere nelle acque fangose e dare sollievo ai reumatismi e alla gotta. I suoi bagni di sangue procedevano e ogni sera segnava i nomi e l’età delle sue vittime in modo da poterne tenere il conto. Ormai ammontavano a più di cinquecento. Mentre si stava godendo la colazione, una delle damigelle più anziane si avvicinò cauta e attese che ella le accordasse il permesso di parlare. Non amava essere disturbata durante i pasti e la servitù lo sapeva bene, quindi, se una di loro si azzardava a non rispettare quel momento, ci doveva essere una buona motivazione. “Cosa vuoi?” “Perdonatemi contessa. È appena arrivato un servitore inviato da vostra figlia Anna. Domanda ospitalità per poter sfruttare anche lei i benefici dei bagni di fango.” Erzsébet rimase con il cucchiaio a mezz’aria, contrariata e stupita. “Quando?” domandò. “Fra tre giorni dovrebbe arrivare se voi le concederete il permesso.” Ci pensò su a lungo prima di rispondere: “E sia.” Questo le rovinava i piani! Come poteva osservare i consigli di Darvulia con degli ospiti in casa? Con uno scatto d’ira gettò via tutto dal tavolo mandando in frantumi il piatto con un boccone di pane e la coppa rotolò sul pavimento spandendo gli ultimi sorsi di vino alla cannella. Infuriata, scese nei sotterranei meno spaziosi di quelli del castello di Csejthe strillando il nome delle due vecchie. Arrivarono entrambe trafelate per la corsa. “Viene mia figlia!” gridò rabbiosa. Strinse i pugni. Le lacrime premevano dietro gli occhi come fosse una bambina in preda a un capriccio. Si portò le mani alla testa sentendo arrivare le fitte lancinanti che ben conosceva. “Portatemi una giovane!” gridò furiosa e presa dall’isteria. Dorkò corse subito su per le scale e ne tornò un attimo dopo con una giovinetta che di solito si occupava delle cucine. La fanciulla fu scaraventata davanti a lei e con un movimento ferino, le strappò via l’abito dalla spalla e affondò i denti nella carne tenera. La giovane non gridò perché sapeva quanto questo infastidisse la contessa. Pianse, ma strinse forte i denti e non gridò. Non seppe mai se fu per questo suo atteggiamento o no, ma la contessa si limitò a staccare un gran pezzo della sua carne e poi la lasciò tornare al suo lavoro. Non ancora calma, ma meno furente, prese a percorrere avanti e indietro il corridoio buio. Non sapeva come fare. Per quanto si scervellasse, non le veniva in mente un modo per poter conciliare le sue cure di bellezza con l’arrivo di ospiti inaspettati. “Dov’è Darvulia?” chiese. “Dovrebbe essere tornata da poco.” “Chiamala!” Jò Ilona, con la sua andatura ciondolante e senza grazia, sparì e pochi attimi dopo tornò in compagnia della vecchia strega che ancora stringeva tra le mani, mazzi di erbe raccolte quella stessa mattina. “Viene mia figlia.” Disse asciutta senza aggiungere altro. “Temete di non poter proseguire i trattamenti?” “Certo! Come posso?” domandò furiosa per quella constatazione tanto stupida. “Sapete quanto si fermerà?” “No, ma non credo più di quattro giorni poiché dovranno presenziare a una festa di fidanzamento e avranno bisogno di almeno un giorno per compiere il viaggio di ritorno.” “Bene… non disperate allora. Stipate quante più fanciulle potete e tenetele al sicuro. Farete in un sol giorno quel che avreste dovuto fare in quattro.” Erzsébet la fissò a lungo pensierosa. “Siete certa che una cosa del genere non rovini tutto ciò che ho fatto fino a ora?” “Non abbiate di questi timori contessa. Ve lo assicuro.” Rispose con un ghigno. Non appena Darvulia fu tornata alle sue pozioni, Erzsébet ordinò a Dorkò, Ficzkò e Jò Ilona di fare esattamente ciò che aveva detto Darvulia e sottolineò inoltre di non lasciare in giro per il castello le nuove e più pettegole serve. Non voleva in alcun modo che si lasciassero andare a chiacchiere pericolose con la servitù di sua figlia. Quando il castello fu pulito da cima a fondo in onore degli ospiti, le celle furono quindi riempite di giovani ragazze spaventate e incredule che sarebbero state trattenute sotto la responsabilità di Dorkò, fino al momento della partenza di Anna. La sera del terzo giorno, come accordato, arrivarono i due giovani sposi. Anna sembrava raggiante nel suo abito elegante e ricercato di fattura certamente francese e Miklòs, al suo fianco non faceva che guardarla con gli occhi luminosi. Erzsébet ne osservava con attenzione i tratti. Con ammirazione, ma anche insana invidia. Invidia per la sua gioventù e per tutti gli anni che ancora aveva davanti. Invidia perché al suo fianco aveva un uomo innamorato che raramente si allontanava da lei. Non aveva preso la delicatezza della sua pelle, ma piuttosto quella più coriacea di Ferencz. Non sarebbe mai stata bella quanto lei ed era certa che chiunque avrebbe preferito ancora la madre alla figlia. Era poco avvezza a sentirsi seconda a qualcuno ed era un bene che non sentisse di esserlo proprio dinnanzi a sua figlia perché, forse, la sua mente malata avrebbe potuto suggerirle di dimenticare il legame di parentela. Radiosa, Anna varcò la soglia con le braccia protese in un saluto affettuoso a cui la contessa non era abituata. “Madre!” esclamò sorridendo. L’abbracciò e le posò un bacio leggero sulla guancia. Erzsébet rimase quasi immobile in balia di quel saluto così intimo. “Figlia mia. Come state?” “Oh bene. Avevamo tanto desiderio di vedervi e quale momento migliore se non un soggiorno a Pistyàn! Miklòs non vedeva l’ora di dedicarsi un po’ alla caccia con i suoi cani e io ho davvero bisogno delle preziose cure di queste acque. Spero che il nostro arrivo non comporti per voi un disturbo.” Disse abbassando gli occhi nel pronunciare l’ultima frase. “Non dovete pensarlo Anna. Una figlia non reca mai disturbo alla propria madre.” Rispose pensando invece a quanto sarebbe stata sollevata al momento della loro partenza. “Dovete essere stanchi. Il viaggio è stato lungo.” “Sì, lungo e poco comodo.” Intervenne Miklòs prendendo per mano Anna e sorridendole. I due davano l’idea di essere ancora due fidanzatini. “La cena è già in tavola se vogliamo accomodarci.” Li interruppe Erzsébet infastidita da tanta palpabile felicità. Sentiva un distacco glaciale nei confronti di qualsiasi sentimento umano che rischiasse di mettere a nudo la sua anima e di farle intravedere la propria femminea debolezza. Il suo umore aveva attraversato varie fasi nelle ultime ore e questo l’aveva stancata come un’intera giornata passata a cacciare. Stupore quando era stata avvertita dell’arrivo degli ospiti; rabbia quando aveva compreso che quei giorni avrebbero compromesso tutto il suo lavoro; trepidazione quando Darvulia l’aveva rassicurata; fastidio quando finalmente erano arrivati. Lei viveva nell’attesa perenne di qualcosa o qualcuno e non appena quel qualcosa o quel qualcuno faceva capolino alle porte della sua vita, si rendeva conto che non era affatto ciò che desiderava. L’attesa la rendeva viva e la certezza dei fatti le sfilava via la vita come da un arazzo senza colori. Le poche domestiche rimaste avevano preparato impeccabilmente il tavolo e avevano avuto l’accortezza di sparire prima che la contessa ritornasse in sala da pranzo. Tutte si domandavano che fine avesse fatto il resto della servitù, ma nessuna osava parlarne ad alta voce e meno che mai con le domestiche di Anna, che invece parevano allegre e rilassate mentre portavano a compimento il loro lavoro. Anna non aveva nulla di sua madre. Non ne aveva la bellezza, ma nemmeno l’alone diabolico e cupo. Era allegra e gentile. Forse aveva sentito anche lei le voci riguardo a sua madre, ma se così era, non lo dava minimamente a vedere e anzi, si comportava in modo amorevole e attento, nonostante la freddezza di Erzsébet. Mangiarono voracemente com’era consuetudine a quei tempi, complimentandosi per l’ottima cacciagione prima di ritirarsi ognuno nella propria stanza: Erzsébet ad attendere che la notte passasse e la partenza di Anna si avvicinasse; Anna e Miklos a ritrovare la sospirata intimità. Erzsébet non riuscì a dormire bene quella notte. Le gambe scattavano sotto le coperte come fossero pervase da un’elettricità maligna. Quattro giorni… si disse. Quattro giorni di prigionia nel suo stesso castello. Quattro giorni eterni in cui avrebbe dovuto dipingersi la maschera della buona madre e sforzarsi di sembrare almeno interessata ai loro discorsi, se non addirittura parteciparvi lei stessa. Non avevano scelto il momento giusto. Non era colpa sua se erano piombati lì proprio in quel momento! Non dovevano aspettarsi che facesse i salti di gioia dato lo scarso preavviso! Eppure doveva. Doveva fare la madre per quei quattro giorni e lasciarsi alle spalle tutti i suoi progetti. Pensò a Miklòs e a quanto sembrava innamorato di Anna. Era certa che se solo avesse voluto, lo avrebbe attirato nel proprio letto facendogliela dimenticare. Si accarezzò il seno con le mani fredde pensando al giovane che entrava di soppiatto nella stanza e le confessava di voler fare l’amore con lei per sempre. Anna, nella sua vestaglia verde scuro, si sedette sul bordo del letto, accanto a Miklòs che già l’aspettava sotto le coperte. Le posò una mano sulla coscia scoperta e accarezzò con tenerezza la sua bella pelle. “Mi sembrate preoccupata.” Disse scostandole i capelli dal viso. Anna sospirò e alzò gli occhi al soffitto per cercare di ricacciare indietro le lacrime. Non voleva piangere e fare la bambina ancora una volta. Voleva anzi parlare con Miklòs e ricevere come sempre le sue rassicurazioni. “Si tratta di vostra madre vero?” “Sì.” Rispose lei con un nodo in gola. “Avete voglia di parlarne mia cara?” “Sì… è che non ci riesco senza farmi prendere dal pianto.” “Piangete allora. Sono vostro marito e non dovete vergognarvi di piangere davanti a me.” Anna scosse la testa, grata per quelle parole e ringraziando Dio di avere al suo fianco un uomo tanto comprensivo. “Avete sentito anche voi che cosa si dice in giro… io non posso credere che sia vero…” Miklòs l’abbracciò e la cullò tra le sue braccia. “Anna, amore mio, non dovete dar retta a tutto ciò che vien detto. Tante sciocchezze fanno il giro del mondo senza aver fondatezza. Dovete fidarvi del vostro istinto e trovare voi la risposta.” La cullò ancora stringendola forte. “Secondo voi è possibile che vostra madre si sia resa davvero responsabile di ciò che dicono?” Anna pianse tenendosi stretta al petto del marito. “E’ proprio questo il punto…” “Cosa volete dire?” domandò aggrottando la fronte. “Che io sento che in quella donna c’è davvero qualcosa di diabolico. Lo vedo nei suoi occhi che sono o no lo specchio dell’anima?” “Certo che lo sono amore mio. Ma cosa di preciso vi fa credere che vostra madre sia il mostro che descrivono?” “Non lo so con certezza. Non so descrivervi quello che sento, ma c’è qualcosa di strano in lei. Qualcosa di strano in questo castello e persino nelle domestiche.” “Suvvia amor mio! Voi vi state facendo prendere dalla fantasia adesso! Perché non vi sdraiate accanto a me e non cercate di riposare. Domani sarà una lunga giornata e sapete quanto siano spossanti i bagni caldi.” Anna assentì e scivolò di fianco al corpo tiepido e rassicurante. Solo pochi istanti di quel contatto bastarono a farle dimenticare ogni dubbio e a farla scivolare in un sonno tranquillo V Il primo giorno era passato veloce come se qualcuno avesse rubato le ore, tra bagni di fango, riposo pomeridiano e cena a base di carni fresche. Anna e Miklòs non avevano notato nulla di strano negli atteggiamenti di Erzsébet nonostante lei non nascondesse, in qualche occasione, di desiderare la solitudine. Non partecipava con trasporto alle loro discussioni e spesso sembrava avere la mente altrove, ma forse, pensarono, sentiva solamente la mancanza di Ferencz. Il secondo giorno sembrò più lento e con qualche momento di noia, ma fu il terzo giorno quello che sconvolse di più Miklòs e fece sì che comprendesse appieno le paure e i sospetti di sua moglie. Aveva fatto buona caccia per due giorni interi e decise di dedicarvi solo la mattina del terzo per poi passeggiare senza meta nei dintorni del castello, sempre in compagnia dei suoi due cani. Amava i suoi cani e non faceva che decantarne l’incredibile olfatto e l’innata obbedienza. Nelle stalle, un viavai di giovani garzoni e decine di bellissimi cavalli. Sostò per un po’ a guardare le bestie dalla muscolatura possente e il manto più lucido del velluto e solo quando sentì uno dei cani abbaiare, uscì dalle stalle. “Cosa succede Dadel?” domandò alla bestia che scavava con foga. Il cane non si fermò nemmeno quando lui cercò di allontanarlo dalla buca che aveva scavato. “Cosa fai? Non puoi scavare buche in tutto il cortile!” lo rimproverò, ma le parole gli morirono in gola. Sbatté più volte le palpebre prima che l’immagine che aveva davanti agli occhi diventasse del tutto reale e inconfutabile. Un piede umano e certamente femminile per quanto era delicato e piccolo, sbucava dal terreno a una profondità di trenta centimetri scarsi. “Basta Dadel… basta…” sussurrò spostando il cane che scodinzolava, orgoglioso del ritrovamento. Si guardò intorno. Alla finestra del piano superiore la figura di Dorkò lo osservava. Non appena i loro sguardi s’incontrarono lei si scostò dalla finestra. Miklòs deglutì a vuoto. Aveva la gola secca e la testa che girava. Che razza di storia era questa? Si accovacciò e con le mani scavò attorno al piede come se avesse bisogno di toccare lui stesso quel che stava vedendo per riuscire davvero a crederci. Era vero. Freddo, duro e vero. Si alzò e fece qualche passo indietro ripulendosi la mano dalla terra, ma sentendo la profonda esigenza di mondarla con dell’acqua fresca. Richiamò i suoi cani e rientrò al castello dove si chiuse nella sua stanza in attesa del ritorno di Anna. Si sedette allo scrittoio, deciso a scrivere al palatino per metterlo al corrente di quel che era successo, ma subito stracciò la pergamena. Non poteva fare una cosa del genere senza averne prima par- lato con Anna. Non poteva decretare la fine di sua suocera senza pensare alle conseguenze che questo avrebbe avuto su sua moglie. Passeggiò nervosamente per la stanza, gettando occhiate nervose nel cortile. I suoi cani dormivano accanto al camino acceso. Non aveva voluto lasciarli fuori né tanto meno lontani da lui. Voleva averli sott’occhio perché chiunque avesse fatto una cosa del genere alla ragazza nel cortile, poteva fare molto peggio ai suoi amati cani. Due colpi secchi alla porta lo fecero sussultare. Il suo cuore sembrava in procinto di saltare in aria. “Sì?” chiese con il tono più sicuro che riuscì a trovare. “Sono Dorkò. Gradite che vi sia portato qualcosa di caldo? Mi siete sembrato sconvolto poco fa.” Disse e Miklòs era pronto a scommettere che stesse sorridendo. “No grazie. Sto bene così. Piuttosto… sai dirmi quando rientrerà Anna?” “Non saprei. Le compere con la contessa non si sa mai quando possano finire.” Rispose con tono quasi minaccioso. Miklòs si avvicinò alla porta in punta di piedi e appoggiò l’orecchio al legno freddo. Sentiva la presenza della vecchia. Non se n’andava! Cominciò allora a temere per se stesso e più ancora per sua moglie che non aveva avuto bisogno di prove per accorgersi che c’era qualcosa che non andava. Attese a lungo, senza quasi respirare e finalmente sentì i passi della vecchia allontanarsi e quasi nello stesso istante, il rumore di una carrozza che entrava in cortile. “Anna…” bisbigliò correndo verso la finestra dove il buco fatto da Dadel era stato attentamente ricoperto da lui. Vide Anna scendere dalla carrozza, sorridente e rilassata e Dorkò avvicinarsi subito a Erzsébet e parlarle a lungo nell’orecchio lanciando occhiate verso la finestra da cui le stava osservando. Si scostò, sperando di non essere stato visto. I passi di Anna sulle scale gli diedero forza. La donna entrò raggiante. “Ho acquistato alcune collane di pietre preziose che m’invidieranno in ogni oc- casione marito mio.” Disse richiudendo la porta. Si tolse il mantello e lo gettò sul letto, prima di accorgersi della brutta cera del marito e di avvicinarglisi preoccupata. “Che cosa succede? Vi sentite male?” solo allora notò i due cani accovacciati accanto al fuoco. “Cos’è successo? Parlate vi prego!” insistette presa dal panico. “Dobbiamo andare via da qui e subito. Non aspetteremo domani. Partiremo oggi stesso non appena i bagagli saranno pronti.” “Cosa dite? Spiegatevi vi supplico. Avete ricevuto cattive notizie dal castello?” “No… non preoccupatevi, ma vi prego di non fare domande ora. Vi spiegherò strada facendo.” “Mi state spaventando.” “Non è mia intenzione, ma fate come vi dico.” Irremovibile, rimase a guardare Anna che dava ordini alle domestiche perché tutto fosse pronto il più in fretta possibile per la partenza non programmata. Non domandò nulla a Miklòs. Sapeva quanto fosse razionale e giusto ed era certa che ci fosse un buon motivo se aveva preso quella decisione senza consultarla e se sembrava così sconvolto. Erzsébet non sembrò affatto stupita per la partenza improvvisa e questo fece comprendere ad Anna che la decisione presa da suo marito non poteva che avere a che fare con sua madre. I saluti furono freddi e frettolosi. Quando la carrozza fu abbastanza distante dal castello da non distinguerne più le guglie e le luci alle finestre, Miklòs raccontò ad Anna ciò che era successo. Si tennero stretti e piansero entrambi. Lei perché in cuor suo aveva sperato che le voci fossero solo calunnie e che il suo istinto si fosse sbagliato. Lui perché non avrebbe mai più dimenticato quel piede, Dorkò e lo sguardo di sua suocera al momento dei saluti. Dentro quella donna non c’era niente. Solo un immenso vuoto che niente e nessuno avrebbe mai potuto colmare. VI Di nuovo sola, Erzsébet rimase a lungo a guardare la carrozza allontanarsi negli ultimi raggi del tramonto. Un senso di vuoto e al contempo di libertà la pervasero mentre la carrozza svaniva come un fantasma del passato. Perché questo era sua figlia. Un fantasma del passato. Una creatura avuta per obblighi matrimoniali e di casata, che ora viveva una sua vita lontano da lei. Non avrebbe sentito la mancanza di nessuno dei suoi figli… mai. E nemmeno di suo genero. Dorkò l’aveva informata di ciò che era successo, ma non se ne preoccupava per nulla. Poteva dare mille spiegazioni che giustificassero la presenza di quel corpo nel cortile e nessuno avrebbe mai potuto accusarla di nulla. Guardando la pianura e in lontananza il Vàg, prese la decisione di partire anche lei l’indomani stesso per tornare a Csejthe, ma prima desiderava fare una visita al duca di Brunswick nel castello di Dolna Krupa. Non si faceva che parlare di lui negli ultimi tempi e di quante visite avesse già ricevuto da tutto il mondo per il suo nuovo, immenso orologio. Pareva fosse ancora in costruzione e che vantasse un incredibile carrillon e svariati personaggi semoventi. Ma prima di tutto doveva occuparsi dei sacrifici. Con passo deciso si diresse verso le scale e poi nei sotterranei. Il castello sembrava deserto e anche i sotterranei erano stranamente silenziosi. Con il lume diede fuoco agli stoppini delle lampade appese alle pareti e incuriosita da quella mancanza di rumori si avvicinò alla cella. Rabbia e stupore le si dipinsero sul volto quando, dinnanzi le si presentò uno spettacolo inaspettato e terribile. Quasi tutte le ragazze erano morte e le poche ancora in vita sembravano agonizzanti. Gli occhi acquosi dei cadaveri fissavano le pareti e il soffitto della cella. L’odore di morte pervadeva l’aria che risultava quasi irrespirabile. Strinse così forte il manico del lume che quasi sentì il ferro piegarsi sotto le sue dita. Com’era potuto accadere? Che cos’era successo? Sollevando la veste per non inciampare, corse su per le scale e come una furia attraversò ogni stanza e ogni corridoio alla ricerca di Dorkò. Nonostante le sue grida e il suo correre da una parte all’altra, nessuno le dava risposta. Dovevano essere tutti affaccendati nelle stalle e nell’orto! Senza mettersi addosso nulla, uscì dal castello e a grandi falcate arrivò alle stalle, dove si fermò con le mani sui fianchi, il fiato che si condensava nel fresco della sera e gli occhi che lanciavano bagliori fiammanti. Dorkò la vide e corse subito verso di lei domandandosi che cosa fosse accaduto di tanto grave da spingerla a uscire per cercarla; e non aveva dubbi che cercasse lei, dal momento che la fissava con ostinazione. “Contessa, avete bisogno di me?” Erzsébet contrasse la mandibola, i denti scricchiolarono sotto quella pressione esagerata e con un movimento repentino, la sua mano artigliò i capelli della vecchia e li strattonò bruscamente. “Cosa è successo nella cella?” le gridò a pochi millimetri dal viso, insensibile al suo alito fetente. “Cosa volete dire? Non è successo nulla nella cella.” “Ah no? Ah no?” gridò ancora, strattonandola nuovamente e spremendole qualche lacrima. “Non capisco…” si difese Dorkò. “Sono morte! Sono tutte morte! Cos’hai fatto?” Dorkò si maledì per non aver dato cibo né acqua alle domestiche rinchiuse e anche per aver abusato del suo potere picchiandole con il bastone di frassino, e ancora per aver sperimentato nuovamente la superba sensazione di potere che le dava innaffiarle di acqua gelida e lasciarle tutta la notte legate nel cortile. Non le importava nulla che fossero morte… questo no, ma aver rovinato i piani di Erzsébet era l’errore più grosso che avesse mai fatto. “Io non ho fatto niente… ho dovuto punirle perché gridavano troppo e rischia- vano di farsi sentire da Anna! Ho dovuto!” si difese ancora. “Dovevano rimanere vive! Capisci che dovevano rimanere vive? Ora come farò? Le altre domestiche sono tutte troppo vecchie e non c’è tempo per reclutarne delle altre!” la voce di Erzsébet era talmente tanto alta da aver suscitato paura e fastidio anche nei cavalli. “Ne troverò. Andrò subito e ne troverò! Lo giuro sulla mia vita!” “Fa sparire i cadaveri e fammi trovare venti ragazze entro domani o per te sarà la fine e questo sono io a giurartelo.” Sibilò tra i denti. Sconvolta e fuori dalla grazia di Dio, rientrò al castello e, dopo aver ordinato che venissero preparati i bauli per la partenza dell’indomani, si fondò nella sua stanza. Con una manata scaraventò a terra tutto ciò che c’era sul basso comò di legno scuro. Doveva parlare con Darvulia, ma di lei non vi era ancora traccia. Dorkò rimase a lungo pensierosa nelle stalle. Come poteva trovare altre ragazze a quell’ora tarda della sera? Jò Ilona la raggiunse. Aveva sentito le urla di Erzsébet e aveva preferito attendere che tutto fosse passato prima di farsi vedere. Incontrare la contessa quando era così fuori di sé non era una buona idea per nessuno. Insieme partirono a passo spedito verso il paese alla ricerca di qualche giovane malcapitata con alle spalle una famiglia bisognosa. Bussarono a centinaia di porte fino a notte fonda, suscitando anche l’ira e la diffidenza dei contadini. Le loro figure vecchie e sgradevoli si stagliavano sugli usci scarsamente illuminati e con fare subdolo, tentavano di convincere i genitori ad affidare le giovani ragazze alle loro cure. Molti erano coloro che avevano già sentito le voci che circolavano riguardo la contessa e non si fecero convincere neppure dalle promesse di denaro. Furono costrette ad allontanarsi dal paese e battere in lungo e in largo i centri più piccoli e distanti per riuscire a trovare qualche famiglia disposta ad accettare la loro proposta. La notte fredda era caduta ormai su ogni cosa e la strada per ritornare al castello si era fatta ancora più lunga. Camminando di buona le- na, con cinque fanciulle al seguito, arrivarono che già stava albeggiando. Le giovani erano tutte di età compresa tra gli undici e i quindici anni. Purtroppo avevano dovuto declinare l’offerta di almeno altre quattro perché avevano già superato i quindici anni. Le famiglie non erano state subito convinte dalle loro spiegazioni, soprattutto per lo strano orario che avevano scelto per presentarsi. Il loro aspetto poi non faceva che peggiorare le cose. Mettevano paura e l’oscurità della notte le rendeva ancora più sinistre. Nonostante tutto riuscirono a trovarne almeno qualcuna dalle famiglie che davvero versavano in condizioni miserevoli. Le ragazze che già dormivano al tepore delle stufe nei loro giacigli di fortuna, erano state svegliate bruscamente e fatte vestire in fretta e furia quasi senza ricevere spiegazioni. Negli occhi dei loro genitori c’era tristezza, ma anche sollievo. Avevano camminato senza lamentarsi, tenendo il passo adulto delle due vecchie. Con gli sguardi ancora addormen- tati, impauriti non si sa se dalla notte senza luci o dalle due figure, e spaesati. L’orizzonte cominciava a rischiararsi e in lontananza già si vedevano le prime costruzione del paese. Nessuno aveva parlato durante il viaggio a piedi. C’era stata solo qualche occhiata interrogativa tra le ragazze fino all’arrivo davanti alle porte del castello. Dorkò e Jò Ilona non persero tempo con false e rassicuranti spiegazioni; le condussero subito nei sotterranei e le chiusero nella cella dove fino a poco prima c’erano stati i cadaveri delle altre. Ficzkò si era occupato di farle sparire da lì, ma non aveva voluto saperne di occuparsi della sepoltura. Aveva detto che lui non c’entrava nulla con quel massacro e che toccava a lei occuparsene. L’avrebbe fatto. A suo tempo avrebbe fatto anche quello. Ora, l’unica cosa importante era avvertire la contessa dell’arrivo delle nuove ragazze. Nonostante il freddo, aveva camminato così tanto tra polvere e sporcizia e così speditamente che aveva addosso un odore acre e pesante più del solito. Bussò alla porta di Erzsébet e attese. Dopo pochi istanti la porta si aprì e l’espressione corrucciata e rabbiosa apparve, rischiarata dal lume. “Le abbiamo trovate contessa. Abbiamo dovuto battere tutti i paesi circostanti, ma qualcosa abbiamo trovato.” “Quante?” domandò Erzsébet tagliando corto. Ancora non riusciva a capacitarsi dell’idiozia compiuta da Dorkò e non era riuscita a trovare un modo per scaricare la rabbia che ancora percepiva nelle viscere. “Cinque…” sussurrò Dorkò ben sapendo che quella risposta non sarebbe stata quella desiderata. “Cinque… cinque… cinque…” disse salendo di tono ogni volta e prendendosi la testa tra le mani con forza, come a volerla schiacciare. Non sarebbero bastate cinque ragazze per il sacrificio e non ne avrebbe avuta nessuna per il viaggio! Spinse via Dorkò e scese nei sotterranei dove le occhiate spaurite delle giovani l’accolsero. Kata stava dando loro da bere. “Cosa fai?” le chiese aspra. “Hanno camminato tutta la notte… per evitare che facciano la fine delle altre…” si giustificò. In realtà la più piccola tra loro aveva supplicato di avere dell’acqua e il suo viso era talmente bello e talmente dolce che nemmeno lei era riuscita a dirle di no. Anche Erzsébet si soffermò a lungo su quel viso. C’era qualcosa in quegli occhi verdi e grandi e in quelle gote paffute e rosse che non poteva spiegare. Era come il viso di un angelo tentatore. “Liberala.” Disse continuando a fissarla. Non degnò le altre nemmeno di un’occhiata. Tutto il suo interesse era rivolto a quella creatura minuta dagli occhi grandi e i capelli rossi. Kata aprì la cella e la invitò a uscire. Erzsébet la prese per mano come fosse sua figlia e senza dire una parola la condusse al piano di sopra. Solo un veloce sguardo e uno strano sorriso sul suo volto. Aveva trovato un modo per sfogare la rabbia. La fece entrare nella sua stanza dove la domestica aveva ben rifornito il camino. L’improvviso tepore fece rabbrividire la ragazzina che si guardò attorno ammirata, credendo di essere stata scelta come dama di compagnia per quel giorno. In effetti Erzsébet aveva in mente qualcosa di simile… La invitò a sedere sul letto e lei accettò con qualche riserva. Non le era mai capitato di sentire che una padrona lasciasse sedere una serva sul proprio morbido letto pulito. Un po’ rigida, ma quasi felice, cominciava a fantasticare sul suo futuro di dama di compagnia di una nobildonna tanto potente. Avrebbe aiutato la sua famiglia che versava in pessime condizioni da quando suo padre si era ammalato e non aveva più potuto andare a lavorare. Avrebbe potuto mangiare tutti i giorni e anche lavarsi tutti i giorni! Certo non avrebbe potuto tornare spesso a far visita ai suoi genitori e ai suoi fratelli, ma era certa che avrebbe trovato delle amiche tra le altre domestiche e chissà… forse anche l’amore! Erzsébet la contemplò a lungo valutando attentamente quello che desiderava fare e quello che avrebbe dovuto fare. Quegli occhi verdi, all’apparenza innocenti, nascondevano qualcosa di sensuale e proibito che accarezzava la sua libido più di ogni altra cosa. Da quanto tempo si limitava a osservare, eccitandosi, ciò che faceva Dorkò alle vittime sacrificali? Troppo. Troppo tempo. Darvulia stessa le aveva sconsigliato di trattenere quell’uragano che percepiva dentro di sé e forse era venuto il momento di lasciare che tutta quella potenza trovasse sfogo. Era combattuta perché se avesse fatto ciò che aveva in mente in quel momento, non avrebbe più potuto utilizzare quella ragazza per il sacrificio e non aveva abbastanza ragazze a causa della negligenza di Dorkò. Soppesò con attenzione le varie possibilità e infine si disse che una non avrebbe fatto la differenza. Aveva bisogno di sentire addosso il calore di un altro essere umano. Aveva bisogno di ascoltare il suo desiderio. Incrociò lo sguardo interrogativo della giovane e per un attimo le parve che quegli occhi la invitassero esplicitamente a fare ciò che desiderava. Si avvicinò a piccoli e lenti passi. Posò una mano sul capo della ragazza che abbozzò un lieve sorriso. Con l’altra mano le sollevò il mento e poi le accarezzò il collo sottile dove la giugulare pulsava in modo evidente. Quel sangue prezioso… sprecato per compiacere la sua lussuria! Voltò il viso e chiuse gli occhi come se non guardando, potesse evitare l’inevitabile. Dal collo, la mano scivolò verso il petto dove ancora il seno non aveva fatto la sua comparsa. Un essere ancora puro e inesperto che avrebbe scatenato le sue fantasie più nascoste. “Sdraiati.” Le disse in un sussurro appena udibile. La ragazza lo fece senza controbattere, felice di poter compiacere la contessa. Erzsébet si sdraiò al suo fianco, dapprima accarezzandole il collo e poi insinuando le mani piccole sotto l’abito malconcio. Quando le dita incontrarono i piccoli capezzoli, la giovane s’irrigidì e sbarrò gli occhi, colta alla sprovvista da quell’atto e dalla reazione inaspettata del suo corpo. Non aveva mai provato nulla del genere e non sapeva se fosse un bene o un male. In un attimo la libe- rò dai vestiti e ammirò quel corpo di donna in miniatura, che ancora doveva scoprire i piaceri del sesso e i dispiaceri dell’essere femmina. Il ciclo mestruale, l’obbligo a diventare madre, la continua sottomissione all’uomo, sia esso padre, fratello o marito. Il dover sempre far finta di non avere desideri corporali se non per compiacere il proprio sposo. Lei non era stata così. Lei non aveva mai voluto annientarsi e mai nessuno l’avrebbe annientata. La mano scivolò sul ventre pallido e privo di peluria. La giovane socchiuse le gambe senza protestare, sempre guardando la contessa per avere conferme. “Rilassati.” Le disse prima di liberarsi lei stessa dall’abito grigio fumo con preziosi ricami d’oro. Non tolse la gorgiera che amava tenere anche quando non indossava nient’altro. Non amava parlare o spiegare ciò che desiderava durante un rapporto sessuale, ma era consapevole dell’inesperienza della giovane, quindi, con una pazienza che non era sua, le guidò la mano sul suo ventre e la fece scivolare su e giù sul suo sesso già umido. La giovane sembrava imparare in fretta e anche quando Erzsébet tolse la sua mano, la ragazza continuò quel massaggio intimo ed eccitante. Le passò un braccio sotto la testa e con una leggera pressione la invitò ad avvicinare il viso al suo petto. “Succhia.” Sussurrò mentre già sentiva dentro di sé che il desiderio cresceva a dismisura. La ragazza avvicinò le labbra sottili al capezzolo turgido ed eseguì l’ordine come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lei stessa aveva ormai oltrepassato quella soglia che dall’innocenza, porta verso le insidiose stanze del piacere. I due corpi si fusero uno nell’altro. Le mani sondavano, penetravano, strizzavano mentre le lingue s’intrecciavano e leccavano. il dolore si mescolò al piacere ed entrambe caddero in un vortice di piaceri pungenti e illimitati. Erzsébet sfogò tutta la lussuria che teneva in serbo da troppo tempo senza che questa si trasformasse in rabbia e dominio come sempre accadeva quando aveva a che fare con un essere che considerava inferiore. Era diverso questa volta. Era come avere tra le lenzuola, sua cugina o sua zia. Una sua pari. Con pari perversione e altrettanto potere sessuale. L’aveva capito subito, appena aveva incrociato il suo sguardo. In quegli occhi aveva visto qualcosa di più di una ragazzina inesperta e sciocca. Qualcosa pulsava in fondo a quegli occhi verdi. Non le aveva riservato morsi, schiaffi e crudeltà solo per quegli occhi che le ricordavano così tanto i suoi. Non per il colore, ma per la determinazione e per la profondità che nascondevano. Si fermarono, esauste, con i corpi sudati e appiccicosi di umori. Accaldate e rosse in viso. Alcune macchioline di sangue si delineavano nette sul lenzuolo di lino. La purezza aveva abbandonato quel corpo; non avrebbe più potuto sacrificarla, ma questo poteva essere un bene. Trovare un’amante che le facesse provare simili emozioni non sarebbe stato facile. Meglio tenerla a servizio. VII Era tutto pronto per la partenza. Le domestiche correvano per tutto il castello, spostando bauli, chiudendo porte e parlottando sommessamente tra loro, facendo attenzione a non farsi scoprire dalle due vecchie e dalla contessa. Si domandavano dove fossero finite le domestiche più giovani che erano sparite prima dell’arrivo di Anna e Miklòs. Non ci avrebbero fatto caso se fossero state poche o se fosse successo a Csejthe (dove c’era un continuo viavai di cameriere e dame di compagnia), ma erano venti. Darvulia si era assentata per tutto il giorno precedente e gran parte della notte, giustificando poi la sua assenza con la ricerca di una particolare erba per i suoi incantesimi. Le quattro ragazzine rimaste nella cella avevano trovato una fine piuttosto veloce considerando le abitudini di Erzsébet. Quella sera era talmente appagata e talmente spossata dall’intensità dell’incontro con Vanka che non le erano rimaste energie sufficienti né la consueta crudeltà. Persino Dorkò e Jò Ilona erano rimaste scioccate dal poco interesse della contessa per le torture. Sembrava non vedesse l’ora che la morte sopraggiungesse invece di godersi ogni taglio e ogni bastonata. Vanka era stata risparmiata e anche questa era una novità. Nessuna veniva risparmiata in genere. Le era stato addirittura concesso un bagno con essenze profumate e un abito pulito. Avrebbe fatto con lei il viaggio per recarsi a far visita al duca di Brunswick. Erzsébet sedeva già ritta nella sua carrozza, con lo sguardo che sembrava guardare oltre la tappezzeria di velluto e pareva ascoltare voci lontane. Non faceva caso all’andirivieni delle domestiche, al battere inquieto degli zoccoli dei cavalli e neppure allo sguardo indagatore di Darvulia che la osservava dal vano del portone ancora aperto del castello. Forse anche lei vedeva qualcosa di diverso quel giorno, su quel viso solitamente tirato e insoddisfatto. Qualcosa che le dava i brividi e allo stesso tempo la turbava profondamente. Vide la giovane che veniva fatta salire sulla stessa carrozza della contessa e un dubbio le si insinuò nella mente. Non ricordava di aver mai visto quella ragazzina, ma non le sfuggì il lieve sorriso che increspò le labbra sottili di Erzsébet quando si accorse della sua presenza. Intravide qualcosa di luminoso in quegli occhi sempre troppo scuri per sembrare umani. Si sentiva minacciata. Non avrebbe saputo spiegare perché, ma avvertiva la presenza di un legame che non avrebbe dovuto esserci e che poneva a rischio il suo stato di consigliera e figura predominante. “Chi è quella?” domandò a bassa voce a una domestica grassa e rossa in viso come un’ubriaca. La fitta rete di capillari rotti le ricopriva l’intero viso dal naso adunco e le palpebre cadenti. “Non lo so.” Rispose brusca. Non le era mai andata a genio quella strega e, a differenza degli altri, non aveva paura di lei e dei suoi incantesimi. Credeva fortemente che Dio l’avrebbe protetta sempre, in ogni circostanza. Darvulia la prese per un braccio e sibilando come un serpente, ripeté la domanda. La donna, tentennò, ma poi si lasciò convincere da quegli occhi così cattivi che promettevano una feroce vendetta se solo avesse osato darle la stessa risposta di poco prima. “Una nuova dama di compagnia. L’hanno portata ieri sera Dorkò e Jò.” “Una dama di compagnia eh? È molto giovane per essere una dama di compagnia.” Osservò. La donna strattonò via la mano di Darvulia e si allontanò di corsa verso la carrozza dove le altre già aspettavano la partenza. Darvulia salì sulla terza carrozza che ospitava Ficzkò e Jò Ilona. Pensierosa, stava già valutando quale sarebbe stata la cosa migliore da fare per togliere di mezzo quella che sentiva essere una rivale pericolosa. Il viaggio iniziò e proseguì senza urla né intoppi. Erzsébet osservava i fitti bo- schi che sfilavano sia a destra che a sinistra e ogni tanto si scopriva a ripensare al giorno precedente. Vanka sedeva composta e silenziosa e anche lei sembrava rapita dallo spettacolo della natura circostante che l’attirava e l’inquietava. Sembrava non essere naturalmente portata a fare nulla che la infastidisse o le facesse cambiare idea. Non si sforzava di compiacerla o se lo faceva, era molto brava a dissimularlo. VIII Csejthe era immersa nel silenzio della sera quando le carrozze si fermarono davanti al portone del castello. Il viaggio fino al Dolna Krupa era stato lungo e gravoso. Era stata ospite del duca di Brunswick per tre giorni e aveva potuto osservare da vicino la splendida macchina segna tempo ancora in costruzione, ma già quasi del tutto funzionante. Vanka era stata con le altre domestiche, tanto che non si erano quasi mai nemmeno incrociate. Darvulia le aveva preparato infusi a base del sangue essiccato delle quattro ragazze sacrificate l’ultima notte a Pistyàn così che il suo corpo non patisse troppo i negativi effetti causati dalla forzata interruzione dei bagni. Era stranamente presente, apprensiva e obbediente, tanto che Erzsébet si domandò più volte che cosa stesse nascondendo, ma poi il suo interesse venne completamente rapito da quell’orologio mastodontico e dalle particolareggiate spiegazioni del duca e dell’abile meccanico che stava apportando le ultime migliorie. A guardare quegli ingranaggi, quei congegni che si attivavano da soli in un dato momento, le venne in mente uno strumento di tortura di cui aveva sentito parlare tempo addietro e subito domandò al meccanico se anche lui ne avesse sentito parlare, dal momento che sembrava fosse proprio stato inventato in Germania. L’uomo sembrò non saperne nulla, ma le assicurò che avrebbe cercato di informarsi sulla struttura del congegno al quale era interessata e, insieme al suo garzone, gliel’avrebbe costruita e inviata prima possibile. Un po’ delusa per non essere riuscita a saperne di più, Erzsébet rimase qualche giorno ancora cercando di tollerare i chiassosi ricevimenti e le donne volgari che frequentavano il castello di Dolna Krupa. Ora non vedeva l’ora di riprendere in qualche modo la propria routine. I gior- ni di svago le erano serviti per smaltire ancora quel po’ di rabbia che le avvelenava il sangue da quando Dorkò aveva fatto morire gran parte della servitù. “Perdonatemi contessa… gradirei parlarvi.” La fermò Darvulia, mentre già posava una mano sulla maniglia della porta della sua stanza. Erzsébet, sorpresa da quella richiesta, le rispose di seguirla e richiudere la porta. Con passo leggiadro e sguardo indagatore, si sedette sulla sedia dall’alto schienale e congiunse le mani in grembo, in attesa. Darvulia rimase accanto alla porta, ancora indecisa su come affrontare il discorso. “Avanti allora!” tuonò Erzsébet già spazientita. “E’ necessario un sacrificio contessa.” “E lo faremo questa notte Darvulia. Non mi state dicendo nulla che io già non sappia.” Darvulia scosse la testa. “No… contessa… ho parlato con gli spiriti della foresta. La stessa Lillith è venuta al mio cospetto per chiedere questo sacrificio.” “Cosa intendete?” domandò Erzsébet disorientata. “Mi hanno parlato di una giovane… una giovane dai capelli rossi e gli occhi verdi…” Erzsébet sgranò gli occhi e deglutì, tentando di rimanere impassibile a quelle parole. “Una giovane che non sia ancora donna, ma che abbia già conosciuto la lussuria. Io… mia signora… l’ho cercata ovunque questa giovane. A Pistyàn, in Germania, dovunque, ma nessuna aveva queste peculiari caratteristiche. Io ho fallito contessa! Ho fallito e vi ho delusa! Il sacrificio di quella sola giovane poteva apportare grande giovamento a voi e a tutti gli incantesimi da voi richiesti! Perdonatemi!” sussurrò infine inginocchiandosi e ghignando sotto i capelli lunghi e grigi. Erzsébet si alzò dalla sedia e fece due giri intorno a essa come se questo potesse annullare tutto ciò che aveva appena udito. Percepì qualcosa rompersi dentro la propria mente. Anche quell’unico svago, quell’unica anima tanto simile a lei le veniva sottratta. Difficilmente avrebbe trovato un’altra amante tanto dotata e questo le dispiaceva molto. “Non mi avete delusa Darvulia. La giovane di cui parlate è già in questo castello e gli spiriti della foresta ve l’hanno descritta in modo impeccabile.” Il sorriso di Darvulia si allargò ancora. “Quando è previsto che sia sacrificata?” domandò quasi a se stessa. “Il prima possibile mia signora. Questa sera stessa sarebbe ancora meglio.” Annunciò, risollevando il viso e usando la sua espressione più contrita. “Non fate quella faccia! Non mi fate certo un torto con la vostra richiesta e non pensate che io abbia qualche remora a fare ciò che mi avete appena prospettato.” Sottolineò, innervosita dall’atteggiamento della strega. “Avvertite Jò Ilona di portare Vanka nella cella.” Ordinò voltandosi verso la finestra, dove le imposte erano ancora chiuse e solo un tenue raggio di luce filtrava solitario in quella penombra così carica di malvagità. Pareva che persino la luce avesse timore nel dover attraversare quelle imposte. Darvulia non attese altro e si recò da Jò per commissionarle la reclusione della giovinetta. Non parve del tutto convinta dalle parole di Darvulia, ma senza controbattere si recò nella sala ricami, dove aveva visto la ragazza per l’ultima volta. Vanka era ancora al suo posto, con un tovagliolo tra le mani e l’ago che procedeva speditamente lungo i bordi. A capo chino, silenziosa e con sguardo attento, sembrava lontana anni luce dalle altre serve che occupavano la stanza; sempre pronte a parlottare di sciocchezze, incapaci di portare a termine in modo irreprensibile un lavoro. Vanka era diversa. Attenta e seria, con quegli occhi così grandi e così profondi da sembrare senza fine. Aveva notato una strana affinità tra lei ed Erzsébet e ne era rimasta scioccata perché, in tutti quegli anni, non era mai accaduta una cosa del genere. Le fece cenno di seguirla e lei, compita ed educata, le aveva sorriso posando con perizia il suo lavoro non ancora concluso e si era resa disponibile a fare ciò che chiedeva. La guidò fino ai sotterranei, quasi indecisa se portare avanti l’ordine oppure fermarsi. Gli occhi curiosi e indagatori scrutavano ogni anfratto come a volerlo imprimere per sempre nella memoria. Aveva lo stesso sguardo di Erzsébet ed era questo a turbarla. La stessa profondità e la stessa follia lo animavano. Jò deglutì più volte, come incantata e senza il desiderio e la forza di muovere un solo passo. Se mai aveva davvero visto una strega, quella era davanti a lei in quel preciso istante. Quel solo pensiero bastò a farle cambiare idea e scattando in avanti, aprì la cella e la spinse dentro con forza. Affannata e con il cuore che batteva all’impazzata, chiuse la portina e si allontanò verso la parete opposta. Ora si spiegava l’ascendente che aveva avuto immediatamente su Erzsébet! Forse aveva davanti un essere ancora più scaltro e pericoloso. Più crudele e sanguinario! Solo Darvulia se n’era resa conto e forse proprio grazie al fatto che lei stessa era una strega potente. Vanka si alzò da terra e si spolverò la veste. C’era cattivo odore dentro quella cella e chiazze scure su tutto il pavimento. Non capiva perché era stata rinchiusa e le lacrime di bambina affiorarono senza che lei potesse fare nulla per impedirlo. Aveva fatto qualche errore? Non lo sapeva. Se lo aveva fatto non se n’era resa conto ed era certa che la buona contessa avrebbe accettato le sue scuse senza remore. Dei passi scesero le scale. Darvulia apparve e con un ghigno perfido si avvicinò alla cella. “Credevi di avermi giocato?” Vanka non rispose, ma scosse la testa, confusa e incapace di comprendere le parole della strega. “Non sei abile quanto credi ed io sono troppo forte perché tu possa ingannarmi con qualche ridicolo stratagemma. Vedo la tua anima e so che sei una strega, ma non permetterò che tu divenga potente anche solo un decimo di quanto lo sono io! Prenderò la tua vita e il tuo potere e li farò miei per sempre.” Vanka si addossò alla parete. Le lacrime le rigavano le guance e il colorito roseo aveva abbandonato quel viso così straordinariamente bello. Avrebbe voluto parlare, spiegarsi, chiedere “perché” o anche solo gridare, ma nessun suono riusciva a percorrere la gola e uscire dalle sue labbra. Il terrore le attanagliava le viscere. Chi era quella donna? Cosa voleva da lei? Dov’era la contessa? “Io non sono una strega… non sono una strega…” riuscì a sussurrare tra un singhiozzo e l’altro. Darvulia tuonò in una forte risata, gettando la testa all’indietro. I lunghi capelli grigi, che non portava mai raccolti, ma sempre sciolti e selvaggi, le ricaddero sulla schiena ossuta spandendo un intenso aroma amaro che le fece pizzicare le narici. “Non m’inganni! Non puoi! E’ inutile che ci provi.” “Dov’è la contessa?” domandò Vanka piangendo sempre più forte. Darvulia ritornò seria e il viso si fece duro e freddo come marmo. Osava mettere in dubbio il suo ascendente sulla contessa? Osava mettere in dubbio i suoi poteri? Con un movimento fulmineo e inatteso, si lanciò in avanti e allungò il braccio quel tanto che bastava perché le sue lunghe dita scheletriche afferrassero i capelli della ragazza e con uno strattone l’attirò verso di sé. Vanka strillò più per la sorpresa che per il dolore, senza riuscire a spiegarsi come avesse fatto Darvulia ad afferrarla in quell’angolo lontano della cella. Il viso era premuto forte sulle sbarre gelide e sporche mentre Darvulia teneva strettamente i capelli e tirava verso di sé, godendo nel sapere che le stava facendo del male. Avvicinò le labbra sottili e grinzose all’orecchio di Vanka. L’alito pesante le investì il viso. “La contessa sarà felice di darti lei stessa la morte.” Sussurrò, rivelando la dentatura consumata e sporca. Con uno strattone, determinato forse dallo spiccato spirito di sopravvivenza che accomuna uomini e animali quando si vedono ormai con le spalle al muro, si liberò dalla presa di Darvulia, lasciando spesse ciocche di capelli nelle sue mani ancora strette e regalandole un’espressione di sgomento. “Maledetta…” sibilò Darvulia, gettando a terra le ciocche rosse e voltandosi verso le scale. “Quando tornerò la tua vita sarà alla fine.” Concluse sparendo oltre la prima rampa. Vanka si appoggiò al muro e si lasciò scivolare a terra; strinse forte le braccia intorno alle ginocchia e chiuse forte gli occhi. Aveva paura, ma c’era un altro sentimento dentro di lei che ottenebrava persino la paura: era rabbia. Rabbia feroce e senza limiti nei confronti di quella vecchia strega senza cuore che, proprio ora che aveva trovato un posto dove poter vivere discretamente, stava rovinando tutto. Voleva ucciderla! Quel pensiero arrivò come un fulmine, come se fino a quel momento non ci avesse pensato veramente. Come se fino a quel momento avesse considerato quelle minacce solo in maniera astratta. Voleva ucciderla davvero! Si prese la testa tra le mani e ricordò improvvisamente un racconto di sua nonna. Erano tutti stretti attorno al fuoco quando sua nonna era di buon umore e decideva di raccontare qualche storia. Non voleva mai sedersi vicino alla sua nipotina dai capelli rossi; l’aveva sempre guardata con una sorta di sospetto, come se non facesse realmente parte della famiglia e fosse quasi una sconosciuta. Quella sera aveva raccontato la storia della strega rossa e Vanka aveva notato che ogni volta che si riferiva a questa strega, le lanciava occhiate allusive. Anche sua nonna pensava fosse una strega? Non aveva mai pensato a una simile possibilità, ma ora che Darvulia l’accusava, il sospetto divenne quasi certezza. La strega rossa non viveva in solitudine nelle foreste come tutte le altre della sua specie. Lei veniva portata in una famiglia dove c’era una neonata e sostituita ad essa. La neonata veniva sacrificata per proteggerla e lei veniva allevata dalla famiglia adottiva fino a quando non si rivelavano i suoi poteri. La strega rossa aveva sempre capelli rosso fuoco e grandi occhi verdi. Ogni famiglia che si ritrovava una bambina con quelle caratteristiche sapeva con chi aveva a che fare e per non portare miseria, malattia e morte ai propri cari, continuava a far finta di nulla e a trattarla come una figlia. Ma se la giovane avesse fatto attenzione, avrebbe notato che la madre adottiva si premurava di cucire nell’orlo delle sue gonne, un sasso nero e giallo per far sì che nessuno si avvedesse della sua vera natura e i suoi poteri rimanessero latenti. Vanka sbarrò gli occhi colmi di lacrime e con foga prese a tastare l’orlo della sua veste. Le mani le tremavano tanto da non riuscire a controllarle, ma quando sentì un rigonfiamento duro, là dove non doveva esserci, quasi non riuscì più a respirare. Prese qualche profondo respiro e poi scoppiò di nuovo a piangere mentre con le dita lacerava la stoffa e il piccolo sasso nero e giallo cadeva a terra, rotolando fino alle sbarre. Non era una strega! Come potevano accusarla di esserlo? E se lo fosse stata davvero? Magari quel sasso funzionava veramente e fino a quel momento non le aveva permesso di essere se stessa fino in fondo… Era possibile? Forse sì, ma allora significava anche che non sarebbe stata costretta a guardare mentre la uccidevano, perché una strega può richiamare a sé svariati poteri e difendersi! Non era poi così una brutta notizia in fondo… Tirò su col naso e si asciugò gli occhi, mentre già sentiva il cuore rallentare e la speranza farsi largo. IX Erzsébet non si dava pace. Erano ore ormai che camminava avanti e indietro, misurando a lunghi passi l’intera stanza. Il sole stava sbiadendo all’orizzonte e lo intuiva dalla debolezza e dall’inclinazione con cui la luce attraversava le fessure delle imposte. Qualche candela bruciava e illuminava un poco l’ambiente immerso per il resto nella penombra. Che cosa le stava succedendo? Perché esitava? Chi era quella fanciulla per farla tentennare? Aveva ragione Darvulia: prima l’avessero uccisa, meglio sarebbe stato. Certo doveva essere una strega molto potente per riuscire ad abbindolarla in quel modo senza destare alcun sospetto. Forse persino più potente di Darvulia… … più potente di Darvulia… Era logico pensare che fosse più forte di lei e che quindi i suoi incantesimo potessero essere mille volte più efficaci… E se Darvulia avesse tanto insistito solo per eliminare una possibile avversaria? Erzsébet si sedette sulla rigida sedia; gli occhi fissi al pavimento e mille pensieri che si rincorrevano a briglie sciolte. C’era una sola persona di cui si fidava e che poteva toglierle ogni dubbio: Jò Ilona. La fece chiamare e l’attese rimirando il proprio viso riflesso nello specchio. Qualche sottile segno ai bordi delle labbra e qualche ruga intorno agli occhi le impedivano di vedere quel viso nel suo insieme. Tutto il suo campo visivo era completamente occupato da quei segni che l’età le aveva donato e che con ostinazione tentava di cancellare. Una rabbia sorda e prepotente cominciò a prendere forma nel profondo del suo ventre, per poi ramificarsi come un subdolo rampicante velenoso e risalire fino al cuore, alla gola, alla testa, che prese a pulsare. Il ritmo del sangue, lento e inesorabile… ogni battito era tempo che passava… vecchiaia che contaminava e morte che si avvicinava. Ogni battito succhiava un po’ di energia, un po’ di vita… La rabbia crebbe fino a farle desiderare la morte di qualsiasi essere vivente presente nel raggio di cento chilometri. Tutto! Erba, alberi, lepri, gatti, donne, uomini… tutti! Strinse i denti mentre lo stomaco bruciava come se vi avessero versato olio bollente e la testa era attraversata da fitte forti e ramificate come fulmini. Le unghie si piantarono nella pelle della nuca e quasi non si accorse che stava premendo così forte da provocare ferite sanguinanti. Se avesse riflettuto su quelle sensazioni, avrebbe forse compreso che era follia quella che s’impossessava di lei. Jò Ilona comparve sulla soglia. “Mi avete fatta chiamare?” Erzsébet non rispose, continuando a tenersi la testa tra le mani e Jò Ilona non osò ripetere la domanda comprendendo lo stato d’animo della contessa. Se solo avesse notato prima il modo in cui si stava premendo il capo, non avrebbe fatto nemmeno quella prima domanda, ma nella penombra non era riuscita a decifrare con esattezza la postura di quel corpo. Passarono minuti interminabili, nei quali gli unici rumori erano: il respiro profondo e veloce della contessa, gli scricchiolii del legno e il verso di qualche uccello crepuscolare. A Jò pareva quasi di sentire il digrignare dei denti e persino il pulsare del suo cuore nero. “Vanka… cosa pensi di Vanka?” domandò all’improvviso con un tono di voce talmente basso e sofferto da essere appena udibile. Jò fu colta alla sprovvista da quella domanda e sapeva bene che avrebbe dovuto far molta attenzione a come avrebbe risposto. “La ragazza è nella cella…” Erzsébet batté un pugno talmente forte sul ripiano della toeletta, che quasi tutti gli oggetti su di essa appoggiati vibrarono pericolosamente o caddero a terra frantumandosi. Il rumore dei vetri che s’infrangevano e dei metalli che rotolavano, la fecero rabbrividire per il dolore insopportabile che le procurarono alla testa. Odiava i rumori acuti e ripetuti! Con il piede pestò, fermandola, una rondella di metallo che aveva fatto da tappo ad una delle tante creme. “Non mi dire cose che già so!” ringhiò, tentando di non alzare troppo la voce per non peggiorare il mal di capo. “Io… credo che Darvulia abbia ragione… è pericolosa. E’ una strega…” “Non credi che proprio per questa sua dote potrebbe essere più utile di Darvulia?” “No.” Scosse la testa con vigore “ Darvulia non ha mai tentato di soggiogarvi… lei sì.” Erzsébet sollevò lo sguardo sulla vecchia e la fissò come se non l’avesse mai vista e la trovasse rivoltante. Jò fece un passo indietro, convinta di aver detto qualcosa di altamente nocivo per la sua stessa vita. Mai la contessa aveva manifestato la volontà di farle del male o di punirla come faceva con le serve, ma in quel momento percepiva chiaramente sentimenti di rabbia e odio che sembravano voler riempire quella stanza e farla soffocare. Come avide e mortali mani, si stendevano su tutto e le scivolavano intorno alla gola per rubarle il respiro per sempre. “Mi ha soggiogata…” sussurrò fra sé e sé; la fronte corrucciata e le labbra tese. Si alzò dalla sedia e lisciò bene l’abito sui fianchi prima di procedere a passi leggeri e misurati, verso la porta, oltrepassare Jò e dirigersi verso le scale. Ogni passo e ogni movimento erano una tortura. Come mille spilli sembravano conficcarsi nelle profondità del suo cervello. Jò Ilona la seguiva guardinga e non appena ne ebbe l’opportunità, fece segno a Dorkò di seguirla anche lei. I sotterranei erano ben illuminati dalle lampade a olio e Darvulia sedeva in fondo al corridoio dando la schiena alla cella dov’era rinchiusa Vanka. Erzsébet guardò prima una poi l’altra avendo la sensazione che entrambe fossero morte in quelle strane pose. Magari una lotta a suon di incantesimi… Pochi attimi dopo, Vanka si mosse e aprì gli occhi arrossati dal pianto. Erzsébet si avvicinò alle sbarre e vi appoggiò le mani, sfiorandole con la fronte e godendo della loro freddezza metallica. “Contessa!” proruppe Vanka. Jò Ilona e Dorkò si allontanarono, quasi intimorite; Darvulia girò appena il volto nella loro direzione. “Stavi aspettandomi?” domandò gelida con le labbra atteggiate al disgusto, tanto che Vanka fece qualche passo indietro. “Se le parlate, tenterà di convincervi.” Intervenne Darvulia. “Non intromettetevi.” Sibilò Erzsébet. Un lieve sorriso attraversò gli occhi di Vanka. Sapeva che la contessa l’avrebbe difesa! “Sei una strega e hai tentato di assoggettarmi al tuo volere…” “No, no, no!!! Non sono una strega! Come potete crederlo anche voi?” la interruppe la ragazza con coraggio e frustrazione. La voce acuta sembrò attraversarle il cervello, come un coltello affilato. Erzsébet premette le tempie cercando di arginare la rabbia che sentiva crescere a dismisura. “Stai zitta o ti faccio cucire la bocca!” ringhiò. “Non te lo sto chiedendo. Tu sei una strega e questo è un dato di fatto. Hai tentato di soggiogarmi coi tuoi poteri, ma hai fallito, forse per la tua giovane età… o forse perché non sei così forte. Il solo fatto di averci provato è stato un terribile errore…” Vanka sgranò gli occhi. Quelle parole suonavano come una condanna a morte e lei non voleva morire! Non voleva! Erzsébet si allontanò dalle sbarre e fece cenno a Dorkò di prelevare la ragazza e prepararla per il rito. Dorkò e Jò armeggiarono con le chiavi e aprirono la cella, facendo attenzione a non lasciare sufficiente spazio da permettere alla ragazzina di fuggire. Vanka fece un passo indietro e poi un altro e un altro ancora, fino a trovarsi con le spalle al muro e il fiato corto. Se avesse potuto, si sarebbe fusa con quel muro di pietra gelida, ma non poteva perché non aveva proprio alcun potere. Con tutta se stessa immaginava di richiamare un qualsiasi genere di potere che la potesse salvare, ma l’unica cosa che sentì furo- no le mani fredde e forti delle due vecchie, che si chiudevano sulle sue braccia e la strattonavano fuori da quel maledetto rifugio. Puntellò i piedi, ma non servì a nulla se non a farsi strattonare ancora di più fuori dalla cella. Darvulia era in piedi accanto alle catene che pendevano dal soffitto come braccia scheletriche. Perché l’accusavano di essere una strega? Solo perché piaceva alla contessa? Erano gelose di lei? “Non voglio morire…” disse fra le lacrime. Non riusciva a capacitarsi di ciò che le stava accadendo. Aveva solo tredici anni e tutta una vita davanti a sé. Non aveva ancora conosciuto niente della vita e aveva così voglia di vivere che le pareva impossibile che davvero sarebbe capitato quello che le avevano detto. Come potevano ucciderla così? “Non importa quello che tu vuoi… non lo capisci? Sei più stupida di quanto credessi.” Rispose Darvulia fissandola negli occhi. Le due vecchie la legarono mani e piedi e con prepotenza le strapparono di dosso gli abiti. Vanka rabbrividì per il freddo. Solo per un attimo si vergognò per la sua nudità perché poi la sua mente fu troppo impegnata a pensare alla vita che volevano portarle via e tutto il resto passò in secondo piano. Dorkò e Jò si allontanarono di qualche passo e rimasero a guardare. Darvulia mescolava un unguento dall’afrore nauseabondo che fino a un attimo prima aveva bollito in un pentolino di rame. Si avvicinò alla giovane e rovesciò l’unguento sulla schiena che subito sfrigolò, si fece rossa e comparvero piccole bolle. Vanka gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. Gli occhi sgranati non avevano più lacrime, ma solo un’espressione terrorizzata e incredula. “Vi prego…” gridò. “Zitta!” tuonò Darvulia facendo poi un cenno ad Erzsébet. “Ora potete continuare voi contessa. I suoi poteri sono stati neutralizzati e il suo sangue purificato. “ Erzsébet si rigirò tra le mani un lungo attrezzo con la punta uncinata, lo arroventò sulla fiamma di una candela tenuta da Dorkò e con una lentezza esaspe- rante, che non fece che accrescere il dolore, infilò l’uncino nella carne morbida dell’ascella. Vanka urlò così forte da far drizzare i capelli alle sue aguzzine. Erzsébet le assestò uno schiaffo così forte da farle uscire sangue dal naso e che la zittì di colpo. “N-o-n U-r-l-a-r-e.” disse scandendo bene ogni lettera per sottolinearne il senso imperativo. “Se urli, ti cucio la bocca con l’ago più grosso che io possegga e il filo più ruvido che si possa trovare. Se urli, ti farò pentire d’averlo fatto e quando tenterai di urlare ancora per un dolore molto più forte di quello appena provato, le tue labbra si squarceranno come il ventre di un pesce sul tavolo di una cucina! Se urli, non avrò pietà.” Vanka singhiozzò e sollevò il viso, fino ad incontrare gli occhi della contessa. Occhi fiammeggianti, privi d’umanità e scrupoli. Occhi profondi, infiniti, dietro ai quali si scorgeva nitido, un mondo di peccati, di sangue, di fiamme dell’inferno. Lei non aveva quegli stessi occhi. Lei non era una strega e niente avrebbe potuto mai salvarla; non di cer- to una stupida leggenda che aveva da sempre condizionato la sua vita e l’amore dei suoi genitori. Quegli occhi, in cui ci si poteva perdere, ti catturavano per non lasciarti più andare. Prima ancora della morte, l’anima cadeva in quegli occhi e non ne trovava mai più l’uscita. Era questo che le stava accadendo. Come ipnotizzata, li fissava. Una serie di pensieri le affollava la mente senza riuscire a trovare una via d’uscita in quel labirinto che era il suo corpo infreddolito. “Se non urlo avrete pietà?” domandò allora con un filo di voce. Conosceva già la risposta alla sua domanda, ma voleva sentire con le sue stesse orecchie di non avere alcuna speranza a cui aggrapparsi, perché la speranza, a volte, è un male. La speranza ti fa superare il dolore, resistere alla disperazione, combattere la sofferenza e lei voleva esser certa di non combattere per nulla. Erzsébet fece un mezzo sorriso mostrando la dentatura bianca. “No.” Rispose e si lasciò andare a una risata liberatoria. Anche Dorkò, Jò e Darvulia risero, mentre Vanka chiudeva gli occhi cercando con tutte le sue forze di trattenere le lacrime. A cosa sarebbe servito urlare? Nessuno l’avrebbe sentita e la contessa non si sarebbe fermata. Mentre Erzsébet infilava un lungo uncino nella carne tenera della natica, Vanka immaginò di essere a casa. In quella casa che aveva tanto disprezzato per la povertà che vi regnava, con in mano un tozzo di pane secco. Non aveva mai amato il pane secco e nemmeno lavorare la terra. Sognava, come tutte le giovani, di incontrare il principe che l’avrebbe portata con sé, a vivere a Palazzo, tra sfarzi e carni prelibate. Ma mai come in quel momento, avrebbe desiderato il freddo del suo pagliericcio e un tozzo di pane secco, dopo una giornata passata a lavorare la terra. Un altro uncino venne applicato ai seni. Uno ancora alle braccia, e via così fino a che tutto il corpo fu ricoperto di uncini, la carne lacerata e sanguinante. Il dolore atroce non la fece urlare solo perché a ogni uncino, Vanka si mordeva così forte le labbra da farle sanguinare. Le urla rimasero dov’erano: nel profondo della sua mente e della sua anima. Dorkò attaccò a ogni uncino, una catena e ogni catena venne tirata con forza e fermata ai ganci nel muro. Gli uncini erano infilati profondamente e non diedero il minimo accenno a volersi sfilare. Tesero invece le carni, procurandole dolori lancinanti in tutto il corpo. Fece fatica a non gridare, soprattutto quando vennero tese le catene che trattenevano gli uncini applicati tra le dita delle mani e dei piedi. I suoi occhi verdi cercavano di non guardare e anche nei pochi momenti in cui erano aperti, fissavano qualcosa di indefinito al fondo del corridoio buio. La vasca posta sotto di lei raccoglieva le gocce di sangue che le scivolavano via dal corpo come lacrime di vita. Erzsébet era assorta in chissà quali macabri pensieri mentre venivano tese le ultime catene. Darvulia le si avvicinò e le sussurrò qualcosa all’orecchio; lei assentì senza distogliere gli occhi bramosi da quelle preziosissime gocce di sangue. Ficzkò era giunto da pochi minuti e, silenzioso, si era seduto in disparte a guardare la scena, sgranocchiano una mela succosa. Immaginava che quella mela fosse una parte del corpo di quella ragazzina così straordinariamente bella e sperando che non la deturpassero troppo perché aveva in mente un sacco di cose da fare con quel corpo minuto. Peccato non poterla avere da viva, pensò, ma in fondo si sarebbe accontentato come sempre aveva fatto nella sua vita. Non poteva che accontentarsi. Erzsébet prese uno spillone con una mano e con l’altra sollevò il viso di Vanka. Per un momento i loro occhi s’incontrarono e a Erzsébet parve di sprofondare dentro quel verde brillante che ancora sapeva di speranza. La sua anima vacillò quando, in quegli occhi, non scorse paura, ma solo voglia di vivere. Non le servì altro per essere certa della sua natura di strega. Non esisteva per lei la possibilità di affezionarsi anche solo un poco a un essere sconosciuto. Mai si era affezionata a qualcuno. Forse nemmeno ai suoi figli… forse nemmeno a suo marito. L’unica cosa che la faceva essere vicina a un altro essere umano era ciò che quell’altra creatura poteva donarle. Poteva essere rispettabilità, ricchezza, sesso, ma null’altro. Quello sguardo impudente andava punito. Quello sguardo rischiava di farla impazzire e non poteva continuare a esistere. Con mano ferma e decisa, conficcò lo spillone nella pupilla fino a che non ne rimase fuori solo la capocchia. Vanka non riuscì a non gridare questa volta e subito, un frustata di Dorkò la richiamò all’ordine. Ma il dolore della frusta sulle gambe non era nulla al confronto. Forse non se ne accorse neppure. Tentò di chiudere le palpebre, ma la capocchia dello spillo lo impediva. Jò Ilona tenne aperto l’altro occhio e subito Erzsébet vi conficcò un altro spillone. Nel buio totale, con la vista persa per sempre, Vanka gridò ancora e svenne. “Svegliala.” Ordinò Erzsébet camminando avanti e indietro, furente per quell’interruzione. “Svegliala subito!” gridò. Dorkò fu subito di fianco alla ragazza con la carta oleata in una mano e la fiaccola nell’altra. Diede fuoco alla carta e l’avvicino al sesso ancora nudo della giovane, il cui viso pendeva sul torace lucido e rosso. La carne sfrigolò per qualche secondo, prima che Vanka si risvegliasse e con lei, si risvegliassero tutti i tremendi dolori che le pervadevano il corpo. Quale terribile persona può interrompere quella fuga del cervello atta a non far perdere in senno? Il terrore di non vedere fu anche più grande del vedere che cosa stavano per farle. Cercò di muoversi, ma le catene ben tese le ricordarono subito che non era una buona idea. Erzsébet rimase ferma davanti alla sua vittima, soddisfatta di non dover più fare i conti con quello sguardo sfrontato. Ora si sentiva libera di fare qualsiasi cosa. L’incantesimo perpetrato da quegli occhi di strega era svanito insieme alla vista. Ciò che le piaceva in modo particolare di Vanka, erano i capelli. Quei capelli di un rosso così intenso e lucido da sembrare dipinti. Aveva bisogno di quei ca- pelli, per la sua nuova macchina di morte. “Tienila per i capelli.” Ordinò a Dorkò; prese un coltello affilato e incise la pelle subito sotto l’attaccatura dei capelli. A Ficzkò andò di traverso l’ultimo boccone di mela quando comprese l’intenzione della contessa. Per l’ennesima volta avrebbe dovuto soprassedere e non concedersi qualche minuto di svago con un corpo ancora caldo. Quel corpo non sarebbe stato più di nessun aiuto nemmeno a lui quando la contessa avesse finito di divertircisi. Il viso di Vanka era ormai una maschera di sangue e dolore. Nulla più si riconosceva in lei… nemmeno sua madre l’avrebbe mai riconosciuta. Lo scalpo venne strappato dal cranio con rumori umidi e venne poggiato ad una ragionevole distanza dal fuoco, in modo che la cute si asciugasse senza prendere fuoco. Il cuore di Vanka perse un colpo. Fu come ricevere un pugno in pieno petto. Percepì distintamente il cuore mancare un battito e poi un altro. Il sangue caldo le colava sul viso e sulla schiena. Il cra- nio scoperto luccicava nella luce delle fiaccole. Non vi era più nulla di ciò che aveva tanto attirato la contessa in quella giovane. Gli occhi non erano che due pozze sanguinolente e non c’era più nessuna capigliatura splendida a incorniciare quel viso. Era solo un corpo fin troppo gracile e acerbo, bianco e glabro. Erzsébet si soffermò a guardare quel cranio. Non si era mai spinta tanto in là e se ne stava domandando la ragione. Come mai non aveva mai pensato di vedere quella cosa che permetteva il pensiero, la conoscenza, i ricordi? Non lo sapeva, ma ne aveva voglia in quel preciso istante. Per una volta, i suoi pensieri non furono tutti per il sesso e il sangue, ma per la curiosità di sapere. Raccolse una piccola sega e la gettò ai piedi di Dorkò. “Aprile la testa.” Disse seria. Vanka sussultò. Se avesse potuto, avrebbe sgranato gli occhi e se fosse servito, avrebbe gridato tanto forte da far tremare i muri, ma si limitò a singhiozzare sommessamente, ormai priva di forze e soprattutto di speranza. Come una bambina tanto capricciosa quanto curiosa, Erzsébet rimase a guardare Dorkò che muoveva la lama lentamente per non oltrepassare l’osso e uccidere la ragazza. La contessa non glielo avrebbe mai perdonato. Piano, piano la calotta venne rimossa e il groviglio rosso e grigio del cervello venne messo a nudo. Erzsébet rimase stupita nel vedere quell’organo così complesso e misterioso. Con dita tremanti lo sfiorò. Vanka tremava così forte da far tintinnare tutte le catene. “Tienila sveglia.” Ordinò mentre infilava un dito tra il cranio e il cervello esposto. La carta infuocata fu di nuovo appoggiata tra le gambe della giovane che subito reagì cercando di divincolarsi. “Perché… perché…” domandò in un sussurro appena udibile. Uno spillone venne conficcato nel cervello. Poi un altro e un altro ancora. Era resistente quell’organo perché ancora Vanka era vigile e viva. “Non possiamo permettere che il sangue attenda troppo contessa.” Intervenne Darvulia, distogliendola dalle sue elucubrazioni. Erzsébet si voltò verso di lei e le lanciò un’occhiata carica di rimprovero. Come osava interromperla, metterle fretta? Non aveva voglia di smettere proprio ora. Voleva scoprire quel corpo in tutte le sue meraviglie. Ficzkò giaceva rassegnato con le spalle contro il muro. Jò Ilona sembrava avere il viso sconvolto dalle ultime pratiche della contessa. “E sia.” Disse infine, quasi rassegnata. Prese un ferro lungo e appuntito e lo arroventò sul fuoco. Quando la punta fu rossa, si abbassò sotto il corpo di Vanka, aprì con le dita la vagina glabra e ve lo infilò con forza e decisione, fino quasi a farlo scomparire del tutto. Vanka non ebbe il tempo di capire che un dolore terribile le salì nelle viscere fin quasi al cuore ormai stanco e provato. Un altro battito venne meno e sperò che non arrivasse nemmeno quello dopo, ma quel suo cuore era forte e giovane e non voleva saperne di fermarsi per sempre. Il sangue colò copioso tra le gambe; dalla vagina e dall’ano. Tutto dentro quel corpo era ormai lacerato. Un fiotto di sangue risalì dallo stomaco e si riversò fuori dalla bocca socchiusa in brevi e squassanti conati di vomito. Insieme al sangue, si riversò anche parte dell’ultimo pasto consumato. Il cuore perse un altro colpo. Erzsébet tenne in mano per un attimo un altro attrezzo acuminato e con un po’ di tristezza per il gioco quasi terminato, lo infilò al centro del cervello. Il corpo di Vanka fu scosso da un fremito prolungato. Un verso lungo e soffocato le uscì dalle labbra e gli orifizi rilasciarono il contenuto della vescica e dell’intestino. Prontamente, Jò Ilona sostituì la vasca sotto il corpo di Vanka ed Erzsébet, con un colpo preciso e netto tagliò la gola da cui uscì tutto il sangue di cui aveva bisogno. Il sangue di una strega; forte come quello di cento giovani fanciulle. Prezioso più di tutto l’oro del mondo. X Non stava più nelle pelle. Come una bambina il giorno del compleanno, correva attorno alla cassa avvolta in pesante tessuto con la voglia di portare alla luce il suo contenuto e allo stesso tempo il timore di esserne in qualche modo delusa. Non era difficile deluderla e forse, almeno questo difetto, se lo riconosceva. L’artigiano incontrato al castello di Dolna Krupa era stato di parola e in poco più di un mese aveva davanti a sé il macchinario che aveva tanto desiderato e su cui aveva fantasticato per interi giorni. Con le grosse forbici incise la stoffa e le corde e mise a nudo il legno grezzo della cassa al cui interno, si distingueva un luccichio di metallo. Dorkò e Jò l’aiutarono a far saltare i chiodi che te- nevano chiusa la parte anteriore della cassa e finalmente, davanti ai loro occhi si materializzò qualcosa che non avevano mai veduto e che andava al di là di ciò che si erano aspettate. Una dama di ferro, rifinita fin nei minimi dettagli. Il viso ovale e pieno, gli occhi dipinti di un caldo color nocciola, la bocca socchiusa di un bel color rosso intenso. La portarono nei sotterranei e la posizionarono sul suo piedistallo, tra due fiaccole appese al muro. Mancava solo una cosa essenziale a quel viso… dei capelli a fargli da cornice e a questo aveva pensato Erzsébet parecchio tempo prima. Svolse un pacchetto di carta che aveva custodito gelosamente e ne estrasse una cascata di capelli rossi e splendenti. Adagiò lo scalpo sulla testa della donna di ferro e la fece fermare a Dorkò con l’inserimento di piccoli chiodi, per poi allontanarsi e ammirare il suo operato. Splendida! Non poteva che essere così per qualsiasi creatura, viva o morta che fosse, che avesse il viso incorniciato da quei capelli meravigliosi. Capelli appartenuti ad una giovane e scaltra strega. Non le rimaneva che provarla. I suoi bagni di sangue erano continuati e ogni volta provava maggiore soddisfazione e si accorgeva anche dei più impercettibili miglioramenti. Una macchia in meno sulla pelle, un grinza in meno vicino alla bocca o un colorito maggiormente candido. In consigli di Darvulia parevano non essere mai sbagliati. Il sangue di Vanka era stato conservato a lungo e in parte raccolto in ampolle, mischiato con oli essenziali, era ancora uno dei suoi segreti di bellezza più potenti. Le stesse dame che incontrava di quando in quando non facevano che farle complimenti per la splendida forma. Vanka aveva lasciato anche un vuoto enorme però. Nonostante si fosse accorta del troppo ascendente che aveva su di lei, rimpiangeva i momenti di estasi passati nel grande letto della sua stanza. Non si era più avvicinata a un uomo da allora e nessuna delle altre serve era stata in grado di farle provare lo stesso intenso piacere. Questo la faceva spesso infuriare e la serva di turno si ritrovava a dover subire ogni genere d’insulto e di punizione. Dorkò e Jò continuavano il loro reclutamento di giovani fanciulle e Kata si dedicava sempre più spesso a frettolose sepolture. Ponikenus non aveva più fatto domande e non aveva tentato altre fughe verso Bicse o altri luoghi per lei pericolosi, ma lo teneva d’occhio. Pochi mesi prima, re Rodolfo aveva abdicato in favore del fratello Mattia. A Erzsébet non piaceva affatto re Mattia. Mentre con re Rodolfo poteva trovare dei punti d’incontro come la magia e l’esoterismo, con re Mattia non aveva nulla in comune. Mattia non credeva affatto alla magia e dava troppa importanza al popolo. Aveva persino esteso la libertà di religione ai contadini! Erzsébet scosse la testa a quel pensiero. Come si poteva dare libertà a quegli esseri inferiori e senza capacità di discernimento? Lo aveva incontrato una sola volta e aveva avuto la vaga impressione che la guardasse con sospetto e cattiveria; per questo aveva subito commissionato a Darvulia una nuova pergamena che la proteggesse dai nemici e da portare sempre addosso. Ne vedeva ormai troppi di nemici attorno a sé e questo la metteva in agitazione. Lo stesso suo cugino Thurzò era stato a farle visita non molti mesi prima e aveva fatto domande strane a cui lei aveva risposto con la maggior naturalezza possibile. Qualcuno aveva parlato e lei era certa che non potesse essere altri che Emerich Megyery… il rosso. Quel maledetto era stato la sua spina nel fianco per tanto di quel tempo che ormai non ne teneva più il conto. Il suo più grande desiderio era vederlo morto, ma non era fino ad allora riuscita a portare a compimento quel desiderio. Ogni tanto si sentiva terribilmente sola e poi, come se avesse perso la ragione, rideva di se stessa per quelle assurde malinconie e tornava con la memoria, ai momenti in cui l’unica cosa che aveva desiderato era proprio la solitudine. Le sue elucubrazioni furono interrotte dai passi concitati di Jò Ilona che trascinava una giovane, tirandola per i capel- li. La ragazza era colpevole di aver chiacchierato più volte durante lo svolgimento delle sue mansioni e per questo era stata già punita in passato. Sembrava non voler imparare la lezione. O era troppo stupida per farlo, oppure era troppo sicura di sé da credere di poterla fare sempre franca. Restare nuda in mezzo al cortile, con l’ago in una mano e la tovaglia nell’altra non le aveva fatto alcun effetto; tanto meno aver subito centinaia di punture di spillo sulla lingua. Erzsébet si mise al centro della stanza con le mani appoggiate ai fianchi. Quando i loro occhi s’incontrarono, la giovane non abbassò lo sguardo e anzi, abbozzò un sorriso di scherno. Era arrivata da poco e forse ancora non era entrata abbastanza in confidenza con le altre serve per sapere che non le sarebbe convenuto sfidare la contessa. O forse le altre serve non l’avevano presa in simpatia e non avevano creduto opportuno avvertirla del pericolo che stava correndo. Comunque fossero andata le cose, a Erzsébet non importava. Le importava solo di aver trovato la prima cavia per sua bellissima donna di ferro. Trascinata a forza da Jò Ilona e Dorkò, la giovane venne posizionata tra le braccia della donna di ferro. Lei guardò quella strana scultura con sospetto e un po’ di apprensione, ma non sembrò considerarla un pericolo. Le cinghie furono strette attorno al petto, alla vita e all’altezza delle ginocchia. Protestò quando Dorkò strinse troppo l’ultima cinghia. Era curiosa di vedere come funzionava. Le istruzioni all’interno della cassa erano piuttosto chiare. Erzsébet toccò una pietra della collana della donna di ferro e poi un’altra, fino a che non sentì uno leggero sferragliare che indicava che il congegno era stato messo in funzione. Gli occhi della donna di ferro si spalancarono come in un moto di sorpresa, la bocca si aprì, lasciando intravedere denti bianchissimi, le braccia si abbassarono e iniziarono a chiudersi addosso alla giovane che sembrava cominciare ad avere paura. Fece un balzò e strillò quando sentì le braccia stringersi addosso, fino a farle mancare il respiro. I capezzoli ferrei puntavano sulla sua schiena come se volessero bucarla, ma ancora non sapeva che quel dolore non sarebbe stato nulla a confronto di ciò che le sarebbe accaduto di lì a poco. Dai seni della donna di ferro, scattarono fuori due pugnali ben affilati e abbastanza lunghi da infilzare la giovane e fuoriuscire dal torace. Tutto si svolse nel giro di pochi secondi. La giovane borbottò qualcosa mentre il sangue le si riversava fuori dalla bocca semiaperta. Qualche attimo dopo, il viso era abbandonato sulla spalla e non vi era più un accenno di respiro. Era morta. Erzsébet si passò una mano sul viso, guardò le due vecchie, guardò la giovane e scosse la testa come a voler negare ciò che era appena successo. Il sangue della giovane si stava intanto raccogliendo in una piccola canalina che portava direttamente a una vasca. Non era soddisfatta. Certo, funzionava in modo impeccabile, ma dove stava il divertimento? Tutto finiva in pochissimi secondi come se ci si fosse trovati in un qualsiasi mattatoio e lei non voleva che succedesse così. Non provava la stessa spossatezza e lo stesso appagamento di quando era lei stessa a massacrare le sue vittime e poteva far durare le torture tutto il tempo che voleva. Era bella la sua statua di ferro, ma forse sarebbe stata per sempre solo un ornamento perché nulla era come dare lei stessa la morte e in quanto tempo desiderava. Forse l’avrebbe utilizzata ancora. Magari quando avesse avuto fretta di avere del sangue senza stancarsi tanto, ma certamente non sarebbe capitato spesso. Dorkò lasciò che la contessa abbandonasse i sotterranei e slegò la ragazza. Con l’aiuto di Jò, l’appese alle catene a testa in giù e con un taglio netto aprì la gola. Il sangue uscì ancora copioso e si riversò nella vasca che poi sarebbe finita accanto al fuoco, in attesa della contessa. PARTE TERZA I Erano giorni che non vedeva Darvulia. L’aveva fatta cercare in lungo e in largo, ma della vecchia strega non c’era traccia. Non era mai accaduto che sparisse per così tanto tempo senza dare notizie ed Erzsébet cominciava a essere preoccupata. Non per lei in realtà, ma per se stessa. Chi avrebbe preparato i filtri, chi avrebbe richiamato gli elementi per dar più forza alle maledizioni contro i suoi nemici che oltretutto si facevano sempre più numerosi? Erzsébet fece chiamare Ficzkò e gli ordinò di andare a cercarla e di non tornare fino a quando non l’avesse trovata o quanto meno avesse avuto sue notizie. Ficzkò non aveva alcuna voglia di uscire a quell’ora tarda per andare nei boschi attorno a Csejthe a cercare un’orrida strega, ma non poteva fare altrimenti. La primavera era quasi giunta al termine e ormai si percepiva già il profumo dell’estate. Si mise addosso un mantello leggero e uscì. Per le strade non c’era anima viva, nonostante la temperatura fosse gradevole. Non vi era molto da fare a Csejthe dopo il tramonto e anche d’estate, le famiglie si raccoglievano attorno al tavolo per portare a termine gli ultimi lavori della giornata. I bambini dormivano da un pezzo nei loro lettini di fortuna. Ficzkò imboccò un sentiero più stretto che virava a destra e spariva oltre il muro di alberi neri; la lanterna illuminava a malapena un breve tratto. La sua vita era notevolmente peggiorata negli ultimi tempi a causa della sempre più pronunciata crudeltà della contessa. Tutto era cambiato da quando quella giovane di cui non ricordava il nome… forse Vanda? Vanka? Non lo ricordava proprio, ma era certo che fosse un nome del genere. In ogni caso, quella giovane aveva fatto cambiare in peggio la contessa. Se era vero che era una strega, la contessa ne aveva assorbito l’oscuro potere perché da allora non vi era stato un solo giorno di pace al castello. A quello di Csejthe come a quello di Keresztur e meno che mai durante i lunghi viaggi in carrozza, nei quali sempre veniva abbandonato qualche corpo privo di vita ai margini della strada come una qualsiasi immondezza. Da allora era diventata una belva e non aveva più conosciuto momenti di calma apparente come nel tempo precedente la venuta della giovane serva-strega. Kata si era fermata più volte a parlare con lui e gli aveva confidato che ormai era diventato impossibile nascondere ciò che accadeva e, sempre più spesso, incontrava difficoltà a farsi aiutare da Ponikenus. Quello stesso anno però, il 1609, György Thurzò, nipote di Erzsébet, fu eletto palatino d’Ungheria e per questa ragione molte voci erano state messe a tacere; grazie anche al fatto che entrambi i generi della contessa avevano chiesto che non si procedesse alle indagini. Essere potente e soprattutto nobile era stata da sempre la sua salvezza. Ficzkò si stupiva ogni volta che la incontrava nella sala da pranzo del castello oppure nei sotterranei. Era sempre così bella, fresca e giovane che non dubitava affatto dei poteri incredibili sprigionati dal sangue in cui spesso s’immergeva. Egli stesso si era domandato se non avrebbe fatto bene anche a lui, fare un bagno di sangue! Non c’era uomo che non la guardasse con bramosia e non una sola donna che non provasse invidia e al contempo ammirazione per quella bellezza che sembrava non essere intaccata dal tempo. Arrossì ricordando alcuni episodi avvenuti molti anni prima. La contessa sentiva un spiffero nella sua stanza da letto e, furibonda come sempre, l’aveva chiamato e gli aveva ordinato di trovare la fessura dalla quale entrava l’aria e tapparla entro il giorno successivo. Si era dato un gran da fare per individuare la crepa che si era venuta a creare in basso, nella parete che divideva la stanza da letto della contessa dalla stanza degli ospiti. Aveva spostato un basso mobiletto in stile francese con le alte zampe ondulate e l’aveva trovata. Quando si era inginocchiato e vi aveva guardato attraverso, non aveva saputo resistere. Quella stanza non era mai stata utilizzata da quando lui era al castello e dubitava che sarebbe stata usata in futuro. Da quell’angolazione, vedeva in modo perfetto il letto a baldacchino con le sue colonne di legno scuro e la contessa in piedi, lì accanto, che si faceva aiutare a chiudere il bustino. Era corso nelle stalle e aveva preso a lavorare un pezzo di legno. Lo aveva reso sottile e dipinto di bianco in modo che le domestiche non se ne avvedessero. Da quel giorno, aveva trovato un nuovo passatempo. La sera, invece di andare a bere alla locanda, si sistemava seduto a terra in quella stanza, toglieva il riparo di legno e aspettava. Succedeva sempre qualcosa che valesse la pena di vedere nella stanza della contessa. Se nei sotterranei si lasciava andare alla crudeltà e qualche momento di lussuria, nella sua stanza da letto, la lussuria la faceva da padrona. Quando non era in compagnia di qualche dama o di qualche uomo come Lazlo, rimaneva per intere ore a guardarsi nello specchio, nuda e bellissima. Si passava le mani sul corpo come se quelle mani non fossero state le sue. Come se fossero state le mani di un amante. Sfioravano il collo, scendevano sui seni, dove i capezzoli ritti spiccavano lievemente più scuri del resto carnagione. Accarezzavano il ventre e poi, come fossero state bramose e insaziabili, scendevano tra le gambe chiuse. Allora faceva qualche passo indietro e si lasciava andare sul letto come se un amante immaginario e violento l’avesse spinta. Divaricava le gambe e lui vedeva tutto nei minimi dettagli. Le gambe che si schiudevano, le dita che sondavano, entravano, massaggiavano e lei che si arcuava e mugolava. A quel punto, Ficzkò non poteva fare a meno di rispondere alle proprie esigenze corporali e, come la contessa, si lasciava andare all’esplorazione del proprio piacere, immaginando che le mani che sentiva sul pene eretto fossero quelle di Erzsébet e che il piacere che pro- vava al culmine, si riversasse dentro di lei. Aveva visto molti uomini e molte donne entrare in quella stanza e ciò a cui aveva assistito, andava al di là della sua già fervida immaginazione. Ma era quando era sola che più provava eccitazione perché quell’eccitazione non era avvelenata dall’invidia, dalla gelosia. Quando faceva sesso con se stessa, pareva che il demonio fosse il suo amante e forse lo era perché lei pareva davvero vedere qualcuno. Un amante invisibile che la spingeva sul letto, che le apriva le gambe con violenza… Ficzkò sentì il turgore tra le gambe aumentare e s’impose di non continuare a pensare a quelle sere passate seduto in quella stanza. Doveva occuparsi di Darvulia in quel momento e non poteva tornare a mani vuote. Sperava fosse morta… quella brutta strega. Non faceva che riservargli occhiate di disprezzo e fastidio e si comportava come se fosse chissà chi. Un comignolo fumante si stagliava poco distante da lui. Quella doveva essere l’abitazione di Darvulia perché nessun altro si sarebbe mai sognato di vivere nel bosco, lontano da tutto. Certo doveva esserle parso strano passare tanto tempo al castello quando era stata abituata ad abitare nella più totale solitudine per tutta la sua vita. Il comignolo fumava, quindi voleva dire che in casa c’era qualcuno. Si avvicinò facendo attenzione a far meno rumore possibile. Non si fidava di quella vecchia e ne aveva paura. Quando fu abbastanza vicino, sgattaiolò verso il muro e si appiattì di fianco alla finestra sudicia. Un rumore di stoviglie e poi dei passi che si avvicinavano. Il cuore prese a battergli all’impazzata, ma non ebbe il tempo di pensare al da farsi e quindi neppure di agire. La porta si aprì e una giovane donna con i capelli più biondi che avesse mai visto stava ritta sull’uscio e lo guardava di sbieco. “Cerchi qualcuno?” domandò, sicura di sé. “No… sì…” “Sì o no? Non credo che tu sia arrivato sin qui per fare una passeggiata.” Ribadì lei, altezzosa. “No, la mia padrona, la contessa Bàthory… mi manda a cercare Darvulia.” Disse acquistando un po’ di sicurezza. Nominare la contessa era un buon modo per darsi importanza e far capire al proprio interlocutore che non era un vagabondo qualsiasi. “La contessa…” sussurrò e sorrise. “Sì, la contessa.” Ribadì lui, credendo che quella della giovane fosse una domanda causata dall’incredulità. “Ebbene, cosa desidera la contessa da Darvulia?” “Sapere dov’è e come mai sono giorni che non si fa più vedere.” “Se Darvulia non si fa più vedere è perché qualcosa di più forte di lei la sta trattenendo.” Ficzkò finse di comprendere, ma poi scosse la testa. “Cosa devo dire alla contessa?” “Dille che Darvulia ha raggiunto la fine. Dille che ora riposa tra le fiamme dell’inferno, proprio come desiderava.” “E’ morta?” chiese incredulo e quasi sollevato. “Tu cosa ne pensi?” domandò lei stizzita. “E voi chi siete? Cosa fate a casa sua?” “Questo non ti riguarda nano. Così ha voluto Darvulia.” L’aggredì richiudendosi poi la porta alle spalle. Ficzkò non poteva che essere soddisfatto. I suoi desideri si erano avverati e non sarebbe più stato costretto a trovarsi davanti quella vecchia e maleodorante strega, ma quella giovane lo aveva lasciato perplesso. Aveva occhi conosciuti. Occhi sapienti, saggi… vecchi seppure vitali e belli. Si fermò con il fiato corto in mezzo alla fitta boscaglia. Darvulia! Pensò. Fu sul punto di tornare indietro e appurare i suoi dubbi, ma qualcosa gli ricordò che la fortuna non lo avrebbe aiutato per due volte di seguito. Nello sguardo della giovane aveva visto lo stesso disprezzo e lo stesso fastidio che aveva tante volte notato in quello della vecchia strega. Forse una parente stretta? No… non lo credeva. Una giovane strega che aveva ereditato i suoi averi? No… non credeva nemmeno questo. Ciò che credeva non ebbe il coraggio di dirlo ad alta voce e nemmeno di pensarlo troppo a lungo. Corse a perdifiato fino alla radura e non si fermò neppure quando fu sulla strada. Fece fatica a non correre anche quando fu ormai dentro il castello e la contessa, in piedi accanto al focolare, lo attendeva con sguardo duro. “Ebbene?” chiese senza lasciargli neppure il tempo di riprender fiato. “E’ morta.” Ansimò, tenendosi una mano sul petto come se fosse preda di un infarto. Il sudore gli imperlava la fronte e gocciolava, facendo bruciare gli occhi. “E’ morta? Avete visto il corpo?” “No… no…” rispose incerto. “Come fate a dire che è morta allora?” chiese Erzsébet con le guance infuocate per la rabbia. Darvulia le serviva! Come aveva potuto lasciarla sola proprio nel momento del maggior bisogno? Quando l’età iniziava a non voler sottostare alla sua volontà? “Nella casa c’era una giovane… una parente… ha detto che Darvulia ora riposa all’inferno… che è morta…” “Una giovane? Una parente? Non ho mai saputo che avesse parenti! Ne siete certo?” “Sì contessa. Non potrei mai mentirvi.” Si giustificò. Erzsébet camminò avanti e indietro davanti al focolare con le braccia strette attorno alla vita e lo sguardo fiammeggiante. Nella sala buia, il fuoco rischiarava a intermittenza e lunghe ombre si stagliavano su oggetti, pareti e pavimenti. Ficzkò rabbrividì pensando alle fiamme dell’inferno dove anche lui sarebbe finito prima o poi. “Ho sentito parlare di una strega molto abile. So che vi si recava spesso anche Darvulia per farsi preparare i veleni più terribili. Abita a Miawa, un piccolo centro di montagna. Dite allo stalliere di preparare la carrozza per domattina.” Ordinò, prima di allontanarsi rabbiosamente in uno svolazzare di sottane. Ficzkò obbedì e quella notte, si raggomitolò nel letto senza però riuscire a prendere sonno. Qualcosa gli diceva che la nuova strega sarebbe stata peggio di Darvulia. Ma non era solo questo a preoccuparlo. Se mai la contessa avesse incrociato lo sguardo della giovane dai capelli biondi, avrebbe compreso la sua menzogna e mai l’avrebbe perdonato, o forse sarebbe stata più furente per la nuova giovinezza della strega? Giovinezza che a lei non aveva fatto raggiungere, seppur con tutti i cataplasmi di erbe e i bagni di sangue. Scivolò nel sonno quando già iniziava ad albeggiare e sognò di essere un uomo normale. Alto, ma non troppo. Forte e muscoloso. Un cavaliere che quando passava in paese non poteva che incontrare l’ammirazione delle giovani e la reverenza dei più anziani. Un eroe come pochi, in sella al suo destriero. Buono e leale. Un amante assai richiesto dalle nobildonne e inarrivabile per le giovani paesane. Forse, se fosse stato davvero così, le fiamme dell’inferno non gli avrebbero fatto tanta paura. II La carrozza era pronta. Erzsébet scese le scale. Dal viso tirato si sarebbe detto che non aveva dormito molto nemmeno lei. Si preannunciava una bella giornata di sole anche quel giorno. Dorkò e Jò avevano già preparato le serve che avrebbero dovuto tenere compagnia alla contessa. Stavano ritte in mezzo al cortile con lo sguardo basso e preoccupato, quando la contessa alzò una mano come a scansarle. “Non le voglio. Non oggi.” Disse salendo in carrozza. Dorkò e Jò si scambiarono un’occhiata interrogativa e spinsero via in malo modo le due giovani. Non era mai accaduto che la contessa rifiutasse la compagnia durante un viaggio. Senza porsi altre domande, salirono anch’esse. La carrozza partì alla volta di Miawa. Furono ore di viaggio su strade dissestate e ripide in cui la contessa non aprì mai bocca né tantomeno le due vecchie. Quando finalmente arrivarono nel paesino sperduto di Miawa, era già passato mezzogiorno e non tutto faceva pensare che la maggior parte delle case fosse disabitata. Il cocchiere fermò la carrozza più volte e scese a chiedere informazioni ai pochi contadini che incontravano sulla strada e finalmente, l’ultimo di essi sembrò dare indicazioni precise. Ripresero il cammino e giunsero poco fuori dal paese, dove vi era una casa piccola e cadente. Il cocchiere scese nuovamente e bussò alla porta ripetutamente senza ottenere risposta. Stava già tornando indietro quando un’anziana donna dall’aspetto trasandato, bassa, tozza e con i capelli legati in una lunga treccia grigia che recava ancora qualche ricordo di biondo, gli si parò davanti. “Desiderate qualcosa?” domandò con aria sospettosa. “La contessa Bàthory cerca Erza Majorova.” “E cosa desidera la contessa Bàthory da Erza Majorova?” domandò lei. “Lo comunicherà a lei personalmente.” Rispose lui compito. “Sono io Erza Majorova. Dite alla vostra signora che può entrare.” Annunciò, aprendo la porta e sparendo all’interno. Il cocchiere tornò di corsa verso la carrozza e comunicò che la Majorova l’aspettava. Quando Erzsébet entrò in quell’angusta casa, si ritrovò a fissare il volto vecchio e malconcio della Majorova in persona, che con un ampio gesto della mano la invitò ad accomodarsi ben sapendo che mai e poi mai una nobildonna avrebbe desiderato sfiorare una qualsiasi delle suppellettili presenti. “Cosa volete contessa?” chiese senza tanti preamboli. “Conoscevate Darvulia?” domandò la contessa. “Certo.” “E’ morta.” Disse osservando attentamente la reazione della vecchia. “Lo so.” Rispose senza mutare espressione. “Necessito di una nuova strega che conosca bene le arti magiche.” “E desiderate che sia io quella strega?” chiese sorridendo come a prendersi di lei. “Sono venuta fin qua proprio per questo.” “Che cosa volete voi da una vecchia strega? Non avete già tutto ciò che desiderate?” “Non vi riguarda ciò che desidero e ciò che ho. Accettate di venire a Csejthe?” “No, se non so per quale motivo avete bisogno di me.” Ribadì testarda. Erzsébet fu sul punto di uscire e andarsene, ma non poteva tornare indietro senza di lei. “Devo fermare il tempo. Fin’ora tutto ciò che è stato fatto ha dato risultati in parte soddisfacenti, ma il tempo corre Majorova… ogni giorno di più, il tempo corre.” “Che cosa avete fatto per fermarlo contessa? Avete fatto bagni di sangue virginale?” “Sì, ma più il tempo passa e più sembra che il loro effetto s’indebolisca.” “Che giovani avete usato?” “Contadine, serve… forti e belle.” La Majorova proruppe in una risata sguaiata. “Che cos’avete da ridere? Vi state forse prendendo gioco di me?” domandò Erzsébet irritata. “No… no… per carità…” rispose cercando di smettere. “Stavo pensando a Darvulia. A quanto fosse carogna.” “Cosa intendete dire?” “Intendo dire che se è stata lei a dirvi di usare serve e contadine, forse non voleva davvero aiutarvi a rimanere giovane.” Erzsébet rimase zitta e incredula. Nessuno mai si era preso gioco di lei. “Darvulia si è presa gioco di me?” chiese tra i denti. “Immagino di sì. Era sua abitudine prendersi gioco di tutti quelli che incontrava sulla propria strada in fondo. Non mi stupisce che l’abbia fatto anche con voi.” La contessa socchiuse gli occhi e soffocò un moto di rabbia che avrebbe anche potuto portarla a uccidere quella vecchia zoticona su due piedi. “Giovani nobili vi servono se volete davvero ritrovare la giovinezza perduta. Quello è il sangue che vi serve, non quello povero e impuro di contadine e serve.” “Ne siete certa?” domandò Erzsébet diffidente. “Certo! Cosa credete… che sia una sprovveduta e vengano da ogni dove per ascoltare dei vaneggiamenti?” domandò risentita. “Verrete a Csejthe?” “Sì, ma a un patto: il vostro cocchiere mi accompagnerà qui ogni settimana.” “Avete la mia parola.” In poco più di mezz’ora, Erza preparò due sacchi di roba e salì sulla carrozza. Un’occhiata gelida corse da Dorkò a Jò e poi si posò sulla nuova arrivata che sorrise beffarda, mettendo in mostra gli unici due denti che le rimanevano. Un brivido percorse la schiena delle due vecchie peraltro avvezze ad aver a che fare con crudeltà e perversione. Durante il viaggio di ritorno, nessuno aprì bocca. La tensione all’interno della carrozza era tanto pesante che quasi si faticava a respirare. Giunsero a Csejthe al crepuscolo. Dorkò fu investita del compito di far vedere gli alloggi di Erza alla stessa Erza, mentre Jò fu chiamata nelle stanze di Erzsébet. Salì le scale come un condannato a morte, lentamente e con l’ansia che le attanagliava le viscere. Il divertimento di un tempo era scemato e tutto cominciava a diventare troppo pesante anche per lei e ancora di più per la povera Kata, che non sapeva più che fare con i corpi. Darvulia non le era mai piaciuta. Prepotente e cattiva oltre ogni limite, aveva portato solo guai. Rimpiangeva i tempi in cui alle torture non sempre succedeva la morte. L’arrivo inaspettato di Majorova aveva peggiorato la sua sensazione di declino e pericolo. Bussò piano alla porta della contessa e attese con pazienza d’essere invitata a entrare. “Avanti.” Jò entrò e chiuse la porta che da tempo immemorabile cigolava orribilmente. Avrebbe avuto bisogno di un po’ d’olio… doveva dirlo a Lazlo, pensò. Erzsébet si fece trovare nuda davanti al suo specchio e per parecchi minuti rimase in silenzio, come ipnotizzata dal riflesso del suo corpo. “Guardami.” Disse piano e Jò alzò il volto su di lei. “Cosa vedi?” domandò. “Una bellissima donna, contessa.” La contessa gettò la testa indietro e rise. “Suvvia! Dimmi in realtà cosa vedi! Darvulia non era la grande strega che diceva di essere e i risultati sono scritti su questo corpo come su di una pergamena. Ogni ruga, ogni cedimento, sono la prova di ciò che dico. La prova che Darvulia ha voluto tenere per sé il vero segreto della giovinezza. Ficzkò ha mentito…” “Cosa volete dire contessa?” “Che Darvulia non è morta… forse nemmeno lui sa con certezza di aver mentito, ma le parole di Majorova mi hanno aperto gli occhi. Darvulia non è morta, ma è tornata a esser giovane e bella. Ha tenuto per sé un segreto importante. Un segreto che ora Majorova mi ha rivelato e che userò.” Passò qualche minuto di silenzio, nel quale Erzsébet fissava ogni centimetro del suo corpo quasi con odio. Quel corpo che aveva in ogni modo tentato di preservare dal tempo e che continuava a cedere. “Mi servono delle nobildonne.” Disse quasi ringhiando. Jò sussultò visibilmente e fece un passo indietro come se quelle parole minacciassero lei personalmente. “Ti spaventa?” domandò Erzsébet avendo notato la reazione. Jò scosse la testa deglutendo. “Allora perché fai quella faccia?” “Che cosa dovremmo dire per attirarle al castello?” domandò non troppo convinta. “Che una rispettabile contessa, ormai matura e sola, desidera la compagnia di giovani nobili a cui insegnare le buone maniere, le lingue, l’arte del parlare. Giovani nobildonne da inserire in buoni ambienti. Che questa rispettabile contessa desidera non passare sola gli ultimi anni di vita e desidera lasciare in eredità il suo sapere.” Disse coprendosi con una vestaglia. “E quando la famiglia vorrà vederle? Cos’accadrà quando non ci sarà nessuna nobildonna da far tornare a casa dalla famiglia?” “Lascia che di questo mi preoccupi io.” Ringhiò. Jò abbassò la testa e assentì. “Vai. Le voglio entro domani sera.” Ribadì rabbiosa. Jò uscì dalla stanza e per prima cosa cercò Ficzkò. Lo trovò nelle stalle in compagnia di un giovinetto con il viso coperto di lentiggini che strigliava un cavallo. Come sua abitudine, prendeva in giro il ragazzino con battute volgari e fastidiose. Il giovane sbiancò quando vide arrivare Jò che lo degnò appena di uno sguardo e prese per un braccio Ficzkò facendolo cadere dalla balla di fieno sulla quale era seduto. “Ehi!” protestò tirandosi in piedi. “Vieni con me!” ordinò. “Ma che succede?” domandò seguendola fuori dalla stalle. “Che fine ha fatto Darvulia?” domandò Jò senza preamboli. “L’ho già detto alla contessa. È morta.” Bofonchiò. “Non è vero! Lo sai tu, lo so io e lo sa anche la contessa!” Ficzkò si guardò i piedi e poi sollevò il viso al cielo sospirando. “Ho visto una giovane… non so se fosse davvero lei, ma la sensazione che ho avuto… il suo sguardo… era lo stesso.” “Di Darvulia intendi?” “Sì. Lo stesso sguardo, lo stesso sgarbato modo di fare… sono certo fosse lei…” Jò sospirò e si passò le mani sul viso flaccido. “Perché me lo chiedete?” “Erza Majorova.” Rispose quasi come fosse in uno stato di trance. “E chi sarebbe?” “Una strega… una strega vera. Dev’essere stata lei a confidare a Darvulia il segreto dell’eterna giovinezza.” “E’ ciò che desidera la contessa no? Qual è il problema?” Jò ebbe voglia di spintonare quello stupido e odioso nano, ma si trattenne. “Vuole delle nobildonne Ficzkò! Questo è il problema! Quanto tempo passerà prima che qualcuno lo venga a sapere? Datti da fare comunque… le vuole entro domani… sarà l’inizio della fine… vedrai.” Sentenziò allontanandosi. Ficzkò si grattò la testa pensieroso. La sera era ormai arrivata e la brezza fresca che scendeva dalle montagne lo fece rabbrividire come fosse l’alito dei morti che aveva sulla coscienza Forse i timori di Jò non erano poi così infondati, ma c’era una cosa che non poteva che solleticarlo: avere finalmente la possibilità di mettere le mani su una nobildonna. Una vera, una pura, bianca e perfetta, profumata e giovane. Quel pensiero predominava su tutti gli altri, oltre alla curiosità di vedere questa Majorova. Chissà se era vecchia e bisbetica come Darvulia? Rientrò al castello, rimpiangendo di non aver potuto continuare a molestare quel bel ragazzino assunto da poco. Per lui non faceva una gran differenza il sesso delle sue vittime. Un ragazzino andava bene tanto quanto una ragazzina. L’unica che avrebbe fatto davvero la differenza era la contessa, che continuava a popolare i suoi sogni proibiti. In cucina trovò Dorkò e Jò che parlavano a bassa voce e smisero non appena lo videro. “Cosa si dice?” domandò sorridendo. “Nulla che ti riguardi nano.” Tagliò corto Dorkò che non aveva mai sopportato la vista di quell’orrore della natura. Ficzkò alzò le spalle come se non gliene importasse e si servì di un grosso pezzo di carne bollita e minestra, contento di aver interrotto i discorsi delle due vecchie streghe. Mise in bocca la prima cucchiaiata di minestra risucchiando il contenuto con un rumore rivoltante, quando entrò Majorova. Non salutò; si limitò a guardare tutti con aria di sfida e il solito sorriso beffardo stampato in volto. Si prese una ciotola e la riempì di minestra. Dorkò fece un segno a Jò ed entrambe abbandonarono la cucina per cercare un luogo più consono e lontano da orecchie indiscrete per i loro discorsi. Majorova finì il suo piatto di minestra con voracità e ne prese un altro. “Quelle due non sembrano contente di avermi qui.” Disse ridendo, come se la cosa le facesse piacere. Ficzkò grugnì assentendo, mentre addentava un grosso pezzo di gallina bollita. “E tu? Tu che parte hai in tutto questo?” domandò. “Aiuto la contessa.” Rispose vago. “Potrei aiutarti a essere meno sgradevole sai?” Sgradevole? Pensò Ficzkò infastidito. “Ho usato un termine che ti ha ferito per caso?” domandò lei ridacchiando. “Non dirmi che non sapevi di esserlo.” Rincarò. “E cosa potreste fare per rendermi… meno… sgradevole?” chiese masticando a bocca aperta. “Non hai mai sentito parlare di me?” “No.” “Strano… tutti conoscono i miei poteri. Se farai tutto ciò che ti ordino, ti darò la possibilità di diventare un uomo normale. Alto e prestante… bello e affascinante.” Ficzkò posò il suo pezzo di carne e la guardò negli occhi, forse per capire se quelle promesse potevano davvero avere un fondamento di verità. Cadde in quegli occhi azzurri slavati cerchiati di scuro e cosparsi di capillari rossi. Con la bocca ancora aperta, si sentì quasi risucchiare da quegli occhi orrendi e senz’anima. Assentì mentre la bava gli colava dagli angoli della bocca e scendeva in sottili filamenti sugli abiti. “Bene. Allora domani cerca quante più nobildonne puoi e portale al castello. Sarai ricompensato e non ti pentirai di avermi dato ascolto.” Ficzkò si riebbe quando sentì il vino che gli si versava addosso dal bicchiere che teneva in mano. Bello e affascinante… alto e prestante… solo quelle parole udiva nella sua testa… Quando lo fosse stato davvero, avrebbe potuto mostrarsi alla contessa e farla finalmente sua… Finalmente… III Non era ancora sorto il sole che già Dorkò e Jò erano in cucina a divorare una sostanziosa colazione, pronte a perlustrare in ogni dove per trovare le giovani nobili che la contessa desiderava. Finirono di bere il vino caldo e trovarono Ficzkò già fuori ad aspettare. Gli dissero di recarsi da alcune famiglie, mentre loro avrebbero provato in altre zone. Arrivate al primo castello, si fecero annunciare. Attesero quasi un’ora prima che qualcuno si degnasse di raggiungerle. Un uomo dai modi sbrigativi e dal volto tirato si parò loro davanti. “Chi siete e cosa volete?” domandò brusco e infastidito dalla vista di quei due relitti. “Ci manda la contessa Bàthory.” L’uomo assentì pensieroso. “La contessa sente la vecchiaia avvicinarsi e la solitudine comincia a pesarle orribilmente. Desidera avere con sé delle giovani nobildonne da istruire e iniziare alla vita di corte. Come voi ben sapete, la contessa è molto colta e non desidera vedere sprecato il suo sapere.” Cominciò Dorkò. “Sappiamo che voi avete due giovani figliole e abbiamo pensato di domandarvi se siete interessato a mandarle dalla contessa.” Continuò Jò con tono solenne. L’uomo scosse la testa incredulo. Come poteva, una contessa come la Bàthory, mandare quei due ruderi, sporchi e puzzolenti a casa di un nobile con una tale proposta? “E manda voi a fare simili proposte?” Le due si guardarono infastidite, ma si trattennero dal controbattere. Dorkò armeggiò con la veste e ne estrasse una lettera sigillata con lo stemma dei Bàthory che porse al nobiluomo. Lui la prese con la punta delle dita come se fosse contaminata. Dorkò avreb- be voluto scuoiarlo lì sul posto, ma gli sorrise con garbo. L’uomo la trovò ancora più ributtante e con un gesto secco aprì la busta e ne estrasse una singola pergamena. La contessa aveva passato la notte intera a scrivere quelle lettere. Cinquanta in tutto. Illustrissimo signore, come vi avranno certamente spiegato le mie due serve, la mia età mi porta a sentire avvicinarsi la fine. Da molti anni ormai vivo in questo castello circondata dalla solitudine forzata, causata dalla mia precoce vedovanza. Gestire tutto per me è diventato un lavoro troppo pesante e le distrazioni non so più cosa siano. Come voi ben saprete, la mia elevata istruzione mi ha permesso di arrivare dove sono arrivata e di saper far fronte alla vita di vedova, senza troppo faticare. Desidero poter riversare questa mia istruzione su giovani nobildonne in modo che non vada persa e dimenticata con la mia dipartita. Non chiedo nulla in cambio se non la compagnia di queste giovani creature che, una volta uscite dal castello di Csejthe, saranno pronte per entrare nella vita di corte che spetta loro di diritto. Sono certa che non farete fatica a comprendere queste mie motivazioni e che per le vostre figliole non desiderate altro che il meglio. Contessa Erzsébet Bàthory Nàdasdy L’uomo lesse con attenzione la lettera e poi la ripiegò e la infilò nuovamente nella busta. Evidentemente la contessa, nonostante la sua istruzione, non aveva buon gusto nel scegliere la propria servitù, ma questo non poteva certo essere un buon motivo per non valutare con la dovuta attenzione quella proposta. “Ho due figliole. Rachel e Benedette. Rachel vive qui al castello, è la più giovane. Benedette vive in Francia con la famiglia del suo promesso sposo. Rachel ha undici anni e penso che sia pronta per ricevere un’istruzione così importante come quella che potrebbe impartirle la contessa.” Dorkò e Jò sorrisero. “Molto bene conte Farnell… passerà una carrozza nel tardo pomeriggio per prelevare la fanciulla e portarla al castello di Csejthe.” Il conte assentì senza ricambiare il sorriso. Non sapeva bene perché, ma quella decisione gli era parsa più difficoltosa del previsto e ancora non era convinto di aver fatto la cosa giusta. Dorkò e Jò, soddisfatte, proseguirono e si fermarono alle porte di un altro ca- stello, dove furono accolte dalla contessa Henrietta Koslovsky. “Cosa vi porta così lontano da Csejthe?” domandò non appena la informarono d’essere le serve della contessa Bàthory, per cui tra l’altro non aveva alcuna simpatia. L’aveva incontrata qualche volta durante gli avvenimenti mondani a Vienna e non vi aveva scambiato che poche parole di circostanza. Aveva sentito parecchie voci circolare al suo riguardo e non se ne stupiva. Quella donna le aveva sempre fatto venire i brividi. La contessa Koslovsky occupò una sedia con la sua mole imponente. Dorkò spiegò in breve e porse la lettera di Erzsébet. Henrietta la lesse con attenzione aggrottando di quando in quando le sopracciglia e poi la posò sulle gambe. “Le mie tre figlie posseggono già un’elevata istruzione e non vedo che cosa potrebbe insegnar loro di più la contessa Bàthory. Inoltre sono già promesse a uomini appartenenti a casate importanti che provvederanno a farle entrare nel mondo delle grandi corti di Vienna.” Disse alzandosi, intenzionata a congedare le due vecchie. “Permettetemi di dire, contessa Koslovsky, che la contessa Bàthory ha una cultura superiore rispetto a molti nobili e che potrebbe certamente infondere nelle vostre giovani figlie, una maggiore conoscenza.” La contessa si fermò in modo brusco e si voltò verso Dorkò con sguardo adirato. “Come osate? Venire nella mia dimora a insinuare che le mie figlie possano ricevere maggiore istruzione da una nobildonna, la cui reputazione non è delle migliori…” s’interruppe serrando le mascelle e fissando le due serve con astio. “Non era nostra intenzione offendere nessuno, contessa. Prendiamo atto della vostra decisione.” Intervenne Jò Ilona, cercando di porre rimedio. “Uscite dal mio castello e dite alla vostra padrona che mai e poi mai le mie figlie varcheranno la soglia del castello di Csejthe.” Concluse rabbiosa. Non avrebbe mandato le sue bambine presso una donna di cui aveva sentito le peggio cose. Si diceva persino che torturasse la sua servitù. Certo, anche lei aveva dovuto punire in modo severo alcune delle sue domestiche, ma mai si era spinta a cavarne una sola goccia di sangue. Dorkò e Jò Ilona abbandonarono il castello dei Koslovsky. Più tardi, durante la cena, la contessa Henrietta avrebbe informato il marito, che avrebbe approvato la scelta giusta e avveduta della moglie, di quella visita. Ancor meglio di lei, conosceva le dicerie sulla contessa e ancor meglio di lei ne conosceva la malata propensione al sesso… perché l’aveva provata. Con la memoria ritornò a Vienna, nel 1582. Un gran ballo, uno splendido banchetto, l’orchestra che suonava. Si era voltato e l’aveva vista. Splendida, in un abito cremisi, la gorgiera di perle bianche che si confondeva con il biancore della pelle. I capelli scuri con qualche riflesso di sole, raccolti sulla nuca e impreziositi da una retina di perle. Era in compagnia del marito Ferencz, ma pareva estranea a tutto ciò che la circondava. Sembrava camminare metri sopra gli altri. Si era voltata appena un attimo e i loro occhi si erano incontrati. Subito il suo corpo aveva reagito come sotto il lavoro di mani sapienti. Da quell’attimo non aveva fatto altro che guardarla e desiderarla. Sua moglie era rimasta al castello di Presburgo e stava dando alla luce la loro secondogenita. Non era riuscito a trovare un momento in tutta la sera per avvicinarla con qualche genere di scusa, ma verso la fine della serata, Ferencz si era assentato. Era sola accanto a una finestra. Guardava fuori, ma pareva che guardasse l’intero universo. Nevicava e già tetti e strade erano coperti dalla coltre bianca. “Vi annoiate?” le aveva chiesto schiarendosi la voce. Lei non si era voltata e non si era stupita, come se stesse aspettando il suo arrivo. Come se sapesse che non appena fosse rimasta da sola, qualche uomo si sarebbe avvicinato. “No. Aspetto mio marito.” Aveva risposto atona. “Non dovrebbe lasciar sola una donna così bella vostro marito. Se foste mia moglie non vi abbandonerei un solo istante.” A quel punto si era voltata. Sul suo viso un mezzo sorriso che sapeva di amarezza e non di gioia. I suoi occhi grandi e scuri lo avevano divorato e si era sentito in balia di sensazioni animalesche mai provate. Avrebbe voluto strapparle di dosso quel vestito splendido, far rotolare via le perle che le cingevano il collo e cingerlo lui, con le proprie mani. Cominciò a sudare e si vide nell’atto di toccarla, farla sua, con violenza… come una bestia. Il sorriso della contessa si era allargato, come se avesse percepito i suoi pensieri e lui si era sentito imbarazzato come un giovinetto. A quel punto lei si era guardata intorno, come a valutare quanto il là potesse spingersi; poi aveva allungato la sua mano bianchissima e sottile e l’aveva appoggiata tra le sue gambe, spingendo lievemente e sorridendo al sentire l’erezione in atto. “Cosa fate?” le aveva chiesto ansimando e chiudendo gli occhi. “Quello che volete.” Gli aveva risposto in un sussurro ammaliante. Le aveva preso la mano con violenza e l’aveva tirata lontano da occhi indiscreti. “E vostro marito?” le aveva chiesto. “Non tornerà tanto presto.” Aveva risposto lei. Aveva sentito delle tresche con Lazlo Bende e mai aveva creduto a una sola parola, ma ora doveva ricredersi. “Siete pensieroso.” Costatò Henrietta, vedendolo silenzioso e con lo sguardo perso nel vuoto. “No… faccende politiche… niente che io voglia addossare sulle vostre spalle.” Rispose un po’ infastidito per l’interruzione dei suoi ricordi. Henrietta si allontanò dalla stanza da pranzo, lasciandolo solo con la sua pipa e lui tornò a quella sera di tanti anni prima. Mai aveva provato tanto piacere. Mai con sua moglie; mai con le altre amanti. L’aveva portata in una stanza per gli ospiti, gettata sul letto; le aveva tolto di dosso quel pretenzioso abito e l’aveva presa. E lei lo voleva… eccome se lo voleva. Era bagnata e aperta e si muoveva contro di lui come se non ne avesse mai abbastanza. Aveva tentato di trattenersi il più a lungo possibile per far in modo di protrarre quel piacere mai provato e poi aveva raggiunto il culmine, serrando le mani sulle sue esili braccia e lasciandole evidenti ecchimosi. Da allora non aveva mai più avuto contatti con lei. Il suo istinto sessuale l’avrebbe voluto, ma le sensazioni che aveva provato andavano al di là del sesso e lo avevano in qualche modo spaventato. C’era qualcosa di inumano in quella donna. Qualcosa di demoniaco, lussurioso e pericoloso. La sua carne era impura e i suoi occhi erano posseduti dal demonio in persona. Aveva pregato ogni giorno per allontanare dai suoi pensieri quei ricordi e la colpa di aver dato seguito ai suoi istinti. Mai avrebbe voluto che le sua figlie venissero istruite da quella donna senza morale e senza principi. In seguito aveva sentito le voci su torture inflitte alla servitù, rapporti saffici, addirittura uccisioni. Erano solo voci… certo, ma inquietanti e certamente con un fondo di verità. Lui lo sapeva perché aveva guardato in quegli occhi e non aveva visto che perdizione. Dorkò e Jò erano di nuovo in attesa, in piedi accanto al portone d’entrata. Il barone Van Vussel arrivò in compagnia della giovane moglie, matrigna dei sei figli avuti da Van Vussel con la prima moglie, morta in seguito all’ultimo parto. La seconda moglie poteva essere sua figlia. Aveva due anni in meno della prima figlia di Van Vussel. Capelli biondi, viso pieno e gioviale, occhi nocciola grandi e luminosi. Assentirono entrambi alla spiegazione di Jò Ilona e lessero la lettera di Erzsébet. “Due delle mie figlie sono già promesse in spose e vivono presso le nuove famiglie, ma Gabrielle e Karin potrebbero trarre giovamento dalla permanenza presso la contessa Bàthory, che natu- ralmente ringraziamo per aver pensato alle nostre figlie. Non è vero Marie?” domandò alla giovane moglie che assentì arrossendo. Evidentemente non era ancora avvezza a essere interpellata dal nuovo marito per importanti decisioni. “Ebbene siamo d’accordo. Saranno pronte per quando passerà la carrozza.” Disse Van Vussel, la cui casata versava in pessime condizioni a causa di vari investimenti sbagliati e a cui non pareva vero di liberarsi di due bocche da sfamare. Ficzkò e Kardosca si spinsero fino a Novo-Miesto. La vecchia alcolizzata e il brutto nano non ispiravano di certo simpatia e fiducia, ma riuscirono lo stesso a racimolare sette giovani nobili nel giro della sola mattina. Nel primo pomeriggio giunsero al palazzo del barone Brauffen che aveva addirittura dodici figlie, tutte femmine e un solo maschio. Molte di loro erano già sposate, ma le quattro più giovani non erano ancora neppure promesse in spose. Li accolse la baronessa Brauffen. Alta e magra, con un prosperoso decolté. Rigida e dal viso duro, sedeva di fronte a loro con le mani in grembo e gli occhi chiarissimi e indagatori. “Ditemi dunque. Cosa vi porta fin qui da Csejthe?” Ficzkò utilizzò tutte le parole più ricercate che conosceva e porse una lettera alla baronessa che fece in fretta a prenderla per non dover avere alcun contatto con quell’essere rivoltante. Ficzkò fece un passo indietro e lasciò che la baronessa leggesse con tutta calma. Quando finì, gettò a terra la lettera con sdegno e serrando le mascelle, osservò i due servi. “Le mie figlie non hanno bisogno dell’istruzione che può dare la contessa Bàthory. Hanno già i migliori insegnanti.” Concluse alzandosi. Per lei la discussione era già terminata. “Permettetemi, baronessa Brauffen… fareste un’opera buona per una nobildonna che sente avvicinarsi la fine nella più totale solitudine.” Intervenne Kardoska con la sua voce cantilenante. La baronessa si voltò di scatto come una belva intenta a proteggere i suoi cuccioli. “Vi ripeto che le mie figlie non verranno a Csejthe. Non ritengo di dovere nulla alla contessa Bàthory e non è per me di alcun interesse la sua sorte. E ora lasciate la mia dimora e tornate da dove siete venuti.” Concluse facendo un cenno a due servitori perché accompagnassero fuori gli ospiti indesiderati. Ebbero più fortuna presso il barone Cziraky. Ascoltò con attenzione socchiudendo spesso gli occhi come se questo lo aiutasse a comprendere meglio le parole che ascoltava. Era un uomo possente, alto e robusto, con folti capelli rossi e una barba altrettanto folta e rossa. Solo qualche filo bianco indicava che non era più così giovane. “Povera contessa…” sussurrò. “Le mie quattro figlie sono ancora molto giovani, ma forse non così giovani da non essere in grado di cominciare ad apprendere le buone maniere che, di certo, la contessa è capace d’insegnare. Ero buon amico di Ferencz e ho sempre ammirato lo stoicismo di sua moglie. Certo non dev’essere stato facile per lei mandare avanti tutto da sola.” Guardò fuori dalla finestra tenendo le mani dietro la schiena. “Quando passerete a prenderle?” domandò sospirando. In fondo gli dispiaceva pensare di non vedere più le sue belle figlie in giro per il palazzo, ma per loro desiderava il meglio e purtroppo i bei tempi erano passati per la sua casata. Lo si percepiva dalla decadenza del palazzo, dagli abiti raffazzonati e dal suo sguardo rassegnato e deluso. Quando venne la sera, le carrozze arrivarono al castello di Csejthe cariche di giovani nobildonne. Erzsébet osservò l’andirivieni dalla finestra della stanza degli ospiti e sorrise tra sé. Nuovo sangue… IV Non stava più nella pelle. Ascoltò il resoconto dettagliato di Kardoska e Ficzkò e poi quello di Dorkò e Jò Ilona con gli occhi chiusi, le mani raccolte in grembo e assentendo ogni tanto. Qualche dettaglio la fece arrabbiare, qualcun altro sorridere, ma ciò che davvero voleva, era solo che concludessero e la lasciassero libera di recarsi nei sotterranei, dove due delle giovani erano state rinchiuse nella cella. Le altre erano state portate a Podoliè, nelle celle del palazzo di sua proprietà. “Se avete concluso, io gradirei vederle.” Disse a un certo punto, un po’ infastidita dal logorroico parlare di Kardoska che si zittì subito. Tutti e quattro si allontanarono. Dorkò e Jò raggiunsero i sotterranei dove già li attendeva Majorova, seduta per terra come una mendicante, con gli occhi liquidi e perennemente arrossati. Fissava le due ragazze come fosse stata un’anaconda in attesa che le tenere prede mettessero il musetto fuori dalla loro tana. Entrambe piangevano a dirotto. A differenza delle serve, non si aspettavano di ricevere un tale trattamento e non si capacitavano di essere state rinchiuse senza alcun motivo. La più giovane ripeteva senza sosta la parola “mamma”. Erzsébet si appoggiò alla parete come fosse stanca di stare in piedi e cercasse un sostegno per riposare. Chiuse gli occhi e inspirò con profondità. Sembrava che stesse odorando un raro profumo. “Questa è una delle quattro figlie di Cziraky.” La informò Dorkò indicando la più grande. Non era una bella giovane, anzi… Aveva forme grosse e sgraziate, un viso dalla pelle butterata e due grandi occhi cadenti che le davano un’aria poco sveglia. La bocca era larga e il naso schiacciato. A Erzsébet fece venire in mente un grosso maiale anche per come atteggiava le labbra. “Non la voglio.” Disse quasi disgustata, ma Majorova alzò una mano per intervenire. “Tornerà utile nonostante la sua bruttezza. Non siete obbligata a toccarla, guardarla o torturarla. Potete ucciderla in modo semplice e pulito.” Erzsébet soppesò le parole della strega e poi assentì. Olga Cziraky fu la prima a essere incatenata. Senza nemmeno guardarla, Erzsébet ordinò a Dorkò di tagliarle la gola e così fu. Olga non conobbe il dolore delle torture né il delirio della pazzia. Mentre moriva si domandava “perché” e sognava di essere al posto della ragazza ancora rinchiusa nella cella… se avesse saputo che cosa aspettava quella giovane, non avrebbe mai fatto un sogno così sciocco. Senza saperlo, lei stava facendo la fine che tutte le altre le avrebbero invidiato. “Questa è Gabrielle Van Vussel.” Comunicò Jò Ilona, prendendo per i capelli la ragazzina. Questa non doveva avere più di dodici anni. Era carina pur non avendo nulla di speciale. Capelli fini e lisci che avevano perso ogni ricordo di acconciatura, occhi nocciola un po’ ravvicinati, una pelle rosea. Nonostante la giovane età, era già sviluppata e il seno considerevole era spremuto sotto il corsetto. Gabrielle Van Vussel fu spogliata e presa a ceffoni da Dorkò. Aveva sempre provato un odio feroce per tutte quelle bambine vestite da bambole e con lo sguardo innocente. Strattonata con violenza, fu incatenata al posto di Olga, il cui corpo era stato gettato senza troppe cerimonie accanto alla porta di un’altra cella. Ciò che Erzsébet s’inventò per lei, superò ogni immaginazione malata delle serve e della strega. Non prese alcuno strumento che somigliasse a un ago o a un uncino. Prese solo un semplice coltellaccio da cucina. Dorkò, Jò e Majorova parevano quasi annoiarsi per quella scena che sembrava il replay della fine fatta da Olga: un bel taglio alla gola e tutto finito. Ma Erzsébet aveva ben altro in mente. Si posizionò dietro la ragazza, artigliò i capelli e tese la pelle del collo. Con estrema precisione, incise la cute da una spalla all’altra, provocando le urla di dolore della giovane. Con le dita aprì la ferita quel tanto che bastava perché la punta del coltello s’insinuasse tra la carne e la pelle e con veloci movimenti verticali e circolari, scollo la pelle della schiena. Era impressionante vedere la lunga lama che si muoveva veloce sotto la pelle che si tendeva con elasticità. Incise la schiena lateralmente e poi tirò con entrambe le mani. La pelle si staccò e rimase a penzoloni sulle natiche della giovane che non faceva che urlare a squarciagola e piangere tutte le lacrime di cui era capace. Erzsébet rimirò il suo lavoro soddisfatta e si accinse a praticare un’incisione all’attaccatura delle braccia. Con lo stesso meticoloso lavoro, scollò la pelle e poi tirò. La cute venne via come un guanto e si fermò solo una volta arrivata alle dita. Si allontanò di qualche passo e guardò quella giovane che non gridava più. Ansimava e aveva lo sguardo fisso per terra come se stesse per morire. Erzsébet fu presa dalla rabbia, a grandi passi si avventò su di lei e con un abile movimento tagliò via il seno destro. La giovane sussultò appena un poco prima di svenire. Erzsébet era furente. “Sono deboli! Non sopportano niente! Come posso continuare quando svengono in continuazione?” domandò inviperita, guardando Majorova. Sempre seduta a terra e con le braccia appoggiate mollemente alle ginocchia, ricambiò lo sguardo adirato della contessa. Non provava alcun timore davanti a quella donna alla continua ricerca di una perfezione divina. “Siete certa che il loro sangue possa aiutarmi più di quello delle forti e resistenti membra delle contadine?” “Lo vedrete voi stessa tra non più di qualche mese. Mi ringrazierete quando vi guarderete allo specchio e con stupore vedrete un corpo più giovane di dieci anni.” Rispose con sicurezza e una punta d’astio. “Svegliala!” Strillò Erzsébet divenendo rossa in viso e mettendo in mostra le vene pulsanti sulla fronte ampia. Dorkò non perse un attimo e subito fu ai piedi della ragazza con il suo pezzo di carta infuocata. Iniziò a sudare freddo quando vide che la ragazza non si riprendeva e il primo pezzo di carta si era ormai consumato bruciandole la punta delle dita. Erzsébet, che aspettava ferma e con gli occhi fissi sulla giovane come a voler percepire il più piccolo movimento, corse verso di lei e la spintonò via facendola cadere a terra. Diede due poderosi schiaffi al volto pallido di Gabrielle. Il viso si sollevò e si riabbassò privo di una volontà muscolare o scheletrica. “E’ morta?” domandò a se stessa in un sussurro. Da morta non le sarebbe servita a nulla. Il sangue doveva fuoriuscire da un corpo in cui ancora si dibatteva la fiamma della vita. Una volta morta, tutta la ricchezza, la magia, la potenza, si sarebbe dispersa come il suo ultimo fiato. “Non dovete esagerare contessa… forse avete calcato troppo la mano con questa giovane.” Consigliò Majorova ridacchiando. Erzsébet scaraventò il coltello verso il camino facendo scansare frettolosamente Dorkò che vi stava di fianco. Non fu costretta a dire nulla, che le due serve liberarono braccia e gambe della giovane e la gettarono di lato, accanto al corpo di Olga. La pelle le svolazzò attorno come un macabro grembiule. Ora c’era da chiedersi se il sangue di una sola ragazza sarebbe bastato per quella sera. La contessa si voltò verso Majorova aspettando di sapere che cosa ne pensasse. “Una sola può bastare per questa volta, ma domani sarà indispensabile averne almeno tre.” Concluse alzandosi a fatica. Per quella sera, Erzsébet fece il suo bagno nel sangue di una sola ragazza. Lo fece diluire con un po’ di acqua tiepida e vi aggiunse dell’olio essenziale acquistato a Vienna. L’olezzo che scaturiva dalla vasca era a dir poco infernale, ma lei pareva non rendersene conto e anzi, sembrava apprezzarlo più del profumo di un fiore appena sbocciato. Come sempre, prima di scivolare sotto le lenzuola, si concesse del tempo davanti al suo specchio e bevve in un solo sorso il sangue concentrato di Vanka, mischiato a dell’alcol. In quel momento avrebbe tanto desiderato avere un corpo su cui giacere, ma non le venne in mente nessuno che potesse stuzzicare e appagare i suoi appetiti. Con la mente ritornò ai tempi in cui si era lasciata andare alle smanie di Lazlo Bende, da non confondere con il Lazlo stalliere che ancora oggi lavorava per lei. Era da poco arrivata al castello di Sarvar per apprendere gli usi e i costumi della famiglia Nàdasdy. Orsolya non le dava tregua. Le stava sempre addosso, controllando tutto ciò che faceva, diceva, udiva. Se avesse potuto, avrebbe controllato anche i suoi pensieri. Era rigida, severa e bigotta. Spesso si complimentava con lei per la bellezza fuori dal comune che possedeva, ma le ricordava anche che una donna del suo rango non doveva in alcun modo puntare tutto sull’esteriorità. Doveva anzi darsi ancora più da fare per dimostrare di possedere altre e più importanti doti. Con pazienza e meticolosità, le aveva insegnato le lingue e tutto ciò che c’era da sapere sulla gestione delle proprietà. Ferencz era lontano e stava terminando i suoi studi. Di rado andava a trovare i genitori a causa dei molteplici impegni e ogni qualvolta si degnava appena di salutarla pigramente. Seppe in seguito che rimaneva talmente abbagliato dalla sua bellezza, da quel fascino misterioso, che non riusciva a proferir verbo dinnanzi a lei e sognava solo il momento in cui l’avrebbe avuta tutta per sé. In ogni caso, in quel periodo della sua vita si era sentita soffocata, sola e triste. Non poteva fare nulla senza avere la futura suocera alle calcagna e questo la innervosiva da morire. Non poteva nemmeno sfogare quella rabbia perché non riusciva ad avere un momento tutto per lei. Facevano eccezione i momenti in cui Lazlo Bende veniva a far visita ai conti Nàdasdy. Lei aveva quattordici anni e se ne stava silenziosa in disparte. Ascoltava i loro discorsi senza mai permettersi di parteciparvi in alcun modo. Non un segno, non una parola, né un sorriso o un saluto. Avrebbero potuto scambiarla per una statua perché si faticava a comprendere se fosse viva, tanto stava immobile. Lazlo la guardava spesso cercando di non farsi notare. Non la guardava con curiosità o con affetto… la guardava con il desiderio stampato in volto. I genitori di Ferencz parevano non accorgersene o comunque non darci peso, ma lei lo aveva notato e si sentiva avvampare quando sentiva la carrozza di Bende arrivare e la sua voce profonda salutare Orsolya che lo attendeva sulla porta. Non ricordava per quale situazione fortuita fossero riusciti a ritrovarsi da soli, ma successe. Lui le porgeva domande di circostanza e lei annuiva o scuoteva leggermente la testa in risposta. Aspettava un suo cenno, ma lui sembrava improvvisamente a disagio. Tutta la sfrontatezza con cui l’aveva osservata fino a quel momento, era scomparsa. Sembrava quasi intimorito e questo la divertiva. Si stava ormai annoiando, quando lui si era alzato e le si era parato davanti con sicurezza ritrovata. Le aveva preso la mano e l’aveva baciata con veemenza. Si era sentita avvampare e aveva percepito un calore travolgente nel basso ventre. Un desiderio così forte che era rimasto sopito fino allora. Non si era ritratta e lui era rimasto quasi stupito. Forse si era aspettato una sua reazione pudica. Guardandosi intorno come per accertarsi che non sarebbero stati colti sul fatto, l’aveva fatta alzare e l’aveva portata in una stanza di un’ala del ca- stello poco frequentata anche dalla servitù. “Vi voglio.” Le aveva sussurrato all’orecchio, mentre le sollevava le vesti e toglieva le stoffe che si frapponevano tra loro. L’aveva sollevata con facilità contro il muro. Erzsébet aveva chiuso gli occhi quando aveva sentito il sesso di lui appoggiarsi tra le sue gambe e spingere per farsi strada dentro di lei. Non era stato agevole. Forse se fossero stati sdraiati su di un letto, sarebbe stato più semplice, ma quel modo di desiderarla le piaceva. Quel modo smanioso e che non ammetteva più attese o luoghi ideali. Tenendola sollevata con un braccio forte, aveva fatto scivolare l’altra mano davanti a sé. Vi aveva sputato sopra e l’aveva fatta passare sotto di lei. Insieme a quel organo duro, aveva sentito le dita che si muovevano, aprivano, entravano e poi qualcosa di grosso, lacerante, violento che entrava dentro di lei. Non sapeva come se lo era aspettato, ma di certo non così grosso e invadente. Lo sentiva fin nelle viscere. Lui aveva ansimato guardandola fissa in viso. La sua verginità si era riversata sul pavimento, macchiando un poco l’abito e lui aveva spinto con tale forza da costringerla quasi a gridare. Da quel momento, erano state molte le volte in cui erano riusciti a ritagliarsi un momento di solitudine per dare sfogo a quegli istinti insani e impuri. Nessuno aveva mai sospettato nulla, tranne Orsolya che non sembrava essere più così contenta e ospitale quando Bende si recava a Sarvar. Ferencz non si era mai accorto di nulla. La prima notte era talmente preso dal piacere che non aveva prestato alcuna attenzione alla facilità con cui era entrato dentro di lei; le macchie ematiche erano state semplici da produrre. Erzsébet si rigirò nel letto, incapace di prendere sonno. Era preoccupata anche per la scarsità di entrate che ormai minacciavano di far collassare le sue ricchezze. Csejthe era molto cambiata da qualche anno e molti contadini erano ora liberi e non più assoggettati al suo volere e alle sue tassazioni. Molti erano addirittura quelli che osavano lamentarsi di lei e delle sue presunte colpe. Aveva già chiesto prestiti a parenti e amici, ma infine era stata costretta a vendere alcune delle sue proprietà per far fronte alle spese di gestione delle altre. Era troppo nervosa per dormire. Niente andava come avrebbe desiderato e qualcosa le diceva che i nemici erano ormai troppi. Grazie al cielo poteva ancora contare su persone amiche e influenti come suo cugino Thurzò. Ora che era diventato palatino dell’alta Ungheria, poteva contare su di lui più di prima. L’unica cosa che ancora lo minacciava era il fatto che fosse protestante e per questo non riusciva a guadagnarsi la piena fiducia del re. La preoccupava re Mattia, cattolico, con le sue idee troppo liberali e così scarsamente dedito all’occulto. La preoccupava Emerich Megyery che ora stava nello stesso castello di Sarvar con suo figlio Pàl e chissà quali insegnamenti gli stava impartendo. La preoccupava anche Ponikenus che, per quanto debole e vigliacco, avrebbe potuto parlare con le persone sbagliate. Non era riuscita a eliminarlo nonostante avesse creduto che sarebbe stato semplice. Si rigirò di nuovo e guardò quella grande stanza quasi con repulsione, come se la considerasse quasi una prigione per la sua anima. Quella stanza che aveva conosciuto tutto di lei e che aveva fatto da sfondo a ore di lussuria, sembrava ora così spoglia, triste e buia da somigliare di più a una cripta. V Megyery si era alzato da poco e dopo una colazione sbrigativa, si stava preparando per una delle lezioni mattutine di Pàl Nàdasdy. Era soddisfatto di quel giovane che, grazie al cielo, era cresciuto distante da quella sua madre priva di scrupoli e posseduta dagli spiriti dell’inferno. Si era fatto una promessa quando aveva guardato negli occhi quella ragazzina di cui non ricordava il nome e che aveva aiutato a fuggire dal castello di Csejthe, consigliandole di non rivelare mai nulla a nessuno se ci teneva a rimanere in vita. Non era stata una minaccia la sua, ma un avvertimento. Era preoccupato che, come una sciocca, si confidasse con qualcuno che poi avrebbe spifferato tutto riportandola tra le grinfie spregevoli della contessa. Doveva sparire, le aveva detto. Sparire come se non fosse mai esistita. Il vociferare sulle presunte azioni della contessa si era fatto via, via sempre più intenso e percepiva che non avrebbe dovuto ancora attendere molto per tener fede a quella promessa. Tempo prima, un giovane contadino si era presentato alle porte del castello di Sarvar con l’aria sconvolta. Voleva parlare con Pàl. Voleva chiedergli di intercedere a favore della sua amata, ma Pàl non doveva sapere. Pàl doveva rimanere estraneo agli atti di sua madre e lui si era preso la responsabilità di ascoltare le parole di quel giovane che, tra le lacrime, gli aveva raccontato della sua amata Franziska. Usava andare spesso al castello di Csejthe per portare frutta fresca e miele, ma un giorno non era più tornata. In paese tutti erano convinti che la contessa l’avesse divorata. Lui non aveva dato troppo credito a quelle voci. Ne parlavano come di una belva, ma lui non voleva credere che fosse la verità. Aveva aspettato giorni, settimane e poi si era deciso e si era recato al castello. Ad accoglierlo c’erano state due vecchie dall’aspetto malconcio e con lo sguardo crudele. Gli avevano detto di stare alla larga dal castello e non gli avevano dato alcuna spiegazione per la scomparsa di Franziska. Aveva pensato così, di rivolgersi a Pàl. Megyery sapeva esattamente che cos’era successo a quella povera ragazza, ma non ebbe il coraggio di dirlo al giovane. Gli disse però che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per far sì che la contessa pagasse per tutte le sue colpe. Il giovane non era sembrato soddisfatto della sua risposta, ma se n’era comunque andato e non aveva più fatto sapere nulla di sé. Qualche giorno dopo, Megyery si era recato a Csejthe di nascosto e aveva insistito per parlare con Ponikenus. In principio non lo aveva riconosciuto; erano passati tanti anni e la vecchiaia lo aveva reso diverso se non quasi irriconoscibile, ma quando aveva capito chi fosse, aveva tentato in tutti i modi di allontanarlo. La paura gli aveva fatto sbiancare il volto, ma Megyery non aveva alcuna intenzione di lasciar perdere. “Sapete qualcosa e non volete parlare!” lo aveva aggredito. “Come potete chiudere gli occhi davanti allo sterminio attuato da quella donna? Come potete non sentirvi responsabile di ciò che ha fatto e che voi avete taciuto?” “Io non so niente!” aveva risposto lui, allontanandosi in tutta fretta. “Voi sapete eccome! Parlate o sarò costretto a trovare un modo per farvi pentire del vostro silenzio!” aveva insistito Megyery, minaccioso. Ponikenus si era seduto su di una rupe e si era preso la testa tra le mani. Aveva cominciato a singhiozzare come un infante e poi aveva sollevato il viso verso di lui. Amarezza, paura, angoscia erano dipinti in quegli occhi stanchi. “Berthoni… Andràs Berthoni sapeva… ha lasciato una lettera nella quale mi avvertiva dei massacri che avvenivano nel castello della Bàthory.” Prese fiato e si guardò attorno. “La lessi e la misi via senza prestare troppa attenzione a quello che c’era scritto. Pensavo fosse il delirio di un pazzo. La contessa era così gentile con me… e le sue spiegazioni, così credibili. Succedeva che dovessi dare le esequie a qualche giovinetta. Lei non era mai presente, ma non mancava mai di farmi avere una sua missiva nella quale mi spiegava i motivi della dipartita. Spesso erano banali incidenti, altre volte epidemie… non ebbi mai motivo di dubitare.” Si era fermato nuovamente. Il mento gli tremava e gli occhi gli si erano riempiti di lacrime. “Fino a quando… una cassa si aprì per sbaglio. Dentro c’erano i resti di una fanciulla giovanissima… non più di quindici anni. Era… devastata… irriconoscibile. Cominciai a sospettare, ma non avevo prove per parlare… e poi chi avrebbe creduto a me e non alla contessa? Avevo paura e più ancora ne ebbi quando arrivò quella strega di Darvulia… tentarono persino di avvelenarmi, sapete?” Megyery aveva sospirato e scosso la testa senza intervenire. Voleva che Ponikenus parlasse a ruota libera per non rischiare di fargli dimenticare qualcosa o intimorirlo ancora di più. “Ilona… voi forse non l’avete mai veduta… era così bella.” Aveva sospirato asciugandosi le lacrime con la manica. “Bella e brava. Cantava i salmi e allietava le feste al castello. Non so perché se la prese anche con lei, ma una notte mi chiesero di seppellirla. Fu allora che decisi di riprendere la lettera di Berthoni e leggerla a fondo. Parlava della cripta dov’è custodito il corpo di Christofer Orszàgh; diceva che in quella cripta, riposavano le vittime della furia della Bàthory. Non mi è mai piaciuto disturbare i morti, ma quella notte decisi che dovevo sapere tutto. Andai nella cripta e trovai le bare di nove giovani. I loro corpi… oh, se avesse visto quei corpi!” Aveva sussurrato piangendo. “Erano distrutti, smembrati, orribilmente mutilati…” “Dobbiamo andare dal palatino e se non basta, dal re in persona! Dobbiamo porre fine a questi massacri una volta per tutte!” ringhiò Megyery. “Per l’amor di Dio… non ci crederanno mai! György Thurzò è parente della contessa. Ci farà rinchiudere! Quanto al re… bè… credo che già sappia qualcosa, ma forse non ha interesse a intervenire.” “Vi sbagliate. Forse non ne ha le prove e per questo non può intervenire, ma io e voi queste prove le abbiamo e non potrà non ascoltarci e non dare un seguito alla nostra denuncia. Tutta Csejthe, a quanto ne so, vuole giustizia e non sarà difficile avere testimonianze a nostro favore.” “Ci metteranno a tacere… vedrete…” Aveva sospirato Ponikenus. “Siate uomo una volta tanto e fate quel che è giusto!” sibilò Megyery duro. Ponikenus era sembrato assaporare quelle parole. Il suo sguardo era puntato su qualcosa in fondo alla strada. “Avete ragione. Non posso più chiudere gli occhi. Avrei dovuto tentare di andare a Bicse tanti anni fa… ci provai sapete? Ma mi trovarono e mi riportarono indietro… tentarono persino di uccidermi con dei dolcetti avvelenati… gli diedi a un maiale e lui morì…” Si era alzato e aveva fatto qualche passo verso la strada prima di voltarsi di nuovo verso Megyery. “Venite. Vi farò leggere la lettera di Berthoni e vedere la cripta di cui parla. Avete ragione… non posso più tenere gli occhi chiusi e quelle giovani meritano giustizia. Emerich osservò l’orizzonte e il sole infuocato che correva a nascondersi dietro le alture. Era solo questione i giorni e poi anche Erzsébet avrebbe conosciuto il suo tramonto. L’ultimo tramonto. VI Le giovani nobili erano già finite. Due settimane e non aveva più una sola giovinetta da sacrificare. Alcune erano state letteralmente macellate e le loro carni avevano allietato un banchetto pochi giorni prima. tutti gli ospiti avevano apprezzato la tenera carne di “cervo” senza porsi troppe domande sulla sua provenienza. La carne di tre ragazze aveva nutrito una quindicina di persone. Il loro sangue aveva ripulito la sua pelle e temprato il suo stomaco. Altre erano state bruciate nel camino, riempiendo i sotterranei di un odore acre. Altre ancora erano state seppellite a Podoliè, lontano da quel verme di Ponikenus. Quel mattino era più rabbiosa del solito. Sapere di non avere più scorte la faceva infuriare. Ancor prima di concedersi la colazione, aveva chiamato i suoi fedeli servitori e aveva dato loro l’incarico di trovare altre giovani per quella sera stessa. Dopo la brutta esperienza con la seconda giovane, aveva fatto in modo di non farle morire troppo in fretta e, con alcune, si era davvero divertita. Ogni volta che Dorkò dava loro il colpo finale con un veloce taglio dei polsi, percepiva l’essenza stessa della vita che le riempiva le narici, gli occhi, la bocca… inalava i loro ultimi respiri, inebriata dall’odore del sangue e dal potere che le dava il poter disporre a suo piacimento della loro vita. Non le restava che aspettare. Avrebbe passato la giornata a osservare il lavoro delle domestiche e magari avrebbe avuto fortuna e ne avrebbe colta qualcuna in flagrante. Dorkò, Jò Ilona, Ficzkò e Kardoska si ritrovarono fuori dalle mura che circondavano il castello. Nessuno osava fiatare, ma sui loro volti si poteva leggere apprensione e preoccupazione. “Diamoci da fare o non troveremo nessuna giovane per questa sera.” Disse Ficzkò dopo qualche minuto di silenzio. Si era divertito parecchio nelle ultime due settimane. Aveva avuto la rossa di quindici anni, la biondina di dieci, l’altra biondina di dodici e parecchie altre di cui non ricordava granché. Tutte morte da pochi istanti, ancora tiepide e morbide e non troppo devastate dalla ferocia della contessa. A lui piaceva che lei lo guardasse mentre se le fotteva. Gli piaceva che lei vedesse con quale foga, con quale passione e con quale violenza si muoveva dentro e fuori il loro corpo. E gli piaceva che lei vedesse quanto era dotato. Non si preoccupava affatto della presenza fastidiosa di Dorkò, Jò e dell’altra strega. Vedeva solo lei. La guardava e pensava di essere sopra di lei. Di farla godere. “No… dobbiamo pensare anche a un piano da mettere in atto se non troveremo abbastanza ragazze nobili. Lo avete visto voi stessi… non è così semplice trovare giovani nobili le cui famiglie siano disposte a mandarle dalla contes- sa. Un tempo sarebbe stato tutto più semplice, ma ora, con le voci che si sentono in giro, molte famiglie non vogliono che le loro figlie vengano a Csejthe e c’è da scommettere che la Brauffen abbia già messo sul chi va là molte delle sue conoscenze.” Rispose Dorkò. “Già… ma cosa faremo se non le troviamo?” chiese Kardoska che sembrava già ubriaca alle prime luci dell’alba. “Kata ha tenuto tutti gli abiti delle prime venticinque. Le ho detto di non bruciarli perché avrebbero potuto servirci. Per la prima metà della giornata, cercheremo giovani nobili, ma se non riusciremo a trovarne abbastanza, ci daremo da fare e troveremo delle contadine. Non sarà difficile farle passare per nobili quando le avremo ripulite e avranno indosso quegli abiti.” Spiegò Dorkò. Ficzkò ridacchiò voltandosi. “Cos’hai da ridere stupido nano deforme?” l’aggredì Jò Ilona che fino ad allora era stata piuttosto silenziosa. Ficzkò si girò verso di lei e le regalò un’occhiata fulminante, carica di odio. “Vi conviene trattarmi bene vecchia o vado a spifferare tutto alla contessa.” La minacciò. “Piccolo schifoso, maledetto!” scattò in avanti Jò, prendendolo per il bavero e strattonandolo. “Prima che tu abbia solo fatto in tempo a entrare al castello, ti farò squartare da Lazlo dicendogli che hai minacciato di far del male alla contessa.” Minacciò Dorkò, prendendo le difese di Jò. Kardosca sorrideva come un’ebete senza prendere parte alla discussione. “Non perdiamo altro tempo. Andiamo a cercare le nobili. Quando si sarà fatto mezzogiorno, cercheremo le contadine.” Concluse Dorkò. Si divisero come due settimane prima e ricominciarono a bussare alle porte dei castelli, porgendo la lettera della contessa. Come aveva immaginato Dorkò, l’impresa risultò difficile se non impossibile. Molte famiglie non vollero nemmeno leggere la lettera che finì prontamente tra le lingue di fuoco dei camini. Altre non li fecero neppure en- trare e anzi, li fecero allontanare dalle guardie. I pochi che li accolsero e che lessero la lettera, declinarono gentilmente l’offerta della contessa, senza dimenticare di pregarli di porgerle i loro cordiali saluti. A mezzogiorno, dopo ore di cammino sotto il sole caldo e decine di nobili famiglie visitate, Dorkò sospirò e si fermò ai margini del bosco. “Questa era l’ultima famiglia. Non ci resta che cercare delle contadine. La contessa ha esagerato. Troppe in sole due settimane. Non ne troveremo altre per molto tempo ancora e se le voci continuano a essere così insistenti… non ne troveremo più nessuna.” “Anche con i contadini sarà difficile.” Rispose Jò. “Sì, ma abbiamo la fame dalla nostra. Se anche avessero sentito qualche pettegolezzo, non si lascerebbero fermare. Sono poveri e hanno fame. Hanno bisogno di lavorare e la contessa offre buone possibilità in quel senso. E poi ci sono molte famiglie nuove che vengono da lontano. Magari non sono al corrente di nulla.” Dorkò e Jò cominciarono a battere le zone in aperta campagna, dove qualche piccolo centro abitato accoglieva poche famiglie minacciate dalla più assoluta povertà. Ficzkò e Kardosca si erano separati per avere maggiori possibilità di riuscita, ma anche per loro, la mattinata risultò infruttuosa. Ficzkò rischiò addirittura di essere malmenato dalle guardie del barone Machaufen e fu costretto a fuggire a gambe levate. Quando si ritrovarono nel luogo in cui si erano dati appuntamento, furono costretti ad ammettere che Dorkò aveva avuto ragione. Sarebbe stato meglio per loro trovare almeno delle contadine da far passare per nobili, perché se fossero ritornati a mani vuote, la contessa non sarebbe stata clemente. Vagarono di borgata in borgata, di paese in paese, di frazione in frazione, fino a che non riuscirono a racimolare una decina di giovani ragazze dell’età giusta e dall’aspetto delicato. Ne avrebbero trovate di più se si fossero accontentati di giovanette piene, con i calli alle mani, ma non potevano rischiare di far capire alla contessa che quelle erano palesemente delle contadine. Le famiglie avevano ascoltato le richieste e avevano accolto con entusiasmo la proposta che la contessa faceva per mezzo dei suoi servitori. Era una manna dal cielo avere una figliola a servizio da una nobile dama. Era quasi l’ora del tramonto, quando i quattro si incontrarono alle porte di Csejthe con il loro bottino. In tutto quindici ragazze, poco più che bambine erano radunate dietro di loro. Jò raccomandò ai tre di rimanere dove si trovavano fino a quando non fosse tornata con Kata. In breve tempo la videro fare capolino in compagnia della vecchia serva e far loro cenno di raggiungerle velocemente. Cercando di passare sotto le mura per non farsi vedere, raggiunsero i sotterranei, dove Kata aveva disposto gli abiti delle nobili vittime. Le giovani ragazze presero tutto come un gioco. Erano felici; glielo si leggeva in faccia. Avevano trovato un buon lavoro e ora si apprestavano a fare un bel bagno profumato e indossare abiti che non avevano mai visto nemmeno nei loro sogni più sontuosi. Si fecero pettinare e acconciare i lunghi capelli, fino a poco prima legati in semplici trecce. Oli essenziali furono massaggiati sulla pelle del viso per renderla più luminosa e liscia e infine indossarono quei vestiti da fiaba. Ridacchiando felici, si miravano l’un l’altra, sottolineando quale enorme cambiamento era stato apportato alle loro figure. Si sentivano tutte delle principesse pronte per il loro ballo da sogno e non vedevano l’ora di conoscere quella nobile contessa, così buona e caritatevole da aver dato loro una tale, inaspettata accoglienza. Non tardò a esaudirsi quel loro stolto desiderio. La contessa scese nei sotterranei un secondo dopo che Dorkò si era liberata dei vecchi abiti maleodoranti delle contadine e aveva vuotato l’acqua usata per lavarle. Quando vide la contessa fermarsi alla base delle scale, de- glutì e sbiancò, temendo che potesse aver scoperto l’inganno. Erzsébet era scesa perché insospettita dai rumori che provenivano dai sotterranei e quando vide il nutrito gruppo di fanciulle, un gran sorriso le illuminò il volto. Molte di loro lo scambiarono per una dimostrazione di bontà, ma Dorkò conosceva quel atteggiarsi delle labbra, che tutto era tranne quel che poteva sembrare e lo riconobbe per ciò che era: desiderio di ucciderle tutte senza aspettare un solo altro istante. Erzsébet fece un cenno a Jò perché le rinchiudesse tutte tranne una su cui aveva lo sguardo puntato. La giovane in questione arrossì, sentendosi come sotto esame. Forse aveva qualcosa che non andava? Si domandò; poi notò la cella aperta e le altre ragazze che vi venivano spinte dentro a forza di spintoni. Cosa stava accadendo? Come mai quel cambiamento improvviso? Dorkò continuava a sudare abbondantemente. Temeva che la contessa avrebbe chiesto di chi era figlia quella giova- ne; a quale casata appartenesse. Non temeva di non saper rispondere, ma di essere smentita dalla ragazza. Forse Erzsébet non le avrebbe creduto, ma era un rischio che non poteva correre. “Vi consiglio di tapparle la bocca. Ha la lingua troppo lunga.” Suggerì, sussurrandole all’orecchio. Erzsébet assentì. Non amava le chiacchierone e, nel suo pensiero, una lingua troppo lunga andava sempre punita prima ancora di fare danni irreparabili. Jò legò la ragazza che iniziava ad avere un’espressione spaventata e incredula. “Che fate?” domandò ansimando e dibattendosi. “Cosa vi avevo detto?” sottolineò Dorkò, allargando le braccia. Erzsébet prese un grosso uncino e si mise davanti alla ragazza che aveva indossato il suo abito da sogno per appena dieci minuti. Ora, nuda e infreddolita, si guardava attorno con terrore. “Tenetele la bocca aperta. Una lingua lunga va punita.” Ordinò. Dorkò e Jò fecero com’era stato ordinato e con gesti sapienti, Erzsébet uncinò la lingua e la tirò fuori quel tanto che bastava per mozzarla con un grosso coltello. Fiotti abbondanti di sangue riempirono la bocca della ragazza e imbrattarono le maniche dell’abito di Erzsébet. Incapace di parlare e persino di produrre suoni che somigliassero a delle grida, la giovane si lasciò andare al pianto. La lingua venne gettata tra le fiamme e la giovane ne seguì la traiettoria col viso distorto e rosso. La contessa si allontanò di qualche passo come se volesse ammirare una rara opera d’arte da un punto di vista migliore. Aggrottò le sopraciglia quando notò alcune cicatrici sulla gamba destra. Cicatrici che non avrebbero dovuto esserci. Non sul corpo di una nobile. Con cipiglio si voltò verso Dorkò. Una muta domanda sul suo viso e il terrore su quello della vecchia. “Cosa sono quelle?” domandò indicando la gamba. Dorkò fece finta d’essere stupita quando vide le cicatrici. “Non saprei… forse una caduta…” “Mi stai mentendo?” domandò bruscamente, guardando i suoi servi, uno a uno. “No contessa! Come potete anche solo pensarlo?” si difese Jò, atteggiando il volto allo stupore più puro. Forse era in una giornata buona o forse aveva bisogno di credere che quella sera avrebbe avuto il suo sangue in cui sguazzare; sta di fatto che lasciò cadere le accuse e si concentrò di nuovo sulla giovane ormai esanime. Sembrava non voler perdere troppo tempo con quella prima vittima. Si limitò a qualche uncino piantato tra le dita delle mani e dei piedi, l’asportazione parziale degli organi genitali, per la gioia di Ficzkò (gli sarebbe andata meglio con la seconda forse) e una serie di spilloni piantati a fondo nei capezzoli. Dorkò la finì, come sempre, con un taglio netto dei polsi quando già la ragazza non sentiva più nulla. “Fatene a pezzi il corpo. Ne gusteremo le carni nel prossimo banchetto.” Ordinò la contessa, ripulendosi le mani dal sangue. Fu la volta della ragazza più giovane del gruppo. Dieci anni appena. I capelli castani erano stati raccolti in due trecce strette, arrotolate su se stesse e poi fermate sul capo da due nastri bianchi. Il vestito le andava un po’ largo, ma Dorkò aveva usato un alto nastro stretto in vita per far meglio cadere l’abito. Erzsébet la guardò e nei suoi occhi, per un solo istante, ci fu qualcosa di umano. La bambina la guardava con terrore, ma non piangeva. Aspettava. Sembrava avvezza alle brutture e priva di aspettative positive come non avrebbe dovuto essere una nobile viziata, cresciuta nella bambagia. La carnagione bianca e il viso emaciato le ricordavano se stessa da bambina. Aveva occhi profondi e scuri e labbra carnose e rosee. Non abbassava lo sguardo, ma non sembrava farlo per amore di sfida. Sembrava solo pronta a fare la fine che la contessa avrebbe deciso e questo un po’ la spiazzò. Si abbassò sulle ginocchia e le sollevò il viso con due dita. Lo sguardo era duro e allo stesso tempo incuriosito. “A quale casata appartiene questa giovane?” domandò infine Erzsébet, dando vita alle preoccupazioni di Dorkò, che sbiancò e fece un passo indietro senza accorgersene. “Dovete perdonarmi contessa… sono stata io a reclutarla, ma nella fretta… non ricordo di preciso dove l’abbia trovata.” Intervenne Jò Ilona con sicurezza, levando d’impaccio la compare. La contessa sembrò poco soddisfatta dalla risposta, ma non replicò. Si alzò e fece cenno a Jò Ilona di svestirla e legarla. Gli occhi della bambina si riempirono di lacrime ancor prima che sentisse le mani della serva trafficarle addosso. “Io non ho fatto niente…” protestò debolmente la bambina. “Lo so.” Rispose Erzsébet senza toglierle gli occhi di dosso. Majorova arrivò in quel momento e si mise a sedere a terra, nello stesso posto che aveva occupato le volte precedenti. La piccola, nuda, era appesa alle catene e, con gli occhi chiusi, aspettava. VII Ponikenus e Megyery attendevano ormai da ore di essere ricevuti da György Thurzò. Dopo aver visto la cripta Megyery era rimasto sconvolto nonostante già sapesse che cosa aspettarsi. Come poteva esistere una donna tanto crudele? Come poteva averla fatta franca per tutti quegli anni? Doveva scrivere la parola fine in modo definitivo. Aveva aspettato già fin troppo tempo e mai si sarebbe perdonato di non essere intervenuto prima. Pàl continuava a essere all’oscuro di tutto, ma presto tutta quella storia sarebbe stata di dominio pubblico e doveva pensar bene a come prepararlo per affrontarla. “Scusate se vi ho fatto aspettare. Una riunione importante mi ha trattenuto più a lungo di quanto credessi.” Thurzò arrivò vicino a loro, salutandoli con calore. “Non vi preoccupate palatino, comprendiamo bene i vostri impegni.” Rispose Megyery stringendo la mano che gli veniva offerta e ricambiando l’abbraccio fraterno. “Come sta il nostro giovane Pàl?” “Oh bene, bene. E’ un bravo figliolo. Studioso e assennato. Voglio presentarvi Jànos Ponikenus, sacerdote di Csejthe.” Il sorriso sul viso di Thurzò scomparve all’istante. Tutto ciò che aveva a che fare con Csejthe non poteva che riguardare sua cugina e questo non era un bene. Aveva già i suoi problemi a causa del suo essere protestane e non gli servivano proprio altri guai, causati dalla cattiva nomea di sua cugina. Aveva sentito molte cose riguardo a Erzsébet, ma non aveva mai voluto approfondire di persona. In principio aveva creduto che fossero solo pettegolezzi messi in giro da qualche perditempo, ma poi le voci si erano estese a macchia d’olio, arrivando per- sino alle orecchie di re Mattia, che non aveva perso tempo e aveva voluto parlarne con lui. In quell’occasione, Thurzò aveva tentato con ogni mezzo di deviare la discussione e sminuire l’importanza e la fondatezza di quel vociferare, ma re Mattia non era uno stupido e non lo si poteva fregare con banali trucchi da teatrante. Aveva insistito affinché lui parlasse con la contessa e approfondisse l’argomento, ma non l’aveva ancora fatto. Non ne aveva avuto il coraggio. Non voleva che una simile macchia sporcasse il nome dei Bàthory e ancora di più dei Nàdasdy. Continuava, in cuor suo, a sperare che non fossero altro che le chiacchiere di qualche invidioso, ma ora che si trovava faccia a faccia con Megyery il rosso e con questo pastore di Csejthe, tutti i suoi incubi tornarono a tormentarlo, più forti di prima. “Vi sentite bene?” domandò Megyery, notando il pallore improvviso sul volto di Thurzò e il suo prolungato silenzio. “Sì… sì… cosa vi porta fino a Bicse?” “Dobbiamo parlarvi di una faccenda che si protrae da troppo tempo e che neces- sità di un vostro intervento. Dobbiamo parlarvi della contessa Bàthory.” Ecco che gli incubi peggiori di Thurzò si stavano avverando solo con la pronuncia di quel nome. “Seguitemi. Andiamo in un luogo più consono.” Rispose Thurzò in tono grave. Percorsero il lungo corridoio ed entrarono in una stanza ampia, con una pesante scrivania intarsiata e comode poltrone coperte di un bel tessuto damascato, color verde cangiante. “Accomodatevi vi prego.” Megyery e Ponikenus presero posto sulle poltrone, mentre Thurzò si accomodò dietro la scrivania. “Ditemi.” Disse, tagliando corto. Megyery raccontò tutto ciò che sapeva sul conto della contessa e tutto ciò che aveva saputo di recente da Ponikenus, che si limitò ad annuire più volte, sempre con lo sguardo perso nel vuoto. Thurzò ascoltò senza mai interrompere e lesse con attenzione la lettera del predecessore di Ponikenus. “Perché venite solo ora a parlarmene?” domandò. “Non ne avevamo le prove. Solo voci… solo piccoli dettagli, ma ora, gli stessi paesani di Csejthe urlano allo scandalo e pretendono giustizia. È giunta voce che molte nobili fanciulle siano scomparse oltre alle povere contadine. Il barone Cziraky e la baronessa Brauffen sono venuti fino a Sarvar per farmi sapere che la contessa cercava giovani nobildonne con la scusa di tenerle compagnia. Il barone ha mandato le sue figlie e di queste non ha avuto più alcuna notizia. Era disperato palatino… non potete immaginare la pena che quell’uomo si porta ora nel cuore. La baronessa Brauffen non ha mandato le sue figlie perché già al corrente dei pettegolezzi che aleggiavano attorno alla contessa.” “Voi mi state dicendo che ha ucciso delle giovani nobili? Non è possibile! Non può averlo fatto davvero! Siete certi che non siano ancora vive… o che non siano morte per cause naturali… un’epidemia magari… o un incidente?” “No palatino… non sono morte per cause naturali e sono certo che non siano più vive. Dovete intervenire subito.” Rispose Megyery. “Va bene, va bene… domani partirò per Csejthe e parlerò con la contessa.” Disse alzandosi e guardando fuori dalla finestra. Le nuvole cominciavano ad addensarsi e minacciavano di far nevicare. Non ci voleva anche questa! Pensò preoccupato. “Sarebbe opportuno che partiste oggi stesso. Un giorno di ritardo potrebbe significare decine di vite innocenti perse.” Rincarò Megyery. “Avete ragione Emerich. So che avete ragione. Ebbene, partirò oggi stesso allora. Se è vero ciò che dite, la contessa va fermata. re Mattia ne è al corrente?” “Non ancora, ma lo sarà presto. Ci riceverà questo pomeriggio.” “Pensate che sia il caso di metterlo a parte di questa faccenda prima che io abbia appurato di persona se sussiste o meno un fondo di verità?” “Sì, è meglio che lo sappia e dirò anche quanto vi siete preso a cuore questa storia e che state intervenendo in prima persona.” “Vi ringrazio Emerich. Apprezzo molto la vostra sincerità.” Qualche breve saluto segnò la fine della riunione e Megyery e Ponikenus si accomiatarono per continuare il loro viaggio verso Vienna. Thurzò rimase così solo con i suoi pensieri. Se tutta quella vicenda fosse diventata di dominio pubblico sarebbe stato un bel guaio. Si sedette allo scrittoio e scrisse ai figli della contessa una lunga missiva, dove esplicava i fatti di cui era venuto a conoscenza e richiedeva la loro presenza a Presburgo non appena fosse stato loro possibile. VIII Re Mattia era un uomo forte e tutto d’un pezzo, senza grilli per la testa e con un forte senso della giustizia. Anche lui aveva sentito delle voci sulle strane abitudini della contessa, ma non aveva mai avuto modo di approfondire l’argomento. A dire il vero, non gli era mai piaciuta quella donna, che trovava sgradevole e oscura. Non aveva mai compreso la simpatia di suo fratello Rodolfo, per quella creatura del demonio. Ma il fatto che a lui non piacesse non gli dava il diritto di giudicarla per cose che non conosceva. Quel giorno avrebbe appresso una gran quantità di cose riguardanti la contessa. Forse più di quelle che avrebbe voluto. Ad attenderlo c’erano ben quattro persone e tutte e quattro erano lì, casual- mente, per lo stesso motivo: Erzsébet Bàthory. Il cardinale Forgàch, un rinomato consigliere, Emerich Megyery e un certo sacerdote di cui non ricordava il nome, lo attendevano in un salottino al piano terreno. Fece un profondo respiro e scese dai suoi ospiti. “Re Mattia! Vi porgiamo i nostri più umili saluti.” Esordì il consigliere quando lo vide scendere le scale. Tutti si alzarono e s’inchinarono al suo cospetto. “Vi prego. Lasciamo perdere le cerimonie. Abbiamo un argomento importante da trattare e non voglio attendere oltre.” Tagliò corto lui con la sua rinomata durezza. Fece strada e mostrò loro una grande stanza rettangolare con elaborate decorazione in stile italiano. Fu il cardinale Forgàch a prendere per primo la parola. “E’ strano che ci siamo incontrati tutti qui in questo giorno per affrontare il medesimo problema. Non posso pensare altro se non al volere di Dio.” Re Mattia annuiva tenendo gli occhi puntati sul cardinale. “L’argomento è Erzsébet Bàthory, non è vero?” domandò infine, già conoscendo la risposta. Tutti annuirono silenziosi. “Mi è giunta voce di alcune pratiche riconducibili alla stregoneria e perpetrate ai danni di giovani vergini di estrazione contadina e non. Non possiamo permettere che l’Ungheria venga scossa da simili atti demoniaci. In tutto il mondo si stanno scoprendo focolai di stregoneria e si stanno prendendo i debiti provvedimenti. L’Ungheria non può più chiudere gli occhi davanti a simili nefandezze.” “Comprendo il vostro punto di vista cardinale, ma non possiamo basarci su delle voci. Abbiamo delle prove?” domandò serio. “Se posso, vorrei comunicarvi che Gyorgy Thurzò è partito questa mattina per recarsi a Csejthe e valutare personalmente la realtà dei fatti.” Intervenne Megyery. “Bene. Questo è senz’altro un bene. Nonostante il palatino abbia legami di parentela con quella donna, confido nella sua lealtà verso l’Ungheria e nel suo spirito d’osservazione.” “Sarebbe meglio se il palatino fosse cattolico e non si ostinasse a rimanere protestante.” Puntualizzò il cardinale. “Una giovane è sfuggita alla contessa molti anni fa… aiutata da un uomo che riconosco essere il qui presente Megyery.” Megyery s’illuminò, pensando a quella giovane e gioendo del fatto che fosse realmente scampata alla malasorte. “Durante una confessione, un sacerdote in cui ripongo molta fiducia, è venuto a conoscenza dei fatti che ora vi esporrò.” Il cardinale raccontò con dovizia di particolari e lasciò poi il tempo a re Mattia di digerirli. Lo stesso fece Megyery con qualche intervento di supporto da parte di Ponikenus. Il consigliere si limitò a dare la sua testimonianza che però non rivelava nulla di più delle precedenti. “Fra non molto dovrà tenersi una seduta di parlamento. Faremo in modo di convocare tutti coloro che dovranno parte- cipare e di farli convergere a Csejthe. Voglio vedere con i miei occhi quella donna!” tuonò re Mattia che se solo avesse potuto, avrebbe voluto strozzarla con le proprie mani. Ciò che aveva sentito raccontare dai quattro uomini andava al di là di quello che avrebbe potuto immaginare. Sentir parlare di simili torture, uccisioni e atrocità lo aveva fatto infuriare e non avrebbe lasciato che tutto questo continuasse. Thurzò avrebbe fatto meglio a portargli delle prove e a non tentare in alcun modo di proteggere la cugina, o avrebbe assaggiato lui stesso la sua vendetta. IX La contessa era furibonda. Aveva già scagliato a terra tutto quel che poteva e ora camminava a grandi passi nella sua stanza, sbraitando contro tutto e contro tutti. Dorkò e Jò furono allontanate dalla stanza ed Erzsébet rimase sola con Erza Majorova. “Guardatemi vecchia! Guardatemi!” gridò Erzsébet. “Non ha fatto nulla il sangue di quelle sgualdrine nobili! Perché?” gridò. “Dovete avere pazienza contessa. Vedrete che non ci vorrà ancora molto per vedere dei risultati.” Cercò di calmarla Majorova. “Vi giuro che vi ucciderò con queste stesse mani se non vedrò davvero i miglioramenti di cui andate blaterando!” “Se mi ucciderete, il mio spirito tornerà a tormentarvi per il resto dei vostri giorni.” Minacciò Majorova indispettita dal tono della contessa. Lei era una strega e il fatto che avesse accettato di aiutarla, non le dava il diritto di comportarsi come fosse una sua serva. Fece per uscire dalla stanza, ma un pesante oggetto di metallo le sfiorò l’orecchio e andò a cozzare con un tonfo sordo contro la porta, facendola vibrare. “Non vi azzardate mai più.” Minacciò senza voltarsi. Erzsébet non tollerava quel suo modo di fare. Non era abituata ad avere a che fare con una donna che non ammetteva la sua superiorità. Nel giro di pochi secondi immaginò un’infinità di torture da infliggerle, ma poi deglutì la rabbia come un boccone amaro e si diresse verso la finestra. Quando udì la porta aprirsi e richiudersi, corse verso di essa e chiamò Jò Ilona a gran voce. La vecchia arrivò di corsa, ansimando, dalle scale. “Ditemi contessa.” “Portami una serva qualsiasi, purché sia giovane.” Sibilò, lanciando fiamme saettanti con gli occhi scuri che si erano ridotti a due fessure maligne. Jò, sparì e tornò in pochi minuti con una giovane tozza e dall’aspetto malaticcio. Non era esattamente ciò che avrebbe voluto. L’avrebbe preferita bella e aggraziata, ma si accontentò e senza dire una parola, piantò i denti nella spalla scoperta della giovane. Lei gridò, ma subito si portò una mano sulla bocca, ricordando che la contessa non sopportava le urla. Sopportò stoicamente il morso e guardò la contessa con occhi sgranati quando vide il suo stesso sangue macchiarle il mento e un brandello di carne che spariva tra le sue labbra rosse. Voltandosi vide il solco lasciato dal morso. Erzsébet fece un gesto per comunicare a Jò che poteva portarla via. Quella mattina, Erzsébet si cambiò d’abito più di venti volte e ogni volta trovava qualche impercettibile difetto nel vestito o nella sua figura. Si fece pettinare per ore davanti alla finestra, da cui entrava un sole pallido e senza calore. Cambiò acconciatura più volte. Una volta era troppo tirata, un’altra volta troppo morbida, un’altra ancora asimmetrica. In tutta la sua vita, quei cambi d’abito e quei cambi di acconciatura erano stati una regola, ma quel giorno sembrava che nulla potesse soddisfarla. Forse il fatto che si stessero avvicinando le festività natalizie le creava più ansie del dovuto quell’anno. Ci sarebbero stati i soliti banchetti a cui presenziare e non si sentiva abbastanza in forma per far fronte agli sguardi della gente. Non poteva sopportare l’idea che qualcuno notasse una ruga che l’anno prima non c’era o semplicemente, non sopportava di non essere ammirata e desiderata come succedeva in gioventù. Il suo desiderio più grande in quel momento era credere alle promesse di Majorova oppure non presenziare affatto ad alcun banchetto. Forse avrebbe potuto darsi malata… in fondo non sarebbe stata che una piccola bugia a fin di bene. Si sarebbe scusata e avrebbe passato il Natale in solitudine, magari passando il tempo con qualche giovane nobile rimasta a tenerle compagnia nei sotterranei. Qualcuno bussò alla porta distogliendola da quei pensieri. La fanciulla fermò il pettine che da ore lisciava i capelli folti e lucidi che quella stessa mattina erano stati acconciati decine di volte. “Entrate.” La figura di Dorkò apparve sulla soglia. Sembrava imbarazzata e timorosa di comunicare qualcosa. “Allora! Parla o vattene!” sbraitò la contessa, infastidita dall’interruzione. “C’è una visita per voi contessa.” Erzsébet aggrottò le sopraciglia e il cuore prese a batterle più forte. Chi poteva essere? Non aspettava nessuno e aveva come l’impressione che quell’inaspettata visita non portasse buone nuove. “Chi?” domandò secca. “Vostro cugino… György Thurzò.” Erzsébet sentì piombarle addosso tutti i timori che avevano popolato i suoi peggiori incubi. Cos’era venuto a fare il pa- latino? Non si poteva certo trattare di una visita di piacere. “Di a mio cugino che scenderò appena sarò pronta.” Dorkò richiuse la porta e i suoi passi pesanti percorsero il corridoio e poi le scale. “Acconciami e questa volta bada bene a non metterci troppo tempo e a non sbagliare.” La fanciulla armeggiò per quasi un’ora con i capelli della contessa e finalmente applicò l’ultima forcina. Erzsébet si rimirò nello specchio voltandosi da ogni lato con sguardo critico. Si lisciò l’abito scuro con pesanti ricami dorati sul corsetto e sul davanti della gonna ampia. Fece scivolare qualche goccia di olio profumato al gelsomino e inumidì la parte dietro le orecchie e alla base del collo scoperto. Si fece aiutare ad applicare la gorgiera di perle e fu pronta. Scendendo le scale, ebbe il solo desiderio di sfuggire a quell’incontro, ma, respirando a fondo, si fece forza e provò a sorridere. Thurzò era seduto su di una bella cassapanca in mogano, ricoperta da cuscini rosso scuro. A ben guardare quel mobile, si sarebbe potuto scambiarlo per una bara. “Cugina! Che piacere vedervi!” la salutò, alzandosi e andandole incontro. Stupita da quell’accoglienza e sospettosa più del solito, ricambiò l’abbraccio con freddezza e si lasciò andare a un breve sorriso di circostanza. “Cosa vi porta fino a Csejthe, cugino?” domandò lei senza girare intorno al problema. “Ho da domandarvi alcune cose.” Rispose lui con tono grave. “Di quali cose state parlando?” “Cugina… speravo fosse più facile, ma non so come affrontare il discorso. Ciò di cui vi devo parlare è molto grave, e l’unica cosa che spero è che mi convinciate che ciò che ho saputo non sia altro che un insieme di pettegolezzi dettati dall’invidia e dalla cattiveria.” “Arrivate al punto cugino.” L’incalzò lei. Thurzò prese la lettera portatagli da Megyery e Ponikenus e la porse a Er- zsébet che allungò la mano e con sguardo truce iniziò a leggerla. Più andava avanti nella lettura e più il suo viso si faceva scuro e preoccupato, ma quando giunse alle ultime righe, scoppiò in un’inaspettata risata. Rise facendosi venire le lacrime agli occhi e Thurzò rimase interdetto da quella reazione. Non sapeva in che modo interpretarla. Sperava che quello di Erzsébet fosse sincero divertimento per aver letto delle eresie e non, come invece credeva, una sorta di delirio isterico per essere stata scoperta. “Voi credete a ciò che è riportato in questa lettera?” domandò, improvvisamente seria. “Siete voi che dovete convincermi che non è vero.” “Quindi devo difendermi dalle accuse di un morto? Devo provare la mia innocenza? Credevo che fosse necessario provare la colpevolezza e non l’innocenza!” rispose acida. “Avete ragione cugina, ma la faccenda è seria e molte personalità importanti vogliono vederci chiaro. Troppe persone parlano di voi nei termini descritti in quella lettera.” Erzsébet gettò a terra la pergamena con rabbia e disgusto e si allontanò da Thurzò. Appoggiò le mani bianche sullo sguscio della cornice sopra il caminetto scoppiettante e rimase immobile a godere di quel calore infernale. “Sono tutte fandonie. È questo che volete sentirmi dire? Oppure desiderate torturarmi per ottenere una confessione?” “Cugina, cercate di capire e di essere ragionevole. Non voglio che voi confessiate nulla che non avete fatto, ma ho bisogno che mi diciate la verità.” “La verità… chi siete voi per stabilire quale sia la verità?” Thurzò non rispose a quella domanda e abbassò lo sguardo a terra. Se aveva avuto dei dubbi prima di vedere Erzsébet, ora quei dubbi non esistevano più e aveva la certezza che ciò che aveva letto in quella lettera e ciò che gli avevano raccontato, era pura verità. Non voleva però che nessun altro lo sapesse. Che danno sarebbe stato per la sua immagine! Che danno avrebbe arrecato a tutti i Bàthory valorosi e a tutti gli eroici Nàdasdy? “Nulla di ciò che è scritto in quella lettera è vero. Quelle giovani le ho fatte davvero seppellire io, ma sono morte in seguito a una brutta epidemia scoppiata nel castello e per cui io stessa ho rischiato il contagio.” Spiegò senza voltarsi. “Ma per quale motivo avete voluto che fossero seppellite in piena notte e perché furono messe nella cripta?” “Cos’avrei dovuto fare? Farle seppellire in pieno giorno, scatenando il terrore di un contagio in tutto il castello o peggio… in tutto il paese? La scelta della cripta è stata fatta da Berthoni… forse per il timore che anche da morte potessero far dilagare la malattia a chi si recava al cimitero… dovreste domandarlo a lui, ma dal momento che non potete… dovrete accontentarvi delle mie spiegazioni.” Concluse voltandosi. Thurzò soppesò quelle parole in silenzio, guardando un pesante arazzo che raffigurava una battuta di caccia e che trovava di pessimo gusto. In quell’arazzo, le bestie uccise grondava- no sangue e trasmettevano il terrore della morte. “Perché Berthoni avrebbe scritto questa lettera di accusa? Perché chi ne era in possesso ha fatto in modo che arrivasse nelle mie mani e, ancora, perché tutte queste persone che parlano di macabri riti, torture, uccisioni?” “Invidia. Non so quale altra spiegazione possa esserci. Torture? Uccisioni? Ma andiamo cugino! Sono severa e questo è risaputo. Punisco duramente gli errori della mia servitù, ma mai e poi mai mi spingerei a torturare o uccidere! Forse le persone che parlano in questo modo, lo fanno per colpirmi per qualche motivo che ignoro.” Ribatté. Thurzò fece un passo verso di lei, ma poi parve cambiare idea e si fermò. “Cugina… porterò le vostre spiegazioni, ma aspettatevi che torni perché non so se basteranno a convincere re Mattia.” Erzsébet sussultò al sentir pronunciare quel nome. “Re Mattia?” domandò brusca. “Sì… sono certo che a quest’ora sarà già al corrente di tutto e dovrò rispondere a molte sue domande. La famiglia Bàthory vanta molte personalità di spicco fin dalla notte dei tempi, sia del ramo Somlyò, sia del ramo Ecsed e voi appartenete a entrambi. Non dimentichiamo poi il vostro indissolubile legame con una famiglia altrettanto importante come i Nàdasdy. Sarà nostra premura non portare avanti queste dicerie, ma sarà un duro lavoro.” “Sono pronta a far fronte a qualsiasi tipo di diceria, come la chiamate voi, ma ricordate che re Mattia non mi ha mai apprezzata. Non quanto suo fratello Rodolfo. Questo potrebbe portarlo a conclusioni affrettate.” “Non temete per questo. Re Mattia non si farà influenzare dalla simpatia o dall’antipatia che prova per voi. Confido nel suo essere al di sopra di questi sentimenti.” “Ebbene… avete ancora qualcosa da dirmi?” domandò Erzsébet infine. “No. Porterò la vostra testimonianza a Presburgo e farò in modo che tutto questo non abbia un seguito.” Disse riprendendo il suo mantello e uscendo senza perder tempo in saluti. Quando fu fuori dal castello, assaporò l’aria pungente e pura dell’inverno. Qualche fiocco di neve scendeva lento dal cielo bianco. In pochi attimi, il pallido sole di quel giorno era stato coperto dalle nubi minacciose e tanto chiare da far male agli occhi. Qualcosa in quel castello gli faceva venire i brividi. Scuro, triste, troppo silenzioso e abbandonato nel nulla. Nel tempo trascorso tra quelle mura, il suo corpo era stato percorso più volte da lunghi brividi. Gli stessi che le streghe dicevano essere la carezza degli spiriti. Se così era davvero, in quel castello c’erano molti spiriti senza pace. Non aveva creduto a una sola parola della cugina. La sua bocca diceva una cosa, ma i suoi occhi non riuscivano a mentire; non riuscivano a nascondere la sua vera anima nera. Durante il viaggio di ritorno, cercò di non pensare a Erzsébet e di riposare in vista della visita che avrebbe dovuto fare la sera stessa a re Mattia, ma ogni volta che chiudeva gli occhi, centinaia d’immagini terrificanti si affacciavano alla sua mente, ridestandolo con brutali- tà. Le immagini dell’arazzo si mescolavano con quelle più reali di donne grondanti sangue, con gli occhi bianchi e ciechi e le labbra dischiuse su lunghi denti acuminati che si aggiravano per i corridoi del castello di Csejthe, mentre da un imprecisato antro, provenivano le risate diaboliche di sua cugina. Uno scossone lo avvertì che erano ormai arrivati. L’ansia gli attanagliò le viscere quando vide l’entrata di palazzo reale. Mai era stato così intimorito da Vienna e dalla sua bellezza senza tempo. Si fece annunciare e attese che re Mattia lo invitasse a seguirlo in una delle svariate stanze adibite a studio, ma quando lo vide arrivare, ebbe la forte tentazione di fuggire a gambe levate. Se avesse difeso a spada tratta Erzsébet, avrebbe rischiato di essere preso per un traditore della corona, ma non voleva avere sulla coscienza la disperazione dei figli della contessa, perché, n’era certo, loro non sapevano nulla e non potevano pagare con l’ignominia le colpe della madre. “Non credevo sareste stato di ritorno così presto.” Esordì re Mattia squadrandolo con sospetto. “Non era necessario che io mi fermassi a lungo a Csejthe.” “Che cosa dice a sua discolpa la contessa?” “Pensa di non doversi difendere perché non ha commesso nulla di ciò che le si attribuisce.” “E voi cosa ne pensate?” chiese subdolamente e Thurzò fu certo che quella domanda lo volesse mettere a disagio. “Cosa posso dirvi maestà… è una donna dura, forte e caparbia, ma non credo che sia arrivata al punto di perpetrare simili atrocità. Ha ammesso di essere stata spesso dura con la servitù, di aver inflitto punizioni severe, ma questo non va al di là dei suoi poteri.” “Mi state dicendo che non avete scorto la verità in fondo ai suoi occhi?” domandò ancora e Thurzò si sentì avvampare. Come faceva a sapere dei suoi occhi? Come faceva a sapere che non era riuscito a trovare verità nelle sue parole, ma nei suoi occhi sì? Fece un passo indietro, intimorito. “Sembrate spaventato? Vi sentite bene palatino?” “Sì… io non credo di essere la persona giusta per giudicare la contessa… il mio legame di sangue non mi permette forse di essere obiettivo.” “Mi stupite palatino.” Rispose, abbozzando un sorriso crudele. “Ci sarà la seduta di parlamento subito dopo Natale, a Presburgo. Chiederemo ospitalità alla contessa e sarò io stesso a guardarla negli occhi e giudicarla, se è questo ciò che volete. Io non mi farò certo intimorire dalle sue nobili nascite, né dal suo essere una Nàdasdy. Nessuno può fare ciò che ha fatto quella donna e passarla liscia… questo è certo.” Concluse con stizza, allontanandosi a grandi falcate e lasciando Thurzò solo con i suoi nuovi fantasmi. PARTE QUARTA I Arrivavano da ogni dove e non poteva far nulla per mettere fine a quella continua consegna di missive in cui le più importanti personalità ungheresi le chiedevano ospitalità per le prossime feste Natalizie. Odiava le imposizioni e queste richieste lo erano. Non poteva rispondere in maniera negativa, ma era obbligata a fare buon viso a cattivo gioco. Per giorni interi avrebbe dovuto occuparsi di far preparare le stanze per gli ospiti che da tempo immemorabile non venivano visitate da nessuno, far procurare frutta e verdura, far spolverare il servizio di porcellana, far pulire tutto da cima a fondo. Si sarebbe stancata oltre ogni limite e forse non avrebbe avuto il tempo e la forza per occupasi di se stessa. Il mal di capo non le dava tregua. Troppe preoccupazioni l’assillavano giorno e notte. Il viso era tirato e stanco ancora prima di cominciare quel tour de force. Scagliò con violenza un vasetto di grasso che si preoccupava di stendere ogni mattina sulla pelle del viso. Si prese la testa tra le mani e digrignò i denti facendosi venire una fitta lancinante alla mandibola. Majorova entrò nella stanza senza bussare e questa sua mancanza di rispetto, la fece sbottare. “Maledizione! Maledizione!” tuonò con le lacrime agli occhi. Majorova lasciò che la contessa riprendesse possesso di se stessa e che la crisi isterica si placasse un poco. “Cosa volete?” domandò infine, rabbiosa. “Potrebbe essere una buona cosa contessa.” Disse ghignando. “Cosa state dicendo? Di quale buona cosa andate farneticando?” gridò. “Del fatto di avere tutti i vostri nemici riuniti qui al castello. Quale migliore occasione per servire loro un buon pasto e un buon dolce?” domandò lasciando che Erzsébet trovasse da sola un senso a quelle parole. Per la prima volta, sembrò stupita. Si massaggiò la fronte alta e passeggiò verso la finestra tenendo un braccio stretto all’altezza della vita, come avesse mal di stomaco. “Mi state dicendo che tutto questo potrebbe andare a mio favore? Che il destino ha voluto che io avessi tutti i miei nemici riuniti e che io posso sfruttare quest’opportunità?” Majorova annuì ridacchiando. “E come avete in mente di fare?” domandò incuriosita e improvvisamente calma. “Conoscete bene la mia abilità nel preparare veleni mortali e tra pochi giorni, il demonio camminerà sulla terra e li renderà ancora più forti. Il giorno del solstizio precisamente è un giorno importante per il demonio. Il suo potere si stende sulla terra, aiutato dalla notte più lunga dell’anno e dà più forza magica alle erbe malefiche e ai rituali. State pronta perché la notte del 24 dicembre sarà la più importante della vostra vita.” Spiegò prima di uscire dalla stanza. Erzsébet non poteva ancora credere che tutta la rabbia provata fino a quel momento fosse scemata e che quello sgradito imprevisto stesse diventando la sua più importante possibilità. Megyery, re Mattia e tutti quelli che avevano osato andare contro di lei, stavano per andare all’inferno e lei li avrebbe aiutati a far sì che la loro dipartita fosse veloce quanto dolorosa. Per non rischiare di esser sola in mezzo a tanti nemici, invitò tutti i nobili che possedevano castelli nelle vicinanze. Ingaggiò una delle più rinomate orchestre per allietare il banchetto e fece persino chiamare un abile giocoliere. Avrebbe stupito i suoi ospiti e li avrebbe confusi con la sua impeccabile organizzazione e ospitalità. II Quella notte, le stelle sembravano non voler rischiarare il cielo e la luna pareva essere stata cancellata. Il giorno del solstizio d’inverno che per tanti anni era stato festeggiato proprio il giorno in cui ora si festeggia il Natale, era considerato una porta energetica. Abbandonati i suoi ospiti nelle sicure stanze del castello, Erzsébet e Majorova partirono per dare luogo al rito più antico. In ogni cultura, il 25 dicembre era giorno di grandi festeggiamenti insieme alla notte che lo precede. Gli egiziani festeggiavano la nascita del dio Horus, gli amerindi, la nascita di Quetzacoalt, in Persia si cantava l’inno che raccontava la nascita del mondo, i germani festeggiavano Yule in relazione al culto di Odino. Nell’antica Roma si festeggiavano i Saturnali, che cominciavano il 19 e terminavano il 25. Per tutti questi popoli, il momento del solstizio era associato al rinnovamento. Alla fine della tenebra che ammanta la terra. All’avvento del nuovo sole che torna a scaldarla. Lo stesso Mithra (dio indo-iraniano) fu adottato dai romani e se ne festeggiava la nascita il 25 dicembre. Era associato al sole e rappresentato nell’atto di uccidere un toro con due dadoscuri a fianco e che rappresentavano proprio il cammino dell’astro, poiché avevano una fiaccola rivolta verso l’alto (solstizio d’estate) e una verso il basso (solstizio d’inverno). Solo in un secondo momento, il cristianesimo aveva fagocitato queste antiche cerimonie, sostituendole con le proprie, in modo da eliminare i troppo radicati festeggiamenti pagani. Come Samhain era divenuta la festa di ognissanti, il giorno del solstizio (Dies solis invictis per i romani e Yule per in germani) divenne il giorno della nascita di Gesù. Furono astuti i cristiani perché cercarono di mantenere molti dei tradizionali festeggiamenti, soprattutto perché vi era un culto che molto li preoccupava. Il culto del dio Mithra, troppo simile al loro Dio. Troppe similitudini con l’ultimo pasto di Gesù, l’ascesa in cielo e molto altro. Avrebbero potuto scegliere un qualsiasi giorno dell’anno per collocare la nascita di Gesù perché in realtà non si è mai saputo con certezza il giorno in cui avvenne (se avvenne), ma il rischio di essere una religione in secondo piano era troppo alto. Mescolarono abilmente alcuni dei più antichi simboli con la nuova religione e sostituirono le feste inglobando molti dei riti preesistenti. Così Gesù ebbe la sua corona di raggi solari richiamando il culto del Dies solis invictis, il sangue e il corpo di cristo divennero il vino e il pane richiamando il culto di Mithra, come anche il giorno della sua nascita. L’ostia fu tonda richiamando l’idea dell’astro da sempre venerato. La rappresentazione della Madonna con il bambino in braccio fu stranamente somigliante a Iside con in braccio Horus. Vennero mantenute le fiaccole, le candele, i falò, tipici della festa del solstizio e che richiamavano alla mente la battaglia della luce contro le tenebre (la stessa combattuta da Dio contro Satana). Ma nessuno meglio delle streghe, sapeva il reale significato di quella magica notte in cui la tenebra ammanta tutto e gli spiriti del male camminano sulla terra per portare un po’ del loro potere ai riti malvagi. Nascoste dalla notte più lunga, le anime perdute comunicavano col male, eseguivano riti, amavano il malvagio, bruciavano erbe e invocavano il potere del vecchio che ancora non aveva ceduto il passo al nuovo. In quella notte, Erzsébet camminò nel bosco in compagnia di Majorova e giunse nel suo cuore più nero per richiamare a sé tutto il potere oscuro di cui aveva bisogno. Il buio era totale a parte il baluginio della poca neve che era riuscita a penetrare nella fitta boscaglia. Majorova accese due fiaccole e le piantò a fatica nel ter- reno reso duro dal gelo. Al centro di un girotondo di alberi, giacevano accatastati sottili rami e grossi ciocchi, in attesa di essere arsi. Majorova diede fuoco ai ramoscelli che, data l’umidità, stentavano a incendiarsi e vi gettò sopra una bracciata di mandragora e di belladonna. Attesero in silenzio fino a quando il focherello non divenne vivace e, solo allora, si tolsero i pesanti abiti lasciandoli scivolare a terra. Il corpo cadente e rivoltante di Majorova era rosso per i riflessi del fuoco, ma Erzsébet vide distintamente disegnarsi il volto del maligno sul suo ventre molle. Rabbrividivano nel freddo e godevano del poco calore che i loro corpi riuscivano a immagazzinare da quelle fiamme. “Il potere del maligno mi riscalda e mi da vita. Come le fiamme infinite dell’inferno, la mia anima arderà per sempre nel sacro amplesso donato dal male.” Disse Majorova chiudendo gli occhi e allargando le braccia. Erzsébet ripeté il saluto al maligno. “Queste tue serve sono al tuo cospetto, nella notte più lunga e buia, per renderti i loro servigi e i loro omaggi. Manifestati e avrai i nostri corpi. Manifestati e noi ti doneremo tutto ciò che nascondiamo. Il nostro prezioso tesoro. Il nostro segreto e la nostra anima.” Ripeterono insieme. “Lascia che il buio colmi i nostri corpi col suo antico potere. Lascia che il nostro grembo si riempia del tuo essere e dacci l’immenso dono di cui disponi per porre fine alla persecuzione della tua serva.” Erzsébet sussultò e aprì gli occhi di scatto. Aveva percepito con distinzione, delle dita gelide sfiorarle la schiena e scendere verso le natiche. Un brivido d’eccitazione saettò in tutto il suo corpo. Richiuse gli occhi e ripeté la cantilena di Majorova, credendoci ancora di più. Ci mise davvero l’anima in quella nenia. Con gli occhi chiusi, il suo senso dell’udito e del tatto si acuirono magicamente. I fruscii dei rami divennero voci profonde e penetranti; la farinosa neve, alzata da un inconsueto vento, le sferzò le gambe e anziché provocarle brividi di freddo, sembrò infuocare la pelle. Il desiderio s’insinuò in lei più forte che mai. Majorova preparò uno dei suoi intrugli e con fiducia estrema, Erzsébet lo trangugiò in un sol sorso. Era amaro e acido al contempo. Tanto cattivo da provocarle diversi conati, che però trattenne con forza. “Apri gli occhi, oh serva del maligno e unisciti a lui.” Ordinò Majorova. Erzsébet aprì gli occhi. La testa girava e il senso di nausea le attanagliava le viscere, ma ancora più forte era il calore che sentiva crescere tra le cosce. Si sentiva umida e desiderosa. Le fiamme si piegarono un poco, sospinte dal vento. Il legno scoppiettava ferocemente sottolineando l’ardua battaglia del fuoco con l’umidità contenuta nei ciocchi. “Lo vedo…” disse stupita in un sussurro. Non riusciva a chiudere le palpebre. Era come ipnotizzata. Dalle fiamme stava prendendo forma la figura di un uomo. Alto, con le spalle quadrate e possenti, i fianchi stretti, le gambe erano un fascio di muscoli guizzanti. Non si distinguevano i lineamenti del viso che rimanevano in ombra anche dinnanzi alle fiamme. Lunghi capelli scuri sfioravano la schiena. Erzsébet fece un passo indietro. Era la prima volta che vedeva con i suoi stessi occhi il maligno e non era come lo descrivevano. Non era brutto, cornuto e con le zampe di capra. Era bello e perfetto come nessuno. Da lui trasudavano sesso, potere, forza e oscurità. Le fu accanto e le sue mani si posarono a coppa sui seni. Abbassò il viso e leccò con voracità i capezzoli. La lingua era ispida come fosse cosparsa di sottilissimi aculei. Il dolore si mescolò al piacere. I denti affondarono della carne ed Erzsébet gridò senza ritrarsi e anzi, desiderando ancora di più. Inebriata dall’intruglio appena bevuto e dall’odore del sesso, si gettò a terra e spalancò le gambe in un estremo invito. Lui si chinò su di lei e senza aspettare oltre, la penetrò con violenza. Erzsébet ansimò sotto il peso di quel corpo e il suo sesso, come una bocca avida, risucchiò il sesso del maligno. Era freddo e bruciante al contempo. Grosso e lungo. Le provocava ondate di piacere e di immenso dolore. Si sentiva come lacerata da quelle misure e dalla violenza con la quale le venivano spinte dentro. Udiva in lontananza la nenia di Majorova che osservava compiaciuta. L’amplesso durò a lungo ed Erzsébet raggiunse il piacere tante di quelle volte da non riuscire a tenerne il conto e ogni volta che il piacere scemava, lasciandola intorpidita, ne desiderava ancora e ancora. Dopo un tempo infinito che potevano essere ore o giorni, la figura del maligno si inarcò sopra di lei e un suono gutturale e prolungato accompagnò le ritmiche pulsazione del suo pene. La sua essenza si diffuse dentro di lei e le gelò le viscere. Sentì quella sensazione in ogni parte del corpo. Nell’addome come nelle braccia. Nel torace come nella testa. Riaprì gli occhi e vide dinnanzi a sé solo Majorova con un lungo bastone. Il maligno era sparito così com’era apparso. “Siete pronta ora. Nulla più si metterà sul vostro cammino se voi non lo vorrete. Ho raccolto le piante di cui avremo bisogno. Non resta che portarle al castello e compiere il rito.” Erzsébet si alzò, con la testa che girava ancora e le membra indolenzite dal freddo e dall’estasi amorosa. Entrambe si rivestirono e conclusero il rito prima di incamminarsi per tornare al castello. Facendo attenzione a non far troppo rumore, le due scesero nei sotterranei. I paioli di rame richiesti da Majorova quella stessa mattina, attendevano appoggiati a terra, il fuoco scoppiettava ancora. La madia era pronta e cumuli di belladonna e mandragora aspettavano d’essere usate. Majorova versò l’acqua verdastra in cui avevano bollito per ore le erbe magiche e la versò in un grande bacile di rame. Vi aggiunse l’acqua fredda del fiume, portata da Dorkò quel pomeriggio stesso e gettò due manciate di belladonna tra le fiamme e tre di mandragora. Sulla madia erano pronte la farina, le uova, il miele e tutti gli attrezzi necessari per confezionare una torta. “Entrate nell’acqua. Dovete tenere lontani i pensieri e ripetere finché non vi dirò di smettere, il vostro nome.” Erzsébet annuì. Abbandonò gli abiti e si avvicinò al bacile. Allontanò dalla sua mente tutti i pensieri che fino a quel momento avevano vorticato incessantemente. Ancora pregna dell’odore del bosco e del maligno, s’infilò nell’acqua a malapena tiepida e di colore verde scuro. Si massaggiò la pelle e ripeté il suo nome decine e decine di volte. L’acqua sembrava pizzicarle la pelle. Orinò, lasciando che parte di lei si mescolasse a quell’acqua, continuando a ripetere il suo nome. “Ora alzatevi e chiudete il cerchio.” Ordinò Majorova, indicando un simbolo disegnato per terra e un pezzo di carbone. Erzsébet, ancora nuda, si chinò e chiuse il cerchio disegnandone l’ultimo segmento con il carbone. “Potete andare contessa. La torta sarà pronta per domattina.” La congedò Majorova mentre già prendeva l’acqua di cui aveva bisogno per l’impasto. “Quest’acqua contiene parte della vostra anima. Quella che rimarrà, dovrà essere rigettata nel fiume con attenzione per liberare la parte di anima che vi ha rubato.” Erzsébet annuì, riprese gli abiti senza infilarli e salì le scale. Se qualcuno l’avesse vista aggirarsi per i corridoi del castello completamente nuda, avrebbe certamente creduto che fosse folle, ma nessuno la vide. Il castello era immerso nel silenzio. Raggiunse la sua stanza e vi si chiuse dentro, ripensando a quanto era stata bella la sua unione col maligno e già rimpiangendo di non poterla ripetere se non al solstizio dell’anno successivo. III Quella notte, Thurzò fece un sogno da cui si svegliò madido di sudore e con il fiato corto. La sua adorata moglie, preoccupata, gli fece portare un infuso calmante e a nulla servirono le sue domande. Thurzò non volle rivelarle il sogno appena fatto. L’avrebbe sconvolta e preoccupata e questo non lo voleva. Fuori era ancora buio, ma già si avvicinava l’ora della partenza per Csejthe. Forse era stato questo a provocare quel sogno. Aveva visto Erzsébet aggirarsi nuda nel castello, in mano aveva un cuore pulsante, il suo, ed era nero e viscido. Un grosso buco nel torace in cui ardevano fiamme oscure. Lunghi denti acuminati e gli occhi vuoti. Incapace di riprendere sonno, si alzò. Anche Megyery il rosso fece un sogno simile e diede la colpa alla cena troppo sostanziosa della sera precedente. Anche lui si apprestò a preparare il necessario per la partenza. Re Mattia non fece sogni di alcun tipo o per lo meno non ne ricordò nemmeno uno quando venne svegliato dai rintocchi delle campane. Ponikenus non chiuse quasi occhio e per questo non fece alcun sogno. Non avrebbe partecipato al pranzo natalizio al castello di Csejthe, ma la sua mente sarebbe stata lì per tutto il tempo. Avrebbe pregato affinché re Mattia ponesse fine alle atrocità commesse dalla contessa. Ma c’era qualcun altro che non riusciva a prender sonno quella notte. Una giovane serva, arrivata da poco a Csejthe aveva udito dei rumori e un andirivieni di passi. Non era avvezza alla vastità di quel castello e non conosceva gli ordini della contessa. Non sapeva infatti che nessuna serva doveva permettersi di uscire dalla propria stanza se non esplicitamente invitata a farlo. Così aveva preso una candela ed era uscita stringendosi addosso lo scialle di lana. Si era nascosta dietro un angolo e spento la candela quando aveva visto due figure scendere nei sotterranei. Aveva Aspettato e con passo leggero, era scesa nei sotterranei. Aveva udito le parole di Majorova, il senso del rito, il risultato che si prefiggevano le due. Con la mano sulla bocca per trattenere lo stupore e la paura, era risalita di corsa con i piedi nudi che appena sfioravano il pavimento gelido. Si era chiusa alle spalle la porta della stanza che divideva con le altre e si era gettata sul letto. Aveva tirato le coperte fin sulla testa e non era riuscita più a prendere sonno. Era finita nella casa di una strega! Cosa poteva fare per avvertire il re che correva un grave pericolo? IV Le porte del castello si aprivano e si richiudevano per lasciar entrare ora un barone, ora un conte. La tavola era imbandita. Le candele dorate spandevano la loro tenue e calda luce. Il focolare scoppiettava, l’orchestra suonava allegre canzoni mentre le domestiche si davano da fare per portare ogni tipo di salsa, verdure cotte, carni, pane ancora fumante e brocche di vino. Le donne erano agghindate e sfoggiavano gioielli elaborati che impreziosivano i decolté, adornavano i capelli raccolti o le dita affusolate. Molte erano giovanissime e fresche come boccioli di rosa. Altre attempate e non più belle. Gli uomini le prendevano fra le braccia e le facevano roteare al ritmo delle ballate più allegre, in attesa di vedere la padrona di casa e di accogliere l’arrivo del re. La giovane domestica insonne portò bracciate di legna per rinvigorire il fuoco. Non era suo compito occuparsi del rifornimento di legna, ma si era offerta volontaria e l’anziana domestica che avrebbe dovuto farlo al posto suo e che era afflitta da dolorosi reumatismi, non aveva fatto che ringraziarla. Mentre usciva nuovamente nel freddo gelido di dicembre, vide finalmente arrivare una carrozza e facendo finta di scegliere i ciocchi migliori, si attardo nella legnaia. Quando la carrozza si fermò, vide il re scendere in compagnia di Megyery e del cardinale Forgàch. Corse a perdifiato sperando che nessuno la notasse e si fermò bruscamente davanti a loro, rischiando di scivolare sul ghiaccio. “Perdonatemi…” disse ansimando e guardandosi intorno impaurita. Megyery le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla. “Non temere… siamo qui per porre fine a tutto.” Disse. La giovane scosse la testa e prese fiato. Con una mano poggiata sul cuore come a sottolineare la sua sincerità disse: “ Non mangiate la torta. Non mangiatela vi prego.” Ansimò. “Cosa dici?” intervenne re Mattia fissandola con insistenza. “E’ avvelenata.” Continuò lei e corse di nuovo verso la legnaia con il cuore che le rimbombava nelle orecchie più per la paura di essere stata vista che non per la corsa. Non sapeva se le avrebbero creduto e sperava non la seguissero fin lì. Mise il viso fuori e vide che i tre parlottavano tra loro e poi si dirigevano verso l’entrata. La giovane chiuse gli occhi e prese un profondo respiro prima di caricarsi di ciocchi e tornare dentro. C’erano tutti. Tutti coloro che avrebbero presenziato alla seduta di parlamento a Presburgo e anche molti nobili espressamente invitati dalla contessa. La musica si fermò quando il re fece il suo ingresso e tutti porsero i loro saluti con profondi inchini e parole di augurio. Fu allora che la contessa fece la sua comparsa in cima alla scalinata. “Buonasera mie cari. Spero di non avervi fatto attendere troppo.” Disse con ostentata sicurezza. Il silenzio cadde nella sala. Ognuno di loro la guardava con ammirazione, stupore, timore e curiosità. La pelle era lucida e bianca, la bocca rossa più delle ciliegie mature. Gli occhi già scuri e profondi per natura, erano ancora più intensi grazie al sapiente trucco. I capelli erano cosparsi di perle e pietre preziose e l’immancabile gorgiera le stringeva l’esile collo. In un fruscio di velluto, scese la scala e tutti gli invitati le porsero il loro saluto e il loro ringraziamento per la bella festa. Re Mattia rimase immobile e attese che fosse lei a muovere verso di lui per salutarlo. Erzsébet non sopportava d’essere inferiore a nessuno, nemmeno al re, ma fu costretta ad avvicinarglisi e inchinarsi al suo cospetto. “Contessa Bàthory, siete più affascinante che mai e la vostra ospitalità insuperabile.” Disse lui senza sorridere. “Sono felice che sia di vostro gradimento.” Rispose quasi sibilando. Si voltò verso gli altri invitati e scorse Megyery. Un moto di rabbia le rivoltò lo stomaco, ma fingendo un’assoluta indifferenza, invitò tutti a prendere posto a tavola. Le salse accompagnarono la carne ben rosolata di lepre, mischiata a quelle di alcune serve uccise due giorni prima. I complimenti per la tenerezza e il gusto impeccabile la fecero sorridere. Il vino scese a fiumi nei calici e sciolse anche le lingue più legate. Le mani arraffavano la carne, spezzavano il pane, alzavano i calici. Le bocche masticavano rumorosamente, inghiottivano, trangugiavano, ridevano e parlavano sputacchiando saliva, residui di cibo, spruzzi di vino. Erzsébet toccò appena un trancio di carne. Non aveva fame. L’unica cosa che desiderava era che quella giornata finisse in fretta; riappropriarsi del castello, ascoltare il silenzio e dimenticare i nemici. Un sorriso le si dipinse sul viso. Il ricordo della notte precedente non faceva che balenarle nella mente e infon- derle un senso di serenità e potere. Percepiva ancora le mani gelide sul suo corpo, l’eccitazione, l’inebriante afrore delle erbe bruciate. “Vi state divertendo?” domandò Megyery a un certo punto. Non lo aveva sentito arrivare quando dalla sua postazione si era spinto fin dietro la sua sedia. “Come voi d’altronde.” Rispose irritata. “Presto non avrete più quel sorriso, ve lo avevo promesso tanto tempo fa e ora siamo arrivati alla fine contessa.” Le sussurrò all’orecchio. “Non credo sappiate ciò che state dicendo Emerich. Il tempo mi darà ragione.” Megyery fu sul punto di rivelarle che sapevano che la torta che avrebbe fatto il suo ingresso di lì a poco era avvelenata, ma si morse il labbro e lo tenne per sé. Perché rovinare la sua attesa? Sorridendo vittorioso, tornò a sedersi al suo posto e alzò il calice in direzione della contessa che ricambiò il brindisi. I piatti di portata furono tolti dalla tavola. Il pane avanzato raccolto in una cesta e il vino cambiato. Due giovani ser- ve fecero il loro ingresso con un vassoio grande quanto la ruota di una carrozza. Sul vassoio, una torta dall’aspetto magnifico faceva bella mostra di sé. Altre quattro serve misero i piatti puliti e aiutarono le due a posare la torta su di un vicino tavolino. Erzsébet aveva uno sguardo beato e un lieve sorriso. Aveva ragione Megyery: era arrivata la fine… ma non certo per lei. “Oh ma che splendore!” disse la baronessa di fronte a lei quando fu posata la fetta nel piatto. Alcune gocce di miele scendevano lente da sopra la morbida e dorata crosta. Tutti ebbero la loro fetta nel giro di pochi minuti. Anche lei ebbe la sua fetta di torta che naturalmente non avrebbe toccato. “E’ uno splendido dolce contessa. Ricordate alla vostra cuoca di dare la ricetta alla mia!” disse Megyery sogghignando. Le forchette incisero il dorato dolce e le bocche lo masticarono con golosità. Il miele produceva dolci filamenti che si posavano sulle barbe lunghe e sui menti glabri. Non ne rimase una sola briciola… tranne nei piatti della contessa, di Megyery, del cardinale Forgàch, in quello del re e in quello di Thurzò, prontamente avvertito da Megyery poco prima che il pranzo avesse inizio. Erzsébet osservò quei piatti ancora pieni con il terrore e la rabbia dipinti sul viso. I suoi nemici non mancarono di annuire col capo per comunicarle che sapevano e che quel dolce non avrebbe mai incontrato i loro palati. Erzsébet prese a guardarsi intorno, alla ricerca di un viso colpevole. Le domestiche andavano e venivano per portare altro vino e altra acqua o per togliere di mezzo i piatti vuoti. Solo una cercò con lo sguardo i piatti pieni e poi sollevo il viso verso di lei. Doricza. “Era superba questa torta!” disse la baronessa di fronte a lei. Erzsébet annuì continuando a guardare fisso gli occhi di Megyery. Se avesse ascoltato il suo istinto, sarebbe corsa verso di lui e gli avrebbe spinto in bocca tutta la fetta di torta. Se non fosse morto per il veleno, sarebbe morto per soffocamento. Ma non poteva. Non poteva fare più nulla se non difendersi con le unghie e con i denti come aveva sempre fatto da che era nata. Il pranzo finì. L’orchestra suonò per tutto il giorno. Il giocoliere allietò il pomeriggio fino a che giunse la sera e l’ora della cena. La gran parte degli invitati si chiuse nelle stanze e non presenziò alla cena a causa di forti dolori all’addome e crisi di vomito e dissenteria. Fu data la colpa a una qualche forma di influenza. Alcuni di loro morirono nelle settimane seguenti; altri riuscirono a scamparla con imponenti cure. I giorni di festa terminarono e gli ospiti partirono. Non si fece parola della faccenda che sarebbe stata discussa in parlamento ed Erzsébet rimase di nuovo sola nel suo castello. Furiosa più che mai. Per giorni interi non mise piede fuori dalla sua stanza nemmeno per mangiare o bere. Tra le mani stringeva la pergamena con le maledizioni fatta da Darvulia. Ripeté infinite volte le frasi che avevano per soggetto i suoi nemici, ma neppure quel rito riusciva a calmarla e a farla sperare in un cambiamento positivo della sua situazione. Per la prima volta in tanti anni, pianse. Le lacrime le ricoprirono il volto e scesero luccicanti sull’abito. Il trucco si sciolse sugli occhi dandole l’aspetto di una grottesca maschera, ma non poteva far pena quello spettacolo della contessa piangente. Non piangeva per tristezza, per dolore o perché d’improvviso si fosse resa conto di tutto il male arrecato. Piangeva di rabbia, di frustrazione come quei bambini capricciosi che non possono avere ciò che vogliono, quando vogliono e si lasciano andare a un accesso d’ira violenta. “Jò!” gridò con la voce rotta. “Sì contessa.” Arrivò lei di corsa. “Porta quella nuova. Come si chiama… Doricza, nei sotterranei.” “Sì contessa.” Rispose sorridendo. Non le era piaciuta fin dal principio quella nuova serva. Troppo bella, troppo bionda. Con quegli occhi grandi e luminosi del colore del cielo. Erzsébet scese veloce le scale e ordinò che venissero preparati in fretta e furia i bauli. Doveva abbandonare il castello, ma prima avrebbe punito come si doveva quella lurida cagna. Avrebbe pagato caro quell’affronto! V La seduta era cominciata. Un castellano era stato ascoltato per molte ore riguardo ciò che si diceva accadesse nel castello di Csejthe. Fu depositata la lettera di Berthoni e ascoltati Megyery e Ponikenus. Il re ascoltava incredulo. Thurzò aveva già provveduto a convocare e spiegare tutto ciò che si stava verificando ai generi di Erzsébet che non riuscivano a capacitarsene. Per amore delle loro mogli e del loro buon nome, chiesero che tutto rimanesse segreto, ma Thurzò non credeva che tale soluzione avrebbe accontentato re Mattia né tantomeno la chiesa. “Questo è ciò che succede da anni a Csejthe maestà. Gli stessi abitanti chiedono giustizia e che si faccia luce su questa vicenda. Molte sono le ragazze scomparse e non solo contadine.” Terminò il castellano. “Dovete recarvi subito a Csejthe.” Ordinò il re, guardando Thurzò. “Vi chiedo qualche giorno maestà.” Rispose titubante. Una goccia di sudore gli solcò la fronte. “Non abbiamo già atteso troppo a lungo?” domandò duro Megyery. “Non saranno che pochi giorni…” cercò di spiegare il palatino, ma il re alzò una mano e lo zittì. “Non attenderemo oltre. Partirete oggi stesso e metterete la contessa di fronte alla verità. Pretendo che tutto questo abbia fine. Io non osavo credere a certe voci che pure si udivano già da tempo. Non credevo che una donna potesse arrivare a tanto.” Nella stanza scese il silenzio. “Dio non può aver creato un tale mostro. È certamente opera del demonio.” Disse il cardinale Forgàch. “Sarà la chiesa a stabilirne la condanna. Per lei e per i suoi accoliti.” “No!” sbottò Thurzò facendo voltare tutti verso di lui. “No… perdonatemi, ma dobbiamo pensare alla sua famiglia. Non dimenticate l’onorabilità della famiglia Bàthory; non dimenticate l’eroicità della famiglia Nàdasdy. E poi i suoi figli… che ne sarà di loro se la cosa diventasse di dominio pubblico? Cos’accadrebbe?” “Voi state dicendo che quell’essere del demonio non va punito per ciò che ha fatto solo in funzione della sua nobile origine? Voi mi state dicendo che la vita di centinaia di innocenti non ha valore di fronte alla sua nobiltà?” chiese rabbioso il cardinale. “Chiedo solo che si rifletta sulla condanna da applicare. Il convento di Varanò potrebbe essere la sua dimora futura. La preghiera potrebbe salvare la sua anima come il vostro cristianesimo insegna.” Il cardinale rise amaramente. “Questo è ciò che dobbiamo attenderci da un palatino protestante.” Sentenziò. Thurzò si morse la lingua per non replicare. “Ora basta. Si farà ciò che io dico. Thurzò si recherà a Csejthe e la contessa subirà la giusta condanna. La nobiltà e l’onorabilità delle famiglie da cui proviene non la salverà dalla giusta punizione. Per quanto riguarda i suoi accoliti… il rogo li attende.” Concluse re Mattia. Thurzò abbassò la testa e annuì debolmente prima di abbandonare la stanza e dirigersi verso Csejthe. Durante il viaggio fece fermare la carrozza più volte, con l’intento di rimandare l’incontro con la contessa o forse per darle il tempo di fuggire. Il suo legame di parentela con lei avrebbe di fatto provocato un’onta indelebile su di lui e sui figli di Erzsébet. Non poteva non tenerne conto. Il sole era pallido e alto nel cielo. Le giornate riprendevano ad allungarsi, regalando qualche momento di luce in più. Quando arrivò in prossimità del castello fece di nuovo fermare la carrozza. Un senso di ansia gli provocava una forte nausea. Passeggiò sbuffando nuvole di vapore acqueo, sfregandosi le mani fredde, infine risalì sulla carrozza. Non poteva più rimandare oltre. VI Doricza venne scagliata giù dalle scale. Rotolò più volte, provocandosi dolorose contusioni alle braccia e alla fronte. Si fermò contro il pavimento di pietra. Sollevò a fatica il viso e vide davanti a sé una cella in cui erano rinchiuse cinque giovani ragazze nude. Tossì e un rivolo di sangue le uscì dalla bocca. Con mano tremante si asciugò le labbra e guardò con terrore il sangue che vi si era depositato. Qualcuno la prese per i capelli costringendola a mettersi in ginocchio e poi ad alzarsi. La trascinarono all’indietro e rischiò più volte d’inciampare nei vari dislivelli della pietra. Due vecchie, che riconobbe come Jò Ilona e Dorkò, le sollevarono le braccia e la incatenarono stringendo forte polsi e caviglie. Stava succedendo tutto talmente in fretta da non darle il tempo di domandarsi cosa avessero intenzione di farle. Improvvisa come un fulmine, le tornò alla mente l’immagine di lei che sollevava il piatto, si guardava attorno per controllare che il re non avesse mangiato la torta e poi si voltava, come al rallentatore, e i suoi occhi incrociavano quelli della contessa. Cos’aveva letto in quello sguardo? Che sapeva. Questo aveva letto. Non sapeva come potesse averne la certezza, ma di sicuro sapeva e se non si faceva scrupoli ad avvelenare il re… che cos’avrebbe potuto fare a lei? I passi in fondo al corridoio le fecero venire i brividi. Erano lenti, cadenzati, come se volesse tenerla sulle spine. Farla aspettare in modo che immaginasse da sola le torture più orribili. Le ragazze nella cella piangevano e si stringevano l’un l’altra per combattere contro il freddo e contro la paura. Doricza abbassò lo sguardo ai loro piedi e vide qualcosa che per poco non le fece perdere la ragione. Un brandello di carne ancora attaccato a un braccio di donna e un altro poco più in là che somigliava… no, era un polpaccio! Solo in quel momento notò le labbra delle ragazze. Erano coperte di rimasugli di sangue, così come le mani. Avevano mangiato una persona! Erano state costrette da chissà quanti giorni di fame, a cibarsi di una di loro. Una di loro che probabilmente aveva patito torture orribili e che poi era stata smembrata e gettata nella cella. D’improvviso cominciò a girarle la testa e davanti a sé, la figura scura della contessa si stava avvicinando con in mano quel che poteva sembrare una lunga frusta. “Come hai osato?” domandò Erzsébet. “Non ho fatto niente… lo giuro… non ho fatto niente.” Cercò di difendersi. “Io so che non è vero come lo sai tu. Niente può venirmi nascosto. I tuoi occhi sono incapaci di mentire e per questo ti verranno risparmiati. Voglio guardarli e vederci dolore e terrore, fino a quando la morte non ne spegnerà la luce.” “No, vi prego… no!” gridò lei. “Zitta!” le intimò Jò colpendola con un bastone sulla nuca.” Un rivolo di sangue scese sulla schiena. “Vuoi sapere che cosa ti accadrà dopo quello che hai fatto?” domandò Erzsébet godendo nel vederla terrorizzata e inerme. “Tutto il tuo corpo proverà il dolore più puro e intenso. Ogni parte di te sarà battuta e niente e nessuno potrà salvarti.” Le fece il giro attorno, seguendo il profilo del corpo della giovane con il manico della frusta. Si fermò dietro di lei e prese a frustarla con un odio e una forza tali da strapparle grida acute e incessanti, fino a quando la contessa non comandò a Dorkò di tapparle la bocca con qualsiasi mezzo. Mentre sulla schiena le si aprivano profondi solchi, Dorkò chiuse le labbra di Doricza con gli spilloni. Le frustate continuarono per un tempo infinito e poi d’improvviso si fermarono. Jò prese un grosso barattolo e v’immerse la mano. Solo quando il contenuto del pugno le fu gettato addosso, seppe di cosa si trattava: sale. Un bruciore lancinante, unito al dolore la portò vicina allo svenimento. Majorova non era presente quel giorno, ma avrebbe di certo approvato quella nuova pratica. Ficzkò dal canto suo, rimaneva in attesa di una possibile amante. Doricza chiuse gli occhi, esausta, ma una sberla potente la costrinse a tornare vigile. Gli spilloni si conficcarono ancora più in profondità e uno le trapasso la lingua. “Ti piace il re?” domandò Erzsébet, passando la frusta a Dorkò che riprese a sferzare la schiena e le gambe. “Lo so che non puoi parlare, ma… fai dei cenni. Ti piace il re?” domandò ancora. Doricza sapeva in cuor suo che anche se avesse mentito, questo non le avrebbe potuto salvare la vita. Annuì. “Ti eccita? Vorresti aver il suo corpo sul tuo?” Doricza non rispose subito. Non aveva mai provato l’amore fisico. Non sapeva esattamente che cosa volesse dire, ma di certo il re era un uomo affascinante. Chi mai gli avrebbe detto di no? Annuì. Erzsébet sbottò in una risata così forte da far quasi tremare le mura. “Una serva! Una misera serva senza futuro che s’invaghisce del re e crede di potersi mettere contro di me per salvargli la vita! Credi forse che lui si ricorderà di te? Credi forse che ti abbia guardata come si guarda una donna? Sei una vile, schifosa, sporca, ignorante serva! Solo questo sei.” Le parole della contessa le fecero più male ancora delle frustate. Era una serva, sì, ma era anche una donna. Una donna buona e curiosa che se solo avesse avuto le possibilità, avrebbe studiato il latino e i grandi poeti. Invece era nata povera. Aveva dovuto presto mettere da parte tutti i suoi sogni e rimboccarsi le maniche. Era certa di avere tanto da dare e tanto da imparare, ma forse la vita non gliene avrebbe data la possibilità. Era altrettanto certa che il re era sopravvissuto grazie a lei e se ne sarebbe ricordato anche se fosse morta. Aveva fatto ciò che andava fatto; ciò che era giusto fare e, anche sapendo quale prezzo stava pagando, l’avrebbe fatto in ogni caso. Le lacrime scesero a bagnarle il viso e si maledisse per non essere riuscita a trattenerle; per aver ceduto al dolore dell’anima, quando era riuscita a combattere così coraggiosamente quello del corpo. “Cosa ti accade? Sei pentita?” domandò Erzsébet fraintendendo quel pianto. Doricza aprì gli occhi e senza farsi impressionare, affrontò lo sguardo della contessa. Scosse la testa in segno di diniego. Il sorriso sbiadì sul volto di Erzsébet e al suo posto comparve una sorta di ringhio. Dorkò riprese a frustarla e Jò a spargere manciate di sale sulle ferite aperte. Presa dalla furia e senza più nessun autocontrollo, Erzsébet prese tutti gli arnesi depositati sul tavolo. Piantò gli uncini nei seni, con un paio di grosse tenaglie tranciò i capezzoli, piantò sottili coltelli nei piedi, con le pinze strappò via le unghie. Nonostante tutto, Doricza non svenne e non morì. Continuò a sopportare, mugolando, tossendo sangue che le si riversava dagli angoli della bocca cucita. Finiti tutti gli strumenti, prese l’attizzatoio, lo lasciò nel fuoco fino a che la punta non divenne incandescente e poi corse verso la sua vittima. Le gambe di Doricza non fecero resistenza ed Erzsébet infilò l’attizzatoio là dove nessun uomo ancora aveva avuto il permesso di entrare. Doricza fu colta da uno spasmo. Gli occhi si girarono nascondendo l’iride. Erzsébet spinse con tutte le forze nonostante le resistenze degli organi interni, fino a che la punta stessa dell’attizzatoio non fuoriuscì dalla schiena. Doricza vide solo buio. Dov’era la luce di cui tutti parlavano? E poi eccola! La vide. Una luce intensa e calda e la figura del re che le veniva incontro porgendole la mano e sorridendole. Dorkò tagliò la gola della giovane e attese che anche l’ultima goccia di sangue scendesse nella vasca. Erzsébet era fradicia di sudore e sangue, affannata e spettinata. Si guardò le braccia come se non fossero le sue e un’espressione di disgusto le si dipinse sul viso. Era tutta sporca. Doveva cambiarsi. Doveva rendersi presentabile. Non poteva certo rimanere in quello stato! Passò davanti alla cella e si soffermò a guardare le ragazze che aspettavano il loro turno. Tremavano, piangevano e cercavano di non guardarla. Sorrise gustando e immaginando le prossime torture, ma prima doveva cambiarsi quell’abito così rovinato e sporco. Salì in fretta le scale, soddisfatta per ciò che aveva appena fatto a quella serva traditrice. Si gettò nella stanza e si strappò l’abito di dosso. Con una pezza umida, si ripulì il viso, il collo, le braccia e parte dei capelli che cercò di sistemare. Prese un abito scuro di velluto e lo infilò in fretta e furia. Era pronta per tornare nei sotterranei quando qualcuno bussò alla porta. Chi poteva disturbarla? “Cosa volete?” domandò acida senza invitare il disturbatore a entrare. “C’è una visita per voi contessa.” Una visita? E chi poteva essere ancora? “Di chi si tratta?” “Vostro cugino contessa. Ha urgenza di parlarvi.” Ma com’era possibile che fosse di nuovo a Csejthe? Perché non la lasciavano in pace? “Digli che sto scendendo. Fallo attendere nello studio accanto al salone.” La domestica si allontanò dalla porta e in fretta e furia, Erzsébet s’imbellettò il viso, si ravviò un poco i capelli per dare un’idea di compostezza. Controllò di aver tolto tutte le macchie di sangue e si preparò alla fuga. Con addosso un mantello pesante che copriva l’intera figura, scese piano le scale e si fiondò nelle cucine. Da lì, uscì dalla porta accanto alla legnaia e camminando radente il muro, arrivò fin nelle stalle, dove Lazlo era impegnato a rastrellare il fieno. “Prepara la carrozza, presto.” Sussurrò facendolo spaventare. “Contessa! Non mi aspettavo una vostra visita. La carrozza è già pronta. Dorkò l’ha ordinato questa mattina e sono già stati caricati anche dieci bauli.” “Presto allora.” Disse correndo verso la carrozza indicata da Lazlo. Dorkò aveva fatto un ottimo lavoro, ma non poteva fermarsi ad avvertirla. Doveva salvare se stessa prima di ogni altra cosa. Lazlo l’aiutò a montare sulla carrozza e salì al posto di guida. “Fai meno rumore possibile.” Ordinò Erzsébet sporgendosi dalla porticina. Lazlo non aveva idea di cosa stesse accadendo. Sapeva solo che ogni ordine della contessa andava eseguito alla perfezione. Gli era mancata molto in quegli ultimi tempi. Non l’aveva più accolto nel suo letto, ma non poteva rimanere insensibile al suo fascino. Nemmeno ora che l’età cominciava a segnarle il volto. Non domandò dove doveva dirigersi perché già lo sapeva. Vi era un altro piccolo palazzo a Csejthe di proprietà della contessa. Era lì che doveva andare. VII Thurzò camminava avanti e indietro da più di mezz’ora e della contessa non si era vista nemmeno l’ombra. Dei passi concitati raggiunsero lo studio e si trovò dinnanzi Ponikenus con il fiato corto e il viso arrossato. “Palatino… la contessa fugge.” Prese fiato. “ l’hanno vista dirigersi verso il palazzo più basso.” Thurzò lo prese per le spalle e lo scosse forte. “Dite davvero?” domandò indignato. Ponikenus annuì. “Chiamate le guardie! Sono nascoste fuori dalle mura, in mezzo alla boscaglia!” gridò, indispettito dal fatto che non fossero state proprio le sue guardie ad avvertirlo della fuga. Ponikenus corse fuori e pochi attimi dopo ritornò con un nutrito gruppo di guardie. “Dove sono i sotterranei?” domando alla domestica che gli aveva aperto la porta. “Di là.” Rispose lei spaventata da quell’invasione. Thurzò corse verso la porta che dava sulle scale e in silenzio scese, seguito da Ponikenus e dalle guardie. Quando arrivò nei sotterranei gli si mozzò il fiato e il cuore perse un colpo. Dorkò stava travasando il sangue da una vasca a un’altra. Jò stava rimettendo in ordine vari attrezzi insanguinati. Ficzkò era seduto a gambe divaricate e muoveva ritmicamente la testa di una giovane morta all’altezza della sua vita. Non volle vedere di più o appurare che cosa realmente stesse facendo. Ordinò alle guardie di arrestarli tutti. Kata spostava il corpo senza vita di un’altra giovane. Ponikenus si avvicinò alla cella, dove le giovani piangevano a dirotto per la gioia di vedere di nuovo una speranza. L’uomo prese le chiavi, aprì la cella e gettò loro il suo mantello e quello di Thurzò per coprirsi. Non gli sfuggirono i resti di un’altra giovane e il viso sporco di sangue delle sopravvissute. Thurzò si avvicinò alla giovane che fino a poco prima era stata il giocattolo di Ficzkò; con un piede la voltò e fece fatica a trattenere il vomito. Tutto il corpo era completamente coperto di piaghe, la bocca era strappata in più punti come se fosse stata cucita e poi scucita in modo barbaro, ma ciò che più di tutto lo fece addolorare, fu riconoscere in quel viso lo stesso che aveva salvato la vita del re, di Megyery, del cardinale Forgàch e la sua. Quella ragazza, n’era certo, aveva pagato caro quell’atto di generosità e altruismo. Se fino a poco prima aveva creduto che fosse meglio lasciare che la contessa fuggisse lontano, ora non poteva più chiudere gli occhi e lasciarla andare. Non dopo quello che aveva visto. “Presto! All’altro castello!” gridò furioso. Erzsébet aveva pensato a tutto. Suo cugino Gàbor le avrebbe dato ospitalità in Transilvania e non aveva più da temere nulla. Una volta arrivata, avrebbe trovato un buon castello tutto suo dove poter alloggiare e avrebbe trovato altre serve e altre vittime. Thurzò non avrebbe fatto in tempo a raggiungerla. Fece caricare gli ultimi bauli che aveva fatto portare lì precedentemente, subodorando il pericolo. Prese con sé tutti i gioielli e li trasferì in un baule più piccolo che avrebbe tenuto accanto a sé con la cassetta degli strumenti di tortura e uscì. Sollevò il viso quando sentì un gran frastuono e s’impietrì quando vide Thurzò a capo di un piccolo esercito di guardie. “Fermatevi contessa! Non rendete tutto più difficile.” “Cosa volete cugino? Sto per partire per la Transilvania e non ho tempo da perdere.” Rispose infastidita, come se quel contrattempo fosse davvero inaspettato e senza senso. “Arrestatela prima che la uccida con le mie stesse mani!” ordinò Thurzò. PARTE QUINTA I Era il due gennaio quando iniziò il processo. Erzsébet era guardata a vista nel suo castello di Csejthe e non venne chiamata a presenziare. Il giudice, Teodosio Sirmiensis prese posto davanti agli incriminati, mentre Gàspàr Kardosh, cancelliere e Gàspàr Bajary, castellano di Bicse, diedero il via agli interrogatori. “Come mai non è presente la contessa?” domandò il re, infastidito dalla scoperta. “Lasciate che vengano interrogati i suoi accoliti prima. Non mettiamo in piazza la vita della contessa senza che sia necessario, vi prego.” Il re sentì un moto di rabbia salirgli dallo stomaco e fu sul punto di sferrare un pugno in pieno volto a quell’indisciplinato che osava dargli dei consigli, ma poi si ricordò di essere il re e mantenne la calma. “Non lascerò che la passi liscia palatino. Ricordatelo.” Sentenziò duro. “Chiamo a testimoniare Ujvàry Jànos detto Ficzkò.” Disse in tono forte Gàspàr Bajary. Ficzkò fu fatto alzare da una guardia e portato al cospetto del giudice. Lo fece inginocchiare con un colpo alla schiena e Bajary gli si parò davanti. “Il tuo nome è Ujvàry Jànos non è vero?” “Sì.” “Eri a servizio dalla contessa Erzsébet Bàthory?” “Sì.” “Hai preso parte alle uccisioni?” “Sì.” “Quante giovani donne hai ucciso con le tue sozze mani?” “Più di trenta.” “E’ stata trovata una pergamena nella quale erano appuntati ordinatamente i nomi delle vittime e a un conto approssimativo, risultano essere più di seicento. Chi ha ucciso le altre?” “Alcune io, alcune Dorkò, altre Jò Ilona.” “E la contessa quante ne ha uccise?” “Non saprei.” “Chi le torturava prima di assassinarle?” “A volte la contessa stessa, altre Dorkò e Jò Ilona.” “Sei consapevole del fatto che per questo sarai condannato a morte?” Ficzkò annuì. La sua morte sarebbe stata tragica come tutta la sua vita. Sarebbe morto nel dolore e nelle brutture esattamente come era vissuto e forse non era un male che fosse giunto alla fine di quella vita miserevole. Il giudice fissava quel nano deforme con visibile disgusto. Gli avevano comunicato cos’era intento a fare mentre le guardie giungevano nei sotterranei e solo il pensiero gli provocava un fastidioso senso di nausea. “Perché la contessa non è presente?” volle sapere. Tutti si voltarono verso Thurzò. “Perdonate signori… la contessa appartiene a una grande famiglia che ha servito questo paese con onore e dedizione. I suoi stessi figli mi hanno pregato di non rendere pubblica la sua colpa. Con quali occhi verrebbero guardati se si sapesse? Come potrebbero ancora camminare per le strade della nostra Ungheria a testa alta? Vi prego di pensare a loro e non alla contessa che è colpevole oltre ogni dubbio.” Rispose accalorandosi. “ Il re pretende giustizia e questo è ben più importante del desiderio dei figli della contessa.” Ribadì il consigliere del re. Il giudice abbatté il martelletto per richiamare all’ordine e fece un cenno a Kardosh di interrogare Dorottya Szentes. La stessa venne fatta inginocchiare di fianco a Ficzkò. “Il tuo nome è Dorottya Szentes, detta Dorkò?” “Sì.” Le domande si susseguirono a ritmo sostenuto e anche Jò Ilona e Kata furono interrogate. Di Erza Majorova non vi era traccia. Le loro colpe erano palesi e rafforzate dalle loro confessioni e dalle testimonianze di molti. Tra i testimoni, anche una giovane donna dai grandi occhi verdi e la capigliatura simile a onde di miele. Megyery non poté non riconoscerla sin dal primo istante. Quella era la giovinetta che aveva aiutato a fuggire tanti anni prima e che ora si era fatta donna e coraggiosamente si apprestava a testimoniare ciò che aveva visto e che per poco non aveva vissuto sulla sua stessa persona. Senza riuscire a trattenersi, gli si riempirono gli occhi di lacrime. Aveva visto lo scempio nei sotterranei subito dopo Thurzò, ma immaginare che anche quella creatura, che ora era lì davanti a lui, viva, magari con una famiglia… una persona che amava, parlava, sognava, piangeva, rideva… quella persona avrebbe potuto fare quella stessa fine, gli procurò un dolore soffocante al petto. Tanto forte che per un attimo fu sicuro che fosse il cuore e che sarebbe morto in quell’istante. Il giudice si consultò con Thurzò prima di proclamare la condanna. “In nome del potere che rappresento. In nome dell’Ungheria, io condanno Ujvàry Jànos, Dorottya Szentes, Jò Ilona al rogo. La condanna avverrà sulla piazza di Bicse, il giorno 7 gennaio. Kata non è stata ritenuta responsabile di alcuna morte o tortura e quindi sarà portata nelle prigioni, dove sconterà una pena di quattro mesi.” “Un momento…” intervenne il consigliere del re. “Quale sarà la pena per la contessa?” “Lasciate che di questo ce ne occupiamo in un altro momento.” Rispose Thurzò. “Il re non sarà soddisfatto. Non sono nemmeno state poste domande riguardo alle responsabilità dirette della contessa. Come mai non avete chiesto delle torture, dei bagni di sangue, del cannibalismo? Come mai non avete voluto sapere quante di quelle giovani hanno trovato la morte per mano sua? E quante figlie di nobili hanno trovato un’orribile morte?” domandò agitandosi. “Ho già spiegato i motivi di questa scelta. Il re non potrà aver nulla di cui lamentarsi. Per quella donna sarà più do- loroso vivere in una cella senza poter sfogare i suoi istinti piuttosto che trovare la morte e raggiungere il demonio che pure adora.” Il consigliere scosse la testa, ma non ebbe modo di controbattere. Le guardie fecero sollevare i quattro e li spinsero fuori dall’aula. Li attendevano le celle di Bicse. Come anticipato dal consigliere, il re non fu soddisfatto della sentenza. Non ammetteva che Erzsébet potesse sopravvivere a ciò che aveva commesso, ma non desiderava andare contro la decisione del palatino nonostante potesse. Se fosse stato per lui, Erzsébet sarebbe stata giustiziata sulla pubblica piazza esattamente come quegli altri tre disgraziati, invece di stare nella sua comoda stanza a Csejthe. Ma forse aveva in fondo ragione anche il palatino. Una condanna a vita, reclusa in quella stanza senza niente e nessuno, l’avrebbe logorata più della morte e l’onore delle famiglie a cui apparteneva poteva dirsi salvo. La portantina si fermò quando arrivarono sulla piazza di Bicse. I pali erano irti e le cataste di legna ne circondavano le basi. Il carnefice era pronto e non attendeva altro che l’ordine di agire. Tutta la popolazione era presente all’esecuzione come se fosse un spettacolo di teatro. Tutti erano smaniosi di vedere gli accusati, morire e allo stesso tempo erano intimoriti da ciò che avrebbero visto. La morte attrae e respinge sempre allo stesso modo fin dalla notte dei tempi. “Jò Ilona.” Chiamò il consigliere del re. Jò fu spinta in malo modo su per le scale del patibolo e rischiò più volte d’incespicare negli scalini di legno, fino a che non venne tirata dallo stesso carnefice. Due uomini la legarono al primo palo sotto il quale non vi era legna e il carnefice si avvicinò con una grossa pinza. “Le tue mani hanno torturato, ucciso e smembrato giovani donne e per questo, prima che il tuo corpo sia dato alle fiamme e che il demonio ti prenda con sé per l’eternità, ordino che ti siano amputate le dita delle mani con cui hai commesso i fatti.” Sentenziò il consigliere guardandola con odio e disgusto. Il carnefice prese una delle mani, applicò la pinza alla radice dell’indice e chiuse con forza. Jò si lasciò andare a un grido terribile, ma il carnefice non si fermò né tentennò. Strappò un dito dopo l’altro fino a quando lei svenne e come fosse spazzatura, fu gettata tra le fiamme che ormai lambivano vivacemente il palo a lei destinato. Non ci fu bisogno di legarla ad esso. Già lei stessa, legata come un salame e priva di forze, non riuscì a fare che pochi movimenti prima di bruciare del tutto. “Dorottya Szentes, per gli stessi motivi citati poc'anzi, ti verrà somministrato lo stesso trattamento.” Disse il consigliere. Dorkò non resistette a lungo e dopo il secondo dito, svenne anch’ella, domandandosi in quello stesso istante come avevano potuto resistere a tante torture le giovani di Csejthe, se lei che si considerava di dura scorza non resisteva a così poco. Il suo corpo sparì tra le fiamme e qualcuno del popolo fu certo di vedere in quelle fiamme il ghigno del maligno che veniva a prendersi l’anima dei suoi servi. “Ujvàry Jànos, considerata la tua giovane età e il fatto che tu sia stato a servizio dalla contessa per un tempo più breve delle già giustiziate Dorkò e Jò, prima che il tuo corpo sia dato alle fiamme, vogliamo concederti la morte per decapitazione.” Ficzkò camminò verso il carnefice e persino gli sorrise come se la morte fosse l’ultima delle sue preoccupazioni. S’inginocchiò e posò il mento sul ceppo. Non ebbe il tempo di osservare i volti che lo scrutavano dalla folla, che il palòs gli tranciò la testa. Anche il suo corpo fu gettato tra le fiamme. Lo spettacolo era finito. Rimaneva solo la primadonna, sola nel suo castello. II Re Mattia sbuffava come una locomotiva. Non voleva sentire ragioni. Aveva ceduto davanti alla richiesta di Thurzò e davanti alle suppliche dei generi della contessa, ma non aveva alcuna intenzione di accettare che a quella donna venisse concesso di vivere libera nel suo castello. “Non lo accetto!” “Io avevo fatto presente al palatino che non sareste stato soddisfatto della condanna, ma lui non ha voluto sentire ragioni, maestà.” Si giustificò il consigliere. “Chiamatelo subito!” ordinò furibondo. Era ancora lui il re, fino a prova contraria e non avrebbe permesso che tutto ciò che aveva fatto la contessa venisse insabbiato in quel modo. Thurzò arrivò e subito si tolse il cappello e fece un breve inchino. “Mi volevate parlare, maestà.” “Lasciateci soli.” Ordinò ai consiglieri presenti nella stanza. Tutti uscirono e la porta a due battenti fu richiusa. “Che cos’avete in testa? Cos’avete intenzione di fare con la contessa? Non è già stata una burla che non si sia neppure presa il disturbo di presentarsi davanti al giudice?” Thurzò mise le mani avanti come a cercare di frenare quella valanga di domande che sottintendevano altrettante accuse. “Maestà, vi ho già spiegato i motivi che mi hanno indotto ad agire in quel modo. Abbiate pietà… non di lei, ma della sua famiglia.” “Non m’interessa un accidente della sua famiglia!” sbottò col viso rosso e le vene del collo gonfie. “Non mi venite a parlare della sua famiglia! Dove le mettiamo le famiglie che ancora oggi piangono le loro figlie? E dove mettiamo l’indignazione di tutto il paese di Csejthe, delle nobili famiglie a cui è stato fatto un grave torto. Dove mettiamo l’indignazione della chiesa che reclama essa stessa di poter giudicare la contessa. Per rispetto a pochi Bàthory e pochi Nàdasdy, andiamo contro a tutti gli altri? Questo vi sembra giusto? Voi dovevate agire secondo coscienza, per il bene dell’Ungheria… e invece vi siete fatto intenerire da qualche parola o forse comprare… non mi riguarda. Ma se siete riuscito a risparmiarle la forca, non riuscirete a risparmiarle il carcere a vita!” Si alzò e passeggiò fino alla finestra, mentre Thurzò si guardava i piedi. “Forse su una cosa avete ragione: potrebbe essere per lei una condanna peggiore della forca. Ma sarà trattenuta al castello di Csejthe, nella sua stanza… e la porta della stanza dovrà essere murata. Non riceverà visite… mai e per nessuna ragione. Le stesse finestre dovranno essere murate, eccetto una piccola fessura che servirà per il ricambio d’aria.” Si voltò di nuovo verso Thurzò. Le mani dietro la schiena e lo sguardo duro. “Il cibo le sarà passato da un’altra fessura che sarà lasciata nella muratura. Non avrà acqua per lavarsi, non avrà luce per specchiarsi, non avrà abiti tranne quelli che ha indosso. Espleterà i suoi bisogni in quella stessa stanza e lì rimarranno. Voglio che imputridisca giorno dopo giorno e che l’aria che respira puzzi di orina. Voglio che si penta di tutto quello che ha fatto e che desideri la morte più di quanto abbia mai desiderato la vita.” Concluse re Mattia. “Nemmeno i figli potranno vederla?” “No! Che cosa non vi è chiaro palatino? Hanno già ottenuto di vederle risparmiata la vita… nel resto non dovranno mettere becco. Potranno al massimo parlarle da dietro il muro, ma non più di una volta al mese. Credo di non avere più nulla da aggiungere. Fate come vi ho detto.” Thurzò non osò controbattere. Annuì, s’inchinò e lasciò gli appartamenti reali. In fondo era ciò che si meritava. Come poteva biasimare la decisione del re? Uscì e respirò a pieni polmoni l’aria gelida. Un tiepido sole spuntava tra le nubi che parevano essere sempre cariche di neve da qualche giorno a quella parte. Salì sulla carrozza e comunicò di portarlo a Csejthe. “Aspettate! Aspettate!” gridò qualcuno. Il cocchiere si fermò all’istante, nonostante quell’ordine non fosse venuto dal palatino. Thurzò si sporse fuori e vide sopraggiungere Megyery e Ponikenus. Raggiunsero di corsa la carrozza. “State andando a Csejthe?” domandò Megyery con il fiato corto che si condensava in spesse nuvolette bianche. “Sì.” “Vi dispiace se vi accompagnamo. Credo sia nostro diritto poter vedere la contessa prima che venga murata.” Thurzò ebbe un tuffo al cuore quando apprese che erano al corrente della condanna. “Come fate a saperlo?” domandò un po’ indispettito. Megyery agitò la mano come a sottolineare che non aveva importanza, ma Thurzò immaginò che ci fosse anche il suo zampino nella decisione del re. “Non ve lo posso impedire.” Rispose, aprendo la portina e invitandoli a salire. Il viaggio fu più lungo del solito. Incontrarono due mandrie di capre che fecero fermare la carrozza per un tempo infinito. Iniziava già a sbiadire la luce del giorno quando arrivarono nei pressi del castello. Tutti e tre si fermarono dinanzi alle mura e guardarono per un attimo le alte finestre dietro cui si nascondeva un essere diabolico e senza cuore. L’ultima serva rimasta a servizio aprì loro la porta e li fece entrare. Erzsébet era seduta accanto al fuoco e si guardava le mani come se fosse ipnotizzata. Per un attimo ebbero pietà di lei e pensarono che le fossero improvvisamente piombate addosso tutte le colpe, ma quel momento passò in fretta. Bastò che sollevasse il viso verso di loro. L’espressione non tradiva alcuna emozione; gli occhi erano talmente profondi e scuri e talmente crudeli da cancellare ogni sentimento di pietà. Rimase seduta, col busto eretto e le mani in grembo. “Contessa Bàthory, i vostri servitori sono stati giustiziati ieri sulla pubblica piazza… - disse Thurzò e subito dopo si schiarì la voce e riprese – il giudice non ha avuto pietà di loro nonostante fosse chiaro che la mente di tutto siete stata da sempre voi.” Erzsébet lo fissava sfidandolo apertamente. “Nonostante questo… per rispetto alla vostra antica casata e a quella del vostro defunto marito, il re vi ha concesso di non essere giustiziata e umiliata di fronte alla plebe, ma siete stata condannata al carcere a vita in una stanza del vostro castello… la vostra stanza.” Attese per osservare le sue reazioni. Erzsébet non si scompose né parlò. Alzò appena un sopracciglio e voltò il viso verso Megyery. “Siete soddisfatto?” domandò sibilando. Megyery rise sommessamente a quelle parole e poi ridivenne serio. “Mi divertite contessa. Sarei stato soddisfatto se le centinaia di vittime non fossero state tali. Sarei soddisfatto se avessi potuto intervenire molti anni fa, salvando svariate giovani donne, ma purtroppo, grazie alla vostra astuzia e soprattutto alle vostre nobili origini, non ho potuto fare altro che attendere che i tempi fossero maturi. Sapete… non ero soddisfatto della sentenza. Il fatto che vi abbiano risparmiato l’umiliazione e la vita, mi faceva davvero infuriare, ma poi ho riflettuto… avete fatto tutto questo per la vostra bellezza, per mostrarvi ai balli sempre in forma smagliante. Cosa ci sarà di peggio per voi che l’eterna solitudine? Cosa ci sarà di peggio che sapere che il vostro corpo sta appassendo nel buio di una tomba fatta apposta per voi? Respirerete, mangerete, berrete, ma non vedrete mai più la luce del sole. I vostri abiti marciranno con voi. Il vostro stesso puzzo v’impedirà di respirare. Mai più nessuno vi vedrà e ancor peggio… nessuno più perirà sotto le vostre mani. Questo sarà ancor peggio della morte, non credete?” Negli occhi di Erzsébet, per un solo rapido istante, ci fu il terrore puro, ma poi fece qualche passo verso di lui e sorrise. “Voi mi state condannando per qualcosa che non ho fatto. Forse qualche volta sono stata troppo dura con le serve che commettevano degli errori, ma questo non è quello che facciamo tutti? Mi avrete sulla coscienza per sempre Megyery e quando morirò, sarete il primo che verrà torturato dal mio spirito. Perché ricordate: il mio spirito è più forte della roccia di montagna. Ebbene… condannate una nobildonna come me solo per essersi presa qualche libertà con delle volgari contadine? E’ questo che volete fare? Fatelo! Ma non avrete mai pace e questo ve lo posso giurare sul mio stesso nome.” “Anche tentare di avvelenarci è stata una piccola libertà che volevate prendervi? Massacrare la serva che ci ha avvertiti era anch’essa una piccola libertà?” sbottò Thurzò a un tratto. “Mi meravigliate cugino. Avreste dovuto prendere le difese di una vostra parente, ma forse i vostri intrighi sono più forti del legame di sangue.” “Se avete salva la vita; se il popolo di Csejthe non potrà assistere al vostro rogo, è proprio merito di vostro cugino che si è fatto in quattro per voi. Non lo comprendo e non lo comprende nem- meno il re, ma così è. Forse è pentito ora che vi ha davanti.” Thurzò scosse la testa miseramente. “Fuori ci sono i muratori pronti. Ho mandato il cocchiere a reclutarli. Scegliete la stanza che più vi aggrada.” Disse deluso e arrabbiato. “Voi venite con noi. Porterete via i gioielli e gli abiti della contessa. Il re è stato chiaro. Non dovrà avere null’altro oltre a ciò che indossa.” Ordinò, rivolgendosi all’anziana serva e lei annuì, abbassando il capo. Erzsébet, sempre con un vago sorriso sul viso, salì le scale ed entrò nella sua stanza. Subito dietro di lei, il palatino e la serva che si affaccendò subito a portare via gran bauli di roba. “Donate tutto ai poveri. I gioielli li prenderò in consegna io.” Ordinò Thurzò. Salì le scale anche Ponikenus, seguito dai tre muratori ben piazzati e con secchi di sabbia e acqua. Si avvicinò a Thurzò e deglutendo prese la parola. “Vorrei avere qualche momento di solitudine con la contessa. Forse desidera confessarsi e chiedere perdono a Dio…” sussurrò. “E sia.” Rispose il palatino allontanandosi e chiedendo a tutti di uscire dalla stanza. Ponikenus chiuse la porta e fece qualche passo verso la contessa. Era terrorizzato da lei anche ora che non poteva nuocergli in alcun modo. S’immagino il volto del demonio che prendeva forma e che si confondeva con i lineamenti ancora belli di lei. Se la immaginò mentre correva verso il caminetto, prendeva l’attizzatoio e lo colpiva ferocemente alla testa. Tutto questo non avvenne ovviamente, ma l’immaginazione bastò a fargli accapponare la pelle. Erzsébet si voltò verso di lui, in attesa. “Contessa… forse desiderate il perdono di Dio e io sono qui per questo. Perché Dio, nella sua infinita bontà, vi ascolterà e vi perdonerà.” Erzsébet scoppiò a ridere, tanto da farsi venire le lacrime agli occhi. “Non m’interessa il vostro Dio! Ho già il mio e so che non mi abbandonerà tanto in vita come in morte. Anzi… in morte, avrò l’onore di servirlo ancoro più di quanto ho fatto in vita.” Rispose con tono crudele. Ponikenus fece un passo indietro. Se mai aveva visto un essere posseduto, si trattava certamente della donna che aveva davanti. Non osò aggiungere altro e proprio come se avesse il diavolo alle calcagna uscì dalla stanza. I muratori scardinarono la porta e mentre uno di loro si occupava di murare le finestre, un altro cominciava a darsi da fare con la porta. III Quanti giorni erano passati? Non lo sapeva. Forse erano settimane o forse addirittura anni. Il fetore in quella stanza aumentava di giorno in giorno. Le parve persino di sentire lo squittire di qualche topo. Il marito di sua figlia Kata le portava spesso del cibo che faceva passare dalla piccola fessura, ma nessun altro mai si era degnato di andarla a trovare. Forse era troppo il dolore di saperla rinchiusa o forse era ancora più forte il dolore di saperla colpevole di reati tanto aberranti. Si sentiva sporca, appiccicosa. L’odore dei suoi stessi escrementi accumulatisi era soffocante. In certi giorni la stanza sembrava un forno e in certi altri una ghiacciaia, ma non le era permesso ave- re coperte, legna da ardere e nemmeno più aria. Nemmeno Majorova era mai andata a farle visita. Forse aveva paura che qualcuno la notasse e incriminassero anche lei. Alla fine però, non le importava di nessuno. Non le creava alcun problema la solitudine a cui l’avevano costretta. Aveva almeno modo di meditare e di entrare in contatto con il maligno. Le mancava non poter dar sfogo alla rabbia… questo sì. Le mancava lasciarsi andare a momenti di lussuria. Una sottile fessura lasciava entrare appena un filo di luce… era giorno dunque. Il suo grande specchio non poteva essere spostato, ma le venne un’idea. Era troppo tempo che non rimirava la propria figura. Si avvicinò a tentoni e ne toccò la superficie con la punta delle dita. Prese un grosso barattolo. Chissà cosa c’era dentro quel barattolo? L’unguento? Il sangue di Ilona? Non lo sapeva, ma sarebbe servito allo scopo. Colpì con tutte le forze lo specchio che andò in frantumi. Subito si accosciò e ne raccolse una grossa scheggia. Non si accorse nemmeno dei numerosi tagli che si stava praticando. Con il suo prezioso oggetto, corse verso quello scarno raggio di luce; salì sulla sedia e posizionò la scheggia in modo da poter osservare il proprio viso. Forse in quell’istante perse davvero il poco di ragione che le era rimasta. Iniziò a tremare come se fosse stata colta da una febbre alta, mentre sentiva il cuore perdere colpi. Non poteva essere lei quella! Gli occhi erano cerchiati e la luce diretta li fece lacrimare rendendoli rossi. Profonde rughe solcavano la fronte alta, un tempo liscia e perfetta. Le labbra erano raggrinzite come due prugne vecchie e tanto pallide da sembrare quelle di un morto. Le palpebre superiori ricadevano sull’occhio come molli coperte lucide. Il gonfiore subito sotto gli occhi rendeva pesante lo sguardo, ancor più delle occhiaie e delle rughe. Cos’era accaduto alla sua bellezza? Come poteva il poco tempo passato in quella prigione, averla ridotta così? Si sentì cadere; il suo specchio di fortuna le cadde di mano e andò in piccoli frantumi. Crollò a terra con un terribile dolore al petto, senza riuscire a spiegarsi che cosa le stesse accadendo. Solo quando vide un’ombra farlesi incontro, comprese. La sua ora era arrivata e il maligno era pronto a prenderla per mano e portarla con sé. Erzsébet sorrise e le si illuminarono gli occhi. Tese il braccio destro, mentre col sinistro si teneva stretto il petto. Il maligno non aveva viso né consistenza, ma lei sapeva che era bello e possente. Ricordava la loro prima unione come fosse avvenuta solo poche ore prima. Le loro mani si toccarono e lei percepì tutte le promesse che avrebbe desiderato. L’attendeva la vita eterna, le fiamme dell’inferno, la perfezione del corpo e la vendetta. Era il 21 agosto 1614. Faceva caldo, ma non era la temperatura in quella stanza a riscaldare il suo corpo. Cadde in un vortice di fiamme gialle e rosse. Vive e voraci. Il suo corpo bruciò e fu avvolto dal dolore eterno. Attorno a sé, centinaia di specchi le rimandavano l’immagine del suo stesso corpo. Cominciò a ridere e ridere e ridere. Il suo vestito evaporò come una nuvola, la pelle del viso si tese. Gli occhi divennero di nuovo grandi, luminosi e più neri della notte. Vide il seno sollevarsi e ridiventare turgido, le gambe snelle, le caviglie sottili. I capelli le si sciolsero attorno al corpo. Neri come la pece e setosi come non ne aveva mai visti. La bocca assunse il colore del sangue e sporgenti canini spuntarono da essa. Sentì una voce. Ora va e compi la tua vendetta. Cammina sulla terra e porta la morte. “Sì mio signore.” Rispose in un sussurro mentre la vita se ne andava e i suoi occhi si spegnevano sul mondo che la circondava e si riaprivano… Conclusioni Ho deciso di scrivere un romanzo su questo personaggio realmente esistito, dopo aver effettuato alcune ricerche e averne cercato invano uno contemporaneo che parlasse di lei. Si parla sempre di Dracula senza sapere che questa donna misteriosa e potente fu la più grande serial killer di tutti i tempi. La sua crudeltà si fondeva con una lucida follia priva di ogni tipo di freno morale e supportata da ricchezza, potere e dalle losche figure che la attorniavano. Forse vittima di un destino non del tutto scelto. Forse vittima di quelle pecche genetiche derivanti dalla consanguineità dei suoi stessi genitori. Erzsébet non è stata solo una giovane donna affascinante e potente, ma anche una spietata omicida alla continua ricerca dell’elisir di eterna giovinezza. Era per lei inaccettabile invecchiare, lasciare che i propri lineamenti sottili cedessero sotto il peso dell’età. Era inaccettabile accontentarsi di essere un’amorevole madre o una fedele moglie. Lei voleva innanzitutto essere una donna desiderata e perfetta e per raggiungere questo obiettivo era disposta a tutto. Ma alla base di tutto c’era senza dubbio un bisogno assoluto di predominare. Solo torturando e uccidendo riusciva a raggiungere quella sorta di soddisfazione e quasi di serenità che diversamente era negata alla sua anima nera. Ho cercato di seguire il più possibile gli avvenimenti della sua vita senza stravolgerli, ma è evidente che i fatti sono stati filtrati dalla mia fantasia. In realtà, la contessa iniziò a uccidere dopo la morte del marito. In precedenza si era sempre fermata prima e si era “accontentata” di dare severissime punizioni. Ponikenus subentra al predecessore Berthoni successivamente alla morte di Ferencz. Dorkò, Jò Ilona, Ficzkò, Kata, furono realmente suoi servitori, ma i tratti del loro carattere sono opera di fantasia. Darvulia e Majorova lavorarono davvero per lei nei termini descritti, ma anche i loro tratti caratteriali ed estetici sono opera di fantasia. Molti spunti sul loro modo di fare sono tratti da descrizioni reali. Ebbe davvero quattro figli più uno che morì appena nato. Le furono attribuite molte relazioni sia con donne che con uomini. Il solstizio d’inverno fino al 1582 era stato il 13 dicembre, ma da quell’anno fu abbandonato il calendario Giuliano e adottato il calendario Gregoriano. Il solstizio quindi cadeva il giorno del 24. Solo più avanti fu nuovamente spostato al 21 per far sì che non coincidesse con la vigilia di Natale. Dorkò fu assunta solo nel periodo del matrimonio di Anna Nàdasdy, figlia di Erzsébet. Kata arrivò dopo la morte di Ferencz. STAMPA E RITAGLIA (meglio se su cartoncino)