Mario Cermignani - FP CGIL Lombardia
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Mario Cermignani - FP CGIL Lombardia
LEGALITA’ COSTITUZIONALE, PRINCIPIO DI CAPACITA’ CONTRIBUTIVA E NECESSITA’ DELL’IMPOSTA PATRIMONIALE La questione fiscale ed in particolare quella dei controlli pubblici sul corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, riguarda direttamente il tema generale, essenziale per l’esistenza ed il funzionamento di ogni organizzazione sociale, dell’equa ripartizione delle spese pubblico-collettive (per beni e servizi di interesse generale) tra tutti i componenti di un gruppo sociale organizzato. In presenza di un sistema tributario di fatto fortemente iniquo a danno dei redditi di lavoro dipendente ed assimilati (cioè soprattutto i redditi da pensione e quelli derivanti da altri rapporti assimilabili al lavoro subordinato), sui quali grava la quasi totalità del carico fiscale, a fronte (anche) di un’evasione fiscale e contributiva di dimensioni eccezionali e non più tollerabili, occorre una seria riflessione (cosa che ha fatto, e sta facendo, la CGIL) circa la necessità di istituire un’imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze, come misura minima di giustizia tributaria e sociale. La tassazione patrimoniale (proporzionale, ma, ancora meglio, “progressiva” ossia che cresce più che proporzionalmente al crescere del valore del patrimonio) si collocherebbe razionalmente nell’alveo del principio di capacità contributiva previsto dall’art. 53 Cost., proprio in quanto verrebbe a collegarsi ad un presupposto strutturale (il patrimonio soggettivo) indice effettivo di ricchezza e, dunque, di “forza economica”, secondo un nesso logico e necessario. D’altro canto, ciò sarebbe pienamente coerente con un concetto di capacità contributiva (nel senso di forza o potenzialità economica del soggetto passivo d’imposta), elaborato dalla Corte Costituzionale come criterio razionale/perequato di ripartizione dei carichi pubblici tra i consociati e come limite alla legittimità costituzionale della norma impositrice1. La Corte Costituzionale ha infatti delineato un concetto di “capacità contributiva” come “forza o potenzialità economica”, individuandone gli “indici” in fatti o sintomi espressivi di forza economica (e, dunque, di “ricchezza”) in senso lato2, dal novero dei quali non può (e non deve) escludersi il possesso di “patrimonio”: “il principio di capacità contributiva, nei limiti in cui è accolto nell’art. 53 Cost., risponde all’esigenza di garantire che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza, dai quali sia razionalmente deducibile l’idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta”3. Questa linea interpretativa ha portato, ad esempio, il Giudice delle Leggi a ricollegare l'art. 53 ad altre norme costituzionali, in particolare all’art. 41 (che afferma che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e che la legge determina i controlli e i programmi opportuni per indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini sociali) ed all’art. 42 (che stabilisce la proprietà pubblica o privata sui beni economico-produttivi e la “funzione sociale” di tale proprietà). Da ciò viene logicamente ricavata una nozione di idoneità alla contribuzione riferita (in modo assolutamente corretto) ad un criterio ampio di 1 2 3 A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino, 2003, 38 A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino, 2003, 38 Corte Cost. n. 156/2001, in www.cortecostituzionale.it forza/potenza (“rilevanza”) economica costituita anche (e soprattutto) dalla possibilità di operare sul mercato per effetto del “potere di comando sui beni e servizi” ovvero del “dominio dei fattori della produzione”4. Si tratta del riconoscimento esplicito (in particolare con l’affermazione della piena legittimità costituzionale dell’Irap), ai fini del riparto dell'onere fiscale, dell'effettivo potere economico di alcuni soggetti, derivante, in un sistema capitalistico, dal controllo/dominio dei mezzi di produzione (che assumono la forma di mezzi patrimoniali “privati”) e, conseguentemente, del processo lavorativo/produttivo (che, invece, nell’attuale e sviluppata struttura economica, ha acquistato un’oggettiva natura “sociale”). Ciò è in qualche modo rilevabile dalla stessa formulazione dell'art. 53 Cost., laddove viene previsto che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, stabilendo un nesso strutturale (potrebbe dirsi di “causalità”) tra “manifestazione di ricchezza” (o comunque di idoneità contributiva) e dovere solidaristico di concorrere alle spese pubbliche5. In questa duplice connotazione (oggettiva e soggettiva, nel senso di riferibilità ad un soggetto particolare) della idoneità alla contribuzione, occorre sottolineare la necessità di inserire lo stesso concetto di capacità contributiva nel quadro sistematico dei valori costituzionali, evidenziando la sua “contiguità” non solo con i fondamentali doveri di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), ma anche con altri principi contenuti nella Costituzione (in primo luogo, quelli di uguaglianza formale – nel significato di diverso trattamento normativo di differenti situazioni soggettive - e, soprattutto, di uguaglianza “sostanziale” ex art. 3 Cost.)6. A conferma della legittimità/possibilità (o, meglio, della attuale stringente necessità), nel sistema generale, di una tassazione patrimoniale accanto a quella sul reddito, può essere utile evidenziare la stretta connessione concettuale (e reale, cioè esistente effettivamente nella realtà economico-sociale) tra i fenomeni del reddito e del patrimonio “giuridicamente” rilevanti agli specifici fini tributari. C’è un punto fermo da cui partire: tutte le definizioni di reddito imponibile ricostruite dalla dottrina sulla base dell’esame delle varie norme positive che si sono stratificate nel corso del tempo, si incentrano sul concetto giuridico di patrimonio e, in sostanza, concordano nel ritenere che il reddito assunto ad oggetto dell’imposta relativa consiste in un incremento (o “accrescimento”) del patrimonio, imputabile ad un determinato soggetto con riferimento ad un intervallo temporale definito, e concepibile solo in termini di “valore” (dunque, misurabile in denaro, equivalente monetario del valore)7. 4 Ancora Corte Cost. n. 156/2001, che in tal modo ha giustificato il presupposto impositivo dell'Irap. S. Fiorentino, Contributo allo studio della soggettività tributaria, cit. 99 ss.; su tali tematiche, amplius R. Schiavolin, Capacità contributiva, Il collegamento soggettivo, in Trattato di diritto tributario, Padova, 1994, 273 ss.; F. Moschetti, Capacità contributiva, Profili generali, in Trattato di diritto tributario, cit., 225 ss.; E. De Mita, Capacità contributiva, in Rass. Trib., 1987, I, 45; Id, Il principio di capacità contributiva, in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006 33 ss.; G. Marongiu,I fondamenti costituzionali dell'imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, 1991. 6 S. Fiorentino, Contributo cit., 102 7 v. per tutti G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Padova, 2005, 4; amplius, Id., Le plusvalenze nel sistema dell’imposta mobiliare, Milano, 1966; per A.D. Giannini, il reddito è l’aumento di valore, concretamente determinabile in denaro, che si verifica nel patrimonio di una persona: inoltre, non solo doveva trattarsi 5 Tale “accrescimento”comporta quindi una “quantità di valore” ulteriore che si aggiunge al patrimonio originario, posseduto dal soggetto all’inizio del periodo di riferimento dell’imposta, incrementandolo8. E’ tuttavia necessario precisare che il reddito, come fenomeno “economico-naturale” costituito da “accrescimenti di valore dei beni capitali”, non può mai essere frutto “diretto, necessario ed esclusivo” di una sola causa, scaturendo piuttosto da un complesso di cause concorrenti, anche tra loro apparentemente indipendenti9 (che si intersecano in modo, per così dire, “dialettico”). La molteplicità di cause può però ricondursi, in sintesi, a quella che rappresenta l’unica (ed ultima) base materiale di tutte le categorie reddituali previste dalla normativa tributaria10; tale base è costituita dal processo economico generale/unitario di circolazione-valorizzazione del capitale, incardinato sul centrale meccanismo della produzione di “valore” e di “plusvalore” (cioè di valore “aggiuntivo” riferibile al “plusprodotto” generato dal “lavoro collettivo” o “lavoro complessivo sociale”) e della sua continua trasformazione-accumulazione in capitale costante (e quindi in “patrimonio”, posseduto e controllato dalla classe dei “proprietari”)11. Nella predetta dinamica economico-sociale, fondata comunque sul rapporto capitalelavoro (e considerata nella particolare fase della distribuzione individuale del valore complessivo generato dal sistema), può rinvenirsi in ogni caso una fonte produttiva “generale” del reddito imputabile, mediante una relazione di “possesso” (vale a dire attraverso un rapporto di “distribuzione” tra profitti, rendite e salari), ai singoli soggetti (direttamente o indirettamente) coinvolti; è questa ripartizione che viene “normativamente” considerata come indice di capacità contributiva ai fini del concorso alle spese pubbliche. Risulta evidente da recenti dati statistici12 quanto segue: il lavoro produce valore e reddito complessivo sociale, mentre, nella fase distributiva, si appropria di una quota assolutamente minore di tale reddito; i possessori/proprietari di capitale non svolgono alcun ruolo attivo nella produzione generale, ma si appropriano della quota maggioritaria del valore prodotto dal sistema sociale e la accumulano centralizzandola sotto forma di patrimonio. Le classi sociali (minoritarie numericamente) che detengono il capitale in tutte le sue forme ed articolazioni (dunque possiedono i mezzi patrimoniali più ingenti e la forza economica più rilevante), da un lato, si appropriano, sotto forma di profitti, rendite e plusvalenze finanziarie-immobiliari, dell’intera quota di maggior valore sociale (prodotto dal lavoro collettivo); dall’altro, esse sfruttano un’ulteriore forma di di ricchezza nuova (ovvero, più esattamente, di un aumento di valore del patrimonio), ma tale incremento economico doveva essere effettivo, determinabile in denaro e derivante dall'impiego di capitale e lavoro, ciascuno da solo, o congiunti insieme (Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1956, 324 ss.). Anche per L.V. Berliri esso è dato dall’acquisizione al patrimonio del reddituario di una “ricchezza novella misurabile in denaro”. 8 G. Falsitta, Manuale cit., 4-5 9 G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, cit. 13 10 Cioè del reddito d’impresa (vale a dire del profitto) e di capitale (interesse), così come del reddito di lavoro dipendente (salario), di lavoro “autonomo” nonché dei redditi fondiari e di quelli confluenti nella nozione residuale di “redditi diversi”. 11 Per un approfondimento dell’analisi economica, cfr. Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica, 1857; Id., Per la critica dell’economia politica, 1859; Id, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, 1857; Id., Il Capitale. Libro primo, 1867, ed. it., Roma, 1974 12 Banca d’Italia, Rapporto sulla stabilità finanziaria, Dicembre 2010 redistribuzione regressiva del reddito a loro vantaggio, determinata sia dai meccanismi “fisiologici” del sistema tributario (minore tassazione, o addirittura completa detassazione, prevista dall’ordinamento per i profitti societari, per le rendite finanziarie, per le plusvalenze ed i redditi di capitale in genere, nonché per i grandi patrimoni), sia, come è ovvio, da fenomeni patologici ed ipertrofici, come evasione ed elusione fiscale, naturalmente presenti ed in qualche modo “tollerati” dal sistema complessivo. Le classi lavoratrici (maggioritarie nella società), al contrario, sono gravate, sul loro reddito di lavoro dipendente (ed assimilato), ossia sulla quota di prodotto sociale che gli viene attribuita, di un eccessivo e sperequato carico fiscale, per cui esse concorrono alle spese pubbliche, per una quota di ben oltre l’80% del gettito complessivo dell’Irpef. Ciò genera un’enorme distorsione sul piano della giustizia distributiva, con un consistente e costante trasferimento unidirezionale di reddito e risorse: dalle classi e dagli strati sociali del lavoro dipendente (attivo e quiescente), al profitto ed alla rendita parassitaria. I risultati di un recente studio della CGIL sulla concentrazione della ricchezza confermano ampiamente questa tendenza: il 10% delle famiglie più ricche detiene quasi il 50% della ricchezza nazionale e dunque del reddito/patrimonio complessivo, mentre il 50% della popolazione (la metà più povera) ne detiene meno del 10%13. Sulla base di queste considerazioni, l’imposizione patrimoniale e la sua stretta compatibilità con l’ordinamento costituzionale, assumono ancora maggiore importanza se si valuta correttamente la precipua funzione del tributo come effettivo strumento di riparto delle spese pubbliche con riferimento ad un criterio che, oltre ad essere espressivo di capacità economica, introduca una razionale distinzione di ripartizione del carico tributario in rapporto a tutti gli altri valori o principi emergenti dal quadro costituzionale14. Nell’ambito di tale raffronto sistematico, emergono evidenti le correlazioni tra il principio di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione tributaria, ed i più ampi principi (doveri) di solidarietà (art. 2 Cost.) e di uguaglianza sostanziale, nel senso di rimozione/riduzione effettiva dei fattori di iniquità di ordine economicosociale tra soggetti e classi (art. 3 Cost)15. L’art. 53, in effetti, esprimerebbe, nell’ottica di tale necessaria visione unitaria, non tanto un “valore” da tutelare in via assoluta ed inderogabile, quanto piuttosto una 13 CGIL – Dipartimento delle politiche economiche, Un’imposta sulle grandi ricchezze come imposta per il futuro, 25 marzo 2011. 14 A. Fedele, La funzione fiscale cit., 22; A. Fantozzi, Diritto tributario cit. 45. 15 In realtà l’imposizione patrimoniale progressiva può essere soltanto una misura transitoria/parziale e, di per sé, non risolutiva della disuguaglianza distributiva di risorse e ricchezza; in aggiunta ad essa occorrerebbe ripensare ed ampliare, ad avviso di chi scrive, l’istituto della proprietà pubblico-collettiva dei grandi mezzi di produzione (che sono di oggettivo interesse generale, proprio in quanto consistono in grandi e concentrati complessi economico-produttivi), anche ricorrendo ad una piena e reale attuazione degli artt. 42 e 43 della Costituzione, laddove viene chiaramente prevista la possibilità della proprietà pubblica dei beni produttivi (“I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”) e del trasferimento, mediante espropriazione ed a fini di “utilità generale”, allo Stato, enti pubblici o comunità di lavoratori o utenti, di imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, fonti di energia o situazioni di monopolio, quindi a beni e servizi di interesse collettivo. Sembra questa, in effetti, l’unica strada concretamente possibile per eliminare i grandi profitti privati e distribuire il prodotto sociale in modo più equo e razionale tra tutti i consociati. fondamentale “funzione” di razionale ripartizione tra i consociati degli oneri pubblici, cioè riferibili alla collettività organizzata16. Il dovere di concorrere ai carichi pubblici si iscrive infatti innanzitutto tra i doveri inderogabili di solidarietà (politica, economica e sociale) di cui all’art. 2 Cost., poichè conseguenza necessaria derivante dall’appartenenza individuale ad una qualsiasi collettività organizzata (o forma di aggregazione sociale). Si tratta, per così dire, di un dovere “naturale” di carattere razionale (cioè universale ed universalizzabile), necessario a garantire la sopravvivenza/conservazione dell’organizzazione sociale e dei suoi singoli membri. Ciò in quanto “ogni collettività organizzata implica attività ed opere svolte ed eseguite nell’interesse comune”, essendo necessario reperire i mezzi economici (ossia energie lavorative e beni) indispensabili a realizzare tali attività ed opere di interesse collettivo17, per fornire beni e servizi pubblici al di fuori delle logiche distorsive del profitto privato, cioè gratuitamente o a corrispettivi nettamente inferiori ai prezzi di mercato. La necessità di ripartire secondo criteri “razionali” (e dunque “equi”) gli oneri collettivi, si risolve conseguentemente nella fissazione ed attuazione di chiari criteri distributivi dei carichi pubblici tra i consociati18, che siano però anche funzionali alla riduzione di disuguaglianze ed ingiustizie strutturali nella ripartizione soggettiva del prodotto sociale. In sintesi, il dovere tributario, in sé considerato (e concretamente riassunto nell’art. 53 della Costituzione italiana), esprime, da un lato, un livello elementare di solidarismo connesso direttamente all’appartenenza di singoli soggetti ad una collettività organizzata; dall’altro, esso appare strumentale alla rimozione degli ostacoli economico-sociali, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini (art. 3 Cost.), assumendo una forte connotazione di tipo redistributivo19. Trattandosi infatti di individuare i “giusti” criteri di ripartizione delle spese riferibili alla collettività, il valore di riferimento costituzionale della funzione e del dovere tributario non può che rinvenirsi nel principio di uguaglianza20. In altre parole, nella avanzata visione del dettato costituzionale, la funzione tributaria rispecchia la piena correlazione/integrazione (nonchè reciproca limitazione) tra diritti/doveri individuali e diritti/doveri collettivi, tra libertà “negative” e libertà “positive”, che comportano cioè il dovere di un’azione positiva da parte dei singoli soggetti e della collettività organizzata, al fine di rimuovere le disuguaglianze e gli ostacoli al pieno ed effettivo sviluppo della libertà e della dignità di ciascun consociato. La logica redistributiva deve conseguentemente procedere in senso “progressivo”, ovvero attuare i trasferimenti di risorse e reddito da classi e strati sociali con elevata capacità economica (più avvantaggiati) a classi e strati sociali più svantaggiati; ciò comporta la necessità pratico-razionale di accentuare gli stessi caratteri di progressività del sistema tributario (art. 53, comma 2, Cost.), attualmente più formali 16 A. Fantozzi, Il diritto tributario, cit. 45; A. Fedele, Corrispettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin., 1971, II, 3 ss.; L. del Federico, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000. 17 A. Fedele, La funzione cit. 1 18 A. Fedele, La funzione cit., 1 19 A. Fedele, La funzione cit, 5 20 A. Fedele, La funzione cit., 3 che effettivi. In questo quadro generale, si potrebbe inserire con piena coerenza, ed accanto alla fondamentale azione di recupero dell’evasione fiscale, una norma che introducesse apertamente ed in via generalizzata un’imposizione patrimoniale che aumenta più che proporzionalmente con l’aumentare del valore della base imponibile, proprio al fine di ristabilire un minimo di equità sociale, contrastando fenomeni evasivi ed elusivi (più o meno “legittimati”) lesivi dei principi di equità/giustizia sostanziale e gravemente distorsivi sul piano della redistribuzione progressiva dei redditi tra classi e strati sociali. E’ infatti evidente che tali fenomeni violano tutti i principi costituzionali coinvolti nella funzione fiscale, dai doveri inderogabili di solidarietà, ai principi di uguaglianza formale e sostanziale, passando attraverso la funzione di redistribuzione progressiva del reddito riferibile, sulla base del comma 2 dell’art 53, al sistema tributario nel suo complesso. In conclusione, proprio il necessario collegamento della capacità contributiva con gli altri principi dell’ordinamento e la possibilità che il tributo abbia funzioni non meramente neutrali di riparto dei carichi pubblici ma anche di “giustizia distributiva” (e, dunque, di intervento pubblico nei meccanismi economici) in rapporto alla realizzazione di fatto dei doveri di solidarietà sociale e di uguaglianza sostanziale, conducono a concludere per la necessità impellente ed oggettiva di un’imposta patrimoniale generale sulle grandi ricchezze, per ridurre significativamente l’onere tributario sul lavoro ed arrestare o invertire, almeno parzialmente, l’attuale pesante e regressivo spostamento di reddito dal salario ai profitti ed alle rendite. Altrettanto necessario, in quest’ottica, appare una forte azione di contrasto ai fenomeni evasivi ed elusivi (che, è bene ricordarlo, in Italia, assumono dimensione caratteri patologici e che non riguardano sicuramente i redditi di lavoro dipendente, i quali essendo assoggettati, come è noto, al meccanismo della ritenuta alla fonte, risultano essere gli unici integralmente ed effettivamente tassati). Sul punto vale la pena di concludere che l’attività pubblica di legittimo-doveroso accertamento e recupero a tassazione di materia imponibile occultata e sottratta alla giusta imposizione tributaria, può essere, nel suo concreto articolarsi, definita in molti modi, ma di sicuro non come “vessatoria” , in quanto non esiste né potrebbe esistere in un qualsiasi ordinamento giuridico minimamente razionale, un diritto del contribuente di sottrarsi indebitamente e fraudolentemente all’obbligo di concorrere alle spese collettive in ragione della propria capacità contributiva. Mario Cermignani Dottore di Ricerca in Diritto Tributario Comitato Iscritti CGIL-Funzione Pubblica – Agenzia Entrate – DRE Milano