Il sublime nei racconti di Poe: il terrore viene dall

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Il sublime nei racconti di Poe: il terrore viene dall
Il sublime nei racconti di Poe: il terrore viene dall’anima.
Di Laura Resca
Forse dall’altro lato della morte
Ancora erige solitario e forte
Le sue splendide e atroci meraviglie.
Borges su Poe1.
Immaginate un uomo che sta leggendo seduto davanti alla finestra.
A un certo punto distoglie lo sguardo dal libro per guardare fuori e vede scendere dalla collina un
mostro gigantesco.
Così comincia il racconto La sfinge (The sphinx2) di Edgar Allan Poe.
L’uomo, terrorizzato, ci descrive l’orribile visione nei minimi particolari, tanto che quasi ci sembra
di vederla, soprattutto lo colpiscono le dimensioni spropositate del mostro e la strana immagine di
un teschio sul petto, che per l’uomo è un chiaro presagio di morte.
Poi improvvisamente, dopo aver emesso un lamento angosciante, il mostro sparisce, lasciando
nell’uomo un terrore così profondo che lo porta fino allo svenimento.
Qualche giorno dopo, ritrovandosi con un amico nella stessa situazione, seduto davanti alla
medesima finestra, la scena si ripete. In preda al panico, l’uomo richiama l’attenzione del suo amico
verso l’orribile visione, ma l’amico non vede niente. L’uomo indica il punto, descrive la creatura, i
suoi movimenti mentre discende la collina, ma niente, l’amico non la vede. Così, in preda
all’angoscia, si accascia coprendosi il viso, e quando rialza gli occhi il mostro è scomparso, di
nuovo.
Il mistero dell’orribile visione sembrerebbe, anche per il lettore, senza soluzione, quando finalmente
l’amico capisce la svista e risolve l’enigma.
Il mostro altro non è che un lepidottero, per la precisione la Sfinge Testa di Morto, che è rimasto
impigliato nel filo di una ragnatela proprio davanti al vetro della finestra, e l’uomo ha commesso
solo il distratto errore di non mettere a fuoco l’immagine, di non prendere la giusta distanza
dall’oggetto osservato.
1
Jorge Luis Borges, “L’altro, lo stesso”, Mondadori, 1986.
2
Per tutti i racconti di Poe qui presi in esame ho consultato: Edgar Allan Poe, “Romanzi e racconti”, L’Espresso Grandi
Opere, 2005 e in lingua originale alla seguente pagina di internet:
http://xroads.virginia.edu/~HYPER/POE/contents.html
La Sfinge ci pone due riflessioni.
La prima, e più immediata, è che se le cose ci sono troppo vicine, non riusciamo a vederle bene, ne
sfumiamo i contorni e perdiamo la loro dimensione reale; se siamo immersi in una situazione non
possiamo analizzarla e capirla in modo obiettivo, è necessaria una certa distanza per vedere le cose
nella loro giusta misura.
La seconda riflessione è che il sovrannaturale, e il terrore che ne deriva, non è qualcosa che è fuori
di noi, che è altro da noi, ma è qualcosa che è dentro di noi, che proviene dall’interno e che distorce
la nostra visione dell’esterno, del reale.
Quindi stando a quello che dice Addison3 (e successivamente Burke4) riguardo al piacere dello
sgradevole, che deriva non tanto dalle cose terribili che ci vengono descritte, quanto dalla nostra
posizione rispetto ad esse, che è posizione di sicurezza (percepiamo lo spavento ma non siamo in
pericolo), nel caso di Poe questa posizione di sicurezza è quasi messa in discussione, perché le cose
terribili di cui parla non provengono dall’esterno, ma dall’interno, dalla psiche, dalla mente, sono
umane, non aliene, e quindi, in quanto esseri umani, riguardano potenzialmente ciascuno di noi.
Questa seconda riflessione, il male che proviene da dentro e da cui non siamo al sicuro, mi sembra
espressa nel racconto La mascherata della morte rossa (The masque of the red death).
Il racconto parla di una pestilenza che sta devastando il paese, chiamata la Morte Rossa, un morbo
che uccide quasi istantaneamente coloro che ne vengono colpiti, per difendersi dal quale, il principe
Prospero chiama a raccolta un migliaio di persone, tra cortigiani, cavalieri e dame, e si rinchiude
con loro in un’abbazia fortificata.
L’abbazia viene completamente sigillata dall’interno, di modo che il morbo non possa penetrarvi, e
allo stesso tempo nessuno, preso dalla disperazione per la clausura, possa uscirne:
All these and security were within. Without was the “Red Death”- Tutto era lì dentro, anche la
salvezza. Fuori era la Morte Rossa.
Per cui le condizioni di tale isolamento sono rimarcate con chiarezza: la morte è fuori e dentro è la
salvezza.
Dopo qualche mese il principe organizza un ballo in maschera di somma magnificenza. La festa
procede serena interrotta soltanto, ogni ora, dai rintocchi di un grande orologio a pendolo, la cui eco
è così alta da costringere ogni volta i musici a interrompere il concerto, e in quei momenti uno
strano turbamento si diffonde tra la compagnia, tanto che al termine dei rintocchi segue ogni volta
3
Joseph Addison, “I piaceri dell’Immaginazione”, Aesthetica, 2002
4
Edmund Burke, “Inchiesta sul Bello e il Sublime”, Aesthetica, 2002
un riso generale liberatorio, quasi isterico, e riprendono le danze. Ma giunti alla mezzanotte i
rintocchi si fanno numerosi, e il momento di silenzio e di sconcerto, essendo più lungo, consente di
scorgere in mezzo alla compagnia una figura mascherata che prima era passata inosservata.
Il terrore e l’orrore si diffondono tra i presenti, la maschera rappresenta la Morte Rossa. Il principe
ordina che colui che ha osato un tale affronto venga impiccato, ma nessuno osa avvicinarsi. Così lui
stesso affronta l’orrenda figura ma cade al suolo morente. Tutti, presi dalla disperazione, si
avventano sulla figura per toglierle la maschera e scoprono che dietro non c’è nulla, alcuna forma
tangibile, è la Morte Rossa stessa e, ad una ad una, cadono tutte le maschere, e i corpi, colpiti dal
morbo sanguinario.
Mi sembra che Poe stia dicendo sostanzialmente che il male non è qualcosa che proviene da fuori e
da cui ci si può difendere isolandosi dal mondo esterno, al contrario è qualcosa che proviene da
dentro, e nei confronti del quale, proprio per questo motivo, siamo sostanzialmente indifesi.
Tornando alla prima riflessione, che le cose, se troppo vicine, perdono la loro chiarezza, che se si è
immersi in una situazione, non la si può leggere con esattezza, questo è un tema ricorrente in Poe.
Dupin, il protagonista dei “Delitti della Rue Morgue” parlando di un famoso investigatore dice:
“Tenendo l’oggetto troppo accosto, non riusciva a vedere con lucidità. Magari riusciva a scorgere
uno o due punti con estrema chiarezza, ma inevitabilmente perdeva di vista l’insieme”-“He
impaired his vision by holding the object too close. He might see, perhaps, one or two points with
unusual clearness, but in so doing he, necessarily, lost sight of the matter as a whole”.
Ma Poe dedica alla vista in generale, e all’occhio suo principale strumento, un’attenzione
particolare (si pensi al racconto Gli occhiali, o all’occhio come simbolo della coscienza che ci
guarda e ci giudica, in racconti come “Il gatto nero” o “Il cuore rivelatore” – in quest’ultimo c’è
anche un’ambiguità tra la parola the eye, l’occhio, e the I, cioè l’Io, che si pronunciano allo stesso
modo5).
Anche la scelta dell’io-narrante mi sembra rientrare in questo problema di una vista annebbiata se
troppo immersa nelle cose.
Infatti Poe non affida mai la narrazione ad un narratore esterno, della cui obiettività il lettore si
possa fidare, bensì l’affida direttamente al protagonista, un io-narrante che essendo interno alla
vicenda, non può esserne testimone obiettivo anzi, proprio perché vi è immerso, sembra essere
soggetto a una visione distorta di ciò che lo circonda, e quindi risulta sostanzialmente inaffidabile.
5
Manuele Bellini, “L’orrore nelle arti. Prospettive estetiche sull’immaginazione del limite”, Lucisano, 2008
Tanto che nel lettore si produce un’esitazione ontologica6, non è mai certo della reale dimensione
sovrannaturale degli eventi, al contrario è spesso propenso a leggerli come allucinazioni del
protagonista-narratore, come prodotti della sua psicosi.
E’ questo il caso di Ligeia, dove non è chiaro se il personaggio scaturisca dalla follia del narratore.
Infatti il racconto è tutto incentrato sul ricordo di questa donna, che viene descritta come una
bellezza quasi non umana, di cui il narratore cerca in tutti i modi di cogliere la stravaganza, la
stranezza “the strangeness” che la rende diversa, quasi divina, e che conclude essere racchiusa nei
suoi grandi occhi neri.
L’espressione degli occhi di Ligeia… Quante lunghe ore vi ho meditato sopra! Come, durante
un’intera notte d’estate, mi sono sforzato di penetrarne il significato! Che cos’era dunque mai
questo qualcosa molto più profondo del pozzo di Democrito, che giaceva in fondo alle pupille della
mia amata? Che cos’era? Ero ossessionato dalla passione di scoprirlo. Quegli occhi, quelle ampie,
quelle splendenti, quelle divine pupille diventarono per me le stelle gemelle di Leda e io divenni,
per loro, il più devoto degli astrologhi..
L’altra qualità quasi disumana di Ligeia è la sua profonda erudizione. Tanto che il narratore
ammette di aver creduto di poter raggiungere, sotto la sua guida, “una sapienza di troppo divina
virtù per non essere vietata”.
Piano piano capiamo che Ligeia da guida diventa una presenza necessaria al narratore “senza
Ligeia non ero che un fanciullo che tenta le tenebre”
“Without Ligeia I was but as a child groping benighted” quasi come se i suoi grandi occhi neri gli
fossero diventati indispensabili.
Ma Ligeia si ammala, e nulla può la sua volontà, la sua brama di vivere contro il Verme Vincitore,
così come lei stessa rappresenta la destinazione finale del corpo umano, cibo per i vermi, in alcuni
versi che compone prima di morire.
Senza gli occhi di Ligeia il narratore sprofonda nelle tenebre. Diventa schiavo dell’oppio
(particolare questo che rende ancora meno attendibile la sua narrazione degli eventi) e si ritira in
un’abbazia riadattata a dimora dove si risposa con Lady Rowena.
Ben presto però la giovane si ammala e inizia ad avere allucinazioni visive e uditive che la fanno
aggravare finché una sera il narratore avverte una presenza al capezzale della moglie, vede
distintamente un’ombra e delle gocce rosso sangue cadere nella coppa di vino di Rowena.
6
Tzvetan Todorov, “La letteratura fantastica”, Garzanti, 2000
Dopo aver bevuto il vino il crollo delle condizioni porta Rowena alla morte, ma durante la veglia, il
cadavere della giovane dopo una serie di sussulti e spasmi riprende vita, e sciogliendo le bende che
l’avvolgono, il narratore rivede finalmente gli occhi tanto sognati: “ecco ecco dunque – io gridai-io
non posso, io non posso ingannarmi..questi sono i grandi, i neri, gli inebriati occhi del mio amore
perduto: di Lady..Lady Ligeia!”
Lady Ligeia quindi sembra essere un’entità disumana che necessita di un corpo umano per transitare
sulla terra. Ma il corpo umano è fragile, deperibile, e nonostante la sua grande volontà, è destinato a
morire. Così continua ad aleggiare in attesa di entrare in un corpo nuovo. E probabilmente così
sempre farà.
Qualunque interpretazione si voglia dare, l’unica cosa certa è la perplessità, l’esitazione che rimane
nel lettore, lasciato nel dubbio di aver assistito a un evento sovrannaturale o a un’allucinazione
psicotica dell’io-narrante.
Questo avviene perché Poe sembra ribadirci costantemente che il terrore più profondo non deriva da
fuori, dal mondo, ma dalla mente dell’uomo, dalla sua psiche. Infatti la geografia dei luoghi di Poe
sembra costellata di luoghi interni all’uomo, più che esterni, spazi claustrofobici che richiamano i
labirinti della mente, una mente spesso afflitta da una follia che la porta al collasso, al crollo. Come
è metaforicamente espresso dal crollo della casa Usher (The fall of the house of Usher).
Il racconto è sempre affidato all’io-narrante, che ha ricevuto una lettera dal suo vecchio amico,
Roderick Usher, che lo prega di raggiungerlo nella sua casa. Alla vista della casa il narratore è
subito colto da un tormento che non si sa spiegare. (L’immagine della casa rovesciata, perché
riflessa nello stagno, è un primo accenno al tema del doppio). Quando vede l’amico capisce che è
malato, soffre di una strana patologia che acuisce i sensi, e così pure è malata la sorella gemella, ma
di una inalterabile apatia. (E qui c’è il secondo richiamo al tema del doppio. I due fratelli sono
gemelli e soffrono di patologie completamente opposte: lui percepisce tutto in maniera amplificata,
soffre di un’iper-sensibilità, lei al contrario non sente nulla, è apatica e catalettica) Pochi giorni
dopo muore la sorella, e Roderick decide di non seppellirla subito, ma di conservare il corpo in una
cantina perché teme che i dottori possano trafugare il cadavere per studiarne le ragioni del decesso.
Durante una notte burrascosa, vedendo il suo amico preso da una profonda angoscia, l’io-narrante
cerca di calmarlo leggendogli un libro, ma durante la lettura, sentono dei rumori uguali a quelli
descritti nel libro provenire distintamente dalla casa (e anche questo raddoppiamento speculare dei
rumori del libro e della casa ci riporta ancora una volta al tema del doppio).
Roderick preso dal terrore dice che si tratta della sorella che hanno chiuso nella bara ancora viva. A
causa della sua malattia riesce a sentirla muoversi e lamentarsi da giorni, era l’unico che avrebbe
potuto salvarla ma l’ha lasciata morire asfissiata, così ora lei ha distrutto la bara per venire ad
ucciderlo. E infatti si spalanca la porta e Lady Madeline si getta sul fratello che muore di terrore.
Il narratore scappa dalla casa che crolla alle sue spalle inghiottita dallo stagno.
Il racconto, coi suoi spazi claustrofobici e pericolanti, sembra riproporre la struttura di una mente
divisa e compromessa, destinata al collasso fatale.
I tortuosi meccanismi della mente sono riproposti anche ne Il Pozzo e il pendolo (The pit and the
pendulum) dove sempre un io-narrante ci racconta il suo delirio di prigioniero torturato
dall’Inquisizione spagnola, costretto in un antro buio con al centro un pozzo, dentro cui riesce
fortuitamente a non cadere. Tra larve di memoria (shadows of memories) e intervalli di assoluta
insensibilità, lo ritroviamo supino e completamente legato, fatta eccezione di una parte del braccio
per consentirgli di nutrirsi, e un pendolo gigantesco all’estremità del quale è posta una lama, oscilla
sul suo petto abbassandosi a poco a poco.
Grazie ad uno stratagemma (si strofina del cibo sulla cinghia che lo tiene legato e aspetta che i topi
la rosicchino) riesce a scampare anche al pendolo.
A questo punto le pareti prendono fuoco e iniziano a chiudersi verso il centro della stanza, così da
costringerlo a cadere nel pozzo, ma sull’orlo del precipizio (quando sta per sprofondare into the
abyss dice il testo), lo afferra il generale Lassalle: i francesi sono entrati a Toledo e L’Inquisizione è
nelle loro mani.
Ma anche questa ennesima salvezza non sembra veramente una salvezza.
Infatti tutte le volte che riesce a scampare ad una fine atroce, pensa e immagina che ce ne sarà una
peggiore:
“Ero sfuggito all’atrocità di una guisa di morte, per essere consegnato a qualcosa di peggiore della
morte”.
Tanto che la tortura più straziante non sembra essere quella fisica, corporale, ma quella mentale. La
sua mente è talmente tormentata dal pensiero della tortura a cui va incontro che ne risulta quasi
definitivamente compromessa:
“La lunga sofferenza aveva pressoché annientato le consuete capacità del mio spirito. Ero un
imbecille, un idiota.”
Per cui il generale francese lo ha salvato dall’abisso del pozzo, ma forse non dall’abisso di paura
che ormai si è aperto dentro di lui.
Alla luce di tali riflessioni concludo con un piccolo gioco di parole riguardante il Sublime (fulcro
del seminario per il quale ho scritto il presente intervento) per cui si potrebbe dire che il sublime in
Poe consiste nel sublimare il subliminale.
Cioè nel portare a galla, in superficie, le profondità dell’animo umano, gli abissi della psiche (in un
movimento che è contemporaneamente dal basso verso l’alto e dall’interno verso l’esterno).
Bibliografia:
-
Edgar Allan Poe, “Romanzi e racconti”, L’Espresso Grandi Opere, 2005 e in lingua
originale alla seguente pagina di internet:
http://xroads.virginia.edu/~HYPER/POE/contents.html
-
Joseph Addison, “I piaceri dell’Immaginazione”, Aesthetica, 2002
-
Edmund Burke, “Inchiesta sul Bello e il Sublime”, Aesthetica, 2002
-
Sigmund Freud, “Il perturbante”, in “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio”, Bollati
Boringhieri, 1991
-
Tzvetan Todorov, “La letteratura fantastica”, Garzanti, 2000
-
Manuele Bellini, “L’orrore nelle arti. Prospettive estetiche sull’immaginazione del limite”,
Lucisano, 2008
-
Jorge Luis Borges, “L’altro, lo stesso”, Mondadori, 1986