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rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
giovedì 3 dicembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
WELFARE E SOCIETA’
WELFARE E SOCIETA
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
INFANZIA E GIOVANI
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da il Tirreno del 02/12/15
Oggi si conclude il progetto della Carovana
antimafie
MONTELUPO. Si svolgerà domani al circolo Arci Il Progresso di Montelupo “La Carovana
siamo noi”, giornata conclusiva del progetto “Aspettando la carovana antimafie 2015” che
sarà un momento di sintesi e restituzione del lavoro sulla legalità dei ragazzi delle terze
classi della scuola secondaria Baccio Da Montelupo e dei ragazzi del Centro Giovani “La
Fornace”, destinatari del progetto.
Saranno loro infatti i protagonisti del pomeriggio di giovedì insieme a Paolo Masetti,
sindaco del Comune di Montelupo, Enrico Roccato, rappresentante del Presidio Libera
Empoli e Loredana Polidori, dello Spi Cgil Empoli.Il progetto, che ha il patrocinio
dell'amministrazione comunale, è iniziato ad ottobre 2014 e si è snodato in vari incontri
che hanno visto la
presenza di vari ospiti. I ragazzi hanno fatto anche l'esperienza dei campi di lavoro sui
terreni confiscati alle mafie, il presidente della Cooperativa "Lavoro e non solo", i
rappresentanti di Arci, Libera, Avviso Pubblico, i responsabili delle sezioni soci Coop, dello
Spi Cgil e della Cgil.
http://iltirreno.gelocal.it/empoli/cronaca/2015/12/02/news/oggi-si-conclude-il-progetto-dellacarovana-antimafie-1.12549498
Da il Tirreno del 02/12/15
Slot, la guerra al gioco parte da Prato - Le
Mappe - Il Video
Comune al lavoro per organizzare corsi di formazione per i titolari degli
esercizi con videogiochi e per vietare l'installazione nei circoli. Il
presidente del circolo Arci di Chiesanuova: "Noi ricaviamo un terzo dei
nostri ricavi. Così possiamo garantire le iniziative per il quartiere, la
ginnastica e il ballo per gli anziani"
di Ilenia Reali
PRATO. E’ la prima città della Toscana nel rapporto tra superficie degli esercizi con Slot e
abitanti. Ma anche la provincia con il numero più elevato di mini casinò. A Prato il gioco
non è un illustre sconosciuto anche perché la comunità cinese è tradizionalmente
un’appassionata tanto che, da queste parti, nei mattinali delle forze dell’ordine da qualche
anno sono tornate le denunce per gioco d’azzardo con tanto di blitz nelle bische
clandestine nella più numerosa Chinatown d’Italia. Sarà per questo quindi che l’attenzione
sul tema in città è alta e la discussione accesa. La commissione consiliare affari generali
del Comune è al lavoro per la modifica del regolamento comunale sul gioco, uno dei primi
approvati in Italia, ormai da quasi un anno e – mese dopo mese – le audizioni con
funzionari del Monopolio, psicologi e addetti ai lavori si sono sprecati. Un tavolo
partecipativo, capitanato dall’assessore alla cultura Simone Mangani, intanto è già stato
aperto con le associazioni e con il Sert mentre è partita la richiesta per aprire un confronto
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con prefetto e questore anche alla luce della sentenza del Tar che ha visto contrapposti
Comune e Questura su un’autorizzazione per una sala Vlt.
Lotta ai circoli con Slot e formazione. Il medico Rosanna Sciumbata, presidente della
commissione, coadiuvata dai funzionari Michela Lilli e Alessandro Golin, sta viaggiando
alla velocità nella luce per stringere al massimo le maglie dei controlli e delle
autorizzazioni. Tra i punti da modificare, con quella che si annuncia la prossima crociata
contro il gioco, la possibilità dei circoli privati di installare le Slot e la formazione
obbligatoria per coloro che invece vogliono dotare il loro esercizio dei videogiochi.
“Abbiamo intenzione di istituire un corso per i gestori che vorranno aprire i loro locali alle
Slot – spiega la responsabile dell’ufficio attività produttive del Comune Michela Lilli – in
modo da sensibilizzarli. Se il gestore di un bar sa quali sono gli effetti della ludopatia
quando si accorge di avere clienti malati può intervenire. A volte basta una frase o un
numero di telefono dato al momento giusto”.
Un numero di telefono che sarà attaccato nei luoghi con Slot Machine, almeno a Prato. Un
adesivo con il numero del Sert dedicato è in fase di preparazione. A disegnarne la grafica
saranno gli studenti pratesi che potranno partecipare a un concorso con il duplice obiettivo
di creare un logo accattivante e di sensibilizzare i più giovani.
Per quanto riguarda invece la lotta ai circoli ricreativi alla base c’è una legge regionale che
contiene un bel paradosso. In Toscana da una parte i circoli sono individuati come luoghi
sensibili (legge regionale 57 del 2013 articolo 4) da cui non si possono installare Slot
machine entro i 500 metri mentre dall’altra possono averle al loro interno. “Il nostro
obiettivo – commenta Sciumbata – è quello di risolvere questo paradosso e inserire il
divieto di avere Slot in queste strutture”.
Un terzo del ricavato del circolo arriva dai videogiochi. Nei circoli Arci pratesi il dibattito è
all’ordine del giorno. Ci sono alcuni circoli, come l’Arci della frazione di Casale che ha
messo il gioco al bando , e altri che invece si domandano se è possibile svolgere lo stesso
tipo di servizio rinunciando agli introiti derivanti dalle Slot machine. E’ il caso dell’Arci di
Chiesanuova, popoloso (e popolare) quartiere della prima periferia di Prato che con il
gioco fa un terzo dell’attivo del proprio bilancio.
Il presidente del circolo Favini Franco Maiani mette il tema, caldo, sul tavolo. “Noi – spiega
- abbiamo sette videogiochi che in un anno ci danno un introito di 60.000 euro su un totale
di 180.000 euro. Senza non potremmo riuscire a garantire quella funzione di presidio che
abbiamo oggi. Con quei soldi facciamo il ballo liscio il sabato sera, la ginnastica dolce per
gli anziani e le varie iniziative ricreative”.
Dell’argomento ne è stato parlato anche lunedì 1 dicembre alla riunione provinciale
dell’Arci ed è stato deciso che sarà fatto un incontro ad hoc per affrontare l’argomento che
divide, come comprensibile, l’associazione. “Le Slot non piacciono a nessuno. Ma
possiamo rinunciarci? E togliendole diamo un servizio ai nostri cittadini?”, chiede Maiani.
La ginnastica e il ballo per gli anziani coi soldi degli slot
Nel bilancio del circolo Arci di Chiesanuova, a Prato, il gioco rappresentano il 30 per
cento del giro di affari (60mila euro). Il presidente spiega il motivo per cui rinunciare
alle slot peserebbe sui servizi offerti alla comunità (video Ilenia Reali)
Tra i due litiganti, il terzo (un liceo) gode. Se Questura e Comune non avessero la stessa
posizione sul rilascio di un’autorizzazione che cosa succede? Il Tar ha emesso una
sentenza lo scorso giugno destinata a fare giurisprudenza. Anche in questo caso siamo a
Prato. La tavola calda Jin Yulou sas di via Pistoiese aveva richiesto l’autorizzazione per
installare dei videogiochi Vlt. Un’autorizzazione di competenza della Questura,
intenzionata a rilasciarla, ma a cui il Comune aveva espresso il parere (non vincolante)
contrario perché l’esercizio si trova a meno di 200 metri dal liceo Livi. Il Tar ha accolto
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l’azione del Comune e ha annullato il provvedimento della Questura. “Mettendo in
evidenza come il rispetto delle distanze dagli obiettivi sensibili sia un tema dominante”.
http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2015/12/02/news/slot-la-guerra-al-gioco-parte-daprato-le-mappe-il-video-1.12548572
da La Nuova Ferrara del 03/12/15
Slot, il fenomeno a Ferrara
In collaborazione con Dataninja il quadro della diffusione di locali con
slot per Comune e anche a livello regionale. La nostra provincia è quella
dove si è registrato il secondo maggior aumento di esercizi in Regione
nel 2015. A Comacchio la densità maggiore di locali
FERRARA. Il fenomeno slot e Ferrara, una diffusione capillare. In collaborazione con
Dataninja possiamo per la prima volta farci un'idea particolareggiata della diffusione del
fenomeno nella nostra provincia.
E vedere così che a differenza di quanto si possa pensare non è nemmeno a Ferrara la
densità maggiore, ovvero la maggior presenza di locali con slot per singolo Comune. A
detenere il primato infatti è il territorio di Comacchio, con ben 93 esercizi a fronte di un
popolazione (ultima rilevazione Istat) di 22.744 persone per una densità di 244,5.
Situazione di rilievo anche quella di Fiscaglia. Il nuovo Comune nato dala fusione di Massa
Fiscaglia, Migliaro e Migliarino ha densità di 274,7 (34 esercizi per i 9.343 abitanti. Sul
podio della maggior diffusione di locali anche Portomaggiore (38 esercizi rispetto ai 12.085
abitanti).
Ferrara si piazza al quindicesimo posto: a fronte di una popolazione di 133.682 persone gli
esercizi con slot sono ben 240 ormai ben diffusi in centro città, in periiferia e nelle frazioni.
E senza grosse distinzioni tra tipi di locali (o di "bandiere"): l'autorizzazione ce l'ha il circolo
Arci di Corlo, come il circolo Acli di Pontelagoscuro; il bar gestito da ferraresi, il bar gestito
da cinesi. Insomma, in città, se uno vuole, non ci sono grosse difficoltà a giocare in questo
modo.
La tabella. La mappa interattiva che trovate qui sopra ben illustra la situazione in provincia,
comune per comune (ad eccezione appunto di Fiscaglia) il contrassegno arancione
evidenzia a scalare (dal più grande al più piccolo) da chi subisce di meno la presenza di
locali che ospitano giochi di questo tipo, a chi la subisce di più. In pratica se il comune è
cotrassegnato da un segnale più evidente minore è la presenza sul territorio di locali con
slot o videopoker.
Gioco d'azzardo. Sui locali che ospitano slot machine e videopoker per quello che è un
gioco d'azzardo pur con tutti i crismi della legalità, il dibattito è aperto da tempo, a tutti i
livelli. Soprattutto per il rischio dell'insorgenza di dipendenze, di cosiddette ludopatie.
Per quanto riguarda ad esempio il Comune di Ferrara ha assegnato al Sert un contributo
di 10.000 euro , finalizzato proprio alla prevenzione delle patologie legate al gioco
d'azzardo. L'Asl di Ferrara, fin dal 2013, è scesa in campo distribuendo materiale
informativo dopo che è stata varato l'obbligo di esporre una locandina che informa sui
rischi. Anche la Lega Nord, con il capogruppo Alan Fabbri ha chiesto alla Regione di
impedire l'apertura di nuove sale . Il M5S si è più volte espresso contro questa sorta di
passatempo, organizzando diverse iniziative .
Ma a recitare un ruolo principe nelle situazioni critiche derivanti dall'eccesso di gioco
d'azzardo resta il Sert. Nel 2013 era stato registrato un dato impressionate di crescita
rispetto al 2010 dell'81% per quanto riguarda Ferrara e del 122% sul territorio regionale di
giocatori a carico dei Servizi Dipendenze Patologiche.
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Un problema quindi concreto, e la diffusione dei locali con slot che vedete sia a livello
provinciale che a livello regionale nella tabelle qui sopra, regalano dati non certo
rassicuranti.
Anche considerando che a livello regionale la nostra provincia è la seconda nel 2015 per
aumento di esercizi ogni 10.000 abitanti, seconda solo a Piacenza.
http://lanuovaferrara.gelocal.it/ferrara/cronaca/2015/12/03/news/slot-il-fenomeno-a-ferrara1.12548741
Da il Giunco del 02/12/15
A Roma per il clima: anche la Maremma in
marcia alla manifestazione
GROSSETO – C’era anche una buona parte di Maremma tra le 20mila persone che hanno
manifestato la scorsa domenica a favore della pace e dei cambiamenti climatici. La
marcia, partita nel primo pomeriggio da Campo dei fiori e terminata in via dei Fori imperiali,
è stato anche un grido per chiedere non solo l’abbattimento delle emissioni ma anche una
svolta decisa e concreta verso la diffusione delle energie rinnovabili. In questa direzione
va il Manifesto per l’autoproduzione da fonti rinnovabili fatto da Legambiente, che sta
trovando l’adesione di molti comuni in tutta Italia. Nella provincia di Grosseto hanno
aderito i seguenti comuni: Montieri, Civitella Paganico, Castiglione della Pescaia, Scarlino,
Grosseto e Capalbio.
«La manifestazione di domenica scorsa a Roma – ha spiegato Angelo Gentili, della
segreteria nazionale di Legambiente -, insieme a tutte le altre realizzate in moltissime città
del mondo, dimostra la volontà di una chiara svolta nell’abbattimento delle emissioni
climalteranti per la diffusione delle energie rinnovabili e per l’efficienza energetica per
salvare il pianeta e arrestare il surriscaldamento climatico. Tutto questo dipende dalle
scelte che i governi faranno nel summit di Parigi, ma anche dai nostri comportamenti
personali. La Maremma può divenire un distretto territoriale in grado di puntare su
efficienza energetica, rinnovabili, filiera corta in agricoltura e conservazione ambientale».
Alla manifestazione di Roma per il clima e per la pace, organizzata dalla Coalizione
italiana Clima costituita da oltre 150 organizzazioni, sono intervenute dalla provincia di
Grosseto diverse associazioni tra cui Legambiente, Wwf, Arci Grosseto, Coldiretti
Grosseto, Uisp Grosseto, Arci Servizio civile, Cittadinanza attiva e Cia Grosseto, oltre alla
presenza del Parco regionale della Maremma.
http://www.ilgiunco.net/2015/12/02/a-roma-per-il-clima-anche-la-maremma-in-marcia-allamanifestazione/
Da IVG.it del 03/12/15
“Dialogo interreligioso contro il terrorismo”,
evento di Arci a Savona
Savona. Arci Savona collabora all’organizzazione dell’evento “Dialogo interreligioso contro
il terrorismo – La scontro della civiltà e il nuovo ordine mondiale” che si terrà martedì
prossimo 8 dicembre alle ore 18 presso la libreria Ubik. A spiegare le ragioni è il
presidente Alessio Artico: “Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari
dell’attacco terroristico di Parigi. Ci stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore
e il lutto che hanno subito, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente
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immersi popoli come quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più
netto e deciso la follia distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo,
l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa”.
“La guerra è dentro le nostre società – prosegue – È dentro il nostro quotidiano. È dentro
il nostro modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che
servono per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo reprimere con nuove
armi e nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di
società e di convivenza universale, fondata sugli stessi valori che sono stati brutalmente
attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza”.
“Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari – ribadisce il presidente di Arci
Savona – Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con
il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale. Va
contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un ritorno
al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato, come nemico
serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre l’opinione pubblica dai problemi
interni”.
“L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre
società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni – insiste Artico –
Spingendo una parte della popolazione, soprattutto le giovani generazioni, a ricercare
identità e appartenenza tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali
concepite come inconciliabili tra loro. Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni
sociali, ricostruire spazi collettivi di confronto e di scambio culturale. Questo è il nostro
impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti a causa delle
guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare”.
http://www.ivg.it/2015/12/dialogo-interreligioso-contro-il-terrorismo-evento-di-arci-asavona/
Da CoratoLive del 02/12/15
Una nota del circolo Arci “La Locomotiva”
L’Arci scrive al sindaco: «Pasolini solleva
temi sgraditi a questa amministrazione?». Il
video
«Hanno forse il sindaco e la sua giunta dei motivi di astio nei confronti
della nostra associazione? Vorremmo saperlo, e aspettiamo fiduciosi
una risposta», scrivono dall’Arci
Cala tra gli applausi il sipario per la “Pasoliniana” dell’Arci, ma agli organizzatori resta
ancora una domanda: «perché l’amministrazione comunale ha negato il patrocinio morale
alla rassegna?» Una domanda fatta anche dal consigliere Bucci al sindaco Mazzilli
durante il consiglio comunale. Di seguito la nota dell’Arci.
«Si è appena conclusa la rassegna “Pasoliniana”, dedicata al quarantennale della
scomparsa di Pier Paolo Pasolini, curata dal circolo Arci “La Locomotiva”.
Il bilancio dell’iniziativa è, a nostro avviso, più che positivo. A dimostrarlo è l’ampia
partecipazione della cittadinanza ai diversi appuntamenti come le proiezioni dei film
“Accattone” e “Mamma Roma” (più di duecento spettatori), la tavola rotonda “L’Eredità di
Pasolini” e la triplice performance (teatro, musica, live painting) di “Prove per Comizi
D’Amore”.
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Abbiamo constatato con grande piacere la presenza di moltissimi giovani che - come ha
riportato Vitantonio Lillo, editore di PietreVive, nel suo intervento alla tavola rotonda vedono Pasolini come un fratello maggiore, più che come un intellettuale austero e
distante.
All’indomani della conclusione di “Pasoliniana” ci preme però - oltre che trarre un bilancio
della manifestazione - chiarire alcuni punti per noi di estrema importanza. Ci rivolgiamo
soprattutto all’amministrazione comunale e in particolare alle persone del sindaco
Massimo Mazzilli, del vice sindaco Francesco Scaringella, della giunta comunale e della
commissione cultura.
A dispetto di un così largo consenso da parte del pubblico, rimane sconcertante per noi la
presa di posizione preventiva dell’amministrazione comunale di negare il patrocinio morale
alla manifestazione. Non parliamo di patrocinio economico (nella concessione del quale la
nostra amministrazione ha spesso dimostrato di essere di manica larga) ma di quello
morale; una manifestazione ad alto profilo culturale come Pasoliniana in cui convergono
tutte le arti, dal cinema alla letteratura, passando per il teatro, la poesie e la musica, viene
totalmente ignorata da un’amministrazione comunale che si dice aperta e sensibile ai temi
della cultura. E questo è per noi un fatto gravissimo.
In seguito a ciò, dunque, chiediamo esplicite motivazioni al rifiuto del patrocinio che,
sottolineiamo, è stato negato in maniera preventiva, senza approfondire la bozza di
programma allegata alle richieste regolarmente protocollate in Municipio e senza addurre
alcuna motivazione.
Il 30 novembre, durante la celebrazione del consiglio comunale, il consigliere di minoranza
Renato Bucci ha chiesto le motivazioni di un tale rifiuto, ma la risposta del Sindaco
Massimo Mazzilli è stata quantomeno sibillina, sviando la domanda e cercando di lanciare
discredito sulle nostre persone giustificandosi dietro il nostro rifiuto di utilizzare la
biblioteca comunale per uno degli appuntamenti in programma.
Vorremmo chiarire, a tal proposito, che abbiamo gentilmente rinunciato all’utilizzo della
biblioteca perché gli orari concessi (dalle 18 alle 20) non erano compatibili con la
partecipazione di alcuni dei relatori e avrebbero precluso la manifestazione a molti.
Fatichiamo a capire il nesso tra la netta e arrogante bocciatura delle nostre richieste e la
scelta di svolgere in altra sede la conferenza. Piuttosto, ci piacerebbe conoscere le
motivazioni con le quali il sindaco ha respinto la nostra ennesima richiesta di utilizzare la
chiesa di san Francesco sita in via Carmine, trincerandosi dietro due risicatissime righe
nelle quali considerava il luogo “non consono all’iniziativa”.
Forse Pasolini, universalmente celebrato in occasione dei 40 anni dalla sua morte, è un
personaggio scomodo, capace di sollevare temi sgraditi a questa amministrazione? Hanno
forse il sindaco e la sua giunta dei motivi di astio nei confronti della nostra associazione?
Vorremmo saperlo, e aspettiamo fiduciosi una risposta.
Noi intanto proseguiremo a difendere i pochi reali presidi culturali di questa città, contro
ogni forma di provincialismo e miopia intellettuale, da qualsiasi parte essi provengano».
http://www.coratolive.it/news/Cultura/402749/news.aspx
Da Abruzzo web del 02/12/15
DIRITTI CIVILI: ARTISTI SUI BUS
DELL'AQUILA PER RICORDARE ROSA
PARKS
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L'AQUILA - Promossa dai Ministeri dei Beni culturali e dell'Istruzione, dall'Anci e con il
sostegno dell'Arci, in occasione del 60esimo anniversario del "Rifiuto di Rosa Parks", il
Comune dell'Aquila aderisce alll’iniziativa di sensibilizzazione ai diritti civili.
Presentata stamani dagli assessori Emanuela Di Giovambattista e Betty Leone e dal
presidente Ama Agostino Del Re, l'iniziativa si svolge sugli autobus cittadini da domani
fino a sabato 5 dicembre.
"Il primo dicembre del '55 – ricorda la Leone – a Montgomery, in Alabama, Rosa Parks,
donna di colore, viene arrestata perché rifiuta di cedere il suo posto a sedere sull’autobus
ad un passeggero bianco. Con la sua azione, Rosa dà vita al boicottaggio dei mezzi
pubblici di Montgomery attraverso una protesta che dura un anno e due mesi e che blocca
dozzine di pullman di Montgomery, fermi per mesi fino alla rimozione della legge che
legalizza la segregazione".
"Il Comune dell’Aquila intende, pertanto, puntare l’attenzione sull’ampio e delicato tema
della discriminazione ricordando il gesto coraggioso di questa donna attraverso interventi
di artisti, attori, scrittori stranieri, migranti che racconteranno ai passeggeri storie positive
o negative di contaminazione tra diverse culture".
"Il problema della discriminazione razziale – ha aggiunto la Di Giovambattista – è un
problema purtroppo ancora esistente e l'esempio di Rosa Parks deve ancora oggi ispirare
tutti coloro che credono nella convivenza e nell'integrazione. Questa amministrazione, in
questo momento storico in cui si assiste a forti manifestazioni di chiusura, preferisce
rispondere diversamente, puntando sul rispetto delle persone e dei loro diritti perché
ognuno possa portare avanti il proprio progetto di vita indipendentemente dal posto in cui
si trova, dal colore della pelle o dalla religione che professa".
"I mezzi Ama – ha concluso Del Re – si trasformeranno per questa occasione in un
importante mezzo di comunicazione. Abbiamo scelto, pertanto, di divulgare la campagna
sulle linee maggiormente frequentate dai giovani, scegliendo quelle che servono i poli di
Roio e Coppito e, per sabato mattina, la linea che serve le scuole superiori".
Alla conferenza stampa era presente anche Andrea Salomone in rappresentanza dell'Arci
dell'Aquila.
http://www.abruzzoweb.it/contenuti/diritti-civili-artisti-sui-bus-dellaquila-per-ricordare-rosaparks/585120-4/
Da M News del 02/12/15
TranSiti, il concorso di foto-idee per
riqualificare gli spazi abbandonati dell'Area
Grecanica
Luigi Palamara
Osserva lo spazio abbandonato, immagina il riutilizzo, scatta una foto e partecipa al
Concorso Fotografico
Il GAL Area Grecanica, in collaborazione con l’Associazione Aniti – Impresa Sociale, da
alcuni mesi ha avviato il “Programma di Iniziative di Arte Pubblica nei Borghi e nei Centri
Storici dell’Area Grecanica” (Misura 413.313 del PSL Neo Avlàci) proponendo l’Arte
Pubblica come strategia di azione per sostenere modelli d’esistenza aggreganti e creare
nuovi luoghi di socialità, in un territorio che, ad oggi, si presenta come una realtà
frammentata e scomposta dal graduale ed inesorabile spopolamento. In quest’ottica il
Programma vuole agire, in primo luogo, sulla riattivazione di processi di consapevolezza
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degli abitanti sull’importante patrimonio materiale ed immateriale che l’Area Grecanica
custodisce.
E’ all’interno del Programma che, da alcuni giorni, è stato lanciato il Concorso di Foto Idee “TranSiti” per la valorizzazione degli spazi non utilizzati o abbandonati dell’Area
Grecanica.
Il Concorso rientra tra le attività di coinvolgimento degli abitanti e rappresenta un’azione
trasversale di sensibilizzazione e partecipazione rivolta alle comunità locali per la
riscoperta del patrimonio di spazi e luoghi dimenticati dell’Area Grecanica. In linea con
quest’idea, TranSiti è promosso e realizzato con il Patrocinio dei Comuni di Palizzi,
Condofuri, Bova, l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, le Associazioni Cum.El.Ca,
Pro-Pentedattilo, Radici, il Forum del Terzo Settore dell’Area Grecanica, l’Arci Calabria, il
Consorzio del Bergamotto e l’Agenzia Pucambù.
Il Concorso intende raccontare e immaginare il passaggio da una condizione di degrado e
abbandono ad una di riuso dei siti trascurati e rifiutati del territorio, attraverso la raccolta di
scatti fotografici sullo stato attuale dei luoghi e di idee e suggestioni di trasformazione degli
stessi, proposte da individui, associazioni, gruppi di cittadini, artisti, studenti universitari,
scuole primarie e secondarie.
TranSiti focalizza l’attenzione sugli spazi inutilizzati, dismessi, obsoleti, che sono oggi in
attesa di nuove funzioni e che, con proposte creative e innovative, potrebbero trasformarsi
in luoghi utili a valorizzare il patrimonio paesaggistico e culturale dell’Area Grecanica, a
migliorare la qualità della vita, la fruibilità e la sostenibilità del territorio, ad innescare
nuove economie locali.
La partecipazione, totalmente gratuita, è un invito ad identificare i luoghi inutilizzati
dell’Area Grecanica nei cinque territori di Pentedattilo, Palizzi, Gallicianò, Bova e Fiumara
dell’Amendolea, senza escludere gli altri Borghi della Calabria Greca, e a suggerire idee di
trasformazione attraverso una breve didascalia che racconti la proposta di riutilizzo
immaginata.
L’obiettivo è di raccontare il paesaggio grecanico con uno sguardo inedito e rivolto al
futuro attraverso un’azione collettiva di narrazione dei luoghi, fatta di immagini e
suggestioni che - a partire dalle criticità del territorio - sia capace di individuare opportunità
di cambiamento e sensibilizzare la comunità ad una riappropriazione degli spazi di vita.
Con questo obiettivo a conclusione del Concorso è prevista una Mostra Itinerante delle
Foto-Idee nei Borghi di riferimento che costituirà la base per una riflessione collettiva sul
recupero e la gestione dei beni in abbandono e l’occasione per presentare le Foto-Idee
vincitrici: numerosi i premi per i primi tre classificati su ogni Borgo e la possibilità, per i
primi posti, di sviluppare le proprie proposte e vederle realizzate.
Per partecipare al Concorso Fotografico visitare il sito www.risorgimentilab.it - Laboratorio
Territoriale di Innovazione Sociale dell'Area Grecanica sezione “Concorsi di idee”. Inviare
le foto-idee è semplicissimo, basta registrarsi e condividere la propria proposta, c’è tempo
fino al 18 Dicembre!
"A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano!". Partecipate!
http://www.mnews.it/2015/12/transiti-il-concorso-di-foto-idee-per.html
Del 3/12/2015, pag. RM XI
KINO
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“87 ore” per morire il film verità della
Quatriglio
FRANCO MONTINI
UN film importante per ciò che racconta e per come lo racconta: è “87 ore” di Costanza
Quatriglio. Una storia estrema e, coerentemente, la regista ha optato per una messa in
scena estrema, utilizzando quasi esclusivamente le immagini riprese dalle telecamere di
sorveglianza del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo di Lucania, che testimoniano
l’assurda agonia di Francesco Mastrogiovanni. Ricoverato per un trattamento sanitario
obbligatorio, l’uomo viene legato ad un letto di contenzione e lasciato morire nella più
disumana indifferenza. Il film sarà presentato questa sera alle 20,30 al Kino, seguirà un
incontro con la regista e con il docente di estetica Pietro Montani. Al Kino il film è in
programma anche venerdi e sabato, mentre domani alle 18,30 è prevista una proiezione
con dibattito anche presso la sede del partito Radicale.
Kino via Perugia 36. Info tel. 06.96525810 Stasera alle 20,30; venerdì e sabato.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 3/12/2015, pag. 49
L’impresa sociale guarda al profitto
Di Stefano Lepri
La discussione sulle forme di impresa con tratti di socialità si arricchisce di una nuova
proposta: nel maxiemendamento alla legge di stabilità al Senato è stato introdotto il
concetto di società benefit. È probabile che la Camera lo confermerà, per cui entro l’anno
avremo verosimilmente, pur senza innovazione nelle forme societarie, una nuova forma
d’impresa che tenga insieme profitto e socialità. E in questi giorni il Senato approfondisce
la legge delega sul terzo settore, rivisitando il concetto di impresa sociale. Di qui l’esigenza
di prefigurare a grandi linee quadro che ne uscirebbe: almeno sei diverse tipologie con fini,
ambiti di attività e incentivi pubblici distinti, pur accomunate dall’intreccio tra esercizio
d’impresa e finalità sociali. Le cooperative sono la forma più diffusa e nota d’intreccio,
caratterizzate da forte partecipazione dei lavoratori e vincoli a distribuzione di utili e
patrimonio.
Ci sono poi le imprese tradizionali che operano nel campo delle politiche di protezione
sociale. Una srl che gestisce una struttura residenziale per anziani non autosufficienti è un
modello frequente nei welfare locali, in competizione con le imprese sociali del terzo
settore e può remunerare il capitale senza vincoli. Qui il “sociale” è solo il campo d’attività,
non il fine. Siamo poi di fronte a imprese che dichiarano di operare con responsabilità
sociale, per le attese non solo dei clienti ma anche dei diversi stakeholders. Da un
ventennio almeno la social responsibility è assunta a visione d’impresa olistica, capace di
perseguire obiettivi anche per la superiore capacità di valorizzare dipendenti e fornitori,
rispettare ambiente e comunità locali, assicurare welfare aziendale eccetera.
Le novità possono arrivare con le società benefit, imprese private in grado di fare e
distribuire molti utili in campi diversi, ma avendo pure una o più finalità di beneficio
comune. Che non sarebbero un effetto secondario della responsabilità sociale, ma obiettivi
almeno pari a quelli economici, fino a rinunciare a buona parte della remunerazione. Si
noti che non ci sono incentivi statali, se non quelli eventualmente previsti per qualsiasi
impresa profit. L’unico vantaggio sarebbe ottenere una reputazione pubblicamente
certificata e riconosciuta che orienti il consumatore a preferire queste società a quelle
tradizionali. Altro è il profilo attribuito all’impresa sociale in definizione al Senato: un ente
privato di terzo settore per attività d’interesse generale e utilità sociale e che assume
vincoli stringenti nella remunerazione dei fattori produttivi, in particolare del capitale, fino al
limite applicato nella mutualità prevalente. Sarebbe quindi una no profit o al più una low
profit, realizzabile con ogni forma associativa o societaria e forti vincoli di lock asset.
Infine - ipotesi ancora in nuce, ma se contenuta negli emendamenti in discussione - si
configurerebbe la possibilità di un’impresa sociale come ente di terzo settore ma attiva
anche in attività estranee a interesse generale e utilità sociale, purché a queste ultime
strumentali. Sulle attività non caratteristiche si pagherebbero imposte non agevolate.
In sintesi, il percorso riconosce la stabile collocazione dell’impresa sociale nel terzo settore
e prevede prassi e istanze sociali che maturano tramite imprese for profit. L’impresa
sociale avrebbe un serio regime vincolistico, campi d’azione delimitati, quindi un favor.
Avremmo anche graduate esperienze con meno vincoli e requisiti, ma senza gli incentivi
delle imprese sociali. È presto per capire il quadro finale, ma forse si stanno aprendo
nuove frontiere nella vocazione imprenditoriale.
Vicepresidente gruppo Pd al Senato, relatore Ddl delega su terzo settore e impresa sociale
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ESTERI
Del 3/12/2015, pag. 1-32
Il gioco pericoloso dei due presidenti
ANDREA BONANNI
LE ACCUSE di Putin a Erdogan, le foto che proverebbero come la Turchia sia il principale
beneficiario del petrolio del Califfato, le insinuazioni su una lobby del contrabbando ai piani
alti di Ankara segnano un salto di qualità nello scontro tra i due presidenti-padroni.
E non per la prima volta danno forma al tentativo del Cremlino di appellarsi direttamente
all’opinione pubblica occidentale scavalcando le scelte politiche dei suoi governi. Ma
soprattutto ci danno la misura di quanto siano cambiati, mentre l’Europa e l’Occidente
dormivano, gli equilibri e le modalità stesse della politica internazionale. E di quanto, per
conseguenza, si stiano rivelando inadeguate le istituzioni che ci eravamo dati per gestirla.
Russia e Turchia sono due grandi Paesi che solo recentemente hanno adottato una
struttura di governo almeno formalmente democratica, in omaggio alla prevalenza dei
valori occidentali dopo la fine della guerra fredda. Però la transizione si è compiuta a metà.
I loro leader godono di ampio sostegno popolare e parlamentare. Ma le istituzioni di
garanzia non sono sufficientemente indipendenti. I giornalisti finscono in prigione o
all’obitorio. Gli oppositori vengono eliminati in circostanze poco chiare. I poteri economici
sono troppo contigui al potere politico in commistioni spesso ambigue. In entrambi i Paesi
la parte evoluta della società civile e urbanizzata è minoritaria e le sue aspirazioni sono
schiacciate “democraticamente” da una maggioranza culturalmente arretrata che emana
dalle enormi province dei due ex imperi.
Tutto ciò farebbe parte della normale e spesso dolorosa evoluzione che ogni società deve
maturare nel suo lento tragitto verso una democrazia compiuta. Se non che russi e turchi
si sono venuti a trovare su sponde opposte nella guerra civile siriana, che sta devastando
tutto il Medio Oriente e lacerando il mondo islamico, mentre le democrazie compiute
stanno a sostanzialmente guardare. Erdogan, che un tempo si diceva amico del dittatore
Assad (ma si diceva amico anche di Putin), ora vuole cacciarlo da Damasco. Il presidente
turco si fa difensore dei correligionari sunniti contro sciiti e alawiti. Vuole impedire che la
Siria finisca nell’orbita iraniana, come rischia di accadere all’Iraq. Teme e detesta i curdi
che combattono contro Daesh. Vorrebbe creare una “fascia di sicurezza” lungo le proprie
frontiere ma in territorio siriano per stroncare sul nascere la formazione di uno stato curdo
tra Iraq e Siria. Soprattutto vuole impedire una coalizione anti-Califfato estesa alla Russia
che finisca per confermare Assad alla guida del Paese. Insomma, ritiene di avere forti
interessi in Siria e, soprattutto, il diritto di difenderli con le unghie e con i denti.
Putin vuole salvare a tutti costi il regime dell’alleato Assad perché gli garantisce un piede
nel Mediterraneo. La Russia, fin dai tempi dell’Afghanistan, teme il fondamentalismo
sunnita, che potrebbe dilagare in Asia centrale, mentre ritiene che l’Islam sciita sia più
pragmatico, gestibile e soprattutto disponibile ad un’intesa. Inoltre l’apertura di un fronte
siriano, dove ormai è diventato protagonista, offre a Putin un prezioso capitale politico da
spendere con l’Occidente sul fronte ucraino, dove la sua posizione è sicuramente meno
difendibile. Partendo da posizioni così diametralmente opposte, i due presidenti- padroni si
sono gettati nella mischia con una logica di pura potenza nazionale, perché quella è la
sola logica che, a casa loro, procura consensi. Non è detto che questo gioco pericoloso
finisca male. Alla fine, dopo aver fatto volare un po’ di stracci, Mosca e Ankara potrebbero
anche ritrovare un’intesa. Quello che interessa a entrambi è sostanzialmente affermare il
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proprio ruolo autonomo e sovrano a scapito di un Occidente un tempo egemone ma che
sembra aver perduto ogni capacità e anche ogni volontà di leadership.
In Iraq l’espansione del Califfato arrivato alle porte di Bagdad è stata fermata dalle milizie
sciite agli ordini di Teheran. In Siria dai guerrieri Hezbollah, sempre agli ordini di Teheran,
e ora dai missili e dai bombardieri russi che appoggiano l’esercito di Assad. La coalizione
anti Daesh messa su dagli americani non è riuscita a ottenere risultati significativi sul
terreno. Gli europei vi si sono aggiunti alla spicciolata, senza un briciolo di coordinamento
e senza un’ombra di disegno strategico. Abbiamo già pagato 3,6 miliardi per aiutare i
profughi siriani e ne spenderemo altri tre per evitare che vengano da noi. Ma in un anno
ne sono arrivati già più di un milione, mettendo a rischio la nostra fragile coesione
europea. La Nato, un tempo baluardo dell’Occidente, è rimasta in Afghanistan ma è
assente in Siria come è assente in Libia dove la guerra è alle porte di casa. Non ha saputo
ritagliarsi un ruolo nella lotta al terrorismo jihadista. Hollande, con i morti di Parigi sulle
braccia, ha preferito fare appello all’Europa piuttosto che rivolgersi all’Alleanza atlantica.
Tutto quello che la coalizione occidentale ha saputo fare è allargarsi al Montenegro,
aumentando l’irritazione di Mosca, salvo poi convocare una seduta del Consiglio NatoRussia, che non si riunisce da diciotto mesi. Un anno e mezzo di mancato dialogo, mentre
il mondo stava cambiando. Se questa è la leadership dell’Occidente democratico, non c’è
da stupirsi che le mezze democrazie, come la Russia e la Turchia, prendano l’iniziativa in
una crisi dove finora hanno agito solo dittature sanguinarie, come quella di Assad, o
teocrazie ancora più mostruose, come il Califfato di Daesh. Ma le istituzioni di quello che
un tempo si definiva orgogliosamente il Mondo libero, dalla Nato all’Unione europea,
dovrebbero cominciare a chiedersi se riusciranno a sopravvivere alla propria impotenza.
E, soprattutto, se ne valga davvero la pena.
del 03/12/15, pag. 1/15
Caos di guerra
Turchia/Isis. La Turchia apripista, verso un fronte di guerra peggiore
Tommaso Di Francesco
Stiamo facendo tutti finta di non vedere quel che sta per accadere in Siria: una guerra di
ancora più vaste proporzioni che va ad aggiungersi a quella in corso che l’Occidente ha
alimentato sostenendo radicalismi armati di ogni genere purché fossero contro Assad.
Sarà un caos belli così devastante che l’abbattimento del jet russo da parte dell’aviazione
turca — vero apripista di questo scenario caotico e micidiale — sembra un piccolo
incidente di passaggio.
Dopo gli attentati di Parigi, la Francia dello stato d’emergenza ha avviato la sua guerra di
vendetta contro lo Stato islamico, ma alla fine pronta a coordinare le azioni militari con la
Russia già sul campo. Perché l’aviaziona russa era nel frattempo intervenuta di fronte alla
débâcle del fronte occidentale, quella coalizione degli «Amici della Siria» — dagli Usa, ai
Paesi europei alle petromonarchie del Golfo — impossibilitata a sbrogliare la matassa
siriana dopo averla imbrogliata fino alla distruzione attuale. La risposta all’intervento russo
non si è fatta attendere, con la bomba sull’aereo civile da parte dell’Isis e con
l’abbattimento del jet militare Sukhoi da parte dell’aviazione di Ankara, grande sponsor
dell’Isis. L’intervento militare anti-russo del Sultano atlantico Erdogan è stato indirizzato a
far fallire ogni possibilità di essere esclusi dalla spartizione della Siria e dalle mire contro
l’Iran. E quindi contro i risultati «unitari» del vertice di Antalya che, proprio in Turchia,
aveva visto il riavvicinamento tra Putin e Obama.
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La china presa dai nuovi annunci d’intervento armato nell’area, è un precipizio che sembra
premiare proprio l’intraprendenza criminale di Erdogan, non a caso baluardo Nato. Accade
così che la Gran Bretagna, nonostante i pacifisti e la volontà del leader laburista Corbyn,
sia avviato verso i bombardamenti e già la Raf scalda i motori nella base britannica di
Akrotiri a Cipro; che il segretario alla difesa Usa Carter annunci «stivali a terra» in Iraq, per
operazioni mirate e addirittura in Siria per «operazioni unilaterali».
Accade che Netanyahu riveli che raid e operazioni coperte israeliane siano ormai in corso
in territorio siriano; che arrivino truppe e aerei tedeschi fuori da ogni logica di legittimità
dopo il passato della Germania ora riunificata; e che Federica Mogherini Mister Pesc
cerchi un nuovo bis: mentre Renzi dichiara di non volere una «Libia bis», la
rappresentante Ue chiama a responsabilità, per Siria e Libia, la Nato, cioè la protagonista
dei raid che, con l’abbattimento di Gheddafi, hanno aperto il varco ai jihadisti e ai loro
santuari verso Siria, Tunisia, Iraq e Mali. Si allarga dunque la scena bombardante, dei
paesi che corrono alla spartizione della terra siriana e ad un ipotetico quanto lontano
tavolo dei negoziati, pronti a gridare «vittoria»: ma chi avrà diritto a sedersi al tavolo dei
vincitori, davvero non è chiaro.
Chiaro è che Damasco fa sapere che ogni azione militare, su terra e dal cielo, che non sia
concordata — come quelle russa e francese — con il governo siriano è considerata
«aggressione»: e si riferisce al ruolo dell’esercito di Ankara, a quello britannico e degli
Stati uniti, per non parlare dei raid israeliani. La guerra dunque si allarga ancora di più.
Mentre Obama ripete — come una litania — «Assad se ne deve andare», dimenticando
che proprio per mandare via Assad la sua coalizione dal 2012 a alla fine del 2014, quando
gli Usa si sono «ravveduti», ha sostenuto proprio il nemico jihadista. È certo e sicuro che
Assad dovrà uscire di scena, probabilmente nell’arco di un anno; la Russia dice che deve
decidere il suo popolo. Ma ora non a caso proprio la Francia con il ministro degli esteri
Fabius sembra legittimare «con l’esercito libero siriano» anche l’«esercito di Damasco»
come le vere truppe di terra da valorizzare.
Mentre Obama pronuncia la cantilena «Assad se ne deve andare», invece sostiene
Erdogan e il suo spazio aereo: il Sultano che massacra il suo popolo kurdo, che fa strage
dell’opposizione e stralcia i diritti umani arrestando giornalisti che denunciano i traffici
sporchi di Ankara con l’Isis. No Erdogan non solo non se ne deve andare, ma l’Ue gli
regala 3 miliardi di euro per recintare e arrestare migranti, mentre il vertice Nato è corso in
suo aiuto contro l’«aggressività russa nell’area». E mentre «Assad se ne deve andare», la
monarchia saudita, santuario finanziario e in armi dello Stato islamico, va invece tenuta
naturalmente e saldamente al suo posto.
Il circo di menzogne fa davvero paura. Ma siamo «tranquillizzati» finalmente dal ministro
Angelino Alfano: scopriamo infatti i foreign fighters, ora li snidiamo e li arrestiamo. Erano
20mila dall’Europa e altrettanti dagli Usa, denunciava Obama un anno fa. Ma nessuno si è
chiesto com’è stato possibile che decine di migliaia di giovani siano partiti dalle capitali
europee ( e dalel città americane) e poi arrivati in Medio Oriente quando non direttamente
in Turchia per essere addestrati, senza che una sola intelligence occidentale avesse da
dire nulla negli ultimi quattro anni? Adesso «li scoprono». E prima? Prima chiudevamo tutti
e due gli occhi, perché «Assad se ne deve andare». E così in questi giorni «scopriamo» le
cellule islamico-kosovare in Italia e, dice il procuratore di Pristina, che «300 combattenti
kosovari sono partiti per la Siria». È davvero una «bella» scoperta, per una «nazione», il
Kosovo, che vive intorno — come la caramella col buco — alla mega-base Usa e Nato di
Camp Bondsteel presso Urosevac, una «nazione» ora etnicamente ripulita con un milione
e 700mila abitanti, grande quanto il Molise e inventata dai bombardamenti Nato del 1999,
considerata un narcostato dall’Onu e con il 50% di disoccupazione nonostante
finanziamenti in percentuale superiori a quelli degli organismi internazionali verso l’Africa.
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E dove non si muove foglia che l’Alleanza atlantica non voglia e non sappia: davvero una
«rivelazione».
Ma forse qualcosa deve essere sfuggita anche alla Nato, se ieri per allargare l’orizzonte,
ha chiesto anche al Montenegro di entrare nell’Alleanza atlantica che si allarga sempre più
a est. Abbiamo creato deserti che chiamiamo pace. E la guerra ci ritorna in casa.
Del 3/12/2015, pag. 2
L’offensiva. La Russia: “Anche armi al Califfato in cambio di greggio,
coinvolto il figlio del presidente”. Lui replica : “È tutto falso”
L’accusa di Mosca “Erdogan fa affari col
petrolio dell’Is” Londra: via ai raid
NICOLA LOMBARDOZZI
Non è solo la Turchia ad arricchirsi con il petrolio del Califfato armando di fatto i terroristi
dell’Is. Nel giorno della denuncia russa dei «crimini della famiglia Erdogan» c’è spazio
anche per pesanti allusioni alla «scarsa reattività degli Stati Uniti» e alle speculazioni di
decine di compagnie occidentali, che starebbero approfittando senza pudore della
situazione acquistando a metà prezzo tonnellate di petrolio dagli integralisti islamici che
controllano i pozzi siriani e iracheni.
Lo scontro si accende nel giorno in cui la Gran Bretagna vota il sì ai raid in Siria (la
Camera dei Comuni ha approvato con 397 voti a 223 il piano di Cameron, le azioni
possono partire in queste ore). Mentre migliaia di persone partecipavano nella città di
Lipetsk ai funerali del pilota abbattuto al confine turco siriano, i russi hanno potuto
assistere in diretta tv a una durissima requisitoria contro il regime di Erdogan, svoltasi
sotto forma di conferenza stampa nella cupa sede del Ministero della Difesa sul
lungofiume Frunzenskaja. Dietro a uno schermo gigante che mostrava foto satellitari e
cartine militari, quattro generali in tuta mimetica hanno sostenuto «sulla base di prove
inconfutabili» che i terroristi dello Stato Islamico incassano oltre due miliardi di dollari
l’anno dalla rivendita clandestina del petrolio e del gas. Fino a ottobre l’incasso netto da
parte dei fedeli di Al Baghdadi corrispondeva a oltre un milione e mezzo al giorno in
un’attività che prosegue ormai da sei anni. Quanto basta per capire come l’Is possa
permettersi di arruolare migliaia di foreign fighters anche mercenari, addestrarli, armarli e
tenere in piedi una rete logistica che sta facendo impazzire in questi giorni i servizi di
sicurezza di tutta Europa. I raid aerei russi avrebbero brutalmente dimezzato il reddito che
resta però altissimo. Le foto e le prove presentate dai militari di Mosca inchiodano la
Turchia. Da tre rotte ben precise il petrolio ed il gas valicano senza controlli il confine con
una flotta di ben 800mila autocisterne camuffate da semplici tir. Ma c’è di più. Secondo lo
Stato Maggiore russo, gran parte dei pagamenti del petrolio arriverebbero direttamente
sotto forma di armi e di aiuti militari. Un inviperito generale Mikhail Mizintsev, capo del
centro nazionale per la Difesa, annunciava nuovi sviluppi e altre prove per i prossimi
giorni: «Nelle sole ultime due settimane, sono passati dalla Turchia alla Siria ben 2000
militanti, 120 tonnellate di munizioni e circa 250 veicoli. Tutti destinati all’Is e all’altra
formazione terroristica Jabhat al Nusra. Il nostro controspionaggio ha anche individuato
campi di addestramento dei terroristi in territorio turco, spostamenti di grandi quantità di
esplosivo, e sospetti aiuti umanitari». Un’allusione alla notizia pubblicata da molti giornali
russi di un ospedale segreto gestito dalla figlia di Erdogan, Sumeye, al confine con la Siria
e votato alla cura dei feriti dell’Is.
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Ma in attesa della seconda bordata di accuse, bastano quelle snocciolate ieri per creare
tensione all’interno del regime turco. Le foto dei satelliti russi mostrano convogli di
centinaia di autocisterne che partono da Raqqa e che attraversano senza alcun controllo
doganale la frontiera turca. La rotta Nord converge su Batman, sede delle più grandi
raffinerie turche. La rotta Est, raccoglie il petrolio iracheno e lo smista in grandi centri di
stoccaggio dell’Anatolia. La rotta ovest, invece punta ai porti turchi di Dortyol ed
Iskenderun. Le immagini mostrano le lunghe code di camion in attesa di scaricare il loro
prezioso carico. Il traffico sarebbe gestito direttamente dal figlio di Erdogan, Bilal, che ha
accumulato una fortuna con la sua attività di armatore della compagnia “Bmz”. E con la
complicità del cognato, genero di Erdogan, Berat Albayark, appena nominato ministro
turco dell’Energia. Il petrolio viene acquistato a 15-20 dollari al barile e rivenduto al prezzo
di mercato che si aggira sui 45-50 dollari. Un affare gigantesco che non sarebbe però solo
destinato ai turchi. Dove vanno infatti le navi cariche di petrolio che lasciano i porti del
Mediterraneo? Alla inevitabile domanda, i generali russi si fingono vaghi. Ammiccano
pesantemente quando dicono: «Da mesi giriamo queste informazioni ai nostri colleghi
americani. E’ strano che non facciano niente». Qualche esperto del settore, come il
giornalista russo islamico Jamal, parla di misteriose aziende private europee, di rotte
contorte che finirebbero anche in Israele e, addirittura, allo stesso governo di Damasco,
costretto ad acquistare il suo petrolio arricchendo una torma di speculatori e il suo stesso
nemico giurato. Inevitabili le reazioni indignate di Ankara. Con linguaggio allusivo, Erdogan
ha detto tra l’altro: «Eppure Putin, un tempo, parlava bene di me. Quando ci incontravamo
con Berlusconi e Schroeder (l’ex cancelliere tedesco, adesso boss di Gazprom Ndr) ».
Sembra il preludio di una controffensiva di accuse legate alla gestione di Putin degli affari
del petrolio russo secondo uno schema caro all’opposizione moscovita. Se ne parlerà oggi
a Belgrado, alla riunione dell’Osce, nel primo faccia a faccia tra i ministri degli Esteri
Lavrov e Cavusoglu. Nuova fase di una delicatissima partita ancora tutta da giocare tra
Russia e Turchia. “800mila cisterne camuffate da tir Gli Stati Uniti sanno e tacciono E sono
coinvolte anche alcune compagnie occidentali”
Del 3/12/2015, pag. 3
Energia, finanza e un genero ministro il
potere ad Ankara è un caso di famiglia
MARCO ANSALDO
MAI mettersi contro la Russia, recita un antico adagio. Perché la battaglia contro quel
colosso può costare sconfitte atroci. La Storia lo ha insegnato a Napoleone Bonaparte e
ad Adolf Hitler. Adesso tocca a un personaggio di caratura sicuramente inferiore, quel
Recep Tayyip Erdogan la cui riconosciuta determinazione e impulsività lo ha portato a
sfidare l’Orso russo tirando giù un suo aereo militare, evento mai nemmeno sfiorato da un
alleato Nato contro il Paese leader dell’ex Patto di Varsavia. E adesso, giorno dopo giorno,
la vendetta di Vladimir Putin si abbatte sull’ex amico, toccandolo nel punto più debole e
scoperto: gli affari della famiglia. Da diverso tempo la famiglia di Erdogan attira le
attenzioni dei turchi, ma è argomento scarsamente noto all’estero, come in modo perfido
hanno mostrato ieri le accuse brucianti del vice ministro russo della Difesa, Anatoli
Antonov: «In Occidente nessuno si pone domande sul fatto che il figlio del presidente
turco sia a capo della più grande compagnia energetica, o che il suo genero sia stato
nominato ministro dell’Energia. Che meravigliosa famiglia d’affari! Il cinismo della
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leadership turca non conosce limiti». Subito il leader turco ha negato, rispondendo
sdegnatamente. Eppure, i legami tra i figli di Erdogan e il mondo degli affari non sono
qualcosa di esattamente estraneo. Due mesi fa, ad esempio, Bilal, il figlio 35enne dei
quattro rampolli di casa Erdogan (due maschi e due femmine) ha preso temporanea
dimora a Bologna. Il quotidiano di centro sinistra Cumhuriyet, il cui direttore nel frattempo
è stato arrestato per gli scoop sui traffici d’armi dei jihadisti con i militari turchi ed è in
carcere con l’accusa incredibile di spionaggio assieme al capo redattore centrale, aveva
dato la notizia che l’uomo si era iscritto alla Johns Hopkins University per completare il suo
dottorato. A un’età che ha sollevato qualche dubbio, e avanzato ipotesi – mai provate –
che in realtà Bilal fosse qui per gestire i suoi affari. Businessman dal 2006, il figlio del
leader turco è uno dei tre azionisti di un’azienda che si occupa di trasporti marittimi. Solo
lo scorso mese il media americano The Verge ha scritto che il gruppo, denominato BMZ,
avrebbe illegalmente portato petrolio in Turchia dal cosiddetto Stato Islamico. Bilal fa parte
anche del consiglio di amministrazione della fondazione Turgev che si occupa di giovani e
di formazione: fu accusato di corruzione. Era uno degli indagati-chiave della Tangentopoli
del Bosforo esplosa nel dicembre 2013.
Ma il caso forse più eclatante è nato solo pochi giorni fa ad Ankara quando, nemmeno
troppo a sorpresa, nel nuovo governo del premier conservatore islamico Ahmet Davutoglu,
è spuntato come ministro dell’Energia il nome di Berat Albayrak, genero di Erdogan, cioè il
marito della figlia. Giovane come Bilal (37 anni), potentissimo, parlamentare, con una
moglie velata come la stragrande maggioranza delle consorti dei ministri turchi, Albayrak
compare dopo le elezioni vittoriose del partito al potere al balcone, a fianco di Erdogan,
con le mani levate in alto. Fino a poco tempo fa era a capo della holding Calik, un
conglomerato che va dal tessile alla finanza, non esclusi i media dove il moderato
quotidiano Sabah, una volta acquistato, ha assunto una spiccata tendenza filo
governativa. Tra le voci che circolano intorno a Erdogan non c’è solo quella delle
affiliazioni per i legami parentali, ma anche la cerchia dei ministri e degli amici. La stessa
Tangentopoli del Bosforo, esplosa all’epoca in cui il leader era presidente del Consiglio,
costrinse alle dimissioni 4 ministri, di cui alcuni erano suoi amici personali.
Il Pentagono ieri è corso in aiuto dell’alleato turco parlando di «accuse russe assurde». E
Erdogan si è difeso con la solita vigoria: «Nessuno può lanciare calunnie contro la Turchia
sull’acquisto di petrolio dall’organizzazione terroristica». E proprio l’edizione on line di
Sabah ha riportato la sua difesa con evidenza: «Un tempo le dichiarazioni di Vladimir Putin
su di me riguardavano sempre il mio coraggio e la mia audacia. Parlava molto del mio
essere uno statista onesto quando incontrava l’ex presidente del Consiglio italiano Silvio
Berlusconi e l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder».
Era, quello, un quartetto considerato d’acciaio, unito dal potere, dalla politica, dagli affari.
Alcune foto riprendono ancora Erdogan, Putin e Berlusconi incrociare le loro mani, nei
vertici fatti a Soci, sulle rive del Mar Nero. Poi, anche quell’intesa – il puritano Erdogan non
ha più voluto vedere l’ex presidente del Consiglio italiano dopo lo scandalo delle Olgettine
– è naufragata. Rimaneva l’alleanza con l’Orso russo. Ma la vicenda del Sukhoi abbattuto
ha strappato l’ultimo angolo di quella foto, e oggi gli attacchi diretti alla famiglia di Erdogan
appaiono un marchio difficile da lavare.
Del 3/12/2015, pag. 6
Il califfo petroliere: chi compra da lui?
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L’oro nero dello Stato Islamico fa gola a Paesi vicini (e lontani). Ecco i
nomi (e i rivoli) di un business da 500 milioni
WASHINGTON A nessuno fa schifo il petrolio del Califfo. Dunque finisce in Turchia, in
Kurdistan, a Damasco e molto più lontano perché a volte è mescolato a quello legittimo. E
questo spiega come porti allo Stato Islamico circa 500 milioni di dollari all’anno. Una fetta
di quel miliardo di dollari che rappresenta il budget del sedicente Stato Islamico.
Le accuse del Cremlino sulle tre rotte usate dall’Isis per far arrivare il greggio in Turchia
sottolineano con clamore e foto aspetti già emersi. Solo che stavolta Mosca personalizza
la situazione, coinvolgendo i familiari del presidente turco Erdogan, dal figlio Bilal al
genero. Un network che ha incrociato il grande business, con connessioni importanti,
all’arte di arrangiarsi di coloro che vivono un’esistenza precaria.
Oltre un anno fa sono emersi dettagli su quanto avveniva a Ezmerin, villaggio siriano, al
confine turco. Sotto la frontiera e i campi passavano centinaia di tubature gestite dai
contrabbandieri locali. Dozzine di camion provenienti dal Califfato scaricavano il greggio
che arrivava all’interno di case ed edifici a Hacipasa, Turchia, dove erano in attesa altri
mezzi. Tutto gestito al cellulare e senza la minima preoccupazione delle autorità. Tutti
sanno, tutti fanno. Anche perché l’ottanta per cento della popolazione della zona è
coinvolto. Il caso di Ezmerin era emblematico, ma non era certo l’unico.
Con il passare del tempo i trafficanti hanno aumentato il numero delle cisterne dirette
verso il territorio controllato da Ankara. I serpentoni dei camion erano ben visibili dall’alto:
infatti sono stati colpiti dai russi, ma anche dagli americani, come hanno documentato
video diffusi di recente. Il Pentagono, che pure oggi difende l’alleato turco, dovrebbe avere
molto materiale sull’argomento. In maggio gli americani avrebbero intercettato documenti
relativi proprio ai legami tra Isis e Paesi vicini. Gli oppositori del presidente Erdogan
hanno rilanciato i sospetti chiamando in causa Bilal. Sposato, due figli, 34 anni, laurea ed
esperienza di lavoro negli Usa, Bilal possiede numerose società. Tra queste ve ne sono
alcune che importerebbero l’oro nero via Kurdistan iracheno, per poi piazzarlo sul mercato
asiatico (ma anche in Israele). Punti d’appoggio il terminale turco di Ceyhan, sponde a
Malta, tante petroliere e relazioni importanti. Un intreccio che, stando ai russi, farebbe gli
interessi della famiglia del Sultano. La Turchia, oltre a smentire ogni responsabilità, può
appendersi all’alibi di non essere la sola. Il 25 novembre il Tesoro americano ha adottato
sanzioni contro George Haswani e Kirsan Ilyumzhinov. Il primo è un intermediario molto
vicino al regime siriano. Il secondo è un imprenditore russo, ex presidente della
Repubblica di Kalmikya nonché della Federazione mondiale degli scacchi. Proprio
Haswani avrebbe favorito relazioni economiche con gli avversari. Damasco importa
energia dall’Isis e in cambio, oltre al denaro, offre consulenza tecnica per gli impianti e
benzina di qualità. Non certo per amicizia ma per necessità. Come per altre attività, anche
sul petrolio lo Stato Islamico impone tasse e pedaggi. Pochi i rischi, alti gli introiti. Il racket
imbratta molti, fa emergere delle complicità imbarazzanti, mette in difficoltà un Paese
dell’Alleanza atlantica come la Turchia ma diventa scandalo quando fa comodo. Contorni
ambigui di una crisi dove non ci sono santi.
Guido Olimpio
del 03/12/15, pag. 3
Ankara ferma 1.300 profughi. Scontri al
confine greco-macedone
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Accordo Ue-Turchia. Ipotesi di sospensione della Grecia da Schengen
Gli effetti dell’accordo tra Bruxelles e Ankara sui migranti non si sono fatti attendere.
Neanche i tempo di far asciugare l’inchiostro, e già lunedì la guardia costiera turca ha
fermato 1.300 profughi che si stavano preparando a partire dalla costa egea della Turchia
diretti verso le isole greche. L’operazione è la dimostrazione concreta di come il governo
turco sia capace di trattenere sul proprio territorio i rifugiati impedendogli di raggiungere
l’Europa, come assicurato domenica scorsa in Belgio dal premier Ahmet Dovotoglu ai
leder europei. Ma volendo si può leggere anche come la dimostrazione di come, con
altrettanta facilità, le stesse autorità turche sarebbero capaci di spingere (o costringere) i
profughi a partire nel caso l’Unione europea non dovesse mantenere gli impegni, sia
economici che politici, assunti con Ankara.
Stando a quanto riferito dal’agenzia di stampa turca statale Anadolu i migranti sarebbero
tutti originari di Siria, Iran e Iraq e Afghanistan. 750 sono stati fermati ad Ayvacik, nella
provincia nord-occidentale di Cannakale, mentre altri 550 sono stati intercettati mentre si
nascondevano i alcuni oliveti della stessa zona. Secondo un’altra agenzia di stampa,
Dogan tutti sarebbero stati trasferiti nel centro di detenzione temporanea di Ayvacik,
centro che però disporrebbe di soli 84 posti.
In cambio di un maggiore impegno da parte della turchia nel fermare i migranti, l’Unione
europea di è impegnata a versare 3 miliardi di euro ad Ankara, soldi che — gestiti da un
apposito fondo gestito da membri europei affiancati da un rappresentante turco,
dovrebbero servire per la gestione dei campi che in Turchia già ospitano 2,5 milioni di
profughi siriani, ma anche alla costruzione di nuovo campi. L’Ue si è anche detta
disponibile a una liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e alla ripresa del processo di
adesione della Turchia. Secondo il premier ungherese Viktor Orban, l’accordo conterrebbe
anche una parte tenuta segreta nella quale l’Europa si sarebbe impegnata a prendere 500
mila profughi siriani dalla Turchia per distribuirli tra i 28 paesi membri.
La situazione in Europa resta comunque sempre molto caotica. L’Ue starebbe addirittura
pensando di sospendere la Grecia dall’area Schengen per l’incapacità dimostrata nella
gestione dei profughi. A spingere perché quest avvenga sfruttando le possibilità offerte
dall’articolo 26 del Codice di Schengen, sarebbero in particolare Germania, Austria,
Slovenia e Croazia, ai quali sarebbero pronti ad aggiungersi anche Belgio, Olanda e
Lussemburgo. Tutti questi paesi accusano la Grecia di non aver mantenuto gli impegni
presi per quanto riguarda l’identificazione di migranti negli hotspot e il loro ricollocamento.
L’ipotesi di sospensione è contenuta in un documento in preparazione per i prossimo
consiglio dei ministri degli Interni di venerdì, in cui Atene è accusata di limitarsi a trasferire
i migranti dalle isole sulle quali sbarcano fino al confine con la Macedonia.
Per il ministro greco per l’immigrazione Ioannis Mouzalas, l’idea di sospendere la Grecia
da Schengen è «un mix di realtà e mito» . Mouzalas ha anche definito «ingiuste» le
accuse rivolte al suo paese. «E’ vero, la Grecia è sotto una grande pressione da parte di
alcuni membri Ue che pensano erroneamente che il flusso dei rifugiati possa essere
controllato dalla sola Grecia — ha spiegato -. la Grecia è solo l’inizio del corridoio, ma la
porta è in Turchia, E quindi se i flussi non vengono controllati in Turchia è impossibile
controllarli dalla Grecia o da qualsiasi altro membro dell’Ue».
A smorzare i toni ci ha pensato ieri sera il ministro degli Esteri lussemburghese Jean
Asselborn di ritorno da un viaggio i Grecia secondo i quale le autorità greche hanno «dato
il senso di volersi muovere», come dimostrerebbe anche l’apertura del primo hotspot al
Pireo. Intanto è sempre più drammatica la situazione al confine greco-macedone, dove
almeno 1.500 migranti economici sono bloccati dal 20 novembre scorso, giorno i cui
Skopje ha deciso di far passare solo siriani, afghani e iracheni. Ieri la polizia ha caricato
con i lacrimogeni i migranti che hanno cerato di forzare i confine.
19
Del 3/12/2015, pag. 8
Pressioni sulla Grecia: «Fuori da Schengen»
Dopo le difficoltà nella gestione dei migranti, i falchi si mobilitano e
chiedono una sospensione
BRUXELLES L’Ue sta mettendo sotto pressione la Grecia per convincerla a chiedere gli
aiuti comunitari necessari per migliorare il controllo delle sue frontiere con la Turchia, da
dove solo quest’anno sarebbero passate molte centinaia di migliaia di migranti diretti in
Germania e in altri Stati del Nord Europa. Nel Consiglio dei 28 ministri degli Interni, in
programma domani a Bruxelles, alcuni Paesi — qualora risultasse l’impossibilità per Atene
di controllare l’esodo dalla costa turca — potrebbero ventilare perfino l’ipotesi di imporre
una sospensione della partecipazione al Trattato di Schengen, che consente la libera
circolazione dei cittadini tra gli Stati aderenti.
Fonti diplomatiche hanno attribuito a Germania, Austria, Slovenia e Croazia le posizioni
più dure verso Atene. Hanno però escluso che al momento possa essere considerata una
traumatica esclusione da Schengen, tra l’altro mai menzionata nei documenti preparatori
del Consiglio di domani e del summit dei capi di Stato e di governo del 17 e 18 dicembre
prossimi. A Bruxelles in molti prevedono una accelerazione del via libera greco agli aiuti
dell’agenzia per il controllo delle frontiere Frontex e di altre entità Ue. In questo modo
potrebbero essere attuate le identificazioni dei migranti (nei centri hot spot) e frenati i flussi
verso il Nord Europa. Anche perché la situazione ambientale in Grecia, che già deve fare i
conti con una pesante crisi economica, sta diventando sempre più preoccupante.
Il commissario Ue per la Salute, il lituano Vytenis Andriukaitis, dopo una missione nell’isola
di Lesbo presa d’assalto dai migranti, ha scritto al presidente lussemburghese della
Commissione europea Jean-Claude Juncker per riferire scene di disperazione e da
catastrofe umanitaria. Al confine tra Grecia e Macedonia, dove sono bloccati tanti
immigrati non identificati e privi dei requisiti per chiedere asilo, si susseguono scontri con
la polizia macedone determinata a respingerli in ogni modo. In più il presidente polacco del
Consiglio Ue Donald Tusk ha proposto di tenere i migranti nei centri di accoglienza per 18
mesi per le verifiche di sicurezza e anti-terrorismo. Il ministro greco dell’Immigrazione
Ioannis Mauzolas ha affermato che «la Grecia è ingiustamente sottoposta a una intensa
pressione» da alcuni Paesi membri, che la sospettano di limitarsi ad accompagnare i
migranti al confine macedone. Ma ha smentito la minaccia di espulsione da Schengen.
«La Grecia è l’inizio del corridoio, ma la porta è la Turchia — ha precisato Mouzalas —. Se
i flussi non vengono controllati dalla costa turca, è impossibile controllare i flussi dalla
Grecia o da qualsiasi altro Stato membro dell’Ue». I tre miliardi promessi da Bruxelles ad
Ankara dovrebbero frenare gli arrivi. Il vicepresidente olandese della Commissione
europea Frans Timmermans ha smentito un accordo segreto Ue-Turchia per ricollocare
nei Paesi membri altri 400 mila rifugiati, rivelato dal premier ungherese Viktor Orban. I
ministri degli Interni domani proveranno a far procedere le ripartizioni fissate da tempo. E
ancora non attuate.
Ivo Caizzi
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Del 3/12/2015, pag. 1-6
Montenegro pronto a entrare nella Nato
Il gelo del Cremlino
Messaggio dell’Alleanza a Putin. E presto potrebbero entrare anche
Georgia, Bosnia e Macedonia
FEDERICO RAMPINI
È UN MODESTO passo per la Nato, ma è gravido di conseguenze per i rapporti con la
Russia: che parla di «provocazione » e annuncia ritorsioni. I ministri degli Esteri della Nato
riuniti a Bruxelles hanno deciso di invitare il piccolo Montenegro ad entrare nell’Alleanza
come 29mo Paese membro. Lo ha annunciato il segretario generale della Nato, Jens
Stoltenberg, sottolineando come «la decisione storica di avviare colloqui di adesione con il
Montenegro» sia stata presa all’unanimità. È la prima espansione dell’Alleanza atlantica
da sei anni. Proprio mentre gli occidentali cercano un’intesa con Vladimir Putin in Siria,
l’annuncio crea un gelo con Mosca. Nell’ottica russa si alimenta la sindrome
dell’accerchiamento: quella che secondo Putin contribuì a giustificare l’annessione della
Crimea e l’attacco in Ucraina. Gli ribatte duro il segretario di Stato John Kerry: «La Nato
non è contro di voi. E’ un’alleanza difensiva, che rende più sicuri quelli che ne fanno parte.
Protegge anche contro il terrorismo e lo Stato islamico».
L’apertura dei colloqui per l’allargamento – che dovrebbero durare un anno – avviene 16
anni dopo che la stessa Nato bombardò il Montenegro durante la guerra del Kosovo,
quando faceva ancora parte della Iugoslavia. In precedenza, gli ultimi Stati a entrare nella
Nato furono l’Albania e la Croazia nel 2009. Dal punto di vista degli equilibri
strategici, il Montenegro è un’aggiunta minuscola: ha una popolazione di 650.000 abitanti,
e un esercito di soli duemila soldati. Ma il messaggio a Putin è politico: con questo
annuncio gli viene detto che non ha un diritto di veto sull’allargamento della Nato. I
prossimi della lista potrebbero essere la Georgia, la Bosnia-Erzegovina e la Macedonia:
paesi che prima della caduta del Muro di Berlino appartenevano all’Unione sovietica
(Georgia) oppure erano parte di una Iugoslavia semi-neutrale e certamente non schierata
con l’Occidente. «Dobbiamo ristabilire la nostra sicurezza e la parità nei rispettivi
interessi» dice il portavoce di Putin, annunciando azioni di ritorsione. La prima reazione è
l’annuncio della sospensione di ogni collaborazione militare tra Mosca e il Montenegro: nel
caso si unisse alla Nato – dice il senatore Viktor Ozerov, capo del Comitato di difesa e
sicurezza della Federazione – la Russia terminerà i suoi progetti bilaterali, compresi quelli
militari. Dopo le rassicurazioni di Kerry sul fatto che il passaggio del Montenegro nella
Nato non è una manovra contro la Russia, il Cremlino smorza un po’ i toni, annunciando di
essere disposto temporaneamente a riprendere la collaborazione. Ma le ripercussioni
potrebbero sentirsi in altre aree: la Siria dove l’Occidente cerca un appoggio russo, o la
Turchia con cui i rapporti sono al limite di rottura dopo l’abbattimento di un jet russo.
Il premier montenegrino Milo Djukano- vic parla di una «giornata storica» per il suo Paese.
Al contrario, secondo il capo della commissione Esteri della Camera bassa del Parlamento
russo Alexei Pushkov, l’adesione del Montenegro alla Nato non rifletterebbe la volontà del
popolo montenegrino. «Secondo i sondaggi – dice – il governo non riuscirebbe a
guadagnare la maggioranza nel caso di un referendum» di adesione alla Nato. Per
Pushkov «non si può parlare della volontà del popolo, bensì di una linea strategica di
lunga data degli Stati Uniti e delle élite filo-Nato per ampliare e sottomettere l’Europa al
dominio americano». A John Kerry la domanda sulle conseguenze viene posta durante la
sua conferenza stampa a Bruxelles: come potete chiedere alla Russia l’appoggio nella
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guerra allo Stato Islamico, e al tempo stesso rafforzare le difese Nato contro un’eventuale
aggressione russa? Per Kerry non c’è contraddizione: «La Nato è un’alleanza difensiva
che esiste da 70 anni. Non minaccia nessuno. Fornisce sicurezza ai suoi membri. Non si
focalizza sulla Russia. Perciò a Mosca dico: non ce l’abbiamo con voi, lavoriamo alla
prevenzione di minacce come l’Is, e ad un migliore governo di fenomeni come le
migrazioni». Kerry conclude con un passaggio in cui esorta Putin a «onorare gli accordi
per restituire piena sovranità all’Ucraina, rispettare i suoi confini, cessare gli aiuti militari ai
separatisti, ritirare gli armamenti pesanti». Il messaggio è chiaro: la necessità di
combattere insieme lo Stato Islamico non “assolve” Putin per le violazioni del diritto
internazionale in Crimea e in Ucraina. E’ anche un implicito altolà verso quei partner
europei della Nato che hanno cominciato a premere per la sospensione delle sanzioni
economiche alla Russia. Di certo questo alimenterà la narrazione di Putin, secondo cui la
Nato avrebbe calpestato promesse fatte all’epoca della caduta del Muro di Berlino, di non
espandersi a Est. Una ricostruzione storica che gli americani smentiscono; e che
comunque non tiene conto della libera determinazione di quei paesi (dalla Polonia ai
Baltici, dalla Romania alla Bulgaria) che vollero passare da questa parte dello scudo
atlantico.
del 03/12/15, pag. 2
Cade Homs, “capitale della rivoluzione”: le
opposizioni firmano la tregua
Siria. Il governo si accorda con i ribelli, come fatto a Ghouta e Zabadani.
Ad Aleppo l'Esercito Libero Siriano si spacca, a Raqqa i residenti
denunciano i raid internazionali
Chiara Cruciati
Niente di nuovo sotto il sole siriano. A parlare è la lingua della forza, mentre la promessa
di far sedere allo stesso tavolo governo e opposizioni entro il primo gennaio si fa sempre
meno concreta. E le due parti allora negoziano da sole, senza la supervisione di chi ne
muove i fili da quattro anni: martedì le opposizioni a Homs hanno siglato con il
governatorato della città il ritiro dal distretto di Waer, dove erano ancora presenti dopo
aver abbandonato – sotto la supervisione Onu – il resto della città oltre un anno fa.
«Evacuazione degli uomini armati e delle loro armi e ritorno delle istituzioni dello Stato nel
distretto»: questo l’obiettivo del negoziato descritto dal governatore di Homs, Talal Barazi.
In cambio i miliziani potranno lasciare la città senza ritorsioni. Una sorta di amnistia a cui
seguirà l’arrivo degli aiuti umanitari. Così cade definitivamente “la capitale della
rivoluzione”, come era stata ribattezzata dopo le prime proteste popolari del 2011 e la
comparsa delle opposizioni armate. Una città devastata, dove vivono 75mila persone
contro le 300mila che vi risiedevano prima che la guerra distruggesse la Siria e le sue reti
sociali, economiche e civili.
Non è la prima tregua locale siglata in Siria: il mese scorso toccò a Ghouta, est di
Damasco, e a settembre lla città di Zabadani al confine con il Libano e a due villaggi sciiti
a Idlib.
Opposta la situazione ad Aleppo dove a scontrarsi sono ex alleati, ovvero milizie interne
all’Esercito Libero Siriano: le violenze sono scoppiate tra le Forze Democratiche Siriane
(nuova coalizione formata da combattenti kurdi delle Ypg, assiri e alcuni gruppi legati
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all’Els) e la coalizione Fatah Halab (gli islamisti di Ahrar al-Sham, affiliata di al Qaeda, e
altre fazioni vicine all’Esercito Libero).
Una faida esplosa per il controllo di due villaggi, Keshtar e Tanab, contese dai due fronti,
ma già accesa dal sostegno che – secondo gli islamisti – i kurdi di Rojava
riconoscerebbero all’intervento aereo russo. Per le Unità di Difesa Popolari kurde, che
hanno saputo liberare Kobane e villaggi kurdi dalla morsa dell’Isis, il principale nemico
restano i gruppi estremisti sunniti che non contemplano la presenza kurda nel futuro della
Siria che immaginano. A questioni etniche si sovrappongono quelle politiche: al-Nusra, Isis
e Esercito libero accusano le Ypg di non essersi mai opposte al governo di Assad. Di
nuovo, non una priorità per Rojava che teme molto di più l’avanzata del sedicente califfato.
Non è un mistero che i cantoni kurdi, nati su ispirazione del Pkk, puntino al riconoscimento
di una futura autonomia da parte del governo centrale, promessa mossa dalla Damasco di
Assad in cambio della lotta allo Stato Islamico. Ad Hasakeh esercito governativo e Ypg
combattono in zone diverse lo stesso nemico, coordinando ufficiosamente le azioni militari.
E il nuovo intervento russo potrebbe rafforzare le relazioni tra Damasco e Rojava: Putin ha
avanzato nei giorni scorsi l’ipotesi di armare le Ypg in cambio di un’avanzata verso ovest,
in chiara chiave anti-turca.
Che l’intervento russo abbia modificato gli equilibri sul terreno è palese: la stessa Homs è
tornata in mano governativa dopo un’ampia offensiva coperta dai raid di Mosca. Il
presidente siriano incassa e ringrazia: ieri in un’intervista ad una tv ceca Assad ha vantato
il ruolo russo nel rallentare l’avanzata del “califfato”, a differenza di quanto fatto in un anno
dalla coalizione guidata dagli Stati uniti.
Eppure le bombe statunitensi e francesi continuano a colpire la “capitale” Isis, Raqqa, ma
a pagarne il prezzo sono i civili usati come scudi umani dagli islamisti: una prigione, la
definiscono ex residenti riusciti a fuggire nelle passare settimane in interviste con Middle
East Eye. «Oggi Raqqa vive in un incubo – racconta Abdullah K. – L’Isis si arrovella per
affamare in ogni modo la popolazione civile e ci riesce. Non c’è elettricità, l’acqua non è
sterilizzata. Il centro sembra una città fantasma, eccetto per le case occupate dai membri
dell’Isis che ricevono servizi. Qualsiasi intervento militare non segnerà la fine di Assad. I
miei concittadini sono stati massacrati e sfollati dai paesi stranieri».
del 03/12/15, pag. 3
I raid israeliani in Siria per colpire target
iraniani
Netanyahu. Il premier israeliano ha ammesso gli attacchi compiuti
dall'aviazione in territorio siriano. Ma sono noti i contatti che l'Esercito
dello Stato ebraico mantiene con i "ribelli" anti Assad, spesso anche i
qaedisti di al Nusra
Michele Giorgio
Non si limita solo ai raid aerei “l’operatività” di Israele in Siria, come lasciava intendere
l’altro giorno Benyamin Netanyahu. Ammettendo per la prima volta che Israele sta
intervendo militarmente in Siria, il premier e leader della destra ha spiegato che i
bombardamenti aerei sono finalizzati ad impedire che si apra «un fronte contro Israele,
quello che «l’Iran sta cercando di costruire sul Golan». L’obiettivo, ha aggiunto, è
«contrastare il trasferimento di particolari armi dannose dalla Siria al Libano.
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Continueremo a farlo». Qualche ora prima Netanyahu aveva riferito che militari israeliani e
russi si sono incontrati «per intensificare il coordinamento in modo da prevenire incidenti.
Vogliamo aumentare la cooperazione per evitare collisioni sui cieli siriani». In realtà non è
tutto così semplice e occasionale come vorrebbe far apparire il premier israeliano.
Israele in realtà opera in modo ampio e da lungo tempo in Siria, anche se focalizza il suo
intervento militare sulle regioni meridionali del Paese arabo. Dopo l’inizio della guerra
civile, lo Stato ebraico ha accolto e curato tra 1.000 e 1.800 siriani rimasti feriti nei
combattimenti a ridosso delle Alture del Golan tra forze governative e formazioni islamiste.
Per il governo israeliano si trattarebbe di un “aiuto umanitario” che spesso ha riguardato
bambini rimasti coinvolti in scontri a fuoco e bombardamenti. Tuttavia negli ospedali di
Safed e Nahariya sono stati ricoverati anche numerosi miliziani anti Bashar Assad e non
solo “ribelli moderati”. Un documentario girato in questi ospedali da un team di Vice News
ha mostrato che tra i siriani ricoverati c’erano combattenti dei gruppi più radicali, come il
Fronte al Nusra, il ramo siriano di al Qaeda che controlla parte della fascia di territorio a
ridosso del Golan. Uno di questi è stato ucciso qualche mese fa da una folla inferocita di
drusi mentre veniva trasportato all’ospedale di Safed con una ambulanza israeliana.
Israele intrattiene contatti regolari con gruppi armati che combattono contro Damasco. Un
rapporto delle Nazioni Unite riferì un anno fa che le Forze di Disimpegno degli Osservatori
delle Nazioni Unite (Undof), schierate lungo le linee di armistizio del Golan, avevano
registrato relazioni frequenti tra ufficiali israeliani e miliziani siriani che combattono contro
Damasco. Il successivo arresto per «spionaggio e contatti con agenti stranieri» di un druso
che postava sui social network video e foto dei contatti ravvicinati tra l’esercito di Tel Aviv
e i “ribelli” ha ulteriormente alimentato le indiscrezioni su attività segrete di Israele per
spezzare l’alleanza di Assad con gli alleati libanesi di Hezbollah e Teheran. Da tempo
peraltro gli analisti militari israeliani, a cominciare da Amos Gilad, affermano che il destino
della Siria è di essere suddivisa in cantoni, controllati dai diversi attori che agiscono sul
terreno. E tra questi esperti non manca chi minimizza il pericolo rappresentato dall’Isis,
almeno per gli interessi di Israele. «Sono poche migliaia di terroristi sui pick-up, armati
solo di kalashnikov. Occupano terre che nessuno vuole», ha commentato qualche mese fa
l’ex capo dell’intelligence Amos Yadlin. Mentre Netanyahu continua a concentrarsi sulla
«minaccia iraniana» e su presunte postazioni avanzate che Tehran starebbe allestendo a
breve distanza dalle Alture del Golan. Anche di recente Israele ha colpito con i suoi aerei
in territorio siriano, non solo in a ridosso del Golan. Secondo i media siriani legati
all’opposizione, i cacciabombardieri israeliani avrebbero preso di mira presunti convogli di
armi destinate a Hezbollah prima nei pressi dell’aeroporto di Damasco e poi nel
Qalamoun, lungo il confine con il Libano.
del 03/12/15, pag. 16
Cipro unita, partita aperta
Scenari. La linea verde dell’Onu sventra ancora in due l’isola del rame,
goffamente. In sospeso resta la questione dei profughi causati dai fatti
del 1974 da una parte e dall’altra. Ma su entrambi i versanti, riavvicinati
oggi dalla crisi economica, cresce il numero di chi sembra interessato
esclusivamente al "domani". E la voglia di riunificazione passa anche
per il calcio: «Come possiamo fare pace se non giochiamo insieme?»
Stefano Fonsato
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«La strada principale per Famagosta è chiusa per lavori, sa quale deviazione occorre
prendere?». «No, chiedo scusa, io a Nord non sono mai stata».
Sta tutta in questa risposta, che lascia quasi interdetti, l’essenza di Cipro. O, meglio, della
società cipriota. All’hotel Seagull di Protaras, nell’area urbana di Paralimni, la receptionist
interpellata per una banale informazione di percorso, non è mai stata nel capoluogo del
suo distretto. Nonostante si trovi solo a una decina di chilometri di distanza. Perché lei è
greca-cipriota e Famagosta sta nella parte turca, quella “sbagliata”. Anzi, quella di cui non
si conosce — non si vuole conoscere — un granché.
L’isola sventrata in due
La «linea verde» dell’Onu sventra in due l’isola del rame, goffamente. Consegnandone
due terzi alla popolazione greca e un terzo a quella turca. Che poi, anche qui, bisogna fare
i relativi distinguo: ci sono i turchi, laici arrivati dopo le battaglie del 1974 e i turchi-ciprioti,
quelli delle origini, ancor più laici e in estinzione, arrivati a contarsi in circa 120mila unità.
Quarantuno anni fa Atene volle riunire l’isola alla “madre patria”, scatenando l’ira di
Ankara, l’invasione turca e la conseguente suddivisione tra nord (turco, che forma una
repubblica de facto non riconosciuta dalla comunità internazionale) e sud (greco ed
altamente occidentalizzato). Fatto che creò profughi da ambo i confini per l’incredibile
velocità con cui si fu costretti ad abbandonare le proprie terre. E i propri animali, come gli
asini selvatici che abbondano nella penisola di Karpaso, discendenti di quelli “domestici”
appartenuti un tempo alla popolazione greca che abitava a nordest, verso Capo
Sant’Andrea, terra di assoluto isolamento.
La Repubblica di Cipro del Nord è riconosciuta politicamente solo dalla Turchia. I suoi
abitanti possiedono carta d’identità europea, ufficialmente obbligatoria ma da sempre
ripudiata dai politici locali che ne affiancano un’altra autoctona. Oltrepassare il confine
sud-nord, inoltre, prevede un pedaggio di almeno 20 euro: con quella cifra si acquista un
«pacchetto di accessi» minimo di tre giorni. Si firma un documento ufficiale,
un’assicurazione fornita da un noto marchio occidentale che, con questo sistema ha
creato un vero e proprio businness a proprio vantaggio. Ancora qualche metro di linea
verde et voilà, ecco Famagosta.
A Nicosia, invece, ci si guarda da una parte all’altra del confine. Pronto a cadere anche
secondo il premier greco Alexis Tsipras nei pensieri espressi durante la visita ad Ankara di
fine novembre.
Quello di Cipro riunita è un fronte legato a un altro dal respiro ancora più ampiò: l’adesione
all’Unione europea della Turchia, paese chiave nella gestione dei flussi di profughi.
In ogni caso, a Cipro, non è più tempo di ragionare in termini di “ieri e oggi”. In questi
giorni interessa il “domani”. Non a tutti, d’accordo, certamente a un numero sempre più
crescente di popolazione. Impensabile sino a qualche mese fa: parlando con un cipriota
della parte greca, sarà sempre più difficile ricevere risposte come quelle della receptionist
del Seagull. Anche dalla parte europea di Nicosia, conosciuta come “ultima” Berlino
d’Europa, si pensa non abbia più senso andare avanti con questo muro, certamente più
mentale che fisico.
Per una volta, davvero, sembra tracciata la strada: quella verso la riunificazione dell’isola.
E perché partire considerando la volontà della popolazione greco-cipriota? Perché fu
quella che, nel referendum del 2004 (nell’ambito dell’Annan Plan), votò «No» (con un
75%) al ricongiungimento, a una sola identità nazionale. Il contrario accadde nella parte
turca, che per il 65% espresse il proprio «Sì». Sì, all’uscita da quello stato di isolamento —
più simile all’esclusione — che fermava il tempo.
Il segno del federalismo
Si arriva quindi al 17 febbraio 2014: dopo un lungo periodo di acque chete, i
rappresentanti dei due governi — il presidente della repubblica greco-cipriota Nikos
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Anastasiadest e l’ex primo ministro di Cipro Nord Özkan Yorgancioglu (che il 16 luglio
scorso ha lasciato il posto a Ömer Soyer Kalyoncu) si incontrano per ritornare a parlare di
quel piano: «Far saltare il confine e unire l’isola sotto il segno del federalismo — spiega
Evie Andreou, redattrice del più autorevole quotidiano cipriota (in lingua inglese) Cyprus
Mail -. Quando la crisi economica internazionale era ancora lontana, le differenze tra nord
e sud erano decisamente marcate. Dalla parte greca si pensava che quella turca volesse,
in qualche modo, essere trainata e, certo, l’antipatia atavica che scorre tra greci e turni
non ha giovato. Il fatto è che, così, facendo, si è rinviato di un ulteriore decennio tutto il
capitolo di problemi che la divisione del 1974 si è portata in dote».
Sì, perchè, prima dell’indipendenza dell’isola dal Regno Unito (avvenuta nel 1960), ciprioti
greci e ciprioti turchi erano da sempre andati più o meno d’accordo. I fatti del ’74 hanno
sconvolto un equilibrio millenario…
«Questa estate abbiamo assistito a un altro incontro per accelerare le operazioni: il
progetto di riunificare Cipro, ora, è ben concreto — prosegue Evie -. La difficoltà
principale, com’è facilmente intuibile, è legata alla questione profughi, sia da una parte
della linea verde che dall’altra: come restituire terre e proprietà agli espatriati? O, se non
altro, che tipo di accordo sottoscrivere? Ma ci sono altri aspetti, anche dei più banali, di
non facile risoluzione: per esempio, la differente configurazione dei rispettivi impianti
elettrici oppure le differenti linee telefoniche dei cellulari. Nella parte settentrionale, per
esempio, è la potente Turkcell a controllare il traffico delle comunicazioni e non credo sia
disposta a rinunciare di buon grado al mercato cipriota».
Ci si creda oppure no, la miccia definitiva alla volontà di riunificazione, si è accesa per
ragioni legate al calcio, diviso anch’esso tra nord e sud. Premessa: due squadre di
tradizione del calcio cipriota, dal 1974 sono state costrette a varcare il confine verso sud
per restare a livelli professionistici, il Nea Salamina e l’Anorthosis Famagosta, conosciuto
per aver affronato l’Inter in Champions League qualche anno fa e che è costretta a
disputare le gare casalinghe nella “greca” Larnaca.
Isolamento anche calcistico
Famagosta torna sempre: è l’esempio più lampante della sghemba suddivisione politica
dell’isola. Una città dalle mille influenze ma fondamentalmente greca al colpo d’occhio,
abitata da turchi. Ma, si diceva, i turchi di Cipro organizzano da tantissimi anni un
campionato locale, molto combattuto e dal livello discreto.
In questo momento, a contendersi la testa della classifica, insieme al Binatli Yilmaz di
Morphou (Güzelyurt in turco), al GAÜ Çetinkaya e campioni in carica dello Yenicami
Adelen (entrambe di Nicosia), c’è — guarda un po’ — una formazione di Famagosta — o
Gazimagusa — il Magusa Türk Gücü: «Cipro Nord aveva anche una selezione nazionale
che partecipava alle competizioni internazionali extra-Fifa, ma il progetto è stato
accantonato da qualche tempo», prosegue Evie Andreou. Che aggiunge: «Il problema è
proprio qui: non essendo riconosciuto dalle Nazioni Unite, Cipro Nord resta isolato anche
nel calcio. Non ha mai potuto affiliarsi né all’Uefa, né tantomeno alla Fifa, fatto che ha
perfino bloccato i trasferimenti oltre confine. Dovesse esserci un Lionel Messi, a Cipro
Nord, nessuno sarebbe in grado di ingaggiarlo e consegnarlo al grande calcio. Così, il
presidente della federazione Hasan Sertoglu ha iniziato la propria campagna rivoluzionaria
di annessione alla CFA, la federcalcio greco-cipriota». Con un motto, ripetuto come un
mantra, ovvero: «Come possiamo fare pace se non giochiamo a calcio insieme?».
Tutto, esclusivamente, in barba alle volonta politiche: «Alcuni componenti del governo, tra
cui il ministro dello sport locale, hanno urlato allo scandalo — chiosa la Andreou —
rallentando le operazioni: loro vogliono un’annessione alla federcalcio turca ma Sertoglu,
giustamente, non ne vuole sapere. Forse sarà già la prossima stagione, la 2016–2017,
quella buona…».
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Tornando alla riunificazione generale dell’isola, la sponda turca spinge affinchè essa
avvenga entro la fine del 2015. Per quella greca, invece «non bisogna affrettare le
operazioni». Di strada ormai, però, se n’è fatta tanta e, finalmente, sembra proprio quella
giusta.
Da Avvenire del 03/12/15, pag. 19
Spagna. La Corte Costituzionale ha fermato
l’indipendenza della Catalogna
Annullata all’unanimità la mozione secessionista del 9 novembre Ma
Barcellona vuole andare avanti. Rajoy: nessuno può essere al di sopra
della legge
LUCIA CAPUZZI
È una sentenza storica. Se non altro per la rapidità. La Corte Costituzionale ha impiegato
venti giorni esatti per annullare la dichiarazione di indipendenza del “Parlament” catalano.
Il ricorso contro la cosiddetta “road map per la disconessione democratica dalla Spagna”
era stato presentato dal governo di Madrid l’11 novembre. Tre settimane dopo, la
decisione contestata, giuridicamente, non esiste più. Un record, dovuto all’approssimarsi
del voto politico, il 20 dicembre. Già domani inizierà la campagna. Per tale ragione,
martedì, i magistrati hanno modificato la tabella di marcia, mettendo all’ordine del giorno
l’esame del testo secessionista, originariamente non previsto.
E, ieri, dopo tre ore di confronto, si sono pronunciati all’unanimità. Secondo gli undici
giudici, la dichiarazione approvata da Barcellona il 9 novembre scorso viola almeno cinque
articoli della Costituzione e due dello Statuto. Quelli cioè che stabiliscono l’unità della
nazione spagnola, unica titolare della sovranità. Proprio come in una partita a scacchi,
tocca ora a Barcellona fare la propria mossa. Fin dal principio, la mozione secessionista si
proponeva di ignorare eventuali pronunciamenti delle istituzioni spagnole. E la Generalitat
sembra intenzionata ad andare avanti su tale strada. La vicepresidente uscente, Neus
Munté, ha ribadito: «Non fermeranno la volontà politica espressa dal Parlament». Se
ignoreranno la sentenza e decideranno di proseguire con la “road map”, i principali leader
indipendentisti rischiano la sospensione dall’incarico da parte della Corte. Quest’ultima
non ha fatto esplicita menzione a tale facoltà. Né ha notificato il verdetto ai 21 vertici
istituzionali catalani, come chiesto dal governo e avvenuto per la prima sospensione, dopo
l’accoglimento del ricorso. Si è limitata a disporre la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale.
Uno “mano tesa” per far diminuire la tensione. L’esecutivo, in ogni caso, ha commentato
con entusiasmo il verdetto. «Tale decisione rallegra la maggioranza degli spagnoli che
crede nella sovranità nazionale e nell’uguaglianza», ha detto il premier Mariano Rajoy in
un breve intervento alla Moncloa. E, ha aggiunto: «È la dimostrazione che nessuno è al di
sopra della legge e può stravolgerla».
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Del 3/12/2015, pag. 10
Armi facili, più vittime che alle Torri Gemelle
la guerra che l’America non riesce a vincere
FEDERICO RAMPINI
SAN BERNARDINO, California, come Parigi dopo la strage del Bataclan. “Lockdown”, cioè
chiuse le scuole e gli edifici pubblici. Coprifuoco obbligato, la popolazione invitata ad
asserragliarsi in casa. Il fondamentalismo islamico non è l’unico pericolo di oggi. C’è
anche un terrorismo bianco, made in America. Forse etnicamente anglosassone.
Possibilmente con agganci all’ideologia dei suprematisti e del fondamentalismo cristiano.
Di certo figlio di una cultura delle armi e della violenza che ha radici nell’America profonda,
coperture politiche, protezioni economiche. Legittimata, perfino incoraggiata, dalla destra
repubblicana. Nello Stato più ricco degli Usa, il laboratorio della modernità, quella
California che ospita la Silicon Valley e Hollywood, alle 11 di mattina locali tre uomini
bianchi armati con fucili, giubbotti anti-proiettile, con i volti coperti da passamontagna e in
tuta mimetica militare, entrano aprendo il fuoco al 1300 di Waterman Avenue, vicino
Orange Show Road, in un centro di servizi sociali di San Bernardino, 100 km a est di Los
Angeles. Nell’Inland Regional Center lavorano 670 persone. Si occupano di persone
disabili. I killer fanno strage. Un attacco “in stile militare” secondo le prime descrizioni della
polizia locale. Un’altra carneficina, come tante. Quasi non fanno più notizia. Se non c’è un
jihadista venuto da fuori, la reazione di una parte della società americana è diversa. Da
troppi anni. Eppure il bilancio di vittime delle sparatorie “autoctone” ha superato quello dei
morti dell’11 settembre. Si fa fatica perfino a usare la parola “terrorismo”, sui mass media.
Il terrorismo deve essere per definizione importato dall’estero. Come quello dei fratelli
ceceni che misero le bombe alla maratona di Boston. Quelli sì, catalogabili come
appartenenti alla jihad. Ma prima di loro, dopo di loro, una lunga scia di sangue non ha
l’etichetta straniera, né l’islamismo come matrice.
Ci sono stati gli attacchi ai campus universitari, alle scuole elementari, a una chiesa di
afro-americani. Reagisce con esasperazione Barack Obama: «Troppe sparatorie, basta. Il
Congresso deve fare di più per prevenire la violenza delle armi da fuoco»: è il suo
commento La minaccia domestica è figlia di una cultura della violenza che ha coperture
politiche ed economiche a caldo dopo San Bernardino. Parole ormai logore, tanto le ha
dovute ripetere in questi anni. Sul fronte opposto, il linguaggio è quello della complicità. Le
reazioni della destra americana sono esemplificate da ciò che disse Donald Trump dopo la
strage di Parigi: se i francesi avessero avuto il diritto di armarsi, si sarebbero difesi contro i
terroristi. C’è un pezzo di società americana che ha imboccato una deriva paurosa, da
molti anni. La lobby dei produttori di armi e dei possessori di arsenali casalinghi, la
National Rifle Association, ha evidenti interessi economici a mantenere una nazione
“armata fino ai denti”. Ma fa leva anche su un inconscio collettivo inquietante. Soprattutto
da quando c’è un nero alla Casa Bianca, un pezzo d’America si è convinto di essere stato
espropriato del proprio paese da un usurpatore: l’Altro, l’Anticristo. La blogosfera e i social
media pullulano di un linguaggio di odio, incitano alla rivolta e all’autodifesa contro i
“diversi”: neri e immigrati, donne emancipate o gay, tutte le componenti di una società
laica e multietnica vengono rappresentate come degli alieni, invasori. Pochi giorni fa un
folle si era accanito contro una clinica per il controllo delle nascite.
Il fondamentalismo cristiano e la supremazia bianca sono una delle ideologie disponibili
I social pullulano di odio, con messaggi che incitano alla rivolta contro i diversi
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sul mercato, per chi abbia serbatoi di rancore e di odio. Lupi solitari, milizie
autoproclamatesi in difesa della purezza americana: qualsiasi siano le etichette, queste
forme di terrorismo hanno una vita autonoma. Il meccanismo che le alimenta non è
diverso da quello che lo studioso francese Olivier Roy ha analizzato per i jihadisti. Roy
parla di una “islamizzazione del radicalismo”: quei giovani musulmani di seconda
generazione, figli di immigrati arabi o nordafricani in Francia, sono in cerca di una
giustificazione ideologica per il loro nichilismo e la loro sete di violenza, che nulla hanno a
che vedere con problemi socio- economici, emarginazioni, o torti subiti.
Negli Stati Uniti qualcosa di simile accade in piccole minoranze di bianchi, devianti,
assetati di sangue. Sul mercato politico trovano qualche Verbo che giustifica i loro
massacri. Sul mercato tout court possono comprare armi di sterminio. La destra gli
garantisce questo come un diritto costituzionale.
Del 3/12/2015, pag. 3
Lo shopping delle armi facili: in tre anni mille
sparatorie Il Suv
A terra il corpo di un killer Il blitz I blindati delle forze speciali
circondano il Suv nero usato dal commando per la fuga dopo l’assalto
di Guido Olimpio
WASHINGTON L’assalto al target facile e poi la fuga. Quale che sia la matrice d
ell’attacco di San Bernardino ci sono due dati in comune: le armi e il terrorismo. Perché il
modo di agire è da terroristi. Anche se fossero dei folli hanno agito come guerriglieri, con
equipaggiamento di stile militare. Quasi un raid a imitare la tragedia di Parigi, protagonisti
di una guerra infinita. Dal 2012 ci sono state negli USA 1.029 sparatorie gravi. In
quell’anno c’è stato il massacro nella scuola elementare di Newtown. Allora sembrava che
si fosse passato ogni limite. Invece la serie nera è proseguita portandosi via oltre 1.300
vite e ferendo non meno di 3.700 persone. Basterebbe questo per far cambiare leggi,
invece si è fatto finta di niente. Attacchi dove le bocche da fuoco hanno un ruolo primario
insieme ai guai di una società che pur ossessionata dalla sicurezza è incapace di trovare
risposte efficaci per curare la piaga d’America. E questo nonostante la tripla minaccia: il
killer di massa, i jihadisti, i militanti interni.
Le stragi avvengono perché è possibile attuarle con copie di fucili d’assalto che acquisti al
supermarket e su Internet, munizioni a volontà. E questo permette di organizzare
operazioni che somigliano alle missioni sacrificali di estremisti mediorientali ma ambientate
in cittadine americane. La sequenza di San Be rnardino dimostra la pericolosità. Ripeto,
non conta il movente. Il secondo aspetto è quello della pubblicità. Killer e terroristi sono
alla ricerca della notorietà, massacrano in nome di una causa, uccidono nel segno della
follia, sovente lasciano un video. Spesso c’è un punto d’unione, due strade parallele che si
incontrano. Il «matto» — una definizione a volte usata con troppa leggerezza — copia il
«politico», il fuori di testa cerca giustificazioni per i suoi gesti. Dunque ha bisogno dei
riflettori. Dobbiamo interrogarci sulla gestione mediatica: impossibile oscurarli, ma servono
contromisure per contenere gli effetti. La notizia di un attacco può spingere altri ad
emulare. E questo a prescindere dal movente. Immaginiamo l’impatto della battaglia di ieri
in California. Sul web è pieno di materiale in onore di psicopatici come i due del liceo di
Columbine, copia dei video che celebrano i kamikaze o miliziani neonazi. Ora molti esperti
invocano un blackout.
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Il terzo elemento è lo «studio». Coloro che sparano fanno ricerche su quanti li hanno
preceduti, i precedenti diventando un modello ed una sfida. Gli omicidi provano a ripetere
l’assalto, cercano di superarli causando una cifra maggiore di vittime. Si è spesso parlato
di una gara tra jihadisti, ora questo tipo di duello coinvolge anche il territorio americano
dove si muovono i «mass shooter».
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INTERNI
del 03/12/15, pag. 7
Le vere primarie che piacciono a Renzi
Milano. Dopo un incontro al Nazareno, il sindaco Giuliano Pisapia torna
a casa con la consapevolezza che il Pd ha deciso di puntare tutto su
Giuseppe Sala nonostante il mal di pancia della sinistra milanese. A
Pisapia resta in mano la carta Francesca Balzani, ma il candidato
Pierfrancesco Majorino, sostenuto da Sel, sembra intenzionato a non
abbandonare la partita
Luca Fazio
MILANO
Tenetevi forte: saranno primarie vere e aperte. Quei 315.862 elettori che nel 2011
avevano votato Giuliano Pisapia, sempre ammesso che di una buona parte non se ne
siano perse le tracce, devono portare ancora molta pazienza. Se l’argomento dovesse
ancora interessare, quello che sanno oggi lo sapevano già fin dalla primavera scorsa,
quindi il caos creato dal sindaco di Milano con la sua pasticciata uscita di scena fino ad
ora ha solo logorato la sua mitica esperienza arancione con una lunga evitabile verifica di
un dato di fatto che è venuto a noia: le primarie. E certo che si faranno, eccome se si
faranno, le primarie sono imprescindibili. Questa è la solita risposta del sindaco Giuliano
Pisapia, una specie di mantra fuori sincrono ripetuto a prescindere dalla domanda che gli
viene rivolta, l’unica certezza, una specie di lieto fine che dovrebbe servire a nascondere i
tatticismi esasperati di un centrosinistra che non c’è più per come lo avevamo conosciuto
(e già c’era poco da stare allegri).
Per questo è desolante il non esito dell’incontro romano di ieri mattina che ha visto seduti
allo stesso tavolo i vertici del partito di Matteo Renzi — c’erano anche Debora
Serracchiani e Lorenzo Guerini — e il sindaco di Milano accompagnato dalla sua nuova
candidata di riferimento, la vice sindaca Francesca Balzani cui è stata affidata la missione
impossibile di rappresentare la continuità con la giunta arancione. Gli uni puntano
decisamente e coerentemente sull’ex manager di Expo Giuseppe Sala (tutti sapevano che
il Pd a Milano avrebbe imposto un renziano) e gli altri o mangiano sta minestra o devono
correre il rischio di imbarcarsi in una sfida molto complicata e lacerante per il coté sinistro
della coalizione. Doveva essere una resa dei conti, o un chiarimento definitivo, e invece il
Pd ha prodotto poche righe per ribadire “l’apprezzamento per il lavoro dell’amministrazione
e dell’esperienza milanese di questi anni, così come è stata ribadita l’importanza delle
primarie. Primarie vere, aperte, coinvolgenti e partecipate che tengano conto della
peculiarità e dell’autonomia di Milano e che portino all’individuazione della candidata o del
candidato migliore per vincere le elezioni comunali e proseguire nel buon governo della
città”. Traduzione: a Renzi non importa nulla della continuità vagheggiata da Pisapia, se il
sindaco vuole candidare Francesca Balzani faccia come gli pare. Per il sindaco di Milano
“l’incontro è andato benissimo”. Niente di più, niente di meno.
Frastornati dalla stupefacente novità di queste ore (saranno primarie “vere” e “aperte”), è
passata quasi sotto silenzio la notizia più significativa sullo stato dell’arte del partito della
nazione: il Pd milanese avrebbe chiesto anche a Linus, il direttore artistico di Radio Dee
Jay, di candidarsi alle primarie. “Non sono all’altezza”, avrebbe risposto lui con immotivata
modestia. Per tornare a personaggi decisamente meno popolari del dj, a questo punto è
chiaro che non ha funzionato la minaccia della sinistra milanese di sfilarsi dalle primarie
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per spingere il “divisivo” Sala a farsi da parte. Il Pd ha scelto il suo candidato,
probabilmente vincente. La palla adesso passa al sindaco Giuliano Pisapia, e non sarà
facile inventarsi uno schema vincente. Qualora la vice sindaca Francesca Balzani dovesse
davvero decidere di sfidare Giuseppe Sala alle primarie in quanto nominata dal sindaco
uscente, a sinistra andrebbe in scena un altro piccolo dramma intestino, forse di scarso
interesse per quei 300 mila e passa elettori di cui sopra ma decisivo per chi non si è
ancora rassegnato all’idea che con questo Pd non ci sono margini di trattativa, col rischio
di finire massacrato e fuori dai giochi. Se l’idea è Balzani, come si comporterà il candidato
del Pd Pierfrancesco Majorino sostenuto da Sel? A botta calda, decisamente irritato per la
scelta di Giuliano Pisapia, il candidato più a sinistra sembrerebbe intenzionato a dare
battaglia. “Dicono che a Roma l’incontro si sia concluso con una certezza (per la verità
ormai scontata): si faranno le primarie. E si deciderà in quell’occasione. Perfetto, come
annunciato, a prescindere da Roma: io ci sono e il 7 dicembre iniziamo a raccogliere le
firme”. Più che un post è una minaccia e probabilmente, nel sottobosco di una visione
della politica piuttosto proprietaria, è già in corso un gran mercanteggiare per evitare due
candidature simili a sinistra a tutto vantaggio dell’ex manager della giunta di Letizia
Moratti.
Il quale deciderà a dicembre ma è già in campagna elettorale. “Farò diventare la città da
Milano da bere per pochi a Milano da vivere per tutti”, ha detto ieri Giuseppe Sala alla
Fondazione Corriere della Sera. Ok, per gli slogan chiederanno a Linus.
Del 3/12/2015, pag. 16
Consulta, un altro flop in bilico i tre candidati
La new entry Angela Nicotra non muta la situazione tutti hanno ricevuto
ieri ancora meno consensi
LIANA MILELLA
È ancora flop. Niente giudici costituzionali. Meno 52 votanti alla 29esima votazione rispetto
alla 28esima, sicuramente perché siamo già in clima da week-end. Si passa dagli 877 di
una settimana fa, agli 871 dell’altro ieri, agli 819 di ieri. Crollano di conseguenza i
candidati. Scende vistosamente Augusto Barbera (da 545 a 504), il costituzionalista del
Pd. In picchiata Francesco Paolo Sisto (da 527 a 493), l’avvocato forzista in corsa. Va
male anche per la new entry Ida Angela Nicotra, che si ferma a 417, “creatura” di Alfano e
Quagliariello, ma anche di Giuseppe Castiglione (il sottosegretario indagato per il Cara di
Mineo) che ieri le faceva propaganda in Transatlantico. Il quorum di 571, dopo questa
performance negativa, sembra un miraggio. Regge solo Franco Modugno, il candidato di
M5S con i suoi 136 voti (dai 156 del giorno prima). Ma il Pd insiste. Dicono i capigruppo al
Senato Luigi Zanda e alla Camera Ettore Rosato: «Per noi l’unico candidato è e resta
Barbera». Il calo? «Solo colpa delle assenze».
Il presidente del Senato Pier o Grasso è furibondo. In aula ha detto: «Nuova chiama dopo
le 23...». Poi ha spinto per la 30esima seduta oggi, dalle 14. Ma ha prevalso il timore
dell’aula vuota. Oggi capigruppo, per capire come fare perché incombe la pausa per la
legge di stabilità a Montecitorio. Dice Rosato: «Li nominiamo entro il 2015». Ma cresce il
partito del 2016. Si avvicinano i 600 giorni, un record per la Consulta ridotta da 15 a 12
giudici. Una giornata a Montecitorio rivela che per queste nomine non ci si impegna
abbastanza. Il rituale è stanco. Ci si affida agli sms, quello di Berlusconi per Sisto, non
sostenuto abbastanza dal contestato capogruppo Brunetta; quello del Pd per Barbera;
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quello di Area popolare e Scelta civica per Nicotra. Un volpone come Verdini la fa da
maestro: «Non la stanno prendendo sul serio, per questo siamo ancora qui. Non c’è il
necessario lavorio per convincere chi esita. Possiamo andare avanti all’infinito». Infatti
questo capita anche con Nicotra. La scelta è di Alfano, Lupi alle 18, un’ora prima della
seduta, ne dà notizia al capogruppo Pd Rosato, che a sua volta si affida sempre agli sms.
Nicotra batte sul filo il presidente della Corte dei conti Raffaele Squitieri, già destinatario di
una proroga pensionistica ad personam.
Su Nicotra si comincia subito a spettegolare. I fatti: 51 anni, docente di costituzionale a
Catania, Napolitano la mette nel gruppo dei saggi sulla Costituzione. Diventa una “vice
Cantone” all’Anac, dove di lei parlano bene. In Sicilia ha un passato politico all’insegna
della destra. Nel 2006 candidata al Senato per An. Nel 2013 con il Pdl. Castiglione la
vorrebbe nella corsa a sindaco di Catania nel 2014, la porta in giro, ma le viene preferito
l’uscente Stancanelli. Il suo nome fa letteralmente inviperire Lorenzo Dellai, il capo dei
Popolari per l’Italia: «Che fanno, ci prendono in giro? Ma come si permettono? Alle 14 Lupi
ci ha detto che il candidato non c’era, e adesso scopriamo dalle agenzie che invece c’è?
Noi continuiamo a votare per Gaetano Piepoli ». Il quale, con l’andatura dinoccolata,
passeggia e mormora: «Io non de-Sisto, io re-Sisto... ». Allusione a Sisto ovviamente, nel
mirino dei 5stelle che tentano di convincere il Pd a non votarlo, ma subiscono l’ennesimo
niet. Chiosa il dem Miguel Gotor: «Ha ragione Stefano Folli, il caso della Consulta è
politico, perché il Pd si ostina a escludere l’accordo con M5S mentre cerca quello con un
Berlusconi ormai minoritario».
Del 3/12/2015, pag. 21
L’ex agente del Sismi e la fuga di Ablyazov
“Protetto dagli italiani”
Perugia, emerge l’ipotesi che l’arresto di Alma Shalabayeva fu atto
riparatorio verso governo kazako. Interrogato Improta
DANIELE AUTIERI
Il rapimento e l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua sono stati un atto
riparatorio, maldestro tentativo di evitare una crisi diplomatica con il Kazakhstan, innescata
dopo la fugadel dissidente Muktar Ablyazov. Ma soprattutto quelle 67 ore che hanno
portato all’imputazione per sequestro di persona e falso ideologico di 11 persone, tra cui
l’attuale capo dello Sco (Servizio centrale operativo della Polizia) Renato Cortese e il
questore di Rimini, Maurizio Improta (interrogato ieri per ore dal procuratore aggiunto
Antonella Duchini e dal sostituto Massimo Casucci), sono arrivate al termine di un’attività
di intelligence che ha seguito e in parte garantito protezione al dissidente kazako fino
all’ultimo avvistamento prima della fuga. Il nodo della vicenda ruota intorno alla Sira
Investigazioni, agenzia di security ingaggiata dall’israeliana Gadot Information Services
per individuare «la presenza del signor Muktar Ablyazov». La piccola Srl (18mila euro i
ricavi del 2013) viene costituita il 6 marzo, appena otto settimane prima dell’incarico della
Gadot, e messa in liquidazione poco dopo la fine dell’anno. Cosa faceva allora la Sira fuori
dalla villa di Casal Palocco? E per chi lavorava? Interrogato dalla Digos, il titolare Mario
Trotta ammette che «Ablyazov è stato individuato già il 16 e 17 maggio», quindi dieci
giorni prima della sua fuga. A
Repubblica Trotta spiega: «Avevamo solo il compito di seguirlo e controllarlo». Un
controllo h24 eseguito con l’aiuto di Marco Monfera e Gaetano Del Ferro, quest’ultimo
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ritrovato dalla Digos al momento del blitz con un tesserino della Presidenza del Consiglio
dei ministri (e in possesso almeno fino al 2006 del documento del ministero della Difesa
Dg1635). Dalle visure camerali risulta che nel 2013 la Sira non ha avuto dipendenti e ha
sostenuto costi salariali per 767 euro. Per chi lavoravano allora Monfera e Del Ferro,
segnalato da una fonte investigativa come ex-agente Sismi? La ricerca di una risposta è
ora affidata ai pm di Perugia, mentre è ormai un fatto che in tanti sapevano dove si
trovasse Ablyazov. Ma, nonostante questo, il 26 maggio, dopo aver pranzato con moglie e
figlia in un ristorante di via Colombo, l’uomo scompare. Il giorno successivo alla fuga i
telefoni kazakisono roventi: dai tabulati emerge un flusso abnorme di chiamate, partite da
Astana e destinate non solo all’ambasciatore kazako in Italia ma anche al Viminale. Non
esistono trascrizioni di quei dialoghi ma — alla luce delle testimonianze di alcuni
protagonisti — il senso è evidente: la frittata è fatta, adesso riparate. Da quel momento la
macchina si mette in moto. Parte il blitz e i documenti vengono ritoccati per evitare intoppi
sulla via dell’espulsione che deve essere rapida e indolore. Una conclusione tanto certa
che — confermano oggi fonti investigative — il volo da Ciampino che riporta Alma
Shalabayeva ad Astana viene pagato dall’ambasciata kazaka con un bonifico fatto la
mattina presto, molte ore prima la conclusione dell’iter giudiziario.
Le carte e le ultime risultanze dell’inchiesta richiamano quindi in causa il Viminale per
capire se il blitz e l’espulsione furono veramente un atto riparatorio di fronte alla fuga di
Muktar Ablyazov. Ieri il questore di Rimini, Maurizio Improta (capo dell’immigrazione
all’epoca dei fatti), è stato sentito dai pm di Perugia e si è difeso dall’accusa di sequestro
di persona e falso presentandosi in tribunale con un trolley pieno di documenti e ribadendo
il rispetto delle leggi, L’interrogatorio è stato secretato, ma nel corso di 5 ore e mezzo è
tornato il tema dei mandanti, sul quale sarà chiamato a rispondere venerdì anche il
ministro Alfano. Non in tribunale, ma in Parlamento dove il M 5s ha presentato ieri
un’interpellanza urgente con una domanda semplice: quali sono state le linee di comando
che hanno impartito gli ordini in questa vicenda?
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 3/12/2015, pag. 8
Libera, il mito della purezza affronta il “fuoco
amico”
Lo scontro nell’associazione di don Ciotti
di Sandra Rizza
Don Ciotti un despota? Ma quando mai’’. C’è chi come Daniela Marcone, della segreteria
nazionale, getta acqua sul fuoco della polemica perché “l’importante è non perdere di vista
il nemico comune: le mafie’’. C’è chi, come Gregorio Porcaro, referente per la Sicilia, giura
sulla “vivacità di un confronto sempre aperto”. Persino Nando dalla Chiesa, presidente
onorario di Libera, cerca di metterci una toppa: “Certo che quello di don Luigi è un potere
carismatico, ma nel nostro caso è un vantaggio: perché quando la leadership è a portata
di tutti, come nei partiti, non si pensa ad altro che alle lotte di successione”. La verità è che
nell’annus horribilis dell’antimafia, anche il network di associazioni fondato quasi vent’anni
fa dal sacerdote torinese don Luigi Ciotti appare scosso da un terremoto senza precedenti.
La scintilla che da Palermo a Torino ha acceso la galassia di Libera è stata l’accusa di
“autoritarismo” sollevata nella convention di Assisi da Franco La Torre, figlio di Pio,
all’indirizzo del fondatore che per tutta risposta con un sms lo ha “sfiduciato”,
costringendolo a lasciare la segreteria nazionale. Ma non è questo il punto. Dietro l’ira del
sacerdote, che ha deciso di liquidare con una decina di parole il figlio di Pio La Torre (il
segretario del Pci siciliano ucciso dalla mafia nell’82), c’è qualcosa di più. C’è che per la
prima volta qualcuno ha sollevato pubblicamente il dubbio che possano esistere zone
d’ombra anche dentro il più grande totem dell’antimafia sociale. Una holding che oggi
raccoglie oltre 1600 realtà nazionali e internazionali: un mondo articolato il cui cuore
economico è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà
lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i 6 milioni di euro. Un
impero costruito sotto l’insegna della legalità. Ma oggi la vigilanza, secondo La Torre, è
insufficiente. Perché a novembre 2014 il direttore di Libera Enrico Fontana, a pochi giorni
dall’ordinanza emessa dalla Procura di Roma, si è incontrato nella sede dell’associazione
con due ambientalisti finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale? E di cosa hanno parlato? Cosa
volevano il consigliere regionale del Lazio Pd Eugenio Patanè ed Emanuela Droghei,
assessore alle politiche sociali del municipio di Ostia? “Di questo a Libera non si è mai
discusso, spiega La Torre. “Quei due sono venuti per intimidirci? Fontana si è dimesso,
ma nessuno ha mai risposto a queste domande’’. Domande che in qualche modo hanno
infranto il tabù della “purezza” di Libera, sollevando il sospetto che la sua impermeabilità ai
tentativi di infiltrazione non sia così assoluta. Nando dalla Chiesa lo ammette apertamente:
“È stato insinuato per la prima volta che il gruppo dirigente possa essere moralmente
criticabile e don Ciotti ha letto l’intervento di La Torre come un attacco alla qualità morale
di Libera. È stato colpito il nervo più sensibile”.
Nessuno minimizza la difficoltà di gestire una galassia che più si ramifica più è complicata
da controllare. Ed è per questo che da Nord a Sud l’imperativo è quello di “tenere gli occhi
ben aperti”. Ma basta a schivare i rischi di penetrazione mafiosa nel più granitico moloch
dell’antimafia? Lui, don Ciotti, il leader carismatico accusato di soffocare il dibattito, non
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parla. Il suo telefonino per tutto il giorno squilla a vuoto. L’ordine di scuderia è quello di
“tenere bassa” la polemica. Fino a ieri sera, quando l’intero gruppo dirigente di Libera
scende in campo con un lungo comunicato che smentisce l’esistenza di una “guerra”
interna all’associazione, ma poi parla di “fuoco amico”, aperto da chi “seminando veleno,
non fa altro che il gioco delle associazioni criminali”.
Da Avvenire del 03/12/15, pag. 11
Lavoro nei campi: arriva l’etichetta etica
ANTONIO MARIA MIRA
Presto potrebbe arrivare un’'etichetta etica' per il pomodoro italiano che rispetti i valori di
trasparenza, legalità e tracciabilità. Una vera e propria 'certificazione etica' delle aziende
per dire 'no' con chiarezza e fatti concreti al caporalato e allo sfruttamento. Ma che anche
difenda i consumatori dai truffatori. È la proposta più importante emersa in occasione
dell’assemblea dell’Anicav, l’Associazione nazionale industriali conserve alimentari
vegetali, i trasformatori del pomodoro di Confindustria.
Un evento importante quello tenuto ieri a Foggia, 'capitale' dell’oro rosso, che ha segnato
l’apertura del dialogo tra industria del pomodoro e produttori agricoli, attraverso un
confronto con Coldiretti. Un parlarsi dopo tensioni ma anche dopo la recente stagione del
pomodoro caratterizzata da eventi drammatici di sfruttamento. Così il titolo dell’incontro
spiega bene questo tentativo di cambiare: «Il filo rosso del pomodoro in una filiera etica e
sostenibile ». Un filo che unisce soprattutto la Puglia, area di maggiore produzione e
Campania, area di maggiore trasformazione.
«L’utilizzo di manodopera illegale – afferma il presidente di Anicav, Antonio Ferraioli –
rappresenta una piaga sociale che va combattuta anche a fronte di un solo lavoratore
irregolare impiegato». Bene, dunque, il disegno di legge del governo per il contrasto al
caporalato e al lavoro nero. Ma, avverte il presidente, «non bastano i controlli delle
istituzioni. Serve anche una sensibilizzazione per convincere che il tema di legalitá e
sostenibilità è centrale». E il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo, non si tira indietro.
«Legalità e trasparenza devono andare avanti di pari passo. Non dobbiamo avere paura.
Bisogna dire la verità».
Ovviamente sul prodotto, su origine e tracciabilità ma anche sulla legalità. E qui entra in
ballo uno dei temi di tensione tra mondo agricolo e industria della trasformazione, quello
del prezzo dei pomodori. «Deve es- sere più alto per chi si impegna a rispettare le regole –
sostiene Moncalvo –. Ci vuole perché permette alle aziende oneste, che rispettano
ambiente, legalità e lavoratori, di andare avanti. Altrimenti chiudono e va avanti solo la
criminalità».
Parole forti per un comparto in crescita. Nella campagna 2015 la produzione di pomodoro
trasformato in Italia ha registrato un aumento di circa il 10%, passando dai 4,9 milioni di
tonnellate del 2014 ai 5,4 di quest’anno. L’Italia è il terzo Paese dopo Usa (quasi tutto
California) e poco lontano dalla Cina (5,6 milioni di tonnellate, in calo). Nel nostro Paese si
concentra il 13% del pomodoro trasformato del mondo e il 48% di quello Ue, con un
fatturato di 3 miliardi. E con un valore di 800 milioni di euro nel primo semestre 2015
cresce anche l’export, sia in volume (+5,8%) che in valore (+8,7%). Numeri molto
importanti, ma proprio su questi prodotti, su qualità e tracciabilità, nei mesi scorsi sono
piovute accuse e polemiche. È la nota vicenda del 'concentrato cinese' che finirebbe nelle
nostre passate di pomodoro. Accusa respinta da Ferraioli. «Il consumo italiano di
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concentrato è solo l’1% del mercato dei derivati del pomodoro. Quello che arriva dalla
Cina viene in gran parte riesportato in Ue.
La passata, per la normativa italiana, deve essere fatta solo con pomodoro fresco. Ma
questo non vale in Ue. Così parte del concentrato viene diluito e trasformato in passata da
espostazione. Una parte rientra in Italia». Da Moncalvo arriva una proposta. «E allora
scriviamolo sulle etichette che nella passata non c’è concentrato cinese. Che è tutto
italiano. Dobbiamo avere il coraggio. Anche per giustificare il prezzo. Lo scriviamo e il
consumatore sceglie». «Non abbiamo niente in contrario che ci sia in etichetta l’origine –
replica Ferraioli – ma andrebbe fatto anche in Europa». Il dialogo va avanti. «Per ora non
do voti – ci dice Moncalvo a fine dibattito – ma al momento della nuova campagna li
daremo».
Del 3/12/2015, pag. 7
Asti: “Torturati in carcere”, risarciti con 45
mila euro
Erano stati torturati nel carcere di Asti da alcuni agenti della polizia penitenziaria. Grazie
alla prescrizione due poliziotti imputati si sono salvati dalla condanna per maltrattamenti e
abuso di autorità. Ora a pagare sarà lo Stato: ha proposto alle vittime, due ex detenuti, un
risarcimento di 45 mila euro e lo ha fatto dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
accolto il loro ricorso. “Il governo ammette sostanzialmente le responsabilità” spiega
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che, insieme ad Amnesty Italia, ha
affiancato le vittime. “Chiediamo ancora una volta all’Italia di introdurre il reato di tortura
nel codice penale”, aggiunge Antonio Marchesi, presidente di Amnesty.
Nel dicembre 2004 i due detenuti subirono “un tormentoso e vessatorio regime di vita”,
scrive la Cassazione. Furono chiusi nudi in alcune celle senza vetri alle finestre,
materassi, lavandini e altro. Rimasero lì “per circa due mesi”, con poco cibo e subendo
pestaggi. Per il tribunale di Asti si trattava di tortura, ma mancava il reato perché non è mai
stata ratificata la convenzione dell’Onu.
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WELFARE E SOCIETA’
del 03/12/15, pag. 8
Istat: le ingiustizie della crescita
Nel rapporto Benessere Equo e Sostenibile (Bes) il ritratto di un paese
diviso e stremato dove aumentano le differenze di classe, geografiche,
di genere, lavorative e generazionali
Roberto Ciccarelli
ROMA
Il benessere economico delle famiglie italiane è in aumento, ma non raggiunge i poveri, le
donne, i disoccupati, i giovani e i precari. La ripresa c’è, ma è per pochi, mentre le
disuguaglianze aumentano, soprattutto al Sud. Il rapporto sul Benessere Equo e
Sostenibile (Bes), presentato ieri dall’Istat, descrive la realtà di una crescita minima senza
occupazione fissa, quella che conosceremo nei prossimi anni, in cui aumenteranno le
disparità territoriali (Nord/Sud), di genere (le donne sono sempre meno occupate degli
uomini), generazionali (lavorano di più gli over 55, sono precari o disoccupati i 25-49enni),
di classe (i poveri relativi e assoluti diminuiscono appena, ma restano stabili), formative e
dei saperi ( l’Italia è tra gli ultimi in Europa per investimenti su scuola e università, aumenta
la dispersione scolastica, peggiora la cultura generale). Man mano che si percorre la
penisola il lavoro, l’accesso ai saperi, ai diritti si fa ancora più precario. Questo è il
racconto di vite precarie, sempre meno pagate, brutali per chi non ha reddito né tutele
superstiti, in un paese diviso a più livelli, stremato da una crescita selettiva che aumenta le
differenze di classe.
Sud disuguale
Il rapporto Bes usa una serie di indicatori che misurano la salute, l’istruzione, l’ambiente, le
relazioni sociali, lo sviluppo del territorio e cerca di analizzare la complessità di un
fenomeno come il benessere, cercando di non ridurlo ad un problema economico come
succede invece con un parametro con il Prodotto Interno Lordo (Pil). Da questo schema,
soprattutto sul tema della diseguaglianze socio-economiche che qui prendiamo in
considerazione, è emerso quanto segue. Secondo il documento nel 2014 è aumentato il
reddito disponibile (dello 0,7% nel 2013 e dello 0,1% nel 2014), e il potere d’acquisto. È
cresciuta la spesa per i consumi e sempre meno famiglie mettono in atto strategie per
contenere la spesa. Anche il rischio di povertà e la povertà assoluta diminuiscono, mentre
aumenta la quota di individui che vivono in famiglie che hanno intensità lavorativa molto
bassa, cioè dove le persone hanno lavorato meno del 20% del potenziale, arrivata al
12,1%.
«Il Mezzogiorno — sottolinea il documento — oltre ad avere un reddito medio disponibile
decisamente più basso del Nord e del Centro, ha anche la più accentuata disuguaglianza
reddituale: il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti è 6,7 volte
quello posseduto dal 20% con redditi più bassi, mentre nel Nord il rapporto è di 4,6».
L’indice composto di reddito e disuguaglianza, sottolinea l’Istat, è leggermente più alto
rispetto al 2013, ma di appena 0,2 punti (da 97,5 a 97,7). Anche l’indice del disagio
economico aumenta leggermente, ma resta molto al di sotto del 2010.
Questo è lo scenario da stagnazione in cui cresce la «deprivazione». Il 15% della
popolazione maggiore di 16 anni (il 20,6% della popolazione del Sud) non può permettersi
di sostituire gli abiti consumati, un quinto non può svolgere attività di svago fuori casa per
ragioni economiche, un terzo non può permettersi di sostituire mobili danneggiati. La
deprivazione riguarda anche i più piccoli: un bambino su 20 vive in famiglie che non
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possono permettersi giochi per tutti i figli; il 7,7% non può permettersi di festeggiare il
compleanno, né acquistare libri extrascolastici. Il 10,5% non partecipa alla gita scolastica
(il 16% al sud), l’11% non dispone di uno spazio adatto per studiare.
Differenze di classe
Dopo i chiaroscuri percettivi o psicologici (ottimismo, soddisfazione sono le categorie
usate dall’analisi), arriviamo alla lancinante materialità dei fatti. Quello che senz’altro
cresce in Italia è il lavoro povero dove persiste il divario di genere. Certo, si è ridotto negli
ultimi anni – annota il rapporto – ma il tasso di partecipazione delle donne al mercato del
lavoro è tra i più bassi d’Europa: 69,7% di uomini occupati contro il 50,3% di donne. Per
colmarlo dovrebbero lavorare almeno 3 milioni e mezzo di donne in più. Anche la qualità
del lavoro è peggiore per le donne, più spesso occupate nel terziario e in professioni a
bassa specializzazione (in particolare le straniere).
E veniamo ai giovani. Già nel rapporto Istat sull’occupazione a ottobre è emersa con
prepotenza un’altra realtà del mercato del lavoro: in Italia cresce il tasso di occupazione
dei lavoratori anziani over 55, mentre i lavoratori “giovani” tra i 25 e i 49 anni sono sempre
più disoccupati o precari. La diminuzione del tasso di occupazione per i giovani dipende
dalla difficoltà di trovare un impiego continuativo nel tempo. La condizione dei giovani è
aggravata da una peggiore qualità del lavoro e da una maggiore paura di perderlo.
Aumenta inoltre lo svantaggio del Mezzogiorno, l’unica area territoriale, dove
l’occupazione diminuisce anche nel 2014 (tasso di occupazione al 45,3%) e dove è più
bassa la qualità del lavoro.
In questo scenario persiste la dispersione scolastica (il 19,3% dei 18-24enni nel
Mezzogiorno contro il 12% del Nord), mentre la quota di 30-34enni che hanno conseguito
un titolo universitario è al 25,3% al Nord e al 19,7% nel Mezzogiorno. E si rafforzano le
differenze di classe. I figli di genitori con titoli di studio elevati o professioni qualificate
abbandonano molto meno gli studi, hanno minori probabilità di diventare Neet. Il titolo di
studio conseguito continua a rivestire un ruolo cruciale nella crisi.
del 03/12/15, pag. 1/8
Nuovi indicatori, nuovo sviluppo
Oltre il Pil. Ecco a cosa servono i 135 indicatori del Bes. Dall’Istat un
nuovo modo di misurare la qualità della vita e dello sviluppo
Aldo Carra
Se il Pil non cresce più come prima e se questo accade per molti anni possiamo
continuare a vivere con l’ansia dei decimali di Pil? Non si impone il suo superamento come
indicatore di benessere economico e sociale? E non diventano necessari altri indicatori
complementari o sostitutivi? Con una tempistica quasi perfetta, l’Istat l’altro ieri ci ha
informati che il cavallo-Pil non vuole saperne di bere, trasmettendoci così, una vera e
propria «ansia da decimali».
Ieri ci ha presentato gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (Bes), destinati a
ridimensionare il Pil. Questi indicatori non hanno lo stesso effetto mediatico del Pil perché
si tratta di ben 134 voci raggruppate in 12 domini come salute, istruzione, lavoro…. Siamo,
quindi, lontani da un solo indice confrontabile col Pil, ma siamo di fronte ad un fatto
rilevante.
Se, infatti, la dinamica del Pil ci fornisce un’immagine di stagnazione, se non secolare,
come dicono alcuni economisti, certamente di medio periodo, non è affatto vero che, in
parallelo, anche la società si è fermata. Ed allora ben vengano altri indicatori in grado di
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dirci se in questa apparente calma piatta le acque si sono mosse e se qualcosa è
cambiato, in meglio o in peggio che sia. Il fatto che non esista un indicatore unico sintetico
di benessere non impedisce che si facciano dei passi avanti per indagare meglio nelle
pieghe e nelle piaghe della nostra società.
Abbiamo già proposto di affiancare ad un Pil corretto un indicatore di benessere
economico, uno della qualità sociale, ed uno della qualità ambientale. Oggi con gli
indicatori di dominio si fa un importante passo importante in quella direzione.
Vediamo ciò che emerge limitandoci solo a pochi aspetti della vita delle persone e
soffermandoci, dove possibile, sulle disuguaglianze territoriali, di genere, di generazione.
Salute Viviamo un anno di più rispetto all’europeo medio, la qualità della sopravvivenza
non migliora, crescono le disuguaglianze territoriali. Tra nord e sud il divario era di 15 punti
nel 2009 è diventato di 17 punti nel 2013. La speranza di vita in buona salute è di 60 anni
al nord, ma di 55 al sud. Una bella differenza.
Istruzione Il dato generale che emerge è che col più grande patrimonio storico culturale al
mondo viviamo di rendita e spendiamo per la cultura meno degli altri paesi europei. Il
capitale umano inteso come formazione, migliora, ma la partecipazione culturale, quasi
simmetricamente, diminuisce influenzata dalla crisi. Le donne in questo dominio appaiono
come il sesso forte con livelli di istruzione sensibilmente più alti degli uomini. L’indice
sintetico di istruzione e formazione è per la Sicilia 87, per il Trentino 125; i giovani che non
studiano e non lavorano sono 19 al Nord, 36 al Sud.
Lavoro Questo dominio è suddiviso in due aspetti: la partecipazione al lavoro e la qualità
del lavoro. La qualità del lavoro registra un miglioramento con una maggiore soddisfazione
per i contenuti. Sul grado di partecipazione al lavoro si sceglie come indicatore chiave il
tasso di occupazione. Questa scelta va rimarcata proprio all’indomani dei dati di ottobre
che hanno registrato uno stop all’occupazione ed una diminuzione della disoccupazione
per il maggiore scoraggiamento, mentre governo e parte della stampa hanno scelto di
valorizzare il dato che faceva più comodo del calo della disoccupazione. Il divario Nord
Sud passa dai 36 punti del 2007 ai 41 del 2014 ed oggi il tasso di occupazione è pari al
69% al nord ed al 45% al sud.
Sicurezza Gli omicidi in Italia sono meno che negli altri paesi Ue. I furti in abitazione che
erano raddoppiati negli anni di maggiore crisi si sono stabilizzati, mentre i borseggi
continuano ad aumentare. Omicidi e rapine sono più alti al sud, furti in abitazione e
borseggi al Nord. La percezione della sicurezza presenta forti differenze ed un discrimine
sembra rappresentato dalla dimensione della regione in cui si vive: più insicurezza nelle
regioni piccole, meno in quelle grandi.
In questi anni di crisi più che mai si è parlato di un nuovo modello di sviluppo che implica
un nuovo modello di vita. Ebbene, per mettere con i piedi per terra questa idea di società
occorre specificare in che cosa si concretizza il nuovo modello. quali settori vanno
potenziati e quali scoraggiati.
Gli altri domini sui quali non è possibile adesso soffermarci sono: benessere economico,
relazioni sociali, politica ed istituzioni, benessere soggettivo, paesaggio, ambiente, ricerca
ed innovazione, qualità dei servizi.
È un bene che per iniziativa di Giulio Marcon molte forze politiche abbiano presentato un
disegno di legge perché le prossime leggi di stabilità utilizzino il Bes per definire e
misurare le politiche economiche e sociali a livello nazionale e locale. Il Bes, quindi, può
diventare una guida per le politiche ed un metro di misura della loro efficacia.
L’Istat ha fatto un ottimo lavoro, speriamo prosegua con la stessa determinazione nella
semplificazione in pochi indicatori spendibili e soprattutto più tempestivi provando magari a
fornire separatamente quelli disponibili. Costruire indicatori adeguati ad integrare il Pil è
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compito dell’Istat. Affermare un nuovo modello di crescita e di vita è operazione ben più
complessa: politica, economica, culturale. E questa spetta a noi tutti.
Del 3/12/2015, pag. 12
Aumenta il benessere ma giovani e Sud
sempre più esclusi
Istat: crescono i redditi , non per i più deboli Confcommercio: più 5%
per i consumi di Natale
ROSARIA AMATO
La caduta è finita e gli italiani ricominciano a guardare al futuro con fiducia. Tanto che il
Natale che arriva potrebbe essere il primo con il segno più, il primo in cui andare a
comprare i regali ridiventa “un’attività piacevole”. Una lettura congiunta del terzo Rapporto
Bes dell’Istat (lo studio che propone una lettura “alternativa” delle condizioni del Paese
rispetto a quella offerta dal Pil, focalizzata sul benessere equo e sostenibile) e delle
previsioni di Confcommercio sulle spese di Natale potrebbe far pensare che la crisi sia
davvero finita, e poco importa se alla fine la crescita arriverà davvero allo 0,9% («è
possibile ma non semplice», valuta il presidente dell’Istat Giorgio Alleva). Si riduce la
quota di famiglie che fanno fatica ad arrivare a fine del mese (nel 2014 17,9% contro il
18,8% del 2013), la povertà assoluta ha smesso di aumentare, la grave deprivazione
diminuisce e l’occupazione ricomincia a crescere. Ma dalla crisi il Paese esce più diviso
che mai: «Dopo la grande tempesta del 2013 e le criticità presenti dal 2008, - spiega Linda
Laura Sabbadini, direttore centrale dell’Istat - il 2014 è un anno di transizione. Si ferma la
caduta e ci sono addirittura segnali di miglioramento. Le reti sociali, che hanno
rappresentato un importante riferimento nella crisi, migliorano. Però tra Nord e Sud c’è una
situazione speculare, in particolare rispetto a lavoro e sicurezza: il Sud si colloca ai livelli
più bassi e con una dinamica peggiore per il lavoro, e la forbice è aumentata in questi
anni, sia per la qualità che per la quantità del lavoro. Mentre il problema della sicurezza si
accentua soprattutto per il Nord».
A ben guardare anche le previsioni Confcommercio mostrano un ottimismo contenuto. E’
vero, gli italiani spenderanno 10 miliardi per i regali, il 5% in più rispetto al 2014, 116 euro
a persona. Eppure il 73% prevede «una festa dimessa». «Il governo - avverte il
presidente, Carlo Sangalli - non ha ancora vinto la scommessa di trasformare una ripresa
economica certificata dai dati in una ripresa reale. Per fare questo bisogna ridurre le tasse,
la spesa pubblica improduttiva, il deficit di legalità e la cattiva burocrazia». E cercare di
bilanciare con provvedimenti mirati le gravi disuguaglianze che caratterizzano più che mai
il Paese, e che la crisi ha esacerbato: «Il mio auspicio è che nella prossima manovra Pil e
Bes possano viaggiare insieme, - dice il presidente della commissione Bilancio della
Camera Francesco Boccia - in modo da permettere finalmente alla politica un confronto
nuovo sulla crescita del Paese anche dal punto di vista della qualità della vita e non solo in
base agli indicatori economici sempre più obsoleti e ai portafogli industriali». Qualità della
vita carente soprattutto tra le famiglie numerose, monogenitoriali, “a bassa intensità
lavorativa”: è qui, soprattutto nel Mezzogiorno, che si annida una povertà che la ripresa
non scalfisce. Per dirla con l’Istat, «il miglioramento osservato in termini di diffusione della
grave deprivazione» non intacca «la componente persistente del disagio».
A soffrirne soprattutto i più deboli, i bambini: al Sud il 9,2% non può permettersi di invitare
gli amici per giocare o mangiare insieme, il 16% non può partecipare alle gite scolastiche e
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il 14,7% non dispone di uno spazio adeguato per studiare. E il 7,7% dei bambini italiani
non può permettersi neanche di festeggiare il compleanno.
Del 3/12/2015, pag. 24
Filantropi da 358 miliardi l’anno
L’era dei super-ricchi buoni
Zuckerberg, Gates, Soros: sempre più spesso i grandi capitalisti
puntano sulla beneficenza Colmano le carenze dei governi, soprattutto
nei paesi poveri. Ma c’è chi li attacca: solo trucchi
ETTORE LIVINI
ROBIN Hood può mettersi il cuore in pace. Rubare ai ricchi per dare i poveri non serve
più. I ricchi del mondo sono così ricchi che a dare ai poveri, ormai, ci pensano
direttamente loro. Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook che girerà in beneficenza il
99% delle sue azioni (valore 45 miliardi di dollari) tenendo per sè la miseria di 450 milioni,
è solo l’ultimo arrivato nella lista dei Paperoni che d’oro, oltre al conto in banca, hanno
pure il cuore. I 10 uomini più generosi d’America, da Bill Gates a Tim Cook (Apple) da
George Soros a Michael Bloomberg, hanno donato a fin di bene lo scorso anno la bellezza
di 7 miliardi. L’ex patron di Microsoft e Buffett — il Re Mida di Wall Street — hanno
devoluto da soli in un decennio 51 miliardi. E assieme hanno lanciato “The Giving Pledge”,
una sorta di cartello della bontà dove gli uomini più ricchi del mondo si impegnano a
lasciare tutti i loro averi al prossimo. Appello raccolto finora da 138 persone che valgono
(beate loro) 610 miliardi, il triplo del pil della Grecia. Una pioggia di denaro che sta
cambiando il volto del welfare mondiale dove il “filantrocapitalismo” si sostituisce sempre
più spesso — senza controlli e senza pianificazione, dicono i critici — agli Stati e alle
istituzioni, privi della potenza di fuoco dei nuovi miliardari del pianeta.
Una cosa, ovviamente, è certa. Pecunia — come dicevano i latini — non olet. E chi riesce
a dribblare una malattia ad alto tasso di mortalità grazie a una profilassi nel cuore della
savana in Africa non si preoccupa se a pagare il vaccino è l’Unicef o un tycoon a stelle
strisce. La verità però è che in un mondo dove l’1% delle persone controlla il 40% della
ricchezza e il pubblico è a corto di liquidità, a tappare i buchi dove il bene non genera
profitto sono sempre più spesso i benefattori privati.
I colossi della farmaceutica, per dire, hanno poco interesse a sviluppare campagne antimalaria perché i paesi che avrebbero bisogno dei loro prodotti — quelli più poveri — non
hanno i soldi per pagarli. Risultato: a fare da supplente è arrivata la Fondazione Bill Gates
che stanziando 3,6 miliardi ha coperto ben più della metà dei fondi a disposizione per
debellarla. Stesso discorso per la poliomelite. Oms & C. hanno lanciato in pompa magna
un piano per sradicarla. Chi paga? Non Pantalone. Anzi. Degli 11 miliardi stanziati tra il
1985 e il 2018, poco più di 2 arrivano dal Governo Usa e una somma simile dal fondatore
di Microsoft. L’Oms ha stanziato appena 162 milioni e l’Unicef 212.
I super-ricchi, insomma, stanno privatizzando surrettiziamente — una donation alla volta
— una fetta di quello che dovrebbe essere un servizio pubblico. Zuckerberg ha regalato
nel 2010 100 milioni alle scuole statali di Newark. Li Ka Shing di Hutchison Whampoa (tlc)
ha dato in beneficenza decine di milioni per soccorrere le vittime di alluvioni in Cina.
Bloomberg ha stanziato 42 milioni per aiutare le municipalità Usa a digitalizzarsi. Carlos
Slim, l’uomo più ricco del mondo, ha girato 100 milioni al Wwf per salvare le foreste
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messicane. Azim Premji di WiPro ha firmato un assegno da 8 miliardi per sostenere le
scuole pubbliche indiane. Il tutto, naturalmente, è fatto quasi sempre nel massimo della
trasparenza, come si conviene a imprenditori cresciuti a Wall Street. I conti della
fondazione Gates, per dire, sono certificati dollaro per dollaro da Kpmg. Scrupolo che non
è bastato a salvarla dalle polemiche. Alcune Ong hanno contestato gli investimenti della
liquidità in azioni a rischio “etico”: un miliardo sui combustibili fossili, qualche milione su
Coca-Cola e McDonald. Altre criticano i suoi stanziamenti in agricoltura sostenibile (500
milioni nel 2015) per il rischio di uso di semi Ogm. James Love, dell’Ong Usa Knowledge
Ecology, sostiene che «chiunque voglia fare carriera all’Oms deve avere buone relazioni
con i coniugi Gates». Che con 140 milioni girati all’organizzazione nel 2015 sono tra i suoi
maggiori finanziatori.
Nel tritacarne è finito pure Zuckerberg, reo di aver costituito per le sue donazioni una Spa
ad hoc. «È più flessibile — dice lui — e gli eventuali profitti vanno per statuto a fin di
bene». «Storie, serve a dribblare le tasse», accusano in queste ore i suoi detrattori.
Altro punto dolente, l’uso “promozionale” della beneficenza dei nuovi ricchi. I docenti
dell’università di Oxford, ad esempio, hanno contestato l’ok ai 75 milioni di sterline
dell’oligarca Lev Blavatnik per sponsorizzare la cattedra della Bravatnik school of
government. Il tycoon, dicono, sarebbe stato tra i promotori di una campagna contro Bp
che ha costretto molti inglesi a lasciare la Russia. Le polemiche però non bastano a
frenare lo tsunami di donazioni. Nel 2014 gli americani hanno stanziato 358 miliardi,
riportando il totale ai livelli pre-Lehman. «Morire pieni di soldi è una disgrazia », sosteneva
Andrew Carnegie, pioniere a inizio ‘900 della beneficenza seriale. In molti, specie chi i
soldi li conta in miliardi, hanno deciso di prenderlo in parola.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 03/12/15, pag. 6
Il vescovo a scuola insegna omofobia
Sassari. Altro «no» per Paolo Atzei, il vicepresidente della Conferenza
episcopale sarda. «Incontro diseducativo e pericoloso»: la protesta
degli studenti del liceo Azuni dopo la visita del prelato. Il Mos: «Bene il
rifiuto dei maestri»
Costantino Cossu
SASSARI
Dopo il caso scoppiato nei giorni scorsi per il «no» di una scuola elementare alla visita del
vescovo Paolo Atzei per Natale, il prelato che regge la diocesi sassarese è ora
protagonista di una nuova polemica. Il Movimento omosessuale sardo (Mos), una delle
maggiori organizzazioni gay in Sardegna, lo accusa di aver rilasciato dichiarazioni
contrarie ai diritti dei gay durante un incontro avvenuto, in orario scolastico, lo scorso 19
novembre nell’aula magna del liceo classico “Domenico Alberto Azuni”.
«Incredibili e vergognose — scrive il Mos in un comunicato diffuso ieri — le polemiche di
questi giorni su scuola e religione. Dopo l’inesistente caso Rozzano, montato ad arte dalla
Lega e riportato senza alcuna verifica sul reale andamento dei fatti da buona parte della
stampa nazionale, ecco che scoppia il caso San Donato. Una scuola considerata
un’eccellenza in tema di integrazione viene messa alla berlina per aver considerato la
visita del vescovo un po’ invasiva e di difficile gestione e aver proposto, in alternativa, un
incontro in chiesa».
Il Mos racconta poi di avere ricevuto una lettera di un gruppo di studenti dell’ “Azuni” in cui
si denunciano le dichiarazioni di Atzei sui gay. «L’omosessualità — avrebbe detto il
vescovo — può manifestarsi nella prima parte della vita di una persona (ossia infanzia ed
adolescenza), ma la maturità sessuale si raggiunge solo nell’eterosessualità».
«Omosessuali quindi — scrivono gli studenti al Mos — come immaturi e infantili a cui deve
perciò essere negato il diritto all’adozione». «Non stiamo adottando un cagnolino —
avrebbe infatti detto il vescovo — Si adotta un bambino. Un bambino è una vita!».
«Se per qualcuno è difficile — commenta il Mos — capire le motivazioni della decisione
della scuola di San Donato di non rompere l’equilibrio faticosamente trovato tra diverse
culture, religioni e provenienze geografiche, a noi sembra invece che le motivazioni di
quella decisione siano ulteriormente rafforzate da quanto accaduto al liceo “Azuni”: Paolo
Atzei intimorisce gli studenti gay e lesbiche e crea un humus fertile all’omofobia ed alla
discriminazione di genere».
«Avevamo pensato di evitare i riflettori — aggiunge Barbara Teti, presidente del Mos — e
gestire la cosa con il liceo Azuni chiedendo al preside Massimo Sechi un incontro
“riparatore”, così come richiesto dagli stessi studenti. Ma dopo le polemiche degli ultimi
giorni abbiamo ritenuto doveroso intervenire, chiarendo perché abbiamo sempre giudicato
sconveniente l’ingresso di esponenti religiosi, di qualunque religione, all’interno della
scuola, che è e deve rimanere un’istituzione laica».
«Le istituzioni religiose — conclude Barbara Tetti — hanno i loro spazi per incontrare
chiunque nelle occasioni che ritengono importanti. Abbiamo sempre rispettato tutte le
religioni e spesso ci troviamo a difendere i musulmani dalla nuova ondata di razzismo che
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li ha investiti, pur consapevoli che l’Islam ci condanna quanto e più del cattolicesimo. Ma il
rispetto, sconosciuto in questo periodo di terrorismo mediatico e non solo militare,
presuppone conoscenza delle diverse realtà e non indottrinamento religioso. Per questo
abbiamo sempre difeso l’idea di una scuola inclusiva, laica e non confessionale, così
come dovrebbe esserlo lo stato e tutte le sue istituzioni, comuni e sindaci compresi».
Nel mirino del Movimento omosessuale sardo è il sindaco di Sassari Nicola Sanna (Pd).
«Ritengo che la visita pastorale del vescovo Paolo Atzei a San Donato — ha scritto nei
giorni scorsi il sindaco per motivare la sua contrarietà alla decisione della scuola — sia
uno dei tanti riti di vicinanza per dimostrare la volontà di incontrare, conoscere e ascoltare
il prossimo e che non presupponga una scuola confessionale ma una scuola aperta a
tutti». Il Mos ribatte: «Al sindaco, espressione di una maggioranza di centrosinistra, che
dovrebbe essere il sindaco di tutte e di tutti, compresi coloro che vengono discriminati
dalle religioni, rispondiamo con le parole degli studenti del liceo classico “Azuni”: “Incontri
del genere sono del tutto diseducativi o addirittura pericolosi e dannosi. Riteniamo
pertanto che debbano essere evitati” ».
del 03/12/15, pag. 6
Maurice ha 30 anni. E ancora non si
accontenta
Torino. I «rompiscatole» dello storico circolo lgbt italiano si raccontano.
«La battaglia per i diritti di coppie e famiglie va legata a quella contro lo
smantellamento dello stato sociale»
Jacopo Rosatelli
TORINO
Compie trent’anni un gruppo di «rompiscatole». Così si autodefinisce il Circolo Maurice di
Torino, ovvero una delle tessere più preziose del variegato mosaico del movimento lgbt
italiano. Un collettivo di persone abituate a disturbare non solo l’ordine etero-normativo,
quella «normalità» oppressiva in base alla quale «tutti nascono eterosessuali» e come tali
vengono naturalmente educati, ma anche il mainstream (vero o presunto che sia) dello
stesso movimento per i diritti civili di gay e lesbiche. Piantagrane, ma non per il gusto di
essere bastian contrari: a muovere il collettivo del Maurice, oggi come trent’anni fa, è lo
spirito di ricerca, la curiosità verso le infinite differenze, e un istinto di critica verso ogni
ingiustizia socialmente prodotta.
Rivisitiamo la storia del circolo insieme a Christian Ballarin, Cristian Lo Iacono e Roberta
Padovano, attivisti di differenti generazioni che incontriamo nella sede via Stampatori.
Siamo nel pieno centro storico di Torino, al piano terra di un edificio di proprietà comunale
rimasto, per ora, al riparo dalla gentrification, il «risanamento» a uso di chi se lo può
permettere. «Il Maurice nasce nel difficile periodo della diffusione dell’Aids, che i giornali
definivano ‘la peste gay’. In origine è un gruppo informale di soli uomini, quasi tutti ex
componenti del Collettivo omosessuale della sinistra rivoluzionaria (Cosr). Poi arriva
l’affiliazione ad Arcigay e, nel 1989, la scelta di darsi un nome, ricavato dal film tratto dal
romanzo di Edward M. Forster».
L’impegno degli inizi è soprattutto nella difesa dell’identità omosessuale dallo stigma della
malattia, ma a orientare l’azione del circolo è anche l’interesse politico verso il
femminismo. Che porta all’ingresso di alcune donne, le prime di una componente
femminista e lesbica destinata a crescere in fretta, parallelamente all’aumento del
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protagonismo delle donne all’interno del movimento omosessuale nazionale. Nel quale,
però, la condivisione degli stessi spazi regge solo fino al ’96, quando Arcigay e Arcilesbica
si separano.
Al Maurice non succede: meglio la mixité. Donne e uomini scelgono di continuare il loro
percorso comune, e il circolo esce dal circuito di Arcigay. «Rompemmo con l’associazione
nazionale perché volevamo tenere insieme ‘la g e la l’, ma anche in polemica con pratiche
troppo verticistiche». Ecco, i (e le) rompiscatole. Che nel frattempo intrecciano il loro
cammino con quello del sindacato — la Cgil ma anche i Cobas -, del Comitato di
solidarietà con la Palestina, delle lotte contro i Centri di detenzione dei migranti, e dei
centri sociali torinesi. Un legame, quest’ultimo, che ancora resta, come testimonia la festa
dei trent’anni («pestiferi», ça va sans dire), sabato scorso, ospitata dal csoa Gabrio a
Borgo San Paolo, storico quartiere operaio della città.
La stagione dei social forum vede il Maurice presente: Genova, Firenze, Parigi. «Era ed è
fondamentale, per noi, lo sguardo glocal, cioè pensare globalmente, ma agire localmente:
a Torino in quegli anni otteniamo un piccolo grande risultato, la nascita del servizio lgbt del
Comune». All’interno del «movimento dei movimenti» si sviluppa la riflessione intorno al
nesso fra soggettività lgbt e neoliberismo. E qui trova spazio l’analisi critica del significato
dell’affermazione dei diritti civili. Una causa giusta, naturalmente, ma che porta con sé
insidie che non possono essere sottovalutate. «Abbiamo riflettuto molto sulla figura
paradigmatica di Pim Fortuyn, il politico liberal-populista olandese capostipite
dell’islamofobia europea, assassinato nel 2002 quando mieteva consensi crescenti.
Omosessuale, difendeva i diritti lgbt come ‘diritti occidentali’ che contrapponeva al
‘pericolo dell’islamizzazione’: esempio emblematico di ciò che chiamiamo ‘omonazionalismo’».
Il rifiuto della strumentalizzazione dei diritti di gay e lesbiche per legittimare politiche
discriminatorie nei confronti dei migranti è un tema caro alla filosofa americana Judith
Butler, fra le referenti teoriche del Maurice («ma non abbiamo ortodossie»). All’interno del
circolo un ricco centro di documentazione testimonia dell’impegno culturale: se si deve
usare un’etichetta, l’orientamento è queer, che significa, fra l’altro, non accettare
l’immagine della comunità lgbt «appiattita sui nativi e sui loro bisogni». «Il nostro circolo —
raccontano gli attivisti — è stato tra i primi a supportare le richieste di asilo di omosessuali
migranti, rifiutando però la retorica dell’accoglienza ‘neocoloniale’: noi non diciamo ‘vieni
da noi perché nel tuo Paese sono dei barbari’».
La mixité che contraddistingue il Maurice si nutre anche di una forte componente
transessuale e transgender, che è venuta nel corso degli anni sempre più aumentando la
propria visibilità, ma anche contaminandosi con le altre, come reso evidente dalla recente
seconda edizione della Trans Freedom March per le strade torinesi — appuntamento
vissuto come proprio da tutto il movimento lgbt riunito nel «Coordinamento Torino pride».
Al circolo, il primo spazio di condivisione, al di là dell’assemblea generale, dalla fine degli
anni ’90 è la serata del martedì, quella delle donne: «Uno spazio separato ma non
separatista, dove le donne trans furono da subito le benvenute, perché la visione
‘essenzialista’ dell’essere donna non ci è mai appartenuta». Uno dei fiori all’occhiello del
circolo è lo sportello per le persone trans che necessitano consulenza psicologica, medica
o legale, per affrontare la transizione, ma anche i problemi della vita quotidiana.
Cosa vive, oggi, delle origini rivoluzionarie del gruppo? «Ad esempio il non riconoscersi in
un’idea astratta dell’identità lgbt: viviamo in un mondo dove ci sono primi ministri
dichiaratamente gay, ma il livello di libertà di ciascuna persona omosessuale o trans è
condizionato dalle differenze economiche, dal retroterra sociale, dall’essere nativi o
migranti». Accenti diversi da quelli di chi, nel movimento, insiste solo sui diritti delle coppie
e delle famiglie omo-parentali. «Intendiamoci: è giusto rivendicare il matrimonio
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egualitario, ma non bisogna fermarsi a quello. Da un lato, occorre mettere in relazione
questa battaglia per i diritti di coppie e famiglie con tutte le forme di resistenza allo
smantellamento dello stato sociale, perché il rischio è ottenere qualcosa che esiste sulla
carta ma, nella realtà, viene cancellato dalle politiche neoliberiste. E dall’altro serve
pensare a tutele per relazioni affettive di tipo diverso, praticate nella nostra comunità, che
non sono riducibili al modello matrimoniale della coppia ‘unita per sempre’».
Nelle parole degli attivisti si riconosce l’eco del pensiero della differenza: vanno bene i
diritti, ma non solo quelli che «rendono uguali». Nessuna paura di venire confusi con i
fautori delle unioni civili come «specifica formazione sociale»: «Il problema del ddl Cirinnà,
in discussione al Senato, è che crea un istituto ad hoc al solo scopo di non concedere il
matrimonio egualitario. Noi invece vogliamo il matrimonio e altre forme di riconoscimento
dei nostri legami affettivi e di solidarietà». Difficile accontentarli, questi rompiscatole.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 03/12/15, pag. 5
Per Obama al Congresso il clima si fa pesante
Usa. Per i repubblicani l'ambiente non è una priorità. Così le promesse
fatte dal presidente statunitense alla Cop21 si infrangono subito contro
il no della Camera alle norme che limitano le emissioni di gas nocivi. In
questo modo anche la campagna elettorale si surriscalda
Marina Catucci
NEW YORK
La Camera dei Rappresentanti di Washington ha votato due risoluzioni, già passate al
Senato, in contrasto con le norme volute dalla Environmental Protection Agency, l’agenzia
per la tutela dell’ambiente, norme finalizzate a limitare del 30 per cento, nell’arco di 15
anni, le emissioni di gas a effetto serra e ad implementare leggi più rigorose per le future
centrali termiche. Questa votazione arriva poche ore dopo il discorso di Obama a Parigi
durante il summit per il clima Cop21, dove Obama aveva dichiarato che gli Stati Uniti
avrebbero guidato gli sforzi dei paesi in cerca di una risposta globale al cambiamento
climatico.
«C’è bisogno di un programma a lungo termine» aveva detto il presidente statunitense nel
suo discorso di Parigi, ma il voto della camera manifesta come Obama non possegga il
pieno sostegno del suo governo in materia di politica climatica.
Le due leggi son passate rispettivamente con 242 voti favorevoli e 180 contrari e 235 voti
contro 188, dopo esser state approvate dal senato con un margine identico di 52–46,
segnalando comunque che i leader del congresso repubblicani non sarebbero in grado di
raccogliere la maggioranza dei due terzi necessaria per una sostituzione.
Obama porrà il veto a queste due risoluzioni ma resterà la prova della distanza sulle
questioni interne tra Obama e il Congresso e della difficoltà nel mantenere le promesse
fatte a Parigi sulla riduzione dei gas e il sostegno politico ed economico all’utilizzo di
energie alternative.
Il problema del passaggio di consegne alla casa banca previsto tra un anno, era già sorto
durante il summit di Parigi, durante la conferenza stampa Obama aveva dovuto rispondere
più volte a domande inerenti al futuro delle posizioni americane in tema di politica climatica
durante la prossima amministrazione che, se in mano ai repubblicani, lascia poche
speranze alla difesa dell’ambiente.
Nelle stesse ore dai banchi repubblicani non arrivavano voci confortanti, come quella del
senatore del Wyoming, John Barrasso, che, in un’intervista, ha affermato: «L’ambiente
non è assolutamente una priorità per il popolo americano, mentre lo sono il lavoro,
l’economia e la sicurezza interna».
Questo scontro pubblico tra il presidente degli Stati Uniti e il congresso a maggioranza
repubblicana si inserisce nel quadro di una campagna elettorale cominciata da mesi,
inasprendo ulteriormente un rapporto che non è mai stato idilliaco.
I campi dove si sono scontrati in questi mesi la Casa bianca e il congresso sono stati
spesso unicamente funzionali alla campagna elettorale, come l’Obamacare su cui il senato
in questi giorni sta considerando un disegno di legge che ne abroghi le parti principali e
tolga fondi ai consultori; questa mossa ha l’unico scopo di portare Obama a mettere un
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veto e di dimostrare all’elettorato repubblicano che i loro rappresentanti non si sono
rassegnati all’Obamacare.
Altro terreno di scontro elettorale è quello inerente alla sicurezza interna e al rapporto con i
rifugiati siriani, la cui accoglienza tanto i candidati democratici, quanto il presidente in
carica, non mettono in discussione, mentre i repubblicani cancellerebbero
immediatamente il programma. Su questo argomento molti governatori, come quello del
New Jersey candidato alle primarie del suo partito, Chris Christie, hanno dichiarato che il
loro stato non accetterà nessun rifugiato siriano, «nemmeno un bambino di 5 anni orfano»,
ha tenuto a precisare Christie.
Questa dichiarazione ha poco spazio di attuazione in quanto anche se è vero che per
cambiare residenza un rifugiato deve chiedere di essere accettato nei diversi stati
dell’unione, è altrettanto vero che nessuno può impedirgli di viaggiare all’interno degli Stati
Uniti.
Mosse di propaganda, quindi, che vengono agite allo scopo di evidenziare la spaccatura
tra i due partiti, e sul tema dell’ambiente ciò è ancora più evidente. Se per i repubblicani
questo non è una priorità, per i democratici, lo è, in quanto, come afferma Bernie Sanders,
il rivale principale di Hillary Clinton alle primarie democratiche, non esistono suddivisioni
tra i temi dell’economia e quelli dei diritti civili, dell’ambiente e del lavoro; privilegiando un
tipo di economia rispetto a un altro meno sostenibile a livello ambientale, si garantiscono
anche meno diritti ai lavoratori delle classi più deboli, che nella società americana sono
rappresentati dalla popolazione nera.
del 03/12/15, pag. 5
«Un tribunale per il pianeta»
L’alba a Parigi. Le proposte dei popoli indigeni su giustizia ambientale e
riparazione
Geraldina Colotti
«I cambiamenti climatici colpiscono soprattutto i poveri e gli affamati», ha ricordato la Fao
alla Cop21 di Parigi. Un recente studio dell’organizzazione mostra che nei paesi in via di
sviluppo siccità, inondazioni, tempeste e altre catastrofi innescate dai cambiamenti
climatici sono aumentane d’intensità e frequenza negli ultimi tre decenni. Circa il 25%
dell’impatto economico negativo delle catastrofi colpisce i settori dell’agricoltura,
dell’allevamento e delle foreste.
I popoli indigeni e tribali sono i più esposti, soprattutto nei paesi in cui non hanno trovato
una vera rappresentanza. I nativi abitano circa l’80% delle zone più ricche di biodiversità al
mondo e le loro riserve sono una cruciale difesa contro la deforestazione. Pur essendo i
meno responsabili per quel riguarda il riscaldamento globale, gli effetti del cambiamento
climatico mettono a rischio la loro stessa sopravvivenza.
In vista di Parigi, in ottobre le organizzazioni indigene hanno avanzato le loro proposte nel
Vertice mondiale dei popoli di Tiquipaya, in Bolivia. Proposte trasmesse a Parigi dai
governi socialisti dei paesi dell’Alba. Al centro, il tema della giustizia ambientale e della
riparazione.
Così, il presidente ecuadoriano Rafael Correa, alla Cop21 ha annunciato come «principale
proposta» contro il cambio climatico la creazione di una Corte internazionale di giustizia
ambientale per proteggere i diritti della natura. «Ascoltami, pianeta – ha detto Correa –
niente, assolutamente niente giustifica che esistano tribunali per proteggere gli
investimenti, per pagare debiti finanziari, e che non ve ne siano per proteggere la natura e
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costringere a pagare i debiti ecologici». Quella che impera – ha aggiunto Correa – è «la
logica perversa per privatizzare i benefici e socializzare le perdite a scapito della natura».
Per questo, il leader ecuadoriano ha proposto un trattato mondiale che dichiari le
tecnologie capaci di limitare il cambiamento climatico come beni comuni globali, e che ne
garantisca il libero accesso. Altrimenti – ha detto ancora citando il dialogo tra Trasimaco e
Socrate — «la giustizia è l’utile del più forte».
Una delle principali questioni, infatti, è chi e come debba contribuire al fondo di 100 mila
milioni di dollari annuali che, per una decisione presa al vertice di Copenhagen del 2009,
deve essere versato ai paesi in via di sviluppo a partire dal 2020: affinché abbiano
accesso alle tecnologie più pulite, riducano la deforestazione e possano proteggersi dagli
effetti del cambiamento climatico provocato soprattutto dai paesi sviluppati.
Senza appello anche l’atto d’accusa del presidente boliviano Evo Morales, a Parigi per
chiedere il riconoscimento della Madre Terra come soggetto di diritti. «La Madre Terra sta
pericolosamente avvicinandosi al crepuscolo del suo ciclo vitale – ha detto – la cui causa
strutturale e responsabilità risiede nel sistema capitalista. Se continuiamo sul cammino
tracciato dal capitalismo, siamo condannati a scomparire».
Le responsabilità principali sono di quei paesi che promuovono un modello predatorio:
«Non possiamo mantenere un silenzio complice di fronte a questa catastrofe di
proporzioni planetarie e a un modello che ha introdotto e favorito la formula più selvaggia
e distruttrice della nostra specie, trasformando tutto in merce a vantaggio di pochi», ha
detto ancora Morales. Che alla Cop21 ha poi presentato le conclusioni del Vertice dei
popoli di Tiquipaya racchiuse nel manifesto «Salvare la Madre Terra, salvare la vita».
Ma da quell’orecchio i grandi inquinatori fingono di non sentire. E per questo la
popolazione di un piccolo villaggio dell’Amazzonia ecuadoriana (1.200 persone) ha deciso
di recarsi a Parigi. Senza troppe illusioni, vista l’andatura del vertice e il nonriconoscimento del loro ruolo di attori principali nella difesa contro le politiche estrattive e
nel mantenimento delle selve tropicali: ma con la consapevolezza che fosse meglio
esserci che non farsi vedere.
La maggior parte delle organizzazioni indigene latinoamericane, però, è rimasta nei propri
paesi. Quelle venezuelane hanno presentato le loro proposte in campagna elettorale
attraverso i propri rappresentanti (verranno eletti 3 deputati indigeni su un totale di 167 ).
In Venezuela, le popolazioni native pesano sulle decisioni che riguardano i loro territori e
l’eco-socialismo è un punto imprescindibile del programma strategico del governo
bolivariano. In tutta l’America latina che scommette sul Socialismo del XXI secolo, è forte il
rigetto per i segretissimi accordi conclusi da Washington nell’ambito del Tpp. Per questo,
in parallelo al vertice di Parigi, si è manifestato in Perù, in Colombia, in Messico, in Cile…
In Honduras, la polizia ha distrutto una strada, ma i rappresentanti del Consejo Cívico de
Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (Copinh) l’hanno rimessa a posto, e
la marcia indigena contro il progetto idroelettrico Agua Zarca nel fiume Gualcarque è
proseguita.
E all’università di Buenos Aires, in Argentina, dall’1 al 3 dicembre si svolgerà un incontro
internazionale latinoamericano di Comunicazione contadina indigena dal titolo «Territori in
movimento», voci molteplici. Il 5 dicembre è prevista una manifestazione in relazione ai
contenuti di Parigi. Per gli indigeni del sud del mondo, la consegna è univoca: «Cambiare
il sistema per cambiare il clima».
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Del 3/12/2015, pag. 14
“All’Ilva hanno sotterrato rifiuti tossici e
nocivi”
Il Noe: sotto il reparto carpenteria cromo, nichel e “materiali radioattivi”
di Francesco Casula
L’Ilva dovrà attivare tutte le necessarie misure di prevenzione e procedere alla rimozione
dei rifiuti”. È l’ordine impartito dal ministero dell’Ambiente ai vertici della fabbrica di Taranto
in merito all’inquietante scoperta fatta dai carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di
Lecce. Cromo, vanadio e altri rifiuti pericolosi tombati sotto il reparto carpenteria dello
stabilimento, quello nel quale, su circa 200 lavoratori, una decina sarebbero affetti da
tumore alla tiroide. Un male che secondo la Procura di Taranto al momento non è
riconducibile con certezza alle condizioni di lavoro degli operai, tanto da chiedere
l’archiviazione delle indagini aperte dopo la morte di Nicola Darcante, 39enne ucciso
proprio da un cancro alla tiroide nel maggio 2014.
Per i pubblici ministeri, Lanfranco Marazia e Antonella De Luca, infatti, gli accertamenti
svolti finora non avrebbero permesso di raccogliere elementi “idonei a sostenere” in un
processo penale che il tumore sia stato la conseguenza delle esposizioni a sostanze
nocive presenti all’interno delle officine Ilva. Eppure in quelle poche pagine, i magistrati
hanno denunciato l’esistenza di una vera e propria discarica di rifiuti pericolosi proprio
sotto i piedi degli operai. Si tratta di “numerose gallerie” e “tre locali interrati” nei quali sono
stati accumulati scorie di produzione e metalli pesanti come cromo, nichel e vanadio “in
valori superiori ai limiti” consentiti. Ma c’è di più. La procura parla di accumulo di materiali
anche “a componente radioattiva” che sarebbe stato interrato “nel tempo” certamente
prima del 1997, anno di costruzione del capannone dell’officina Carpenteria. Al momento,
secondo le indagini svolte dai carabinieri del Noe, dall’Arpa e dall’ispettorato del lavoro
non vi sarebbe alcun allarme per i lavoratori: i livelli di radioattività nel capannone “sono
tutti confrontabili – si legge negli atti dell’inchiesta – con i livelli di radioattività ambientale
di fondo misurati nel piazzale esterno”. Ma sulla nocività delle sostanze non ci sono dubbi.
Insomma i rifiuti sarebbero stati interrati prima del 1997, a cavallo tra la gestione di Stato e
i primi anni dell’era dei Riva. Soprattutto non è chiaro chi li abbia tombati. Non gli attuali
commissari specifica la procura poiché “in carica da poco più di un anno”, ma la sola
presenza di questa discarica abusiva di rifiuti pericolosi, però, è a dir poco inquietante per
gli operai che quotidianamente di ritrovano a lavorare in quegli ambienti. E così, dopo la
segnalazione dei militari guidati dal maggiore Nicola Candido, il ministero dell’ambiente, lo
scorso 9 novembre, ha ordinato all’azienda di bonificare la zona, ma al momento la
risposta dell’Ilva non appare confortante. In una lettera l’azienda avrebbe infatti cercato di
confutare l’attendibilità dei dati raccolti dagli inquirenti facendo leva su ulteriori dati raccolti
alla presenza dei tecnici Ilva e che avrebbero dato esito differente. Ma gli allarmi nel
capoluogo ionico sembrano non finire mai. Nei giorni scorsi, l’associazione ambientalista
Peacelink ha chiesto al sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, di emanare un’ordinanza per
chiudere le cokerie dell’Ilva in vista delle prossime settimane in cui il vento da nordovest
spingerà gli idrocarburi policicli aromatici (Ipa) dalla zona industriale verso la città. Dati
confermati anche dall’Arpa che oltre al picco segnalato da Peacelink nelle prime ore del
giorno, ha anche evidenziato tra i dati pubblicati sul sito un valore di Ipa particolarmente
elevato nel pomeriggio. La centralina, in questo caso è quella del quartiere Tamburi, il più
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vicino agli impianti. Perché nonostante i proclami e i decreti, l’acciaieria continua a
produrre e a inquinare mentre cittadini e operai restano continuamente esposti alle
emissioni. Più basse rispetto al passato, ma non certo meno nocive.
Del 3/12/2015, pag. 37
Vitelli senza corna e galline che fanno nascere solo femmine: le nuove
tecniche di modifica del Dna puntano al mondo animale. E c’è chi pensa
già a intervenire sull’uomo L’appello: fissiamo un limite
Dal supersalmone al maiale bonsai la grande
corsa verso lo zoo Ogm
ELENA DUSI
UN tempo ogm era sinonimo di mais o soia. Oggi lo sta diventando anche di pesce,
mucca, capra e maiale. Due settimane fa gli Stati Uniti hanno dato il via libera, tra le
proteste dei consumatori, alla vendita del salmone ogm, capace di crescere il doppio del
normale. Ma sono mesi che America e Cina gareggiano per estendere lo zoo degli animali
con il Dna modificato. Maiali, mucche, capre, pecore e lo stesso salmone, se producono
più carne rendono l’allevamento più conveniente. Ma lo stesso non si può certo dire dei
maialini bonsai del colosso della genetica cinese Bgi-Shenzen. All’International Biotech
Leaders Summit, lo scorso 23 settembre, i leader dell’azienda hanno annunciato la vendita
di questi animali da compagnia, ingegnerizzati per non superare la taglia di un cagnolino
(15 chili), a 1.600 dollari l’esemplare. E sempre in Cina — dove pure l’opinione pubblica è
molto critica dei confronti degli ogm vegetali — ha annunciato il Journal of molecular cell
biology, sono nati dei beagle muscolosi e velocissimi nella corsa, con il Dna manipolato
per avere zampe e pettorali di acciaio. Nell’arca degli animali ogm sono entrati in
primavera anche due vitellini senza corna, nati nello Iowa dall’azienda Recombinetics per
evitare la pratica dolorosa della loro rimozione. E una cucciolata di maiali — creati da quel
Roslin Institute di Edinburgo che diede la paternità alla pecora Dolly — resistenti alla
febbre suina. Presto, se le difficoltà tecniche saranno superate, negli Usa arriveranno
galline che fanno nascere solo femmine (per avere più uova) e mucche con una prole solo
maschile (più conveniente da allevare), scrive il New York Times.
Ottenere questi risultati è semplice, in teoria. Basta regolare il gene che controlla la
caratteristica desiderata negli organismi. Nel caso del salmone, lo sviluppo naturale è
limitato ad alcune stagioni dell’anno, ma può essere reso permanente modificando il Dna.
Il pesce può così arrivare sul bancone in 20 mesi invece dei normali 36. Effetto simile si
ottiene nei mammiferi silenziando un gene che limita lo sviluppo dei muscoli. Eppure erano
anni che allo Shaanxi Research Center, in Cina, provavano a ingegnerizzare il genoma
delle capre per ottenere carni abbondanti e pelo fluente. La vera svolta, ammettono i
ricercatori nel numero di settembre di Scientific Reports — quello in cui hanno presentato
al mondo le loro capre maggiorate — è stata l’invenzione del metodo “Crispr”. Introdotto
un paio di anni fa, questo sistema che prende in prestito una sorta di “forbice per il Dna”
usata dai batteri, ha reso l’ingegneria genetica semplice come un copia e incolla.
Rendendo le alterazioni genetiche degli animali trasmissibili da una generazione all’altra.
Sfruttando la diffusione dei geni modificati con Crispr all’interno di una specie, i ricercatori
pensano ora di poter debellare la malaria. Una settimana fa l’università della California a
Irvine ha annunciato di aver creato zanzare non infettabili dal parassita Plasmodium. E
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quindi incapaci di trasmettere la malaria agli uomini. Per ora le zanzare ogm sono
guardate a vista in laboratorio. Trasformare un’intera specie animale in modo così radicale
e irreversibile è infatti impresa da meditare a fondo.
E forse, un giorno, l’ultima specie a diventare ogm sarà proprio l’uomo. Crispr potrebbe
facilitare la cura delle malattie genetiche. Ma se fosse applicata agli embrioni, la tecnica
inserirebbe delle modifiche del Dna che diventerebbero permanenti in tutti gli eredi.
Proprio in questi giorni, a Washington, gli inventori e i maggiori esperti di Crispr provenienti
da Cina, Usa e Gran Bretagna sono riuniti per decidere quali limiti porre al loro potente
strumento. Dovranno decidere se vietare o meno la tecnica sugli embrioni umani. Ad
aprile, in Cina, un gruppo dell’università di Canton aveva già annunciato di essere
intervenuta su un gruppo di embrioni difettosi, solo per fini di ricerca e non per far nascere
uomini ogm.
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INFORMAZIONE
del 03/12/15, pag. 1/2
Liberate Dündar e Gül
Libertà di stampa. Direttore e caporedattore di "Cumhuriyet" accusati di
spionaggio per un articolo sul traffico di armi verso la Siria. Incarcerati
su denuncia del presidente turco Erdogan
Dimitri Bettoni *
ISTANBUL
Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet è stato arrestato il 26 novembre scorso
dalle autorità turche insieme ad Erdem Gül, capo della redazione di Ankara dello stesso
giornale. I due sono stati fermati con l’accusa di aver divulgato lo scorso maggio notizie sul
sequestro e la perquisizione di alcuni camion appartenenti ai servizi segreti turchi (Mit)
carichi di armi e diretti in Siria. L’accusa a carico dei due giornalisti è di spionaggio politico
e militare, divulgazione di informazioni coperte da segreto di stato e propaganda a favore
di organizzazioni terroristiche, più precisamente quella che fa capo al predicatore islamico
Fetullah Gülen. Esule da anni negli Stati Uniti, Gülen è stato un tempo alleato del
presidente Recep Tayyip Erdogan, ma oggi è accusato di essere l’architetto del cosiddetto
«stato parallelo» contro cui le operazioni di polizia si contano ormai a centinaia.
In particolare, i giornalisti di Cumhuriyet sono accusati di aver costruito notizie false
attraverso informazioni ricevute dall’organizzazione di Gülen, allo scopo di dare
un’immagine della Turchia come collaboratrice di gruppi terroristi.
L’arresto è l’esito di un’indagine lanciata a fine maggio scorso, quando Cumhuriyet aveva
pubblicato un articolo dal titolo «Ecco le armi che Erdogan sostiene non esistano», in cui si
rendeva pubblico il sequestro, avvenuto nel gennaio 2014 da parte della polizia, di tre
camion carichi di armi nascoste sotto casse di medicinali diretti in Siria. L’arsenale
includeva munizioni per artiglieria e mitragliatrici, colpi di mortaio e munizioni per
contraerea, contenuti in casse con scritte in cirillico e partite dall’aeroporto Esenboga di
Ankara.
L’operazione di polizia, avviata da una soffiata ricevuta dal procuratore generale di Adana
che aveva quindi autorizzato le indagini ed il sequestro, rischiava di porre nuovamente la
Turchia sul banco degli imputati per l’atteggiamento ambiguo nei confronti dello scenario
siriano e dei gruppi armati che vi combattono. Non è mai stato chiarito a chi fosse
destinato il carico di armi.
La circolazione della notizia sui media nazionali era poi stata immediatamente bloccata da
un’ordinanza del tribunale di Adana, che aveva disposto il bando di ogni materiale scritto,
audio video e online sulla perquisizione dei camion, mentre i contenuti già online venivano
cancellati.
Erdogan stesso aveva commentato l’episodio sostenendo che i responsabili della
divulgazione avrebbero pagato un prezzo salato. Il presidente turco aveva sporto
personale denuncia contro Dündar, chiedendone due ergastoli più 42 anni di carcere per
aver minato gli interessi dello stato attraverso l’uso di falso materiale giornalistico.
Dopo il blocco delle indagini e la restituzione dei camion al personale del Mit (i Servizi
segreti turchi), grazie all’intervento diretto del governatore di Adana, diversi membri ed
ufficiali delle forze di polizia erano stati posti in stato di accusa ed espulsi. Durante la
propria deposizione, l’autista Murat Kislakci dichiarò che per diverso tempo aveva guidato
camion da Ankara alla cittadina di Reyhanli, sul confine turco-siriano, e che sapeva
perfettamente di lavorare per il Mit. L’avvocato Hasan Tok, legale rappresentante del
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comandante delle forze di polizia di Adana colonnello Ozkan Çokay, aveva poi rilasciato
una dichiarazione secondo la quale, nel corso di un’udienza, il procuratore di Adana Ali
Dogan avrebbe dichiarato che «oltre duemila camion sono stati inviati in Siria dalla
Turchia».
L’arresto di Dündar e Gül ha scatenato le proteste di diverse personalità di spicco del
mondo politico e dei sindacati. Manifestazioni in segno di solidarietà si sono svolte in
questi giorni a Istanbul di fronte alla sede di Cumhuriyet.
* Osservatorio Balcani e Caucaso
Del 3/12/2015, pag. 16
Il pregiudicato opinionista: al servizio
pubblico mancava soltanto questo
I talk si contendono Luigi Bisignani, come se nulla fosse
di Loris Mazzetti
Dentro in Rai, nell’era B., ho visto cose che voi umani…, mai avrei pensato che in quella di
Renzi Luigi Bisignani potesse diventare opinionista sul servizio pubblico: Virus di Nicola
Porro su Rai2. Finalmente Pier Paolo Pasolini è stato ricordato come merita. L’ultima
intervista in tv gli fu fatta da Enzo Biagi per Terza B: facciamo l’appello, mandata in onda
solo il giorno dopo l’assassinio. Si trattò di censura ma nulla si poté fare per impedirla, i
vertici di allora applicarono un provvedimento che stabiliva che non poteva apparire chi
era soggetto a un’azione giudiziaria. Pasolini, da direttore di Lotta continua, era stato
denunciato per “istigazione alla disobbedienza” e “propaganda antinazionale”. Tutto
questo non esiste più. La censura è diventata soprattutto autocensura e la burocrazia,
eccessiva, la sta aiutando. Ai talk in crisi tutto è concesso pur di fare ascolto. In tv paga il
populismo caciarone più che il contenuto, Quinta Colonna su Rete 4, e non solo, lo
dimostra: anche un pregiudicato può diventare opinionista senza che si urli allo scandalo.
Bisignani, l’uomo che sussurrava ai potenti, a Virus parla dei presidenti del Consiglio e
della Repubblica, del bene e del male contenuto nella legge di Stabilità. Chi meglio di lui
conosce certi fatti? Lui è quello cui l’ex dg Rai Mauro Masi chiedeva consiglio su come
cacciare Santoro, è quello della P2, condannato in Cassazione a due anni e sei mesi nel
processo Enimont. Bisignani, anche a torto, è sempre tirato in ballo negli scandali legati al
potere. In questi giorni il suo nome è stato fatto da monsignor Balda, imputato nel
processo Vatileaks II, come consigliere dell’altra presunta gola profonda: Immacolata
Chaouqui. È importante che in Rai si sia tornato a parlare del ruolo del servizio pubblico. Il
nuovo vertice dovrebbe passare ai fatti. Bisignani opinionista potrebbe essere l’occasione.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 03/12/15, pag. 11
Presentato a Roma il progetto «Archeologia
ferita»
Beni culturali. Il primo appuntamento sarà una mostra ad Aquileia (dal 6
dicembre) di alcuni reperti e mosaici del museo tunisino del Bardo
Valentina Porcheddu
Lo scorso 18 marzo, il Museo Nazionale del Bardo di Tunisi fu teatro di un feroce attacco
jihadista, nel quale persero la vita 24 persone. Malgrado le opere — prevalentemente
mosaici romani — conservate in uno dei più ricchi e coinvolgenti musei del Mediterraneo
non abbiano subìto danni di rilievo, si può senza dubbio considerare il Bardo come una
delle vittime del terrorismo di un 2015 caratterizzato da morti e distruzioni (anche
metaforiche) del patrimonio dell’umanità.
Per opporsi e riparare a quest’accanimento sulla cultura – valore riconosciuto dallo Stato
Islamico solo per finanziare il jihad attraverso il traffico illegale di reperti – la Fondazione
Aquileia, affiancata dalla Soprintendenza Archeologica e dal Polo Museale del Friuli
Venezia Giulia, ha presentato ieri nella sede del Collegio Romano a Roma il progetto
Archeologia Ferita. Si tratta di un’iniziativa che, con cadenza semestrale, porterà al Museo
Archeologico Nazionale di Aquileia oggetti provenienti da musei e siti colpiti dai guerrieri
iconoclasti di Daesh.
I primi «profughi archeologici» ad approdare nell’antica colonia romana dell’Alto Adriatico
viaggeranno da Tunisi per l’esposizione Il Bardo ad Aquileia, visitabile dal prossimo 6
dicembre e fino al 31 gennaio 2016. La mostra – realizzata in collaborazione con Edison,
Camera di Commercio Industria e Artigianato di Udine e Banca Credito Cooperativo di
Fiumicello e Aiello – mira ad offrire una panoramica dell’arte e del pregevole artigianato
fioriti nelle province africane tra I e III secolo d.C. Le opere che Moncef Ben Moussa,
direttore del Bardo, ha concesso in prestito con fiducia nel loro potere a dissolvere
barriere, dialogheranno con i manufatti aquilesi per testimoniare e rinnovare quella
fervente circolazione di merci, culture, religioni e idee che in età romana animò il bacino
del Mediterraneo. Iscritta dal 1998 nella lista Unesco del World Heritage, Aquileia è infatti il
luogo di una felice convivenza avveratasi tra romani, giudei, greci e alessandrini in un
passato lontano eppure ripetibile.
Per gli alti valori universali che trasmette, il progetto ha ricevuto il sostegno del Ministro dei
Beni Culturali Dario Franceschini e della sua omologa tunisina Latifa Lakhdar. Ad
esprimersi positivamente anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, convinto
che Il Bardo ad Aquileia varrà a «vivificare i legami profondi che ispirano l’amicizia e la
stima tra Tunisia e Italia».
Tra le otto meraviglie del Bardo che si potranno ammirare ad Aquileia si annovera un
pannello musivo (1,25 x 0,68 metri) del II secolo d.C. rinvenuto nella Casa dei Laberii a
Uthina (Oudna) e nel quale è raffigurata Cerere mentre tiene una falce e un cesto
(kalathos) colmo di spighe. Una rassegna nata sotto gli auspici della dea delle messi non
può che far sognare nuove primavere di pace.
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Del 3/12/2015, pag. 15
Il ruolo centrale della cultura per contrastare
un presente povero
L’eredità del ‘900 Pare che non siano molti gli eredi dei grandi uomini
del passato novecentesco
Sulla prima pagina del libro, un testamento, uscito quasi contemporaneamente alla sua
morte, l’8 novembre, Luciano Gallino, il grande intellettuale ( l’Olivetti, l’Einaudi,
l’Università) ha scritto una frase desolatamente amara: «Abbiamo visto scomparire due
idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di
pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la
vittoria della stupidità». ( D. Il denaro, il debito e la doppia crisi. Spiegati ai nostri nipoti ,
Einaudi). Basta leggere le cronache quotidiane per dargli ragione. I 500 euro regalati ai
diciottenni, a tutti — non era questa l’idea di uguaglianza di Gallino — da spendere in
attività culturali «per rispondere al terrore» sono un segno. Il comandante Lauro, negli anni
Cinquanta del ’900, se non altro, regalava una scarpa agli elettori napoletani prima del
voto e l’altra dopo, se le elezioni avevano avuto successo per lui. La garanzia.
Manca ora evidentemente una conoscenza della società. Vada a chiederlo, il presidente
del Consiglio, ai ragazzi di Africo, di Pachino, di Porto Tolle, di Gravina di Puglia, se
spenderanno quei soldi per andare a teatro, nei musei, a comprar libri o li spenderanno
piuttosto per vivere. E si informi nelle città affluenti, a Milano, a Torino, a Campione d’Italia
per capire se i ragazzi beneficati non sprecheranno piuttosto quei soldi in discoteca o a
comprar capi di griffe famose. E poi: il ministro del Lavoro Poletti ha proposto «contratti di
lavoro che non abbiano più come misura unica di riferimento l’ora di lavoro». Non ha
memoria il ministro delle battaglie contadine e operaie lunghe un secolo, dei conflitti anche
sanguinosi, o almeno delle canzoni di protesta nate da quelle lotte? ( «Se otto ore vi
sembran poche»). Poletti — nella giovinezza non deve esser stato troppo chino sulle
sudate carte — ha anche invitato i giovani a far presto, a non perder tempo all’università
che «non serve a un fico».
È dolorosamente chiaro che il livello della classe dirigente nazionale, alta e bassa, non sta
attraversando il suo tempo migliore. In un difficile mondo in trasformazione epocale non è
facile comprendere i modi dell’agire per costruire un futuro dignitoso.
Il Novecento è stato un secolo tragico, tra due guerre mondiali, la Shoah, i Gulag, la
bomba atomica, ma non mancarono gli uomini che seppero esprimere energie e
competenze oggi, sembra di capire, disprezzate come un inciampo. Se si pensa che
ministro della Pubblica Istruzione fu (nel 1920-’21) Benedetto Croce, di nuovo ministro nel
‘43-‘44, si capisce la povertà intellettuale del presente. Pare che non siano molti gli eredi
dei grandi uomini del passato novecentesco: Luigi Einaudi, Raffaele Mattioli, Adriano
Olivetti, Enrico Fermi, Gramsci, Gobetti, Leone Ginzburg, Contini, Dionisotti, Montale,
Gadda, Volponi, Giulio Natta, Calamandrei, Garin. E con loro i 14 professori universitari
che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e persero la cattedra.
La cultura è, o dovrebbe essere, il nocciolo di una società. Qui da noi, invece, è la
cenerentola, all’ultimo gradino tra i paesi dell’Ocse nella spesa per l’istruzione. I musei, le
biblioteche, gli archivi non navigano in buone acque. L’università sta cercando di
recuperare le carenze create da leggi sbagliate che l’hanno privata di indispensabili
risorse, la riforma della scuola non è stata per nulla condivisa da ampi strati sociali,
professori, famiglie. Che cosa leggono, ad esempio, i giovani? Come si informano le
nuove generazioni? Raffaele Fiengo che insegna Linguaggio giornalistico all’Università di
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Padova, nel corso di laurea in comunicazione, ha fatto fare su questo tema
un’esercitazione ai suoi studenti.
Che cosa risulta? Internet la fa da padrona, i quotidiani online prevalgono su quelli di
carta, si salvano pochi programmi televisivi. I compagni si intervistano tra loro e ne esce
un panorama interessante. Secondo Alessandra, i giovani di oggi sono sempre di più i figli
dei social network e non prendono neppure in considerazione l’informazione tradizionale.
Margherita guarda la Tv e ascolta la radio. Se le interessa qualche argomento cerca
l’articolo su Internet. Giulio non legge quotidiani di carta o online, usa il web, la tv, la radio.
Ilaria continua a preferire la carta stampata, giudica poco affidabile soprattutto Facebook.
Giuseppe si serve dell’informazione online, veloce e gratuita. Stefania non compra
quotidiani, ma se li trova al bar li sfoglia. Niccolò crede nella carta stampata. I quotidiani
online? «Notiziole per chi non ha voglia di approfondire». Erica adopera Google, ma le
piacciono quotidiani e settimanali di attualità e cerca di imparare le tecniche dei giornalisti
che stima. E i libri? Pochi. Umberto Eco, Italo Calvino ( Palomar ), Dostoevskij ( L’idiota ),
qualche altro. Le madri, tra smartphone, tablet e palmari, non devono più andare a
spegnere la luce nelle camere dei figli che una volta leggevano fino a notte alta.
Del 3/12/2015, pag. 57
Chi ha detto che il protagonista di Defoe è un modello positivo?
Robinson Crusoe
L’eterna epopea del naufrago eroe capitalista
LUCIO VILLARI
La moderna Europa occidentale – quella del benessere, della ricchezza, del capitalismo
industriale e finanziario – deve molto agli schiavi neri, provenienti dall’Africa, al loro lavoro,
al loro riprodursi e al contributo fondamentale che hanno dato alla nascita degli Stati Uniti
sia quando soffrivano nelle piantagioni del Sud sia quando furono liberati, dopo una
sanguinosa guerra civile, dalla loro condizione. Liberati,
ricordiamolo, grazie anche all’indignazione morale suscitata da un mediocre romanzo
apparso nel 1851. Uno dei libri più celebri e più letti in America e in tutto il mondo: La
capanna dello zio Tom. La sua autrice, Harriet Elizabeth Beecher Stowe, fu definita da
Lincoln “la piccola donna che vinse la guerra civile”.
Un romanzo del genere non sarebbe stato pensabile, ovviamente, in Europa, dove gli
schiavi neri (in America, nel 1861, erano quattro milioni) non esistevano, ma forse avrebbe
potuto essere scritto dal qualche discendente di imprenditori, commercianti, banchieri,
avvocati, faccendieri, investitori in Borsa, vissuti tra il Seicento e il Settecento. Distinti
gentiluomini che quei neri avevano portato in America con un flusso regolare e secolare di
navi che partivano a pieno carico dalle coste occidentali dell’Africa. Fecero guadagni da
capogiro e con i loro investimenti gettarono le basi della rivoluzione industriale europea. Lo
scrisse chiaramente un quasi coetaneo della Beecher Stowe, Karl Marx. In tante parti del
Capitale e in particolare nel capitolo del Libro Primo “Genesi del capitalista industriale”
attribuì anche alla tratta degli schiavi «uno dei momenti fondamentali dell’accumulazione
originaria ». Ecco una sua frase: «La trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia
commerciale dei neri è tra i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione
capitalistica». Dal punto di vista letterario le tante pagine che Marx ha dedicato al
colonialismo e a uno dei suoi plusvalori più redditizi, la tratta degli schiavi, sono forse più
efficaci della prosa della Beecher Stowe. Ad esempio: «La funzione preponderante che
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ebbe allora il sistema coloniale fu il “Dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi
idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti
insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità».
La ricerca storica ha confermato che la Beecher Stowe e Marx avevano colto nel segno.
Una recente indagine della nostra Banca d’Italia ha documentato che dall’Africa partirono,
incatenati, per l’America 12 milioni e mezzo di persone. Il pensiero corre, evidentemente,
alle centinaia di migliaia di profughi, fuggiaschi, esuli, perseguitati, migranti che continuano
a solcare il Mediterraneo in cerca di salvezza, facendo però guadagnare milioni di euro a
“imprenditori” africani, mediorientali, europei. Vedremo sul lungo periodo come andrà a
finire questa diversa ma singolare “tratta” di esseri umani. Comunque, tra il Seicento e il
Settecento altri esseri umani, presi prigionieri e venduti come merce, diedero un reddito
enorme ai “negrieri” e agli armatori delle navi negriere. Che la cosa allora fosse del tutto
normale per gli europei lo prova, tra i tanti documenti che conosciamo, un romanzo tra i
più affascinanti della letteratura europea: La vita e le straordinarie sorprendenti avventure
di Robinson Crusoe di York. L’opera è del 1719 ed ebbe un successo enorme. Robinson,
vissuto, come è scritto nel titolo, “ventotto anni tutto solo in un’isola disabitata presso le
coste dell’America”, è un’invenzione letteraria sulla quale si è detto tutto. Ma ancora oggi a
qualche lettore forse possono sfuggire alcune singolari pagine di Defoe che svelano alcuni
lati inediti di Robinson, la cui vicenda umana e la cui capacità di sopravvivenza sono
sempre state lette come simboli, come mito dell’intelligenza pragmatica, della solidità
morale, della abilità consapevole. Anche il nostro Marx fu colpito dal fascino sottile del
romanzo e, sempre nel Capitale, sottolineò che «tutte le relazioni tra Robinson e le cose
che costituiscono la sua ricchezza sono semplici e trasparenti. In esse sono contenute
tutte le determinazioni essenziali del valore ». Ma un lettore più acuto e ironico fu James
Joyce che in una conferenza tenuta a Trieste nel 1912 dichiarò: «Tutta l’anima inglese è in
Crusoe: l’indipendenza virile, la crudeltà inconscia, l’intelligenza tardiva eppur efficace,
l’apatia sessuale, la religiosità pratica, la taciturnità calcolatrice». Ma né Marx né Joyce si
erano accorti che il “marinaio” Robinson non era affatto un marinaio, ma un avventuriero in
cerca di fortuna. Non contento di essere divenuto proprietario terriero in Brasile, aveva
fiutato nuovi affari più redditizi. Era diventato un trafficante di schiavi. E fu in uno dei suoi
viaggi come negriero che era naufragato in un giorno di settembre del 1659. La sua vita di
prigioniero su un’isola deserta non cambiò il suo modo di essere e di pensare. Defoe
mostra un uomo la cui struttura morale e culturale resta inalterata nella solitudine di quegli
anni, mantenendo i tratti duri e invincibili del proprietario, del padrone (questa è la prima
parola che insegna a Venerdì), del colono bianco (nell’isola deserta, oltre all’abitazione
fatta all’inizio con duro lavoro manuale «avevo la mia residenza di campagna; e anche lì,
possedevo ora una discreta colonia»). Tutto questo fa parte della struttura portante del
racconto di Defoe, ma c’è in lui una strana consapevolezza nel far muovere, nel romanzo,
il suo straordinario personaggio che, nonostante tutto, tende alla mediocrità opportunista
più che, dopo quell’esperienza eccezionale, a significati e valori alti. Infatti, uscito vivo
dalla prigionia, Defoe fa ritornare Robinson sull’isola, dove intanto si erano insediati degli
scampati da altri naufragi e loschi figuri d’ogni genere. Torna con intenzioni precise:
«suddivisi l’isola tra loro riservandomene la proprietà ». Anche da qui cominciava
“l’accumulazione originaria”.
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INFANZIA E GIOVANI
Da Avvenire del 03/12/15, pag. 19
Gli schiavi-bambini del Pakistan
In 4,5 milioni al lavoro per debiti: orrore nelle fornaci di mattoni
Nell’arco di una vita le persone non riescono a ripagare i datori di lavoro
nemmeno del necessario per vivere. E l’obbligo diventa un’eredità da
trasmettere ai figli. La storia di Naseem Bibi, della sua famiglia e dei
soldi da restituire che ogni mese aumentano
STEFANO VECCHIA
La schiavitù resiste. Ieri, Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù, il mondo
ha ricordato che tra le sue varie forme quella per lavoro è subita da 21 milioni di individui.
Un dato segnalato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), che ha pure
ricordato il “caso” pachistano, particolarmente significativo perché legato alla schiavitù per
debito. Un sistema pianificato di sfruttamento, volontario per i più nella fase iniziale, ma
che diventa ben presto coercitivo e per molti permanente.
L’Ilo stima che a trovarsi in una situazione di lavoro in condizioni di schiavitù siano 4,5
milioni di individui, sovente interi nuclei familiari, e segnala come la riduzione allo stato di
schiavitù avvenga attraverso un sistema semplice ma collaudato: la convinzione a
accettare il prestito di piccole somme di denaro in cambio di lavoro nelle fabbriche di
mattoni. Queste somme, di fatto, raramente vengono condonate, ma crescono a dismisura
e prolungano quindi l’obbligo per lungo tempo, a volte per una vita intera, finendo anche
per trasferirsi sui figli.
Il caso proposto dal’Ilo della sorte di Naseem Bibi e della sua famiglia è emblematico.
Come per gli altri nuclei familiari, una cinquantina, impiegati nella stessa fabbrica di
mattoni nella provincia del Punjab, anche al suo tocca produrre oltre mille mattoni al giorno
per un compenso che equivale a 4,5 dollari Usa, in sé già metà del salario minimo legale.
Tuttavia, le detrazioni arbitrarie e variamente motivate portano a una crescita del debito
anziché a una riduzione. «Ci tolgono quotidianamente tre dollari dal salario e non tengono
alcun conteggio di quanto abbiamo già restituito. Inoltre, produciamo 1.000 mattoni al
giorno ma dicono che sono 900».
Espedienti che spiegano l’impossibilità a uscire dal circolo vizioso del lavoro e del debito.
«Ogni due o tre mesi scopriamo che il debito è salito di 200, 300 dollari», segnala Naseem
Bibi, il cui marito ha iniziato a produrre mattoni all’età di 14 anni, costretto dai debiti della
propria famiglia, e ha finora passato 17 anni della sua vita cercando di restituire il debito
contratto. Una situazione nota e che ovviamente contrasta con le leggi del paese, ma che
per gli interessi dei produttori, consociati in un sistema mafioso, per le connivenze e gli
appoggi, continua a essere inattaccabile.
Ufficialmente infatti non esiste una schiavitù su larga scala e le autorità, al contrario,
sottolineano come le fabbri- che di mattoni siano sottoposte a controlli periodici.
«Possiamo parlare di pratiche tradizionali tramandate nei secoli, ma non di schiavitù come
molti immaginano, ovvero con individui incatenati o bastonati dai datori di lavoro, costretti
a lavorare contro la loro volontà e senza salario – segnala il ministro per il Lavoro e le
Risorse umane Ishrat Ali –. Questo non può verificarsi in Pakistan». Si calcolano in 20.000
le fabbriche di mattoni nel Paese. Un business essenziale e lucroso basato sul lavoro di
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centinaia di migliaia di disperati, in parte impiegati per scelta, in parte costretti. Contro
questa situazione l’impegno è crescente e a volte vincente. Il solo Fronte per la liberazione
dal lavoro forzato ha affrancato 80mila lavoratori dalla loro condizione, ma l’impegno suo e
di altre organizzazioni che agiscono in coordinamento con l’Ilo è anche di tagliare alla
radice il problema.
Intervenendo sul piano legale ma anche incentivando la permanenza dei giovani nelle aule
e sanzionando antiche pratiche sociali che pongono tanti pachistani in condizione di
sostanziale schiavitù.
Del 3/12/2015, pag. 1-34
Bangladesh la casa delle bambine liberate
Il lavoro delle Ong contro l’orrore delle nozze infantili
ADRIANO SOFRI
C’È UN VILLAGGIO, Dhubati, nel reticolo formato dal Gange e il Brahmaputra e da una
miriade di altri fiumi. Tutto è fatto come un giardino di acqua e argini di creta e mattoni. Per
arrivarci, dalla capitale Dhaka, c’è una mezz’ora di aereo a Jessore (120 km, in treno sono
dieci ore), poi due ore e mezza di auto a Khulna, un’altra ora d’auto poi un’ora e mezza di
battello a Kailashkanj Ghat, poi un tratto in motocicletta. Il villaggio è radunato attorno a
una vasca recintata da bambù, per la prova di nuoto dei suoi piccoli, dai quattro ai dieci
anni. Ogni esercizio è accolto da un grande applauso. Galleggiamento, nuoto, apnea, e
finalmente la messinscena essenziale: una bambina simula — drammaticamente bene —
di affogare, e un bambino grida all’allarme e interviene, porgendole una pertica cui
afferrarsi. Poi, a riva, c’è anche la prova di rianimazione.
QUANDO l’Unicef inaugurò queste scuole di “Nuoto sicuro” qualcuno storse il naso, come
per un lusso oltraggioso in tanta povertà. Il fatto è che mentre malattie e altre cause di
mortalità infantile si riducono sensibilmente, il numero di bambini annegati in questi ritagli
d’acqua resta spaventoso. Basta una distrazione delle madri –hanno una quantità di cose
cui tener dietro- una scivolata, un gioco ingenuo. Allora la prima cosa è insegnare a
nuotare, e la seconda cosa è insegnare a non buttarsi a soccorrere chi è in difficoltà:
spesso muoiono in due, perché un fratellino si tuffa al salvataggio. Bisogna insegnare
anche ai più piccoli di 4 anni, ma occorrono specialisti. Un australiano ha promesso di
portarli. I bambini coinvolti sono 70 mila nel solo 13mo distretto, in 400 centri.
(Forse, se Aylan e Galip e Sena e tutti i bambini morti sulle spiagge dell’Europa avessero
saputo nuotare…).
C’è il Club degli adolescenti, sono fieri di aver impedito tre matrimoni infantili in questo
mese nel villaggio. “Bisogna stare attenti –dicono- perché certe famiglie, se gli fermi il
matrimonio, lo vanno a fare in un altro villaggio”. Gli adulti approvano, ammirati: “Vanno
dappertutto, come le mosche”.
Il battello sul delta fa una deviazione per portarci al punto in cui finisce il territorio degli
umani e comincia quello delle tigri. Più in là visitiamo un altro villaggio illustre per il suo
centro di giochi infantili e di teatro tradizionale. C’è un’assemblea preliminare coi ragazzi.
Chiedono dei matrimoni in Italia. Chiedo loro se sanno qualcosa di Parigi. No, dicono.
Anche a Parigi non sanno di loro. La premessa è semplice e fulminante: il Bangladesh ha
un territorio che è due terzi di quello italiano, e una popolazione di 162 milioni, tre volte
quella italiana. La gran parte si trova appena sopra il livello del mare, troppo poco per
proteggerla dalla furia ricorrente dei cicloni e delle alluvioni, o dalla furia imminente
dell’innalzamento delle acque. Le acque sotterranee sono piene di arsenico in alcune
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aree, micidialmente saline in altre. Sono già milioni quelli cui manca la terra sotto i piedi.
Alcuni arrivano da noi, a venderci la frutta di notte. In un edificio fatiscente della Old
Dhaka, al quinto piano, c’è un appartamento in cui abitano più di cento bambine e
adolescenti. Non avevano nessuno, stavano in strada. Qui occupano un vasto salone che
di notte si riempie di materassini. Stanno, da sole o in cerchi, a disegnare o fare i compiti,
o sbrigare faccende. Un infermiere mi mostra con orgoglio la vetrinetta con un mucchietto
di farmaci povero povero, e un cartellone scritto a mano con le malattie diagnosticate
questa settimana. Non proverò a descrivere la grazia di queste bambine e la libertà senza
bigottismi cui è ispirato il loro spettacolo per gli ospiti: danza, poesie, canti -e poi
un’assemblea. Le fotografie lo faranno meglio. Sono contente di stare qui. Sono libere di
andarsene quando vogliano: succede a una o due su cento. Finiscono gli studi fino al
diploma. Mi chiedo che cosa succeda quando sono grandi abbastanza per l’amore. Ma qui
come nelle baracche degli slum le ragazze tengono più alla propria formazione e
all’indipendenza. L’amore, e il matrimonio e la maternità, verranno dopo: anche un
matrimonio combinato a quel punto non sarà una servitù. Fatema, 16 anni, ora fa parte del
Comitato di Protezione, e va a cercare altre bambine in strada. Suo padre morì quando
aveva 4 anni, sua madre non riusciva a mantenerla. Andò a servizio in una casa, la
picchiavano, e anche in strada la picchiavano, fino a che è stata invitata qui. Fa la nona
classe, accudisce le altre, si è fatta un conto in banca. Adesso ha 255 taka, l’equivalente
di 3 euro. Va a trovare sua madre e l’aiuta. Vuole diventare stilista.
L’Unicef, col ministero per le donne e i bambini, investe su adolescenti che mostrano una
più forte volontà di farsi strada, oltre che un più feroce bisogno. Dà loro una somma -12
mila taka, 140 euro- a condizione che vadano a scuola e ci mandino fratelli e sorelle. Con
quel capitale iniziale, comprano i mezzi per mantenersi. Per esempio, una vecchia
macchina Singer, completa di fregi dorati pedale e ruota a maniglia. Shurma, 16 anni,
studia e cuce stoffe. Sua madre va a servizio e suo padre guida il risciò. Ha due sorelle,
una sposata a 15 anni, ora ne ha 20 e un bambino disabile, che è qui con Shurma e la zia.
Il Comitato l’ha proposta per il sussidio. Poco più in là c’è una sua amica, ha 17 anni. Ci
accoglie con la madre, che si sposò a 15 anni, e ha avuto 3 bambine e 2 maschi. Suo
padre è malato, ha bisogno di 500 taka (6 euro) al mese solo di medicine. Lei guadagna
200 taka cucendo. Le due sorelle maggiori sono state sposate bambine, e hanno sofferto
per i parti. Ora ho capito che non si deve, dice la madre. Madre e figlia sono orgogliose
l’una dell’altra. Lo “stipend” procurato dall’Unicef è di 15 mila taka, 89 euro. 6500 costava
la Singer, il resto è andato per i libri. 1000 taka per affitto e bollette, ma siamo fortunate,
dicono, gli altri pagano di più. Nel quadrato della baracca abitano in 7. (Traduco i taka in
euro, per condividere il turbamento di scoprire quanto costa sospingere un destino
personale). Questo slum, Korail, ha 600 mila abitanti, solo Mumbay e San Paolo ne hanno
di più grandi. Fra una baracca e l’altra lamiere teli e pali di bambù, ogni tanto una stanza
vuota adibita ad aula. Non ci sono banchi né lavagne, stanno seduti per terra, disegnano o
leggono o scrivono, assorti come il Matteo di Caravaggio, il loro angelo è una giovane
maestra povera come loro. Lungo uno stradone polveroso di Dhaka c’è la baracca di
Sharmin, studentessa dell’ottava e imprenditrice della carta stampata: impacchetta giornali
vecchi. Ha 16 anni e un dipendente di 17 che batte su pezzi di ferro vecchio per
ammucchiarli meglio. Lei e altri due raccolgono in giro la carta, la confezionano e la
vendono a un magazzino più grande. Un kg di carta vale 8 taka, 10 centesimi di euro. Con
la carta fa 2 mila taka al mese. Fra tutte le attività raggranella 10 mila taka, 124 euro, e
mantiene tutta la famiglia. A volte basta una domanda scema per procurarsi una risposta
memorabile. “Sei felice?”, le chiedo. “Sì. Perché no?” Siamo arrivati il giorno in cui sono
stati impiccati due dirigenti nazional-islamisti, condannati a morte per crimini di guerra. La
guerra era quella di liberazione dal Pakistan, 1971. Il Bangladesh ha tratto da quella
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terribile guerra, che costò forse tre milioni di morti, un relativo secolarismo. Gli islamisti
hanno proclamato un “hartal”, nome un tempo gandhiano per lo sciopero generale, oggi
per un appello ad assalti e incendi a volontà. C’è stata una sequela di assassinii –a colpi
d’ascia, di preferenza- di intellettuali, editori, cooperanti o imprenditori stranieri, esponenti
di minoranze religiose. L’Is li rivendica, forse ancora indebitamente; il governo nega che
esista l’Is in Bangladesh, per esorcizzarne lo spettro.
C’è uno spaesamento in viaggi come questo. Quanti abitanti ha Dhaka, 20 milioni, 30?
Ogni luogo è affollato a Dhaka. Come e più che in India, il progresso prodotto dall’azione
di governo, di organizzazioni vaste come l’Unicef o il BRAC di sir Abed, la più importante
ONG, o la Banca del Nobel Yunus, e dei loro partner di ogni dimensione, è così veloce da
eccitare per contraccolpo la reazione di interessi e pregiudizi colpiti, i patriarcali e
pseudoreligiosi in primo luogo. Le adolescenti che incontriamo, i quaderni in un angolo del
tavolaccio che fa da letto e da tutto, e la macchina da cucire subito accanto, stanno
sfuggendo di mano ai padroni di sempre. Succede, come nello spettacolo teatrale del
villaggio di Dacope, che le adolescenti dicano drammaticamente ai loro padri e nonni: vi
vogliamo bene, non pensiamo che siate colpevoli, vi hanno insegnato che andava bene
così, ora le cose cambiano, sareste colpevoli se voleste continuare così dopo aver capito
che non era giusto… I padri e i nonni applaudono compiaciuti. La ragazza adolescente
che ha sventato il matrimonio forzato e ha salvato un bambino che stava per annegare è il
loro vanto, e ora è la maestra di nuoto dei bambini di quattro anni.
La combinazione fra vite singole e folla onnipresente e in perpetuo moto rende
inconcepibile la nostra privatezza. Qui l’enormità del numero si suddivide in una trama
infinita di comitati, elettivi o spontanei, incaricati dei problemi sociali, la protezione infantile
e femminile in primo luogo. Il riserbo delle famiglie ne è senz’altro violato, ma quel riserbo
copriva il matrimonio infantile e il suo corredo di violenze –malattie e morti di parto,
sequestri e botte legate alla tradizione della dote, prepotenze di mariti e suocere- e
l’arbitrato delle comunità diventa un argine essenziale. Negli organi della comunità cresce
anzi una gara orgogliosa a realizzare i traguardi civili, che prevale sugli stessi pregiudizi
dei loro componenti. L’Unicef italiana è fra i più importanti donatori in Bangladesh. Le
campagne che l’Unicef conduce toccano il cuore della cosiddetta guerra di civiltà. Contro il
matrimonio infantile, per l’educazione delle bambine, contro il lavoro infantile… Unicef è il
marchio più amato nel mondo. I suoi attori e i suoi partner che ci incontrano “sul campo”,
Zahidul, Jamil, Aroti Rani, Konika, Rokibul…, sono gente meravigliosa. Non si occupano di
politica, e intervengono sui fondamenti della civiltà quotidiana, della sua libertà,
consapevolezza e gentilezza. Reciprocamente, succede che la politica non si occupi di
quei fondamenti, e li deleghi alla buona volontà. Ma guardiamo dentro il progetto jihadista.
I suoi miliziani amano il potere e la conquista, sono ubriachi di sangue e di morte, ma il
nocciolo della cosa sta nella restaurazione del matrimonio infantile –per le bambine di 9
anni, precisano- nell’esclusione delle bambine dall’educazione –come vogliono i talebani o
Boko Haram e così avanti- nell’autorizzazione a stuprare e rendere schiave bambine e
bambini “infedeli”, nella riduzione dell’educazione dei bambini al libro sacro imparato a
memoria e al mestiere della macelleria. Il jihadismo nelle sue varie versioni si batte
sanguinariamente per reinstaurare gli orrori che bambine e bambini si battono per
cancellare. La posta della cosiddetta guerra è là.
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