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RASSEGNA STAMPA giovedì 3 dicembre 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA WELFARE E SOCIETA’ WELFARE E SOCIETA DIRITTI CIVILI E LAICITA’ INFORMAZIONE CULTURA E SPETTACOLO INFANZIA E GIOVANI CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il Tirreno del 02/12/15 Oggi si conclude il progetto della Carovana antimafie MONTELUPO. Si svolgerà domani al circolo Arci Il Progresso di Montelupo “La Carovana siamo noi”, giornata conclusiva del progetto “Aspettando la carovana antimafie 2015” che sarà un momento di sintesi e restituzione del lavoro sulla legalità dei ragazzi delle terze classi della scuola secondaria Baccio Da Montelupo e dei ragazzi del Centro Giovani “La Fornace”, destinatari del progetto. Saranno loro infatti i protagonisti del pomeriggio di giovedì insieme a Paolo Masetti, sindaco del Comune di Montelupo, Enrico Roccato, rappresentante del Presidio Libera Empoli e Loredana Polidori, dello Spi Cgil Empoli.Il progetto, che ha il patrocinio dell'amministrazione comunale, è iniziato ad ottobre 2014 e si è snodato in vari incontri che hanno visto la presenza di vari ospiti. I ragazzi hanno fatto anche l'esperienza dei campi di lavoro sui terreni confiscati alle mafie, il presidente della Cooperativa "Lavoro e non solo", i rappresentanti di Arci, Libera, Avviso Pubblico, i responsabili delle sezioni soci Coop, dello Spi Cgil e della Cgil. http://iltirreno.gelocal.it/empoli/cronaca/2015/12/02/news/oggi-si-conclude-il-progetto-dellacarovana-antimafie-1.12549498 Da il Tirreno del 02/12/15 Slot, la guerra al gioco parte da Prato - Le Mappe - Il Video Comune al lavoro per organizzare corsi di formazione per i titolari degli esercizi con videogiochi e per vietare l'installazione nei circoli. Il presidente del circolo Arci di Chiesanuova: "Noi ricaviamo un terzo dei nostri ricavi. Così possiamo garantire le iniziative per il quartiere, la ginnastica e il ballo per gli anziani" di Ilenia Reali PRATO. E’ la prima città della Toscana nel rapporto tra superficie degli esercizi con Slot e abitanti. Ma anche la provincia con il numero più elevato di mini casinò. A Prato il gioco non è un illustre sconosciuto anche perché la comunità cinese è tradizionalmente un’appassionata tanto che, da queste parti, nei mattinali delle forze dell’ordine da qualche anno sono tornate le denunce per gioco d’azzardo con tanto di blitz nelle bische clandestine nella più numerosa Chinatown d’Italia. Sarà per questo quindi che l’attenzione sul tema in città è alta e la discussione accesa. La commissione consiliare affari generali del Comune è al lavoro per la modifica del regolamento comunale sul gioco, uno dei primi approvati in Italia, ormai da quasi un anno e – mese dopo mese – le audizioni con funzionari del Monopolio, psicologi e addetti ai lavori si sono sprecati. Un tavolo partecipativo, capitanato dall’assessore alla cultura Simone Mangani, intanto è già stato aperto con le associazioni e con il Sert mentre è partita la richiesta per aprire un confronto 2 con prefetto e questore anche alla luce della sentenza del Tar che ha visto contrapposti Comune e Questura su un’autorizzazione per una sala Vlt. Lotta ai circoli con Slot e formazione. Il medico Rosanna Sciumbata, presidente della commissione, coadiuvata dai funzionari Michela Lilli e Alessandro Golin, sta viaggiando alla velocità nella luce per stringere al massimo le maglie dei controlli e delle autorizzazioni. Tra i punti da modificare, con quella che si annuncia la prossima crociata contro il gioco, la possibilità dei circoli privati di installare le Slot e la formazione obbligatoria per coloro che invece vogliono dotare il loro esercizio dei videogiochi. “Abbiamo intenzione di istituire un corso per i gestori che vorranno aprire i loro locali alle Slot – spiega la responsabile dell’ufficio attività produttive del Comune Michela Lilli – in modo da sensibilizzarli. Se il gestore di un bar sa quali sono gli effetti della ludopatia quando si accorge di avere clienti malati può intervenire. A volte basta una frase o un numero di telefono dato al momento giusto”. Un numero di telefono che sarà attaccato nei luoghi con Slot Machine, almeno a Prato. Un adesivo con il numero del Sert dedicato è in fase di preparazione. A disegnarne la grafica saranno gli studenti pratesi che potranno partecipare a un concorso con il duplice obiettivo di creare un logo accattivante e di sensibilizzare i più giovani. Per quanto riguarda invece la lotta ai circoli ricreativi alla base c’è una legge regionale che contiene un bel paradosso. In Toscana da una parte i circoli sono individuati come luoghi sensibili (legge regionale 57 del 2013 articolo 4) da cui non si possono installare Slot machine entro i 500 metri mentre dall’altra possono averle al loro interno. “Il nostro obiettivo – commenta Sciumbata – è quello di risolvere questo paradosso e inserire il divieto di avere Slot in queste strutture”. Un terzo del ricavato del circolo arriva dai videogiochi. Nei circoli Arci pratesi il dibattito è all’ordine del giorno. Ci sono alcuni circoli, come l’Arci della frazione di Casale che ha messo il gioco al bando , e altri che invece si domandano se è possibile svolgere lo stesso tipo di servizio rinunciando agli introiti derivanti dalle Slot machine. E’ il caso dell’Arci di Chiesanuova, popoloso (e popolare) quartiere della prima periferia di Prato che con il gioco fa un terzo dell’attivo del proprio bilancio. Il presidente del circolo Favini Franco Maiani mette il tema, caldo, sul tavolo. “Noi – spiega - abbiamo sette videogiochi che in un anno ci danno un introito di 60.000 euro su un totale di 180.000 euro. Senza non potremmo riuscire a garantire quella funzione di presidio che abbiamo oggi. Con quei soldi facciamo il ballo liscio il sabato sera, la ginnastica dolce per gli anziani e le varie iniziative ricreative”. Dell’argomento ne è stato parlato anche lunedì 1 dicembre alla riunione provinciale dell’Arci ed è stato deciso che sarà fatto un incontro ad hoc per affrontare l’argomento che divide, come comprensibile, l’associazione. “Le Slot non piacciono a nessuno. Ma possiamo rinunciarci? E togliendole diamo un servizio ai nostri cittadini?”, chiede Maiani. La ginnastica e il ballo per gli anziani coi soldi degli slot Nel bilancio del circolo Arci di Chiesanuova, a Prato, il gioco rappresentano il 30 per cento del giro di affari (60mila euro). Il presidente spiega il motivo per cui rinunciare alle slot peserebbe sui servizi offerti alla comunità (video Ilenia Reali) Tra i due litiganti, il terzo (un liceo) gode. Se Questura e Comune non avessero la stessa posizione sul rilascio di un’autorizzazione che cosa succede? Il Tar ha emesso una sentenza lo scorso giugno destinata a fare giurisprudenza. Anche in questo caso siamo a Prato. La tavola calda Jin Yulou sas di via Pistoiese aveva richiesto l’autorizzazione per installare dei videogiochi Vlt. Un’autorizzazione di competenza della Questura, intenzionata a rilasciarla, ma a cui il Comune aveva espresso il parere (non vincolante) contrario perché l’esercizio si trova a meno di 200 metri dal liceo Livi. Il Tar ha accolto 3 l’azione del Comune e ha annullato il provvedimento della Questura. “Mettendo in evidenza come il rispetto delle distanze dagli obiettivi sensibili sia un tema dominante”. http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2015/12/02/news/slot-la-guerra-al-gioco-parte-daprato-le-mappe-il-video-1.12548572 da La Nuova Ferrara del 03/12/15 Slot, il fenomeno a Ferrara In collaborazione con Dataninja il quadro della diffusione di locali con slot per Comune e anche a livello regionale. La nostra provincia è quella dove si è registrato il secondo maggior aumento di esercizi in Regione nel 2015. A Comacchio la densità maggiore di locali FERRARA. Il fenomeno slot e Ferrara, una diffusione capillare. In collaborazione con Dataninja possiamo per la prima volta farci un'idea particolareggiata della diffusione del fenomeno nella nostra provincia. E vedere così che a differenza di quanto si possa pensare non è nemmeno a Ferrara la densità maggiore, ovvero la maggior presenza di locali con slot per singolo Comune. A detenere il primato infatti è il territorio di Comacchio, con ben 93 esercizi a fronte di un popolazione (ultima rilevazione Istat) di 22.744 persone per una densità di 244,5. Situazione di rilievo anche quella di Fiscaglia. Il nuovo Comune nato dala fusione di Massa Fiscaglia, Migliaro e Migliarino ha densità di 274,7 (34 esercizi per i 9.343 abitanti. Sul podio della maggior diffusione di locali anche Portomaggiore (38 esercizi rispetto ai 12.085 abitanti). Ferrara si piazza al quindicesimo posto: a fronte di una popolazione di 133.682 persone gli esercizi con slot sono ben 240 ormai ben diffusi in centro città, in periiferia e nelle frazioni. E senza grosse distinzioni tra tipi di locali (o di "bandiere"): l'autorizzazione ce l'ha il circolo Arci di Corlo, come il circolo Acli di Pontelagoscuro; il bar gestito da ferraresi, il bar gestito da cinesi. Insomma, in città, se uno vuole, non ci sono grosse difficoltà a giocare in questo modo. La tabella. La mappa interattiva che trovate qui sopra ben illustra la situazione in provincia, comune per comune (ad eccezione appunto di Fiscaglia) il contrassegno arancione evidenzia a scalare (dal più grande al più piccolo) da chi subisce di meno la presenza di locali che ospitano giochi di questo tipo, a chi la subisce di più. In pratica se il comune è cotrassegnato da un segnale più evidente minore è la presenza sul territorio di locali con slot o videopoker. Gioco d'azzardo. Sui locali che ospitano slot machine e videopoker per quello che è un gioco d'azzardo pur con tutti i crismi della legalità, il dibattito è aperto da tempo, a tutti i livelli. Soprattutto per il rischio dell'insorgenza di dipendenze, di cosiddette ludopatie. Per quanto riguarda ad esempio il Comune di Ferrara ha assegnato al Sert un contributo di 10.000 euro , finalizzato proprio alla prevenzione delle patologie legate al gioco d'azzardo. L'Asl di Ferrara, fin dal 2013, è scesa in campo distribuendo materiale informativo dopo che è stata varato l'obbligo di esporre una locandina che informa sui rischi. Anche la Lega Nord, con il capogruppo Alan Fabbri ha chiesto alla Regione di impedire l'apertura di nuove sale . Il M5S si è più volte espresso contro questa sorta di passatempo, organizzando diverse iniziative . Ma a recitare un ruolo principe nelle situazioni critiche derivanti dall'eccesso di gioco d'azzardo resta il Sert. Nel 2013 era stato registrato un dato impressionate di crescita rispetto al 2010 dell'81% per quanto riguarda Ferrara e del 122% sul territorio regionale di giocatori a carico dei Servizi Dipendenze Patologiche. 4 Un problema quindi concreto, e la diffusione dei locali con slot che vedete sia a livello provinciale che a livello regionale nella tabelle qui sopra, regalano dati non certo rassicuranti. Anche considerando che a livello regionale la nostra provincia è la seconda nel 2015 per aumento di esercizi ogni 10.000 abitanti, seconda solo a Piacenza. http://lanuovaferrara.gelocal.it/ferrara/cronaca/2015/12/03/news/slot-il-fenomeno-a-ferrara1.12548741 Da il Giunco del 02/12/15 A Roma per il clima: anche la Maremma in marcia alla manifestazione GROSSETO – C’era anche una buona parte di Maremma tra le 20mila persone che hanno manifestato la scorsa domenica a favore della pace e dei cambiamenti climatici. La marcia, partita nel primo pomeriggio da Campo dei fiori e terminata in via dei Fori imperiali, è stato anche un grido per chiedere non solo l’abbattimento delle emissioni ma anche una svolta decisa e concreta verso la diffusione delle energie rinnovabili. In questa direzione va il Manifesto per l’autoproduzione da fonti rinnovabili fatto da Legambiente, che sta trovando l’adesione di molti comuni in tutta Italia. Nella provincia di Grosseto hanno aderito i seguenti comuni: Montieri, Civitella Paganico, Castiglione della Pescaia, Scarlino, Grosseto e Capalbio. «La manifestazione di domenica scorsa a Roma – ha spiegato Angelo Gentili, della segreteria nazionale di Legambiente -, insieme a tutte le altre realizzate in moltissime città del mondo, dimostra la volontà di una chiara svolta nell’abbattimento delle emissioni climalteranti per la diffusione delle energie rinnovabili e per l’efficienza energetica per salvare il pianeta e arrestare il surriscaldamento climatico. Tutto questo dipende dalle scelte che i governi faranno nel summit di Parigi, ma anche dai nostri comportamenti personali. La Maremma può divenire un distretto territoriale in grado di puntare su efficienza energetica, rinnovabili, filiera corta in agricoltura e conservazione ambientale». Alla manifestazione di Roma per il clima e per la pace, organizzata dalla Coalizione italiana Clima costituita da oltre 150 organizzazioni, sono intervenute dalla provincia di Grosseto diverse associazioni tra cui Legambiente, Wwf, Arci Grosseto, Coldiretti Grosseto, Uisp Grosseto, Arci Servizio civile, Cittadinanza attiva e Cia Grosseto, oltre alla presenza del Parco regionale della Maremma. http://www.ilgiunco.net/2015/12/02/a-roma-per-il-clima-anche-la-maremma-in-marcia-allamanifestazione/ Da IVG.it del 03/12/15 “Dialogo interreligioso contro il terrorismo”, evento di Arci a Savona Savona. Arci Savona collabora all’organizzazione dell’evento “Dialogo interreligioso contro il terrorismo – La scontro della civiltà e il nuovo ordine mondiale” che si terrà martedì prossimo 8 dicembre alle ore 18 presso la libreria Ubik. A spiegare le ragioni è il presidente Alessio Artico: “Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di Parigi. Ci stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore e il lutto che hanno subito, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente 5 immersi popoli come quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa”. “La guerra è dentro le nostre società – prosegue – È dentro il nostro quotidiano. È dentro il nostro modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che servono per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo reprimere con nuove armi e nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di società e di convivenza universale, fondata sugli stessi valori che sono stati brutalmente attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza”. “Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari – ribadisce il presidente di Arci Savona – Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale. Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato, come nemico serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni”. “L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni – insiste Artico – Spingendo una parte della popolazione, soprattutto le giovani generazioni, a ricercare identità e appartenenza tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali concepite come inconciliabili tra loro. Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di confronto e di scambio culturale. Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare”. http://www.ivg.it/2015/12/dialogo-interreligioso-contro-il-terrorismo-evento-di-arci-asavona/ Da CoratoLive del 02/12/15 Una nota del circolo Arci “La Locomotiva” L’Arci scrive al sindaco: «Pasolini solleva temi sgraditi a questa amministrazione?». Il video «Hanno forse il sindaco e la sua giunta dei motivi di astio nei confronti della nostra associazione? Vorremmo saperlo, e aspettiamo fiduciosi una risposta», scrivono dall’Arci Cala tra gli applausi il sipario per la “Pasoliniana” dell’Arci, ma agli organizzatori resta ancora una domanda: «perché l’amministrazione comunale ha negato il patrocinio morale alla rassegna?» Una domanda fatta anche dal consigliere Bucci al sindaco Mazzilli durante il consiglio comunale. Di seguito la nota dell’Arci. «Si è appena conclusa la rassegna “Pasoliniana”, dedicata al quarantennale della scomparsa di Pier Paolo Pasolini, curata dal circolo Arci “La Locomotiva”. Il bilancio dell’iniziativa è, a nostro avviso, più che positivo. A dimostrarlo è l’ampia partecipazione della cittadinanza ai diversi appuntamenti come le proiezioni dei film “Accattone” e “Mamma Roma” (più di duecento spettatori), la tavola rotonda “L’Eredità di Pasolini” e la triplice performance (teatro, musica, live painting) di “Prove per Comizi D’Amore”. 6 Abbiamo constatato con grande piacere la presenza di moltissimi giovani che - come ha riportato Vitantonio Lillo, editore di PietreVive, nel suo intervento alla tavola rotonda vedono Pasolini come un fratello maggiore, più che come un intellettuale austero e distante. All’indomani della conclusione di “Pasoliniana” ci preme però - oltre che trarre un bilancio della manifestazione - chiarire alcuni punti per noi di estrema importanza. Ci rivolgiamo soprattutto all’amministrazione comunale e in particolare alle persone del sindaco Massimo Mazzilli, del vice sindaco Francesco Scaringella, della giunta comunale e della commissione cultura. A dispetto di un così largo consenso da parte del pubblico, rimane sconcertante per noi la presa di posizione preventiva dell’amministrazione comunale di negare il patrocinio morale alla manifestazione. Non parliamo di patrocinio economico (nella concessione del quale la nostra amministrazione ha spesso dimostrato di essere di manica larga) ma di quello morale; una manifestazione ad alto profilo culturale come Pasoliniana in cui convergono tutte le arti, dal cinema alla letteratura, passando per il teatro, la poesie e la musica, viene totalmente ignorata da un’amministrazione comunale che si dice aperta e sensibile ai temi della cultura. E questo è per noi un fatto gravissimo. In seguito a ciò, dunque, chiediamo esplicite motivazioni al rifiuto del patrocinio che, sottolineiamo, è stato negato in maniera preventiva, senza approfondire la bozza di programma allegata alle richieste regolarmente protocollate in Municipio e senza addurre alcuna motivazione. Il 30 novembre, durante la celebrazione del consiglio comunale, il consigliere di minoranza Renato Bucci ha chiesto le motivazioni di un tale rifiuto, ma la risposta del Sindaco Massimo Mazzilli è stata quantomeno sibillina, sviando la domanda e cercando di lanciare discredito sulle nostre persone giustificandosi dietro il nostro rifiuto di utilizzare la biblioteca comunale per uno degli appuntamenti in programma. Vorremmo chiarire, a tal proposito, che abbiamo gentilmente rinunciato all’utilizzo della biblioteca perché gli orari concessi (dalle 18 alle 20) non erano compatibili con la partecipazione di alcuni dei relatori e avrebbero precluso la manifestazione a molti. Fatichiamo a capire il nesso tra la netta e arrogante bocciatura delle nostre richieste e la scelta di svolgere in altra sede la conferenza. Piuttosto, ci piacerebbe conoscere le motivazioni con le quali il sindaco ha respinto la nostra ennesima richiesta di utilizzare la chiesa di san Francesco sita in via Carmine, trincerandosi dietro due risicatissime righe nelle quali considerava il luogo “non consono all’iniziativa”. Forse Pasolini, universalmente celebrato in occasione dei 40 anni dalla sua morte, è un personaggio scomodo, capace di sollevare temi sgraditi a questa amministrazione? Hanno forse il sindaco e la sua giunta dei motivi di astio nei confronti della nostra associazione? Vorremmo saperlo, e aspettiamo fiduciosi una risposta. Noi intanto proseguiremo a difendere i pochi reali presidi culturali di questa città, contro ogni forma di provincialismo e miopia intellettuale, da qualsiasi parte essi provengano». http://www.coratolive.it/news/Cultura/402749/news.aspx Da Abruzzo web del 02/12/15 DIRITTI CIVILI: ARTISTI SUI BUS DELL'AQUILA PER RICORDARE ROSA PARKS 7 L'AQUILA - Promossa dai Ministeri dei Beni culturali e dell'Istruzione, dall'Anci e con il sostegno dell'Arci, in occasione del 60esimo anniversario del "Rifiuto di Rosa Parks", il Comune dell'Aquila aderisce alll’iniziativa di sensibilizzazione ai diritti civili. Presentata stamani dagli assessori Emanuela Di Giovambattista e Betty Leone e dal presidente Ama Agostino Del Re, l'iniziativa si svolge sugli autobus cittadini da domani fino a sabato 5 dicembre. "Il primo dicembre del '55 – ricorda la Leone – a Montgomery, in Alabama, Rosa Parks, donna di colore, viene arrestata perché rifiuta di cedere il suo posto a sedere sull’autobus ad un passeggero bianco. Con la sua azione, Rosa dà vita al boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery attraverso una protesta che dura un anno e due mesi e che blocca dozzine di pullman di Montgomery, fermi per mesi fino alla rimozione della legge che legalizza la segregazione". "Il Comune dell’Aquila intende, pertanto, puntare l’attenzione sull’ampio e delicato tema della discriminazione ricordando il gesto coraggioso di questa donna attraverso interventi di artisti, attori, scrittori stranieri, migranti che racconteranno ai passeggeri storie positive o negative di contaminazione tra diverse culture". "Il problema della discriminazione razziale – ha aggiunto la Di Giovambattista – è un problema purtroppo ancora esistente e l'esempio di Rosa Parks deve ancora oggi ispirare tutti coloro che credono nella convivenza e nell'integrazione. Questa amministrazione, in questo momento storico in cui si assiste a forti manifestazioni di chiusura, preferisce rispondere diversamente, puntando sul rispetto delle persone e dei loro diritti perché ognuno possa portare avanti il proprio progetto di vita indipendentemente dal posto in cui si trova, dal colore della pelle o dalla religione che professa". "I mezzi Ama – ha concluso Del Re – si trasformeranno per questa occasione in un importante mezzo di comunicazione. Abbiamo scelto, pertanto, di divulgare la campagna sulle linee maggiormente frequentate dai giovani, scegliendo quelle che servono i poli di Roio e Coppito e, per sabato mattina, la linea che serve le scuole superiori". Alla conferenza stampa era presente anche Andrea Salomone in rappresentanza dell'Arci dell'Aquila. http://www.abruzzoweb.it/contenuti/diritti-civili-artisti-sui-bus-dellaquila-per-ricordare-rosaparks/585120-4/ Da M News del 02/12/15 TranSiti, il concorso di foto-idee per riqualificare gli spazi abbandonati dell'Area Grecanica Luigi Palamara Osserva lo spazio abbandonato, immagina il riutilizzo, scatta una foto e partecipa al Concorso Fotografico Il GAL Area Grecanica, in collaborazione con l’Associazione Aniti – Impresa Sociale, da alcuni mesi ha avviato il “Programma di Iniziative di Arte Pubblica nei Borghi e nei Centri Storici dell’Area Grecanica” (Misura 413.313 del PSL Neo Avlàci) proponendo l’Arte Pubblica come strategia di azione per sostenere modelli d’esistenza aggreganti e creare nuovi luoghi di socialità, in un territorio che, ad oggi, si presenta come una realtà frammentata e scomposta dal graduale ed inesorabile spopolamento. In quest’ottica il Programma vuole agire, in primo luogo, sulla riattivazione di processi di consapevolezza 8 degli abitanti sull’importante patrimonio materiale ed immateriale che l’Area Grecanica custodisce. E’ all’interno del Programma che, da alcuni giorni, è stato lanciato il Concorso di Foto Idee “TranSiti” per la valorizzazione degli spazi non utilizzati o abbandonati dell’Area Grecanica. Il Concorso rientra tra le attività di coinvolgimento degli abitanti e rappresenta un’azione trasversale di sensibilizzazione e partecipazione rivolta alle comunità locali per la riscoperta del patrimonio di spazi e luoghi dimenticati dell’Area Grecanica. In linea con quest’idea, TranSiti è promosso e realizzato con il Patrocinio dei Comuni di Palizzi, Condofuri, Bova, l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, le Associazioni Cum.El.Ca, Pro-Pentedattilo, Radici, il Forum del Terzo Settore dell’Area Grecanica, l’Arci Calabria, il Consorzio del Bergamotto e l’Agenzia Pucambù. Il Concorso intende raccontare e immaginare il passaggio da una condizione di degrado e abbandono ad una di riuso dei siti trascurati e rifiutati del territorio, attraverso la raccolta di scatti fotografici sullo stato attuale dei luoghi e di idee e suggestioni di trasformazione degli stessi, proposte da individui, associazioni, gruppi di cittadini, artisti, studenti universitari, scuole primarie e secondarie. TranSiti focalizza l’attenzione sugli spazi inutilizzati, dismessi, obsoleti, che sono oggi in attesa di nuove funzioni e che, con proposte creative e innovative, potrebbero trasformarsi in luoghi utili a valorizzare il patrimonio paesaggistico e culturale dell’Area Grecanica, a migliorare la qualità della vita, la fruibilità e la sostenibilità del territorio, ad innescare nuove economie locali. La partecipazione, totalmente gratuita, è un invito ad identificare i luoghi inutilizzati dell’Area Grecanica nei cinque territori di Pentedattilo, Palizzi, Gallicianò, Bova e Fiumara dell’Amendolea, senza escludere gli altri Borghi della Calabria Greca, e a suggerire idee di trasformazione attraverso una breve didascalia che racconti la proposta di riutilizzo immaginata. L’obiettivo è di raccontare il paesaggio grecanico con uno sguardo inedito e rivolto al futuro attraverso un’azione collettiva di narrazione dei luoghi, fatta di immagini e suggestioni che - a partire dalle criticità del territorio - sia capace di individuare opportunità di cambiamento e sensibilizzare la comunità ad una riappropriazione degli spazi di vita. Con questo obiettivo a conclusione del Concorso è prevista una Mostra Itinerante delle Foto-Idee nei Borghi di riferimento che costituirà la base per una riflessione collettiva sul recupero e la gestione dei beni in abbandono e l’occasione per presentare le Foto-Idee vincitrici: numerosi i premi per i primi tre classificati su ogni Borgo e la possibilità, per i primi posti, di sviluppare le proprie proposte e vederle realizzate. Per partecipare al Concorso Fotografico visitare il sito www.risorgimentilab.it - Laboratorio Territoriale di Innovazione Sociale dell'Area Grecanica sezione “Concorsi di idee”. Inviare le foto-idee è semplicissimo, basta registrarsi e condividere la propria proposta, c’è tempo fino al 18 Dicembre! "A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano!". Partecipate! http://www.mnews.it/2015/12/transiti-il-concorso-di-foto-idee-per.html Del 3/12/2015, pag. RM XI KINO 9 “87 ore” per morire il film verità della Quatriglio FRANCO MONTINI UN film importante per ciò che racconta e per come lo racconta: è “87 ore” di Costanza Quatriglio. Una storia estrema e, coerentemente, la regista ha optato per una messa in scena estrema, utilizzando quasi esclusivamente le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo di Lucania, che testimoniano l’assurda agonia di Francesco Mastrogiovanni. Ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio, l’uomo viene legato ad un letto di contenzione e lasciato morire nella più disumana indifferenza. Il film sarà presentato questa sera alle 20,30 al Kino, seguirà un incontro con la regista e con il docente di estetica Pietro Montani. Al Kino il film è in programma anche venerdi e sabato, mentre domani alle 18,30 è prevista una proiezione con dibattito anche presso la sede del partito Radicale. Kino via Perugia 36. Info tel. 06.96525810 Stasera alle 20,30; venerdì e sabato. 10 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 3/12/2015, pag. 49 L’impresa sociale guarda al profitto Di Stefano Lepri La discussione sulle forme di impresa con tratti di socialità si arricchisce di una nuova proposta: nel maxiemendamento alla legge di stabilità al Senato è stato introdotto il concetto di società benefit. È probabile che la Camera lo confermerà, per cui entro l’anno avremo verosimilmente, pur senza innovazione nelle forme societarie, una nuova forma d’impresa che tenga insieme profitto e socialità. E in questi giorni il Senato approfondisce la legge delega sul terzo settore, rivisitando il concetto di impresa sociale. Di qui l’esigenza di prefigurare a grandi linee quadro che ne uscirebbe: almeno sei diverse tipologie con fini, ambiti di attività e incentivi pubblici distinti, pur accomunate dall’intreccio tra esercizio d’impresa e finalità sociali. Le cooperative sono la forma più diffusa e nota d’intreccio, caratterizzate da forte partecipazione dei lavoratori e vincoli a distribuzione di utili e patrimonio. Ci sono poi le imprese tradizionali che operano nel campo delle politiche di protezione sociale. Una srl che gestisce una struttura residenziale per anziani non autosufficienti è un modello frequente nei welfare locali, in competizione con le imprese sociali del terzo settore e può remunerare il capitale senza vincoli. Qui il “sociale” è solo il campo d’attività, non il fine. Siamo poi di fronte a imprese che dichiarano di operare con responsabilità sociale, per le attese non solo dei clienti ma anche dei diversi stakeholders. Da un ventennio almeno la social responsibility è assunta a visione d’impresa olistica, capace di perseguire obiettivi anche per la superiore capacità di valorizzare dipendenti e fornitori, rispettare ambiente e comunità locali, assicurare welfare aziendale eccetera. Le novità possono arrivare con le società benefit, imprese private in grado di fare e distribuire molti utili in campi diversi, ma avendo pure una o più finalità di beneficio comune. Che non sarebbero un effetto secondario della responsabilità sociale, ma obiettivi almeno pari a quelli economici, fino a rinunciare a buona parte della remunerazione. Si noti che non ci sono incentivi statali, se non quelli eventualmente previsti per qualsiasi impresa profit. L’unico vantaggio sarebbe ottenere una reputazione pubblicamente certificata e riconosciuta che orienti il consumatore a preferire queste società a quelle tradizionali. Altro è il profilo attribuito all’impresa sociale in definizione al Senato: un ente privato di terzo settore per attività d’interesse generale e utilità sociale e che assume vincoli stringenti nella remunerazione dei fattori produttivi, in particolare del capitale, fino al limite applicato nella mutualità prevalente. Sarebbe quindi una no profit o al più una low profit, realizzabile con ogni forma associativa o societaria e forti vincoli di lock asset. Infine - ipotesi ancora in nuce, ma se contenuta negli emendamenti in discussione - si configurerebbe la possibilità di un’impresa sociale come ente di terzo settore ma attiva anche in attività estranee a interesse generale e utilità sociale, purché a queste ultime strumentali. Sulle attività non caratteristiche si pagherebbero imposte non agevolate. In sintesi, il percorso riconosce la stabile collocazione dell’impresa sociale nel terzo settore e prevede prassi e istanze sociali che maturano tramite imprese for profit. L’impresa sociale avrebbe un serio regime vincolistico, campi d’azione delimitati, quindi un favor. Avremmo anche graduate esperienze con meno vincoli e requisiti, ma senza gli incentivi delle imprese sociali. È presto per capire il quadro finale, ma forse si stanno aprendo nuove frontiere nella vocazione imprenditoriale. Vicepresidente gruppo Pd al Senato, relatore Ddl delega su terzo settore e impresa sociale 11 ESTERI Del 3/12/2015, pag. 1-32 Il gioco pericoloso dei due presidenti ANDREA BONANNI LE ACCUSE di Putin a Erdogan, le foto che proverebbero come la Turchia sia il principale beneficiario del petrolio del Califfato, le insinuazioni su una lobby del contrabbando ai piani alti di Ankara segnano un salto di qualità nello scontro tra i due presidenti-padroni. E non per la prima volta danno forma al tentativo del Cremlino di appellarsi direttamente all’opinione pubblica occidentale scavalcando le scelte politiche dei suoi governi. Ma soprattutto ci danno la misura di quanto siano cambiati, mentre l’Europa e l’Occidente dormivano, gli equilibri e le modalità stesse della politica internazionale. E di quanto, per conseguenza, si stiano rivelando inadeguate le istituzioni che ci eravamo dati per gestirla. Russia e Turchia sono due grandi Paesi che solo recentemente hanno adottato una struttura di governo almeno formalmente democratica, in omaggio alla prevalenza dei valori occidentali dopo la fine della guerra fredda. Però la transizione si è compiuta a metà. I loro leader godono di ampio sostegno popolare e parlamentare. Ma le istituzioni di garanzia non sono sufficientemente indipendenti. I giornalisti finscono in prigione o all’obitorio. Gli oppositori vengono eliminati in circostanze poco chiare. I poteri economici sono troppo contigui al potere politico in commistioni spesso ambigue. In entrambi i Paesi la parte evoluta della società civile e urbanizzata è minoritaria e le sue aspirazioni sono schiacciate “democraticamente” da una maggioranza culturalmente arretrata che emana dalle enormi province dei due ex imperi. Tutto ciò farebbe parte della normale e spesso dolorosa evoluzione che ogni società deve maturare nel suo lento tragitto verso una democrazia compiuta. Se non che russi e turchi si sono venuti a trovare su sponde opposte nella guerra civile siriana, che sta devastando tutto il Medio Oriente e lacerando il mondo islamico, mentre le democrazie compiute stanno a sostanzialmente guardare. Erdogan, che un tempo si diceva amico del dittatore Assad (ma si diceva amico anche di Putin), ora vuole cacciarlo da Damasco. Il presidente turco si fa difensore dei correligionari sunniti contro sciiti e alawiti. Vuole impedire che la Siria finisca nell’orbita iraniana, come rischia di accadere all’Iraq. Teme e detesta i curdi che combattono contro Daesh. Vorrebbe creare una “fascia di sicurezza” lungo le proprie frontiere ma in territorio siriano per stroncare sul nascere la formazione di uno stato curdo tra Iraq e Siria. Soprattutto vuole impedire una coalizione anti-Califfato estesa alla Russia che finisca per confermare Assad alla guida del Paese. Insomma, ritiene di avere forti interessi in Siria e, soprattutto, il diritto di difenderli con le unghie e con i denti. Putin vuole salvare a tutti costi il regime dell’alleato Assad perché gli garantisce un piede nel Mediterraneo. La Russia, fin dai tempi dell’Afghanistan, teme il fondamentalismo sunnita, che potrebbe dilagare in Asia centrale, mentre ritiene che l’Islam sciita sia più pragmatico, gestibile e soprattutto disponibile ad un’intesa. Inoltre l’apertura di un fronte siriano, dove ormai è diventato protagonista, offre a Putin un prezioso capitale politico da spendere con l’Occidente sul fronte ucraino, dove la sua posizione è sicuramente meno difendibile. Partendo da posizioni così diametralmente opposte, i due presidenti- padroni si sono gettati nella mischia con una logica di pura potenza nazionale, perché quella è la sola logica che, a casa loro, procura consensi. Non è detto che questo gioco pericoloso finisca male. Alla fine, dopo aver fatto volare un po’ di stracci, Mosca e Ankara potrebbero anche ritrovare un’intesa. Quello che interessa a entrambi è sostanzialmente affermare il 12 proprio ruolo autonomo e sovrano a scapito di un Occidente un tempo egemone ma che sembra aver perduto ogni capacità e anche ogni volontà di leadership. In Iraq l’espansione del Califfato arrivato alle porte di Bagdad è stata fermata dalle milizie sciite agli ordini di Teheran. In Siria dai guerrieri Hezbollah, sempre agli ordini di Teheran, e ora dai missili e dai bombardieri russi che appoggiano l’esercito di Assad. La coalizione anti Daesh messa su dagli americani non è riuscita a ottenere risultati significativi sul terreno. Gli europei vi si sono aggiunti alla spicciolata, senza un briciolo di coordinamento e senza un’ombra di disegno strategico. Abbiamo già pagato 3,6 miliardi per aiutare i profughi siriani e ne spenderemo altri tre per evitare che vengano da noi. Ma in un anno ne sono arrivati già più di un milione, mettendo a rischio la nostra fragile coesione europea. La Nato, un tempo baluardo dell’Occidente, è rimasta in Afghanistan ma è assente in Siria come è assente in Libia dove la guerra è alle porte di casa. Non ha saputo ritagliarsi un ruolo nella lotta al terrorismo jihadista. Hollande, con i morti di Parigi sulle braccia, ha preferito fare appello all’Europa piuttosto che rivolgersi all’Alleanza atlantica. Tutto quello che la coalizione occidentale ha saputo fare è allargarsi al Montenegro, aumentando l’irritazione di Mosca, salvo poi convocare una seduta del Consiglio NatoRussia, che non si riunisce da diciotto mesi. Un anno e mezzo di mancato dialogo, mentre il mondo stava cambiando. Se questa è la leadership dell’Occidente democratico, non c’è da stupirsi che le mezze democrazie, come la Russia e la Turchia, prendano l’iniziativa in una crisi dove finora hanno agito solo dittature sanguinarie, come quella di Assad, o teocrazie ancora più mostruose, come il Califfato di Daesh. Ma le istituzioni di quello che un tempo si definiva orgogliosamente il Mondo libero, dalla Nato all’Unione europea, dovrebbero cominciare a chiedersi se riusciranno a sopravvivere alla propria impotenza. E, soprattutto, se ne valga davvero la pena. del 03/12/15, pag. 1/15 Caos di guerra Turchia/Isis. La Turchia apripista, verso un fronte di guerra peggiore Tommaso Di Francesco Stiamo facendo tutti finta di non vedere quel che sta per accadere in Siria: una guerra di ancora più vaste proporzioni che va ad aggiungersi a quella in corso che l’Occidente ha alimentato sostenendo radicalismi armati di ogni genere purché fossero contro Assad. Sarà un caos belli così devastante che l’abbattimento del jet russo da parte dell’aviazione turca — vero apripista di questo scenario caotico e micidiale — sembra un piccolo incidente di passaggio. Dopo gli attentati di Parigi, la Francia dello stato d’emergenza ha avviato la sua guerra di vendetta contro lo Stato islamico, ma alla fine pronta a coordinare le azioni militari con la Russia già sul campo. Perché l’aviaziona russa era nel frattempo intervenuta di fronte alla débâcle del fronte occidentale, quella coalizione degli «Amici della Siria» — dagli Usa, ai Paesi europei alle petromonarchie del Golfo — impossibilitata a sbrogliare la matassa siriana dopo averla imbrogliata fino alla distruzione attuale. La risposta all’intervento russo non si è fatta attendere, con la bomba sull’aereo civile da parte dell’Isis e con l’abbattimento del jet militare Sukhoi da parte dell’aviazione di Ankara, grande sponsor dell’Isis. L’intervento militare anti-russo del Sultano atlantico Erdogan è stato indirizzato a far fallire ogni possibilità di essere esclusi dalla spartizione della Siria e dalle mire contro l’Iran. E quindi contro i risultati «unitari» del vertice di Antalya che, proprio in Turchia, aveva visto il riavvicinamento tra Putin e Obama. 13 La china presa dai nuovi annunci d’intervento armato nell’area, è un precipizio che sembra premiare proprio l’intraprendenza criminale di Erdogan, non a caso baluardo Nato. Accade così che la Gran Bretagna, nonostante i pacifisti e la volontà del leader laburista Corbyn, sia avviato verso i bombardamenti e già la Raf scalda i motori nella base britannica di Akrotiri a Cipro; che il segretario alla difesa Usa Carter annunci «stivali a terra» in Iraq, per operazioni mirate e addirittura in Siria per «operazioni unilaterali». Accade che Netanyahu riveli che raid e operazioni coperte israeliane siano ormai in corso in territorio siriano; che arrivino truppe e aerei tedeschi fuori da ogni logica di legittimità dopo il passato della Germania ora riunificata; e che Federica Mogherini Mister Pesc cerchi un nuovo bis: mentre Renzi dichiara di non volere una «Libia bis», la rappresentante Ue chiama a responsabilità, per Siria e Libia, la Nato, cioè la protagonista dei raid che, con l’abbattimento di Gheddafi, hanno aperto il varco ai jihadisti e ai loro santuari verso Siria, Tunisia, Iraq e Mali. Si allarga dunque la scena bombardante, dei paesi che corrono alla spartizione della terra siriana e ad un ipotetico quanto lontano tavolo dei negoziati, pronti a gridare «vittoria»: ma chi avrà diritto a sedersi al tavolo dei vincitori, davvero non è chiaro. Chiaro è che Damasco fa sapere che ogni azione militare, su terra e dal cielo, che non sia concordata — come quelle russa e francese — con il governo siriano è considerata «aggressione»: e si riferisce al ruolo dell’esercito di Ankara, a quello britannico e degli Stati uniti, per non parlare dei raid israeliani. La guerra dunque si allarga ancora di più. Mentre Obama ripete — come una litania — «Assad se ne deve andare», dimenticando che proprio per mandare via Assad la sua coalizione dal 2012 a alla fine del 2014, quando gli Usa si sono «ravveduti», ha sostenuto proprio il nemico jihadista. È certo e sicuro che Assad dovrà uscire di scena, probabilmente nell’arco di un anno; la Russia dice che deve decidere il suo popolo. Ma ora non a caso proprio la Francia con il ministro degli esteri Fabius sembra legittimare «con l’esercito libero siriano» anche l’«esercito di Damasco» come le vere truppe di terra da valorizzare. Mentre Obama pronuncia la cantilena «Assad se ne deve andare», invece sostiene Erdogan e il suo spazio aereo: il Sultano che massacra il suo popolo kurdo, che fa strage dell’opposizione e stralcia i diritti umani arrestando giornalisti che denunciano i traffici sporchi di Ankara con l’Isis. No Erdogan non solo non se ne deve andare, ma l’Ue gli regala 3 miliardi di euro per recintare e arrestare migranti, mentre il vertice Nato è corso in suo aiuto contro l’«aggressività russa nell’area». E mentre «Assad se ne deve andare», la monarchia saudita, santuario finanziario e in armi dello Stato islamico, va invece tenuta naturalmente e saldamente al suo posto. Il circo di menzogne fa davvero paura. Ma siamo «tranquillizzati» finalmente dal ministro Angelino Alfano: scopriamo infatti i foreign fighters, ora li snidiamo e li arrestiamo. Erano 20mila dall’Europa e altrettanti dagli Usa, denunciava Obama un anno fa. Ma nessuno si è chiesto com’è stato possibile che decine di migliaia di giovani siano partiti dalle capitali europee ( e dalel città americane) e poi arrivati in Medio Oriente quando non direttamente in Turchia per essere addestrati, senza che una sola intelligence occidentale avesse da dire nulla negli ultimi quattro anni? Adesso «li scoprono». E prima? Prima chiudevamo tutti e due gli occhi, perché «Assad se ne deve andare». E così in questi giorni «scopriamo» le cellule islamico-kosovare in Italia e, dice il procuratore di Pristina, che «300 combattenti kosovari sono partiti per la Siria». È davvero una «bella» scoperta, per una «nazione», il Kosovo, che vive intorno — come la caramella col buco — alla mega-base Usa e Nato di Camp Bondsteel presso Urosevac, una «nazione» ora etnicamente ripulita con un milione e 700mila abitanti, grande quanto il Molise e inventata dai bombardamenti Nato del 1999, considerata un narcostato dall’Onu e con il 50% di disoccupazione nonostante finanziamenti in percentuale superiori a quelli degli organismi internazionali verso l’Africa. 14 E dove non si muove foglia che l’Alleanza atlantica non voglia e non sappia: davvero una «rivelazione». Ma forse qualcosa deve essere sfuggita anche alla Nato, se ieri per allargare l’orizzonte, ha chiesto anche al Montenegro di entrare nell’Alleanza atlantica che si allarga sempre più a est. Abbiamo creato deserti che chiamiamo pace. E la guerra ci ritorna in casa. Del 3/12/2015, pag. 2 L’offensiva. La Russia: “Anche armi al Califfato in cambio di greggio, coinvolto il figlio del presidente”. Lui replica : “È tutto falso” L’accusa di Mosca “Erdogan fa affari col petrolio dell’Is” Londra: via ai raid NICOLA LOMBARDOZZI Non è solo la Turchia ad arricchirsi con il petrolio del Califfato armando di fatto i terroristi dell’Is. Nel giorno della denuncia russa dei «crimini della famiglia Erdogan» c’è spazio anche per pesanti allusioni alla «scarsa reattività degli Stati Uniti» e alle speculazioni di decine di compagnie occidentali, che starebbero approfittando senza pudore della situazione acquistando a metà prezzo tonnellate di petrolio dagli integralisti islamici che controllano i pozzi siriani e iracheni. Lo scontro si accende nel giorno in cui la Gran Bretagna vota il sì ai raid in Siria (la Camera dei Comuni ha approvato con 397 voti a 223 il piano di Cameron, le azioni possono partire in queste ore). Mentre migliaia di persone partecipavano nella città di Lipetsk ai funerali del pilota abbattuto al confine turco siriano, i russi hanno potuto assistere in diretta tv a una durissima requisitoria contro il regime di Erdogan, svoltasi sotto forma di conferenza stampa nella cupa sede del Ministero della Difesa sul lungofiume Frunzenskaja. Dietro a uno schermo gigante che mostrava foto satellitari e cartine militari, quattro generali in tuta mimetica hanno sostenuto «sulla base di prove inconfutabili» che i terroristi dello Stato Islamico incassano oltre due miliardi di dollari l’anno dalla rivendita clandestina del petrolio e del gas. Fino a ottobre l’incasso netto da parte dei fedeli di Al Baghdadi corrispondeva a oltre un milione e mezzo al giorno in un’attività che prosegue ormai da sei anni. Quanto basta per capire come l’Is possa permettersi di arruolare migliaia di foreign fighters anche mercenari, addestrarli, armarli e tenere in piedi una rete logistica che sta facendo impazzire in questi giorni i servizi di sicurezza di tutta Europa. I raid aerei russi avrebbero brutalmente dimezzato il reddito che resta però altissimo. Le foto e le prove presentate dai militari di Mosca inchiodano la Turchia. Da tre rotte ben precise il petrolio ed il gas valicano senza controlli il confine con una flotta di ben 800mila autocisterne camuffate da semplici tir. Ma c’è di più. Secondo lo Stato Maggiore russo, gran parte dei pagamenti del petrolio arriverebbero direttamente sotto forma di armi e di aiuti militari. Un inviperito generale Mikhail Mizintsev, capo del centro nazionale per la Difesa, annunciava nuovi sviluppi e altre prove per i prossimi giorni: «Nelle sole ultime due settimane, sono passati dalla Turchia alla Siria ben 2000 militanti, 120 tonnellate di munizioni e circa 250 veicoli. Tutti destinati all’Is e all’altra formazione terroristica Jabhat al Nusra. Il nostro controspionaggio ha anche individuato campi di addestramento dei terroristi in territorio turco, spostamenti di grandi quantità di esplosivo, e sospetti aiuti umanitari». Un’allusione alla notizia pubblicata da molti giornali russi di un ospedale segreto gestito dalla figlia di Erdogan, Sumeye, al confine con la Siria e votato alla cura dei feriti dell’Is. 15 Ma in attesa della seconda bordata di accuse, bastano quelle snocciolate ieri per creare tensione all’interno del regime turco. Le foto dei satelliti russi mostrano convogli di centinaia di autocisterne che partono da Raqqa e che attraversano senza alcun controllo doganale la frontiera turca. La rotta Nord converge su Batman, sede delle più grandi raffinerie turche. La rotta Est, raccoglie il petrolio iracheno e lo smista in grandi centri di stoccaggio dell’Anatolia. La rotta ovest, invece punta ai porti turchi di Dortyol ed Iskenderun. Le immagini mostrano le lunghe code di camion in attesa di scaricare il loro prezioso carico. Il traffico sarebbe gestito direttamente dal figlio di Erdogan, Bilal, che ha accumulato una fortuna con la sua attività di armatore della compagnia “Bmz”. E con la complicità del cognato, genero di Erdogan, Berat Albayark, appena nominato ministro turco dell’Energia. Il petrolio viene acquistato a 15-20 dollari al barile e rivenduto al prezzo di mercato che si aggira sui 45-50 dollari. Un affare gigantesco che non sarebbe però solo destinato ai turchi. Dove vanno infatti le navi cariche di petrolio che lasciano i porti del Mediterraneo? Alla inevitabile domanda, i generali russi si fingono vaghi. Ammiccano pesantemente quando dicono: «Da mesi giriamo queste informazioni ai nostri colleghi americani. E’ strano che non facciano niente». Qualche esperto del settore, come il giornalista russo islamico Jamal, parla di misteriose aziende private europee, di rotte contorte che finirebbero anche in Israele e, addirittura, allo stesso governo di Damasco, costretto ad acquistare il suo petrolio arricchendo una torma di speculatori e il suo stesso nemico giurato. Inevitabili le reazioni indignate di Ankara. Con linguaggio allusivo, Erdogan ha detto tra l’altro: «Eppure Putin, un tempo, parlava bene di me. Quando ci incontravamo con Berlusconi e Schroeder (l’ex cancelliere tedesco, adesso boss di Gazprom Ndr) ». Sembra il preludio di una controffensiva di accuse legate alla gestione di Putin degli affari del petrolio russo secondo uno schema caro all’opposizione moscovita. Se ne parlerà oggi a Belgrado, alla riunione dell’Osce, nel primo faccia a faccia tra i ministri degli Esteri Lavrov e Cavusoglu. Nuova fase di una delicatissima partita ancora tutta da giocare tra Russia e Turchia. “800mila cisterne camuffate da tir Gli Stati Uniti sanno e tacciono E sono coinvolte anche alcune compagnie occidentali” Del 3/12/2015, pag. 3 Energia, finanza e un genero ministro il potere ad Ankara è un caso di famiglia MARCO ANSALDO MAI mettersi contro la Russia, recita un antico adagio. Perché la battaglia contro quel colosso può costare sconfitte atroci. La Storia lo ha insegnato a Napoleone Bonaparte e ad Adolf Hitler. Adesso tocca a un personaggio di caratura sicuramente inferiore, quel Recep Tayyip Erdogan la cui riconosciuta determinazione e impulsività lo ha portato a sfidare l’Orso russo tirando giù un suo aereo militare, evento mai nemmeno sfiorato da un alleato Nato contro il Paese leader dell’ex Patto di Varsavia. E adesso, giorno dopo giorno, la vendetta di Vladimir Putin si abbatte sull’ex amico, toccandolo nel punto più debole e scoperto: gli affari della famiglia. Da diverso tempo la famiglia di Erdogan attira le attenzioni dei turchi, ma è argomento scarsamente noto all’estero, come in modo perfido hanno mostrato ieri le accuse brucianti del vice ministro russo della Difesa, Anatoli Antonov: «In Occidente nessuno si pone domande sul fatto che il figlio del presidente turco sia a capo della più grande compagnia energetica, o che il suo genero sia stato nominato ministro dell’Energia. Che meravigliosa famiglia d’affari! Il cinismo della 16 leadership turca non conosce limiti». Subito il leader turco ha negato, rispondendo sdegnatamente. Eppure, i legami tra i figli di Erdogan e il mondo degli affari non sono qualcosa di esattamente estraneo. Due mesi fa, ad esempio, Bilal, il figlio 35enne dei quattro rampolli di casa Erdogan (due maschi e due femmine) ha preso temporanea dimora a Bologna. Il quotidiano di centro sinistra Cumhuriyet, il cui direttore nel frattempo è stato arrestato per gli scoop sui traffici d’armi dei jihadisti con i militari turchi ed è in carcere con l’accusa incredibile di spionaggio assieme al capo redattore centrale, aveva dato la notizia che l’uomo si era iscritto alla Johns Hopkins University per completare il suo dottorato. A un’età che ha sollevato qualche dubbio, e avanzato ipotesi – mai provate – che in realtà Bilal fosse qui per gestire i suoi affari. Businessman dal 2006, il figlio del leader turco è uno dei tre azionisti di un’azienda che si occupa di trasporti marittimi. Solo lo scorso mese il media americano The Verge ha scritto che il gruppo, denominato BMZ, avrebbe illegalmente portato petrolio in Turchia dal cosiddetto Stato Islamico. Bilal fa parte anche del consiglio di amministrazione della fondazione Turgev che si occupa di giovani e di formazione: fu accusato di corruzione. Era uno degli indagati-chiave della Tangentopoli del Bosforo esplosa nel dicembre 2013. Ma il caso forse più eclatante è nato solo pochi giorni fa ad Ankara quando, nemmeno troppo a sorpresa, nel nuovo governo del premier conservatore islamico Ahmet Davutoglu, è spuntato come ministro dell’Energia il nome di Berat Albayrak, genero di Erdogan, cioè il marito della figlia. Giovane come Bilal (37 anni), potentissimo, parlamentare, con una moglie velata come la stragrande maggioranza delle consorti dei ministri turchi, Albayrak compare dopo le elezioni vittoriose del partito al potere al balcone, a fianco di Erdogan, con le mani levate in alto. Fino a poco tempo fa era a capo della holding Calik, un conglomerato che va dal tessile alla finanza, non esclusi i media dove il moderato quotidiano Sabah, una volta acquistato, ha assunto una spiccata tendenza filo governativa. Tra le voci che circolano intorno a Erdogan non c’è solo quella delle affiliazioni per i legami parentali, ma anche la cerchia dei ministri e degli amici. La stessa Tangentopoli del Bosforo, esplosa all’epoca in cui il leader era presidente del Consiglio, costrinse alle dimissioni 4 ministri, di cui alcuni erano suoi amici personali. Il Pentagono ieri è corso in aiuto dell’alleato turco parlando di «accuse russe assurde». E Erdogan si è difeso con la solita vigoria: «Nessuno può lanciare calunnie contro la Turchia sull’acquisto di petrolio dall’organizzazione terroristica». E proprio l’edizione on line di Sabah ha riportato la sua difesa con evidenza: «Un tempo le dichiarazioni di Vladimir Putin su di me riguardavano sempre il mio coraggio e la mia audacia. Parlava molto del mio essere uno statista onesto quando incontrava l’ex presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder». Era, quello, un quartetto considerato d’acciaio, unito dal potere, dalla politica, dagli affari. Alcune foto riprendono ancora Erdogan, Putin e Berlusconi incrociare le loro mani, nei vertici fatti a Soci, sulle rive del Mar Nero. Poi, anche quell’intesa – il puritano Erdogan non ha più voluto vedere l’ex presidente del Consiglio italiano dopo lo scandalo delle Olgettine – è naufragata. Rimaneva l’alleanza con l’Orso russo. Ma la vicenda del Sukhoi abbattuto ha strappato l’ultimo angolo di quella foto, e oggi gli attacchi diretti alla famiglia di Erdogan appaiono un marchio difficile da lavare. Del 3/12/2015, pag. 6 Il califfo petroliere: chi compra da lui? 17 L’oro nero dello Stato Islamico fa gola a Paesi vicini (e lontani). Ecco i nomi (e i rivoli) di un business da 500 milioni WASHINGTON A nessuno fa schifo il petrolio del Califfo. Dunque finisce in Turchia, in Kurdistan, a Damasco e molto più lontano perché a volte è mescolato a quello legittimo. E questo spiega come porti allo Stato Islamico circa 500 milioni di dollari all’anno. Una fetta di quel miliardo di dollari che rappresenta il budget del sedicente Stato Islamico. Le accuse del Cremlino sulle tre rotte usate dall’Isis per far arrivare il greggio in Turchia sottolineano con clamore e foto aspetti già emersi. Solo che stavolta Mosca personalizza la situazione, coinvolgendo i familiari del presidente turco Erdogan, dal figlio Bilal al genero. Un network che ha incrociato il grande business, con connessioni importanti, all’arte di arrangiarsi di coloro che vivono un’esistenza precaria. Oltre un anno fa sono emersi dettagli su quanto avveniva a Ezmerin, villaggio siriano, al confine turco. Sotto la frontiera e i campi passavano centinaia di tubature gestite dai contrabbandieri locali. Dozzine di camion provenienti dal Califfato scaricavano il greggio che arrivava all’interno di case ed edifici a Hacipasa, Turchia, dove erano in attesa altri mezzi. Tutto gestito al cellulare e senza la minima preoccupazione delle autorità. Tutti sanno, tutti fanno. Anche perché l’ottanta per cento della popolazione della zona è coinvolto. Il caso di Ezmerin era emblematico, ma non era certo l’unico. Con il passare del tempo i trafficanti hanno aumentato il numero delle cisterne dirette verso il territorio controllato da Ankara. I serpentoni dei camion erano ben visibili dall’alto: infatti sono stati colpiti dai russi, ma anche dagli americani, come hanno documentato video diffusi di recente. Il Pentagono, che pure oggi difende l’alleato turco, dovrebbe avere molto materiale sull’argomento. In maggio gli americani avrebbero intercettato documenti relativi proprio ai legami tra Isis e Paesi vicini. Gli oppositori del presidente Erdogan hanno rilanciato i sospetti chiamando in causa Bilal. Sposato, due figli, 34 anni, laurea ed esperienza di lavoro negli Usa, Bilal possiede numerose società. Tra queste ve ne sono alcune che importerebbero l’oro nero via Kurdistan iracheno, per poi piazzarlo sul mercato asiatico (ma anche in Israele). Punti d’appoggio il terminale turco di Ceyhan, sponde a Malta, tante petroliere e relazioni importanti. Un intreccio che, stando ai russi, farebbe gli interessi della famiglia del Sultano. La Turchia, oltre a smentire ogni responsabilità, può appendersi all’alibi di non essere la sola. Il 25 novembre il Tesoro americano ha adottato sanzioni contro George Haswani e Kirsan Ilyumzhinov. Il primo è un intermediario molto vicino al regime siriano. Il secondo è un imprenditore russo, ex presidente della Repubblica di Kalmikya nonché della Federazione mondiale degli scacchi. Proprio Haswani avrebbe favorito relazioni economiche con gli avversari. Damasco importa energia dall’Isis e in cambio, oltre al denaro, offre consulenza tecnica per gli impianti e benzina di qualità. Non certo per amicizia ma per necessità. Come per altre attività, anche sul petrolio lo Stato Islamico impone tasse e pedaggi. Pochi i rischi, alti gli introiti. Il racket imbratta molti, fa emergere delle complicità imbarazzanti, mette in difficoltà un Paese dell’Alleanza atlantica come la Turchia ma diventa scandalo quando fa comodo. Contorni ambigui di una crisi dove non ci sono santi. Guido Olimpio del 03/12/15, pag. 3 Ankara ferma 1.300 profughi. Scontri al confine greco-macedone 18 Accordo Ue-Turchia. Ipotesi di sospensione della Grecia da Schengen Gli effetti dell’accordo tra Bruxelles e Ankara sui migranti non si sono fatti attendere. Neanche i tempo di far asciugare l’inchiostro, e già lunedì la guardia costiera turca ha fermato 1.300 profughi che si stavano preparando a partire dalla costa egea della Turchia diretti verso le isole greche. L’operazione è la dimostrazione concreta di come il governo turco sia capace di trattenere sul proprio territorio i rifugiati impedendogli di raggiungere l’Europa, come assicurato domenica scorsa in Belgio dal premier Ahmet Dovotoglu ai leder europei. Ma volendo si può leggere anche come la dimostrazione di come, con altrettanta facilità, le stesse autorità turche sarebbero capaci di spingere (o costringere) i profughi a partire nel caso l’Unione europea non dovesse mantenere gli impegni, sia economici che politici, assunti con Ankara. Stando a quanto riferito dal’agenzia di stampa turca statale Anadolu i migranti sarebbero tutti originari di Siria, Iran e Iraq e Afghanistan. 750 sono stati fermati ad Ayvacik, nella provincia nord-occidentale di Cannakale, mentre altri 550 sono stati intercettati mentre si nascondevano i alcuni oliveti della stessa zona. Secondo un’altra agenzia di stampa, Dogan tutti sarebbero stati trasferiti nel centro di detenzione temporanea di Ayvacik, centro che però disporrebbe di soli 84 posti. In cambio di un maggiore impegno da parte della turchia nel fermare i migranti, l’Unione europea di è impegnata a versare 3 miliardi di euro ad Ankara, soldi che — gestiti da un apposito fondo gestito da membri europei affiancati da un rappresentante turco, dovrebbero servire per la gestione dei campi che in Turchia già ospitano 2,5 milioni di profughi siriani, ma anche alla costruzione di nuovo campi. L’Ue si è anche detta disponibile a una liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e alla ripresa del processo di adesione della Turchia. Secondo il premier ungherese Viktor Orban, l’accordo conterrebbe anche una parte tenuta segreta nella quale l’Europa si sarebbe impegnata a prendere 500 mila profughi siriani dalla Turchia per distribuirli tra i 28 paesi membri. La situazione in Europa resta comunque sempre molto caotica. L’Ue starebbe addirittura pensando di sospendere la Grecia dall’area Schengen per l’incapacità dimostrata nella gestione dei profughi. A spingere perché quest avvenga sfruttando le possibilità offerte dall’articolo 26 del Codice di Schengen, sarebbero in particolare Germania, Austria, Slovenia e Croazia, ai quali sarebbero pronti ad aggiungersi anche Belgio, Olanda e Lussemburgo. Tutti questi paesi accusano la Grecia di non aver mantenuto gli impegni presi per quanto riguarda l’identificazione di migranti negli hotspot e il loro ricollocamento. L’ipotesi di sospensione è contenuta in un documento in preparazione per i prossimo consiglio dei ministri degli Interni di venerdì, in cui Atene è accusata di limitarsi a trasferire i migranti dalle isole sulle quali sbarcano fino al confine con la Macedonia. Per il ministro greco per l’immigrazione Ioannis Mouzalas, l’idea di sospendere la Grecia da Schengen è «un mix di realtà e mito» . Mouzalas ha anche definito «ingiuste» le accuse rivolte al suo paese. «E’ vero, la Grecia è sotto una grande pressione da parte di alcuni membri Ue che pensano erroneamente che il flusso dei rifugiati possa essere controllato dalla sola Grecia — ha spiegato -. la Grecia è solo l’inizio del corridoio, ma la porta è in Turchia, E quindi se i flussi non vengono controllati in Turchia è impossibile controllarli dalla Grecia o da qualsiasi altro membro dell’Ue». A smorzare i toni ci ha pensato ieri sera il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn di ritorno da un viaggio i Grecia secondo i quale le autorità greche hanno «dato il senso di volersi muovere», come dimostrerebbe anche l’apertura del primo hotspot al Pireo. Intanto è sempre più drammatica la situazione al confine greco-macedone, dove almeno 1.500 migranti economici sono bloccati dal 20 novembre scorso, giorno i cui Skopje ha deciso di far passare solo siriani, afghani e iracheni. Ieri la polizia ha caricato con i lacrimogeni i migranti che hanno cerato di forzare i confine. 19 Del 3/12/2015, pag. 8 Pressioni sulla Grecia: «Fuori da Schengen» Dopo le difficoltà nella gestione dei migranti, i falchi si mobilitano e chiedono una sospensione BRUXELLES L’Ue sta mettendo sotto pressione la Grecia per convincerla a chiedere gli aiuti comunitari necessari per migliorare il controllo delle sue frontiere con la Turchia, da dove solo quest’anno sarebbero passate molte centinaia di migliaia di migranti diretti in Germania e in altri Stati del Nord Europa. Nel Consiglio dei 28 ministri degli Interni, in programma domani a Bruxelles, alcuni Paesi — qualora risultasse l’impossibilità per Atene di controllare l’esodo dalla costa turca — potrebbero ventilare perfino l’ipotesi di imporre una sospensione della partecipazione al Trattato di Schengen, che consente la libera circolazione dei cittadini tra gli Stati aderenti. Fonti diplomatiche hanno attribuito a Germania, Austria, Slovenia e Croazia le posizioni più dure verso Atene. Hanno però escluso che al momento possa essere considerata una traumatica esclusione da Schengen, tra l’altro mai menzionata nei documenti preparatori del Consiglio di domani e del summit dei capi di Stato e di governo del 17 e 18 dicembre prossimi. A Bruxelles in molti prevedono una accelerazione del via libera greco agli aiuti dell’agenzia per il controllo delle frontiere Frontex e di altre entità Ue. In questo modo potrebbero essere attuate le identificazioni dei migranti (nei centri hot spot) e frenati i flussi verso il Nord Europa. Anche perché la situazione ambientale in Grecia, che già deve fare i conti con una pesante crisi economica, sta diventando sempre più preoccupante. Il commissario Ue per la Salute, il lituano Vytenis Andriukaitis, dopo una missione nell’isola di Lesbo presa d’assalto dai migranti, ha scritto al presidente lussemburghese della Commissione europea Jean-Claude Juncker per riferire scene di disperazione e da catastrofe umanitaria. Al confine tra Grecia e Macedonia, dove sono bloccati tanti immigrati non identificati e privi dei requisiti per chiedere asilo, si susseguono scontri con la polizia macedone determinata a respingerli in ogni modo. In più il presidente polacco del Consiglio Ue Donald Tusk ha proposto di tenere i migranti nei centri di accoglienza per 18 mesi per le verifiche di sicurezza e anti-terrorismo. Il ministro greco dell’Immigrazione Ioannis Mauzolas ha affermato che «la Grecia è ingiustamente sottoposta a una intensa pressione» da alcuni Paesi membri, che la sospettano di limitarsi ad accompagnare i migranti al confine macedone. Ma ha smentito la minaccia di espulsione da Schengen. «La Grecia è l’inizio del corridoio, ma la porta è la Turchia — ha precisato Mouzalas —. Se i flussi non vengono controllati dalla costa turca, è impossibile controllare i flussi dalla Grecia o da qualsiasi altro Stato membro dell’Ue». I tre miliardi promessi da Bruxelles ad Ankara dovrebbero frenare gli arrivi. Il vicepresidente olandese della Commissione europea Frans Timmermans ha smentito un accordo segreto Ue-Turchia per ricollocare nei Paesi membri altri 400 mila rifugiati, rivelato dal premier ungherese Viktor Orban. I ministri degli Interni domani proveranno a far procedere le ripartizioni fissate da tempo. E ancora non attuate. Ivo Caizzi 20 Del 3/12/2015, pag. 1-6 Montenegro pronto a entrare nella Nato Il gelo del Cremlino Messaggio dell’Alleanza a Putin. E presto potrebbero entrare anche Georgia, Bosnia e Macedonia FEDERICO RAMPINI È UN MODESTO passo per la Nato, ma è gravido di conseguenze per i rapporti con la Russia: che parla di «provocazione » e annuncia ritorsioni. I ministri degli Esteri della Nato riuniti a Bruxelles hanno deciso di invitare il piccolo Montenegro ad entrare nell’Alleanza come 29mo Paese membro. Lo ha annunciato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, sottolineando come «la decisione storica di avviare colloqui di adesione con il Montenegro» sia stata presa all’unanimità. È la prima espansione dell’Alleanza atlantica da sei anni. Proprio mentre gli occidentali cercano un’intesa con Vladimir Putin in Siria, l’annuncio crea un gelo con Mosca. Nell’ottica russa si alimenta la sindrome dell’accerchiamento: quella che secondo Putin contribuì a giustificare l’annessione della Crimea e l’attacco in Ucraina. Gli ribatte duro il segretario di Stato John Kerry: «La Nato non è contro di voi. E’ un’alleanza difensiva, che rende più sicuri quelli che ne fanno parte. Protegge anche contro il terrorismo e lo Stato islamico». L’apertura dei colloqui per l’allargamento – che dovrebbero durare un anno – avviene 16 anni dopo che la stessa Nato bombardò il Montenegro durante la guerra del Kosovo, quando faceva ancora parte della Iugoslavia. In precedenza, gli ultimi Stati a entrare nella Nato furono l’Albania e la Croazia nel 2009. Dal punto di vista degli equilibri strategici, il Montenegro è un’aggiunta minuscola: ha una popolazione di 650.000 abitanti, e un esercito di soli duemila soldati. Ma il messaggio a Putin è politico: con questo annuncio gli viene detto che non ha un diritto di veto sull’allargamento della Nato. I prossimi della lista potrebbero essere la Georgia, la Bosnia-Erzegovina e la Macedonia: paesi che prima della caduta del Muro di Berlino appartenevano all’Unione sovietica (Georgia) oppure erano parte di una Iugoslavia semi-neutrale e certamente non schierata con l’Occidente. «Dobbiamo ristabilire la nostra sicurezza e la parità nei rispettivi interessi» dice il portavoce di Putin, annunciando azioni di ritorsione. La prima reazione è l’annuncio della sospensione di ogni collaborazione militare tra Mosca e il Montenegro: nel caso si unisse alla Nato – dice il senatore Viktor Ozerov, capo del Comitato di difesa e sicurezza della Federazione – la Russia terminerà i suoi progetti bilaterali, compresi quelli militari. Dopo le rassicurazioni di Kerry sul fatto che il passaggio del Montenegro nella Nato non è una manovra contro la Russia, il Cremlino smorza un po’ i toni, annunciando di essere disposto temporaneamente a riprendere la collaborazione. Ma le ripercussioni potrebbero sentirsi in altre aree: la Siria dove l’Occidente cerca un appoggio russo, o la Turchia con cui i rapporti sono al limite di rottura dopo l’abbattimento di un jet russo. Il premier montenegrino Milo Djukano- vic parla di una «giornata storica» per il suo Paese. Al contrario, secondo il capo della commissione Esteri della Camera bassa del Parlamento russo Alexei Pushkov, l’adesione del Montenegro alla Nato non rifletterebbe la volontà del popolo montenegrino. «Secondo i sondaggi – dice – il governo non riuscirebbe a guadagnare la maggioranza nel caso di un referendum» di adesione alla Nato. Per Pushkov «non si può parlare della volontà del popolo, bensì di una linea strategica di lunga data degli Stati Uniti e delle élite filo-Nato per ampliare e sottomettere l’Europa al dominio americano». A John Kerry la domanda sulle conseguenze viene posta durante la sua conferenza stampa a Bruxelles: come potete chiedere alla Russia l’appoggio nella 21 guerra allo Stato Islamico, e al tempo stesso rafforzare le difese Nato contro un’eventuale aggressione russa? Per Kerry non c’è contraddizione: «La Nato è un’alleanza difensiva che esiste da 70 anni. Non minaccia nessuno. Fornisce sicurezza ai suoi membri. Non si focalizza sulla Russia. Perciò a Mosca dico: non ce l’abbiamo con voi, lavoriamo alla prevenzione di minacce come l’Is, e ad un migliore governo di fenomeni come le migrazioni». Kerry conclude con un passaggio in cui esorta Putin a «onorare gli accordi per restituire piena sovranità all’Ucraina, rispettare i suoi confini, cessare gli aiuti militari ai separatisti, ritirare gli armamenti pesanti». Il messaggio è chiaro: la necessità di combattere insieme lo Stato Islamico non “assolve” Putin per le violazioni del diritto internazionale in Crimea e in Ucraina. E’ anche un implicito altolà verso quei partner europei della Nato che hanno cominciato a premere per la sospensione delle sanzioni economiche alla Russia. Di certo questo alimenterà la narrazione di Putin, secondo cui la Nato avrebbe calpestato promesse fatte all’epoca della caduta del Muro di Berlino, di non espandersi a Est. Una ricostruzione storica che gli americani smentiscono; e che comunque non tiene conto della libera determinazione di quei paesi (dalla Polonia ai Baltici, dalla Romania alla Bulgaria) che vollero passare da questa parte dello scudo atlantico. del 03/12/15, pag. 2 Cade Homs, “capitale della rivoluzione”: le opposizioni firmano la tregua Siria. Il governo si accorda con i ribelli, come fatto a Ghouta e Zabadani. Ad Aleppo l'Esercito Libero Siriano si spacca, a Raqqa i residenti denunciano i raid internazionali Chiara Cruciati Niente di nuovo sotto il sole siriano. A parlare è la lingua della forza, mentre la promessa di far sedere allo stesso tavolo governo e opposizioni entro il primo gennaio si fa sempre meno concreta. E le due parti allora negoziano da sole, senza la supervisione di chi ne muove i fili da quattro anni: martedì le opposizioni a Homs hanno siglato con il governatorato della città il ritiro dal distretto di Waer, dove erano ancora presenti dopo aver abbandonato – sotto la supervisione Onu – il resto della città oltre un anno fa. «Evacuazione degli uomini armati e delle loro armi e ritorno delle istituzioni dello Stato nel distretto»: questo l’obiettivo del negoziato descritto dal governatore di Homs, Talal Barazi. In cambio i miliziani potranno lasciare la città senza ritorsioni. Una sorta di amnistia a cui seguirà l’arrivo degli aiuti umanitari. Così cade definitivamente “la capitale della rivoluzione”, come era stata ribattezzata dopo le prime proteste popolari del 2011 e la comparsa delle opposizioni armate. Una città devastata, dove vivono 75mila persone contro le 300mila che vi risiedevano prima che la guerra distruggesse la Siria e le sue reti sociali, economiche e civili. Non è la prima tregua locale siglata in Siria: il mese scorso toccò a Ghouta, est di Damasco, e a settembre lla città di Zabadani al confine con il Libano e a due villaggi sciiti a Idlib. Opposta la situazione ad Aleppo dove a scontrarsi sono ex alleati, ovvero milizie interne all’Esercito Libero Siriano: le violenze sono scoppiate tra le Forze Democratiche Siriane (nuova coalizione formata da combattenti kurdi delle Ypg, assiri e alcuni gruppi legati 22 all’Els) e la coalizione Fatah Halab (gli islamisti di Ahrar al-Sham, affiliata di al Qaeda, e altre fazioni vicine all’Esercito Libero). Una faida esplosa per il controllo di due villaggi, Keshtar e Tanab, contese dai due fronti, ma già accesa dal sostegno che – secondo gli islamisti – i kurdi di Rojava riconoscerebbero all’intervento aereo russo. Per le Unità di Difesa Popolari kurde, che hanno saputo liberare Kobane e villaggi kurdi dalla morsa dell’Isis, il principale nemico restano i gruppi estremisti sunniti che non contemplano la presenza kurda nel futuro della Siria che immaginano. A questioni etniche si sovrappongono quelle politiche: al-Nusra, Isis e Esercito libero accusano le Ypg di non essersi mai opposte al governo di Assad. Di nuovo, non una priorità per Rojava che teme molto di più l’avanzata del sedicente califfato. Non è un mistero che i cantoni kurdi, nati su ispirazione del Pkk, puntino al riconoscimento di una futura autonomia da parte del governo centrale, promessa mossa dalla Damasco di Assad in cambio della lotta allo Stato Islamico. Ad Hasakeh esercito governativo e Ypg combattono in zone diverse lo stesso nemico, coordinando ufficiosamente le azioni militari. E il nuovo intervento russo potrebbe rafforzare le relazioni tra Damasco e Rojava: Putin ha avanzato nei giorni scorsi l’ipotesi di armare le Ypg in cambio di un’avanzata verso ovest, in chiara chiave anti-turca. Che l’intervento russo abbia modificato gli equilibri sul terreno è palese: la stessa Homs è tornata in mano governativa dopo un’ampia offensiva coperta dai raid di Mosca. Il presidente siriano incassa e ringrazia: ieri in un’intervista ad una tv ceca Assad ha vantato il ruolo russo nel rallentare l’avanzata del “califfato”, a differenza di quanto fatto in un anno dalla coalizione guidata dagli Stati uniti. Eppure le bombe statunitensi e francesi continuano a colpire la “capitale” Isis, Raqqa, ma a pagarne il prezzo sono i civili usati come scudi umani dagli islamisti: una prigione, la definiscono ex residenti riusciti a fuggire nelle passare settimane in interviste con Middle East Eye. «Oggi Raqqa vive in un incubo – racconta Abdullah K. – L’Isis si arrovella per affamare in ogni modo la popolazione civile e ci riesce. Non c’è elettricità, l’acqua non è sterilizzata. Il centro sembra una città fantasma, eccetto per le case occupate dai membri dell’Isis che ricevono servizi. Qualsiasi intervento militare non segnerà la fine di Assad. I miei concittadini sono stati massacrati e sfollati dai paesi stranieri». del 03/12/15, pag. 3 I raid israeliani in Siria per colpire target iraniani Netanyahu. Il premier israeliano ha ammesso gli attacchi compiuti dall'aviazione in territorio siriano. Ma sono noti i contatti che l'Esercito dello Stato ebraico mantiene con i "ribelli" anti Assad, spesso anche i qaedisti di al Nusra Michele Giorgio Non si limita solo ai raid aerei “l’operatività” di Israele in Siria, come lasciava intendere l’altro giorno Benyamin Netanyahu. Ammettendo per la prima volta che Israele sta intervendo militarmente in Siria, il premier e leader della destra ha spiegato che i bombardamenti aerei sono finalizzati ad impedire che si apra «un fronte contro Israele, quello che «l’Iran sta cercando di costruire sul Golan». L’obiettivo, ha aggiunto, è «contrastare il trasferimento di particolari armi dannose dalla Siria al Libano. 23 Continueremo a farlo». Qualche ora prima Netanyahu aveva riferito che militari israeliani e russi si sono incontrati «per intensificare il coordinamento in modo da prevenire incidenti. Vogliamo aumentare la cooperazione per evitare collisioni sui cieli siriani». In realtà non è tutto così semplice e occasionale come vorrebbe far apparire il premier israeliano. Israele in realtà opera in modo ampio e da lungo tempo in Siria, anche se focalizza il suo intervento militare sulle regioni meridionali del Paese arabo. Dopo l’inizio della guerra civile, lo Stato ebraico ha accolto e curato tra 1.000 e 1.800 siriani rimasti feriti nei combattimenti a ridosso delle Alture del Golan tra forze governative e formazioni islamiste. Per il governo israeliano si trattarebbe di un “aiuto umanitario” che spesso ha riguardato bambini rimasti coinvolti in scontri a fuoco e bombardamenti. Tuttavia negli ospedali di Safed e Nahariya sono stati ricoverati anche numerosi miliziani anti Bashar Assad e non solo “ribelli moderati”. Un documentario girato in questi ospedali da un team di Vice News ha mostrato che tra i siriani ricoverati c’erano combattenti dei gruppi più radicali, come il Fronte al Nusra, il ramo siriano di al Qaeda che controlla parte della fascia di territorio a ridosso del Golan. Uno di questi è stato ucciso qualche mese fa da una folla inferocita di drusi mentre veniva trasportato all’ospedale di Safed con una ambulanza israeliana. Israele intrattiene contatti regolari con gruppi armati che combattono contro Damasco. Un rapporto delle Nazioni Unite riferì un anno fa che le Forze di Disimpegno degli Osservatori delle Nazioni Unite (Undof), schierate lungo le linee di armistizio del Golan, avevano registrato relazioni frequenti tra ufficiali israeliani e miliziani siriani che combattono contro Damasco. Il successivo arresto per «spionaggio e contatti con agenti stranieri» di un druso che postava sui social network video e foto dei contatti ravvicinati tra l’esercito di Tel Aviv e i “ribelli” ha ulteriormente alimentato le indiscrezioni su attività segrete di Israele per spezzare l’alleanza di Assad con gli alleati libanesi di Hezbollah e Teheran. Da tempo peraltro gli analisti militari israeliani, a cominciare da Amos Gilad, affermano che il destino della Siria è di essere suddivisa in cantoni, controllati dai diversi attori che agiscono sul terreno. E tra questi esperti non manca chi minimizza il pericolo rappresentato dall’Isis, almeno per gli interessi di Israele. «Sono poche migliaia di terroristi sui pick-up, armati solo di kalashnikov. Occupano terre che nessuno vuole», ha commentato qualche mese fa l’ex capo dell’intelligence Amos Yadlin. Mentre Netanyahu continua a concentrarsi sulla «minaccia iraniana» e su presunte postazioni avanzate che Tehran starebbe allestendo a breve distanza dalle Alture del Golan. Anche di recente Israele ha colpito con i suoi aerei in territorio siriano, non solo in a ridosso del Golan. Secondo i media siriani legati all’opposizione, i cacciabombardieri israeliani avrebbero preso di mira presunti convogli di armi destinate a Hezbollah prima nei pressi dell’aeroporto di Damasco e poi nel Qalamoun, lungo il confine con il Libano. del 03/12/15, pag. 16 Cipro unita, partita aperta Scenari. La linea verde dell’Onu sventra ancora in due l’isola del rame, goffamente. In sospeso resta la questione dei profughi causati dai fatti del 1974 da una parte e dall’altra. Ma su entrambi i versanti, riavvicinati oggi dalla crisi economica, cresce il numero di chi sembra interessato esclusivamente al "domani". E la voglia di riunificazione passa anche per il calcio: «Come possiamo fare pace se non giochiamo insieme?» Stefano Fonsato 24 «La strada principale per Famagosta è chiusa per lavori, sa quale deviazione occorre prendere?». «No, chiedo scusa, io a Nord non sono mai stata». Sta tutta in questa risposta, che lascia quasi interdetti, l’essenza di Cipro. O, meglio, della società cipriota. All’hotel Seagull di Protaras, nell’area urbana di Paralimni, la receptionist interpellata per una banale informazione di percorso, non è mai stata nel capoluogo del suo distretto. Nonostante si trovi solo a una decina di chilometri di distanza. Perché lei è greca-cipriota e Famagosta sta nella parte turca, quella “sbagliata”. Anzi, quella di cui non si conosce — non si vuole conoscere — un granché. L’isola sventrata in due La «linea verde» dell’Onu sventra in due l’isola del rame, goffamente. Consegnandone due terzi alla popolazione greca e un terzo a quella turca. Che poi, anche qui, bisogna fare i relativi distinguo: ci sono i turchi, laici arrivati dopo le battaglie del 1974 e i turchi-ciprioti, quelli delle origini, ancor più laici e in estinzione, arrivati a contarsi in circa 120mila unità. Quarantuno anni fa Atene volle riunire l’isola alla “madre patria”, scatenando l’ira di Ankara, l’invasione turca e la conseguente suddivisione tra nord (turco, che forma una repubblica de facto non riconosciuta dalla comunità internazionale) e sud (greco ed altamente occidentalizzato). Fatto che creò profughi da ambo i confini per l’incredibile velocità con cui si fu costretti ad abbandonare le proprie terre. E i propri animali, come gli asini selvatici che abbondano nella penisola di Karpaso, discendenti di quelli “domestici” appartenuti un tempo alla popolazione greca che abitava a nordest, verso Capo Sant’Andrea, terra di assoluto isolamento. La Repubblica di Cipro del Nord è riconosciuta politicamente solo dalla Turchia. I suoi abitanti possiedono carta d’identità europea, ufficialmente obbligatoria ma da sempre ripudiata dai politici locali che ne affiancano un’altra autoctona. Oltrepassare il confine sud-nord, inoltre, prevede un pedaggio di almeno 20 euro: con quella cifra si acquista un «pacchetto di accessi» minimo di tre giorni. Si firma un documento ufficiale, un’assicurazione fornita da un noto marchio occidentale che, con questo sistema ha creato un vero e proprio businness a proprio vantaggio. Ancora qualche metro di linea verde et voilà, ecco Famagosta. A Nicosia, invece, ci si guarda da una parte all’altra del confine. Pronto a cadere anche secondo il premier greco Alexis Tsipras nei pensieri espressi durante la visita ad Ankara di fine novembre. Quello di Cipro riunita è un fronte legato a un altro dal respiro ancora più ampiò: l’adesione all’Unione europea della Turchia, paese chiave nella gestione dei flussi di profughi. In ogni caso, a Cipro, non è più tempo di ragionare in termini di “ieri e oggi”. In questi giorni interessa il “domani”. Non a tutti, d’accordo, certamente a un numero sempre più crescente di popolazione. Impensabile sino a qualche mese fa: parlando con un cipriota della parte greca, sarà sempre più difficile ricevere risposte come quelle della receptionist del Seagull. Anche dalla parte europea di Nicosia, conosciuta come “ultima” Berlino d’Europa, si pensa non abbia più senso andare avanti con questo muro, certamente più mentale che fisico. Per una volta, davvero, sembra tracciata la strada: quella verso la riunificazione dell’isola. E perché partire considerando la volontà della popolazione greco-cipriota? Perché fu quella che, nel referendum del 2004 (nell’ambito dell’Annan Plan), votò «No» (con un 75%) al ricongiungimento, a una sola identità nazionale. Il contrario accadde nella parte turca, che per il 65% espresse il proprio «Sì». Sì, all’uscita da quello stato di isolamento — più simile all’esclusione — che fermava il tempo. Il segno del federalismo Si arriva quindi al 17 febbraio 2014: dopo un lungo periodo di acque chete, i rappresentanti dei due governi — il presidente della repubblica greco-cipriota Nikos 25 Anastasiadest e l’ex primo ministro di Cipro Nord Özkan Yorgancioglu (che il 16 luglio scorso ha lasciato il posto a Ömer Soyer Kalyoncu) si incontrano per ritornare a parlare di quel piano: «Far saltare il confine e unire l’isola sotto il segno del federalismo — spiega Evie Andreou, redattrice del più autorevole quotidiano cipriota (in lingua inglese) Cyprus Mail -. Quando la crisi economica internazionale era ancora lontana, le differenze tra nord e sud erano decisamente marcate. Dalla parte greca si pensava che quella turca volesse, in qualche modo, essere trainata e, certo, l’antipatia atavica che scorre tra greci e turni non ha giovato. Il fatto è che, così, facendo, si è rinviato di un ulteriore decennio tutto il capitolo di problemi che la divisione del 1974 si è portata in dote». Sì, perchè, prima dell’indipendenza dell’isola dal Regno Unito (avvenuta nel 1960), ciprioti greci e ciprioti turchi erano da sempre andati più o meno d’accordo. I fatti del ’74 hanno sconvolto un equilibrio millenario… «Questa estate abbiamo assistito a un altro incontro per accelerare le operazioni: il progetto di riunificare Cipro, ora, è ben concreto — prosegue Evie -. La difficoltà principale, com’è facilmente intuibile, è legata alla questione profughi, sia da una parte della linea verde che dall’altra: come restituire terre e proprietà agli espatriati? O, se non altro, che tipo di accordo sottoscrivere? Ma ci sono altri aspetti, anche dei più banali, di non facile risoluzione: per esempio, la differente configurazione dei rispettivi impianti elettrici oppure le differenti linee telefoniche dei cellulari. Nella parte settentrionale, per esempio, è la potente Turkcell a controllare il traffico delle comunicazioni e non credo sia disposta a rinunciare di buon grado al mercato cipriota». Ci si creda oppure no, la miccia definitiva alla volontà di riunificazione, si è accesa per ragioni legate al calcio, diviso anch’esso tra nord e sud. Premessa: due squadre di tradizione del calcio cipriota, dal 1974 sono state costrette a varcare il confine verso sud per restare a livelli professionistici, il Nea Salamina e l’Anorthosis Famagosta, conosciuto per aver affronato l’Inter in Champions League qualche anno fa e che è costretta a disputare le gare casalinghe nella “greca” Larnaca. Isolamento anche calcistico Famagosta torna sempre: è l’esempio più lampante della sghemba suddivisione politica dell’isola. Una città dalle mille influenze ma fondamentalmente greca al colpo d’occhio, abitata da turchi. Ma, si diceva, i turchi di Cipro organizzano da tantissimi anni un campionato locale, molto combattuto e dal livello discreto. In questo momento, a contendersi la testa della classifica, insieme al Binatli Yilmaz di Morphou (Güzelyurt in turco), al GAÜ Çetinkaya e campioni in carica dello Yenicami Adelen (entrambe di Nicosia), c’è — guarda un po’ — una formazione di Famagosta — o Gazimagusa — il Magusa Türk Gücü: «Cipro Nord aveva anche una selezione nazionale che partecipava alle competizioni internazionali extra-Fifa, ma il progetto è stato accantonato da qualche tempo», prosegue Evie Andreou. Che aggiunge: «Il problema è proprio qui: non essendo riconosciuto dalle Nazioni Unite, Cipro Nord resta isolato anche nel calcio. Non ha mai potuto affiliarsi né all’Uefa, né tantomeno alla Fifa, fatto che ha perfino bloccato i trasferimenti oltre confine. Dovesse esserci un Lionel Messi, a Cipro Nord, nessuno sarebbe in grado di ingaggiarlo e consegnarlo al grande calcio. Così, il presidente della federazione Hasan Sertoglu ha iniziato la propria campagna rivoluzionaria di annessione alla CFA, la federcalcio greco-cipriota». Con un motto, ripetuto come un mantra, ovvero: «Come possiamo fare pace se non giochiamo a calcio insieme?». Tutto, esclusivamente, in barba alle volonta politiche: «Alcuni componenti del governo, tra cui il ministro dello sport locale, hanno urlato allo scandalo — chiosa la Andreou — rallentando le operazioni: loro vogliono un’annessione alla federcalcio turca ma Sertoglu, giustamente, non ne vuole sapere. Forse sarà già la prossima stagione, la 2016–2017, quella buona…». 26 Tornando alla riunificazione generale dell’isola, la sponda turca spinge affinchè essa avvenga entro la fine del 2015. Per quella greca, invece «non bisogna affrettare le operazioni». Di strada ormai, però, se n’è fatta tanta e, finalmente, sembra proprio quella giusta. Da Avvenire del 03/12/15, pag. 19 Spagna. La Corte Costituzionale ha fermato l’indipendenza della Catalogna Annullata all’unanimità la mozione secessionista del 9 novembre Ma Barcellona vuole andare avanti. Rajoy: nessuno può essere al di sopra della legge LUCIA CAPUZZI È una sentenza storica. Se non altro per la rapidità. La Corte Costituzionale ha impiegato venti giorni esatti per annullare la dichiarazione di indipendenza del “Parlament” catalano. Il ricorso contro la cosiddetta “road map per la disconessione democratica dalla Spagna” era stato presentato dal governo di Madrid l’11 novembre. Tre settimane dopo, la decisione contestata, giuridicamente, non esiste più. Un record, dovuto all’approssimarsi del voto politico, il 20 dicembre. Già domani inizierà la campagna. Per tale ragione, martedì, i magistrati hanno modificato la tabella di marcia, mettendo all’ordine del giorno l’esame del testo secessionista, originariamente non previsto. E, ieri, dopo tre ore di confronto, si sono pronunciati all’unanimità. Secondo gli undici giudici, la dichiarazione approvata da Barcellona il 9 novembre scorso viola almeno cinque articoli della Costituzione e due dello Statuto. Quelli cioè che stabiliscono l’unità della nazione spagnola, unica titolare della sovranità. Proprio come in una partita a scacchi, tocca ora a Barcellona fare la propria mossa. Fin dal principio, la mozione secessionista si proponeva di ignorare eventuali pronunciamenti delle istituzioni spagnole. E la Generalitat sembra intenzionata ad andare avanti su tale strada. La vicepresidente uscente, Neus Munté, ha ribadito: «Non fermeranno la volontà politica espressa dal Parlament». Se ignoreranno la sentenza e decideranno di proseguire con la “road map”, i principali leader indipendentisti rischiano la sospensione dall’incarico da parte della Corte. Quest’ultima non ha fatto esplicita menzione a tale facoltà. Né ha notificato il verdetto ai 21 vertici istituzionali catalani, come chiesto dal governo e avvenuto per la prima sospensione, dopo l’accoglimento del ricorso. Si è limitata a disporre la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Uno “mano tesa” per far diminuire la tensione. L’esecutivo, in ogni caso, ha commentato con entusiasmo il verdetto. «Tale decisione rallegra la maggioranza degli spagnoli che crede nella sovranità nazionale e nell’uguaglianza», ha detto il premier Mariano Rajoy in un breve intervento alla Moncloa. E, ha aggiunto: «È la dimostrazione che nessuno è al di sopra della legge e può stravolgerla». 27 Del 3/12/2015, pag. 10 Armi facili, più vittime che alle Torri Gemelle la guerra che l’America non riesce a vincere FEDERICO RAMPINI SAN BERNARDINO, California, come Parigi dopo la strage del Bataclan. “Lockdown”, cioè chiuse le scuole e gli edifici pubblici. Coprifuoco obbligato, la popolazione invitata ad asserragliarsi in casa. Il fondamentalismo islamico non è l’unico pericolo di oggi. C’è anche un terrorismo bianco, made in America. Forse etnicamente anglosassone. Possibilmente con agganci all’ideologia dei suprematisti e del fondamentalismo cristiano. Di certo figlio di una cultura delle armi e della violenza che ha radici nell’America profonda, coperture politiche, protezioni economiche. Legittimata, perfino incoraggiata, dalla destra repubblicana. Nello Stato più ricco degli Usa, il laboratorio della modernità, quella California che ospita la Silicon Valley e Hollywood, alle 11 di mattina locali tre uomini bianchi armati con fucili, giubbotti anti-proiettile, con i volti coperti da passamontagna e in tuta mimetica militare, entrano aprendo il fuoco al 1300 di Waterman Avenue, vicino Orange Show Road, in un centro di servizi sociali di San Bernardino, 100 km a est di Los Angeles. Nell’Inland Regional Center lavorano 670 persone. Si occupano di persone disabili. I killer fanno strage. Un attacco “in stile militare” secondo le prime descrizioni della polizia locale. Un’altra carneficina, come tante. Quasi non fanno più notizia. Se non c’è un jihadista venuto da fuori, la reazione di una parte della società americana è diversa. Da troppi anni. Eppure il bilancio di vittime delle sparatorie “autoctone” ha superato quello dei morti dell’11 settembre. Si fa fatica perfino a usare la parola “terrorismo”, sui mass media. Il terrorismo deve essere per definizione importato dall’estero. Come quello dei fratelli ceceni che misero le bombe alla maratona di Boston. Quelli sì, catalogabili come appartenenti alla jihad. Ma prima di loro, dopo di loro, una lunga scia di sangue non ha l’etichetta straniera, né l’islamismo come matrice. Ci sono stati gli attacchi ai campus universitari, alle scuole elementari, a una chiesa di afro-americani. Reagisce con esasperazione Barack Obama: «Troppe sparatorie, basta. Il Congresso deve fare di più per prevenire la violenza delle armi da fuoco»: è il suo commento La minaccia domestica è figlia di una cultura della violenza che ha coperture politiche ed economiche a caldo dopo San Bernardino. Parole ormai logore, tanto le ha dovute ripetere in questi anni. Sul fronte opposto, il linguaggio è quello della complicità. Le reazioni della destra americana sono esemplificate da ciò che disse Donald Trump dopo la strage di Parigi: se i francesi avessero avuto il diritto di armarsi, si sarebbero difesi contro i terroristi. C’è un pezzo di società americana che ha imboccato una deriva paurosa, da molti anni. La lobby dei produttori di armi e dei possessori di arsenali casalinghi, la National Rifle Association, ha evidenti interessi economici a mantenere una nazione “armata fino ai denti”. Ma fa leva anche su un inconscio collettivo inquietante. Soprattutto da quando c’è un nero alla Casa Bianca, un pezzo d’America si è convinto di essere stato espropriato del proprio paese da un usurpatore: l’Altro, l’Anticristo. La blogosfera e i social media pullulano di un linguaggio di odio, incitano alla rivolta e all’autodifesa contro i “diversi”: neri e immigrati, donne emancipate o gay, tutte le componenti di una società laica e multietnica vengono rappresentate come degli alieni, invasori. Pochi giorni fa un folle si era accanito contro una clinica per il controllo delle nascite. Il fondamentalismo cristiano e la supremazia bianca sono una delle ideologie disponibili I social pullulano di odio, con messaggi che incitano alla rivolta contro i diversi 28 sul mercato, per chi abbia serbatoi di rancore e di odio. Lupi solitari, milizie autoproclamatesi in difesa della purezza americana: qualsiasi siano le etichette, queste forme di terrorismo hanno una vita autonoma. Il meccanismo che le alimenta non è diverso da quello che lo studioso francese Olivier Roy ha analizzato per i jihadisti. Roy parla di una “islamizzazione del radicalismo”: quei giovani musulmani di seconda generazione, figli di immigrati arabi o nordafricani in Francia, sono in cerca di una giustificazione ideologica per il loro nichilismo e la loro sete di violenza, che nulla hanno a che vedere con problemi socio- economici, emarginazioni, o torti subiti. Negli Stati Uniti qualcosa di simile accade in piccole minoranze di bianchi, devianti, assetati di sangue. Sul mercato politico trovano qualche Verbo che giustifica i loro massacri. Sul mercato tout court possono comprare armi di sterminio. La destra gli garantisce questo come un diritto costituzionale. Del 3/12/2015, pag. 3 Lo shopping delle armi facili: in tre anni mille sparatorie Il Suv A terra il corpo di un killer Il blitz I blindati delle forze speciali circondano il Suv nero usato dal commando per la fuga dopo l’assalto di Guido Olimpio WASHINGTON L’assalto al target facile e poi la fuga. Quale che sia la matrice d ell’attacco di San Bernardino ci sono due dati in comune: le armi e il terrorismo. Perché il modo di agire è da terroristi. Anche se fossero dei folli hanno agito come guerriglieri, con equipaggiamento di stile militare. Quasi un raid a imitare la tragedia di Parigi, protagonisti di una guerra infinita. Dal 2012 ci sono state negli USA 1.029 sparatorie gravi. In quell’anno c’è stato il massacro nella scuola elementare di Newtown. Allora sembrava che si fosse passato ogni limite. Invece la serie nera è proseguita portandosi via oltre 1.300 vite e ferendo non meno di 3.700 persone. Basterebbe questo per far cambiare leggi, invece si è fatto finta di niente. Attacchi dove le bocche da fuoco hanno un ruolo primario insieme ai guai di una società che pur ossessionata dalla sicurezza è incapace di trovare risposte efficaci per curare la piaga d’America. E questo nonostante la tripla minaccia: il killer di massa, i jihadisti, i militanti interni. Le stragi avvengono perché è possibile attuarle con copie di fucili d’assalto che acquisti al supermarket e su Internet, munizioni a volontà. E questo permette di organizzare operazioni che somigliano alle missioni sacrificali di estremisti mediorientali ma ambientate in cittadine americane. La sequenza di San Be rnardino dimostra la pericolosità. Ripeto, non conta il movente. Il secondo aspetto è quello della pubblicità. Killer e terroristi sono alla ricerca della notorietà, massacrano in nome di una causa, uccidono nel segno della follia, sovente lasciano un video. Spesso c’è un punto d’unione, due strade parallele che si incontrano. Il «matto» — una definizione a volte usata con troppa leggerezza — copia il «politico», il fuori di testa cerca giustificazioni per i suoi gesti. Dunque ha bisogno dei riflettori. Dobbiamo interrogarci sulla gestione mediatica: impossibile oscurarli, ma servono contromisure per contenere gli effetti. La notizia di un attacco può spingere altri ad emulare. E questo a prescindere dal movente. Immaginiamo l’impatto della battaglia di ieri in California. Sul web è pieno di materiale in onore di psicopatici come i due del liceo di Columbine, copia dei video che celebrano i kamikaze o miliziani neonazi. Ora molti esperti invocano un blackout. 29 Il terzo elemento è lo «studio». Coloro che sparano fanno ricerche su quanti li hanno preceduti, i precedenti diventando un modello ed una sfida. Gli omicidi provano a ripetere l’assalto, cercano di superarli causando una cifra maggiore di vittime. Si è spesso parlato di una gara tra jihadisti, ora questo tipo di duello coinvolge anche il territorio americano dove si muovono i «mass shooter». 30 INTERNI del 03/12/15, pag. 7 Le vere primarie che piacciono a Renzi Milano. Dopo un incontro al Nazareno, il sindaco Giuliano Pisapia torna a casa con la consapevolezza che il Pd ha deciso di puntare tutto su Giuseppe Sala nonostante il mal di pancia della sinistra milanese. A Pisapia resta in mano la carta Francesca Balzani, ma il candidato Pierfrancesco Majorino, sostenuto da Sel, sembra intenzionato a non abbandonare la partita Luca Fazio MILANO Tenetevi forte: saranno primarie vere e aperte. Quei 315.862 elettori che nel 2011 avevano votato Giuliano Pisapia, sempre ammesso che di una buona parte non se ne siano perse le tracce, devono portare ancora molta pazienza. Se l’argomento dovesse ancora interessare, quello che sanno oggi lo sapevano già fin dalla primavera scorsa, quindi il caos creato dal sindaco di Milano con la sua pasticciata uscita di scena fino ad ora ha solo logorato la sua mitica esperienza arancione con una lunga evitabile verifica di un dato di fatto che è venuto a noia: le primarie. E certo che si faranno, eccome se si faranno, le primarie sono imprescindibili. Questa è la solita risposta del sindaco Giuliano Pisapia, una specie di mantra fuori sincrono ripetuto a prescindere dalla domanda che gli viene rivolta, l’unica certezza, una specie di lieto fine che dovrebbe servire a nascondere i tatticismi esasperati di un centrosinistra che non c’è più per come lo avevamo conosciuto (e già c’era poco da stare allegri). Per questo è desolante il non esito dell’incontro romano di ieri mattina che ha visto seduti allo stesso tavolo i vertici del partito di Matteo Renzi — c’erano anche Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini — e il sindaco di Milano accompagnato dalla sua nuova candidata di riferimento, la vice sindaca Francesca Balzani cui è stata affidata la missione impossibile di rappresentare la continuità con la giunta arancione. Gli uni puntano decisamente e coerentemente sull’ex manager di Expo Giuseppe Sala (tutti sapevano che il Pd a Milano avrebbe imposto un renziano) e gli altri o mangiano sta minestra o devono correre il rischio di imbarcarsi in una sfida molto complicata e lacerante per il coté sinistro della coalizione. Doveva essere una resa dei conti, o un chiarimento definitivo, e invece il Pd ha prodotto poche righe per ribadire “l’apprezzamento per il lavoro dell’amministrazione e dell’esperienza milanese di questi anni, così come è stata ribadita l’importanza delle primarie. Primarie vere, aperte, coinvolgenti e partecipate che tengano conto della peculiarità e dell’autonomia di Milano e che portino all’individuazione della candidata o del candidato migliore per vincere le elezioni comunali e proseguire nel buon governo della città”. Traduzione: a Renzi non importa nulla della continuità vagheggiata da Pisapia, se il sindaco vuole candidare Francesca Balzani faccia come gli pare. Per il sindaco di Milano “l’incontro è andato benissimo”. Niente di più, niente di meno. Frastornati dalla stupefacente novità di queste ore (saranno primarie “vere” e “aperte”), è passata quasi sotto silenzio la notizia più significativa sullo stato dell’arte del partito della nazione: il Pd milanese avrebbe chiesto anche a Linus, il direttore artistico di Radio Dee Jay, di candidarsi alle primarie. “Non sono all’altezza”, avrebbe risposto lui con immotivata modestia. Per tornare a personaggi decisamente meno popolari del dj, a questo punto è chiaro che non ha funzionato la minaccia della sinistra milanese di sfilarsi dalle primarie 31 per spingere il “divisivo” Sala a farsi da parte. Il Pd ha scelto il suo candidato, probabilmente vincente. La palla adesso passa al sindaco Giuliano Pisapia, e non sarà facile inventarsi uno schema vincente. Qualora la vice sindaca Francesca Balzani dovesse davvero decidere di sfidare Giuseppe Sala alle primarie in quanto nominata dal sindaco uscente, a sinistra andrebbe in scena un altro piccolo dramma intestino, forse di scarso interesse per quei 300 mila e passa elettori di cui sopra ma decisivo per chi non si è ancora rassegnato all’idea che con questo Pd non ci sono margini di trattativa, col rischio di finire massacrato e fuori dai giochi. Se l’idea è Balzani, come si comporterà il candidato del Pd Pierfrancesco Majorino sostenuto da Sel? A botta calda, decisamente irritato per la scelta di Giuliano Pisapia, il candidato più a sinistra sembrerebbe intenzionato a dare battaglia. “Dicono che a Roma l’incontro si sia concluso con una certezza (per la verità ormai scontata): si faranno le primarie. E si deciderà in quell’occasione. Perfetto, come annunciato, a prescindere da Roma: io ci sono e il 7 dicembre iniziamo a raccogliere le firme”. Più che un post è una minaccia e probabilmente, nel sottobosco di una visione della politica piuttosto proprietaria, è già in corso un gran mercanteggiare per evitare due candidature simili a sinistra a tutto vantaggio dell’ex manager della giunta di Letizia Moratti. Il quale deciderà a dicembre ma è già in campagna elettorale. “Farò diventare la città da Milano da bere per pochi a Milano da vivere per tutti”, ha detto ieri Giuseppe Sala alla Fondazione Corriere della Sera. Ok, per gli slogan chiederanno a Linus. Del 3/12/2015, pag. 16 Consulta, un altro flop in bilico i tre candidati La new entry Angela Nicotra non muta la situazione tutti hanno ricevuto ieri ancora meno consensi LIANA MILELLA È ancora flop. Niente giudici costituzionali. Meno 52 votanti alla 29esima votazione rispetto alla 28esima, sicuramente perché siamo già in clima da week-end. Si passa dagli 877 di una settimana fa, agli 871 dell’altro ieri, agli 819 di ieri. Crollano di conseguenza i candidati. Scende vistosamente Augusto Barbera (da 545 a 504), il costituzionalista del Pd. In picchiata Francesco Paolo Sisto (da 527 a 493), l’avvocato forzista in corsa. Va male anche per la new entry Ida Angela Nicotra, che si ferma a 417, “creatura” di Alfano e Quagliariello, ma anche di Giuseppe Castiglione (il sottosegretario indagato per il Cara di Mineo) che ieri le faceva propaganda in Transatlantico. Il quorum di 571, dopo questa performance negativa, sembra un miraggio. Regge solo Franco Modugno, il candidato di M5S con i suoi 136 voti (dai 156 del giorno prima). Ma il Pd insiste. Dicono i capigruppo al Senato Luigi Zanda e alla Camera Ettore Rosato: «Per noi l’unico candidato è e resta Barbera». Il calo? «Solo colpa delle assenze». Il presidente del Senato Pier o Grasso è furibondo. In aula ha detto: «Nuova chiama dopo le 23...». Poi ha spinto per la 30esima seduta oggi, dalle 14. Ma ha prevalso il timore dell’aula vuota. Oggi capigruppo, per capire come fare perché incombe la pausa per la legge di stabilità a Montecitorio. Dice Rosato: «Li nominiamo entro il 2015». Ma cresce il partito del 2016. Si avvicinano i 600 giorni, un record per la Consulta ridotta da 15 a 12 giudici. Una giornata a Montecitorio rivela che per queste nomine non ci si impegna abbastanza. Il rituale è stanco. Ci si affida agli sms, quello di Berlusconi per Sisto, non sostenuto abbastanza dal contestato capogruppo Brunetta; quello del Pd per Barbera; 32 quello di Area popolare e Scelta civica per Nicotra. Un volpone come Verdini la fa da maestro: «Non la stanno prendendo sul serio, per questo siamo ancora qui. Non c’è il necessario lavorio per convincere chi esita. Possiamo andare avanti all’infinito». Infatti questo capita anche con Nicotra. La scelta è di Alfano, Lupi alle 18, un’ora prima della seduta, ne dà notizia al capogruppo Pd Rosato, che a sua volta si affida sempre agli sms. Nicotra batte sul filo il presidente della Corte dei conti Raffaele Squitieri, già destinatario di una proroga pensionistica ad personam. Su Nicotra si comincia subito a spettegolare. I fatti: 51 anni, docente di costituzionale a Catania, Napolitano la mette nel gruppo dei saggi sulla Costituzione. Diventa una “vice Cantone” all’Anac, dove di lei parlano bene. In Sicilia ha un passato politico all’insegna della destra. Nel 2006 candidata al Senato per An. Nel 2013 con il Pdl. Castiglione la vorrebbe nella corsa a sindaco di Catania nel 2014, la porta in giro, ma le viene preferito l’uscente Stancanelli. Il suo nome fa letteralmente inviperire Lorenzo Dellai, il capo dei Popolari per l’Italia: «Che fanno, ci prendono in giro? Ma come si permettono? Alle 14 Lupi ci ha detto che il candidato non c’era, e adesso scopriamo dalle agenzie che invece c’è? Noi continuiamo a votare per Gaetano Piepoli ». Il quale, con l’andatura dinoccolata, passeggia e mormora: «Io non de-Sisto, io re-Sisto... ». Allusione a Sisto ovviamente, nel mirino dei 5stelle che tentano di convincere il Pd a non votarlo, ma subiscono l’ennesimo niet. Chiosa il dem Miguel Gotor: «Ha ragione Stefano Folli, il caso della Consulta è politico, perché il Pd si ostina a escludere l’accordo con M5S mentre cerca quello con un Berlusconi ormai minoritario». Del 3/12/2015, pag. 21 L’ex agente del Sismi e la fuga di Ablyazov “Protetto dagli italiani” Perugia, emerge l’ipotesi che l’arresto di Alma Shalabayeva fu atto riparatorio verso governo kazako. Interrogato Improta DANIELE AUTIERI Il rapimento e l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua sono stati un atto riparatorio, maldestro tentativo di evitare una crisi diplomatica con il Kazakhstan, innescata dopo la fugadel dissidente Muktar Ablyazov. Ma soprattutto quelle 67 ore che hanno portato all’imputazione per sequestro di persona e falso ideologico di 11 persone, tra cui l’attuale capo dello Sco (Servizio centrale operativo della Polizia) Renato Cortese e il questore di Rimini, Maurizio Improta (interrogato ieri per ore dal procuratore aggiunto Antonella Duchini e dal sostituto Massimo Casucci), sono arrivate al termine di un’attività di intelligence che ha seguito e in parte garantito protezione al dissidente kazako fino all’ultimo avvistamento prima della fuga. Il nodo della vicenda ruota intorno alla Sira Investigazioni, agenzia di security ingaggiata dall’israeliana Gadot Information Services per individuare «la presenza del signor Muktar Ablyazov». La piccola Srl (18mila euro i ricavi del 2013) viene costituita il 6 marzo, appena otto settimane prima dell’incarico della Gadot, e messa in liquidazione poco dopo la fine dell’anno. Cosa faceva allora la Sira fuori dalla villa di Casal Palocco? E per chi lavorava? Interrogato dalla Digos, il titolare Mario Trotta ammette che «Ablyazov è stato individuato già il 16 e 17 maggio», quindi dieci giorni prima della sua fuga. A Repubblica Trotta spiega: «Avevamo solo il compito di seguirlo e controllarlo». Un controllo h24 eseguito con l’aiuto di Marco Monfera e Gaetano Del Ferro, quest’ultimo 33 ritrovato dalla Digos al momento del blitz con un tesserino della Presidenza del Consiglio dei ministri (e in possesso almeno fino al 2006 del documento del ministero della Difesa Dg1635). Dalle visure camerali risulta che nel 2013 la Sira non ha avuto dipendenti e ha sostenuto costi salariali per 767 euro. Per chi lavoravano allora Monfera e Del Ferro, segnalato da una fonte investigativa come ex-agente Sismi? La ricerca di una risposta è ora affidata ai pm di Perugia, mentre è ormai un fatto che in tanti sapevano dove si trovasse Ablyazov. Ma, nonostante questo, il 26 maggio, dopo aver pranzato con moglie e figlia in un ristorante di via Colombo, l’uomo scompare. Il giorno successivo alla fuga i telefoni kazakisono roventi: dai tabulati emerge un flusso abnorme di chiamate, partite da Astana e destinate non solo all’ambasciatore kazako in Italia ma anche al Viminale. Non esistono trascrizioni di quei dialoghi ma — alla luce delle testimonianze di alcuni protagonisti — il senso è evidente: la frittata è fatta, adesso riparate. Da quel momento la macchina si mette in moto. Parte il blitz e i documenti vengono ritoccati per evitare intoppi sulla via dell’espulsione che deve essere rapida e indolore. Una conclusione tanto certa che — confermano oggi fonti investigative — il volo da Ciampino che riporta Alma Shalabayeva ad Astana viene pagato dall’ambasciata kazaka con un bonifico fatto la mattina presto, molte ore prima la conclusione dell’iter giudiziario. Le carte e le ultime risultanze dell’inchiesta richiamano quindi in causa il Viminale per capire se il blitz e l’espulsione furono veramente un atto riparatorio di fronte alla fuga di Muktar Ablyazov. Ieri il questore di Rimini, Maurizio Improta (capo dell’immigrazione all’epoca dei fatti), è stato sentito dai pm di Perugia e si è difeso dall’accusa di sequestro di persona e falso presentandosi in tribunale con un trolley pieno di documenti e ribadendo il rispetto delle leggi, L’interrogatorio è stato secretato, ma nel corso di 5 ore e mezzo è tornato il tema dei mandanti, sul quale sarà chiamato a rispondere venerdì anche il ministro Alfano. Non in tribunale, ma in Parlamento dove il M 5s ha presentato ieri un’interpellanza urgente con una domanda semplice: quali sono state le linee di comando che hanno impartito gli ordini in questa vicenda? 34 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 3/12/2015, pag. 8 Libera, il mito della purezza affronta il “fuoco amico” Lo scontro nell’associazione di don Ciotti di Sandra Rizza Don Ciotti un despota? Ma quando mai’’. C’è chi come Daniela Marcone, della segreteria nazionale, getta acqua sul fuoco della polemica perché “l’importante è non perdere di vista il nemico comune: le mafie’’. C’è chi, come Gregorio Porcaro, referente per la Sicilia, giura sulla “vivacità di un confronto sempre aperto”. Persino Nando dalla Chiesa, presidente onorario di Libera, cerca di metterci una toppa: “Certo che quello di don Luigi è un potere carismatico, ma nel nostro caso è un vantaggio: perché quando la leadership è a portata di tutti, come nei partiti, non si pensa ad altro che alle lotte di successione”. La verità è che nell’annus horribilis dell’antimafia, anche il network di associazioni fondato quasi vent’anni fa dal sacerdote torinese don Luigi Ciotti appare scosso da un terremoto senza precedenti. La scintilla che da Palermo a Torino ha acceso la galassia di Libera è stata l’accusa di “autoritarismo” sollevata nella convention di Assisi da Franco La Torre, figlio di Pio, all’indirizzo del fondatore che per tutta risposta con un sms lo ha “sfiduciato”, costringendolo a lasciare la segreteria nazionale. Ma non è questo il punto. Dietro l’ira del sacerdote, che ha deciso di liquidare con una decina di parole il figlio di Pio La Torre (il segretario del Pci siciliano ucciso dalla mafia nell’82), c’è qualcosa di più. C’è che per la prima volta qualcuno ha sollevato pubblicamente il dubbio che possano esistere zone d’ombra anche dentro il più grande totem dell’antimafia sociale. Una holding che oggi raccoglie oltre 1600 realtà nazionali e internazionali: un mondo articolato il cui cuore economico è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i 6 milioni di euro. Un impero costruito sotto l’insegna della legalità. Ma oggi la vigilanza, secondo La Torre, è insufficiente. Perché a novembre 2014 il direttore di Libera Enrico Fontana, a pochi giorni dall’ordinanza emessa dalla Procura di Roma, si è incontrato nella sede dell’associazione con due ambientalisti finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale? E di cosa hanno parlato? Cosa volevano il consigliere regionale del Lazio Pd Eugenio Patanè ed Emanuela Droghei, assessore alle politiche sociali del municipio di Ostia? “Di questo a Libera non si è mai discusso, spiega La Torre. “Quei due sono venuti per intimidirci? Fontana si è dimesso, ma nessuno ha mai risposto a queste domande’’. Domande che in qualche modo hanno infranto il tabù della “purezza” di Libera, sollevando il sospetto che la sua impermeabilità ai tentativi di infiltrazione non sia così assoluta. Nando dalla Chiesa lo ammette apertamente: “È stato insinuato per la prima volta che il gruppo dirigente possa essere moralmente criticabile e don Ciotti ha letto l’intervento di La Torre come un attacco alla qualità morale di Libera. È stato colpito il nervo più sensibile”. Nessuno minimizza la difficoltà di gestire una galassia che più si ramifica più è complicata da controllare. Ed è per questo che da Nord a Sud l’imperativo è quello di “tenere gli occhi ben aperti”. Ma basta a schivare i rischi di penetrazione mafiosa nel più granitico moloch dell’antimafia? Lui, don Ciotti, il leader carismatico accusato di soffocare il dibattito, non 35 parla. Il suo telefonino per tutto il giorno squilla a vuoto. L’ordine di scuderia è quello di “tenere bassa” la polemica. Fino a ieri sera, quando l’intero gruppo dirigente di Libera scende in campo con un lungo comunicato che smentisce l’esistenza di una “guerra” interna all’associazione, ma poi parla di “fuoco amico”, aperto da chi “seminando veleno, non fa altro che il gioco delle associazioni criminali”. Da Avvenire del 03/12/15, pag. 11 Lavoro nei campi: arriva l’etichetta etica ANTONIO MARIA MIRA Presto potrebbe arrivare un’'etichetta etica' per il pomodoro italiano che rispetti i valori di trasparenza, legalità e tracciabilità. Una vera e propria 'certificazione etica' delle aziende per dire 'no' con chiarezza e fatti concreti al caporalato e allo sfruttamento. Ma che anche difenda i consumatori dai truffatori. È la proposta più importante emersa in occasione dell’assemblea dell’Anicav, l’Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali, i trasformatori del pomodoro di Confindustria. Un evento importante quello tenuto ieri a Foggia, 'capitale' dell’oro rosso, che ha segnato l’apertura del dialogo tra industria del pomodoro e produttori agricoli, attraverso un confronto con Coldiretti. Un parlarsi dopo tensioni ma anche dopo la recente stagione del pomodoro caratterizzata da eventi drammatici di sfruttamento. Così il titolo dell’incontro spiega bene questo tentativo di cambiare: «Il filo rosso del pomodoro in una filiera etica e sostenibile ». Un filo che unisce soprattutto la Puglia, area di maggiore produzione e Campania, area di maggiore trasformazione. «L’utilizzo di manodopera illegale – afferma il presidente di Anicav, Antonio Ferraioli – rappresenta una piaga sociale che va combattuta anche a fronte di un solo lavoratore irregolare impiegato». Bene, dunque, il disegno di legge del governo per il contrasto al caporalato e al lavoro nero. Ma, avverte il presidente, «non bastano i controlli delle istituzioni. Serve anche una sensibilizzazione per convincere che il tema di legalitá e sostenibilità è centrale». E il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo, non si tira indietro. «Legalità e trasparenza devono andare avanti di pari passo. Non dobbiamo avere paura. Bisogna dire la verità». Ovviamente sul prodotto, su origine e tracciabilità ma anche sulla legalità. E qui entra in ballo uno dei temi di tensione tra mondo agricolo e industria della trasformazione, quello del prezzo dei pomodori. «Deve es- sere più alto per chi si impegna a rispettare le regole – sostiene Moncalvo –. Ci vuole perché permette alle aziende oneste, che rispettano ambiente, legalità e lavoratori, di andare avanti. Altrimenti chiudono e va avanti solo la criminalità». Parole forti per un comparto in crescita. Nella campagna 2015 la produzione di pomodoro trasformato in Italia ha registrato un aumento di circa il 10%, passando dai 4,9 milioni di tonnellate del 2014 ai 5,4 di quest’anno. L’Italia è il terzo Paese dopo Usa (quasi tutto California) e poco lontano dalla Cina (5,6 milioni di tonnellate, in calo). Nel nostro Paese si concentra il 13% del pomodoro trasformato del mondo e il 48% di quello Ue, con un fatturato di 3 miliardi. E con un valore di 800 milioni di euro nel primo semestre 2015 cresce anche l’export, sia in volume (+5,8%) che in valore (+8,7%). Numeri molto importanti, ma proprio su questi prodotti, su qualità e tracciabilità, nei mesi scorsi sono piovute accuse e polemiche. È la nota vicenda del 'concentrato cinese' che finirebbe nelle nostre passate di pomodoro. Accusa respinta da Ferraioli. «Il consumo italiano di 36 concentrato è solo l’1% del mercato dei derivati del pomodoro. Quello che arriva dalla Cina viene in gran parte riesportato in Ue. La passata, per la normativa italiana, deve essere fatta solo con pomodoro fresco. Ma questo non vale in Ue. Così parte del concentrato viene diluito e trasformato in passata da espostazione. Una parte rientra in Italia». Da Moncalvo arriva una proposta. «E allora scriviamolo sulle etichette che nella passata non c’è concentrato cinese. Che è tutto italiano. Dobbiamo avere il coraggio. Anche per giustificare il prezzo. Lo scriviamo e il consumatore sceglie». «Non abbiamo niente in contrario che ci sia in etichetta l’origine – replica Ferraioli – ma andrebbe fatto anche in Europa». Il dialogo va avanti. «Per ora non do voti – ci dice Moncalvo a fine dibattito – ma al momento della nuova campagna li daremo». Del 3/12/2015, pag. 7 Asti: “Torturati in carcere”, risarciti con 45 mila euro Erano stati torturati nel carcere di Asti da alcuni agenti della polizia penitenziaria. Grazie alla prescrizione due poliziotti imputati si sono salvati dalla condanna per maltrattamenti e abuso di autorità. Ora a pagare sarà lo Stato: ha proposto alle vittime, due ex detenuti, un risarcimento di 45 mila euro e lo ha fatto dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il loro ricorso. “Il governo ammette sostanzialmente le responsabilità” spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che, insieme ad Amnesty Italia, ha affiancato le vittime. “Chiediamo ancora una volta all’Italia di introdurre il reato di tortura nel codice penale”, aggiunge Antonio Marchesi, presidente di Amnesty. Nel dicembre 2004 i due detenuti subirono “un tormentoso e vessatorio regime di vita”, scrive la Cassazione. Furono chiusi nudi in alcune celle senza vetri alle finestre, materassi, lavandini e altro. Rimasero lì “per circa due mesi”, con poco cibo e subendo pestaggi. Per il tribunale di Asti si trattava di tortura, ma mancava il reato perché non è mai stata ratificata la convenzione dell’Onu. 37 WELFARE E SOCIETA’ del 03/12/15, pag. 8 Istat: le ingiustizie della crescita Nel rapporto Benessere Equo e Sostenibile (Bes) il ritratto di un paese diviso e stremato dove aumentano le differenze di classe, geografiche, di genere, lavorative e generazionali Roberto Ciccarelli ROMA Il benessere economico delle famiglie italiane è in aumento, ma non raggiunge i poveri, le donne, i disoccupati, i giovani e i precari. La ripresa c’è, ma è per pochi, mentre le disuguaglianze aumentano, soprattutto al Sud. Il rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes), presentato ieri dall’Istat, descrive la realtà di una crescita minima senza occupazione fissa, quella che conosceremo nei prossimi anni, in cui aumenteranno le disparità territoriali (Nord/Sud), di genere (le donne sono sempre meno occupate degli uomini), generazionali (lavorano di più gli over 55, sono precari o disoccupati i 25-49enni), di classe (i poveri relativi e assoluti diminuiscono appena, ma restano stabili), formative e dei saperi ( l’Italia è tra gli ultimi in Europa per investimenti su scuola e università, aumenta la dispersione scolastica, peggiora la cultura generale). Man mano che si percorre la penisola il lavoro, l’accesso ai saperi, ai diritti si fa ancora più precario. Questo è il racconto di vite precarie, sempre meno pagate, brutali per chi non ha reddito né tutele superstiti, in un paese diviso a più livelli, stremato da una crescita selettiva che aumenta le differenze di classe. Sud disuguale Il rapporto Bes usa una serie di indicatori che misurano la salute, l’istruzione, l’ambiente, le relazioni sociali, lo sviluppo del territorio e cerca di analizzare la complessità di un fenomeno come il benessere, cercando di non ridurlo ad un problema economico come succede invece con un parametro con il Prodotto Interno Lordo (Pil). Da questo schema, soprattutto sul tema della diseguaglianze socio-economiche che qui prendiamo in considerazione, è emerso quanto segue. Secondo il documento nel 2014 è aumentato il reddito disponibile (dello 0,7% nel 2013 e dello 0,1% nel 2014), e il potere d’acquisto. È cresciuta la spesa per i consumi e sempre meno famiglie mettono in atto strategie per contenere la spesa. Anche il rischio di povertà e la povertà assoluta diminuiscono, mentre aumenta la quota di individui che vivono in famiglie che hanno intensità lavorativa molto bassa, cioè dove le persone hanno lavorato meno del 20% del potenziale, arrivata al 12,1%. «Il Mezzogiorno — sottolinea il documento — oltre ad avere un reddito medio disponibile decisamente più basso del Nord e del Centro, ha anche la più accentuata disuguaglianza reddituale: il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti è 6,7 volte quello posseduto dal 20% con redditi più bassi, mentre nel Nord il rapporto è di 4,6». L’indice composto di reddito e disuguaglianza, sottolinea l’Istat, è leggermente più alto rispetto al 2013, ma di appena 0,2 punti (da 97,5 a 97,7). Anche l’indice del disagio economico aumenta leggermente, ma resta molto al di sotto del 2010. Questo è lo scenario da stagnazione in cui cresce la «deprivazione». Il 15% della popolazione maggiore di 16 anni (il 20,6% della popolazione del Sud) non può permettersi di sostituire gli abiti consumati, un quinto non può svolgere attività di svago fuori casa per ragioni economiche, un terzo non può permettersi di sostituire mobili danneggiati. La deprivazione riguarda anche i più piccoli: un bambino su 20 vive in famiglie che non 38 possono permettersi giochi per tutti i figli; il 7,7% non può permettersi di festeggiare il compleanno, né acquistare libri extrascolastici. Il 10,5% non partecipa alla gita scolastica (il 16% al sud), l’11% non dispone di uno spazio adatto per studiare. Differenze di classe Dopo i chiaroscuri percettivi o psicologici (ottimismo, soddisfazione sono le categorie usate dall’analisi), arriviamo alla lancinante materialità dei fatti. Quello che senz’altro cresce in Italia è il lavoro povero dove persiste il divario di genere. Certo, si è ridotto negli ultimi anni – annota il rapporto – ma il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è tra i più bassi d’Europa: 69,7% di uomini occupati contro il 50,3% di donne. Per colmarlo dovrebbero lavorare almeno 3 milioni e mezzo di donne in più. Anche la qualità del lavoro è peggiore per le donne, più spesso occupate nel terziario e in professioni a bassa specializzazione (in particolare le straniere). E veniamo ai giovani. Già nel rapporto Istat sull’occupazione a ottobre è emersa con prepotenza un’altra realtà del mercato del lavoro: in Italia cresce il tasso di occupazione dei lavoratori anziani over 55, mentre i lavoratori “giovani” tra i 25 e i 49 anni sono sempre più disoccupati o precari. La diminuzione del tasso di occupazione per i giovani dipende dalla difficoltà di trovare un impiego continuativo nel tempo. La condizione dei giovani è aggravata da una peggiore qualità del lavoro e da una maggiore paura di perderlo. Aumenta inoltre lo svantaggio del Mezzogiorno, l’unica area territoriale, dove l’occupazione diminuisce anche nel 2014 (tasso di occupazione al 45,3%) e dove è più bassa la qualità del lavoro. In questo scenario persiste la dispersione scolastica (il 19,3% dei 18-24enni nel Mezzogiorno contro il 12% del Nord), mentre la quota di 30-34enni che hanno conseguito un titolo universitario è al 25,3% al Nord e al 19,7% nel Mezzogiorno. E si rafforzano le differenze di classe. I figli di genitori con titoli di studio elevati o professioni qualificate abbandonano molto meno gli studi, hanno minori probabilità di diventare Neet. Il titolo di studio conseguito continua a rivestire un ruolo cruciale nella crisi. del 03/12/15, pag. 1/8 Nuovi indicatori, nuovo sviluppo Oltre il Pil. Ecco a cosa servono i 135 indicatori del Bes. Dall’Istat un nuovo modo di misurare la qualità della vita e dello sviluppo Aldo Carra Se il Pil non cresce più come prima e se questo accade per molti anni possiamo continuare a vivere con l’ansia dei decimali di Pil? Non si impone il suo superamento come indicatore di benessere economico e sociale? E non diventano necessari altri indicatori complementari o sostitutivi? Con una tempistica quasi perfetta, l’Istat l’altro ieri ci ha informati che il cavallo-Pil non vuole saperne di bere, trasmettendoci così, una vera e propria «ansia da decimali». Ieri ci ha presentato gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (Bes), destinati a ridimensionare il Pil. Questi indicatori non hanno lo stesso effetto mediatico del Pil perché si tratta di ben 134 voci raggruppate in 12 domini come salute, istruzione, lavoro…. Siamo, quindi, lontani da un solo indice confrontabile col Pil, ma siamo di fronte ad un fatto rilevante. Se, infatti, la dinamica del Pil ci fornisce un’immagine di stagnazione, se non secolare, come dicono alcuni economisti, certamente di medio periodo, non è affatto vero che, in parallelo, anche la società si è fermata. Ed allora ben vengano altri indicatori in grado di 39 dirci se in questa apparente calma piatta le acque si sono mosse e se qualcosa è cambiato, in meglio o in peggio che sia. Il fatto che non esista un indicatore unico sintetico di benessere non impedisce che si facciano dei passi avanti per indagare meglio nelle pieghe e nelle piaghe della nostra società. Abbiamo già proposto di affiancare ad un Pil corretto un indicatore di benessere economico, uno della qualità sociale, ed uno della qualità ambientale. Oggi con gli indicatori di dominio si fa un importante passo importante in quella direzione. Vediamo ciò che emerge limitandoci solo a pochi aspetti della vita delle persone e soffermandoci, dove possibile, sulle disuguaglianze territoriali, di genere, di generazione. Salute Viviamo un anno di più rispetto all’europeo medio, la qualità della sopravvivenza non migliora, crescono le disuguaglianze territoriali. Tra nord e sud il divario era di 15 punti nel 2009 è diventato di 17 punti nel 2013. La speranza di vita in buona salute è di 60 anni al nord, ma di 55 al sud. Una bella differenza. Istruzione Il dato generale che emerge è che col più grande patrimonio storico culturale al mondo viviamo di rendita e spendiamo per la cultura meno degli altri paesi europei. Il capitale umano inteso come formazione, migliora, ma la partecipazione culturale, quasi simmetricamente, diminuisce influenzata dalla crisi. Le donne in questo dominio appaiono come il sesso forte con livelli di istruzione sensibilmente più alti degli uomini. L’indice sintetico di istruzione e formazione è per la Sicilia 87, per il Trentino 125; i giovani che non studiano e non lavorano sono 19 al Nord, 36 al Sud. Lavoro Questo dominio è suddiviso in due aspetti: la partecipazione al lavoro e la qualità del lavoro. La qualità del lavoro registra un miglioramento con una maggiore soddisfazione per i contenuti. Sul grado di partecipazione al lavoro si sceglie come indicatore chiave il tasso di occupazione. Questa scelta va rimarcata proprio all’indomani dei dati di ottobre che hanno registrato uno stop all’occupazione ed una diminuzione della disoccupazione per il maggiore scoraggiamento, mentre governo e parte della stampa hanno scelto di valorizzare il dato che faceva più comodo del calo della disoccupazione. Il divario Nord Sud passa dai 36 punti del 2007 ai 41 del 2014 ed oggi il tasso di occupazione è pari al 69% al nord ed al 45% al sud. Sicurezza Gli omicidi in Italia sono meno che negli altri paesi Ue. I furti in abitazione che erano raddoppiati negli anni di maggiore crisi si sono stabilizzati, mentre i borseggi continuano ad aumentare. Omicidi e rapine sono più alti al sud, furti in abitazione e borseggi al Nord. La percezione della sicurezza presenta forti differenze ed un discrimine sembra rappresentato dalla dimensione della regione in cui si vive: più insicurezza nelle regioni piccole, meno in quelle grandi. In questi anni di crisi più che mai si è parlato di un nuovo modello di sviluppo che implica un nuovo modello di vita. Ebbene, per mettere con i piedi per terra questa idea di società occorre specificare in che cosa si concretizza il nuovo modello. quali settori vanno potenziati e quali scoraggiati. Gli altri domini sui quali non è possibile adesso soffermarci sono: benessere economico, relazioni sociali, politica ed istituzioni, benessere soggettivo, paesaggio, ambiente, ricerca ed innovazione, qualità dei servizi. È un bene che per iniziativa di Giulio Marcon molte forze politiche abbiano presentato un disegno di legge perché le prossime leggi di stabilità utilizzino il Bes per definire e misurare le politiche economiche e sociali a livello nazionale e locale. Il Bes, quindi, può diventare una guida per le politiche ed un metro di misura della loro efficacia. L’Istat ha fatto un ottimo lavoro, speriamo prosegua con la stessa determinazione nella semplificazione in pochi indicatori spendibili e soprattutto più tempestivi provando magari a fornire separatamente quelli disponibili. Costruire indicatori adeguati ad integrare il Pil è 40 compito dell’Istat. Affermare un nuovo modello di crescita e di vita è operazione ben più complessa: politica, economica, culturale. E questa spetta a noi tutti. Del 3/12/2015, pag. 12 Aumenta il benessere ma giovani e Sud sempre più esclusi Istat: crescono i redditi , non per i più deboli Confcommercio: più 5% per i consumi di Natale ROSARIA AMATO La caduta è finita e gli italiani ricominciano a guardare al futuro con fiducia. Tanto che il Natale che arriva potrebbe essere il primo con il segno più, il primo in cui andare a comprare i regali ridiventa “un’attività piacevole”. Una lettura congiunta del terzo Rapporto Bes dell’Istat (lo studio che propone una lettura “alternativa” delle condizioni del Paese rispetto a quella offerta dal Pil, focalizzata sul benessere equo e sostenibile) e delle previsioni di Confcommercio sulle spese di Natale potrebbe far pensare che la crisi sia davvero finita, e poco importa se alla fine la crescita arriverà davvero allo 0,9% («è possibile ma non semplice», valuta il presidente dell’Istat Giorgio Alleva). Si riduce la quota di famiglie che fanno fatica ad arrivare a fine del mese (nel 2014 17,9% contro il 18,8% del 2013), la povertà assoluta ha smesso di aumentare, la grave deprivazione diminuisce e l’occupazione ricomincia a crescere. Ma dalla crisi il Paese esce più diviso che mai: «Dopo la grande tempesta del 2013 e le criticità presenti dal 2008, - spiega Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’Istat - il 2014 è un anno di transizione. Si ferma la caduta e ci sono addirittura segnali di miglioramento. Le reti sociali, che hanno rappresentato un importante riferimento nella crisi, migliorano. Però tra Nord e Sud c’è una situazione speculare, in particolare rispetto a lavoro e sicurezza: il Sud si colloca ai livelli più bassi e con una dinamica peggiore per il lavoro, e la forbice è aumentata in questi anni, sia per la qualità che per la quantità del lavoro. Mentre il problema della sicurezza si accentua soprattutto per il Nord». A ben guardare anche le previsioni Confcommercio mostrano un ottimismo contenuto. E’ vero, gli italiani spenderanno 10 miliardi per i regali, il 5% in più rispetto al 2014, 116 euro a persona. Eppure il 73% prevede «una festa dimessa». «Il governo - avverte il presidente, Carlo Sangalli - non ha ancora vinto la scommessa di trasformare una ripresa economica certificata dai dati in una ripresa reale. Per fare questo bisogna ridurre le tasse, la spesa pubblica improduttiva, il deficit di legalità e la cattiva burocrazia». E cercare di bilanciare con provvedimenti mirati le gravi disuguaglianze che caratterizzano più che mai il Paese, e che la crisi ha esacerbato: «Il mio auspicio è che nella prossima manovra Pil e Bes possano viaggiare insieme, - dice il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia - in modo da permettere finalmente alla politica un confronto nuovo sulla crescita del Paese anche dal punto di vista della qualità della vita e non solo in base agli indicatori economici sempre più obsoleti e ai portafogli industriali». Qualità della vita carente soprattutto tra le famiglie numerose, monogenitoriali, “a bassa intensità lavorativa”: è qui, soprattutto nel Mezzogiorno, che si annida una povertà che la ripresa non scalfisce. Per dirla con l’Istat, «il miglioramento osservato in termini di diffusione della grave deprivazione» non intacca «la componente persistente del disagio». A soffrirne soprattutto i più deboli, i bambini: al Sud il 9,2% non può permettersi di invitare gli amici per giocare o mangiare insieme, il 16% non può partecipare alle gite scolastiche e 41 il 14,7% non dispone di uno spazio adeguato per studiare. E il 7,7% dei bambini italiani non può permettersi neanche di festeggiare il compleanno. Del 3/12/2015, pag. 24 Filantropi da 358 miliardi l’anno L’era dei super-ricchi buoni Zuckerberg, Gates, Soros: sempre più spesso i grandi capitalisti puntano sulla beneficenza Colmano le carenze dei governi, soprattutto nei paesi poveri. Ma c’è chi li attacca: solo trucchi ETTORE LIVINI ROBIN Hood può mettersi il cuore in pace. Rubare ai ricchi per dare i poveri non serve più. I ricchi del mondo sono così ricchi che a dare ai poveri, ormai, ci pensano direttamente loro. Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook che girerà in beneficenza il 99% delle sue azioni (valore 45 miliardi di dollari) tenendo per sè la miseria di 450 milioni, è solo l’ultimo arrivato nella lista dei Paperoni che d’oro, oltre al conto in banca, hanno pure il cuore. I 10 uomini più generosi d’America, da Bill Gates a Tim Cook (Apple) da George Soros a Michael Bloomberg, hanno donato a fin di bene lo scorso anno la bellezza di 7 miliardi. L’ex patron di Microsoft e Buffett — il Re Mida di Wall Street — hanno devoluto da soli in un decennio 51 miliardi. E assieme hanno lanciato “The Giving Pledge”, una sorta di cartello della bontà dove gli uomini più ricchi del mondo si impegnano a lasciare tutti i loro averi al prossimo. Appello raccolto finora da 138 persone che valgono (beate loro) 610 miliardi, il triplo del pil della Grecia. Una pioggia di denaro che sta cambiando il volto del welfare mondiale dove il “filantrocapitalismo” si sostituisce sempre più spesso — senza controlli e senza pianificazione, dicono i critici — agli Stati e alle istituzioni, privi della potenza di fuoco dei nuovi miliardari del pianeta. Una cosa, ovviamente, è certa. Pecunia — come dicevano i latini — non olet. E chi riesce a dribblare una malattia ad alto tasso di mortalità grazie a una profilassi nel cuore della savana in Africa non si preoccupa se a pagare il vaccino è l’Unicef o un tycoon a stelle strisce. La verità però è che in un mondo dove l’1% delle persone controlla il 40% della ricchezza e il pubblico è a corto di liquidità, a tappare i buchi dove il bene non genera profitto sono sempre più spesso i benefattori privati. I colossi della farmaceutica, per dire, hanno poco interesse a sviluppare campagne antimalaria perché i paesi che avrebbero bisogno dei loro prodotti — quelli più poveri — non hanno i soldi per pagarli. Risultato: a fare da supplente è arrivata la Fondazione Bill Gates che stanziando 3,6 miliardi ha coperto ben più della metà dei fondi a disposizione per debellarla. Stesso discorso per la poliomelite. Oms & C. hanno lanciato in pompa magna un piano per sradicarla. Chi paga? Non Pantalone. Anzi. Degli 11 miliardi stanziati tra il 1985 e il 2018, poco più di 2 arrivano dal Governo Usa e una somma simile dal fondatore di Microsoft. L’Oms ha stanziato appena 162 milioni e l’Unicef 212. I super-ricchi, insomma, stanno privatizzando surrettiziamente — una donation alla volta — una fetta di quello che dovrebbe essere un servizio pubblico. Zuckerberg ha regalato nel 2010 100 milioni alle scuole statali di Newark. Li Ka Shing di Hutchison Whampoa (tlc) ha dato in beneficenza decine di milioni per soccorrere le vittime di alluvioni in Cina. Bloomberg ha stanziato 42 milioni per aiutare le municipalità Usa a digitalizzarsi. Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo, ha girato 100 milioni al Wwf per salvare le foreste 42 messicane. Azim Premji di WiPro ha firmato un assegno da 8 miliardi per sostenere le scuole pubbliche indiane. Il tutto, naturalmente, è fatto quasi sempre nel massimo della trasparenza, come si conviene a imprenditori cresciuti a Wall Street. I conti della fondazione Gates, per dire, sono certificati dollaro per dollaro da Kpmg. Scrupolo che non è bastato a salvarla dalle polemiche. Alcune Ong hanno contestato gli investimenti della liquidità in azioni a rischio “etico”: un miliardo sui combustibili fossili, qualche milione su Coca-Cola e McDonald. Altre criticano i suoi stanziamenti in agricoltura sostenibile (500 milioni nel 2015) per il rischio di uso di semi Ogm. James Love, dell’Ong Usa Knowledge Ecology, sostiene che «chiunque voglia fare carriera all’Oms deve avere buone relazioni con i coniugi Gates». Che con 140 milioni girati all’organizzazione nel 2015 sono tra i suoi maggiori finanziatori. Nel tritacarne è finito pure Zuckerberg, reo di aver costituito per le sue donazioni una Spa ad hoc. «È più flessibile — dice lui — e gli eventuali profitti vanno per statuto a fin di bene». «Storie, serve a dribblare le tasse», accusano in queste ore i suoi detrattori. Altro punto dolente, l’uso “promozionale” della beneficenza dei nuovi ricchi. I docenti dell’università di Oxford, ad esempio, hanno contestato l’ok ai 75 milioni di sterline dell’oligarca Lev Blavatnik per sponsorizzare la cattedra della Bravatnik school of government. Il tycoon, dicono, sarebbe stato tra i promotori di una campagna contro Bp che ha costretto molti inglesi a lasciare la Russia. Le polemiche però non bastano a frenare lo tsunami di donazioni. Nel 2014 gli americani hanno stanziato 358 miliardi, riportando il totale ai livelli pre-Lehman. «Morire pieni di soldi è una disgrazia », sosteneva Andrew Carnegie, pioniere a inizio ‘900 della beneficenza seriale. In molti, specie chi i soldi li conta in miliardi, hanno deciso di prenderlo in parola. 43 DIRITTI CIVILI E LAICITA’ del 03/12/15, pag. 6 Il vescovo a scuola insegna omofobia Sassari. Altro «no» per Paolo Atzei, il vicepresidente della Conferenza episcopale sarda. «Incontro diseducativo e pericoloso»: la protesta degli studenti del liceo Azuni dopo la visita del prelato. Il Mos: «Bene il rifiuto dei maestri» Costantino Cossu SASSARI Dopo il caso scoppiato nei giorni scorsi per il «no» di una scuola elementare alla visita del vescovo Paolo Atzei per Natale, il prelato che regge la diocesi sassarese è ora protagonista di una nuova polemica. Il Movimento omosessuale sardo (Mos), una delle maggiori organizzazioni gay in Sardegna, lo accusa di aver rilasciato dichiarazioni contrarie ai diritti dei gay durante un incontro avvenuto, in orario scolastico, lo scorso 19 novembre nell’aula magna del liceo classico “Domenico Alberto Azuni”. «Incredibili e vergognose — scrive il Mos in un comunicato diffuso ieri — le polemiche di questi giorni su scuola e religione. Dopo l’inesistente caso Rozzano, montato ad arte dalla Lega e riportato senza alcuna verifica sul reale andamento dei fatti da buona parte della stampa nazionale, ecco che scoppia il caso San Donato. Una scuola considerata un’eccellenza in tema di integrazione viene messa alla berlina per aver considerato la visita del vescovo un po’ invasiva e di difficile gestione e aver proposto, in alternativa, un incontro in chiesa». Il Mos racconta poi di avere ricevuto una lettera di un gruppo di studenti dell’ “Azuni” in cui si denunciano le dichiarazioni di Atzei sui gay. «L’omosessualità — avrebbe detto il vescovo — può manifestarsi nella prima parte della vita di una persona (ossia infanzia ed adolescenza), ma la maturità sessuale si raggiunge solo nell’eterosessualità». «Omosessuali quindi — scrivono gli studenti al Mos — come immaturi e infantili a cui deve perciò essere negato il diritto all’adozione». «Non stiamo adottando un cagnolino — avrebbe infatti detto il vescovo — Si adotta un bambino. Un bambino è una vita!». «Se per qualcuno è difficile — commenta il Mos — capire le motivazioni della decisione della scuola di San Donato di non rompere l’equilibrio faticosamente trovato tra diverse culture, religioni e provenienze geografiche, a noi sembra invece che le motivazioni di quella decisione siano ulteriormente rafforzate da quanto accaduto al liceo “Azuni”: Paolo Atzei intimorisce gli studenti gay e lesbiche e crea un humus fertile all’omofobia ed alla discriminazione di genere». «Avevamo pensato di evitare i riflettori — aggiunge Barbara Teti, presidente del Mos — e gestire la cosa con il liceo Azuni chiedendo al preside Massimo Sechi un incontro “riparatore”, così come richiesto dagli stessi studenti. Ma dopo le polemiche degli ultimi giorni abbiamo ritenuto doveroso intervenire, chiarendo perché abbiamo sempre giudicato sconveniente l’ingresso di esponenti religiosi, di qualunque religione, all’interno della scuola, che è e deve rimanere un’istituzione laica». «Le istituzioni religiose — conclude Barbara Tetti — hanno i loro spazi per incontrare chiunque nelle occasioni che ritengono importanti. Abbiamo sempre rispettato tutte le religioni e spesso ci troviamo a difendere i musulmani dalla nuova ondata di razzismo che 44 li ha investiti, pur consapevoli che l’Islam ci condanna quanto e più del cattolicesimo. Ma il rispetto, sconosciuto in questo periodo di terrorismo mediatico e non solo militare, presuppone conoscenza delle diverse realtà e non indottrinamento religioso. Per questo abbiamo sempre difeso l’idea di una scuola inclusiva, laica e non confessionale, così come dovrebbe esserlo lo stato e tutte le sue istituzioni, comuni e sindaci compresi». Nel mirino del Movimento omosessuale sardo è il sindaco di Sassari Nicola Sanna (Pd). «Ritengo che la visita pastorale del vescovo Paolo Atzei a San Donato — ha scritto nei giorni scorsi il sindaco per motivare la sua contrarietà alla decisione della scuola — sia uno dei tanti riti di vicinanza per dimostrare la volontà di incontrare, conoscere e ascoltare il prossimo e che non presupponga una scuola confessionale ma una scuola aperta a tutti». Il Mos ribatte: «Al sindaco, espressione di una maggioranza di centrosinistra, che dovrebbe essere il sindaco di tutte e di tutti, compresi coloro che vengono discriminati dalle religioni, rispondiamo con le parole degli studenti del liceo classico “Azuni”: “Incontri del genere sono del tutto diseducativi o addirittura pericolosi e dannosi. Riteniamo pertanto che debbano essere evitati” ». del 03/12/15, pag. 6 Maurice ha 30 anni. E ancora non si accontenta Torino. I «rompiscatole» dello storico circolo lgbt italiano si raccontano. «La battaglia per i diritti di coppie e famiglie va legata a quella contro lo smantellamento dello stato sociale» Jacopo Rosatelli TORINO Compie trent’anni un gruppo di «rompiscatole». Così si autodefinisce il Circolo Maurice di Torino, ovvero una delle tessere più preziose del variegato mosaico del movimento lgbt italiano. Un collettivo di persone abituate a disturbare non solo l’ordine etero-normativo, quella «normalità» oppressiva in base alla quale «tutti nascono eterosessuali» e come tali vengono naturalmente educati, ma anche il mainstream (vero o presunto che sia) dello stesso movimento per i diritti civili di gay e lesbiche. Piantagrane, ma non per il gusto di essere bastian contrari: a muovere il collettivo del Maurice, oggi come trent’anni fa, è lo spirito di ricerca, la curiosità verso le infinite differenze, e un istinto di critica verso ogni ingiustizia socialmente prodotta. Rivisitiamo la storia del circolo insieme a Christian Ballarin, Cristian Lo Iacono e Roberta Padovano, attivisti di differenti generazioni che incontriamo nella sede via Stampatori. Siamo nel pieno centro storico di Torino, al piano terra di un edificio di proprietà comunale rimasto, per ora, al riparo dalla gentrification, il «risanamento» a uso di chi se lo può permettere. «Il Maurice nasce nel difficile periodo della diffusione dell’Aids, che i giornali definivano ‘la peste gay’. In origine è un gruppo informale di soli uomini, quasi tutti ex componenti del Collettivo omosessuale della sinistra rivoluzionaria (Cosr). Poi arriva l’affiliazione ad Arcigay e, nel 1989, la scelta di darsi un nome, ricavato dal film tratto dal romanzo di Edward M. Forster». L’impegno degli inizi è soprattutto nella difesa dell’identità omosessuale dallo stigma della malattia, ma a orientare l’azione del circolo è anche l’interesse politico verso il femminismo. Che porta all’ingresso di alcune donne, le prime di una componente femminista e lesbica destinata a crescere in fretta, parallelamente all’aumento del 45 protagonismo delle donne all’interno del movimento omosessuale nazionale. Nel quale, però, la condivisione degli stessi spazi regge solo fino al ’96, quando Arcigay e Arcilesbica si separano. Al Maurice non succede: meglio la mixité. Donne e uomini scelgono di continuare il loro percorso comune, e il circolo esce dal circuito di Arcigay. «Rompemmo con l’associazione nazionale perché volevamo tenere insieme ‘la g e la l’, ma anche in polemica con pratiche troppo verticistiche». Ecco, i (e le) rompiscatole. Che nel frattempo intrecciano il loro cammino con quello del sindacato — la Cgil ma anche i Cobas -, del Comitato di solidarietà con la Palestina, delle lotte contro i Centri di detenzione dei migranti, e dei centri sociali torinesi. Un legame, quest’ultimo, che ancora resta, come testimonia la festa dei trent’anni («pestiferi», ça va sans dire), sabato scorso, ospitata dal csoa Gabrio a Borgo San Paolo, storico quartiere operaio della città. La stagione dei social forum vede il Maurice presente: Genova, Firenze, Parigi. «Era ed è fondamentale, per noi, lo sguardo glocal, cioè pensare globalmente, ma agire localmente: a Torino in quegli anni otteniamo un piccolo grande risultato, la nascita del servizio lgbt del Comune». All’interno del «movimento dei movimenti» si sviluppa la riflessione intorno al nesso fra soggettività lgbt e neoliberismo. E qui trova spazio l’analisi critica del significato dell’affermazione dei diritti civili. Una causa giusta, naturalmente, ma che porta con sé insidie che non possono essere sottovalutate. «Abbiamo riflettuto molto sulla figura paradigmatica di Pim Fortuyn, il politico liberal-populista olandese capostipite dell’islamofobia europea, assassinato nel 2002 quando mieteva consensi crescenti. Omosessuale, difendeva i diritti lgbt come ‘diritti occidentali’ che contrapponeva al ‘pericolo dell’islamizzazione’: esempio emblematico di ciò che chiamiamo ‘omonazionalismo’». Il rifiuto della strumentalizzazione dei diritti di gay e lesbiche per legittimare politiche discriminatorie nei confronti dei migranti è un tema caro alla filosofa americana Judith Butler, fra le referenti teoriche del Maurice («ma non abbiamo ortodossie»). All’interno del circolo un ricco centro di documentazione testimonia dell’impegno culturale: se si deve usare un’etichetta, l’orientamento è queer, che significa, fra l’altro, non accettare l’immagine della comunità lgbt «appiattita sui nativi e sui loro bisogni». «Il nostro circolo — raccontano gli attivisti — è stato tra i primi a supportare le richieste di asilo di omosessuali migranti, rifiutando però la retorica dell’accoglienza ‘neocoloniale’: noi non diciamo ‘vieni da noi perché nel tuo Paese sono dei barbari’». La mixité che contraddistingue il Maurice si nutre anche di una forte componente transessuale e transgender, che è venuta nel corso degli anni sempre più aumentando la propria visibilità, ma anche contaminandosi con le altre, come reso evidente dalla recente seconda edizione della Trans Freedom March per le strade torinesi — appuntamento vissuto come proprio da tutto il movimento lgbt riunito nel «Coordinamento Torino pride». Al circolo, il primo spazio di condivisione, al di là dell’assemblea generale, dalla fine degli anni ’90 è la serata del martedì, quella delle donne: «Uno spazio separato ma non separatista, dove le donne trans furono da subito le benvenute, perché la visione ‘essenzialista’ dell’essere donna non ci è mai appartenuta». Uno dei fiori all’occhiello del circolo è lo sportello per le persone trans che necessitano consulenza psicologica, medica o legale, per affrontare la transizione, ma anche i problemi della vita quotidiana. Cosa vive, oggi, delle origini rivoluzionarie del gruppo? «Ad esempio il non riconoscersi in un’idea astratta dell’identità lgbt: viviamo in un mondo dove ci sono primi ministri dichiaratamente gay, ma il livello di libertà di ciascuna persona omosessuale o trans è condizionato dalle differenze economiche, dal retroterra sociale, dall’essere nativi o migranti». Accenti diversi da quelli di chi, nel movimento, insiste solo sui diritti delle coppie e delle famiglie omo-parentali. «Intendiamoci: è giusto rivendicare il matrimonio 46 egualitario, ma non bisogna fermarsi a quello. Da un lato, occorre mettere in relazione questa battaglia per i diritti di coppie e famiglie con tutte le forme di resistenza allo smantellamento dello stato sociale, perché il rischio è ottenere qualcosa che esiste sulla carta ma, nella realtà, viene cancellato dalle politiche neoliberiste. E dall’altro serve pensare a tutele per relazioni affettive di tipo diverso, praticate nella nostra comunità, che non sono riducibili al modello matrimoniale della coppia ‘unita per sempre’». Nelle parole degli attivisti si riconosce l’eco del pensiero della differenza: vanno bene i diritti, ma non solo quelli che «rendono uguali». Nessuna paura di venire confusi con i fautori delle unioni civili come «specifica formazione sociale»: «Il problema del ddl Cirinnà, in discussione al Senato, è che crea un istituto ad hoc al solo scopo di non concedere il matrimonio egualitario. Noi invece vogliamo il matrimonio e altre forme di riconoscimento dei nostri legami affettivi e di solidarietà». Difficile accontentarli, questi rompiscatole. 47 BENI COMUNI/AMBIENTE del 03/12/15, pag. 5 Per Obama al Congresso il clima si fa pesante Usa. Per i repubblicani l'ambiente non è una priorità. Così le promesse fatte dal presidente statunitense alla Cop21 si infrangono subito contro il no della Camera alle norme che limitano le emissioni di gas nocivi. In questo modo anche la campagna elettorale si surriscalda Marina Catucci NEW YORK La Camera dei Rappresentanti di Washington ha votato due risoluzioni, già passate al Senato, in contrasto con le norme volute dalla Environmental Protection Agency, l’agenzia per la tutela dell’ambiente, norme finalizzate a limitare del 30 per cento, nell’arco di 15 anni, le emissioni di gas a effetto serra e ad implementare leggi più rigorose per le future centrali termiche. Questa votazione arriva poche ore dopo il discorso di Obama a Parigi durante il summit per il clima Cop21, dove Obama aveva dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero guidato gli sforzi dei paesi in cerca di una risposta globale al cambiamento climatico. «C’è bisogno di un programma a lungo termine» aveva detto il presidente statunitense nel suo discorso di Parigi, ma il voto della camera manifesta come Obama non possegga il pieno sostegno del suo governo in materia di politica climatica. Le due leggi son passate rispettivamente con 242 voti favorevoli e 180 contrari e 235 voti contro 188, dopo esser state approvate dal senato con un margine identico di 52–46, segnalando comunque che i leader del congresso repubblicani non sarebbero in grado di raccogliere la maggioranza dei due terzi necessaria per una sostituzione. Obama porrà il veto a queste due risoluzioni ma resterà la prova della distanza sulle questioni interne tra Obama e il Congresso e della difficoltà nel mantenere le promesse fatte a Parigi sulla riduzione dei gas e il sostegno politico ed economico all’utilizzo di energie alternative. Il problema del passaggio di consegne alla casa banca previsto tra un anno, era già sorto durante il summit di Parigi, durante la conferenza stampa Obama aveva dovuto rispondere più volte a domande inerenti al futuro delle posizioni americane in tema di politica climatica durante la prossima amministrazione che, se in mano ai repubblicani, lascia poche speranze alla difesa dell’ambiente. Nelle stesse ore dai banchi repubblicani non arrivavano voci confortanti, come quella del senatore del Wyoming, John Barrasso, che, in un’intervista, ha affermato: «L’ambiente non è assolutamente una priorità per il popolo americano, mentre lo sono il lavoro, l’economia e la sicurezza interna». Questo scontro pubblico tra il presidente degli Stati Uniti e il congresso a maggioranza repubblicana si inserisce nel quadro di una campagna elettorale cominciata da mesi, inasprendo ulteriormente un rapporto che non è mai stato idilliaco. I campi dove si sono scontrati in questi mesi la Casa bianca e il congresso sono stati spesso unicamente funzionali alla campagna elettorale, come l’Obamacare su cui il senato in questi giorni sta considerando un disegno di legge che ne abroghi le parti principali e tolga fondi ai consultori; questa mossa ha l’unico scopo di portare Obama a mettere un 48 veto e di dimostrare all’elettorato repubblicano che i loro rappresentanti non si sono rassegnati all’Obamacare. Altro terreno di scontro elettorale è quello inerente alla sicurezza interna e al rapporto con i rifugiati siriani, la cui accoglienza tanto i candidati democratici, quanto il presidente in carica, non mettono in discussione, mentre i repubblicani cancellerebbero immediatamente il programma. Su questo argomento molti governatori, come quello del New Jersey candidato alle primarie del suo partito, Chris Christie, hanno dichiarato che il loro stato non accetterà nessun rifugiato siriano, «nemmeno un bambino di 5 anni orfano», ha tenuto a precisare Christie. Questa dichiarazione ha poco spazio di attuazione in quanto anche se è vero che per cambiare residenza un rifugiato deve chiedere di essere accettato nei diversi stati dell’unione, è altrettanto vero che nessuno può impedirgli di viaggiare all’interno degli Stati Uniti. Mosse di propaganda, quindi, che vengono agite allo scopo di evidenziare la spaccatura tra i due partiti, e sul tema dell’ambiente ciò è ancora più evidente. Se per i repubblicani questo non è una priorità, per i democratici, lo è, in quanto, come afferma Bernie Sanders, il rivale principale di Hillary Clinton alle primarie democratiche, non esistono suddivisioni tra i temi dell’economia e quelli dei diritti civili, dell’ambiente e del lavoro; privilegiando un tipo di economia rispetto a un altro meno sostenibile a livello ambientale, si garantiscono anche meno diritti ai lavoratori delle classi più deboli, che nella società americana sono rappresentati dalla popolazione nera. del 03/12/15, pag. 5 «Un tribunale per il pianeta» L’alba a Parigi. Le proposte dei popoli indigeni su giustizia ambientale e riparazione Geraldina Colotti «I cambiamenti climatici colpiscono soprattutto i poveri e gli affamati», ha ricordato la Fao alla Cop21 di Parigi. Un recente studio dell’organizzazione mostra che nei paesi in via di sviluppo siccità, inondazioni, tempeste e altre catastrofi innescate dai cambiamenti climatici sono aumentane d’intensità e frequenza negli ultimi tre decenni. Circa il 25% dell’impatto economico negativo delle catastrofi colpisce i settori dell’agricoltura, dell’allevamento e delle foreste. I popoli indigeni e tribali sono i più esposti, soprattutto nei paesi in cui non hanno trovato una vera rappresentanza. I nativi abitano circa l’80% delle zone più ricche di biodiversità al mondo e le loro riserve sono una cruciale difesa contro la deforestazione. Pur essendo i meno responsabili per quel riguarda il riscaldamento globale, gli effetti del cambiamento climatico mettono a rischio la loro stessa sopravvivenza. In vista di Parigi, in ottobre le organizzazioni indigene hanno avanzato le loro proposte nel Vertice mondiale dei popoli di Tiquipaya, in Bolivia. Proposte trasmesse a Parigi dai governi socialisti dei paesi dell’Alba. Al centro, il tema della giustizia ambientale e della riparazione. Così, il presidente ecuadoriano Rafael Correa, alla Cop21 ha annunciato come «principale proposta» contro il cambio climatico la creazione di una Corte internazionale di giustizia ambientale per proteggere i diritti della natura. «Ascoltami, pianeta – ha detto Correa – niente, assolutamente niente giustifica che esistano tribunali per proteggere gli investimenti, per pagare debiti finanziari, e che non ve ne siano per proteggere la natura e 49 costringere a pagare i debiti ecologici». Quella che impera – ha aggiunto Correa – è «la logica perversa per privatizzare i benefici e socializzare le perdite a scapito della natura». Per questo, il leader ecuadoriano ha proposto un trattato mondiale che dichiari le tecnologie capaci di limitare il cambiamento climatico come beni comuni globali, e che ne garantisca il libero accesso. Altrimenti – ha detto ancora citando il dialogo tra Trasimaco e Socrate — «la giustizia è l’utile del più forte». Una delle principali questioni, infatti, è chi e come debba contribuire al fondo di 100 mila milioni di dollari annuali che, per una decisione presa al vertice di Copenhagen del 2009, deve essere versato ai paesi in via di sviluppo a partire dal 2020: affinché abbiano accesso alle tecnologie più pulite, riducano la deforestazione e possano proteggersi dagli effetti del cambiamento climatico provocato soprattutto dai paesi sviluppati. Senza appello anche l’atto d’accusa del presidente boliviano Evo Morales, a Parigi per chiedere il riconoscimento della Madre Terra come soggetto di diritti. «La Madre Terra sta pericolosamente avvicinandosi al crepuscolo del suo ciclo vitale – ha detto – la cui causa strutturale e responsabilità risiede nel sistema capitalista. Se continuiamo sul cammino tracciato dal capitalismo, siamo condannati a scomparire». Le responsabilità principali sono di quei paesi che promuovono un modello predatorio: «Non possiamo mantenere un silenzio complice di fronte a questa catastrofe di proporzioni planetarie e a un modello che ha introdotto e favorito la formula più selvaggia e distruttrice della nostra specie, trasformando tutto in merce a vantaggio di pochi», ha detto ancora Morales. Che alla Cop21 ha poi presentato le conclusioni del Vertice dei popoli di Tiquipaya racchiuse nel manifesto «Salvare la Madre Terra, salvare la vita». Ma da quell’orecchio i grandi inquinatori fingono di non sentire. E per questo la popolazione di un piccolo villaggio dell’Amazzonia ecuadoriana (1.200 persone) ha deciso di recarsi a Parigi. Senza troppe illusioni, vista l’andatura del vertice e il nonriconoscimento del loro ruolo di attori principali nella difesa contro le politiche estrattive e nel mantenimento delle selve tropicali: ma con la consapevolezza che fosse meglio esserci che non farsi vedere. La maggior parte delle organizzazioni indigene latinoamericane, però, è rimasta nei propri paesi. Quelle venezuelane hanno presentato le loro proposte in campagna elettorale attraverso i propri rappresentanti (verranno eletti 3 deputati indigeni su un totale di 167 ). In Venezuela, le popolazioni native pesano sulle decisioni che riguardano i loro territori e l’eco-socialismo è un punto imprescindibile del programma strategico del governo bolivariano. In tutta l’America latina che scommette sul Socialismo del XXI secolo, è forte il rigetto per i segretissimi accordi conclusi da Washington nell’ambito del Tpp. Per questo, in parallelo al vertice di Parigi, si è manifestato in Perù, in Colombia, in Messico, in Cile… In Honduras, la polizia ha distrutto una strada, ma i rappresentanti del Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (Copinh) l’hanno rimessa a posto, e la marcia indigena contro il progetto idroelettrico Agua Zarca nel fiume Gualcarque è proseguita. E all’università di Buenos Aires, in Argentina, dall’1 al 3 dicembre si svolgerà un incontro internazionale latinoamericano di Comunicazione contadina indigena dal titolo «Territori in movimento», voci molteplici. Il 5 dicembre è prevista una manifestazione in relazione ai contenuti di Parigi. Per gli indigeni del sud del mondo, la consegna è univoca: «Cambiare il sistema per cambiare il clima». 50 Del 3/12/2015, pag. 14 “All’Ilva hanno sotterrato rifiuti tossici e nocivi” Il Noe: sotto il reparto carpenteria cromo, nichel e “materiali radioattivi” di Francesco Casula L’Ilva dovrà attivare tutte le necessarie misure di prevenzione e procedere alla rimozione dei rifiuti”. È l’ordine impartito dal ministero dell’Ambiente ai vertici della fabbrica di Taranto in merito all’inquietante scoperta fatta dai carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di Lecce. Cromo, vanadio e altri rifiuti pericolosi tombati sotto il reparto carpenteria dello stabilimento, quello nel quale, su circa 200 lavoratori, una decina sarebbero affetti da tumore alla tiroide. Un male che secondo la Procura di Taranto al momento non è riconducibile con certezza alle condizioni di lavoro degli operai, tanto da chiedere l’archiviazione delle indagini aperte dopo la morte di Nicola Darcante, 39enne ucciso proprio da un cancro alla tiroide nel maggio 2014. Per i pubblici ministeri, Lanfranco Marazia e Antonella De Luca, infatti, gli accertamenti svolti finora non avrebbero permesso di raccogliere elementi “idonei a sostenere” in un processo penale che il tumore sia stato la conseguenza delle esposizioni a sostanze nocive presenti all’interno delle officine Ilva. Eppure in quelle poche pagine, i magistrati hanno denunciato l’esistenza di una vera e propria discarica di rifiuti pericolosi proprio sotto i piedi degli operai. Si tratta di “numerose gallerie” e “tre locali interrati” nei quali sono stati accumulati scorie di produzione e metalli pesanti come cromo, nichel e vanadio “in valori superiori ai limiti” consentiti. Ma c’è di più. La procura parla di accumulo di materiali anche “a componente radioattiva” che sarebbe stato interrato “nel tempo” certamente prima del 1997, anno di costruzione del capannone dell’officina Carpenteria. Al momento, secondo le indagini svolte dai carabinieri del Noe, dall’Arpa e dall’ispettorato del lavoro non vi sarebbe alcun allarme per i lavoratori: i livelli di radioattività nel capannone “sono tutti confrontabili – si legge negli atti dell’inchiesta – con i livelli di radioattività ambientale di fondo misurati nel piazzale esterno”. Ma sulla nocività delle sostanze non ci sono dubbi. Insomma i rifiuti sarebbero stati interrati prima del 1997, a cavallo tra la gestione di Stato e i primi anni dell’era dei Riva. Soprattutto non è chiaro chi li abbia tombati. Non gli attuali commissari specifica la procura poiché “in carica da poco più di un anno”, ma la sola presenza di questa discarica abusiva di rifiuti pericolosi, però, è a dir poco inquietante per gli operai che quotidianamente di ritrovano a lavorare in quegli ambienti. E così, dopo la segnalazione dei militari guidati dal maggiore Nicola Candido, il ministero dell’ambiente, lo scorso 9 novembre, ha ordinato all’azienda di bonificare la zona, ma al momento la risposta dell’Ilva non appare confortante. In una lettera l’azienda avrebbe infatti cercato di confutare l’attendibilità dei dati raccolti dagli inquirenti facendo leva su ulteriori dati raccolti alla presenza dei tecnici Ilva e che avrebbero dato esito differente. Ma gli allarmi nel capoluogo ionico sembrano non finire mai. Nei giorni scorsi, l’associazione ambientalista Peacelink ha chiesto al sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, di emanare un’ordinanza per chiudere le cokerie dell’Ilva in vista delle prossime settimane in cui il vento da nordovest spingerà gli idrocarburi policicli aromatici (Ipa) dalla zona industriale verso la città. Dati confermati anche dall’Arpa che oltre al picco segnalato da Peacelink nelle prime ore del giorno, ha anche evidenziato tra i dati pubblicati sul sito un valore di Ipa particolarmente elevato nel pomeriggio. La centralina, in questo caso è quella del quartiere Tamburi, il più 51 vicino agli impianti. Perché nonostante i proclami e i decreti, l’acciaieria continua a produrre e a inquinare mentre cittadini e operai restano continuamente esposti alle emissioni. Più basse rispetto al passato, ma non certo meno nocive. Del 3/12/2015, pag. 37 Vitelli senza corna e galline che fanno nascere solo femmine: le nuove tecniche di modifica del Dna puntano al mondo animale. E c’è chi pensa già a intervenire sull’uomo L’appello: fissiamo un limite Dal supersalmone al maiale bonsai la grande corsa verso lo zoo Ogm ELENA DUSI UN tempo ogm era sinonimo di mais o soia. Oggi lo sta diventando anche di pesce, mucca, capra e maiale. Due settimane fa gli Stati Uniti hanno dato il via libera, tra le proteste dei consumatori, alla vendita del salmone ogm, capace di crescere il doppio del normale. Ma sono mesi che America e Cina gareggiano per estendere lo zoo degli animali con il Dna modificato. Maiali, mucche, capre, pecore e lo stesso salmone, se producono più carne rendono l’allevamento più conveniente. Ma lo stesso non si può certo dire dei maialini bonsai del colosso della genetica cinese Bgi-Shenzen. All’International Biotech Leaders Summit, lo scorso 23 settembre, i leader dell’azienda hanno annunciato la vendita di questi animali da compagnia, ingegnerizzati per non superare la taglia di un cagnolino (15 chili), a 1.600 dollari l’esemplare. E sempre in Cina — dove pure l’opinione pubblica è molto critica dei confronti degli ogm vegetali — ha annunciato il Journal of molecular cell biology, sono nati dei beagle muscolosi e velocissimi nella corsa, con il Dna manipolato per avere zampe e pettorali di acciaio. Nell’arca degli animali ogm sono entrati in primavera anche due vitellini senza corna, nati nello Iowa dall’azienda Recombinetics per evitare la pratica dolorosa della loro rimozione. E una cucciolata di maiali — creati da quel Roslin Institute di Edinburgo che diede la paternità alla pecora Dolly — resistenti alla febbre suina. Presto, se le difficoltà tecniche saranno superate, negli Usa arriveranno galline che fanno nascere solo femmine (per avere più uova) e mucche con una prole solo maschile (più conveniente da allevare), scrive il New York Times. Ottenere questi risultati è semplice, in teoria. Basta regolare il gene che controlla la caratteristica desiderata negli organismi. Nel caso del salmone, lo sviluppo naturale è limitato ad alcune stagioni dell’anno, ma può essere reso permanente modificando il Dna. Il pesce può così arrivare sul bancone in 20 mesi invece dei normali 36. Effetto simile si ottiene nei mammiferi silenziando un gene che limita lo sviluppo dei muscoli. Eppure erano anni che allo Shaanxi Research Center, in Cina, provavano a ingegnerizzare il genoma delle capre per ottenere carni abbondanti e pelo fluente. La vera svolta, ammettono i ricercatori nel numero di settembre di Scientific Reports — quello in cui hanno presentato al mondo le loro capre maggiorate — è stata l’invenzione del metodo “Crispr”. Introdotto un paio di anni fa, questo sistema che prende in prestito una sorta di “forbice per il Dna” usata dai batteri, ha reso l’ingegneria genetica semplice come un copia e incolla. Rendendo le alterazioni genetiche degli animali trasmissibili da una generazione all’altra. Sfruttando la diffusione dei geni modificati con Crispr all’interno di una specie, i ricercatori pensano ora di poter debellare la malaria. Una settimana fa l’università della California a Irvine ha annunciato di aver creato zanzare non infettabili dal parassita Plasmodium. E 52 quindi incapaci di trasmettere la malaria agli uomini. Per ora le zanzare ogm sono guardate a vista in laboratorio. Trasformare un’intera specie animale in modo così radicale e irreversibile è infatti impresa da meditare a fondo. E forse, un giorno, l’ultima specie a diventare ogm sarà proprio l’uomo. Crispr potrebbe facilitare la cura delle malattie genetiche. Ma se fosse applicata agli embrioni, la tecnica inserirebbe delle modifiche del Dna che diventerebbero permanenti in tutti gli eredi. Proprio in questi giorni, a Washington, gli inventori e i maggiori esperti di Crispr provenienti da Cina, Usa e Gran Bretagna sono riuniti per decidere quali limiti porre al loro potente strumento. Dovranno decidere se vietare o meno la tecnica sugli embrioni umani. Ad aprile, in Cina, un gruppo dell’università di Canton aveva già annunciato di essere intervenuta su un gruppo di embrioni difettosi, solo per fini di ricerca e non per far nascere uomini ogm. 53 INFORMAZIONE del 03/12/15, pag. 1/2 Liberate Dündar e Gül Libertà di stampa. Direttore e caporedattore di "Cumhuriyet" accusati di spionaggio per un articolo sul traffico di armi verso la Siria. Incarcerati su denuncia del presidente turco Erdogan Dimitri Bettoni * ISTANBUL Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet è stato arrestato il 26 novembre scorso dalle autorità turche insieme ad Erdem Gül, capo della redazione di Ankara dello stesso giornale. I due sono stati fermati con l’accusa di aver divulgato lo scorso maggio notizie sul sequestro e la perquisizione di alcuni camion appartenenti ai servizi segreti turchi (Mit) carichi di armi e diretti in Siria. L’accusa a carico dei due giornalisti è di spionaggio politico e militare, divulgazione di informazioni coperte da segreto di stato e propaganda a favore di organizzazioni terroristiche, più precisamente quella che fa capo al predicatore islamico Fetullah Gülen. Esule da anni negli Stati Uniti, Gülen è stato un tempo alleato del presidente Recep Tayyip Erdogan, ma oggi è accusato di essere l’architetto del cosiddetto «stato parallelo» contro cui le operazioni di polizia si contano ormai a centinaia. In particolare, i giornalisti di Cumhuriyet sono accusati di aver costruito notizie false attraverso informazioni ricevute dall’organizzazione di Gülen, allo scopo di dare un’immagine della Turchia come collaboratrice di gruppi terroristi. L’arresto è l’esito di un’indagine lanciata a fine maggio scorso, quando Cumhuriyet aveva pubblicato un articolo dal titolo «Ecco le armi che Erdogan sostiene non esistano», in cui si rendeva pubblico il sequestro, avvenuto nel gennaio 2014 da parte della polizia, di tre camion carichi di armi nascoste sotto casse di medicinali diretti in Siria. L’arsenale includeva munizioni per artiglieria e mitragliatrici, colpi di mortaio e munizioni per contraerea, contenuti in casse con scritte in cirillico e partite dall’aeroporto Esenboga di Ankara. L’operazione di polizia, avviata da una soffiata ricevuta dal procuratore generale di Adana che aveva quindi autorizzato le indagini ed il sequestro, rischiava di porre nuovamente la Turchia sul banco degli imputati per l’atteggiamento ambiguo nei confronti dello scenario siriano e dei gruppi armati che vi combattono. Non è mai stato chiarito a chi fosse destinato il carico di armi. La circolazione della notizia sui media nazionali era poi stata immediatamente bloccata da un’ordinanza del tribunale di Adana, che aveva disposto il bando di ogni materiale scritto, audio video e online sulla perquisizione dei camion, mentre i contenuti già online venivano cancellati. Erdogan stesso aveva commentato l’episodio sostenendo che i responsabili della divulgazione avrebbero pagato un prezzo salato. Il presidente turco aveva sporto personale denuncia contro Dündar, chiedendone due ergastoli più 42 anni di carcere per aver minato gli interessi dello stato attraverso l’uso di falso materiale giornalistico. Dopo il blocco delle indagini e la restituzione dei camion al personale del Mit (i Servizi segreti turchi), grazie all’intervento diretto del governatore di Adana, diversi membri ed ufficiali delle forze di polizia erano stati posti in stato di accusa ed espulsi. Durante la propria deposizione, l’autista Murat Kislakci dichiarò che per diverso tempo aveva guidato camion da Ankara alla cittadina di Reyhanli, sul confine turco-siriano, e che sapeva perfettamente di lavorare per il Mit. L’avvocato Hasan Tok, legale rappresentante del 54 comandante delle forze di polizia di Adana colonnello Ozkan Çokay, aveva poi rilasciato una dichiarazione secondo la quale, nel corso di un’udienza, il procuratore di Adana Ali Dogan avrebbe dichiarato che «oltre duemila camion sono stati inviati in Siria dalla Turchia». L’arresto di Dündar e Gül ha scatenato le proteste di diverse personalità di spicco del mondo politico e dei sindacati. Manifestazioni in segno di solidarietà si sono svolte in questi giorni a Istanbul di fronte alla sede di Cumhuriyet. * Osservatorio Balcani e Caucaso Del 3/12/2015, pag. 16 Il pregiudicato opinionista: al servizio pubblico mancava soltanto questo I talk si contendono Luigi Bisignani, come se nulla fosse di Loris Mazzetti Dentro in Rai, nell’era B., ho visto cose che voi umani…, mai avrei pensato che in quella di Renzi Luigi Bisignani potesse diventare opinionista sul servizio pubblico: Virus di Nicola Porro su Rai2. Finalmente Pier Paolo Pasolini è stato ricordato come merita. L’ultima intervista in tv gli fu fatta da Enzo Biagi per Terza B: facciamo l’appello, mandata in onda solo il giorno dopo l’assassinio. Si trattò di censura ma nulla si poté fare per impedirla, i vertici di allora applicarono un provvedimento che stabiliva che non poteva apparire chi era soggetto a un’azione giudiziaria. Pasolini, da direttore di Lotta continua, era stato denunciato per “istigazione alla disobbedienza” e “propaganda antinazionale”. Tutto questo non esiste più. La censura è diventata soprattutto autocensura e la burocrazia, eccessiva, la sta aiutando. Ai talk in crisi tutto è concesso pur di fare ascolto. In tv paga il populismo caciarone più che il contenuto, Quinta Colonna su Rete 4, e non solo, lo dimostra: anche un pregiudicato può diventare opinionista senza che si urli allo scandalo. Bisignani, l’uomo che sussurrava ai potenti, a Virus parla dei presidenti del Consiglio e della Repubblica, del bene e del male contenuto nella legge di Stabilità. Chi meglio di lui conosce certi fatti? Lui è quello cui l’ex dg Rai Mauro Masi chiedeva consiglio su come cacciare Santoro, è quello della P2, condannato in Cassazione a due anni e sei mesi nel processo Enimont. Bisignani, anche a torto, è sempre tirato in ballo negli scandali legati al potere. In questi giorni il suo nome è stato fatto da monsignor Balda, imputato nel processo Vatileaks II, come consigliere dell’altra presunta gola profonda: Immacolata Chaouqui. È importante che in Rai si sia tornato a parlare del ruolo del servizio pubblico. Il nuovo vertice dovrebbe passare ai fatti. Bisignani opinionista potrebbe essere l’occasione. 55 CULTURA E SPETTACOLO del 03/12/15, pag. 11 Presentato a Roma il progetto «Archeologia ferita» Beni culturali. Il primo appuntamento sarà una mostra ad Aquileia (dal 6 dicembre) di alcuni reperti e mosaici del museo tunisino del Bardo Valentina Porcheddu Lo scorso 18 marzo, il Museo Nazionale del Bardo di Tunisi fu teatro di un feroce attacco jihadista, nel quale persero la vita 24 persone. Malgrado le opere — prevalentemente mosaici romani — conservate in uno dei più ricchi e coinvolgenti musei del Mediterraneo non abbiano subìto danni di rilievo, si può senza dubbio considerare il Bardo come una delle vittime del terrorismo di un 2015 caratterizzato da morti e distruzioni (anche metaforiche) del patrimonio dell’umanità. Per opporsi e riparare a quest’accanimento sulla cultura – valore riconosciuto dallo Stato Islamico solo per finanziare il jihad attraverso il traffico illegale di reperti – la Fondazione Aquileia, affiancata dalla Soprintendenza Archeologica e dal Polo Museale del Friuli Venezia Giulia, ha presentato ieri nella sede del Collegio Romano a Roma il progetto Archeologia Ferita. Si tratta di un’iniziativa che, con cadenza semestrale, porterà al Museo Archeologico Nazionale di Aquileia oggetti provenienti da musei e siti colpiti dai guerrieri iconoclasti di Daesh. I primi «profughi archeologici» ad approdare nell’antica colonia romana dell’Alto Adriatico viaggeranno da Tunisi per l’esposizione Il Bardo ad Aquileia, visitabile dal prossimo 6 dicembre e fino al 31 gennaio 2016. La mostra – realizzata in collaborazione con Edison, Camera di Commercio Industria e Artigianato di Udine e Banca Credito Cooperativo di Fiumicello e Aiello – mira ad offrire una panoramica dell’arte e del pregevole artigianato fioriti nelle province africane tra I e III secolo d.C. Le opere che Moncef Ben Moussa, direttore del Bardo, ha concesso in prestito con fiducia nel loro potere a dissolvere barriere, dialogheranno con i manufatti aquilesi per testimoniare e rinnovare quella fervente circolazione di merci, culture, religioni e idee che in età romana animò il bacino del Mediterraneo. Iscritta dal 1998 nella lista Unesco del World Heritage, Aquileia è infatti il luogo di una felice convivenza avveratasi tra romani, giudei, greci e alessandrini in un passato lontano eppure ripetibile. Per gli alti valori universali che trasmette, il progetto ha ricevuto il sostegno del Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini e della sua omologa tunisina Latifa Lakhdar. Ad esprimersi positivamente anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, convinto che Il Bardo ad Aquileia varrà a «vivificare i legami profondi che ispirano l’amicizia e la stima tra Tunisia e Italia». Tra le otto meraviglie del Bardo che si potranno ammirare ad Aquileia si annovera un pannello musivo (1,25 x 0,68 metri) del II secolo d.C. rinvenuto nella Casa dei Laberii a Uthina (Oudna) e nel quale è raffigurata Cerere mentre tiene una falce e un cesto (kalathos) colmo di spighe. Una rassegna nata sotto gli auspici della dea delle messi non può che far sognare nuove primavere di pace. 56 Del 3/12/2015, pag. 15 Il ruolo centrale della cultura per contrastare un presente povero L’eredità del ‘900 Pare che non siano molti gli eredi dei grandi uomini del passato novecentesco Sulla prima pagina del libro, un testamento, uscito quasi contemporaneamente alla sua morte, l’8 novembre, Luciano Gallino, il grande intellettuale ( l’Olivetti, l’Einaudi, l’Università) ha scritto una frase desolatamente amara: «Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la vittoria della stupidità». ( D. Il denaro, il debito e la doppia crisi. Spiegati ai nostri nipoti , Einaudi). Basta leggere le cronache quotidiane per dargli ragione. I 500 euro regalati ai diciottenni, a tutti — non era questa l’idea di uguaglianza di Gallino — da spendere in attività culturali «per rispondere al terrore» sono un segno. Il comandante Lauro, negli anni Cinquanta del ’900, se non altro, regalava una scarpa agli elettori napoletani prima del voto e l’altra dopo, se le elezioni avevano avuto successo per lui. La garanzia. Manca ora evidentemente una conoscenza della società. Vada a chiederlo, il presidente del Consiglio, ai ragazzi di Africo, di Pachino, di Porto Tolle, di Gravina di Puglia, se spenderanno quei soldi per andare a teatro, nei musei, a comprar libri o li spenderanno piuttosto per vivere. E si informi nelle città affluenti, a Milano, a Torino, a Campione d’Italia per capire se i ragazzi beneficati non sprecheranno piuttosto quei soldi in discoteca o a comprar capi di griffe famose. E poi: il ministro del Lavoro Poletti ha proposto «contratti di lavoro che non abbiano più come misura unica di riferimento l’ora di lavoro». Non ha memoria il ministro delle battaglie contadine e operaie lunghe un secolo, dei conflitti anche sanguinosi, o almeno delle canzoni di protesta nate da quelle lotte? ( «Se otto ore vi sembran poche»). Poletti — nella giovinezza non deve esser stato troppo chino sulle sudate carte — ha anche invitato i giovani a far presto, a non perder tempo all’università che «non serve a un fico». È dolorosamente chiaro che il livello della classe dirigente nazionale, alta e bassa, non sta attraversando il suo tempo migliore. In un difficile mondo in trasformazione epocale non è facile comprendere i modi dell’agire per costruire un futuro dignitoso. Il Novecento è stato un secolo tragico, tra due guerre mondiali, la Shoah, i Gulag, la bomba atomica, ma non mancarono gli uomini che seppero esprimere energie e competenze oggi, sembra di capire, disprezzate come un inciampo. Se si pensa che ministro della Pubblica Istruzione fu (nel 1920-’21) Benedetto Croce, di nuovo ministro nel ‘43-‘44, si capisce la povertà intellettuale del presente. Pare che non siano molti gli eredi dei grandi uomini del passato novecentesco: Luigi Einaudi, Raffaele Mattioli, Adriano Olivetti, Enrico Fermi, Gramsci, Gobetti, Leone Ginzburg, Contini, Dionisotti, Montale, Gadda, Volponi, Giulio Natta, Calamandrei, Garin. E con loro i 14 professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e persero la cattedra. La cultura è, o dovrebbe essere, il nocciolo di una società. Qui da noi, invece, è la cenerentola, all’ultimo gradino tra i paesi dell’Ocse nella spesa per l’istruzione. I musei, le biblioteche, gli archivi non navigano in buone acque. L’università sta cercando di recuperare le carenze create da leggi sbagliate che l’hanno privata di indispensabili risorse, la riforma della scuola non è stata per nulla condivisa da ampi strati sociali, professori, famiglie. Che cosa leggono, ad esempio, i giovani? Come si informano le nuove generazioni? Raffaele Fiengo che insegna Linguaggio giornalistico all’Università di 57 Padova, nel corso di laurea in comunicazione, ha fatto fare su questo tema un’esercitazione ai suoi studenti. Che cosa risulta? Internet la fa da padrona, i quotidiani online prevalgono su quelli di carta, si salvano pochi programmi televisivi. I compagni si intervistano tra loro e ne esce un panorama interessante. Secondo Alessandra, i giovani di oggi sono sempre di più i figli dei social network e non prendono neppure in considerazione l’informazione tradizionale. Margherita guarda la Tv e ascolta la radio. Se le interessa qualche argomento cerca l’articolo su Internet. Giulio non legge quotidiani di carta o online, usa il web, la tv, la radio. Ilaria continua a preferire la carta stampata, giudica poco affidabile soprattutto Facebook. Giuseppe si serve dell’informazione online, veloce e gratuita. Stefania non compra quotidiani, ma se li trova al bar li sfoglia. Niccolò crede nella carta stampata. I quotidiani online? «Notiziole per chi non ha voglia di approfondire». Erica adopera Google, ma le piacciono quotidiani e settimanali di attualità e cerca di imparare le tecniche dei giornalisti che stima. E i libri? Pochi. Umberto Eco, Italo Calvino ( Palomar ), Dostoevskij ( L’idiota ), qualche altro. Le madri, tra smartphone, tablet e palmari, non devono più andare a spegnere la luce nelle camere dei figli che una volta leggevano fino a notte alta. Del 3/12/2015, pag. 57 Chi ha detto che il protagonista di Defoe è un modello positivo? Robinson Crusoe L’eterna epopea del naufrago eroe capitalista LUCIO VILLARI La moderna Europa occidentale – quella del benessere, della ricchezza, del capitalismo industriale e finanziario – deve molto agli schiavi neri, provenienti dall’Africa, al loro lavoro, al loro riprodursi e al contributo fondamentale che hanno dato alla nascita degli Stati Uniti sia quando soffrivano nelle piantagioni del Sud sia quando furono liberati, dopo una sanguinosa guerra civile, dalla loro condizione. Liberati, ricordiamolo, grazie anche all’indignazione morale suscitata da un mediocre romanzo apparso nel 1851. Uno dei libri più celebri e più letti in America e in tutto il mondo: La capanna dello zio Tom. La sua autrice, Harriet Elizabeth Beecher Stowe, fu definita da Lincoln “la piccola donna che vinse la guerra civile”. Un romanzo del genere non sarebbe stato pensabile, ovviamente, in Europa, dove gli schiavi neri (in America, nel 1861, erano quattro milioni) non esistevano, ma forse avrebbe potuto essere scritto dal qualche discendente di imprenditori, commercianti, banchieri, avvocati, faccendieri, investitori in Borsa, vissuti tra il Seicento e il Settecento. Distinti gentiluomini che quei neri avevano portato in America con un flusso regolare e secolare di navi che partivano a pieno carico dalle coste occidentali dell’Africa. Fecero guadagni da capogiro e con i loro investimenti gettarono le basi della rivoluzione industriale europea. Lo scrisse chiaramente un quasi coetaneo della Beecher Stowe, Karl Marx. In tante parti del Capitale e in particolare nel capitolo del Libro Primo “Genesi del capitalista industriale” attribuì anche alla tratta degli schiavi «uno dei momenti fondamentali dell’accumulazione originaria ». Ecco una sua frase: «La trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale dei neri è tra i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica». Dal punto di vista letterario le tante pagine che Marx ha dedicato al colonialismo e a uno dei suoi plusvalori più redditizi, la tratta degli schiavi, sono forse più efficaci della prosa della Beecher Stowe. Ad esempio: «La funzione preponderante che 58 ebbe allora il sistema coloniale fu il “Dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità». La ricerca storica ha confermato che la Beecher Stowe e Marx avevano colto nel segno. Una recente indagine della nostra Banca d’Italia ha documentato che dall’Africa partirono, incatenati, per l’America 12 milioni e mezzo di persone. Il pensiero corre, evidentemente, alle centinaia di migliaia di profughi, fuggiaschi, esuli, perseguitati, migranti che continuano a solcare il Mediterraneo in cerca di salvezza, facendo però guadagnare milioni di euro a “imprenditori” africani, mediorientali, europei. Vedremo sul lungo periodo come andrà a finire questa diversa ma singolare “tratta” di esseri umani. Comunque, tra il Seicento e il Settecento altri esseri umani, presi prigionieri e venduti come merce, diedero un reddito enorme ai “negrieri” e agli armatori delle navi negriere. Che la cosa allora fosse del tutto normale per gli europei lo prova, tra i tanti documenti che conosciamo, un romanzo tra i più affascinanti della letteratura europea: La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York. L’opera è del 1719 ed ebbe un successo enorme. Robinson, vissuto, come è scritto nel titolo, “ventotto anni tutto solo in un’isola disabitata presso le coste dell’America”, è un’invenzione letteraria sulla quale si è detto tutto. Ma ancora oggi a qualche lettore forse possono sfuggire alcune singolari pagine di Defoe che svelano alcuni lati inediti di Robinson, la cui vicenda umana e la cui capacità di sopravvivenza sono sempre state lette come simboli, come mito dell’intelligenza pragmatica, della solidità morale, della abilità consapevole. Anche il nostro Marx fu colpito dal fascino sottile del romanzo e, sempre nel Capitale, sottolineò che «tutte le relazioni tra Robinson e le cose che costituiscono la sua ricchezza sono semplici e trasparenti. In esse sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore ». Ma un lettore più acuto e ironico fu James Joyce che in una conferenza tenuta a Trieste nel 1912 dichiarò: «Tutta l’anima inglese è in Crusoe: l’indipendenza virile, la crudeltà inconscia, l’intelligenza tardiva eppur efficace, l’apatia sessuale, la religiosità pratica, la taciturnità calcolatrice». Ma né Marx né Joyce si erano accorti che il “marinaio” Robinson non era affatto un marinaio, ma un avventuriero in cerca di fortuna. Non contento di essere divenuto proprietario terriero in Brasile, aveva fiutato nuovi affari più redditizi. Era diventato un trafficante di schiavi. E fu in uno dei suoi viaggi come negriero che era naufragato in un giorno di settembre del 1659. La sua vita di prigioniero su un’isola deserta non cambiò il suo modo di essere e di pensare. Defoe mostra un uomo la cui struttura morale e culturale resta inalterata nella solitudine di quegli anni, mantenendo i tratti duri e invincibili del proprietario, del padrone (questa è la prima parola che insegna a Venerdì), del colono bianco (nell’isola deserta, oltre all’abitazione fatta all’inizio con duro lavoro manuale «avevo la mia residenza di campagna; e anche lì, possedevo ora una discreta colonia»). Tutto questo fa parte della struttura portante del racconto di Defoe, ma c’è in lui una strana consapevolezza nel far muovere, nel romanzo, il suo straordinario personaggio che, nonostante tutto, tende alla mediocrità opportunista più che, dopo quell’esperienza eccezionale, a significati e valori alti. Infatti, uscito vivo dalla prigionia, Defoe fa ritornare Robinson sull’isola, dove intanto si erano insediati degli scampati da altri naufragi e loschi figuri d’ogni genere. Torna con intenzioni precise: «suddivisi l’isola tra loro riservandomene la proprietà ». Anche da qui cominciava “l’accumulazione originaria”. 59 INFANZIA E GIOVANI Da Avvenire del 03/12/15, pag. 19 Gli schiavi-bambini del Pakistan In 4,5 milioni al lavoro per debiti: orrore nelle fornaci di mattoni Nell’arco di una vita le persone non riescono a ripagare i datori di lavoro nemmeno del necessario per vivere. E l’obbligo diventa un’eredità da trasmettere ai figli. La storia di Naseem Bibi, della sua famiglia e dei soldi da restituire che ogni mese aumentano STEFANO VECCHIA La schiavitù resiste. Ieri, Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù, il mondo ha ricordato che tra le sue varie forme quella per lavoro è subita da 21 milioni di individui. Un dato segnalato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), che ha pure ricordato il “caso” pachistano, particolarmente significativo perché legato alla schiavitù per debito. Un sistema pianificato di sfruttamento, volontario per i più nella fase iniziale, ma che diventa ben presto coercitivo e per molti permanente. L’Ilo stima che a trovarsi in una situazione di lavoro in condizioni di schiavitù siano 4,5 milioni di individui, sovente interi nuclei familiari, e segnala come la riduzione allo stato di schiavitù avvenga attraverso un sistema semplice ma collaudato: la convinzione a accettare il prestito di piccole somme di denaro in cambio di lavoro nelle fabbriche di mattoni. Queste somme, di fatto, raramente vengono condonate, ma crescono a dismisura e prolungano quindi l’obbligo per lungo tempo, a volte per una vita intera, finendo anche per trasferirsi sui figli. Il caso proposto dal’Ilo della sorte di Naseem Bibi e della sua famiglia è emblematico. Come per gli altri nuclei familiari, una cinquantina, impiegati nella stessa fabbrica di mattoni nella provincia del Punjab, anche al suo tocca produrre oltre mille mattoni al giorno per un compenso che equivale a 4,5 dollari Usa, in sé già metà del salario minimo legale. Tuttavia, le detrazioni arbitrarie e variamente motivate portano a una crescita del debito anziché a una riduzione. «Ci tolgono quotidianamente tre dollari dal salario e non tengono alcun conteggio di quanto abbiamo già restituito. Inoltre, produciamo 1.000 mattoni al giorno ma dicono che sono 900». Espedienti che spiegano l’impossibilità a uscire dal circolo vizioso del lavoro e del debito. «Ogni due o tre mesi scopriamo che il debito è salito di 200, 300 dollari», segnala Naseem Bibi, il cui marito ha iniziato a produrre mattoni all’età di 14 anni, costretto dai debiti della propria famiglia, e ha finora passato 17 anni della sua vita cercando di restituire il debito contratto. Una situazione nota e che ovviamente contrasta con le leggi del paese, ma che per gli interessi dei produttori, consociati in un sistema mafioso, per le connivenze e gli appoggi, continua a essere inattaccabile. Ufficialmente infatti non esiste una schiavitù su larga scala e le autorità, al contrario, sottolineano come le fabbri- che di mattoni siano sottoposte a controlli periodici. «Possiamo parlare di pratiche tradizionali tramandate nei secoli, ma non di schiavitù come molti immaginano, ovvero con individui incatenati o bastonati dai datori di lavoro, costretti a lavorare contro la loro volontà e senza salario – segnala il ministro per il Lavoro e le Risorse umane Ishrat Ali –. Questo non può verificarsi in Pakistan». Si calcolano in 20.000 le fabbriche di mattoni nel Paese. Un business essenziale e lucroso basato sul lavoro di 60 centinaia di migliaia di disperati, in parte impiegati per scelta, in parte costretti. Contro questa situazione l’impegno è crescente e a volte vincente. Il solo Fronte per la liberazione dal lavoro forzato ha affrancato 80mila lavoratori dalla loro condizione, ma l’impegno suo e di altre organizzazioni che agiscono in coordinamento con l’Ilo è anche di tagliare alla radice il problema. Intervenendo sul piano legale ma anche incentivando la permanenza dei giovani nelle aule e sanzionando antiche pratiche sociali che pongono tanti pachistani in condizione di sostanziale schiavitù. Del 3/12/2015, pag. 1-34 Bangladesh la casa delle bambine liberate Il lavoro delle Ong contro l’orrore delle nozze infantili ADRIANO SOFRI C’È UN VILLAGGIO, Dhubati, nel reticolo formato dal Gange e il Brahmaputra e da una miriade di altri fiumi. Tutto è fatto come un giardino di acqua e argini di creta e mattoni. Per arrivarci, dalla capitale Dhaka, c’è una mezz’ora di aereo a Jessore (120 km, in treno sono dieci ore), poi due ore e mezza di auto a Khulna, un’altra ora d’auto poi un’ora e mezza di battello a Kailashkanj Ghat, poi un tratto in motocicletta. Il villaggio è radunato attorno a una vasca recintata da bambù, per la prova di nuoto dei suoi piccoli, dai quattro ai dieci anni. Ogni esercizio è accolto da un grande applauso. Galleggiamento, nuoto, apnea, e finalmente la messinscena essenziale: una bambina simula — drammaticamente bene — di affogare, e un bambino grida all’allarme e interviene, porgendole una pertica cui afferrarsi. Poi, a riva, c’è anche la prova di rianimazione. QUANDO l’Unicef inaugurò queste scuole di “Nuoto sicuro” qualcuno storse il naso, come per un lusso oltraggioso in tanta povertà. Il fatto è che mentre malattie e altre cause di mortalità infantile si riducono sensibilmente, il numero di bambini annegati in questi ritagli d’acqua resta spaventoso. Basta una distrazione delle madri –hanno una quantità di cose cui tener dietro- una scivolata, un gioco ingenuo. Allora la prima cosa è insegnare a nuotare, e la seconda cosa è insegnare a non buttarsi a soccorrere chi è in difficoltà: spesso muoiono in due, perché un fratellino si tuffa al salvataggio. Bisogna insegnare anche ai più piccoli di 4 anni, ma occorrono specialisti. Un australiano ha promesso di portarli. I bambini coinvolti sono 70 mila nel solo 13mo distretto, in 400 centri. (Forse, se Aylan e Galip e Sena e tutti i bambini morti sulle spiagge dell’Europa avessero saputo nuotare…). C’è il Club degli adolescenti, sono fieri di aver impedito tre matrimoni infantili in questo mese nel villaggio. “Bisogna stare attenti –dicono- perché certe famiglie, se gli fermi il matrimonio, lo vanno a fare in un altro villaggio”. Gli adulti approvano, ammirati: “Vanno dappertutto, come le mosche”. Il battello sul delta fa una deviazione per portarci al punto in cui finisce il territorio degli umani e comincia quello delle tigri. Più in là visitiamo un altro villaggio illustre per il suo centro di giochi infantili e di teatro tradizionale. C’è un’assemblea preliminare coi ragazzi. Chiedono dei matrimoni in Italia. Chiedo loro se sanno qualcosa di Parigi. No, dicono. Anche a Parigi non sanno di loro. La premessa è semplice e fulminante: il Bangladesh ha un territorio che è due terzi di quello italiano, e una popolazione di 162 milioni, tre volte quella italiana. La gran parte si trova appena sopra il livello del mare, troppo poco per proteggerla dalla furia ricorrente dei cicloni e delle alluvioni, o dalla furia imminente dell’innalzamento delle acque. Le acque sotterranee sono piene di arsenico in alcune 61 aree, micidialmente saline in altre. Sono già milioni quelli cui manca la terra sotto i piedi. Alcuni arrivano da noi, a venderci la frutta di notte. In un edificio fatiscente della Old Dhaka, al quinto piano, c’è un appartamento in cui abitano più di cento bambine e adolescenti. Non avevano nessuno, stavano in strada. Qui occupano un vasto salone che di notte si riempie di materassini. Stanno, da sole o in cerchi, a disegnare o fare i compiti, o sbrigare faccende. Un infermiere mi mostra con orgoglio la vetrinetta con un mucchietto di farmaci povero povero, e un cartellone scritto a mano con le malattie diagnosticate questa settimana. Non proverò a descrivere la grazia di queste bambine e la libertà senza bigottismi cui è ispirato il loro spettacolo per gli ospiti: danza, poesie, canti -e poi un’assemblea. Le fotografie lo faranno meglio. Sono contente di stare qui. Sono libere di andarsene quando vogliano: succede a una o due su cento. Finiscono gli studi fino al diploma. Mi chiedo che cosa succeda quando sono grandi abbastanza per l’amore. Ma qui come nelle baracche degli slum le ragazze tengono più alla propria formazione e all’indipendenza. L’amore, e il matrimonio e la maternità, verranno dopo: anche un matrimonio combinato a quel punto non sarà una servitù. Fatema, 16 anni, ora fa parte del Comitato di Protezione, e va a cercare altre bambine in strada. Suo padre morì quando aveva 4 anni, sua madre non riusciva a mantenerla. Andò a servizio in una casa, la picchiavano, e anche in strada la picchiavano, fino a che è stata invitata qui. Fa la nona classe, accudisce le altre, si è fatta un conto in banca. Adesso ha 255 taka, l’equivalente di 3 euro. Va a trovare sua madre e l’aiuta. Vuole diventare stilista. L’Unicef, col ministero per le donne e i bambini, investe su adolescenti che mostrano una più forte volontà di farsi strada, oltre che un più feroce bisogno. Dà loro una somma -12 mila taka, 140 euro- a condizione che vadano a scuola e ci mandino fratelli e sorelle. Con quel capitale iniziale, comprano i mezzi per mantenersi. Per esempio, una vecchia macchina Singer, completa di fregi dorati pedale e ruota a maniglia. Shurma, 16 anni, studia e cuce stoffe. Sua madre va a servizio e suo padre guida il risciò. Ha due sorelle, una sposata a 15 anni, ora ne ha 20 e un bambino disabile, che è qui con Shurma e la zia. Il Comitato l’ha proposta per il sussidio. Poco più in là c’è una sua amica, ha 17 anni. Ci accoglie con la madre, che si sposò a 15 anni, e ha avuto 3 bambine e 2 maschi. Suo padre è malato, ha bisogno di 500 taka (6 euro) al mese solo di medicine. Lei guadagna 200 taka cucendo. Le due sorelle maggiori sono state sposate bambine, e hanno sofferto per i parti. Ora ho capito che non si deve, dice la madre. Madre e figlia sono orgogliose l’una dell’altra. Lo “stipend” procurato dall’Unicef è di 15 mila taka, 89 euro. 6500 costava la Singer, il resto è andato per i libri. 1000 taka per affitto e bollette, ma siamo fortunate, dicono, gli altri pagano di più. Nel quadrato della baracca abitano in 7. (Traduco i taka in euro, per condividere il turbamento di scoprire quanto costa sospingere un destino personale). Questo slum, Korail, ha 600 mila abitanti, solo Mumbay e San Paolo ne hanno di più grandi. Fra una baracca e l’altra lamiere teli e pali di bambù, ogni tanto una stanza vuota adibita ad aula. Non ci sono banchi né lavagne, stanno seduti per terra, disegnano o leggono o scrivono, assorti come il Matteo di Caravaggio, il loro angelo è una giovane maestra povera come loro. Lungo uno stradone polveroso di Dhaka c’è la baracca di Sharmin, studentessa dell’ottava e imprenditrice della carta stampata: impacchetta giornali vecchi. Ha 16 anni e un dipendente di 17 che batte su pezzi di ferro vecchio per ammucchiarli meglio. Lei e altri due raccolgono in giro la carta, la confezionano e la vendono a un magazzino più grande. Un kg di carta vale 8 taka, 10 centesimi di euro. Con la carta fa 2 mila taka al mese. Fra tutte le attività raggranella 10 mila taka, 124 euro, e mantiene tutta la famiglia. A volte basta una domanda scema per procurarsi una risposta memorabile. “Sei felice?”, le chiedo. “Sì. Perché no?” Siamo arrivati il giorno in cui sono stati impiccati due dirigenti nazional-islamisti, condannati a morte per crimini di guerra. La guerra era quella di liberazione dal Pakistan, 1971. Il Bangladesh ha tratto da quella 62 terribile guerra, che costò forse tre milioni di morti, un relativo secolarismo. Gli islamisti hanno proclamato un “hartal”, nome un tempo gandhiano per lo sciopero generale, oggi per un appello ad assalti e incendi a volontà. C’è stata una sequela di assassinii –a colpi d’ascia, di preferenza- di intellettuali, editori, cooperanti o imprenditori stranieri, esponenti di minoranze religiose. L’Is li rivendica, forse ancora indebitamente; il governo nega che esista l’Is in Bangladesh, per esorcizzarne lo spettro. C’è uno spaesamento in viaggi come questo. Quanti abitanti ha Dhaka, 20 milioni, 30? Ogni luogo è affollato a Dhaka. Come e più che in India, il progresso prodotto dall’azione di governo, di organizzazioni vaste come l’Unicef o il BRAC di sir Abed, la più importante ONG, o la Banca del Nobel Yunus, e dei loro partner di ogni dimensione, è così veloce da eccitare per contraccolpo la reazione di interessi e pregiudizi colpiti, i patriarcali e pseudoreligiosi in primo luogo. Le adolescenti che incontriamo, i quaderni in un angolo del tavolaccio che fa da letto e da tutto, e la macchina da cucire subito accanto, stanno sfuggendo di mano ai padroni di sempre. Succede, come nello spettacolo teatrale del villaggio di Dacope, che le adolescenti dicano drammaticamente ai loro padri e nonni: vi vogliamo bene, non pensiamo che siate colpevoli, vi hanno insegnato che andava bene così, ora le cose cambiano, sareste colpevoli se voleste continuare così dopo aver capito che non era giusto… I padri e i nonni applaudono compiaciuti. La ragazza adolescente che ha sventato il matrimonio forzato e ha salvato un bambino che stava per annegare è il loro vanto, e ora è la maestra di nuoto dei bambini di quattro anni. La combinazione fra vite singole e folla onnipresente e in perpetuo moto rende inconcepibile la nostra privatezza. Qui l’enormità del numero si suddivide in una trama infinita di comitati, elettivi o spontanei, incaricati dei problemi sociali, la protezione infantile e femminile in primo luogo. Il riserbo delle famiglie ne è senz’altro violato, ma quel riserbo copriva il matrimonio infantile e il suo corredo di violenze –malattie e morti di parto, sequestri e botte legate alla tradizione della dote, prepotenze di mariti e suocere- e l’arbitrato delle comunità diventa un argine essenziale. Negli organi della comunità cresce anzi una gara orgogliosa a realizzare i traguardi civili, che prevale sugli stessi pregiudizi dei loro componenti. L’Unicef italiana è fra i più importanti donatori in Bangladesh. Le campagne che l’Unicef conduce toccano il cuore della cosiddetta guerra di civiltà. Contro il matrimonio infantile, per l’educazione delle bambine, contro il lavoro infantile… Unicef è il marchio più amato nel mondo. I suoi attori e i suoi partner che ci incontrano “sul campo”, Zahidul, Jamil, Aroti Rani, Konika, Rokibul…, sono gente meravigliosa. Non si occupano di politica, e intervengono sui fondamenti della civiltà quotidiana, della sua libertà, consapevolezza e gentilezza. Reciprocamente, succede che la politica non si occupi di quei fondamenti, e li deleghi alla buona volontà. Ma guardiamo dentro il progetto jihadista. I suoi miliziani amano il potere e la conquista, sono ubriachi di sangue e di morte, ma il nocciolo della cosa sta nella restaurazione del matrimonio infantile –per le bambine di 9 anni, precisano- nell’esclusione delle bambine dall’educazione –come vogliono i talebani o Boko Haram e così avanti- nell’autorizzazione a stuprare e rendere schiave bambine e bambini “infedeli”, nella riduzione dell’educazione dei bambini al libro sacro imparato a memoria e al mestiere della macelleria. Il jihadismo nelle sue varie versioni si batte sanguinariamente per reinstaurare gli orrori che bambine e bambini si battono per cancellare. La posta della cosiddetta guerra è là. 63