arte, corpo, cervello: per un`estetica sperimentale

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ARTE, CORPO, CERVELLO:
PER UN’ESTETICA
SPERIMENTALE
L’arte è un’opera del cervello umano e come tale può essere
studiata a partire dalle aree del cervello che si attivano quando,
per esempio, contempliamo un quadro o una statua. Ma siamo
sicuri che l’approccio neurobiologico si debba fermare a questo?
Il cervello non è un’entità irrelata, ma una componente del sistema
cervello-corpo, a sua volta incomprensibile senza un più ampio
riferimento al complesso dell’esperienza umana.
VITTORIO GALLESE
La fisiognomica del corpo può consentire non solo di conoscere la
natura del corpo ma anche il ruolo che esso gioca nel condizionare i nostri giudizi. Sancire come «retti», «alti» ed «elevati» comportamenti, decisioni e istituzioni significa tradurre in campo valoriale, morale e giuridico la conformazione del nostro corpo e i suoi
rapporti spaziali. L’asse di simmetria del nostro corpo eretto ha conosciuto nel corso dell’evoluzione la progressiva acquisizione di
una suddivisione dei compiti tra metà destra e sinistra, in termini
di preferenza manuale, di espressività emozionale e di facoltà linguistica. Tali divisioni dei compiti trovano corrispondenti specializzazioni lateralizzate delle regioni cerebrali connesse a tali funzioni e facoltà. Ciò mostra come corpo, cervello, esperienza ed
espressione costituiscano una poliedrica e diversificata unità.
La traduzione simbolica del corpo in gesti ed espressioni e nei loro prodotti materiali tradisce l’intrinseca e duplice natura teatrale
del corpo. Il corpo rappresenta, mette letteralmente in scena la
soggettività, realizzandola in una serie di posture, sentimenti,
espressioni e comportamenti, ma allo stesso tempo, il corpo, proiettandosi nel mondo, lo teatralizza trasformandolo in un palcoscenico in cui la corporeità è al contempo protagonista e spettatrice,
vissuta e riconosciuta.
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È da questa costitutiva relazione tra corpo ed espressione simbolica che si deve iniziare se si vuole affrontare il tema della creatività
artistica e della sua ricezione nella nostra specie da una prospettiva naturale e, più specificamente, neurobiologica. Prima di entrare
nel merito sono però necessarie due brevi premesse concernenti
gli explananda e le modalità richieste per indagarli.
Arte e cervello
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Partiamo dagli explananda. L’arte, insieme al linguaggio, costituisce uno dei tratti distintivi della nostra specie. Che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di arte? Il concetto di arte è problematico. Ciò che oggi chiamiamo arte è in realtà il risultato di un
complesso e multistratificato processo di costruzione socio-culturale sviluppatosi nel corso dei secoli.
Possiamo definire le pitture realizzate durante il Paleolitico all’interno delle grotte di Chauvet, Lascaux e Altamira opere d’arte, come facciamo per un affresco di Michelangelo o un quadro di Picasso? Gli esseri umani che penetrarono nel ventre delle montagne imprimendo sulle pareti le impronte delle proprie mani, ricoprendone le volte di mirabili immagini di tigri, leoni, cervi e bisonti, possono essere definiti artisti?
Il concetto di «belle arti» si forma durante il periodo dell’Illuminismo. Come molti altri concetti illuministici, l’idea europea di belle
arti venne ritenuta universale, riconducibile a pratiche e ideali sviluppatisi nell’antichità classica in Grecia e Roma, poi ripresi in
epoca rinascimentale. Oggi l’arte è «tutto ciò che gli uomini chiamano arte» (Formaggio, 1981, p. 11). Per questo motivo, più che di
arte dovremmo parlare di creazioni ed espressioni simboliche, fermo restando il nostro interesse per affrontare da una prospettiva
neurobiologica espressioni artistiche come le arti visive, il cinema,
l’architettura e la letteratura.
Cerchiamo ora di definire in modo migliore cosa intendiamo per
«prospettiva neurobiologica». Ricordo che molti anni fa ebbi modo
di assistere alla trasmissione televisiva in diretta di un complesso
intervento neurochirurgico. In studio, un celebre fisico italiano invitato dall’eccitatissimo conduttore a commentare quanto stava
vedendo, non nascondendo il proprio scarso entusiasmo, disse: «In
fondo si tratta solo di elettromagnetismo…».
Similmente, se ci limitassimo a dire che l’arte, così come ogni
espressione dell’intelligenza umana, è riconducibile all’attività
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del nostro cervello, diremmo insieme una tautologia e una mezza
verità: sarebbe una tautologia perché pochi oggi sembrano disposti a discutere il fatto che il cervello sia necessario per qualsiasi attività mentale. Sarebbe altresì una mezza verità – ma questo secondo argomento è molto più controverso del primo – perché il
cervello esprime la propria funzionalità solo ed esclusivamente
perché legato a un corpo situato in un particolare mondo fisico,
popolato da altri individui. Da ciò discende che un approccio
neurobiologico all’espressività simbolica della nostra specie non
può limitarsi a indagare la relazione tra i concetti con cui la descriviamo e le aree cerebrali che si attivano durante l’applicazione
di tali concetti, ma deve studiare come dal sistema cervello-corpo
nelle sue situate relazioni mondane scaturisca e venga recepita tale espressività simbolica.
Le neuroscienze cognitive sono innanzitutto un approccio metodologico che, pur condividendo gli strumenti d’indagine, può utilizzarli in modi molto differenti, giungendo a esiti altrettanto differenti. Le tecniche oggi a nostra disposizione comprendono la
registrazione di singoli neuroni, lo studio dell’attività cerebrale
con le tecniche di elettroencefalografia (EEG) e di brain imaging
come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la stimolazione
magnetica transcranica (TMS) e lo studio dei pazienti neurologici.
Tutti questi approcci consentono di porci domande molto diverse
sul rapporto tra cervello ed esperienza o tra cervello, percezione,
azione e cognizione. Similmente, se l’oggetto del nostro studio è il
rapporto tra il cervello, l’espressione artistica e la sua ricezione da
parte di chi ne fruisce, possiamo farlo ponendoci quesiti molto
diversi.
Neuroestetica
Negli ultimi anni la ricerca neuroscientifica ha manifestato un crescente interesse nei confronti dell’arte e dell’estetica. Il neuroscienziato Semir Zeki è stato un pioniere in questo campo. È a Zeki che si deve in primis l’apertura di questo nuovo filone di ricerca,
da lui definito «neuroestetica». Questo approccio si è da subito
mostrato molto diversificato: alcuni neuroscienziati hanno utilizzato l’arte per comprendere meglio il funzionamento del cervello,
utilizzando dipinti o spezzoni di film come meri stimoli per meglio
comprendere le basi neurobiologiche di facoltà cognitive non arte-specifiche. Altri – tra cui lo stesso Zeki – hanno utilizzato le tec-
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niche di brain imaging, come l’fMRI, per studiare i concetti di «bello» e «piacere estetico» e, più in generale, per studiare i meccanismi neurali responsabili dell’analisi percettiva visiva di varie caratteristiche formali delle opere d’arte.
La neuroestetica è stata valutata da molti studiosi delle scienze
umane come un’indebita ingerenza o, nella migliore delle ipotesi,
come un approccio dallo scarso o nullo valore euristico. Credo che
questa reazione sia prematura e fondamentalmente errata, derivando, da un lato, da uno scarso approfondimento delle potenzialità dell’approccio neuroscientifico, talvolta unito a una difesa corporativa dei propri ambiti disciplinari e, dall’altro, dall’eccessivo
neurodeterminismo spesso mostrato dall’approccio neuroscientifico all’arte, pronto ad appiattire e ridurre i concetti di bello o di
piacere estetico esclusivamente alla funzionalità dei neuroni contenuti in specifiche regioni cerebrali.
Il punto cruciale non è usare l’arte per studiare il funzionamento
del cervello, ma consiste nello studiare il sistema cervello-corpo
per comprendere cosa ci rende umani e in che modo. Più che di
neuroestetica penso dovremmo parlare di estetica sperimentale, dove la nozione di estetica è declinata secondo la sua originale etimologia: aisthesis, cioè percezione multimodale del mondo attraverso il corpo.
Le neuroscienze cognitive ci mostrano, infatti, che l’intelligenza
umana anche al livello sub-personale di descrizione, cioè al livello
di descrizione che attiene ai neuroni e alle aree cerebrali, è strettamente legata alla corporeità situata degli individui. Tale corporeità
non è esclusivamente riducibile a un oggetto fisico dotato di
estensione, ma si realizza pienamente nella sfera dell’esperienza. Il
corpo è sempre un corpo vivo cha agisce e fa esperienza di un
mondo che gli resiste. I concetti di essere, sentire, agire e conoscere descrivono modalità diverse delle nostre relazioni con il mondo.
Queste modalità condividono tutte una radice corporea costitutiva
e – mi verrebbe da dire, trascendentale – a sua volta mappata in distinte e specifiche modalità di funzionamento dei circuiti cerebrali e dei meccanismi neurali. A livello del sistema cervello-corpo,
azione, percezione e cognizione condividono la stessa radice carnale, sebbene siano differentemente organizzate e connesse a livello funzionale. Queste recenti acquisizioni consentono di affrontare i temi dell’arte e dell’estetica da una prospettiva nuova, quella, appunto, di un’estetica sperimentale che indaghi insieme le risposte del cervello e del corpo.
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Estetica sperimentale
Le neuroscienze cognitive oggi offrono un nuovo approccio allo studio di cosa significhi essere umani anche grazie alla consapevolezza
che possono rappresentare una sorta di archeologia cognitiva, studiando i meccanismi neurofisiologici che rendono possibili le nostre interazioni col mondo. Grazie all’approccio neuroscientifico
possiamo decostruire molti dei concetti che utilizziamo quando ci
riferiamo all’arte e all’esperienza che ne facciamo. Che cosa significa
guardare un dipinto, un tempio greco o un film? Fino a che punto e
in che misura la percepita irrealtà della finzione artistica, sia essa o
meno di natura mimetico-rappresentativa, si discosta dalle modalità
con cui normalmente rappresentiamo il rapporto instaurato con la
realtà quotidiana in cui siamo immersi? Perché la finzione (narrativa)
artistica ci colpisce ed emoziona spesso più della vita reale? In che
misura la nostra identità, storia personale e contingente condizione
culturale di spettatori condizionano la fruizione dell’arte?
Credo che oggi le neuroscienze cognitive possano offrire un valido
contributo per affrontare questi quesiti su basi nuove. Le neuroscienze cognitive divengono così esse stesse «scienze umane», anche
se studiano l’uomo con strumenti d’indagine diversi da quelli propri delle cosiddette discipline umanistiche, rivolgendo le proprie
domande non solo all’individuo, ma anche a sue componenti subpersonali come il cervello o i neuroni. Questo tipo di ricerche deve
essere condotto in un’ottica di collaborazione multidisciplinare,
senza cedere alle tentazioni di un imperialismo neurodeterminista.
Ciò detto, desidero aggiungere che il livello di descrizione offerto
dalle neuroscienze cognitive è necessario ma non sufficiente. Dobbiamo partire dal tema dell’esperienza degli individui, decostruirla,
naturalizzarla studiandola con l’indagine sub-personale propria delle neuroscienze, e utilizzare i risultati così ottenuti per ridiscutere il
livello personale da cui siamo partiti, instaurando così un virtuoso
circolo conoscitivo. Non dobbiamo temere questo approccio, ma valutarlo criticamente dopo averlo approfondito. Forse dovremmo depurare il nostro cinico sguardo post-moderno volgendoci a grandi
figure del passato, come lo storico dell’arte Aby Warburg che già più
di cent’anni fa trasse grande ispirazione dal confronto con biologi
come Darwin e Semon o fisiologi come Hering (cfr. Gallese, 2012).
Il tema dell’empatia, da me esplorato per molti anni in relazione
alla cognizione sociale, soprattutto a partire dalla nostra scoperta
dei neuroni specchio, neuroni motori che si attivano sia quando
agiamo che quando vediamo agire gli altri (Gallese et al., 1996,
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2004), ha segnato l’inizio del mio interesse per il rapporto tra arte
e sistema cervello-corpo. Empatizzare significa comprendere l’altro dall’interno. L’empatia consente all’Io di connettersi al Tu senza perdervisi, attribuendo all’altro azioni, emozioni e sensazioni
che l’Io conosce in quanto parte della propria esperienza vitale.
Autori come il filosofo tedesco Robert Vischer, che nella seconda
metà del XIX secolo avevano teorizzato un rapporto tra empatia
(Einfühlung) ed esperienza estetica, mi convinsero che questo tema
potesse essere affrontato anche con l’approccio delle neuroscienze cognitive. Secondo Vischer, le forme simboliche acquisiscono il
proprio significato prima di tutto grazie al proprio contenuto antropomorfo. Grazie alla risonanza della propria immagine corporea, l’osservatore è in grado di stabilire una relazione con l’opera
d’arte (cfr. Gallese e Di Dio, 2012).
Queste e altre riflessioni mi hanno condotto a pensare all’espressione simbolica artistica come a una forma mediata d’intersoggettività dove l’oggetto simbolico funge da mediatore tra chi l’ha realizzato e chi ne fruisce. Un secondo aspetto che mi ha convinto a
occuparmi di arte ed estetica è il tema, cui mi riferivo prima, del
rapporto tra il sistema cervello-corpo e i diversi piani di «realtà» da
noi costantemente abitati. Viviamo nel mondo «reale», da noi percepito nella quotidianità della nostra vita; esperiamo la sua narrazione da parte dei mezzi di comunicazione come tv e quotidiani; e,
infine, esperiamo la rappresentazione che del mondo fa l’arte attraverso le sue finzioni narrative. Quale rapporto intercorre tra
questi diversi piani e come li risolve il nostro cervello? Da questo
punto di vista, le neuroscienze cognitive non solo possono occuparsi di arte, ma direi che devono farlo, se hanno l’ambizione di studiare in modo esaustivo con il proprio approccio e linguaggio di descrizione la condizione umana.
Nel decennio scorso lessi il libro dello storico dell’arte David Freedberg The Power of Images, in cui rivendicava un ruolo fondamentale alle emozioni nell’esperienza estetica. Iniziammo una lunga
corrispondenza e nacque una collaborazione che portò alla pubblicazione di un lavoro sulla rivista Trends in Cognitive Sciences (Freedberg e Gallese, 2007). In quell’articolo sostenevamo come la visione sia un processo multimodale che implica l’attivazione di circuiti cerebrali non solo «visivi», ma anche sensori-motori, visceromotori e affettivi e che pertanto per comprendere la nostra risposta alle immagini e al loro potere, si deve partire dal concetto di
esperienza visiva di un’immagine, mettendone inizialmente tra parentesi il supposto statuto artistico.
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I neuroni specchio sono stati da me interpretati come una delle
molteplici espressioni neurali di un meccanismo funzionale di base del nostro sistema cervello-corpo, definito «simulazione incarnata» («embodied simulation», cfr. Gallese, 2005; Gallese e Sinigaglia, 2011). Le stesse strutture nervose coinvolte nell’esecuzione di
azioni o nell’esperienza soggettiva di sensazioni ed emozioni sono
attive anche quando tali azioni, emozioni e sensazioni sono riconosciute negli altri. La simulazione incarnata, inoltre, si attiva anche quando le azioni, emozioni e sensazioni percepite sono raffigurate come immagini statiche.
Secondo la nostra ipotesi del 2007, un elemento fondamentale
della risposta estetica alle immagini – e quindi anche alle immagini artistiche – consiste nell’attivazione di meccanismi di simulazione incarnata delle azioni, emozioni e sensazioni corporee in esse
raffigurate. I meccanismi di rispecchiamento e la simulazione incarnata possono fondare empiricamente il ruolo fondamentale
dell’empatia nell’esperienza estetica secondo due modalità complementari. La prima modalità concerne la relazione tra i sentimenti empatici suscitati nell’osservatore dalla simulazione del
contenuto dell’opera d’arte. Le azioni, emozioni e sensazioni in essa ritratte inducono l’attivazione delle aree cerebrali che usualmente sottendono le nostre azioni, emozioni e sensazioni, nonché
l’attivazione delle memorie individuali e dell’immaginazione da
noi ad esse associate.
La seconda modalità riguarda la relazione tra i sentimenti empatici suscitati nell’osservatore dalla simulazione e le tracce visibili dei
gesti espressivi dell’artista, come le pennellate, i segni dell’incisione, e più in generale i segni dei movimenti della sua mano. Secondo la nostra ipotesi di partenza, anche quando l’immagine è priva
di contenuti direttamente raffiguranti il corpo, come nel caso dei
tagli sulla tela di Lucio Fontana oggetto del nostro primo esperimento, nell’osservatore avviene una simulazione motoria, la simulazione del gesto dell’artista. La simulazione del gesto creativo diviene parte integrante dell’esperienza che facciamo delle sue conseguenze, l’immagine artistica.
In un recente studio condotto da Maria Alessandra Umiltà e collaboratori utilizzando l’EEG ad alta densità (Umiltà et al., 2012) abbiamo misurato il grado di attivazione del sistema motorio degli
osservatori, rilevato come desincronizzazione del ritmo mu 1 in
Il ritmo mu è un pattern di attività elettrica registrato dall’elettroencefalogramma in corrispondenza della corteccia motoria, di cui denota l’attivazione.
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Lucio Fontana, Concetto Spaziale, Attese, idropittura su tela, 1959,
cat. gen. 59 T 47, © Fondazione Lucio Fontana.
corrispondenza delle cortecce motorie, durante l’osservazione di
versioni digitalizzate ad alta risoluzione di opere di Lucio Fontana
raffiguranti tagli nella tela e di stimoli di controllo in cui i tagli
erano sostituiti da linee nere della stessa lunghezza e larghezza.
Tutti i partecipanti all’esperimento hanno mostrato l’attivazione
motoria solo per le opere di Fontana e non per gli stimoli di controllo. Un altro aspetto molto interessante dello studio è la dimostrazione che questo effetto avviene indipendentemente dalla conoscenza delle opere da parte degli osservatori o al loro riconoscimento come opere d’arte.
Il nostro studio rappresenta la prima dimostrazione elettrofisiologica del coinvolgimento del sistema motorio corticale in risposta
all’osservazione di opere d’arte astratta statiche, in assenza di qualsiasi esplicita rappresentazione di corpo in movimento. Devo aggiungere che molto probabilmente lo statuto artistico dei tagli osservati è irrilevante per evocare la simulazione del gesto che li ha
prodotti. Anche se avessimo mostrato tagli sulla tela fatti da noi
avremmo ottenuto verosimilmente gli stessi risultati. Ma un taglio,
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anche se di Lucio Fontana, rimane pur sempre un taglio, e in
quanto tale è sempre in grado di evocare in chi lo guarda – al netto di ogni influenza culturale – la simulazione del gesto che lo ha
prodotto. Ciò significa che quando ci poniamo di fronte a un’immagine che ha queste caratteristiche, una componente essenziale
della nostra esperienza di quella immagine consiste nel simulare il
gesto espressivo che l’ha creata.
È altrettanto ovvio come ciò non possa costituire che una componente della più complessa e multidimensionale esperienza estetica
suscitata dall’opera. Quando entriamo in un museo o in una galleria d’arte, non ci poniamo di fronte a una semplice immagine, bensì a un’immagine che trova la propria giustificazione nell’essere
collocata in quello spazio in quanto opera d’arte. La nostra fruizione
dell’opera d’arte è certamente mediata cognitivamente: la qualità
della nostra fruizione estetica è influenzata dalla nostra cultura e
dai canoni estetici che la informano, dall’ambiente in cui siamo stati educati, dal grado di expertise e familiarità che abbiamo nei confronti dell’opera di fronte a cui ci poniamo. Tutti questi elementi
condizionano il nostro gradimento implicito e il nostro esplicito
giudizio estetico. La nostra attuale concezione dell’arte e di chi la
crea è il prodotto di una lenta evoluzione e costruzione storico-culturale. Ci sono voluti secoli perché iniziassimo a distinguere certi
manufatti riservandogli una collocazione e una valutazione speciali, identificandoli come il prodotto dell’attività creatrice di una particolare categoria di persone chiamate artisti. Tutti questi aspetti,
tuttavia, non possono occultare l’importante ruolo svolto nell’esperienza estetica dal nostro coinvolgimento corporeo.
Tali tesi hanno trovato conferma in un secondo studio EEG ad alta densità da noi recentemente pubblicato (Sbriscia-Fioretti et al.,
2103) e avente come oggetto i dipinti astratti di Franz Kline.
Le opere di Kline da noi scelte erano caratterizzate dalla presenza
di forti segni dinamici costituiti dalle pennellate di colore nero distribuite sulle tele. Anche in questo studio i partecipanti osservavano versioni digitalizzate ad alta risoluzione delle opere originali
alternarsi casualmente con stimoli di controllo, ottenuti rimuovendo dagli originali le componenti dinamiche, come le sgocciolature
di colore e i segni delle pennellate. I risultati hanno dimostrato
che tutti gli osservatori, indipendentemente dalla loro familiarità
culturale e percettiva con le immagini, hanno mostrato l’attivazione della rappresentazione motoria dei gesti della mano. Guardare
un quadro di Kline significa anche simulare i gesti utilizzati dall’artista per realizzarlo.
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Franz Kline: painting Number 2, 1954, MOMA, New York.
Abbiamo dimostrato recentemente un effetto analogo anche per
l’osservazione di segni grafici vergati a mano, come lettere dell’alfabeto romano, ideogrammi cinesi e scarabocchi (Heimann et al.,
2014). Osservare un segno grafico implica simulare il gesto motorio che l’ha tracciato.
Espressione simbolica, corpo e presenza: visione e multimodalità
I risultati empirici delle nostre ricerche suggeriscono che il processo di simbolizzazione caratteristico della nostra specie, pur articolandosi in un hegeliano progressivo movimento di astrazione (cfr.
Pippin, 2002) ed esternalizzazione dal corpo, mantiene intatti i suoi
legami corporei, non solo perché il corpo è lo strumento della produzione dei simboli, ma anche perché ne è altresì lo strumento
principale di ricezione. Ciò permette di guardare alla dimensione
simbolico-estetica dell’esistenza umana non più esclusivamente da
un punto di vista semiotico-ermeneutico, ma includendo la dimensione della «presenza» corporea. Secondo Hans Gumbrecht (2004),
l’esperienza estetica si sostanzia in una componente di significato e
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in una di presenza. La presenza riflette il coinvolgimento corporeo
del fruitore attraverso un sinestesico rapporto multimodale con
l’oggetto artistico-culturale, la cui percezione visiva, ad esempio,
viene qualificata come «visione aptica». Secondo Gumbrecht, ogni
cultura storicamente determinatasi può essere analizzata dal duplice versante del significato e della presenza, poiché entrambe queste configurazioni possono essere ritrovate in percentuali variabili
in ogni oggetto culturale. Quando a predominare è la presenza, gli
oggetti del mondo derivano il proprio senso non in virtù di un’interpretazione, ma grazie alla loro intrinseca inerenza sensori-motoria. L’individuo non si limita a relazionarsi al mondo esterno in modo
oggettivo secondo una prospettiva in terza persona, ma si inscrive
letteralmente in quello stesso mondo in quanto il suo corpo ne costituisce una parte integrale e, almeno in parte, ne costituisce l’origine. L’ossessione della cultura medioevale per il corpo e per la sua
resurrezione dalla morte, scrive Gumbrecht, costituisce una chiara
esemplificazione del tema della presenza.
Il tema della presenza mi consente di dire qualcosa anche a proposito del ruolo egemonico assegnato alla visione che ha lungamente dominato il dibattito in estetica. L’architetto finlandese Juhani
Pallasmaa (2005) ha rivolto una dura critica all’oculocentrismo,
cioè al privilegio assegnato dalla cultura occidentale al senso della
visione, definita da Aristotele come il più nobile tra i sensi umani
perché, in virtù dell’immaterialità del tipo di conoscenza che garantisce, è la migliore approssimazione possibile dell’attività della
mente. L’invenzione della prospettiva mette l’occhio simultaneamente al centro del mondo percettivo e del soggetto che lo percepisce (ivi, p. 16). Il regime scopico della prospettiva esemplifica la
nozione disincarnata del soggetto cartesiano, il cui solipsismo separa la mente dal corpo, il soggetto dall’oggetto, l’io dal tu.
Da queste considerazioni nasce la critica di Pallasmaa all’architettura
contemporanea in quanto ritenuta incapace di progettare costruzioni a misura d’uomo, in virtù dell’esagerato predominio attribuito a
criteri formali e purovisibilisti, con la conseguente soppressione degli altri sensi, come ad esempio il tatto, e più in generale della corporeità degli spazi e di chi li abita. In conformità a quanto detto fino a
questo punto, l’approccio neuroscientifico ci permette di pensare
anche a un modo nuovo di rapportarsi a discipline come l’architettura. Possiamo dare finalmente una risposta empirica al quesito sollevato nel 1886 da Wölfflin quando si chiedeva perché proviamo emozione dinnanzi a un tempio greco. Se fossimo esclusivamente creature ottiche, argomentava Wölfflin, il giudizio estetico del mondo fisico
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ci sarebbe precluso. È
concepibile lo stupore
e il senso di elevazione
trasmessoci dalla contemplazione di un
tempio dorico o di
una cattedrale gotica
in puri termini visivi?
È concepibile divorziare l’esperienza estetica dalla nostra quotidiana esperienza motoria, tattile e visceromotoria della realtà?
Wölfflin (e insieme a
lui molti altri, tra cui
Merleau-Ponty) sosteneva di no e penso che
avesse ragione.
Il valore aggiunto che
le neuroscienze coParco archeologico di Selinunte.
gnitive possono apportare al dibattito estetico in virtù dell’estetica sperimentale, qui succintamente delineata, è molteplice. Consiste, ad esempio, nel rivitalizzare uno studio degli stili artistici e architettonici, mettendone a fuoco le radici biologiche e incarnate. Ciò renderebbe possibile guardare a una
metope o a un capitello corinzio con occhi diversi da quelli di un
moderno osservatore che contempla un’opera d’arte, riscoprendo
in quelle forme stilizzate le radici animali e vegetali, fuse nella personificazione di una divinità o di una prassi rituale-sacrificale (cfr.
Onians, 1951; Scully, 1962; Rykwert, 1972; Hersey, 1988; Robinson,
2011; Mallgrave, 2013). La naturalizzazione dell’esperienza estetica,
in altre parole, consentirebbe di inquadrare i prodotti della creatività simbolica umana con modalità meno condizionate dal gusto
estetico e dal canone culturale occidentale contemporaneo, in
quanto tali influenze possono essere messe a fattore e studiate, garantendone, così, una più piena comprensione e contemporaneamente possono essere distinte da componenti performative, verosimilmente meno influenzate dal contesto storico-culturale.
La supposta universalità dell’espressione creativa artistica umana
va meglio compresa e soprattutto ne va messo in discussione l’an-
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coraggio esclusivo al logocentrismo della scrittura. Oggi le neuroscienze cognitive ci permettono di studiare la natura umana evitando la finta scelta obbligata tra il relativismo totalizzante del costruttivismo sociale, che non lascia spazio alcuno alla costitutività
corporea della cognizione, e lo scientismo determinista di una certa psicologia evoluzionistica, che pretende di spiegare l’arte esclusivamente in termini adattativi e modulari (per una critica di questo approccio, cfr. Gallese e Guerra, 2013).
A tale proposito, il drammaturgo e antropologo nigeriano Esiaba
Irobi (dei cui contributi devo la conoscenza alla curatrice Elena
Agudio) osservava che le culture native americane, asiatiche, africane e aborigene comprendono almeno dieci forme di espressione
– alternative al linguaggio scritto – dei costrutti filosofici elaborati
e tramandati dalle comunità sociali. Esse sono iconografiche, cinestesiche, sonore, calligrafiche, prossemiche, sartoriali, linguistiche,
gustative, olfattive, tattili e spirituali. Per una consistente porzione
dell’umanità la testualità è stata o è ancora prevalentemente performativa, legata alla danza, al drumming, alla trasmissione orale, in
una parola al corpo in azione che organizza performances culturali
(cfr. Taylor, 1993). Studiando i meccanismi neurofisiologici che
presiedono all’azione corporea e al suo riconoscimento possiamo
comprendere qualcosa di nuovo circa l’origine dell’espressività
simbolica umana.
Mondi possibili: visioni digitali, film e simulazione incarnata
Noi esseri umani da sempre non ci accontentiamo del prosaico
rapporto quotidianamente intrattenuto con il reale. Ciò ci induce
a ricreare il mondo rappresentandolo, trasfigurandolo, o a crearne
uno nuovo con l’aiuto dell’immaginazione. Possiamo cacciare un
animale selvatico, rappresentarlo pittoricamente in modo naturalistico sulle pareti di una grotta, trasfigurarlo in un essere chimerico dai poteri soprannaturali e, infine, possiamo creare un bestiario
immaginario.
L’uomo contemporaneo, tuttavia, sta sperimentando il suo rapporto col reale in una nuova e inedita condizione di grande instabilità
ontologica. Siamo quotidianamente immersi in una rappresentazione della realtà che è anche il principale strumento di validazione di quella stessa realtà. Un oggetto, un fatto, un detto, o una persona sono tanto più veri e presenti quanto più sono rappresentati
dai mezzi di comunicazione di massa. La molteplicità delle fonti e
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dei punti di vista riduce sempre di più la verità dei fatti a una media ponderata di verità differenti. Inoltre, attraverso l’uso di periferiche connesse alla rete come telefonini, tablet e computer, facciamo costantemente alterna esperienza di rappresentazioni del reale
e della sua finzione narrativa, che si susseguono nei media come
un flusso ininterrotto. Un servizio del notiziario televisivo sulle
truppe americane in Iraq si alterna al film sulle truppe americane
in Iraq, come Redacted di Brian De Palma. Ciò contribuisce a rendere meno stabile il nostro senso di realtà, che feticisticamente si
alimenta sempre più delle scorie di una condivisa pubblica realtà
artificiale, talvolta contraffatta e manipolata.
Come ha scritto Mark Hansen, docente di Visual e Critical Studies
alla Duke University discutendo le tesi di Walter Benjamin sul
ruolo della tecnologia nella società contemporanea, la tecnologia
non dirige la natura, ma la relazione tra natura e uomo (2000, pp.
231-249; cfr. anche Hansen, 2004, 2006). L’introduzione delle nuove tecnologie digitali spodesta il linguaggio dal ruolo fin qui svolto
di dominante vettore dell’esperienza della realtà, mettendo una
nuova visualità non linguistica ma corporea al centro della nostra
esperienza del mondo. La modernizzazione tecnologica dell’età
postmoderna, paradossalmente, riporta il corpo al centro del rapporto instaurabile con una realtà sempre più mediata dalla rappresentazione visiva digitale interattiva. La crescente autonomia del
mondo materiale digitale colonizza sempre di più il nostro immaginario, esternalizzando al contempo le nostre memorie. L’immediatezza del reale che ogni giorno contempliamo da schermi che ci
seguono ovunque prende il posto del nostro immaginario, sostituendovisi. L’esperienza del mondo da linguisticamente riflessiva
(Erfahrung) diviene sensuosamente incarnata (Erlebnis). Si passerebbe così, secondo Hansen, dalla semiosi alla mimesi del reale. Per
questi motivi Hansen rivendica la necessità di costruire una nuova
teorizzazione che dia conto della dimensione corporea che l’impatto tecnologico digitale esercita sulla nostra esperienza. L’azione
corporea mimetica diviene per Hansen il mezzo principale per
adattarsi alla meccanosfera tecnologica dell’età postmoderna.
Le conseguenze della presa d’atto di queste analisi sono potenzialmente ad ampio raggio. Il corpo può trasformarsi da oggetto plasmato dalla digitalizzazione della visione a produttore di nuova realtà, di nuove performances culturali (Turner, 1993). Le neuroscienze, avendo la possibilità di decostruire e comprendere le modalità
con cui il corpo si interfaccia col mondo reale e con quello digitalizzato, possono per così dire svelarne il gioco, fornendo strumenti
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per progettare nuovi contesti e nuove mediazioni e, forse in un futuro futuribile, persino i mattoni con cui realizzarli.
L’immagine in movimento del film può costituire un buon punto
d’inizio per questa indagine. Non a caso, secondo Benjamin, il film
dà origine a una nuova regione di coscienza che fa riferimento a
un inedito impiego delle nostre facoltà mimetiche, e in cui la visione da meramente ottica diviene aptica, multimodale. Dall’invenzione del cinema, la rappresentazione per immagini del mondo vi
inietta in modo esplicito il movimento. Questo movimento, nel
corso dell’evoluzione storica dello stile filmico, acquisirà una complessità crescente. Al movimento dei corpi degli attori e delle cose
all’interno di un quadro statico si aggiungeranno quello prodotto
dal montaggio e poi, sempre di più, quello prodotto dai movimenti di camera. Il punto di vista della camera si fa soggetto mobile. È
in realtà un soggetto multiplo che incarna di volta in volta il punto
di osservazione/vista del regista narratore e degli attori dentro e
fuori la scena. Tutti questi punti di vista a loro volta possono essere realizzati con tipi e stili diversi di movimento della camera. Lo
spettatore è così potenzialmente in grado di immedesimarsi oppure no con diversi personaggi da prospettive e punti di vista differenti in dinamico movimento reciproco.
In un recente esperimento (Heimann et al., 2014) abbiamo deciso
di studiare come diversi modi di riprendere la stessa scena influenzino non solo la percezione consapevole degli spettatori, ma
anche la risposta del loro sistema motorio. È un approccio di tipo
pragmatico a un tema sicuramente di natura estetica: il tema dello
stile. Gli stimoli consistevano di brevi scene filmate ritraenti attori
e attrici che afferravano oggetti di uso comune con la mano per
poi guardarli. Le sequenze erano state filmate utilizzando la videocamera in quattro differenti modalità di ripresa: una statica, l’inquadratura fissa, e tre in movimento, come zoom, carrello e steadicam (la telecamera è ancorata al corpo dell’operatore che si avvicina alla scena filmata). Abbiamo registrato le risposte del sistema
corticale motorio degli spettatori mediante EEG ad alta densità. I
risultati hanno mostrato che il meccanismo di simulazione motoria, verosimilmente mediato da neuroni con caratteristiche analoghe a quelle dei neuroni specchio, si attiva di più quando la scena
è ripresa con la steadicam, rispetto a quando è ripresa con inquadratura fissa o con gli altri movimenti di camera. La tecnica di ripresa che a giudizio degli spettatori riproduceva nel modo migliore l’avvicinamento dell’osservatore alla scena osservata – la steadicam – risultava essere anche quella più efficace nell’attivare la si-
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mulazione motoria della stessa scena, misurata come desincronizzazione del ritmo mu nelle loro aree corticali motorie.
Penso che questi risultati siano importanti perché mostrano come
si possa fattivamente studiare la natura relazionale e soggettiva
dell’esperienza filmica e la sua immersiva presa emozionale grazie
all’indagine delle risposte di simulazione incarnata da essa differentemente evocata nello spettatore da diversi stili di ripresa. Questo approccio consente di analizzare gli aspetti più eminentemente estetici del film, come lo stile, da una prospettiva nuova (cfr. Gallese e Guerra, 2012, 2013, 2014).
Questo stesso nostro approccio offre anche la potenzialità di verificare empiricamente quanto lo spettatore sia effettivamente «universale», studiando la relazione tra le caratteristiche individuali, il
contesto culturale, la fenomenicità dell’esperienza estetica e i suoi
correlati neurofisiologici e corporei.
Conclusioni
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In questo breve saggio ho cercato di dimostrare che le neuroscienze cognitive oggi sono in grado di contribuire in modo decisivo ad
affrontare temi come l’espressione simbolica, l’arte e l’estetica, fino a non molto tempo fa prerogativa esclusiva delle scienze umane. Questi contributi saranno tanto più efficaci quanto più neuroscienze e scienze umane riusciranno a stabilire non solo un dialogo ma anche una fattiva collaborazione su queste tematiche di comune interesse. Dirò di più. C’è un grande bisogno di formare studiosi che sempre più siano in grado di utilizzare in modo competente entrambi gli approcci o, quantomeno, siano in grado di derivare dai linguaggi propri di queste diverse discipline dei contenuti comuni e condivisibili.
Spero di essere riuscito anche a mostrare come la complessità di
queste tematiche richieda un approccio altrettanto complesso,
certamente non declinabile nei termini di una semplicistica traduzione neuronale dei concetti in gioco. Quando rivendichiamo il
ruolo cruciale dell’«embodied cognition» per comprendere la condizione umana non possiamo limitarci a studiare il cervello da solo, ma dobbiamo contestualizzarlo alla corporeità e all’ambiente
sociale in cui manifesta le sue caratteristiche funzionali.
Le neuroscienze cognitive possono utilmente inserirsi in questo
dibattito alla luce di recenti scoperte che hanno letteralmente rivoluzionato il nostro modo di concepire la percezione. I sistemi
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sensoriali e motori non appaiono dedicati a ricevere input esclusivamente da una specifica modalità, ma si rivelano multimodali: gli
stessi neuroni rispondono a più modalità sensoriali. Oggi sappiamo che l’elaborazione della sensibilità tattile non è confinata alla
corteccia somatosensoriale, ma altre regioni del cervello, che tradizionalmente si pensava fossero subordinate a modalità sensoriali
diverse dal tatto, come la visione o l’udito, sono in realtà coinvolte
anche nella processazione di stimoli tattili. Analogamente, il sistema motorio è dotato di proprietà multisensoriali. Diversi studi
hanno dimostrato che le aree motorie frontali e parietali contengono neuroni che percettivamente rispondono a input visivi, uditivi e somatosensoriali (cfr. Gallese ed Ebisch, 2013). I neuroni
specchio ne costituiscono un esempio paradigmatico.
Movimento, tatto, propriocezione 2, udito e olfatto sono crucialmente coimplicati ogni volta che rivolgiamo il nostro sguardo sul mondo. Da ciò discende la necessità di ripensare profondamente il rapporto tra espressione simbolica e comprensione estetica. Dobbiamo guardare all’estetica da una prospettiva che metta al centro la
dimensione antropologica e i suoi sostrati neurobiologici, focalizzandoci sul rapporto tra corpo-cervello e mondo. Studiare il sistema cervello-corpo significa cercare di comprendere come la nostra
esperienza delle immagini – comprese quelle cariche di valenze
simboliche – si generi dagli stati funzionali del nostro sistema nervoso centrale, del sistema nervoso autonomo e dall’integrazione di
entrambi con l’apparato cardio-respiratorio e muscolare di un individuo con una storia personale. Fare dell’estetica sperimentale significa cercare di comprendere la fisiologia individuale della creazione e
dell’esperienza del simbolo. Questa fisiologia individuale non potrà
non tenere conto anche delle componenti proiettive che caratterizzano il nostro rapporto con le immagini, immagini artistiche comprese, qui non affrontate per motivi di spazio. Da questo punto di
vista, credo che l’approccio offerto dalla contemporanea psicoanalisi abbia ancora molto da dire al riguardo, soprattutto per il rapporto tra transfert e aspetti emozionali derivanti dall’esperienza
estetica (cfr. Frayze-Pereira, 2007; Civitarese, 2008, 2012).
Infine, credo che lo studio neuroscientifico del ruolo del sistema
cervello-corpo e della simulazione incarnata nella costituzione del
senso di realtà, e nel suo venir meno, costituisca oggi un approccio
Per propriocezione si intende la capacità di percepire indipendentemente dalla vista la posizione delle proprie parti corporee e lo stato di contrazione dei propri muscoli. È considerata una modalià particolare della sensibilità somatica.
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imprescindibile per comprendere il nostro rapporto con il mondo,
nell’età della riproducibilità tecnologica del reale. Un approccio
che apre nuove prospettive per affrontare queste problematiche
anche da un punto di vista scientifico.
OPERE CITATE
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stanza: teoria e tecnica del campo analitico, Borla, Roma.
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