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IL BRIVIDO COLLANA DI NARRATIVA Alfredo Buttafarro Le indagini parallele di Moreno Roccati Il suicidio del professore LA FELUCA EDIZIONI Prima edizione digitale Novembre 2013 realizzata da La Feluca Edizioni. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. 2013 La Feluca Edizioni s.a.s., Messina http:// www.lafelucaedizioni.it ISBN: 978-88-96358-16-0 In copertina: “Occhio” Arch. Calatrava – Valencia ( foto di A. Buttafarro) Il suicidio del professore Presentazione Moreno Roccati è un ex ispettore di polizia che, suo malgrado, è stato costretto a dare le dimissioni dal Corpo per un’accusa ingiusta e sbarca il lunario come investigatore privato. Il suo vecchio capo, il commissario Corrente, ricorre spesso, in maniera ufficiosa, al suo aiuto quando non riesce a trovare il bandolo di un’intricata matassa. È questo il caso dell’apparente suicidio di un professore di economia volato giù dal terrazzo di un palazzo di Monte Mario in un’afosa notte d’estate. Moreno indaga con discrezione e abilità tra Roma e Firenze, città natale del professore. Alla fine riuscirà a chiarire i risvolti oscuri della vicenda. Alfredo Buttafarro è nato a Messina nel 1949. Si è laureato in Medicina e Chirurgia e si è specializzato in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare. Ha lavorato per un trentennio presso un reparto ospedaliero di cardiologia come dirigente; è stato direttore responsabile di “Messina medica”; ha pubblicato numerosi lavori scientifici su riviste nazionali e internazionali. La sua prima opera di narrativa dal titolo “Angeli tristi” è tata pubblicata 2008 da “Il filo”. Nel 2009 ha pubblicato la raccolta di poesie “Parole senza musica” e il romanzo “Aquilara”; nel 2010 il romanzo “La casa di Natale Urdì” e nel 2012 la seconda edizione di “Angeli tristi” tutti per i tipi de “La Feluca Edizioni” CAPITOLO I «Aspettami qui», disse il commissario Corrente all’agente Pozzo scendendo dall’auto di servizio. A causa del gran caldo tolse la giacca ripiegandola sul braccio, poi volse lo sguardo in alto verso l’ultimo dei sei piani dello stabile di piazza Bologna di fronte al quale si trovava, ne varcò il portone e, con un sospiro di rassegnato sconforto, cominciò a salire la prima rampa di scale. Sul pianerottolo del sesto piano sostò qualche minuto, per riprendere fiato, prima di pigiare il tasto del campanello. L’incisione su una targa d’ottone mai lucidata era poco leggibile, ma Corrente sapeva che c’era scritto “Moreno Roccati, Investigazioni”. Non era la prima volta che saliva quelle scale e bussava a quella porta. Quando, dopo qualche minuto, l’uscio venne schiuso, il volto amico di Moreno si aprì in un accogliente sorriso. «Commissario, è pallido e sudato. Alla sua età non dovrebbe fare sei piani di scale». «Quando avrai sessant’anni anche tu, vedrai! Piuttosto, fammi entrare». «Si accomodi». 9 L’appartamento era modesto, della consistenza di due piccoli ambienti, fungeva da ufficio e abitazione. La prima stanza, poco più grande di un ingresso, era arredata con una vetusta scrivania di legno, due sedie, una poltroncina girevole e uno schedario verticale. Una ventola a soffitto, col suo ritmico cigolio che infastidiva, offriva un certo sollievo in quell’afosa giornata di fine luglio. L’atmosfera era vagamente retrò. Una porta, a vetri opachi, separava il primo dal secondo ambiente. Il commissario sapeva che al di là c’era un letto, un fornello a gas su una mensola di marmo, un piccolo frigorifero e un televisore. Moreno riusciva a pagare l’affitto e a sopravvivere con gli scarsi proventi della propria attività che consisteva essenzialmente nello scoprire infedeltà coniugali e cattive frequentazioni di minori ribelli e incontrollabili. Un paio di volte aveva cercato, con successo, di ritrovare i genitori naturali di persone date in adozione. Una volta si era presa la briga di cercare, senza riuscire nell’intento, un cane scomparso. Poiché non traeva grandi soddisfazioni professionali dal proprio lavoro, non disdegnava le visite del commissario Corrente che, in via del tutto amichevole e confidenziale, gli sottoponeva casi ben più impegnativi. Il commissario Corrente, aveva preso posto in una delle due sedie davanti alla scrivania, al di là della quale Moreno con aria sorniona attendeva che il suo ospite, dopo aver ripreso fiato, comin- 10 ciasse a esporgli il motivo che lo aveva condotto fin là. Lo incitò: «Allora, qual è il problema?». Corrente non faceva caso a quell’aria impertinente e di sfida che era tipica di Moreno e che gli aveva procurato qualche antipatia tra i colleghi, quando ancora era un ispettore di polizia dotato d’intuito e capacità professionali rari e preziosi. «Moreno, devo sottoporti un caso di suicidio, che non mi convince. Il magistrato vuole archiviarlo, in mancanza di elementi oggettivi che facciano pensare a un delitto». «E allora? Se non ha fatti a cui appigliarsi lo faccia archiviare e non ci pensi più». «Secondo te, uno che vuole ammazzarsi ordina una macchina nuova di lusso, ha in programma un viaggio in luoghi esotici in compagnia di una bella signora, è in lizza per ricoprire un alto incarico correlato alla propria attività professionale e, addirittura, non lascia un biglietto per giustificare il proprio gesto?». «Probabilmente il suo suicida era anche pieno di soldi e conduceva un’esistenza piacevole». «L’hai detto!». «Commissario, lo sa anche lei che il denaro non dà la felicità. Io però vorrei averne, per provare di persona se questo detto è vero» aggiunse sorridendo. Poi si alzò, aprì la porta a vetri, passò nella stanza accanto e tornò con in mano due birre ben fredde. Porgendone una al commissario disse: «Se vuole posso darle un bicchiere di carta. Io bevo volentieri dalla bottiglia». Il commissario fece un 11 gesto di diniego con la mano e bevve anch’egli un lungo sorso direttamente dal contenitore. “Che peccato!” pensò il commissario “un talento come il suo e poi quel fare schietto, il suo bell’aspetto e quel sorriso che ti mette di buonumore solo a vederlo.” Così avrebbe voluto che diventasse quel figlio che aveva perduto ancora bambino. Che peccato non avere più l’ispettore Moreno Roccati nella propria squadra. Mah! Era andato tutto storto quella domenica di Maggio di tre anni prima, a cominciare dal maledetto febbrone che l’aveva costretto a letto non permettendogli di essere presente alla manifestazione di protesta dei produttori di latte. I fatti gli erano stati raccontati in seguito dal commissario Quattrone, ma la versione di questi non lo aveva convinto. In effetti, le cose erano andate in maniera diversa da quanto appurato dall’inchiesta, ma Moreno non aveva potuto dimostrarlo. Doveva essere un corteo tranquillo che dalla stazione Termini, attraversando il centro di Roma, avrebbe raggiunto prima il Senato, quindi la sede del Parlamento. Inizialmente era andato tutto bene, la polizia si era limitata a un blando servizio d’ordine. Dietro gli striscioni colorati, un seguito chiassoso e ordinato di manifestanti aveva percorso l’itinerario previsto poi, all’improvviso, quando il corteo era appena arrivato davanti a Palazzo Madama, sede del Senato, dalle vie laterali erano sbucati numero12 si facinorosi con il volto coperto da fazzoletti, armati di spranghe e bastoni. Si trattava di un gruppo di provocatori, circa una trentina, che trasformarono un corteo pacifico in una rissa violenta. Avevano cominciato a colpire e spintonare sia i manifestanti che i poliziotti e quanti si erano trovati ad assistere. Ne era scaturita una vera e propria rissa con un fuggi fuggi generale. L’ispettore Roccati, suo malgrado e per una serie di circostanze sfavorevoli, si era trovato isolato, stretto in un vicolo senza uscita. Tre giovani, armati di spranghe, l’avevano costretto spalle al muro mentre si incitavano reciprocamente: «Ammazzalo! Dagli addosso! Porco di un celerino!». Roccati era armato, ma non aveva mai usato la propria pistola contro qualcuno per ferire, né tantomeno per uccidere. Stringeva lo sfollagente nella mano destra e sapeva usarlo. Conosceva i punti sensibili dell’avversario, ma erano in tre e provvisti di lunghe e pesanti barre di ferro. Pensò che se avesse incassato anche un solo colpo sul capo, nonostante il casco, ci sarebbe rimasto. Riuscì a schivare la prima sprangata e assestò un colpo diretto alle ginocchia del suo assalitore che rotolò per terra urlando di dolore. Ne rimanevano altri due. Uno era mingherlino e impacciato, l’altro un gigante furioso. Il più piccolo tentennò, poi aiutò il compagno ferito ad alzarsi e, insieme, indietreggiando, ripercorsero il vicolo fino a scomparire; il gigante invece continuava ad agitare la spranga davanti a sé, 13 poi attaccò. Un colpo di striscio raggiunse l’ispettore alla coscia sinistra. Urlando di dolore Moreno spinse lo sfollagente nel ventre del suo avversario, ma questi non diede l’impressione di accusare la botta, anzi sollevò la pesante sbarra per dare una batosta micidiale. Il poliziotto scartò sul lato destro per schivare la spranga e assestò un colpo di sfollagente sull’orecchio sinistro del suo assalitore. Questi rimase immobile per qualche istante poi crollò sulle ginocchia e con un gran tonfo finì bocconi davanti ai piedi di Moreno che capì subito di avergli provocato una seria lesione. Non perse un attimo, lo rigirò e tastò l’arteria carotide. Non pulsava, un pallore di morte faceva sembrare di cera il volto del gigante. Moreno prese a praticare il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. All’imbocco del vicolo arrivarono due agenti che chiamarono un’ambulanza comunicando l’ accaduto al diretto superiore. Il commissario Quattrone giunse prima dei soccorsi, quando già il gigante aveva ripreso a respirare autonomamente e Moreno era ancora inginocchiato accanto. L’ispettore Roccati colse il fugace ghigno di soddisfatta cattiveria sul volto di Quattrone. Capì subito di avergli fornito l’ occasione che aspettava da tempo. Nel trambusto qualcuno fece sparire la spranga di ferro. All’inchiesta, i due agenti e il commissario Quattrone dichiararono che il gigante era disarmato e non fecero menzione dei tentativi di rianimazione messi in atto dal collega. Anzi, il commissario affermò che, al suo arrivo, l’ispettore 14 era chino sul dimostrante probabilmente perché aveva continuato a infierire su questi nonostante giacesse privo di sensi. Il gigante fu operato per rimuovere un ematoma cerebrale, e sopravvisse, ristabilendosi del tutto. Al processo, l’ispettore Roccati venne condannato per eccesso di legittima difesa. Non scontò la pena che venne sospesa per l’ottimo stato di servizio degli anni precedenti. L’ispettore Moreno Roccati venne allontanato dal servizio per due anni, ma dopo appena un mese rassegnò le dimissioni che furono accolte immediatamente. Il commissario Corrente provava rabbia e frustrazione per la sorte che era toccata al migliore dei suoi uomini. Rabbia, perché sapeva di che pasta era fatto e non aveva creduto a una sola parola dei suoi denigratori; frustrazione, perché non era riuscito a scoprire il motivo che aveva indotto Quattrone a testimoniare contro Roccati. Era ancora assorto in questi pensieri, quando Moreno, finita la birra gli chiese chiarimenti: «Mi spieghi meglio come è morto». «È volato giù dal quinto piano, dal terrazzo di casa sua, che si trova a Monte Mario, in un palazzo signorile. Il medico legale attribuisce il decesso a trauma cranico dovuto all’impatto sul terreno. Il corpo, prima di arrivare a terra nel giardino che circonda la casa, è rimbalzato sul parapetto di due terrazzi di appartamenti sottostanti lievemente sporgenti rispetto a quello del quinto piano, così vi sono varie lesioni superficiali e fratture multiple 15 che potrebbero mascherare eventuali segni di violenza perpetrata prima della caduta. Nessuno ha visto o udito nulla. Lo stabile ha dodici grandi appartamenti, due per piano. Nove sono attualmente disabitati perché i proprietari si sono trasferiti nelle residenze al mare per il periodo estivo. Oltre al professore, che era celibe e viveva da solo, altre due famiglie erano presenti la sera della disgrazia: due anziani coniugi tre piani sotto al professore sul lato sinistro e un architetto con moglie e due figli, al quarto piano, in un appartamento sul lato destro dell’edificio. In ambedue le abitazioni gli infissi erano chiusi ed era in funzione l’aria condizionata». «Chi ha scoperto il cadavere?». «Intorno alle ventitré e trenta il maggiore dei figli dell’architetto è uscito per portare fuori il cane. Era nell’ascensore quando gli è sembrato di udire un tonfo. Appena fuori dall’androne, il cane lo ha trascinato verso il professore che era per terra in un vialetto tra le aiuole condominiali. Ha citofonato al padre che si è precipitato giù e quindi ha chiamato noi». «Che tipo era il professore?… Non mi ha ancora detto come si chiamava». «Il professore Enrico Brocca era un tipo affascinante e carismatico. Docente presso la Facoltà di Economia, rivestiva importanti incarichi in qualità di consulente del Ministero. Nonostante i suoi sessant’anni aveva un fisico asciutto e ben curato. Era socio di un circolo del tennis ove giocava due volte per settimana». 16 «Donne?». «Mai sposato. Chi lo conosceva dice che in passato ha avuto molte donne, forse anche qualche giovanissima allieva. Da qualche anno ha una relazione stabile con una docente della sua stessa facoltà, la professoressa Irma Veneziani. È un’ avvenente signora di cinquantatré anni, divorziata e con una figlia. Questa è sposata con un ingegnere minerario che lavora in Sudafrica. Vivono lì da due anni e non hanno ancora avuto figli». «Dell’ex marito che si sa?». «All’apparenza un uomo tranquillo e mite. È un avvocato civilista, stimato e benvoluto dai suoi collaboratori. La separazione risale a quindici anni or sono ed è stata consensuale». «Suppongo che il viaggio che il professore aveva in programma di fare, sarebbe stato in compagnia della signora di cui stiamo parlando». «Sì. Abbiamo trovato la prenotazione a nome di tutti e due per una crociera sul Baltico compresi i biglietti per i voli da Roma a Copenaghen e ritorno e i transfer al porto di quella città da dove sarebbe iniziata la crociera stessa». «Segni di effrazione in casa?». «No. La porta è blindata, ma con una di quelle serrature che, se non vi è almeno una mandata, si aprono strisciando una lastra o una carta di credito semirigida. Così abbiamo aperto senza bisogno di chiamare un fabbro. Comunque in casa era tutto perfettamente in ordine. L’unica cosa fuori posto che abbiamo trovato, stava sul terrazzo da cui è precipitato. Una delle quattro sedie di ferro battuto 17 che erano disposte intorno a un piccolo tavolo, era stata spostata e giaceva rovesciata per terra pressappoco nel punto dal quale probabilmente il professore era volato di sotto». «Potrebbe esservi salito per scavalcare meglio il parapetto, rovesciandola quando si è dato la spinta con i piedi». «Potrebbe! Ma potrebbe anche averla rovesciata nel tentativo di frapporre un ostacolo tra se e il proprio aggressore». «Anche questa è un’ipotesi plausibile». «Impronte digitali?». «Tante del professore, alcune sono riconducibili al portiere o alla donna che si occupava delle pulizie. Sulla sedia rovesciata alcune impronte non identificate. Niente capelli, se non quelli del professore tra i pettini nella toilette. Stiamo controllando altre eventuali tracce». «Caro commissario, non mi sembra che vi siano tante frecce al suo arco! Sostenere l’ipotesi di un omicidio è quantomeno azzardato e privo di elementi fondati. Lei sa benissimo che un momento di sconforto può capitare a chiunque. La mente umana è ancora piena di misteri anche per chi la studia». «Hai ragione! Ma di solito chi arriva a togliersi la vita ha dei precedenti, si è sottoposto a terapie antidepressive se non ha, addirittura, già tentato di togliersi la vita. Il suo medico di fiducia, oltre che amico personale, esclude in maniera categorica che Brocca fosse un depresso». 18 Tra un sorso e l’altro della birra ghiacciata, l’ex ispettore Roccati aveva preso brevi appunti sotto lo sguardo compiaciuto del commissario. In realtà aveva annotato solo nomi o parole che gli dovevano servire da promemoria nel corso dell’indagine successiva. Il commissario si riteneva soddisfatto. La sua visita aveva avuto l’effetto di stimolare la curiosità di Moreno. Questi sapeva bene che Corrente non aveva alcuna intenzione di sfruttare le sue doti per trarne un vantaggio personale, e che era mosso solo dall’impulso irrefrenabile di sbrogliare il bandolo invisibile di una matassa che, proprio perché all’apparenza sembrava semplice, doveva per forza essere parecchio intricata. Lui e il commissario erano fatti della stessa pasta: erano due “segugi” che quando fiutavano una pista dovevano seguirla fino in fondo, a qualunque costo. L’avevano fatto, spesso da soli e, qualche volta, insieme. Tutti e due avevano pagato il prezzo della propria cocciuta perseveranza. 19 CAPITOLO II L’agente Piera Pozzo bussò alla porta di Moreno l’indomani mattina, di buon’ora. Aveva con sé un plico sigillato che le aveva dato il commissario Corrente. L’agente non conosceva l’esatto contenuto del plico, ma immaginava si trattasse di materiale riguardante l’inchiesta in corso. «Entra Piera. Ho appena fatto il caffè. Prendiamone insieme una tazza». «Grazie, lo accetto volentieri, anche se ne ho preso uno al distributore automatico prima di uscire dal Commissariato. Come va, ispettore?». Non riusciva a chiamarlo in altro modo. In passato avevano lavorato insieme e provava per lui un’ammirazione enorme. Anzi, spesso, si era chiesta quale fosse in realtà il sentimento che provava per Moreno. Poteva essere amore? Forse si trattava solo di fiducia assoluta mista a devozione, attaccamento, rispetto. In realtà non sapeva bene cosa fosse l’amore. Da adolescente, a differenza delle sue coetanee, non aveva mai preso una cotta vera e propria. C’era stato un ragazzo con cui aveva amoreggiato per qualche mese. Poi basta. 20 I corteggiatori non le erano mai mancati, meno che mai ora che era una giovane donna bella, alta, bruna, con un fisico atletico e il volto dai lineamenti decisi addolciti da uno sguardo profondo. I suoi occhi neri possedevano una particolare brillantezza e un fascino accattivante. Lei e Moreno avevano vissuto anche momenti di estremo pericolo e non poteva dimenticare lo spirito di abnegazione e la generosità dell’ispettore Roccati. Questi, durante un conflitto a fuoco con dei rapinatori in fuga, si era buscato una pallottola in pieno petto per farle da scudo. Meno male che il giubbotto antiproiettile aveva tenuto. Il colpo era stato sparato da distanza ravvicinata con un’arma di grosso calibro e l’impatto era stato violentissimo al punto da sbalzare Moreno indietro di qualche metro. L’agente Piera Pozzo, allora, aveva appena vent’anni ed era alla sua prima pattuglia. Era un bravo pilota. Aveva completato l’addestramento sulla pista di Monza. Quando arrivò la comunicazione via radio che era stata rapinata una farmacia notturna nella loro zona, l’agente attivò la sirena e, sgommando, fece un testacoda per immettersi nella giusta corsia, mentre Moreno indossava il giubbotto. Cento metri più avanti, una BMW nera sbucò da una traversa alla loro destra per immettersi nello stesso senso di marcia accelerando bruscamente. Cominciò l’inseguimento che si concluse dopo meno di un chilometro. Il conducente della BMW perse il controllo della vettura andando a schian21 tarsi contro un’autobotte munita di spazzoloni per la pulizia delle strade. Pozzo dovette usare tutta la propria abilità per non cozzare con i mezzi incidentati. L’ispettore Roccati scese dalla macchina, pistola in pugno. Ordinò alla compagna d’indossare il giubbotto e di chiamare soccorsi; ma lei, nella concitazione del momento, non eseguì l’ordine e scese immediatamente dall’auto con l’arma in mano. Dalla BMW non sembrava venire alcun segno di vita. Moreno era attento a ogni possibile reazione proveniente dall’automobile con i rapinatori a bordo e non si era accorto che Piera procedeva alla sua sinistra, solo un paio di metri dietro. Nello stesso istante in cui vide il braccio e il luccichio dell’arma che sporgeva dal finestrino, si rese conto della presenza della sua collega. Istintivamente scartò sulla sinistra e le fece scudo con il proprio corpo. Il guidatore della BMW, nonostante avesse fratture alle gambe e fosse intrappolato nell’abitacolo continuò a esplodere altri colpi verso l’auto della polizia, fino a che non ebbe esaurito i proiettili. Venne estratto più tardi con l’aiuto dei vigili del fuoco. Il suo compagno era morto sul colpo nell’urto, per trauma cranico. L’ispettore Roccati ricevette un encomio ufficiale e guadagnò l’eterna gratitudine dell’agente Pozzo. 22 La risposta dell’ispettore la distolse dal ricordo di quegli avvenimenti «Va bene, anzi benissimo, se non fosse per il fatto che col mio mestiere si guadagna una miseria. Giusto per sopravvivere». «Veramente non è che con lo stipendio nostro vada meglio». «Sono tempi duri per tutti». Bevvero il caffè in silenzio. Poi Moreno chiese: «Che ne pensi del caso Brocca?». «Veramente non ho una precisa opinione. Il commissario Corrente è convinto che si tratti di omicidio. Lei, ispettore, che idea s’è fatta?». La domanda non ebbe risposta. Roccati disse: «Ti prego Piera, non chiamarmi ispettore. Intanto non lo sono più e poi non potresti chiamarmi Moreno e darmi del tu? Ormai te lo chiedo da un po’, ma non vuoi accontentarmi». Piera annuì, abbassò per un attimo lo sguardo, poi fissò Moreno con i suoi grandi profondi occhi neri senza dire nulla. I due si guardarono per un tempo breve ma che sembrò loro lunghissimo, poi lei, per congedarsi, tese la mano destra che Moreno strinse per qualche secondo in più del dovuto. Si salutarono così senza aggiungere altro. Piera, scendendo per le scale, si diede della stupida. Dopo essersi rasato e aver indossato una polo pulita sui soliti pantaloni chiari di cotone “non stiro”, Moreno sedette alla scrivania e aprì il plico che gli aveva mandato Corrente. Conteneva le fo23 tocopie di tutto il materiale raccolto sulla morte del professor Brocca. Analizzò con cura la relazione del medico legale che si atteneva alla descrizione anatomica delle lesioni sia superficiali che profonde. La morte veniva attribuita al trauma cranico provocato dall’impatto sul terreno. Vi erano fratture multiple agli arti e numerose escoriazioni e tumefazioni presumibilmente dovute al cozzare del corpo contro le sporgenze dei terrazzi incontrati durante la caduta. Al quesito posto dal magistrato inquirente relativo alla presenza di segni di violenza sul corpo, il medico rispondeva che, considerati gli effetti dei ripetuti urti, non potevano essere esclusi, specie quelli al capo, in quanto l’impatto sul terreno era avvenuto proprio con questa parte che appariva deformata. In definitiva non poteva essere escluso che qualcuno l’avesse tramortito o solo spinto giù dal terrazzo. Nessuno aveva udito urla. I pochi inquilini presenti nello stabile, tenevano gli infissi chiusi e i condizionatori accesi. Era alquanto improbabile che potessero essere udite grida o richieste d’aiuto in tali circostanze. Tuttavia bisognava controllare. Moreno prese il telefono e chiamò Corrente al cellulare. Non voleva che la sua telefonata passasse dal centralino del commissariato. «Pronto, commissario, sono Moreno. La disturbo? Può parlare?». «Dimmi, Moreno». «Ho pensato che dovrebbe verificare se è possibile udire, nei due appartamenti che quella sera 24 erano abitati, con gli infissi chiusi, eventuali urla provenienti dal terrazzo del professore o, comunque, dall’esterno». «Ci avevo pensato anch’io. Verificherò». «Penso pure che dovremmo cercare di saperne di più riguardo agli incarichi che il professore aveva al ministero e, in particolare, conoscere ciò di cui si stava occupando in quest’ultimo periodo». «Va bene, vedo di fissare un appuntamento con un funzionario. Verrai con me. Ti chiamo per dirti quando». «Ok, commissario. Mi chiami al cellulare. Io me ne vado un po’ in giro per saperne di più sul professore Brocca». Moreno in sella alla sua vecchia Vespa 150 color amaranto, destreggiandosi nel traffico romano, raggiunse la Facoltà di Economia dell’Università “La Sapienza” di Roma in via del Castro Laurenziano. Parcheggiò il suo logoro mezzo di locomozione tra tanti fiammanti moderni scooter. Non si può dire che avesse l’aria di uno studente, ma non sembrava neanche uno sbirro, un atleta piuttosto, per il suo incedere agile ed estremamente coordinato e la notevole prestanza fisica. L’ingresso era ampio e abbastanza fresco, nonostante la calura estiva. Moreno andò dritto verso un box di alluminio e vetro dentro al quale sedeva un omino grasso e pelato dall’aria annoiata. A questi chiese: 25 «Senta, mi chiamo Roccati, sono un investigatore ingaggiato da una compagnia di assicurazioni. Vorrei farle qualche domanda sul professore Brocca. Lei lavora qui da molto? Lo conosceva bene?». «Io sto qui da vent’anni. Certo che lo conoscevo. Ma che c’entra l’assicurazione?». Moreno si avvicinò al suo interlocutore con atteggiamento circospetto. Guardandosi intorno e, abbassando il tono della voce, aggiunse: «Sento di potermi fidare di lei. Voglio farle una confidenza che spero sappia tenere per se. Il professore aveva stipulato da poco tempo un’assicurazione per un milione di euro in caso di morte accidentale. Per la polizia si tratta di suicidio anche se non si è trovato un biglietto o una lettera che spieghi il gesto. Gli eredi sostengono la tesi di un incidente. La società per cui lavoro vuole vederci chiaro anche perché la somma da pagare è considerevole. Lei conosceva il professore. Pensa che avesse motivi seri per suicidarsi? Signor … Mi scusi, ma non conosco ancora il suo nome». «Mi chiamo Mario, Mario Cirro. Come le dicevo, sto qui in questa guardiola da vent’anni. Il professore Brocca era un pezzo grosso, uno di quelli che contano, con la mosca al naso. Rispettoso però. Anche gentile. Salutava sempre, ma non si fermava mai a scambiare una parola». «Dal punto di vista professionale, che lei sappia, aveva avuto contrasti, motivi di amarezza o risentimento verso altri?». «Signor Roccati, si vede che lei non conosce l’ambiente universitario. Qui è una giungla! Appa26 rentemente sembrano tutti amici, ma, in realtà, i professori sono sempre in guerra tra loro. Girava voce che Brocca sarebbe stato il prossimo preside di Facoltà, anche se l’altro candidato, il professore Castelli, non era ancora considerato escluso dalla corsa alla carica. Le elezioni si terranno a settembre. Con tutto il rispetto e senza voler essere cinico a Castelli non gli poteva andare meglio». «Senta Mario, anche per capire meglio chi era il professore Brocca, non che questo abbia attinenza con l’assicurazione, ma quasi per una curiosità mia: storie di donne?». Mario sembrava esitare. Moreno sfoggiò uno dei suoi sorrisi migliori e, giocando d’astuzia, aggiunse: «Lasci stare, signor Cirro, capisco il suo riserbo. Lei è una persona per bene. Non è necessario che mi dica nulla». Mario reagì nel modo atteso. «Io mi faccio sempre i fatti miei, ma qua lo sanno tutti che il professore faceva il dongiovanni con le studentesse, sempre con molta discrezione però. Non c’è mai stato uno scandalo. Secondo me qualche studentessa che sapeva del suo vizietto, ne approfittava per prendere una scorciatoia alla laurea». «Quindi il professore ci provava!». «Così si dice». «E della professoressa Veneziani, che mi dice?». «Mah! Che le devo dire. Qui dentro quasi non si salutavano. Ma fuori li hanno visti insieme. Così dicono». 27 «Un’ultima cosa: sa se oggi c’è qualcuno dei suoi assistenti e dove posso trovarli?». «Ricercatori si chiamano: una volta c’erano gli assistenti, ora ci sono solo professori e ricercatori. Comunque, può trovare qualcuno nella biblioteca dell’Istituto, al primo piano». «Grazie e buona giornata». Moreno salì in fretta al primo piano. La biblioteca era una vasta sala rettangolare. Attraverso la porta a vetri vide un grande tavolo ovale al centro circondato da tante sedie di legno. Le pareti erano rivestite da scaffalature che arrivavano al soffitto, stracolme di libri. Era deserta. Moreno stava ancora guardando dentro quando gli si avvicinò un uomo sulla quarantina, dai tratti giovanili, ma con qualche capello grigio. «Desidera?» chiese l’uomo. Moreno trasalì, sorpreso e impacciato «Sì, certo! Vorrei parlare con un ricercatore dell’Istituto diretto dal professore Brocca». «Dica pure. Sono il dottor Gualdi, faccio parte dell’organico dell’Istituto». Moreno ripeté la fandonia dell’assicurazione e della necessità di scoprire se il professore avesse o meno motivi che potessero indurlo al suicidio. Il dottor Gualdi ascoltò con attenzione e, nonostante non sembrasse del tutto convinto delle parole del suo interlocutore, rispose con diligenza: «Ho letto sul giornale che non è stato trovato alcun scritto che giustificasse il gesto. D’altro canto, anche se non sono mai stato a casa sua, mi 28 sembra che sia abbastanza improbabile che il professore si sia imprudentemente sporto dal terrazzo fino a precipitare. Io conoscevo bene il professore solo dal lato professionale. Comunque le posso assicurare che non mi ha mai dato l’impressione di essere una persona capace di pensare al suicidio. Anzi, credo, fosse un uomo capace di apprezzare i piaceri della vita». «A proposito. Ho sentito qualche voce su storie con studentesse». Il dottor Gualdi rispose immediatamente con aria indignata, ma con eccessiva enfasi che sembrava contraddire la propria affermazione: «Malignità assolutamente infondate!». Moreno capì che era inutile insistere su quell’argomento. Consapevole del passo falso, fece marcia indietro e corresse il tiro: «Ne sono convinto anch’io. Sono abituato a raccogliere maldicenze e a dar loro il giusto peso. Un’ultima cosa vorrei chiederle, anche se, probabilmente, ha poco a che vedere con la mia indagine. Mi risulta che il professore fosse consulente del ministero dell’Economia. Sa dirmi di cosa si stesse occupando in questo periodo?». «Mi dispiace, ma le sue attività extrauniversitarie appartenevano alla sfera strettamente professionale e il professore non ne discuteva mai né con me né con altri del nostro gruppo». Moreno non cercò di incontrare la professoressa Irma Veneziani. Voleva prima conoscere l’ex marito. Il suo lavoro alla facoltà di Economia era finito. 29 Uscì sotto i raggi di un solleone e si avviò verso la vespa. Ebbe la netta impressione di essere osservato. Non si voltò, doveva esserci qualcuno alle sue spalle, ne era sicuro. Arrivato allo scooter, aprì il bauletto posteriore, estrasse il casco, lo indossò, poi montò in sella e solo allora diede uno sguardo apparentemente distratto agli specchietti retrovisori. Aveva ragione. Un giovane in jeans chiari e maglietta scura stava seduto sui gradini più bassi della scalinata d’ingresso e faceva finta di leggere pagine di un blocco di appunti mentre lanciava sguardi verso Moreno. Aveva i lunghi capelli scuri raccolti in una piccola coda e un berretto di cotone con visiera gli nascondeva la fronte. Voleva sembrare uno studente che sfogliava distrattamente i suoi appunti. Ma quale studente a fine luglio sarebbe stato sotto il sole a studiare? Non doveva essere neppure tanto giovane. Probabilmente aveva più di trent’anni. Qualcun altro si interessava all’indagine, non c’era dubbio. Moreno pensò che la cosa migliore fosse non far capire di essersene accorto. La storia cominciava a piacergli. 30 CAPITOLO III Alle nove del mattino del giorno dopo, Moreno e il commissario Corrente s’incontrarono in un bar di Via XX Settembre poco distante dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Consumarono cappuccino e cornetto. Moreno, tra un sorso e un boccone, raccontò della sua visita alla facoltà di Economia, ma non disse che credeva di essere stato spiato. Corrente, dal canto suo, gli riferì di aver interrogato la professoressa Irma Veneziani che aveva confermato la propria relazione con il professore, aggiungendo che avevano in programma di fare una crociera insieme. Era sembrata sinceramente addolorata e incapace di dare una spiegazione all’ipotesi del suicidio. Anche lei era convinta che non ci fossero motivi per un gesto estremo. Nel primo pomeriggio ci sarebbero stati i funerali di Brocca. Concordarono di presenziare alla cerimonia, ma di recarvisi separatamente. Uno dei segretari del Capo Gabinetto del Ministro si chiamava Gregorio Simoni ed era stato compagno di classe di Corrente durante gli anni 31 del liceo. L’accoglienza fu calorosa. Il commissario disse una mezza bugia presentando Moreno come un suo collaboratore. «Caro Gregorio, sono venuto a chiedere un’ informazione riservata che resterà tale. Come avrai avuto modo di sapere attraverso gli organi di stampa, il professore Brocca è precipitato giù dal terrazzo di casa sua. Prima di archiviare il caso come suicidio, dobbiamo escludere qualunque altro motivo. Vorremmo conoscere il ruolo esatto che rivestiva qui al ministero e, se possibile, sapere esattamente di cosa si stava occupando in quest’ultimo periodo». Simoni rispose senza indugi: «Brocca era un consulente del Ministro, nominato dallo stesso. Che io sappia, non lavorava a un progetto specifico. Credo, piuttosto, che fosse un consigliere che veniva frequentemente interpellato quando bisognava adottare misure atte a fronteggiare questo periodo caratterizzato da crisi ripetute». Moreno intervenne: «Se ho ben capito, il professore Brocca, in qualità di consulente, rispondeva solo al Ministro e quindi solo lui potrebbe darci ulteriori delucidazioni». «Sì. È proprio così. Credo di capire che siete alla ricerca di un’eventuale pista politica. Se volete un mio parere personale penso che siate fuori strada». Si congedarono. Erano delusi. Non si riusciva a cavare un ragno dal buco. 32 In via XX Settembre c’era un ingorgo. Anche i taxi erano bloccati nella corsia preferenziale. «Commissario, se vuole posso darle uno strappo con la mia vespa». «Lascia perdere. A causa della mia artrosi alle anche non riuscirei a montarci sopra. Prenderò un taxi più avanti. Ci vediamo al funerale, alle tre del pomeriggio». «Ci sarò. A più tardi». Moreno si avviò con passo deciso, guardandosi intorno con fare apparentemente distratto. Cercava il finto studente con i capelli raccolti e il cappellino con visiera. Non c’era. Pensò che forse si era sbagliato. Magari era proprio uno studente e gli piaceva starsene lì a prendere il sole. La storia perdeva d’interesse. Stava addirittura pensando di non andare al funerale. Avrebbe dovuto telefonare al commissario e inventare una scusa. Gli sembrò un comportamento infantile. Pazienza, anche se a malincuore, sarebbe andato! Moreno, dopo aver parcheggiato la vespa, si fermò al minimarket sotto casa dove acquistò una confezione di sei bottiglie di birra, due panini, prosciutto e una mozzarella. Appena tornato in strada vide passare una moto di grossa cilindrata con due giovani a bordo. Non ne ebbe la certezza, perché i due indossavano il casco, ma gli sembrò che l’uomo seduto dietro fosse proprio il finto studente di Economia. Salì i sei piani di scale agilmente. Entrò in casa. Sistemò le bottiglie nel frigo e cominciò a prepara33 re i panini farcendoli con il prosciutto e fette di mozzarella. Un’idea improvvisa gli fece interrompere ciò che stava facendo. Andò alla scrivania, aprì il cassetto centrale, tirò fuori il plico che gli aveva mandato Corrente. Moreno, quando era ancora in polizia, aveva l’abitudine, riponendo i dossier di sua competenza, di allineare bene tutte le pagine, lasciando sporgere dal margine verso il basso di appena qualche millimetro, solo il terzo foglio. L’espediente gli aveva consentito di individuare intromissioni indesiderate. Questa sua deformazione professionale era diventata un’abitudine che eseguiva meccanicamente. Tirò fuori i fogli e vide che erano stati tutti perfettamente allineati. Qualcuno aveva letto quelle carte durante la sua assenza. Andò a guardare la serratura della porta d’ingresso. Non notò alcun segno sospetto. La porta era stata aperta da un professionista. Tornò a occuparsi dei panini e cominciò a riflettere sull’accaduto. Qualcuno era interessato all’indagine che stava svolgendo e voleva conoscere quali elementi avesse raccolto. Probabilmente non si trattava di un singolo individuo, ma di un’organizzazione. I giovani in moto erano due. Verosimilmente, mentre uno era entrato in casa, l’altro aveva fatto da palo, in modo da poter avvertire il complice nel caso di un suo rientro. 34 La chiesa era piena a metà. L’afa, a quell’ora di pomeriggio, era diventata quasi insopportabile. Moreno aveva indossato l’unica giacca di cotone che faceva parte del suo ristretto guardaroba estivo. Attraversò la navata laterale procedendo con discrezione, percorrendola per intero, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. C’erano delle panche ai lati dell’altare, poste perpendicolarmente ad esso, parzialmente nascoste, all’occhio dei più, dalle poderose colonne che sostenevano la volta dell’abside. Vi trovò posto e sedette. Si dimostrò essere un buon puto d’osservazione, almeno rispetto alla parte anteriore della navata centrale. Riconobbe, in prima fila, il Ministro e alcuni uomini politici dello stesso partito. Una signora di mezz’età che indossava un abito color verde scuro dal portamento elegante, sedeva anch’essa in prima fila, proprio accanto alla bara. Doveva essere la professoressa Veneziani. Accanto a lei un signore anziano in abito scuro, camicia bianca e cravatta nera, aveva l’aria sinceramente addolorata. Mentre cercava di capire chi potesse essere, Moreno sentì la voce di Corrente che gli sussurrava: «È l’unico fratello di Brocca, un medico in pensione che vive a Firenze. È stato lui a fare il riconoscimento della salma». Moreno non aveva visto arrivare il commissario, preso com’era dall’osservare i presenti, e fu sorpreso di vederselo accanto. Non si scambiarono altri commenti. Il dottor Gualdi dell’istituto di Economia era in quarta fila. Poi gli sembrò di 35 scorgere il giovane finto studente. Si alzò senza dire niente a Corrente e si diresse verso l’uscita appena in tempo per vederlo montare sulla moto di grossa cilindrata di cui memorizzò prontamente la targa che poi trascrisse sul proprio telefonino. Al termine del rito funebre, fuori dalla chiesa, Moreno disse a Corrente che voleva parlargli. Andarono in un bar vicino, sedettero ad un tavolo isolato e lì riferì al commissario delle circostanze in cui aveva incontrato il giovane, compresa quest’ultima, e che qualcuno aveva frugato tra i documenti riguardanti la morte di Brocca. «Ho preso nota del numero di targa della moto. Dovrebbe cercare di risalire al proprietario, anche se credo si rivelerà una pista impercorribile». «Che vuoi dire?». «Potrebbe essere una targa falsa o, come penso sia più probabile, essere criptata». «Credi che ci siano dietro i Servizi?». «Chi altri? A chi può interessare sapere come è morto un professore di Economia consulente del Ministro?». «In tal caso, avremmo le mani legate. Lo sai bene che è impossibile ottenere qualche informazione dai Servizi. Dovrei rivolgermi al Questore, ma come potrei spiegare che i Servizi stanno spiando un investigatore privato, ex ispettore di polizia, da me incaricato delle indagini? Mi dovrei ritenere fortunato se riuscissi a cavarmela con un trasferimento in un paesino dell’Alto Adige a dover 36 imparare il tedesco, una lingua che non riesco a digerire». «Io le ho dato la targa, poi faccia lei», concluse Moreno con quel suo sorriso impertinente. 37 CAPITOLO IV L’avvocato Siani ricevette l’investigatore Roccati dopo aver consultato il sito della Confederazione Nazionale Investigatori Privati (CON.IPI.). In effetti, tra gli associati operanti nella regione Lazio, figurava il nome di Moreno Roccati. L’avvocato non era diffidente per natura, ma in tanti anni di professione aveva imparato a essere prudente. Era sempre bene sapere qualcosa di un interlocutore sconosciuto. «Prego, si accomodi», disse alzandosi in piedi e indicando una poltrona di pelle proprio di fronte a lui, dall’altro lato della scrivania. «Grazie avvocato! Mi chiamo Moreno Roccati», disse mostrando il tesserino della CON.IPI, «come le avrà certamente detto la sua segretaria che ha fissato questo appuntamento, sono un investigatore privato e sto svolgendo una delicata indagine nella quale lei potrebbe essere, involontariamente e del tutto marginalmente, implicato». «Non capisco, si spieghi meglio». «Si tratta della morte del professore Brocca». 38 Moreno fece una pausa e guardò il suo interlocutore che gli sembrò infastidito, piuttosto che preoccupato. «Guardi che, per questa storia, ho già ricevuto la visita di un commissario di polizia non del tutto convinto che si sia trattato di un suicidio. Poi, a essere sincero, non capisco a che titolo lei stia svolgendo un’indagine che, in tutti i casi, se proprio fosse necessaria, sarebbe di competenza dell’autorità giudiziaria». Moreno sapeva bene che la storia dell’assicurazione sulla vita non sarebbe stata creduta dall’avvocato perché a lui avrebbe dovuto rivelare il nome della Compagnia assicuratrice. Siani avrebbe potuto facilmente controllare la veridicità delle sue affermazioni. Moreno si trincerò dietro il segreto professionale che, sicuramente in un colloquio informale come quello, avrebbe retto egregiamente. Mentì: «La prego di scusarmi, ma l’incarico mi è stato affidato da una persona molto vicina al professore che mi ha vincolato al più stretto riserbo». «Va bene. Sarei tentato di interrompere subito questo colloquio, ma credo che sia giusto fugare ogni dubbio o sospetto che lei o altri possono avanzare». «Grazie per la sua collaborazione. Vorrei sapere in che rapporti è con la sua ex moglie». «Esiste reciproco rispetto per le scelte che ognuno di noi ha fatto dopo la separazione. Non ci vediamo quasi più da quando nostra figlia è partita. Abbiamo avuto una sola figlia che ha sposato un 39 ingegnere minerario e da due anni vive in Sudafrica col marito». «Lei sapeva della relazione che aveva col professore Brocca?». «No. Me lo ha comunicato il commissario di polizia che è venuto a interrogarmi dopo la morte di questo professore che, a quanto pare, era un personaggio di spicco. Mi è dispiaciuto per Irma. Vede, dopo tanti anni dalla separazione, ci si dimentica dei torti subiti e degli antichi rancori e si crea un rapporto affettivo strano, come quello che si instaura tra lontani parenti che sanno di essere consanguinei e, per questo, sentono di appartenere alla stessa famiglia, pur senza frequentarsi o vedersi per periodi lunghissimi. Quando ho saputo, l’ho chiamata. Abbiamo parlato a lungo. Era veramente addolorata. Penso che amasse quell’uomo!». «La ringrazio molto per avermi ricevuto e per avere accettato di rispondere alle mie domande. Le auguro una buona giornata». Si alzò e uscì immediatamente dalla stanza. L’avvocato Siani era un brav’uomo schietto e sincero, pensò. Sicuramente non aveva nulla da nascondere e sarebbe stato inutile insistere con domande tendenziose. Per Moreno, quella era una pista che si esauriva lì. Il pomeriggio era caldo e afoso. Moreno non tollerava il casco; parcheggiò la vespa e decise di scendere sul lungotevere Michelangelo, quel tratto della riva destra del fiume che va da piazza Cinque Giornate a piazza della Libertà, nel rione Prati. Il Tevere scorreva lento; tra gli alti argini una corren40 te d’aria saliva da valle verso monte portando un lieve refrigerio. Moreno accese mezzo sigaro toscano aromatizzato all’anice e continuò a passeggiare pigramente. L’indagine era a un punto morto. Le piste percorribili sembravano tutte esaurirsi immediatamente: il movente passionale era da escludere; l’avvocato Siani era un uomo tranquillo che non avrebbe fatto del male a una mosca, figuriamoci al compagno della ex moglie dopo quindici anni di separazione pacifica; delle presunte storie con studentesse non si trovava traccia; per la sua attività di consulente del Ministro avrebbe potuto attirare l’attenzione di gruppi eversivi, ma non vi era stata alcuna rivendicazione. Moreno pensò che avrebbe dovuto indagare meglio su eventuali rivalità nel mondo accademico, o meglio cercare chi, in quell’ambiente, potesse avere motivi di odio o rancore verso il professore. Estrasse dalla tasca il telefono e compose il numero del cellulare di Corrente. Dopo alcuni squilli rispose una donna: «Ispettore è lei? Sono l’agente Pozzo. Ho visto il suo numero». «Piera. Passami il commissario». «Non posso. Siamo dall’oculista. Il commissario è impegnato nel controllo del fondo dell’occhio e, poiché dopo l’applicazione delle gocce di atropina necessarie all’esame, si ha una visione distorta che rende impossibile guidare, io l’ho accompagnato. Mi ha dato il suo cellulare per rispondere alle emergenze, anche se non siamo in servizio. Se vuole, può lasciare un messaggio». 41 «Va bene Piera. Vorrei sapere se è riuscito a risalire al proprietario della moto. Lui sa a che cosa mi riferisco». «Glielo dirò». Continuò la sua passeggiata. Pensò che avrebbe potuto essere più gentile con Piera. Si chiese il perché del suo atteggiamento con quella ragazza che sembrava adorarlo. Nel loro ultimo incontro c’era stato un attimo magico, uno di quei momenti che possono dare inizio a tutto o sfumare in un niente. Si chiese cosa provasse per lei, senza riuscire a darsi una risposta. Pensò che le avrebbe solo fatto del male. Se avessero cominciato a frequentarsi, Piera si sarebbe rovinata la carriera. Tutti quelli che lo avevano danneggiato, a cominciare dal commissario Quattrone, avrebbero perseguitato anche lei. Mentre era assorto in questi pensieri, squillò il telefono. «Moreno?». «Sì». «Sono Corrente». «Commissario, come è andata la visita?». «Così, così. La pressione alta mi sta rovinando anche gli occhi, ma per il momento non è un problema grave. Speriamo che la situazione non peggiori!». «Speriamo!». «Volevi sapere della targa della moto. È come pensavo. È criptata. Comunque, è meglio che ne parliamo vis-a-vis, anche perché ci sono delle altre novità che dovresti sapere». «Va bene. Che fa, viene da me?». 42 «Mi vuoi vedere morto? Non ce la farei a salire di nuovo sei piani di scale. Ho un’idea migliore: visto che domani è domenica, perché tu e Piera non venite a trovarmi a Genzano per fare il punto della situazione fermandovi a pranzo da me? Piera è d’accordo. Potrebbe, se vuoi, passare a prenderti sotto casa alle dieci in punto». «Va bene, a domani». Il commissario aveva una graziosa casetta proprio alle porte di Genzano circondata da alberi di alto fusto che ombreggiavano il piccolo giardino di pertinenza. Moreno c’era stato qualche volta, quando ancora era in servizio e viveva la moglie del commissario, ottima cuoca e persona gentile. L’idea di tornarvi in compagnia di Piera non gli dispiaceva. 43 CAPITOLO V Alle dieci in punto dell’indomani mattina Piera accostò al marciapiede proprio davanti al portone dal quale, solo dopo qualche secondo, uscì Moreno. L’aria era già calda. Il cielo terso. Si preannunciava un’altra giornata rovente. Moreno sorrise a Piera salendo in macchina e sedendole accanto. Lei ricambiò il sorriso e i suoi occhi scuri brillarono di una luce più intensa del solito. Aveva sciolto i capelli che le ricadevano sulle spalle, scuri e lucenti. Indossava jeans chiari e una maglietta scollata. A Moreno sembrò particolarmente avvenente. Per fortuna non c’era molto traffico e raggiunsero in poco tempo il grande raccordo anulare che lasciarono all’uscita ventitré per la Via Appia in direzione Ciampino - Albano Laziale. La strada cominciava a salire dolcemente divenendo sempre più alberata. Piera chiuse l’aria condizionata e abbassò il finestrino. L’aria che entrava era abbastanza fresca e le scompigliava i capelli. Indossò un paio di occhiali scuri, più per proteggersi dalla modesta turbolenza della brezza che dai raggi del sole. La strada, infatti, era suffi44 cientemente ombreggiata da alberi di alto fusto a chiome folte. Lungo tutto il tragitto, fin lì, avevano scambiato solo qualche frase di cortesia e ambedue non riuscivano a dissimulare un certo imbarazzo. Piera ripensava a quanto tempo aveva impiegato a scegliere gli indumenti che mettessero meglio in risalto le sue forme, a pettinarsi e truccarsi. Tutto inutile. Moreno continuava a guardare dritto davanti a sé. Non era da lui essere intimidito da una presenza femminile, eppure era proprio ciò che gli stava accadendo. Reagì. «Ascoltami Piera, non so bene se è per il fatto che tu continui a darmi del lei o perché vorrei dirti che mi piaci o per ambedue le cose, ma tutto ciò mi innervosisce e non facilita il nostro rapporto. Diventa difficile pure dialogare». «Anche tu mi piaci», disse lei sorridendo. Spostò la sua mano destra dal volante per poggiarla dolcemente sulla sinistra di Moreno. Adesso il silenzio era dolce, foriero di sensazioni piacevoli. Moreno le diede un bacio sfiorandole dolcemente la guancia. Piera accostò, spense il motore. Si baciarono con passione. Tutti e due ebbero il desiderio di far l’amore in macchina come adolescenti alle prime esperienze, ma si rendevano conto che non sarebbe stato possibile in quel luogo e a quell’ora del giorno. Si staccarono a fatica più volte, per poi riabbracciarsi, prima di decidere di rimandare a più tardi la loro più intima conoscenza. 45 Quando arrivarono davanti alla villetta del commissario sembravano due ragazzini che avevano qualcosa da nascondere. Corrente andò loro incontro, ma non parve accorgersi del loro disagio. Li fece accomodare in giardino, sotto il pergolato, dove aveva apparecchiato per tre. Era quasi mezzogiorno. Sulla tavola c’erano alcuni piatti da portata contenenti vari tipi di formaggio e salumi, altri erano ricolmi di olive, di ortaggi sott’olio e sott’aceto. Il commissario andò in cucina, alla quale si accedeva attraverso una porta-finestra, direttamente dal giardino e tornò portando, con una mano, un fiasco di vino bianco ben freddo e, con l’altra, una forma di pane che diede a Moreno dicendo: «Taglialo in fette non troppo alte. Questo è il famoso pane di Genzano». «Dove ha preso tutto questo “ben di Dio”?», chiese Moreno. «In una “fraschetta” dove mi conoscono da sempre». «Una fraschetta?», chiese Piera incuriosita. «Le osterie da queste parti si chiamano fraschette perché una volta, l’oste, per indicare che c’era il vino nuovo, esponeva sulla porta una frasca. Una tradizione che si mantiene ancora oggi. Io mi servo sempre dalla stessa, perché ha il bianco più buono della zona. Assaggiatelo. Adesso accendo la brace per l’abbacchio». Così dicendo si diresse verso un angolo del giardino, dove c’era un grande fornello a carbone. Dopo aver armeggiato per qualche minuto davanti ad esso, tornò dai suoi ospiti con fare soddisfatto, dicendo: «Se non vi sembra 46 troppo presto, possiamo cominciare con gli antipasti, mentre la griglia per l’abbacchio si arroventa ben bene». Piera e Moreno non se lo fecero ripetere. Cominciarono subito. Durante il pranzo non accennarono al caso di cui si stavano occupando. Parlarono del tempo, un po’ anche di politica, dei progetti per le ferie che ancora non avevano preso, di un collega anziano che era andato in pensione proprio in quei giorni e verso il quale tutti provavano grande stima. L’atmosfera era estremamente serena e rilassante. Corrente era cortese e attento verso i suoi ospiti che ricambiavano le sue premure. Stavano bene insieme. Dopo il caffè, Moreno chiese di poter accendere il mezzo toscano aromatizzato all’anice che aveva portato con sé. Nessuno sollevò obiezioni. Corrente andò a prendere una cartella color giallo paglierino che depose sul tavolo, ne estrasse alcuni fogli che porse ai suoi ospiti. «Queste sono le fotocopie dell’esame del DNA eseguito su di un frammento di pelle rinvenuto sotto un’unghia di Brocca. Il campione era estremamente piccolo e il laboratorio ha concluso per un alto grado di compatibilità con il DNA del professore». «Allora è il suo», disse Piera. «Il tecnico mi ha spiegato che non è proprio uguale al suo, ma fortemente compatibile. Ad esempio potrebbe essere di un consanguineo. C’è 47 anche la possibilità di un inquinamento del campione e data l’esiguità dello stesso non è stato possibile effettuare ulteriori verifiche». Moreno intervenne: «Dunque, il frammento di pelle potrebbe essere dello stesso professore o di un suo parente stretto. Ambedue le ipotesi sono valide e non possiamo saperne di più». «Ho interrogato il fratello, che si è fermato a Roma qualche giorno per gli adempimenti legali ed è rientrato a Firenze solo ieri. Non è stato trovato alcun testamento. Non esistono altri eredi viventi oltre il fratello. Questi è vedovo, e non ha avuto figli. Ha fatto il medico di medicina generale nella sua città per più di quarant’anni. I Brocca sono originari di Firenze. Da due anni, da quando ha compiuto settant’anni, è in pensione. Ha un carcinoma prostatico che cura con la radioterapia e, quando è morto il fratello, si trovava a Firenze, ricoverato in ospedale proprio per questo motivo. Ho verificato. Penso che possiamo escludere qualsiasi movente legato ad interesse economico». «Restano il motivo passionale e politico, anche se mi sembra non esistano elementi significativi», disse Moreno e rimase in silenzio a pensare. Ruppe la pausa Piera che aggiunse: «Qualcuno potrebbe avere avuto un motivo di risentimento personale, ad esempio per un torto subito. Sappiamo tutti che, talvolta, si covano rancori per periodi lunghi che poi esplodono a distanza». «Hai ragione. Dovremmo indagare meglio nell’ambiente universitario», aggiunse Moreno rivolto a Corrente: «mi dica della targa della moto». 48 «Ho un amico in Questura che ha accesso all’archivio dei mezzi di Stato. Mi ha confermato che la targa appartiene a uno di questi veicoli. Non ho ritenuto opportuno investigare oltre. È verosimile che l’indagine sulla morte del professore sia un atto dovuto e che anche i nostri colleghi dei Servizi vogliano escludere una pista politica, considerato l’incarico di consulente ministeriale che svolgeva il professore». «E cosa cercavano tra le mie carte?». «È probabile volessero sapere a che punto fosse la nostra indagine, senza esporsi». «Mi scusi commissario, ma non avrebbero potuto chiederlo a lei?». «Avrebbero potuto, ma loro non usano mai la strada principale. Preferiscono, diciamo così, le vie traverse. Evidentemente, non credendo al suicidio, speravano di appropriarsi di informazioni in nostro possesso. Credo che, salvo eventuali clamorosi sviluppi, non si interesseranno più di tanto alle nostre ricerche». Il commissario fece un eloquente gesto della mano con il palmo rivolto ai suoi ospiti per invitarli all’attesa; poi aprì la cartella color giallo paglierino dalla quale aveva precedentemente estratto il referto del DNA e prese due fogli identici fra loro che porse a Piera e Moreno dicendo: «Sono le fotocopie di una lettera inviata al Questore e pervenutagli due giorni addietro. Il Questore ne è rimasto colpito al punto che, nonostante fosse fino a quel momento convinto della tesi del suicidio, ne ha parlato con il magistrato 49 inquirente chiedendogli di non archiviare il caso. Successivamente mi ha chiamato invitandomi a proseguire le indagini. Leggetela attentamente e ditemi le vostre impressioni». Quello che ebbero tra le mani era un foglio dattiloscritto con una macchina per scrivere a nastro, sicuramente datata. Non c’erano correzioni, mentre alcune lettere consecutive apparivano marginalmente sovrapposte e non in linea con le altre. La missiva non era firmata e recava, in calce, la data di cinque giorni prima. Moreno lesse a voce alta: “ Ill. mo Sig. Questore, Le scrivo per esprimere la mia suprema indignazione per quanto ho avuto modo di leggere sulla stampa nazionale in merito alla figura del dipartito professore di Economia Enrico Brocca. Egli è stato descritto, in alcuni articoli, dei quali allego copie, come un uomo di grandi doti non solo professionali, ma anche e soprattutto umane. Riguardo a ciò posso, con la massima onestà ed assoluta certezza, affermare che, al contrario, egli era un reprobo attribuendo a questo termine ambedue i suoi significati letterali e cioè: 1) colui il quale è degno del castigo di Dio e 2) chi si è macchiato di gravi colpe. E dire che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto porre rimedio al proprio errore e al male fatto. Non mi sono rivolto alle redazioni dei giornali mendaci che, avvezzi come sono alle mistificazioni, raramente cercano il vero. 50 Ho ritenuto opportuno rivolgermi a Lei come rappresentante della legalità, perché si adoperi a ristabilire la verità. Porgo distinti ed ossequiosi saluti.” Seguì una pausa piuttosto lunga durante la quale sia Moreno che Piera continuarono a guardare il foglio che tenevano in mano, rileggendolo in silenzio con attenzione. Dopo un po’ Moreno disse: «La prima impressione è che sia stata scritta da un mitomane o da un visionario, specie quando si riferisce al castigo di Dio. Poi, quando attribuisce a Brocca un non meglio specificato errore, al quale lo stesso non ha voluto porre rimedio, sembra conoscere a fondo il personaggio e rimproverargli il suo presunto misfatto. Sono convinto che il nostro personaggio anonimo abbia avuto a che fare con il professore e, forse, anche con la sua morte». Piera che aveva ascoltato con attenzione disse: «L’autore sembra un uomo d’altri tempi perché ha dattiloscritto la lettera con una macchina a nastro ormai in disuso, quasi un oggetto di modernariato. Al giorno d’oggi, chi non scrive al computer? Inoltre, adopera parole poco utilizzate come..», diede uno sguardo al foglio e continuò «..dipartito, reprobo, mendaci». «È vero», disse Corrente e aggiunse: «anche il questore ha fatto le medesime vostre osservazioni». Piera chiese al commissario: «Da dove è stata spedita?». «Il timbro postale è di Firenze». 51 Moreno diede un’occhiata all’ultima porzione di sigaro, ormai consumato, prima di spegnerlo schiacciandolo nel posacenere di rame a forma di braciere che aveva proprio davanti a sé. Sembrava riflettere. Disse: «È difficile venirne a capo. Abbiamo così pochi elementi: una lettera, forse di un mitomane o di un tale che ha qualcosa da rimproverare a Brocca; un frammento di pelle con un DNA mal decifrabile che potrebbe appartenere a un consanguineo del morto; l’assenza di un movente evidente sia passionale che economico. L’unico debole indizio è la lettera spedita da Firenze ed è lì che dovremmo indagare, magari nel passato del professore». Corrente intervenne: «Brocca è nato a Firenze dove ha trascorso i primi ventotto anni della propria vita. Lì ha frequentato tutte le scuole e l’università. Si è laureato a ventitré anni. Ha subito intrapreso la carriera universitaria come assistente del professore Giuliani e, quando questi è stato chiamato presso l’università di Roma, lo ha seguito trasferendosi all’età di ventotto anni nella capitale, dove ha percorso tutte le tappe della propria carriera. Mai sposato. Mai stabili relazioni note fino a quest’ultima con la professoressa Veneziani. Anche ammesso che abbia compiuto qualche misfatto a Firenze, risalirebbe agli anni della giovinezza». «Allora come procediamo?», chiese Piera, guardando i suoi interlocutori. «Domani andrò a Firenze», disse Moreno, «cercherò di scoprire qualcosa. Comincerò col chiedere 52 al fratello. Commissario, dovrebbe fornirmi l’indirizzo e i recapiti telefonici». Corrente gli porse un appunto con i dati del dottore Brocca e disse: «Noi vedremo d’indagare nell’ambiente universitario. La professoressa Veneziani mi ha detto che i due più stretti collaboratori di Brocca, i dottori Gualdi e Landi, sono in lizza per un solo posto di professore associato. Sempre secondo la Veneziani, Brocca soste-neva Landi, mentre Gualdi è appoggiato da Castelli, che sarebbe stato il rivale di Brocca per le prossime elezioni di Preside di Facoltà. Piera, domani convochiamo i due ricercatori e controlliamo gli eventuali alibi di tutti, compreso quello della Veneziani. Dovremmo raccogliere notizie su Castelli e forse anche interrogarlo». 53 CAPITOLO VI Lasciarono la casa di Corrente nel tardo pomeriggio. L’aria era più fresca. Si era alzato un leggero vento da ponente che aveva cominciato ad allontanare l’umidità dello scirocco. Piera diede a Moreno le chiavi della macchina chiedendogli di guidare. Aveva raccolto i lunghi lucenti capelli neri in una coda di cavallo scoprendo così il perfetto ovale del viso. Moreno si girava di continuo a guardarla tra le proteste di Piera che lo invitava a tener d’occhio la strada. Era più forte di lui. Gli sembrava di vederla per la prima volta. Forse era l’idea che sarebbe stata sua, forse perché gli aveva esplicitamente dichiarato il proprio amore, ma mai gli era sembrata così bella. Erano felici e spensierati. Chiacchieravano allegramente confessando le proprie piccole cattive abitudini, i propri desideri segreti. Ci ridevano su e, ad un tempo, rivelavano un po’ di sé stessi. Una volta arrivati a Roma, senza alcun imbarazzo e senza falso pudore, decisero di andare a casa di Moreno. Quando giunsero al sesto piano ed entrarono in casa avevano il fiatone, un po’ perché avevano 54 salito le scale in fretta e un po’ per l’emozione che suscitava in loro l’attesa di ciò che sarebbe inevitabilmente accaduto. Si scambiarono poche parole e tante carezze. Una irrefrenabile passione li travolse per un periodo che sembrò loro lungo e breve ad un tempo, fino a quando, esausti, non rimasero avvinghiati in un amplesso che ormai aveva perso tutta l’energia dell’ardore amoroso, conservando solo la dolcezza di un tenero abbraccio. Così, un senso di profondo benessere li assalì e si lasciarono andare in un sonno protettore e ristoratore. Così trascorsero il resto della loro prima notte insieme. Moreno si svegliò di buon’ora, lasciò il letto e caricò di caffè la moka. La pose sul fornello elettrico e attese che gorgogliasse. Piera gli sembrò ancora più bella alla luce del giorno. I capelli parevano sapientemente disposti a far da cornice al suo bel volto. Dormiva ancora. L’uomo, dopo aver versato il caffè nelle tazzine, fece tintinnare il cucchiaino all’interno di una di esse. Quella sorta di scampanellio la svegliò. Si scambiarono un sorriso e un dolce bacio per augurarsi il buon giorno. La giornata si preannunciava lunga e impegnativa. Piera doveva andare in commissariato, mentre Moreno sarebbe andato a Firenze per interrogare il dottore Brocca e cercare di scoprire una traccia che lo portasse al misterioso redattore della lettera anonima. 55 «Puoi accompagnarmi in commissariato e tenere la macchina per recarti a Firenze», disse Piera porgendo le chiavi a Moreno. «Grazie, preferisco andare in treno. Lì mi muoverò in taxi. Non sopporto il traffico e i sensi vietati. È possibile che debba fermarmi un giorno in più, sempre che riesca a trovare una pista. Ti telefonerò per tenerti informata». Piera lo accompagnò alla stazione Termini e proseguì verso il commissariato. Alla stazione di Santa Maria Novella l’aria era calda, immobile e densa d’umidità. In cielo c’era una sottile velatura nuvolosa che rendeva più opprimente l’afa. Moreno guardò l’orologio, mancavano due minuti alle undici, decise di prendere un taxi e si fece portare in piazza del Carmine proprio al centro del quartiere di San Frediano. L’abitazione del dottore Brocca affacciava sulla piazza. Gli venne subito aperto da una domestica non più giovane, ma dall’aria energica ed efficiente che lo fece accomodare in una piccola sala le cui pareti erano quasi completamente ricoperte da stampe, disegni, acquarelli e dipinti su tela. Sedette in una delle quattro poltrone in stile che erano disposte, al centro della stanza, intorno a un basso tavolo di radica e attese una decina di minuti. Il dottore Brocca gli sembrò ancora più pallido ed emaciato rispetto a qualche giorno prima, quando aveva avuto modo di osservarlo durante il funerale del fratello. Sedette proprio di fronte a Moreno e disse: «Il commissario Corrente mi ha annunciato 56 la sua visita, pregandomi di fornirle le informazioni che richiederà; mi ha anche spiegato che lei non è più in servizio tra le forze dell’ordine, ma che collabora in via straordinaria a questo caso». «Sì, è proprio così. Vede, abbiamo ricevuto una lettera anonima apparentemente opera di qualcuno che serba rancore verso suo fratello. Questo nuovo evento ci ha indotto a un supplemento d’indagine». Così dicendo porse la copia della lettera anonima al suo interlocutore che la lesse con attenzione, mostrando, con una palese espressione del viso, tutta la propria perplessità e incredulità per il contenuto della stessa. Restituendola a Moreno disse: «Non capisco. Non mi risulta che Enrico avesse fatto azioni riprovevoli o tali da generare odio o rancore. Era una persona seria e stimata e, da giovane, era un tipo aperto, di compagnia, amico di tutti, forse anche un po’ burlone, come lo sono tutti i fiorentini. Negli anni in cui ha vissuto a Firenze, qui con me, in questa casa che era dei nostri genitori, non è mai accaduto alcun fatto memorabile. Da quando si è trasferito a Roma ci siamo un po’ allontanati. Ci sentivamo ogni tanto telefonicamente. Forse lì può essere accaduto qualcosa…». «La lettera è stata spedita da Firenze». «Non so proprio cosa dirle. Può provare a chiedere ai suoi amici di allora: Lorenzo e Gianpiero. Formavano un trio inseparabile». «Bene. Può darmi i loro recapiti?». «Di Gianpiero Pucci non so più nulla, mentre Lorenzo Foschini fa l’avvocato e ha lo studio qui 57 vicino, in Via Santo Spirito, proprio alle spalle della chiesa». Moreno si congedò. S’era fatta l’ora di pranzo. A piazza San Frediano, proprio di fronte all’abitazione di Brocca, c’era un ristorante con le porte di legno e vetri attraverso i quali si intravedevano i tavoli apparecchiati con le tipiche tovaglie da osteria a quadri bianchi e rossi e i coprimacchia bianchi. Moreno non amava recarsi da solo al ristorante. Pensò a Piera. Gli sarebbe piaciuto che fosse lì con lui. Esitò ancora un po’, quindi decise di concedersi un buon pranzo, anche perché era alquanto improbabile che a quell’ora potesse trovare l’avvocato Foschini in studio. Cominciò con i crostini e proseguì con una enorme bistecca fiorentina. Il vino della casa sembrava fatto apposta per accompagnare quei piatti. Moreno si limitava a sorseggiarlo di tanto in tanto. Non poteva eccedere. Aveva davanti a sé un pomeriggio di lavoro. Rifiutò la frutta. Quando uscì dal ristorante mancava un quarto alle tre del pomeriggio. Accese mezzo sigaro toscano aromatizzato all’anice e, a passo lento, si avviò verso il lungarno Guicciardini che percorse molto lentamente in quel tratto che va dal ponte alla Carraia fino al ponte S.Trinità. Si fermò in un bar di piazza Frescobaldi, dove prese un caffè e attese che si facessero le quindici e trenta. Quindi si avviò. All’inizio di via Maggio svoltò a destra in via Santo Spirito. Lì, tra due botteghe d’antiquariato, si trovava un alto portone di legno di noce abbastanza ben tenuto e, probabilmente, rive58 rniciato da poco. Un porta targhe d’ottone conteneva sei insegne, tutte di ugual misura, che si riferivano ad altrettante attività professionali o commerciali. Una di esse recava la seguente dicitura: “ Avv. Lorenzo Foschini Patrocinante in Cassazione 1° piano ” La scala era ampia e la distanza tra i gradini modesta. Lo studio dell’avvocato si trovava al primo piano. Una giovane donna aprì la porta e gli chiese se avesse un appuntamento; poi disse che l’avvocato sarebbe giunto da lì a poco e non era certa che avrebbe potuto riceverlo. Moreno rispose che avrebbe aspettato. L’avvocato Foschini non tardò ad arrivare. Ricevette subito Moreno che si presentò come investigatore privato mostrando la tessera di appartenenza alla CON.IPI.. Esordì dicendo: «Saprà certamente della morte del professore Enrico Brocca». «Sì. Ho letto la notizia su “La Nazione”». «Mi ha parlato di lei il fratello di Enrico. La tesi del suicidio non è convincente per una serie di motivi. Io sono stato incaricato, in via riservata, di svolgere indagini in merito. Vorrei che lei leggesse questa lettera». Porse la copia all’avvocato che, dopo averla esaminata attentamente, disse: «Potrebbe essere di un mitomane». «Potrebbe, ma vale la pena di cercare nel passato del professore». 59 «Se è per questo che è venuto a trovarmi, non credo di poterle essere di grande aiuto. Sono stato molto vicino a Enrico negli anni della nostra giovinezza. Eravamo compagni di scuola al liceo e poi ci siamo frequentati durante il periodo universitario e, ancora dopo, solo per poco. Lui si è trasferito a Roma qualche anno dopo la laurea e ci siamo persi di vista. A quel tempo si pensava solo alle donne e a studiare. Eravamo inseparabili. Con noi c’era sempre anche Gianpiero Pucci. Eravamo proprio un bel trio. Enrico era il più bello e le ragazze gli facevano il filo. Coi suoi occhi azzurri le incantava tutte. Non è che noi fossimo da buttar via, ma lui aveva una specie di calamita. Gli cadevano tutte ai piedi. E certo non era come ai tempi d’oggi che le ragazzine si concedono al primo che arriva. Allora bisognava corteggiarle un po’, perderci del tempo», fece una breve pausa, come a pensare e continuò «a noi si univa, di tanto in tanto, Mario Pasini, uno scavezzacollo allora, e pensi che a tutt’oggi non ha ancora messo la testa a posto. Adesso suona il piano in un pub vicino al Palazzo del Bargello. Può provare a chiedere a lui. Non so proprio cos’altro dirle, io non ricordo nulla di brutto che abbia fatto Enrico a quei tempi. No, proprio nulla». «Vorrei porgere qualche domanda al vostro comune amico, Pucci. Può darmi il suo recapito?». «Non abita più a Firenze. Da molti anni si è trasferito a Francoforte, dove si occupa di importare prodotti enogastronomici che distribuisce in tutta la Germania. Ha cominciato come rappresentante 60 di un’ azienda che produceva Chianti, si è via via ingrandito e ora ha un grosso volume d’affari. Qualche anno fa ci siamo rivisti per un problema legale, sorto tra lui e un fornitore toscano. Aspetti un attimo…». Foschini sollevò il ricevitore del telefono, schiacciò un tasto e si mise in contatto con la segretaria: «Gabriella, per cortesia, cerchi i recapiti di Gianpiero Pucci e me li faccia avere subito. Grazie!». Seguì una pausa. Moreno sembrava abbastanza deluso da quel colloquio e stava considerando, tra sé e sé, la scarsa utilità del proprio viaggio. Passarono solo pochi minuti, poi entrò la segretaria con un foglio piegato in due che consegnò a Foschini. Questi diede una rapida occhiata e lo porse al suo interlocutore. Moreno si congedò ringraziando. Non appena fu in strada compose il numero dell’ufficio di Pucci a Francoforte, che gli aveva appena fornito l’avvocato Foschini. La donna che rispose al telefono parlò dapprima in tedesco, poi in inglese come richiestole da Moreno. La conversazione fu breve: Pucci non era in sede, si trovava a New York per motivi di lavoro e sarebbe tornato a Francoforte all’inizio della settimana successiva. 61 CAPITOLO VII Moreno aveva voglia di sentire Piera. La chiamò al cellulare e le raccontò quanto aveva fatto dal momento in cui si erano lasciati. Sentiva l’esigenza di parlarle. Era il bisogno di starle vicino che lo spingeva a protrarre la conversazione. Le confessò il desiderio che aveva di rivederla, ma per quella sera sarebbe rimasto a Firenze. Le raccontò degli amici del professore e che sarebbe andato a cercare quel Mario Pasini nel pub in cui suonava. Il pomeriggio era afoso e lungo. Moreno doveva aspettare che si facesse sera. Prese a passeggiare lentamente per le strade della città gremita di turisti accaldati e chiassosi. Le numerose gelaterie e i bar erano affollati. Giunse davanti al Palazzo del Bargello quando erano da poco passate le sette di sera. Entrò in una norcineria e chiese se nei pressi vi fosse un pub dove ascoltare un po’ di musica. Gli vennero indicati due locali. Moreno andò a curiosare. Uno dei due esercizi consisteva in un’unica stanza non troppo grande con una zona bar e quattro tavolini d’alluminio attorniati da sedie dello stesso materia62 le; i muri erano ricoperti da stampe che riproducevano locandine di film famosi e, ai due angoli opposti, erano visibili due casse acustiche di discrete dimensioni. Dall’interno proveniva un forte odore di candeggina. Una giovane donna, che stava lavando i pavimenti a grandi quadri bianchi e neri, quando vide Moreno, che fermo sulla soglia sembrava indeciso se entrare o meno, si affrettò a spiegare che il locale sarebbe stato aperto al pubblico dalle venti in poi. Moreno ringraziò. All’interno non aveva visto un pianoforte, né una tastiera elettrica. Evidentemente non era quello il locale che cercava. Sulla stessa via, poco distante, era ben visibile un’insegna metallica che pendeva da un’asta posta di traverso alla strada, sorretta da due catenelle parallele tra loro, a imitazione di quelle che in epoche lontane indicavano le osterie. Vi era scritto a grandi caratteri “Antico loco di sosta”. Moreno diede un’occhiata attraverso le porte a vetri che davano sulla strada, ma l’interno era piuttosto buio e si distingueva ben poco. Decise di entrare. Il luogo era accogliente e fresco. L’ambiente, sapientemente climatizzato, dava all’avventore una sensazione di benessere. Tavoli di legno scuro attorniati da panche dalle giuste proporzioni, invitavano realmente a una sosta. In uno dei due angoli, in fondo alla grande sala, vi era il bar delimitato da un bancone di legno davanti al quale erano disposti alti sgabelli. All’altro angolo un pianoforte nero a mezza coda sembrava attendere qualcuno che lo suonasse. 63 Tra il bar e il pianoforte vi era una porta girevole. C’era già un discreto numero di avventori. Parecchi tavoli erano occupati, per lo più da stranieri. Due ragazze vestite allo stesso modo con pantaloni e magliette di cotone di un colore arancio acceso, servivano i clienti con sorprendente rapidità ed efficienza, facendo la spola tra i tavoli, il bar e gli ambienti che si trovavano al di là della porta girevole. Moreno sedette su uno degli alti sgabelli del bar e chiese un aperitivo poco alcolico. Il barista indossava anch’egli una maglietta color arancio e ostentava un sorriso senza giovialità. Preparò un cocktail con molto ghiaccio, sciroppo di un colore a metà tra il fuxia e il rosa, acqua tonica e un minimo quantitativo di gin, che servì in un alto bicchiere. «Può dirmi se il maestro Pasini, verrà a suonare?», chiese Moreno senza indugi. «Il maestro?», ribatté il barista con un sorriso di scherno e continuò «forse cerca Mario, il pianista?». «Sì, appunto, Mario Pasini. Verrà?». Diede un’occhiata all’orologio che portava al polso e disse: «Tra una mezz’ora dovrebbe essere qui». Rimase in silenzio qualche minuto a guardare di sottecchi Moreno che, con assoluta noncuranza, sorseggiava l’aperitivo e non dava l’impressione di accorgersi del suo interesse, poi aggiunse: «Come mai ha chiesto di Mario? Lei non sembra uno di quelli che di solito vengono a cercarlo». «Chi sarebbero quelli che lo cercano?». 64 «Non lo so! Cosa vuole da me? Io non so niente. Io faccio il mio lavoro e basta, il resto non mi interessa. Ha capito?» si affrettò a rispondere con evidente imbarazzo. Moreno continuò a sorseggiare l’aperitivo con imperturbabile lentezza mentre soppesava la notizia, appena udita, delle poco raccomandabili frequentazioni di Mario Pasini che, sicuramente, rendevano più vulnerabile il soggetto. Tuttavia poco o nulla tutto ciò poteva influire sugli elementi che voleva raccogliere ai fini dell’indagine. La mezz’ora trascorse in fretta. Moreno capì subito che si trattava del pianista, quando vide entrare un sessantenne alto, magro, dalla carnagione del volto chiara e grinzosa, ricoperta di efelidi. I capelli erano tinti di un rossiccio che voleva ricordare il colore originario, ma che sfumava in tonalità ramate mentre, qua e là, ciuffi di capelli bianchi rivelavano le zone in cui la tintura non aveva attecchito. Vestiva di nero in pantaloni e camicia dalle maniche lunghe, abbottonate ai polsi. L’uomo, dirigendosi subito al pianoforte, rivolse un cenno di saluto alle ragazze che risposero e al barista che finse di non vederlo. Moreno pensò che non fosse il caso di avvicinarlo in quel frangente. Avrebbe aspettato che facesse una pausa e, magari, gli avrebbe anche offerto qualcosa da bere. Gli era venuta fame. Lasciò lo sgabello e andò a sedere a uno dei pochi tavoli liberi. Subito, una delle ragazze in arancione gli fornì un menù. Diede un’occhiata e notò che la scelta era limitata a bruschette, insalate, fritti vari, crêpes dolci e salate, gelati. 65 Scelse patate fritte, bruschette e una birra alla spina. Mario Pasini era bravo, suonava pezzi ever green americani, con brevi e gradevoli divagazioni jazzistiche. Aveva eseguito solo qualche brano e aveva appena cominciato a suonare “Strangers in the night” quando varcarono la soglia due personaggi inquietanti. Uno era basso, tozzo, più largo che alto, con il volto squadrato, la mandibola prominente, gli occhi piccoli e cattivi sotto una fronte bassa e una massa di riccioli neri incolti. L’altro, più alto e più magro, era completamente pelato; aveva un viso triangolare perché la mandibola, dall’ impianto largo, finiva per assottigliarsi in un mento appuntito, mentre le orecchie sembravano incollate al cranio. Queste caratteristiche lo facevano assomigliare a un pitbull. Tutti e due indossavano aderenti magliette senza maniche, che evidenziavano i loro potenti bicipiti. Rimasero sulla soglia qualche minuto guardandosi intorno, come a volersi assicurare che, all’interno, non vi fossero potenziali pericoli; poi, con incedere lento e un ghigno crudele sul volto, cominciarono ad attraversare la sala, dirigendosi verso il pianoforte. Il barista, completamente assorto nel suo lavoro, sembrava intento alla preparazione di chissà quale complicato cocktail e teneva il capo chino, evitando prudentemente di guardare verso la sala. Le ragazze continuavano a fare la spola tra i locali sul retro e i tavoli. Gli avventori non badavano ai nuovi entrati. Moreno sentiva puzza di guai. 66 Il pianista notò i due tipi nel bel mezzo dell’esecuzione del pezzo, che troncò immediatamente. Senza indugi, si alzò e si precipitò verso la porta girevole che separava la sala dai locali retrostanti. I due non sembravano dare peso all’improvvisa fuga del pianista anzi, il ghigno sui loro volti, si trasformò in un sorriso di compiacimento. Attraversarono la porta girevole e sparirono alla vista. Moreno raggiunse il barista e chiese indicando la porta: «Da quella parte c’è un’uscita di sicurezza?». «No. Ci sono i bagni e la cucina. Non c’è nessuna uscita». La puzza di guai era diventata insopportabile. Moreno attraversò la porta e si trovò in un corridoio. Sul lato destro c’erano le toilettes. La prima era riservata agli uomini. Moreno girò la maniglia e spalancò la porta. Non vi era nessuno. La seconda, riservata alle donne e ai portatori di handicap, era chiusa dall’interno. Moreno cercò di spingerla con forza, ma dal di dentro giunse la voce stridula di una donna che protestava in inglese, per la scortese insistenza. Moreno percorse un paio di metri e si ritrovò sull’uscio del locale cucina, alla sua sinistra. All’interno due cuochi si aggiravano con fare disinvolto tra friggitrici e fornelli. Non erano neppure là. Proprio alla fine del corridoio c’era una porta di metallo bassa con un passetto di ferro che era stato tolto. Moreno ci si avventò contro ma, nonostante avesse esercitato una spinta vigorosa con tutta la 67 sua forza, la porta cedette solo di qualche centimetro. Dall’altra parte avevano messo qualcosa di ingombrante o di pesante per impedirne l’apertura. Allora Moreno prese a dare violente spallate mentre urlava ripetutamente: «Aprite! Polizia!». A ogni spallata, la porta si spostava solo di pochi centimetri. Era esausto quando giudicò che si fosse creato un varco sufficiente al suo passaggio. Si infilò di traverso tra la porta e lo stipite e, a stento, riuscì a farcela. Si ritrovò in un cortile cinto da un muro alto un paio di metri; era uno spazio di circa trenta metri quadrati pieno di casse che contenevano vino, birra, bibite, acqua minerale. C’erano anche grandi bidoni di plastica nera che servivano a contenere i rifiuti e, ancora, grandi contenitori di cartone alloggiati sotto una piccola tettoia di plexiglas. Sembrava non ci fosse nessuno. Moreno si guardò intorno. Vide ammonticchiate, dietro la porta che aveva aperto parecchie casse che avevano ostacolato il suo intervento. Avvertì un lamento provenire dall’angolo più distante del cortile. Aggirò una colonna di casse e trovò Mario Pasini, rannicchiato tra un bidone dell’immondizia e una colonna di scatoloni. Con un fazzoletto cercava di frenare un’emorragia nasale. All’avvicinarsi di Moreno si rincantucciò ancora di più, come se temesse una nuova aggressione. Moreno cercò di rassicuralo. Non sembrava avesse lesioni gravi. I due energumeni, che evidentemente erano fuggiti scavalcando il muro di cinta del cortile, si erano limitati a dargli un avvertimento. Oltre 68 che dal naso, Pasini sanguinava dal sopracciglio destro. Moreno aveva in tasca un pacchetto di fazzoletti di carta. Con uno di questi fece due tamponi cilindrici e li infilò nelle narici del malcapitato; con altri due fazzoletti esercitò una forte compressione al sopracciglio per cercare di contrastare il sanguinamento. Dopo qualche minuto fece alzare Pasini e lo condusse, sorreggendolo, fino alla porticina che dovette liberare dall’ingombro delle casse, prima di poter rientrare nel corridoio. In bagno, diede una ripulita alla meglio al volto del pianista che mostrava di essersi ripreso. Questi chiese: «Lei è veramente un poliziotto?». «Non proprio. Mi chiamo Moreno Roccati. Sono un investigatore privato, ma se non avessi urlato di essere della Polizia, forse i suoi assalitori non sarebbero fuggiti frettolosamente. Lei che ne pensa?». «Lo credo anch’io». «Dovrebbe farsi medicare al Pronto Soccorso di un Ospedale. Se vuole l’accompagno». «No. È meglio di no. Non voglio andare in Ospedale. Adesso andrò a casa, dove ho qualche cerotto e l’occorrente per disinfettare. Abito nelle vicinanze. Grazie di tutto». «Posso accompagnarla a casa, se vuole. Potrebbe ancora fare qualche brutto incontro». Pasini sembrò pensarci su, poi chiese: «Perché si interessa a me?». «Come le ho detto, sono un investigatore privato e sto conducendo un’ indagine sul passato del pro69 fessore Brocca che, come lei saprà, è morto. Sembra che si sia suicidato, ma c’è qualche aspetto della vicenda che non convince del tutto chi mi ha dato mandato d’indagare». «Sì, ho saputo della morte del povero Enrico, ma non credo di poterla aiutare nelle sue ricerche. Ci siamo frequentati in gioventù. Non ho più visto Enrico da quando ha lasciato Firenze». «Mi interessa saperne di più proprio di quel periodo. Vorrei anche mostrarle una lettera che si riferisce a qualcosa che potrebbe essere accaduta a quel tempo, ma non credo che questa toilette sia il posto più indicato per continuare la nostra conversazione». «Ha ragione. Le devo qualcosa per avermi tolto dai guai. Venga a casa mia. Non credo di poter continuare a suonare, per questa sera». Rientrarono nella sala. Pasini si rivolse al barista dicendogli che stava per andar via. Lo pregò di mettere qualche compact disc nell’impianto di diffusione. Il barista dal canto suo rispose con la massima naturalezza come se non avesse notato l’evidente devastazione sul volto del pianista. Percorsero a piedi un breve tragitto. Si ritrovarono davanti a un antico palazzo. Il portone di legno scuro bugnato era sormontato da uno stemma nobiliare di pietra i cui elementi figurati mal si distinguevano, un po’ perché levigati dalle intemperie e un po’ per la scarsa illuminazione della via. Mario Pasini, quasi a rispondere a una muta domanda del suo accompagnatore che guardava verso quell’emblema araldico, disse: «Quello è lo stem70 ma della mia famiglia. Questo palazzo era tutto nostro». Poi aprì il portone e si diresse verso una porticina situata sulla parete opposta della corte interna, accanto alla scalinata con balaustra che portava al piano nobile. Entrò per primo e accese la luce, poi si rivolse al suo ospite: «Mi scusi se sono entrato prima di lei, ma l’interruttore è un po’ lontano dall’ingresso. Si accomodi. Ecco quel che resta ai Pasini del palazzo, una porzione delle antiche stalle». Erano entrati in un locale di circa cinquanta metri quadrati, con un’unica finestra, larga e poco alta, sulla parete di fronte all’ ingresso. Vi era un angolo cottura di ridotte dimensioni. Un grande divano dalla tappezzeria consunta e scolorita, che probabilmente serviva da letto, era posto su una parete laterale con accanto un largo armadio che, in più punti, aveva perso l’ impiallacciatura di radica e mancava dello sportello centrale, sostituito da una tenda. Le sedie che attorniavano un piccolo tavolo sgangherato, erano tutte dissimili tra loro e, probabilmente, risalivano a epoche diverse. Su di una parete troneggiava una consolle di legno senza il ripiano che doveva essere stato di marmo; questa era sormontata da uno specchio la cui cornice aveva perso in più punti tutta la doratura originaria. Uno sbilenco lampadario con solo alcuni pendenti di cristallo a goccia, unici resti di un antico splendore, era attaccato al soffitto. In un angolo stavano ammonticchiate suppellettili di vario tipo tutte irrimediabilmente danneggiate. Nell’insieme, quel 71 luogo, assomigliava più al magazzino di un rigattiere che a un vero e proprio alloggio. Pasini chiese permesso e sparì dietro una porticina a vetri, ove doveva esserci la stanza da bagno. Dopo circa mezz’ora tornò nella sala. Si era lavato il viso e pettinato, aveva sostituito i tamponi di carta nelle narici con due batuffoli di cotone. Un vistoso cerotto gli copriva il sopracciglio e una porzione della fronte. Chiazze rosso violaceo erano presenti sulla pelle delle guance e del collo Aveva tolto la camicia insanguinata e indossato una polo di cotone. Sembrava rilassato e a proprio agio. Si rivolse a Moreno che aspettava pazientemente: «Mi dispiace, ma non ho proprio nulla da offrirle. Si chiederà come mai quei due mi hanno aggredito. Credo di doverle una spiegazione». «Non è necessario, ma se vuole..». «Sono i guardaspalle di Moroni. A Firenze lo conoscono tutti. È un usuraio. Io ho cominciato diversi anni fa, dopo la morte di mio padre. Una parte del palazzo era già ipotecata quando l’ho ereditato e se l’è presa la banca; l’altra se l’è presa Moroni. A me sono rimaste le stalle. Successivamente Moroni ha cominciato a fornirmi la cocaina e io non ho potuto pagarla. Per questo mi manda i suoi picchiatori, a ricordarmi il debito. Lui vorrebbe che chiedessi i soldi a mia sorella. Sa che ho una sorella che vive a Boston ed è sposata con un chirurgo ricco e famoso, ma non capisce che mia sorella non vuole più saperne di me. Da quando ancora era in vita mio padre, ci ha rinnegato; pensi 72 che non si fa chiamare Pasini, ma Worwich con il cognome di suo marito». «Negli Stati Uniti abitualmente le donne sposate assumono il cognome del marito, come una volta qui da noi. Comunque, le do un consiglio: denunci questo Moroni e i suoi scagnozzi, altrimenti non se li leverà mai di dosso e le cose andranno di male in peggio». «Mah!... Ci penserò. Adesso mi faccia vedere la lettera di cui mi ha parlato». Moreno gli porse la copia che teneva in tasca ripiegata in quattro. Pasini la lesse con attenzione. Sembrava alquanto perplesso. Rimase qualche minuto a pensare, forse assorto in ricordi di gioventù, poi scosse la testa e disse: «Mi spiace, ma non riesco a rammentare nulla di male che abbia potuto fare Enrico. Come le ho già detto, era un bravo ragazzo». «Capisco, magari qualche affare di donne, gelosie tra amici, o una lite particolarmente accesa con qualcuno». «A quel tempo Enrico aveva una ragazza fissa, ma non mi ricordo il nome. Era la figlia di un tabaccaio del quartiere de “l’Isolotto” dalle parti di Piazza dei Tigli. Una così, né bella né brutta, non so cosa ci trovasse. E dire che ne aveva di ragazzette per spassarsi. Quante ne voleva. Quella storia durò un po’ di tempo». «Proprio non ricorda il nome?». «Mi spiace, ma può rintracciare Pucci e chiedere a lui. Gianpiero Pucci per un periodo è stato con la sorella minore della ragazza. Sì, erano due sorel73 le. Quella che filava con il Pucci era più graziosa. Però credo che Gianpiero non abiti più a Firenze». «Sì, lo so. Risiede e lavora a Francoforte. Cercherò di parlare con lui». Moreno diede un’occhiata al proprio orologio da polso; estrasse quindi un biglietto da visita dal portafogli che porse al suo ospite dicendo: «La ringrazio per la collaborazione. Adesso la lascerò riposare, credo che ne abbia bisogno! Nel caso rammentasse qualcosa, potrà telefonarmi in qualunque momento al fisso o al cellulare». Si diresse rapidamente alla porta e uscendo aggiunse: «Segua il mio consiglio. Li denunci!». Quando fu in strada guardò di nuovo l’orologio da polso. Era da poco passata la mezzanotte. Alla luce di un lampione consultò, sul suo smartphone, l’ orario ferroviario. Non ci sarebbero stati più treni per Roma fino alle cinque e cinquanta del mattino. Avrebbe avuto a disposizione parecchie ore. Accese il solito sigaro toscano aromatizzato all’anice e, fumando, s’incammino, a passo lento, verso la stazione di Santa Maria Novella. La città si stava spopolando, riacquistando un’ accattivante quiete. Le strade erano divenute silenziose e, solo di quando in quando, si avvertiva l’eco di un vociare più o meno lontano, probabilmente di giovani che si attardavano. Attraversando Piazza dell’Unità d’Italia, Moreno notò due barboni che dormivano sdraiati sulle larghe soglie di due negozi. Mentre considerava la miseria di quei derelitti, uno scooter 74 gli tagliò la strada, passando tanto vicino da sfiorarlo, e lo fece sobbalzare. Tra Piazza della stazione e Piazza Adua, di fronte al terminal dei bus, c’era un piccolo bar aperto. Moreno entrò. All’interno si spandeva un buon profumo di caffè. Una coppia di giovani con capienti zaini in spalla, stava consumando cappuccini e cornetti caldi. Un anziano in calzoncini corti, maglia sformata e ciabatte di plastica, parlava all’ assonnato barista che faceva fatica ad ascoltarlo. Moreno sedette a uno dei due tavolini d’alluminio liberi e prese a sorseggiare il caffè che aveva ordinato sbocconcellando un fragrante cornetto. Quando uscì dal bar cominciava ad albeggiare e l’aria era fresca. Si avviò verso la stazione. Dovette aspettare ancora un po’ prima di poter fare il biglietto, quindi attese il treno delle cinque e cinquanta. Dormì a sonno pieno per tutto il tragitto. Arrivò alla stazione di Roma Termini alle otto e venti e si svegliò a causa dei sobbalzi del treno sugli scambi che regolavano l’arrivo al binario previsto. Mentre era sul taxi che lo portava dalla stazione a casa, ricevette una telefonata. «Sono Irma Veneziani, parlo con il Sig. Roccati?». «Sì, mi dica…». «Ho avuto il suo numero dal commissario Corrente. Desidero incontrarla. Può fissarmi un appuntamento?». 75 «Certamente. Può venire nel mio ufficio oggi stesso. Diciamo… per le undici». «Va bene,grazie». Le diede l’indirizzo e riattaccò. 76 CAPITOLO VIII Sotto il getto della doccia i muscoli, intorpiditi per la notte trascorsa senza un opportuno riposo, cominciarono a reagire distendendosi, producendo un senso di rilassante benessere. Moreno sarebbe rimasto lì a godersi quel sottile piacere per più tempo, se non fosse stato per il fatto che aveva un appuntamento con la Veneziani. Ci pensò su, ma non riuscì a immaginare il motivo della richiesta di quell’incontro. Anche se avesse voluto rivelargli qualcosa, perché a lui e non alla polizia? Corrente le aveva fornito il numero di cellulare e, sicuramente, conosceva le intenzioni della donna. Moreno non ritenne di doverlo chiamare prima di parlare con la professoressa. Ebbe il tempo si radersi accuratamente e di telefonare a Piera alla quale raccontò per sommi capi gli eventi del giorno precedente e della notte appena trascorsa. Piera sarebbe stata impegnata fino alle cinque del pomeriggio. Decisero di cenare insieme. Moreno aveva appena indossato un pantalone blu di cotone non stiro e una camicia bianca dalle ma77 niche lunghe di cui stava rivoltando i polsi, quando trillò il campanello. Accese la ventola a soffitto e aprì. Irma Veneziani era ancora una bella donna nonostante gli anni e qualche ruga sul volto che paradossalmente ne aumentava il fascino. Aveva lineamenti regolari, un bell’ovale del volto e capelli biondi. La tintura che probabilmente copriva i capelli grigi riproduceva o doveva essere molto simile al colore originale. Alta, slanciata, era vestita in maniera sobria con una gonna e una camicia, ambedue di colore beige chiaro, di ottima fattura. Sedettero una di fronte all’altro ai lati opposti della scrivania. Moreno la scrutava con attenzione e la invitò a palesare il motivo della sua visita. La donna non sembrava per nulla imbarazzata, anzi ostentava sicurezza e autorità. Dava l’idea di essere una persona abituata a disporre degli altri. Esordì dicendo: «Dopo la tragica fine di Enrico, sin dal primo colloquio che ho avuto con il commissario Corrente, mi sono trovata a condividere i suoi dubbi sull’ipotesi del suicidio. Io amavo Enrico. Avevamo deciso di evitare la coabitazione, che sarebbe venuta con il matrimonio. Sì, era nei nostri progetti. Io insegno nella Facoltà di Economia ed Enrico era candidato a Preside della stessa facoltà. Per evitare strumentalizzazioni avevamo deciso di sposarci dopo le elezioni e la sua eventuale nomina, quindi nel corso del prossimo anno. Io sono assolutamente sicura che Enrico non si è ucciso. Ho anche pensato che possa essere precipitato acci78 dentalmente, anche se quest’ipotesi è inverosimile. Che motivo poteva avere per sporgersi dal terrazzo fino a precipitare? No, più ci penso e più mi sembra improbabile. Allora non resta che l’omicidio. Qualcuno lo ha spinto giù. Ma per quanto ci pensi, non riesco a immaginare chi possa aver compiuto un gesto simile. Enrico non aveva nemici che potessero odiarlo a tal punto. Semmai qualche rivalità professionale, sempre presente in qualunque ambiente di lavoro». Fece una pausa di riflessione. Moreno che fino a quel momento aveva lasciato che la donna parlasse, intervenne, più per dare l’idea di essere interessato che per porgere una domanda che, a quel punto, poteva avere una sola ovvia risposta: «Capisco, ma vorrei sapere qual è il motivo della sua visita». «Il commissario Corrente mi ha detto che lei sta conducendo, in via non ufficiale, un’indagine su quanto accaduto. Mi ha riferito di riporre una grande fiducia in lei e nelle sue qualità investigative. Il commissario mi ha anche detto che, il magistrato inquirente, in assenza di elementi rilevanti, vorrebbe archiviare il caso classificandolo come suicidio. A questo punto vorrei che lei continuasse la sua indagine per mio conto e a mie spese, facendo quanto necessario». «Signora, prima che mi affidi l’incarico, voglio che sappia che a tutt’oggi abbiamo solo pochi elementi su cui lavorare e che l’esito delle ricerche è 79 quanto mai incerto, anzi è probabile che non si approdi a una soluzione del caso». «Sono perfettamente consapevole di quanto lei sta puntualizzando e apprezzo la sua onestà. D’altro canto la paventata archiviazione da parte della magistratura competente porrebbe fine alle indagini della polizia. Io non ho intenzione di rassegnarmi a una verità improbabile». Moreno, senza altro aggiungere, trasse fuori dal cassetto della scrivania un foglio stampato che porse alla sua interlocutrice pregandola di compilarlo nelle parti lasciate in bianco e di apporre una firma in calce, spiegandole che si trattava del modulo per l’affidamento delle indagini. Una parte conteneva anche le condizioni economiche che prevedevano una quota giornaliera e un rimborso forfettario delle spese. La professoressa Veneziani diede una rapida lettura prima di redigere e sottoscrivere il modulo che restituì a Moreno dicendo: «Vorrei precisare che se ci fossero delle spese extra sono pronta a sostenerle. Le chiedo solo il massimo impegno». Adesso l’investigatore Moreno Roccati aveva una cliente ed era autorizzato legalmente a indagare. Per sommi capi riferì alla professoressa che aveva indirizzato le indagini verso il periodo in cui Brocca era vissuto a Firenze e le sue frequentazioni giovanili, alla ricerca di un qualche punto oscuro relativo a quell’epoca. Infine si rivolse alla donna con un certo imbarazzo: «Mi dispiace farle questa domanda, ma la prego di rispondermi con la 80 massima sincerità. Vorrei sapere quanto c’è di vero nelle voci su presunte relazioni del professore con studentesse». La donna abbozzò un sorriso ironico che esprimeva abbastanza bene sdegno e amarezza prima di rispondere: «Lei ha detto voci. Io dirò di più, sono malignità finalizzate a minare la credibilità di Enrico. Hanno imbastito queste maldicenze per tentare di screditarlo proprio all’interno della facoltà in vista delle prossime elezioni a preside. Sicuramente c’è lo zampino di Castelli e dei suoi accoliti, primo tra tutti quell’ingrato di Gualdi, un allievo del povero Enrico che a lui deve tutto. Gualdi è un ambizioso che per la carriera si venderebbe l’anima. Nonostante sia più giovane e meno titolato di Landi, vorrebbe scavalcarlo e diventare professore associato. Ecco perché ha cercato l’appoggio di Castelli e ha cominciato a far girare tra gli studenti queste malignità, che sono arrivate alle orecchie di Enrico amareggiandolo profondamente. Enrico era un uomo affascinante e nella sua vita ha avuto tante storie, alcune più serie di altre, ma le posso assicurare che non ha mai approfittato della sua posizione e del suo ruolo per trarne squallidi favori sessuali». La professoressa Veneziani era profondamente indignata e sembrava assolutamente sincera. Moreno pensò che doveva aver amato tanto quell’uomo che, per quelli che lo conoscevano intimamente, appariva pieno di virtù. Soltanto l’autore della misteriosa lettera al Questore sembrava essere al corrente di qualche episodio oscuro della vita di Brocca. 81 Non si dissero altro e la professoressa si congedò lasciando Moreno a riflettere sul significato delle parole dell’anonimo scrittore. Dopo qualche minuto accese un sigaro aromatizzato all’anice e compose il numero del cellulare di Corrente che riconobbe l’autore della chiamata: «Moreno, che novità hai?». «Buongiorno Commissario, sono tornato da Firenze quattro ore fa. Ho parlato con il fratello e contattato un paio di vecchi amici di Brocca, ma non ho ricavato informazioni importanti. In realtà non sono riuscito ancora a rintracciare un certo Pucci che, all’epoca, amoreggiava con la sorella di una ragazza a cui Brocca teneva particolarmente. Il Pucci vive a Francoforte, ma attualmente si trova negli Stati Uniti per motivi di lavoro». «La Veneziani ti ha telefonato?». «Sì, è appena uscita dal mio ufficio. Ha firmato l’incarico». «Bene. Allora sbrigati e cerca di concludere qualcosa. C’è una novità che devi conoscere: il questore ha ricevuto un’altra lettera anonima. Te ne mando una copia con Piera. Il questore ha passato tutto al magistrato che è convinto si tratti di un mitomane ed è deciso a chiudere il caso. Credo che non ci rimanga molto tempo. Se non avremo novità sostanziose entro questa settimana, dovremo arrenderci, almeno ufficialmente». «Commissario ha interrogato Landi e Gualdi?». «Sì, ma non c’entrano con la morte del professore: hanno alibi di ferro. Ho parlato anche con Castelli, con la dovuta cautela, si capisce. Quando 82 è morto Brocca era all’estero. Abbiamo controllato». «Va bene. Cercherò di rintracciare quel Pucci e, se necessario, tornerò a Firenze». Erano da poco passate le tredici. Moreno chiamò al numero di Francoforte. Rispose una donna in tedesco. Moreno, nel suo inglese scolastico, si presentò come un investigatore e manifestò la necessità di parlare con Pucci in tempi brevi. La donna spiegò che il suo datore di lavoro si trovava negli Stati Uniti e che, in assenza di esplicite disposizioni dello stesso, non era autorizzata a metterlo in contatto con altri, né tantomeno a fornire un suo recapito telefonico. Moreno allora lasciò il proprio numero di cellulare pregando la donna di comunicarlo al Pucci, non appena fosse stato possibile, ribadendo l’urgenza e la necessità di un colloquio. Alle diciotto in punto, Piera raggiunse Moreno che, seduto a un tavolo di un bar davanti al Panteon, guardava distrattamente i passanti ed era indeciso se accendere o meno uno dei suoi sigari. L’esitazione derivava dal fatto che, pur essendo all’aperto, i tavolini erano troppo vicini tra loro e con ogni probabilità il fumo avrebbe disturbato gli avventori più vicini. Pazienza! Avrebbe atteso. Quando la vide, balzò in piedi, e si sentì riempire di gioia. Da tanto tempo non provava una sensazione simile. Quando Piera lo raggiunse, la baciò sulla guancia accarezzandole le braccia. Pro83 fumava di buono. Sedettero. Piera lo guardava e i suoi occhi avevano una luce speciale. Non l’aveva mai vista così. Cercò di comunicarle le proprie sensazioni con frasi spezzate, tentando di vincere un naturale imbarazzo che, tuttavia, Piera colse e accettò con un sorriso indulgente. Allora lei, senza dire una parola, prese le mani di Moreno e le strinse forte. Poi, gli sfiorò le labbra con le sue. Sembravano due adolescenti alla loro prima dichiarazione d’amore. La suoneria del cellulare di Moreno li sottrasse, quasi brutalmente, alla profonda intimità delle loro emozioni. Era Corrente. «Allora, Moreno, hai letto la seconda lettera del nostro anonimo scrittore? Che te ne pare?». «Veramente ho visto Piera solo adesso. Non ne ho avuto ancora il tempo. La richiamo tra un po’». Piera capì l’argomento della chiamata, frugò nella sua borsa e ne trasse un foglio, fotocopia dell’originale, che diede a Moreno. Questi lo lesse con attenzione: “Ill.mo Sig. Questore, Le scrivo per significare tutto il mio rammarico. Evidentemente Ella non ha attribuito il giusto valore alla mia precedente che sottolineava la malvagia condotta di Enrico Brocca che ha ricevuto il giusto Divin Castigo. Infatti, non ho riscontrato su alcun giornale una Sua dichiarazione che annullasse le lodi in favore del reprobo Brocca, in precedenza immeritatamente tessute dalla stampa. Evidentemente avevo sovrastimato la Sua professionalità. 84 Mi auguro che si ravveda e provveda a rimediare in breve tempo. Ossequi.” Dopo aver letto, chiese a Piera: «Stessa macchina da scrivere e stesso timbro postale?». «Sì. È stata spedita da Firenze e la Scientifica dice che anche questa è stata scritta con la medesima vecchia macchina da scrivere, quasi certamente un modello Lettera 32 della Olivetti prodotta dal 1963 in poi, ormai diventata oggetto di modernariato. Non abbiamo altro. Nessuna impronta. Il bordo della busta è del tipo autoadesivo, s’incolla dopo asportazione della fascetta di protezione e, sul francobollo, non vi è traccia di saliva. Stessi rilievi sulla prima lettera. Evidentemente ha maneggiato il foglio con guanti di lattice e ha bagnato il francobollo con acqua. Corrente ha chiesto il parere dello psichiatra. Questi pensa che si tratti di una personalità fortemente disturbata. Il continuo richiamo al castigo e alla giustizia divina fino a giungere quasi all’identificazione del soggetto con la divinità, ha il carattere di una visione distorta della realtà. In pratica pensa che quelle lettere, apparentemente razionali, rappresentino invece il delirio di uno schizofrenico». «Allora abbiamo a che fare con un pazzo, che però sta molto attento a non farsi scoprire, visto che usa guanti di lattice e non lecca il francobollo». «Sì, proprio così. Lo psicologo dice che questi soggetti possono essere meticolosi e molto attenti a quanto fanno. Allo stesso tempo non esclude che 85 egli abbia costruito una sua realtà attribuendo a Brocca colpe inesistenti o, viceversa, che abbia maturato un rancore nel tempo per un torto realmente subito». «Allora può essere tutto e il contrario di tutto. Se il nostro uomo ha costruito un castello di carta sulla sabbia, è probabile che, anche scavando nel passato di Brocca, non riusciremo a trovare nulla». «Non è da escludere. Riusciremo a saperlo solo quando lo avremo trovato». «Non mi sembra facile, con gli elementi che abbiamo». Moreno ci pensò su qualche minuto e, senza che Piera lo distogliesse, compose il numero di Corrente che rispose immediatamente. «Allora, Moreno, che te ne pare?». «Dovremmo dare la caccia a uno schizofrenico, ma come facciamo a trovarlo? L’unica traccia è una macchina da scrivere fuori produzione che, probabilmente, si trova a Firenze. Non credo proprio che il nostro uomo se ne vada in giro per le vie della città con una macchina da scrivere sotto il braccio». «Sì, lo so che non è un compito facile, ma sono sicuro che tu ce la farai». «Commissario, mi prende in giro?». «No. Sono convinto di quello che dico». Riattaccò. Moreno guardò Piera con un’espressione di grande sconforto. Lei gli sorrise. Ordinarono l’aperitivo. Non parlarono più del caso per tutta la serata. Loro due erano al centro di tutto. 86 Passeggiarono per un po’, poi andarono a cena in una trattoria vicino casa di Moreno che, d’estate, metteva alcuni tavolini sul marciapiede antistante. La loro seconda notte d’amore fu ancora più piena di travolgente passione della prima. Briciole di naturale pudore non impedirono loro di donarsi l’un l’altra, totalmente così da sentirsi appagati dal reciproco piacere. 87 CAPITOLO IX Il tintinnio del cucchiaino rigirato nella tazzina del caffè, svegliò Piera. Moreno aveva trovato, nella sua minuscola dispensa, anche qualche biscotto che appoggiò sul bordo del piattino. Piera, prima di prendere la tazzina, si mise a sedere incrociando le gambe, lisciando con le mani i lunghi capelli che le ricaddero sulle spalle nude, in ordine, quasi fossero stati pettinati. Com’era diversa dalla collega compunta e un po’ musona che aveva conosciuto quando era in servizio, pensò Moreno. Adesso aveva l’aspetto di una giovane donna orgogliosamente consapevole della propria bellezza, serena e felice. Moreno restò a guardarla per un po’ mentre lei sbocconcellava i biscotti, poi si fece coraggio e disse: «Piera, voglio che tu sappia che non mi sono macchiato di alcuna colpa. Io mi sono dimesso dalla polizia per poter andare a testa alta e non dovermi vergognare davanti ai colleghi. Con te è diverso. Devi sapere che le cose sono andate in maniera differente da come le hanno raccontate al processo». 88 Lei lo interruppe: «Lo so, lo sappiamo. Il commissario Corrente e io non abbiamo mai creduto che tu potessi aver infierito su una persona indifesa. Come noi, la pensano in tanti in Commissariato. Quello che non riusciamo a capire è perché Quattrone e i suoi uomini abbiano testimoniato contro di te». Moreno ci pensò su, poi disse: «Un motivo c’è. Te lo dirò, ma non adesso. Fidati, è meglio così. Quando sarà il momento giusto lo saprai. Fidati!». Piera si alzò, lo abbracciò stringendosi con forza al suo petto e disse: «Mi fido, mi fido, ti amo». Piera era appena uscita per andare in commissariato. Si sarebbero sentiti più tardi. Moreno accese il computer e consultò le Pagine Gialle di Firenze. Trovò quattro sole ditte alla voce “macchine da scrivere: riparazione e vendita”. Telefonò a tutte e quattro presentandosi come collezionista in cerca di chi potesse riparare una antica macchina portatile della Olivetti. Aveva temuto di non riuscire a contattare nessuno. Era ormai l’otto di Agosto e avrebbero potuto aver sospeso l’attività per ferie. In due gli risposero che non si occupavano più del settore e che erano passati alla riparazione di computer. Un terzo interlocutore gli riferì di svolgere esclusivamente assistenza a registratori di cassa di varie marche. Il quarto lo invitò a visitare il proprio negozio dove avrebbe trovato rari pezzi da collezione, ma anche parti di ricambio per macchine da scrivere vintage. Moreno decise di andare a Firenze. Quello sembrava l’unico debo89 le filo a cui appigliarsi. Chiese al suo interlocutore l’orario del negozio e questi gli rispose di bussare anche se avesse trovato chiuso, perché viveva nell’ammezzato sopra la bottega e gli avrebbe aperto purché fosse giunto entro le otto di sera. Quando arrivò a Santa Maria Novella il cielo era coperto e l’afa insopportabile. Cominciò a sudare. Comprò una bottiglia d’acqua minerale non gasata da mezzo litro che bevve tutta d’un fiato. Dal taxi si fece condurre in Via delle Casine, poco distante da Santa Croce, nei pressi della Biblioteca Nazionale. Individuò subito la bottega che cercava. Erano le tre del pomeriggio. La vetusta porta di legno e vetri era chiusa. Sullo stipite destro spiccava il pulsante bianco di un campanello che Moreno pigiò energicamente. Non dovette attendere molto. Si accese una luce all’interno, poi la porta si aprì e fece capolino la testa di un omino basso con radi capelli bianchi, rosee guance, grandi orecchie e un largo sorriso che mostrava una dentatura regolare. Moreno pensò che molto simile a quello doveva essere il viso degli elfi delle favole che ascoltava da bambino. Non poté fare a meno di ricambiare il sorriso rivoltogli e chiese di entrare. L’interno era mal illuminato da un’unica lampadina centrale che pendeva un po’ sbilenca dall’alto soffitto. Un tavolo da lavoro era ingombro di materiale di vario tipo: ingranaggi, utensili, alcune boccette piene di liquido nelle quali erano immersi sottili pennelli, rotoli di carta per smerigliare, spazzole di diverse dimensioni, scatole piene di viti di ogni misura e 90 un avvitatore elettrico che stonava con il resto a causa della sua evidente modernità. Le pareti erano rivestite da alte scaffalature in legno dove erano stipate macchine da scrivere di varia foggia, tutte datate, alcune in perfette condizioni, altre malandate e mancanti di parti. C’erano pure tanti scatoloni di cartone, il contenuto dei quali non era visibile. Il vecchietto, con evidente compiacimento, lasciò che il visitatore osservasse bene quanto era esposto e, solo dopo un po’, gli chiese: «Cosa posso fare per lei? Desidera vedere qualche macchina d’epoca? È un collezionista?». «Sono un investigatore privato e sto cercando di rintracciare una persona che ha scritto, con una macchina Olivetti Lettera 32, missive anonime spedite da Firenze. L’autore delle lettere potrebbe far luce su un omicidio commesso alcuni giorni fa a Roma. Le chiedo di darmi una mano fornendomi il nome di chi ha comprato da lei o, magari, portato a riparare una macchina di quel modello». Il vecchietto sembrò pensarci, prima di rispondere: «Non ho difficoltà a crederle, ma mi chiedo come mai non sia venuta a cercarmi la polizia». «In realtà la polizia è propensa a ritenere che si tratti di un suicidio e vorrebbe archiviare il caso. La persona che mi ha ingaggiato per condurre queste ricerche è convinta che si tratti, invece, di un omicidio e, anch’io, nutro dei dubbi in merito». «Capisco, ma non credo di poterla aiutare. Non tengo un registro delle macchine vendute, ma solo di quelle da me comprate, al fine di garantirmi sulla lecita provenienza. Non compro, però, usato 91 ormai da qualche anno poiché è difficile rivenderlo. È un mercato fermo. La gente non ha più soldi da spendere. Per le riparazioni e la manutenzione ho un registro dove appunto solo il nome e il numero di telefono dei clienti. Il numero mi serve per avvertirli, a lavoro ultimato. Se vuole glielo mostro, tanto non sono un medico o un avvocato e quindi non sono tenuto a mantenere il segreto professionale». Accompagnò queste ultime parole con il suo sorriso da elfo. Si chinò per estrarre da una cassettiera posta sotto il tavolo, un grosso quaderno le cui pagine erano riempite da nomi e numeri di telefono. Lo porse a Moreno, aprendolo nell’ultima pagina compilata. L’investigatore prese a consultarlo andando a ritroso nel tempo. Segnò sopra un foglio di carta i nomi e i numeri di telefono dei possessori di una Lettera 32 che, negli ultimi tre anni, avevano portato la macchina a riparare o soltanto a registrare. Notò che un nome si ripeteva con periodicità annuale e chiese al vecchietto: «Si ricorda di questo suo cliente che si chiama Andrea Marchini? Lo vedo annotato con una certa frequenza». «Certamente! Marchini, sì. È un giovane sulla quarantina, pignolo, sì molto pignolo, ma ben educato e rispettoso. Almeno una volta l’anno mi porta la sua Lettera 32 per una revisione completa. Ci tiene molto a quella macchina! Una volta mi disse che era stata acquistata della madre parecchio tempo prima». 92 «Degli altri cinque nomi, che ho qui segnato, cosa può dirmi?». Il vecchietto diede una rapida occhiata, e, segnando i nomi con un dito, disse: «Questi due, Borri e Silvestri, sono collezionisti, clienti abituali, fanno spesso acquisti e riescono anche a fare da soli piccole riparazioni; il più delle volte si rivolgono a me per i pezzi di ricambio o per montare qualche ingranaggio più complicato. Poi c’è la signora Larini. Gran bella donna! È un piacere vederla in negozio. Ogni tanto viene a curiosare tra le mie vecchie cose e a scambiare quattro chiacchiere. È più un’amica che una cliente. Il suo papà era un mio buon amico. È morto una decina d’anni fa. Sì, anche lei ha una Lettera 32, ma non vedo come possa avere a che fare con le sue ricerche. Degli altri due, non mi ricordo». 93 CAPITOLO X Moreno, dopo essersi congedato dal vecchietto dalle sembianze d’elfo, si recò nella piazza antistante la basilica di Santa Croce e, lì, sedette al tavolo di un bar, protetto dal sole pomeridiano dalla tela di un grande ombrellone bianco. Consumò due bicchieri di té freddo molto zuccherato, che gli fornirono immediato sollievo ed energia sufficiente a continuare la giornata. Sul suo smartphone, collegandosi alla rete, cercò sulle “pagine bianche” gli indirizzi dei sei possessori di una Lettera 32, indicando i numeri di telefono. Riuscì a trovarli facilmente. Li annotò accanto ai nomi. Aveva intenzione di andare a far visita a ciascuno di questi e stava individuando sulla mappa della città le vie, quando il suo cellulare squillò. Sul display apparve un numero preceduto da +49, il prefisso della Germania. Rispose. Il suo interlocutore aveva una voce calda e profonda. Esordì: «Signor Roccati, è lei?». «Sì». «Sono Gianpiero Pucci. Sono appena tornato dagli Stati Uniti. La segretaria mi ha detto che lei è 94 un investigatore privato e che ha la necessità di parlarmi con una certa urgenza. Io, purtroppo, ho poco tempo e non posso riceverla. Sto per partire per un viaggio d’affari in Cina. Starò via una ventina di giorni. Magari, al mio ritorno…». «Se mi dedicasse solo pochi minuti, potrebbe rispondere adesso alle mie domande». «Ma non so neppure di cosa si tratta». «Della morte del professore Brocca». «Sì, ho letto la notizia su “ La Nazione” di Firenze. Ne ricevo regolarmente una copia nel mio ufficio di Francoforte. Nel giornale si parlava di un suicidio. Come mai si interessa alla vicenda?». «Il fatto è che non tutto appare chiaro. Gli inquirenti hanno ricevuto anche due lettere anonime provenienti da Firenze, nelle quali chi scrive si lamenta di un torto subito dal professore. Abbiamo ragione di credere che ciò possa essere avvenuto quando ancora il professore risiedeva a Firenze. Io ho incontrato sia l’avvocato Foschini che il vostro comune amico Pasini, ma loro non ricordano alcun evento importante avvenuto ai tempi della vostra frequentazione». « Mah…! Non so che dirle. Eravamo giovani. Si facevano delle burle a quei tempi, ma senza far del male. Qualche bischerata, niente di più. No, mi dispiace, ma non ricordo nulla». «Ancora una domanda. Il Pasini mi ha detto che il professore frequentava assiduamente una ragazza, la cui sorella era sentimentalmente legata a lei». 95 «Sì, Laura e Isabella Marchini, le figlie del tabaccaio di Piazza dei Tigli all’Isolotto. Io facevo l’amore con Isabella, che aveva la mia età ed era tanto carina, mentre Enrico stava con Laura. Non si può dire che fosse una bellezza, ma aveva il suo fascino. Era una donna fatta, era più grande di noi, lavorava già, se non ricordo male era impiegata al comune di Firenze, mentre noi si era ancora dei ragazzotti, studentelli…,via…! Forse per questo Enrico s’era preso una mezza cotta. Tra me e Isabella finì presto, dopo qualche mese, mentre Enrico continuò a vedere Laura per parecchio tempo, forse, non ne sono certo, fino a quando lasciò Firenze per trasferirsi definitivamente a Roma». «E lei, le ha più riviste? Sa se vivono ancora a Firenze?». «No, mi dispiace. Non ne so più nulla». «Bene! Non ho altro da chiederle. Grazie». «Di niente. Se avrà ancora bisogno di me, lasci un messaggio alla mia segretaria e io la ricontatterò, appena possibile. Tanti auguri per la sua indagine». Nel foglio che aveva davanti a sé, aveva annotato i nomi di Laura e Isabella Marchini e, tra parentesi la dicitura, figlie del tabaccaio di piazza dei Tigli, quartiere Isolotto. In quel foglio era scritto il nome di un altro Marchini, Andrea, il proprietario di una Lettera 32. Moreno avvertì una leggera accelerazione dei battiti cardiaci accompagnata da un debole pulsare delle tempie, segno che la sua attenzione subiva una repentina accentuazione. Poteva trattarsi di una coincidenza, anche se 96 piuttosto improbabile. L’indirizzo che aveva annotato, accanto a quel tale Andrea Marchini, solo pochi minuti, prima durante la sua ricerca, era Via Torcicoda. Diede un’occhiata alla mappa. Si trovava all’Isolotto, proprio vicino a Piazza dei Tigli. La coincidenza si stava trasformando in alta probabilità. Doveva andare a trovare quell’uomo. Moreno Roccati prese un taxi e si fece portare in Via Torcicoda. Durante il tragitto cominciò a riflettere. Se quell’individuo che aveva intenzione di incontrare fosse stato l’autore delle lettere anonime, si sarebbe trovato di fronte a un soggetto dalla personalità contorta. Gli analisti della polizia, avevano dedotto dagli scritti che si trattava di uno psicopatico, con delirio di onnipotenza; ma allo stesso tempo lo descrivevano come estremamente intelligente e attento a non lasciare tracce che potessero facilitarne l’individuazione. Il vecchietto delle macchine da scrivere l’aveva tratteggiato come un tipo molto pignolo. Moreno pensò che, per seguire una procedura regolare, avrebbe dovuto avvertire il commissario Corrente e, questi, avrebbe chiesto l’intervento della Polizia di Firenze. La macchina da scrivere del Marchini sarebbe stata sequestrata e, con ogni probabilità, si sarebbe appurato, mediante una perizia, che le lettere erano state redatte da quell’uomo. Ma quante probabilità ci sarebbero state di scoprire un’eventuale suo coinvolgimento nella morte di Brocca? 97 Se veramente era un uomo attento e intelligente, bisognava giocare d’astuzia e imbastire una sorta di rete nella quale farlo cadere. Ma come? Moreno aveva la sensazione di trovarsi molto vicino alla soluzione del caso. Si ricordò che il vecchietto aveva detto una cosa che poteva essere importante. La macchina da scrivere era appartenuta alla madre di Andrea Marchini. Quella donna poteva essere una delle due figlie del tabaccaio? E, in questo caso, come mai l’uomo portava il cognome della madre? Poteva essere solo un parente delle due donne, ma perché mai avrebbe dovuto scrivere quelle lettere, forse perché aveva subito un torto personalmente? Se adesso aveva una quarantina d’anni, doveva essere molto piccolo, o appena nato, quando Brocca aveva lasciato Firenze. Moreno reputò utile avvicinare il soggetto con molta prudenza, cercando di non metterlo in allarme. Doveva scoprire la relazione che intercorreva tra quell’uomo e il professore, senza destare sospetti. Elaborò un piano di massima, che avrebbe adattato, in corso d’opera, al suo interlocutore. Il quartiere Isolotto era fatto da edifici tutti uguali, a tre o quattro piani. Erano stati costruiti dall’INA-Casa dopo la Seconda Guerra Mondiale, negli anni cinquanta, in una zona degradata, dove prima, a orti e campi, si alternavano depositi di immondizia e ruderi di vecchie costruzioni, alcune delle quali erano state sedi di fonderie e officine. Il taxi si fermò davanti al numero civico che Moreno aveva indicato. Era pomeriggio inoltrato e 98 il caldo afoso stava lasciando il campo a una leggera brezza che saliva dal vicino Arno. Accanto al portone c’erano dodici pulsanti di campanelli di fianco ai nomi degli inquilini, ma non vi era il citofono. Moreno suonò due volte, prima che da una finestra del secondo piano facesse capolino un uomo dai lineamenti regolari e dai capelli cortissimi che con voce stentorea chiese: «Chi è? Cosa desidera?». «Sono un collaboratore del notaio Roccati di Roma». L’investigatore disse una mezza bugia, poiché esisteva un suo lontano cugino che faceva il notaio nella capitale e aggiunse «ho una comunicazione per il Sig. Marchini Andrea. È lei?». «Non conosco nessun notaio di Roma!» esclamò. Così dicendo, si ritirò e chiuse l’imposta. Moreno si morse le labbra. Non aveva funzionato. Accese un mezzo toscano all’anice e rimase ancora un po’ davanti al portone a riflettere. Non aveva intenzione di mollare, ma doveva trovare una via d’uscita a quella situazione. Era indeciso se attendere lì, magari delle ore, che l’uomo uscisse da casa per avvicinarlo, oppure chiamare Corrente e ricorrere alle vie ufficiali. Erano passati alcuni minuti, quando la finestra del secondo piano si riaprì solo per un attimo e, subito dopo, lo scatto della serratura del portone diede il via libera a Moreno, che, spento frettolosamente il sigaro, salì rapidamente i due piani di scale. Ad attenderlo sull’uscio c’era un uomo sulla quarantina, dalla corporatura media, ben rasato. Aveva gli occhi verde chiaro e il colorito del volto 99 appariva estremamente pallido, di chi non si espone al sole. «Posso vedere un suo documento?», chiese con diffidenza. Moreno gli porse la carta d’identità. Il padrone di casa la osservò con attenzione e poi aggiunse: «Casualmente posseggo l’elenco telefonico di Roma nel quale ho trovato il numero di un notaio che si chiama Roccati come lei. Ho composto quel numero, ma era attiva una segreteria telefonica dalla quale ho appreso che lo studio è chiuso per ferie. Come mai lei, invece, lavora ancora?». Moreno in cuor suo ringraziò la propria buona stella che, in qualche modo, aveva sostenuto la sua bugia. Fece un largo sorriso che doveva servire a rassicurare il suo interlocutore e disse: «Il notaio Roccati è mio cugino. Io collaboro per alcune funzioni particolari, come rintracciare persone oggetto di atti e notificare comunicazioni fuori città. Per tale motivo sono libero di organizzare il lavoro che non segue, necessariamente, orari e giorni d’ufficio». Andrea Marchini sembrò soddisfatto della spiegazione e lasciò finalmente entrare il suo ospite. L’ingresso era angusto e piuttosto buio. La poca luce filtrava da una porta a vetri opachi che si apriva in un ambiente adibito a salotto. Vi entrarono. La stanza era arredata con poltrone dalla tappezzeria consunta disposte intorno a un tavolino dal ripiano in onice al centro del quale era posto un vassoio d’argento dai bordi cesellati e, in gran par100 te, anneriti. Alle pareti, rivestite da una carta con arabeschi dorati, ingiallita quasi uniformemente, c’era qualche stampa che raffigurava piazze e vedute di Firenze. In un angolo spiccava un trumò, in radica di noce ormai opaca per il tempo, che doveva risalire alla prima metà del millenovecento. Sulla ribalta del mobile c’era un grande portafotografie che conteneva il ritratto di una donna abbastanza giovane, molto somigliante al Marchini, con i capelli cotonati, come usava nel periodo compreso tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo. Nell’insieme, l’ambiente era alquanto deprimente e, un odore di chiuso e di stantio, vi aleggiava pesantemente. I due sedettero nelle poltrone, uno di fronte all’altro. Marchini, continuava a tenere un atteggiamento vagamente diffidente. Il suo sguardo era sfuggente. Solo raramente incontrava quello del suo interlocutore. Moreno decise di sferrare subito il colpo decisivo. Non ritenne utile tirarla per le lunghe. Pensò che fosse il caso di affrontarlo direttamente e chiese: «Lei conosceva il professor Enrico Brocca?». La mano destra di Andrea Marchini, che teneva posata sul ginocchio, cominciò a oscillare, dapprima finemente, poi grossolanamente, mentre egli si portava la mano sinistra al capo dicendo: «Non so. Non ricordo… sto male. Ho mal di testa!». «Non importa. Non si preoccupi. È solo una formalità burocratica. Sono venuto a comunicarle 101 che il professore Brocca ha lasciato un testamento nel quale la nomina suo erede». «Ma come?...Non capisco!... Allora è un riconoscimento?». «Il riconoscimento di che cosa?». «Niente…non so. Ho mal di testa. La prego, mi lasci solo. Non sto bene. Ho bisogno di riposo». Il tremore si era diffuso all’altra mano, mentre sul volto pallido erano comparse delle chiazze rossastre dai contorni irregolari. L’uomo era visibilmente agitato e continuava a ripetere di star male chiedendo di essere lasciato da solo. La sua voce era molto salita di tono. Moreno giudicò di dovere lasciare immediatamente quella casa, prima che Marchini andasse in escandescenza, pericolosamente. Si congedò in fretta, raggiunse l’ingresso e chiuse la porta alle sue spalle. Rimase solo un attimo a origliare. Non si udiva più nulla. Discese rapidamente la scale e, una volta in strada, si allontanò dalla casa a grandi passi. Aveva fatto centro. 102 CAPITOLO XI Moreno si allontanò da quella casa. Svoltato l’angolo, si ritrovò in Piazza dei Tigli, proprio di fronte al negozio di un tabaccaio. Guardò l’orologio. Erano ancora le sette e mezza del pomeriggio. Entrò. Dietro al banco dei tabacchi c’era una donna di mezz’età, mentre, sulla destra, un uomo stava dietro uno sportello dove due clienti facevano la fila per giocare al superenalotto. Moreno chiese una scatola di mezzi toscani all’anice e una di fiammiferi “svedesi”. Pagò. Mentre la donna contava il resto le chiese: «Lei fa parte della famiglia Marchini?». «Nient’affatto», rispose e aggiunse «il tabacchino l’era dei Marchini, ma noi, io e mio marito, lo s’è comprato dal vecchio, diciott’anni or sono». «Posso chiederle se ancora qualcuno dei parenti abita nel quartiere?». «Sì, l’Andrea, il nipote del vecchio. La su’ mamma, la povera Laura, una delle due figlie del precedente padrone, l’è morta da meno d’un anno e ha lasciato codesto figliolo. Ma l’è un disgraziato, un mezzo matto, meglio non averci a che fare». «E del padre, che ne è stato?». 103 «Ma quale padre? Non s’è mai saputo chi fosse. Laura era una ragazza madre. Di quei tempi era una disgrazia, mentre oggi i figli li fanno pure in boccetta». «Provetta si dice, non boccetta!», esclamò l’uomo dietro lo sportello, che fino a quel momento non aveva preso parte alla conversazione. «Beh! Provetta o boccetta che sia, è sempre una cosa contro natura», rispose la donna infastidita e continuò «mio marito vuol dire sempre la sua. Comunque sia, Laura era una brava ragazza. Un tipo riservato. Lavorava all’anagrafe del Comune. Era una donna indipendente. Quel figlio, l’ha cresciuto come un principino, sempre ben vestito. Purtroppo era malato. Pensi che da ragazzo è stato ricoverato varie volte in una clinica dove curavano i matti». Moreno approfittò della loquacità dei tabaccai e chiese ancora: «Dell’altra figlia del vecchio che sa dirmi? È morta pure lei?». «No. Ha sposato un impiegato delle Poste. È partita, poco dopo le nozze, col marito, quando questi è stato trasferito a Bolzano. Non s’è più vista da allora. Non so che rapporti avesse con la sorella e col nipote». Alla fine, la donna, che non aveva lesinato gratuite informazioni, sentì il bisogno di soddisfare la propria curiosità e chiese: «Ma lei perché vuole sapere dei Marchini? L’avrà bene un motivo!». «Sì, certamente. Si tratta di un’eredità di un lontano parente che va ai membri della famiglia anco- 104 ra in vita. Le notizie che mi ha fornito saranno estremamente utili. La ringrazio tanto». L’investigatore Roccati si ritrovò per strada a pensare. Aveva in mano molti più elementi di quanto avesse sperato solo qualche ora prima. Non aveva dubbi sul coinvolgimento di Andrea Marchini nella vicenda. Era molto probabile che egli fosse l’autore delle lettere anonime. C’era anche la possibilità che egli credesse, a torto o a ragione, che Enrico Brocca fosse il padre di cui la gente non sapeva nulla. Andrea doveva avere l’età giusta per essere stato concepito negli ultimi tempi della permanenza di Brocca a Firenze. Moreno sapeva di non potere spingersi oltre. Era necessario un mandato di perquisizione nella casa di Marchini per cercare la macchina da scrivere con la quale aveva redatto le lettere e bisognava interrogarlo con l’assistenza di uno psicologo, considerata la sua contorta personalità. Moreno telefonò al commissario Corrente. Gli riferì tutti gli avvenimenti della giornata e quanto era riuscito a sapere su Andrea Marchini. Il commissario disse che avrebbe immediatamente avvertito il Questore e il magistrato inquirente per ottenere il mandato e la collaborazione dei colleghi di Firenze. Avrebbe cercato di rintracciare anche Isabella Marchini a Bolzano per avere notizie sulle vicende della sua famiglia. L’investigatore Roccati era soddisfatto dei risultati ottenuti. Pensò che non aveva più nulla da fare a Firenze. Si recò alla stazione di Santa Maria Novella e prese l’ultimo treno della sera. Telefonò a 105 Piera che insistette per incontrarlo al suo arrivo, nonostante l’ora tarda, alla stazione di Roma Temini. Quando Moreno scese dal treno, Piera gli corse incontro e, quando fu tra le sue braccia, lo strinse forte a sé; poi scoppiò a piangere. L’uomo la accarezzò dolcemente, attese che i singhiozzi si smorzassero, si staccò da lei quel tanto che bastava per poterla guardare in viso e chiese: «Che succede?». «Scusami, piango di rabbia!». «Raccontami tutto». «Stamane, ero in ufficio, da sola nella mia stanza, intenta a fare una serie di fotocopie, quando mi si è avvicinato quel grassone perennemente sudato di Malvasi, l’ispettore tirapiedi di Quattrone. Sorrideva in modo malizioso. Ha aperto quella sua boccaccia piena di denti fradici per insultarmi». «Che ti ha detto?». «“Sgualdrinella, prima facevi la sdegnosa, mentre ora gliela dai a quel rinnegato di Roccati”. Si è avvicinato ancora di più stringendomi verso l’angolo tra la copiatrice e il muro. Mi ha messo le mani addosso. Gli ho tirato una ginocchiata ai testicoli. Si è piegato in due ed è stramazzato al suolo. Non volevo creare complicazioni. L’ho lasciato gemente a terra. Mentre uscivo dalla stanza mi ha minacciato: “Attenta a te! Farai la fine di Roccati! Parola di Malvasi. Vi teniamo d’occhio!”. Sono andata in sala radio, dove c’erano al106 tri colleghi. Non l’ho più visto durante il giorno. Poco fa, mentre venivo qui, mi sono accorta che una piccola Opel rossa mi ha seguito fino al parcheggio. Non sono riuscita a riconoscere il conducente. Credo sia giunto il momento che tu mi spieghi cosa è successo tra te e Quattrone. Ho il diritto di saperlo, perché ho il diritto di difendermi». Moreno rimase in silenzio per alcuni minuti. Rifletteva sull’accaduto e sulle proprie responsabilità. Disse: «Piera, tu sei importante per me. Per molto tempo ho tenuto nascosti i miei sentimenti. Non volevo coinvolgerti in alcun modo. Ormai fai parte della mia vita ed è giusto che tu sappia. Quattrone e qualcuno della sua squadra, sicuramente Malvasi e Ialongo, sono coinvolti in un traffico di droga. Uno spacciatore di nome Ezio Falanga, che avevo beccato mentre cercava di piazzare merce rubata, messo alle strette, per guadagnarsi la libertà, mi rivelò chi erano e il sistema che usavano. Falanga informava Quattrone dove potesse trovare un po’ di droga, generalmente case di piccoli spacciatori; solo qualche volta segnalava un trasporto di quantitativi maggiori. Il commissario e i suoi facevano irruzione, verbalizzavano solo una piccola parte della droga trovata, il resto Quattrone lo dava a Falanga che la vendeva poco per volta e dividevano i guadagni». «Bastardi! Scusa, ma perché non hai avvertito Corrente? Potremmo prendere Ezio Falanga e farlo confessare, oppure farci dare da lui la soffiata giusta per beccare sul fatto tutti quanti». 107 «Mi ripromettevo di farlo dopo aver raccolto altre prove, ma purtroppo non è stato possibile». «Perché?». «Falanga è sparito tre anni fa, nello stesso periodo in cui ho avuto il problema che mi è costato la sospensione dal servizio. Non se ne sa più nulla. Né da vivo, né da morto. Prima di venire sospeso feci delle ricerche per via telematica presso le altre questure, ma niente. Sembrava svanito nel nulla. Probabilmente hanno saputo, con le buone o con le cattive, quello che aveva fatto e che non era affidabile. Per questo l’hanno fatto sparire. Potrebbero essere stati i trafficanti o addirittura quelli del gruppo di Quattrone». «Ora capisco perché hanno testimoniato contro di te al processo. Volevano screditarti in modo che le tue eventuali accuse contro di loro potessero sembrare prive di fondamento o, peggio ancora, frutto di sterile vendetta». «Sì, è proprio così. Per loro ero una minaccia. Una mina vagante che doveva essere disinnescata e hanno avuto l’occasione per farlo». «Ma non capisco perché ora cercano di intimidirmi». «Pensano che io ti abbia messo al corrente dei loro loschi traffici. Ti vogliono spaventare. Forse cercheranno anche di montare qualche altra storia per screditarmi ai tuoi occhi». «Moreno, parliamone con il commissario Corrente. Tu devi essere riabilitato e quei bastardi devono pagare le loro malefatte». 108 «Piera, ti prego, lascia perdere. Non abbiamo elementi per poterli incastrare e a Corrente creeremmo solo problemi. Oggi hanno fatto ciò che temevo. Hanno tirato dentro te, in questa brutta storia. Piera, io ti voglio un gran bene, te ne ho sempre voluto. Ora temo per la tua incolumità. Lo hanno fatto apposta. Appena hanno saputo che ci frequentiamo hanno pensato di mandarmi un altro messaggio, minacciando la persona a me più cara. Ma se vogliono la guerra, l’avranno! Dove hai parcheggiato?». «Nella piazza a destra, in fondo, dopo la fermata dei bus». «Va bene. Aspettami qui». «Che vuoi fare?». «Niente di male. Voglio solo dire due parole a Malvasi». «Moreno, lascia perdere». «Piera, credimi, non lo farei se non fosse necessario. Ho un messaggio da mandare a Quattrone». «Vengo con te». «No!Aspettami qui!». Le diede un bacio e la lasciò in mezzo all’andirivieni dei viaggiatori che continuavano ad affollare la banchina sulla quale si erano incontrati. Moreno uscì dall’ingresso laterale della stazione in via Giolitti, attraversò la strada e, a passi lenti, si avviò verso la piazza lanciando occhiate in direzione del parcheggio. Superato il terminal dei bus, intravide il tetto di tre macchine di colore rosso. Le superò, quindi si voltò per averle davanti a sé. Non 109 fece fatica a individuare la piccola Opel rossa che gl’interessava, perché era parcheggiata pochi metri dietro l’utilitaria di Piera che riconobbe agevolmente. Si avvicinò con circospezione evitando la possibile traiettoria visiva degli specchietti retrovisori dell’Opel. Quando fu a pochi metri da questa, una macchina nera gli passò davanti e si fermò vicino a lui in doppia fila; ne scese un signore trafelato che si diresse di corsa verso la stazione lasciando la vettura aperta senza la chiave nel quadro, giusto perché potesse essere, in caso di necessità, spostata a spinta. Ciò che fece Moreno per posizionarla proprio dietro l’Opel. Quando Malvasi si rese conto che la sua auto era stata bloccata, suonò ripetutamente il clacson. Guardando indietro vide che l’abitacolo della macchina nera era vuoto. Perse la pazienza. Era appena sceso quando lo sportello spinto da Moreno si richiuse con violenza schiacciandogli gambe e torace in una morsa dolorosissima che lo immobilizzò senza permettergli alcun movimento. I due si ritrovarono così faccia a faccia divisi dallo sportello che, sotto la pressione del corpo di Moreno, si era trasformato in una metallica camicia di forza. «Lasciami, bastardo. Te la farò pagare!». «Malvasi, sei monotono, non sai dire altro. Ascoltami bene: devi dire a Quattrone che ho tutto scritto e depositato in mani sicure. Se mi succede qualcosa, voi tutti finirete sulle prime pagine dei giornali. Magistrati, DIA e Questure saranno informati simultaneamente. Digli pure di farsi furbo perché, se mi succede qualcosa, le rivelazioni non 110 saranno più quelle di un rinnegato, ma di un martire. Quindi, che ci pensi bene prima di qualunque iniziativa». I lamenti di Malvasi erano sempre più frequenti e fiochi: doveva provare un forte dolore. Sembrava rassegnato e non tentava più di reagire. Poco prima era riuscito a tirare fuori l’avambraccio sinistro che, subito, Moreno, aveva colpito violentemente col taglio della mano e, adesso, gli penzolava, forse fratturato, lungo il fianco. Moreno aggiunse: «Lasciate stare la ragazza. Lei non c’entra. Se le succede qualcosa, qualsiasi cosa, ti vengo a cercare e ti do tante di quelle martellate sui testicoli da ridurli in poltiglia. Hai capito bene?». Malvasi non rispondeva; allora Moreno spinse ancora di più lo sportello fino a farlo urlare di dolore, mentre il suo volto diventava paonazzo e gli occhi sembravano volergli uscire dalle orbite. Sussurrò: «Pietà… abbi pietà. Ho capito… Sì, ho capito bene». Moreno Roccati, ridusse la pressione lentamente, mentre Malvasi si accasciava, malconcio, sul sedile. Moreno gli sfilò la pistola dalla cintura, dicendo: «Questa la prendo io. Non vorrei che, a caldo, ti venisse in mente di usarla. Dovrai giustificare la perdita dell’arma, ma se vuoi e hai pazienza, potrai ripescarla in fondo al Tevere. Non ti dico il punto, altrimenti è troppo facile. Ciao! Ah, dimenticavo, perché non vai da un buon dentista e ti fai 111 sistemare la bocca che fa proprio schifo? Tanto di soldi sporchi ne hai fatti abbastanza, insieme ai tuoi compari». Moreno tornò da Piera fumando il suo mezzo sigaro, col solito sorriso aperto e rassicurante. Lei, vedendolo, tirò un sospiro di sollievo e scacciò in un attimo tutti i brutti pensieri che poco prima l’avevano angosciata. Brevemente, senza scendere nei particolari, Moreno le raccontò del suo incontro con Malvasi. Quando raggiunsero il parcheggio non vi era più traccia della Opel rossa. Andarono a cenare al solito ristorantino sotto casa di Moreno e trascorsero la notte insieme. 112 CAPITOLO XII Nei giorni che seguirono, Corrente avviò le procedure necessarie. Chiese e ottenne la collaborazione dei colleghi fiorentini. Venne effettuata la perquisizione dell’abitazione di Andrea Marchini. Lì fu trovata la macchina da scrivere Lettera 32 che, da una perizia, risultò essere stata utilizzata per redigere le lettere anonime. Si procedette all’interrogatorio del Marchini, in presenza di uno psicologo, ma l’evidente stato di alterata percezione della realtà del soggetto, rese impossibile attribuire alla procedura validità assoluta. Tuttavia, in casa del sospettato, vennero ritrovati biglietti ferroviari usati da Firenze a Roma e viceversa, obliterati il giorno della morte del professore. Il Marchini ammise di essere stato a Roma e nell’abitazione del professore, senza sapere spiegarne la motivazione. Corrente rintracciò Isabella Marchini che venne convocata dal giudice istruttore come persona informata sui fatti. La domenica successiva, Corrente invitò a Genzano Piera e Moreno. 113 I due giovani non riuscirono ad arrivare a destinazione prima dell’ora di pranzo a causa di un ingorgo sul raccordo anulare. Sembrava che tutti i romani rimasti in città, in quella seconda domenica d’Agosto, avessero deciso di recarsi al mare o ai Castelli. Corrente li accolse con la solita premura. Il vino era sempre lo stesso, mentre le pietanze erano diverse dalla volta precedente. Il Commissario aveva fatto preparare al cuoco della vicina trattoria una teglia di lasagne e una di pollo al forno con patate. Mangiarono con appetito in una distesa e cordiale atmosfera. A fine pranzo, dopo il caffè, Corrente prese a parlare del caso che li aveva impegnati nelle ultime settimane: «Sapete già della perizia sulla macchina da scrivere e dei biglietti ferroviari ritrovati in casa di Andrea Marchini. Adesso, sono in grado di dirvi che il DNA del frammento di pelle ritrovato sotto l’unghia di Brocca è compatibile con quello di Marchini e che la grande affinità trai due DNA è dovuta al fatto che erano padre e figlio. Un’impronta digitale rinvenuta sulla sedia rovesciata sul terrazzo, appartiene a Marchini; pertanto, non vi è più alcun dubbio che questi sia stato in quella casa la notte della morte di Brocca e che tra i due, proprio sul terrazzo, vi sia stato un contatto fisico. Probabilmente, il figlio è andato a trovare il padre per rinfacciargli l’abbandono subito e, tra i due, è nato un alterco che si è concluso con la caduta del professore. Sarà difficile, visto lo stato mentale di Marchini, stabilire l’intenzionalità dell’evento. Al114 la luce di tutto ciò, penso che il magistrato, domani, incriminerà ufficialmente Andrea Marchini per l’omicidio di Brocca. Ho assistito all’interrogatorio di Isabella Marchini. A quanto pare, era l’unica della famiglia a sapere chi fosse il padre di Andrea. La sorella ne aveva tenuto nascosta l’identità a tutti perché Brocca non aveva mai voluto riconoscere il figlio. Nonostante ciò, alcune volte, era andato a trovare i due e, in occasione della prima comunione del bambino, gli aveva regalato un orologio che sul retro aveva inciso la dicitura “ dal tuo papà”. Secondo la zia, le visite e i regali, uniti al mancato riconoscimento ufficiale, avevano contribuito a turbare l’equilibrio psichico del ragazzo che, in età puberale, aveva manifestato i segni di vera e propria schizofrenia. Da adulto, la malattia, si era in parte attenuata». Il commissario Corrente fece una pausa per versarsi un bicchiere di vino e Piera intervenne per chiedere: «Come mai il Marchini era rimasto da solo, senza che nessuno si occupasse di lui?». «Dopo la morte della sorella, Isabella Marchini si era recata a Firenze per fare ottenere al nipote la reversibilità della pensione della madre e per sistemare le pratiche amministrative connesse all’eredità. La donna aveva lasciato al figlio l’appartamento in cui vivevano e una discreta somma depositata in banca. Dopo il rifiuto di Andrea a trasferirsi a Bolzano, la zia aveva fatto avere una delega a un legale, amico della famiglia, perché questi si occupasse di incassare la pensione, delle 115 spese correnti e di fornire al nipote una piccola paga mensile. Una donna che rigovernava la casa prima della morte di Laura, aveva continuato ad accudire Andrea così da provvedere anche a preparargli i pasti». Moreno fumava il suo sigaro in silenzio, aveva ascoltato con attenzione e ormai tutti gli elementi, emersi dal passato di Brocca e connessi alla sua morte, erano andati al loro posto a combaciare come in un puzzle. Solo una tessera sembrava avere un colore e un disegno diversi dal contesto. Che c’entravano i servizi con Brocca e i suoi problemi familiari? Rivolse la domanda a Corrente che con un sorriso sornione rispose: « Ah! Dimenticavo!... Il Questore mi ha convocato per complimentarsi con me per la soluzione del caso in tempi così brevi. Mi ha letto una nota del capo di gabinetto del Viminale nella quale si precisa che la brillante investigazione condotta dalle forze di polizia ha fugato ogni dubbio sorto sul decesso del professore Brocca, fedele servitore dello Stato, impegnato in importanti progetti di riforma amministrativa. Evidentemente stava svolgendo un incarico di rilievo e c’era il timore che un gruppo eversivo avesse compiuto il delitto. Il Questore, sicuramente informato dai servizi sul tuo ruolo nell’indagine, mi ha fatto un cicchetto formale col sorriso sulle labbra, però. Quando gli ho detto che tu lavoravi su incarico della Veneziani, ha aggiunto: «La prego, Corrente, non mi prenda per scemo! Comunque, siamo stati più bravi dei Servizi. Loro, con tutti i loro mezzi, non sapevano 116 niente del passato di Brocca e non erano arrivati ad alcuna conclusione». Piera si alzò e batté la mano sulla spalla di Moreno, come si fa per complimentarsi tra colleghi. Avrebbe voluto dargli un bacio, ma si trattenne. Alle dieci del mattino del Lunedì, Irma Veneziani, convocata con urgenza solo due ore prima da Moreno, pigiò il tasto del campanello dell’ufficio dell’investigatore Roccati. Venne invitata a sedere. Rifiutò con cortesia il tè freddo che le era stato offerto e rimase in attesa di conoscere il motivo di quell’incontro. Moreno le riferì tutto quello che sapeva sul caso Brocca, unitamente a quanto aveva appreso il giorno prima dal commissario Corrente, specificando il proprio ruolo nell’indagine. Le spiegò che, in giornata, il magistrato avrebbe incriminato Andrea Marchini come autore di omicidio volontario. L’indomani la notizia sarebbe apparsa sui giornali, per tale motivo l’aveva convocata con urgenza, prima che i fatti divenissero di pubblico dominio. Quando l’investigatore ebbe terminato la propria esposizione, la professoressa Veneziani, che l’aveva ascoltato senza proferire parola, ma con evidente partecipazione, disse: «Non avrei mai immaginato che Enrico avesse un tale segreto e che lo custodisse con tanta riservatezza. Eppure, il nostro rapporto, era imperniato sulla sincerità e sulla reciproca fiducia. Mi sento in qualche modo tradita, 117 ma non posso fare a meno di perdonare questa sua debolezza. Io l’amavo e lo amo ancora. Enrico aveva paura delle malattie. Forse lo intimoriva la malattia di questo figlio misconosciuto. Chissà! Mi viene da pensare che, facendo soffrire altre persone, abbia sofferto tanto anch’egli pur se non lo dava a vedere». Una lacrima le rigò il bel viso. Moreno si sentì in dovere di aggiungere qualcosa: «Prima le ho raccontato i fatti. Adesso le voglio esprimere un mio personale parere sull’accaduto. Credo che quella sera, dietro richiesta di Andrea, il professore abbia acconsentito a riceverlo. È probabile che, inizialmente, tra i due, seduti sul terrazzo, si sia svolto un colloquio sereno. Successivamente, affrontati argomenti più intimi e personali, forse dopo aver visto negata l’ennesima richiesta di riconoscimento, Andrea avrà avuto un brusco cambiamento d’umore. Qualcosa di simile a quanto è accaduto durante la mia visita, in casa sua. Allora, quando accennai ai suoi rapporti con Enrico Brocca, dapprima fu percorso da tremori intensi, poi prese ad agitarsi, costringendomi a lasciare l’appartamento. Tornando a quella sera, il professore, forse impaurito, si è alzato indietreggiando fino al parapetto, facendosi scudo con una di quelle sedie in ferro battuto. Ad un tratto, spinto dal figlio o solo dalla paura, è caduto giù. Non credo che Marchini avesse intenzione di uccidere il padre di cui sentiva 118 la mancanza e che voleva affettivamente ritrovare, ancor più dopo la morte della madre». «Sì, la sua ricostruzione dell’accaduto è verosimile. Adesso, che apprendo la verità, non sono più tanto sicura di aver fatto bene a ricercarla e, con il suo aiuto, a conoscerla. I morti sono morti e bisogna lasciare che trovino pace». La sera dello stesso giorno, Piera e Moreno, cenarono insieme seduti a uno dei tavoli sul marciapiede antistante la trattoria vicino casa di lui. Moreno ordinò una bottiglia di chardonnay. Brindarono alla conclusione dell’indagine e all’assegno che la professoressa Veneziani aveva compilato in mattinata. L’atmosfera era serena, quando Piera, a un tratto, cambiando espressione del volto, da gaia a riflessiva, disse: «Moreno, adesso dobbiamo pensare a smascherare Quattrone e i suoi tirapiedi». «C’è tempo… c’è tempo… Per questa sera pensiamo solo a noi due…», rispose sorridendole. 119 Nota dell’autore I fatti e i personaggi narrati sono frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o eventi accaduti nella realtà è casuale. Eventuali omonimie tra personaggi e individui esistenti sono accidentali. 120 INDICE: Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo IX Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII Nota dell’autore pag. 9 pag. 20 pag. 31 pag. 38 pag. 44 pag. 54 pag. 62 pag. 77 pag. 88 pag. 94 pag.103 pag.113 pag.120 Collana Il Brivido Titoli già pubblicati 1. Mario Oscar Venuti, Rosso Natale. 2. Mario Oscar Venuti, Vigilia nera. 3.Mario Oscar Venuti, Quando finisce la notte. 4. Vincenzo Ragno, Lampi di lucida follia. 5. Vitaliano Cusumano, Nebbia sullo Stretto. 6. Alfredo Buttafarro, Il suicidio del professore.