IV Domenica dopo Pentecoste

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IV Domenica dopo Pentecoste
Letture domenicali
Commento Biblico a cura di Gianantonio Borgonovo
QUARTA DOMENICA DOPO PENTECOSTE
Il secondo giorno trascorso da Gesù in Gerusalemme nella redazione di Matteo è
caratterizzato dalle tre parabole collegate al cespite di un unico tema: chiamata e risposta,
invito ed espulsione, banchetto gratuito e condanna… in una sintesi paradossale: grazia a caro
prezzo.
Fra le tre parabole polemiche – i due figli, i vignaioli malvagi e gli invitati a nozze – la terza,
proposta dal Vangelo odierno, ha apparentemente una difficile interpretazione. Forse è
proprio per questa ragione che Lutero, in un’omelia del 1531 (II, p. 719), la dichiarava un
«vangelo tremendo» che non amava predicare: che genere di Dio è mai colui che alla fine
manda all’inferno persone che egli stesso aveva prima invitato? Questo Dio così pieno d’ira è
veramente il padre di Gesù Cristo?
Già Origene sentì forte questa difficoltà e per rispondere alle obiezioni dei suoi interlocutori
gnostici disse che le parabole di Gesù esprimono «Dio» in linguaggio umano, nella misura e
nei modi in cui gli esseri umani lo possono comprendere. Solo alla fine dei tempi ci sarà dato
di vederlo veramente così come Egli è (cf 1 Gv 3,2).
La parabola è tuttavia commentata dalla Lettura e dall’Epistola in funzione dell’enigma del
male e della sua opposizione a Dio: Dio e il male sono due dimensioni inconciliabili. Proprio
per questa ragione il «grido» (ṣeʿāqâ) contro Sodoma – ovvero la sua ingiustizia/inospitalità – è
la premessa che porta alla distruzione la pentapoli del Mar Morto (Lettura); e, dall’altra parte,
ἄδικοι θεοῦ βασιλείαν οὐ κληρονομήσουσιν «gli ingiusti non erediteranno il Regno di Dio»
(Epistola).
La nostra libertà ferita è stata però “liberata” nel battesimo in Cristo Gesù: «Voi però siete
stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito
del nostro Dio». Alla luce di questo annunzio, la parabola degli invitati al banchetto nuziale non
descrive il «Dio tremendo» temuto da Lutero, ma la possibilità di una grazia a caro prezzo che
viene dal dono della fede per coloro che rispondono gioiosamente alla chiamata di vivere
l’amore sino all’estremo, nella sequela di Gesù, «che dà origine alla fede e la porta a
compimento» (Eb 12,2).
Rassegnazione ansiosa.
Luce
nell’opale del mattino
il tempo preinvernale.
Spoglie
s’involano
e frantumi –
sia pur leggero il vento –
uno stridio
di passeri e di cincie
li accompagna
fin là, verso il crinale.
La vigna perde ormai
le sue ultime foglie.
1
La vita dove migra?
Dove dobbiamo andare?
O no, suoi gusci vuoti
ci lascia qui
nel gelo, a testimoniare –
ma non per sempre,
non dura eternamente
il non essere, il male.1
LETTURA: Gn 18,17-21; 19,1. 12-13. 15. 23-29
Il ciclo di Abramo è incluso in due genealogie, 11,27-32 e 25,1-18. Accanto ad esse, bisogna
menzionare anche 22,20-24 (genealogia di Naḥor); questi versetti separano i cc. 23-24, che
possono essere considerati ampliamenti narrativi legati a temi genealogici (il sepolcro per Sara
e una moglie per Isacco).
Balzano in primo piano le promesse per la discendenza, generate dalla notazione circa la
sterilità di Sara (11,30). Strettamente collegate a questo tema, stanno i racconti di promessa:
12,1-3; 13,14-17; 15,1-6. 7-21; 17; 18,1-16a; 22,15-18. In questi racconti potremmo scorgere
una duplice attenzione: il superamento della sterilità di Sara per acquisire finalmente un erede
e, in seconda istanza, un interesse riguardante la discendenza di un popolo numeroso.
Un’altra serie di racconti, ben identificabile, riguarda i rapporti tra Abramo e Lot, e potrebbe
essere stata in origine un ciclo narrativo indipendente: Gn 13,1-13; 18,16b-33; 19,1-28. 29-38.
In questo contesto rientra anche il c. 14, che potrebbe essere inquadrato storicamente nelle
scorribande degli ʿapīru, di cui abbiamo documentazione nelle lettere di Tell el-ʿAmārna (è
l’unico ricordo di un’azione militare nell’ambito dei racconti patriarcali). La liberazione di
Lot, tuttavia, passa in secondo piano e l’interesse principale dell’autore sta nell’incontro di
Abramo con Melkîṣedeq, re di Salem (Gerusalemme).
Da ultimo, vi sono gli itinerari, che fungono da cornice per la narrazione (cf 11,31; 12,4s;
13,1-4. 18; 19,30; 20,1; 21,33; 22,19).
La struttura generale del racconto esprime la centralità del tema della promessa (di un erede,
di un popolo numeroso e di una terra), il superamento delle difficoltà per la sua attuazione e
il compimento di essa secondo il progetto divino. Il tema della promessa è incluso nei racconti
del ciclo di Lot, che contribuiscono a mettere in evidenza i cc. 15-17; l’adempimento della
promessa è invece inquadrato da genealogie (22,20-24) e dal duplicato di 20,1-18; infine, il
rilancio della promessa di 22,15-18 permette di illustrare, in un’ultima sezione narrativa, il
carattere pur sempre paradossale del suo compimento (cc. 23-24):
11,27-32:
12,1-9. 10-20:
Introduzione genealogica: la sterilità di Sara
Introduzione teologica: il paradosso e il pericolo della promessa
I SEZIONE: LA PROMESSA
A. 13,1-18: Abramo e Lot - la separazione (nei vv. 14-17 è ripetuta la promessa
B. 14,1-24: Abramo libera Lot e incontra Melchisedek
C. 15,1-21: La promessa
16,1-16: Tentativo umano di superamento dell’ostacolo - Nascita di Ismaele
C’. 17,1-27: La promessa e la risposta della circoncisione
18,1-16a: Ampliamento - Abramo ospita i “tre”
B’. 18,16b-33: Abramo intercessore per Sodoma
A’. 19,1-29. 30-38: Abramo e Lot - Distruzione di Sodoma e discendenza di Lot
1
M. LUZI, Dottrina dell’estremo principiante (Poesia), Garzanti Libri, Milano 2004, p. 158.
2
20,1-18: Intermezzo - Nuovo pericolo per Sara
II SEZIONE: L’ADEMPIMENTO PARADOSSALE DELLA PROMESSA
A. Adempimento della promessa
A. 21,1-7: Nascita di Isacco
B. 21,8-21: Allontanamento di Agar e Ismaele
B’. 21,22-34: Nuovo pericolo per la terra
A’. 22,1-19: Il figlio della fede - Rilancio della promessa
22,20-24: Intermezzo - Genealogia di Naḥor
B. Il carattere paradossale dell’adempimento
23,1-20: Una terra posseduta per uso sepolcrale
24,1-67: Il matrimonio di Isacco e Rebecca
25,1-18:
Conclusione: l’altra discendenza di Abramo - Morte di Abramo
NB. Almeno una volta, mentre si prepara il commento, è utile leggere per intero la narrazione di
Gn 18,17 – 19,29. I testi in corsivo indicano i paragrafi omessi nella liturgia.
1817 JHWH pensò:
– Dovrei forse tenere nascosto ad Abramo quanto sto per fare? 18Abramo
diventerà un popolo grande e potente e in lui saranno benedette tutti i popoli
della terra; 19io l’ho scelto perché ordini ai suoi figli e alla sua casa dopo di lui di
custodire la via di JHWH, praticando la giustizia e il diritto, e così JHWH compirà
per Abramo quanto gli ha promesso».
20
JHWH disse:
– L’accusa contro Sodoma e Gomorra è pesante e il loro peccato è molto grave:
21
voglio scendere a vedere se hanno veramente agito secondo l’accusa che è
giunta a me oppure no. Voglio accertarmene!
22
Quegli uomini partirono di là e si diressero verso Sodoma, mentre JHWH rimase
con Abramo.
23
Abramo gli si avvicinò e disse:
– Farai perire l’innocente insieme al colpevole? 24 Forse ci sono cinquanta innocenti
nella città: davvero farai perire anche loro, invece di perdonare a quel luogo a motivo
dei cinquanta innocenti che vi sono? 25 Non sia mai che tu faccia una cosa simile: far
morire l’innocente con il colpevole e trattare un innocente da colpevole! Lungi da te! Il
giudice di tutta la terra non farà giustizia?
– 26 Se trovo nella città di Sodoma cinquanta innocenti, rispose JHWH, perdonerò a
tutta la città per loro riguardo.
– 27 Ecco, prendo l’ardire di parlare al mio Signore, benché io sia solo polvere e cenere,
riprese Abramo. Supponiamo che ai cinquanta innocenti ne manchino cinque.
Distruggerai tutta la città per quei cinque?
– Se ve ne trovo quarantacinque, non la distruggerò, disse JHWH.
29
Abramo continuò a parlargli:
– Può darsi che se ne trovino quaranta.
– Non lo farò, per riguardo di quei quaranta, rispose.
3
– 30 Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora. Supponiamo che se ne trovino trenta,
disse.
– Non lo farò, se ve ne trovo trenta.
– Guarda come ardisco parlare al mio Signore, disse Abramo. Può darsi che se ne
trovino venti.
– Non la distruggerò per riguardo di quei venti, rispose JHWH.
– 32 Non si adiri il mio Signore, ma parlerò ancora questa volta soltanto, disse.
Supponiamo che se ne trovino dieci.
– Non la distruggerò per riguardo di quei dieci, rispose.
33
Quando ebbe finito di parlare con Abramo, JHWH se ne andò e Abramo ritornò
alla sua dimora.
191 I due messaggeri giunsero a Sodoma verso sera, mentre Lot stava seduto
alla porta di Sodoma. Appena li vide, si alzò per andar loro incontro e si prostrò
con la faccia a terra.
2
E disse:
– Vi prego, miei signori, venite in casa del vostro servo a passare la notte e a lavarvi i
piedi. Domattina potrete alzarvi presto e continuare il vostro cammino.
« No, passeremo la notte in piazza », risposero.
3
Ma egli insistette così tanto che andarono da lui ed entrarono in casa sua. Egli
preparò loro un banchetto, fece cuocere dei pani non lievitati ed essi mangiarono.
L’inospitalità degli abitanti di Sodoma provoca la resa dei conti finale: Sodoma
sarà distrutta! Ma i generi di Lot non comprendono…
4
Prima ancora che fossero andati a coricarsi, gli abitanti della città, gli uomini di
Sodoma, giovani e vecchi, l’intera popolazione giunta da ogni quartiere, circondarono
la casa 5e gridarono a Lot:
« Dove sono gli uomini che sono venuti da te questa notte? Falli uscire da noi, così
che li possiamo conoscere! ».
6
Lot uscì verso di loro all’ingresso, chiuse la porta dietro di sé 7e disse:
« Fratelli miei, vi prego, non comportatevi da malvagi! 8Sentite, io ho due figlie che
non hanno ancora conosciuto uomo; ve le porterò fuori e fate loro quel che vi pare, ma
non fate nulla a questi uomini, perché essi sono entrati all’ombra del mio tetto ».
9
« Togliti di mezzo! », dissero quelli.
Poi continuarono:
« Costui è venuto qui come forestiero e ora si mette a far da giudice! Ti tratteremo
ancora peggio di loro! ».
10
E spingendo Lot con violenza, si avvicinarono per sfondare la porta. 11Ma quegli
uomini allungarono le braccia, trascinarono Lot in casa con loro e chiusero la porta.
Poi colpirono con un bagliore accecante la gente che stava sulla soglia della casa, dal
più piccolo al più grande, cosicché non riuscivano più a trovare la porta.
12
Allora quegli uomini dissero a Lot:
– Chi altro hai qui? Fa’ uscire da questo luogo i tuoi generi, i tuoi figli e le tue
figlie, e chiunque tu abbia in città. 13 Noi stiamo per distruggere questo luogo,
perché è pesante l’accusa contro di loro presentata ad JHWH e JHWH ci ha
mandato a distruggerlo.
4
14
Lot uscì ad avvertire i suoi generi, promessi sposi delle sue figlie:
– Su, uscite da questo luogo, disse loro, perché JHWH sta per distruggere la città.
Ma i suoi generi lo presero come uno scherzo.
15
Appena spuntò l’alba, i messaggeri angeli fecero premura a Lot:
– Su, prendi tua moglie e le tue figlie che stanno qui, altrimenti perirai nel
castigo di questa città.
16
Visto che indugiava, quegli uomini presero per mano lui, con sua moglie e le sue
due figlie; e, per la misericordia di JHWH verso di lui, lo fecero uscire e lo condussero in
salvo fuori della città.
17
Una volta fuori, uno di loro disse:
– Fuggi per mettere in salvo la vita! Non guardare indietro e non ti fermare in alcun
luogo della valle! Mettiti in salvo sui monti per non perire!
– 18 No, mio Signore, ti prego!, rispose loro Lot. Il tuo servo ha trovato grazia ai tuoi
occhi e tu hai già usato grande benevolenza con me, salvandomi la vita. 19 Ma io non
riuscirò a mettermi in salvo sui monti, prima che il disastro piombi su di me e io perisca.
20
Guarda, quella città è vicina per rifugiarmi, ed è piccola. Lascia che io fugga là –
non è piccola? – e così la mia vita sarà in salvo.
– 21 Va bene!, gli rispose, ti accordo anche questa richiesta: non distruggerò quella città
di cui hai parlato. 22Però fa’ in fretta a metterti in salvo là, perché io non posso agire
finché tu non vi sia giunto.
Perciò quella città fu chiamata “La Piccola”.
23
Il sole stava sorgendo, quando Lot arrivò a Zoar. 24 JHWH fece piovere dal
cielo su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco di origine divina: 25 distrusse quelle
città e tutta la valle, tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del territorio.
26
La moglie di Lot, che si era voltata indietro a guardare, divenne una statua di
sale.
27
Abramo si alzò di buon mattino e si recò al luogo in cui si era fermato con
JHWH. 28 Guardò verso Sodoma e Gomorra e verso tutta l’estensione della valle,
e vide un fumo che si levava dalla terra, come il fumo della fornace.
29
Così, quando Dio distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e
salvò Lot dalla catastrofe, mentre radeva al suolo le città in cui Lot aveva abitato.
La pericope liturgica è un collage di due frammenti narrativi, come ha mostrato la struttura
generale del ciclo di Abramo: Gn 18,16b-32 e 19,1-29.
1. Gn 18,16b-32: Abramo intercessore
Fra un’introduzione (v. 16b), un intermezzo (v. 22) e una conclusione (v. 33), stanno due
frammenti: la decisione divina di far partecipe Abramo del suo progetto su Sodoma (vv. 1721) e un dialogo tra JHWH e Abramo (vv. 23-32).
vv. 17-21: Il soliloquio divino dei vv. 17-19 ha lo scopo d’introdurre il passo seguente di Gn
19,1-29. Abramo è presentato come l’“amico” di Dio, uno con cui si ha un rapporto d’intimità
e di elezione, come indica il verbo jādaʿ al v. 19 (cf Ger 1,5; Am 3,7). Il soliloquio tradisce il
vero scopo del narratore: ad Abramo e alla sua discendenza deve essere chiaro il senso
5
dell’intervento punitore di Dio contro Sodoma, in modo da non mettere in dubbio la giustizia
divina. Se Gn 15 ha presentato Abramo come «padre della fede», questo racconto lo presenta
come «padre della giustizia e del diritto»: giustizia (ṣedāqâ) e diritto (mišpāṭ) sono le
fondamenta dell’ordine cosmico e della regalità nell’AVO, ma anche, nella tradizione
profetica e sapienziale (cf, ad es., Is 5,7 e Pr 21,3), sono l’anima della vita di alleanza con
JHWH.
I vv. 20s presentano la decisione di JHWH con linguaggio tecnico giudiziario. Il «grido»
(ṣeʿāqâ) è termine tecnico per esprimere la querela da parte di colui che ha subito un torto.
Quale sia il “grido” di Sodoma e Gomorra per ora non viene esplicitato: si deve attendere il
c. 19 per sapere che si tratta dell’inospitalità, in antitesi all’ospitalità di Abramo. JHWH, da
buon giudice, prima di decidere vuole istruire un processo e ascoltare eventuali testimoni.
Qui s’interrompe la lettura liturgica che passa subito a Gn 19,1.
v. 22: L’intermezzo aggancia questo racconto al precedente, facendo rientrare in scena i “tre”
personaggi. L’interpretazione a questo punto sembra più chiara: i due messaggeri si dirigono
verso Sodoma, mentre «JHWH rimane fermo davanti ad Abramo». Così doveva suonare il testo
originario, ma gli scribi hanno corretto, per non mancare di rispetto al Signore: «Abramo
rimane fermo davanti a JHWH». Si tratta di una delle cosiddette «correzioni scribali» (tiqqûnê
sôperîm) dichiarate dalla tradizione massoretica.
vv. 23-32: Il colloquio rispecchia il gusto della trattativa commerciale e giudiziaria dell’epoca.
Vi è una sottile notazione psicologica circa l’indugio di Abramo a intervenire in favore dei
giusti che si potrebbero trovare in Sodoma, un indugio che si fa progressivamente ardito e,
all’improvviso, s’interrompe. Il “caso Sodoma” diventa per il narratore un ottimo esempio
per trattare del problema della giustizia di Dio e del ruolo di un intercessore.
Il primo problema potrebbe essere espresso in questi termini: in una città colpevole, come
sono trattati i giusti che vi abitano? È abbastanza plausibile supporre che un tale problema
presupponga la discussione della responsabilità personale (cf Ez 18). A dire il vero, la
responsabilità collettiva non è del tutto superata dal narratore, perché il problema non si
risolve – come per Ezechiele – nella salvezza dei giusti e nella punizione dei malvagi, ma in
una sorte comune: in vista di pochi innocenti – ne basterebbero 10 – Dio risparmierebbe la
città. Siamo così costretti a spiegare perché Abramo si fermi nella sua intercessione proprio a
10 giusti (la tradizione giudaica ha pensato di considerare questo il numero minimo, perché
si possa avere la preghiera sinagogale). Anzitutto, va ricordato che la tradizione antica parlava
della distruzione di Sodoma e quindi l’esito era segnato da questo ricordo. Ma, forse, il nostro
racconto vuole rispettare «il carattere di unicità e straordinarietà assoluta che spetta al
messaggio dell’Uno che opera per la moltitudine salvezza ed espiazione (Is 52,13-53,12)» (G.
von Rad).
Quanto al ruolo d’intercessore, il racconto diventa occasione per il narratore di presentare
un nuovo tratto caratteristico di Abramo: l’intercessione. Alla luce dell’esperienza profetica
(soprattutto di Geremia) e della trascrizione eziologica sullo stesso Mosè (cf Es 32,11-13 e Dt
9,26-29), Abramo, in quanto amico di Dio, viene presentato come il perfetto intercessore.
Ma la potenza dell’intercessione aveva ancora un gradino inaudito da compiere, quella
espressa dalla vicenda del servo di JHWH, di cui parla il Deutero-Isaia (Is 53): la vita e la morte
del servo saranno la vera intercessione gradita a Dio, tanto che Egli la rende «sacrificio
d’espiazione».
Leggendo questa figura dopo la croce di Gesù, la comunità cristiana ha compreso che il
vero intercessore è proprio Cristo, «sempre vivo a intercedere a nostro favore» (Eb 7,25).
6
Il miglior commento al presente racconto rimane la pagina oseana, che celebra l’eterna
misericordia e l’illogico amore di JHWH (Os 11,7-9).
2. Gn 19,1-29: la distruzione di Sodoma
Il ciclo di Lot ha raccolto quest’antichissima eziologia del paesaggio spettrale a sud del Mar
Morto, ancora oggi impressionante per il visitatore: una reliquia storica che potrebbe portare
in sé la memoria collettiva di un qualche cataclisma naturale (terremoto, eruzione o altro). Il
narratore l’ha utilizzata per i suoi scopi, inserendola nel ciclo di Abramo: così, si viene a creare
un quadro antitetico tra l’ospitalità di Abramo e l’inospitalità degli abitanti di Sodoma e si
consuma pienamente l’opposto esito dovuto alle scelte di Lot e di Abramo. Lot aveva voluto
per sé la parte migliore, secondo criteri umani (Gn 13); ora perde tutto: terra, beni, moglie; e
potrà avere una discendenza solo attraverso un incesto con le figlie. Abramo, invece, che si
era affidato alla promessa di JHWH, «salverà la sua vita»: avrà una numerosa discendenza e
possederà la terra.
La pagina, come mostra la struttura, ha un’alta carica di drammaticità, ben dosata dall’abile
tecnica narrativa, a quadri contrapposti:
A. vv. 1-3: ospitalità di Lot
A’. vv. 4-9: inospitalità degli abitanti di Sodoma
B. vv. 10s: Lot è salvato per intervento dei due messaggeri
B’. vv. 12-14: decisione di distruggere Sodoma e incoscienza dei suoi generi
C. vv. 15-22: Lot fugge da Sodoma e può rifugiarsi a Soar
C’. vv. 23-26: la distruzione di Sodoma e la fine della moglie
D. vv. 27-28: Abramo dall’alto vede l’accaduto
D’. v. 29: conclusione sintetica
vv. 1-3: Lot è presentato come un “cittadino”, sebbene sia sempre ritenuto un forestiero dagli
abitanti di Sodoma (cf. v. 9). Egli vede i messaggeri mentre è seduto presso la porta della città,
luogo in cui si amministrava la giustizia (cf 2 Re 7,1; Am 5,10. 12. 15; Rut 4,1). Lot, come
Abramo, è ospitale e accoglie i due messaggeri nella sua casa, preparando loro una cena. La
costruzione narrativa è efficace: il narratore esplicita la volontà dei due ospiti di passare la
notte all’aperto, in vista di quanto accadrà nel seguito del racconto.
vv. 4-9: La contrapposizione al quadro precedente è voluta: l’ospitalità di Lot e la perversione
inospitale dei suoi “fratelli” (v. 7) sono un evidente chiaroscuro. Tutta la città è partecipe del
fatto criminoso: «giovani e vecchi, tutta la popolazione al completo» (v. 4). Il loro proposito è
ormai chiaro: «falli uscire da noi, perché possiamo abusarne!» (v. 5: il verbo jādaʿ «conoscere»
è usato con valenza sessuale, come in altri testi, ma è qui connotato negativamente). Il peccato
di Sodoma, l’inospitalità, si tinge di perversione sessuale, che è un’accusa contro le
popolazioni cananaiche presente anche in altri testi (cf Lv 18,22ss; 20,13-23). Tuttavia,
bisogna ricordare che il “peccato di Sodoma”, menzionato da altre tradizioni, assume diverse
caratterizzazioni: ingiustizia (Is 1,10; 3,9), un benessere senza solidarietà verso il povero (Ez
16,49), adulterio e idolatria (Ger 23,14). La caratterizzazione del presente episodio è legata e
influenzata dalla tradizione del “delitto di Gabaa” (Gdc 19,11-30): il canovaccio dei due
racconti è sorprendentemente simile e può essere stato usato dal narratore di Genesi per
evidenziare la colpa della gente di Sodoma.
Non deve andar perduta la contrapposizione tra Lot e gli abitanti di Sodoma creata dal
narratore: Lot chiama i suoi concittadini “fratelli miei”, mentre quelli continuano a
7
considerarlo un forestiero «che non ha diritti» in mezzo a loro (v. 9, così è da intendersi il
verbo šāpaṭ).
La proposta di Lot (v. 8) non è da giudicare con i nostri criteri morali. In quella situazione,
si tratta di un atto di estrema ospitalità: Lot preferisce perdere le sue figlie, piuttosto che
tradire l’inviolabilità del diritto ospitale. Il narratore non commenta, ma lascia trapelare un
tratto negativo del personaggio-Lot, che lo pone in cattiva luce rispetto ad Abramo: è un
uomo del compromesso e dalla condotta indecisa. E probabilmente l’episodio seguente
(19,30-38) va interpretato come nemesi delle figlie su di lui (cf von Rad).
vv. 10s: Il superamento dell’ostacolo è un coup de théâtre degno del carattere divino dei due
messaggeri: dal di dentro tirano via Lot, che rischiava di essere linciato, e colpiscono la folla
con un misterioso sanwērîm «accecamento» (cf 2 Re 6,18).
vv. 12-14: In opposizione al gesto salvifico nei riguardi di Lot, i due decretano la distruzione
di Sodoma: ormai hanno le prove del loro “grido” d’ingiustizia (v. 14, cf 18,20). Lot presta
fede alla loro parola, ma non è capace di convincere i suoi futuri generi, che pensano ad uno
scherzo (v. 14): l’allusione al motivo del “riso” di Sara è quanto mai tragica a questo punto.
vv. 15-22: La descrizione della fuga crea una tensione drammatica tra la fretta dei messaggeri
e l’indugio di Lot, che deve essere tratto fuori a forza dalla città, « per un grande atto di
misericordia del Signore verso di lui » (beḥemlat JHWH ʿālājw: v. 16; cf Is 63,9), quasi fosse un
corpo inerte. Il mattino, che normalmente è il momento dell’aiuto divino, nel presente
racconto è l’ambientazione di quella catasfrofe che sarebbe rimasta nella memoria della
tradizione il “tipo” di ogni catasfrofe (il verbo caratteristico è hāpak: cf, ad es., Dt 29,23; Is
1,9s; Ger 20,16; Ez 16,46ss; Os 11,8; Am 4,11; Lam 4,6; etc.).
I vv. 17-22 ampliano la tensione drammatica già creata: Lot chiede di potersi rifugiare a
Soar, invece che fuggire sulle montagne. È occasione per raccogliere e tramandare
un’eziologia popolare circa il nome di Soar: «Non è piccola cosa? (miṣʿār)» (v. 20).
vv. 23-26: La narrazione ha una sosta: gli eventi precipitano in una sequenza di tragica
simultaneità (in ebraico vi sono frasi nominali che spezzano la sequenza narrativa). Questi
versetti potrebbero recare in sé la memoria di qualche terremoto tettonico della zona del Mar
Morto (sembra tuttavia impossibile trattarsi del terremoto del Pliocene, che ha dato origine
al grande rift – depressione che percorre la crosta terrestre dal Tauro all’Africa australe e ha
dato origine al Mar Morto). Che soltanto ora si parli di Gomorra (vv. 24s e 28), può essere
un indizio che il narratore si trovava nella necessità di unire il suo racconto alla memoria più
antica, e generica, riguardante le città del Mar Morto (ʿārê hak-kikkār;cf v. 29): Sodoma,
Gomorra, Adma e Zeboim (cf Os 11,8 e Dt 29,23; tardiva invece è la definizione di “pentapoli”
di Sap 10,6, che unisce alle prime quattro anche Soar).
Il breve episodio della moglie di Lot è un bell’esempio di tecnica narrativa vivida e concreta:
con un solo particolare si descrive la catasfrofe generale e si creano diversi archi narrativi, con
quanto precede (v. 17) e con quanto segue (v. 28). In sé, la notazione potrebbe essere
considerata un’eziologia per spiegare le spettrali formazioni saline, presenti in quella regione.
vv. 27-28: La contemplazione di Abramo non è solo un’antitesti allo sguardo incuriosito della
moglie di Lot, ma serve anche da chiusura del grande arco narrativo, che era cominciato in
Gn 13, con la scelta di Lot. Il commento muto dell’occhio di Abramo che scruta l’orizzonte è
il giudizio teologico del narratore sulla vicenda: colui che aveva scelto con criteri umani ora
ha perso tutto, mentre colui che si era affidato alla promessa di Dio ha ancora davanti a sé
una grande speranza.
8
v. 29: Benché questa nota finale possa provenire da un’altra tradizione, nel presente contesto
svolge una funzione teologica particolare, in riferimento alla richiesta di Abramo in Gn
18,16b-33: Dio «si è ricordato» (zākar) dell’intercessione di Abramo (cf Gn 8,1 per Noè). Le
città malvagie sono state sterminate, ma l’innocente non è perito.
SALMO: Sal 32,10-15
℟ Su tutti i popoli regna il Signore.
10
JHWH annulla i disegni delle nazioni,
rende vani i progetti dei popoli.
11
Ma il disegno di JHWH sussiste per sempre,
i progetti del suo cuore per tutte le generazioni.
℟
12
Beata la nazione che ha JHWH come Dio,
il popolo che egli ha scelto come sua eredità.
13
JHWH guarda dal cielo:
egli vede tutti gli uomini.
℟
14
Dal trono dove siede
scruta tutti gli abitanti della terra,
15
lui, che di ognuno ha plasmato il cuore
e ne comprende tutte le opere.
℟
EPISTOLA: 1 Cor 6,9-12
Dopo i primi quattro capitoli in cui Paolo affronta le tensioni sorte all’interno della
comunità, di cui è venuto a conoscenza a voce dai reportage «dei familiari di Cloe» (1 Cor 1,11),
e prima di passare alle questioni poste per iscritto all’Apostolo (1 Cor 7: matrimonio, 1 Cor
8-10: carni offerte nei sacrifici pagani; 1Cor 11-14: comunità, carismi e amore; 1 Cor 15:
risurrezione dai morti), l’Apostolo passa in rassegna altri problemi riportatigli a voce (1 Cor
5-6).
L’inizio del cap. 5 lo mostra chiaramente: ὅλως ἀκούεται ἐν ὑμῖν… «si sente dappertutto
riguardo a voi…»: 1 Cor 5,1). I problemi di cui «si sente parlare» sono sintetizzati in tre
paragrafi:
a) 5,1-13 πορνεία «incesti (morale sessuale coniugale)» e associazioni con «fratelli immorali»;
b) 6,1-11: membri della comunità che trascinavano in tribunali pagani altri fratelli
c) 6,12-20: libertà e prostituzione
Il passo liturgico odierno comprende la conclusione del secondo paragrafo (vv. 9-11) e
l’inizio del terzo paragrafo (v. 12), il che non contribuisce certo a chiarire il pensiero paolino.
9
Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi:
né immorali, né idolatri, né adulteri,
né depravati, né sodomiti,
10
né ladri, né avari, né ubriaconi,
né calunniatori, né imbroglioni
9
erediteranno il regno di Dio.
11
E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati
giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio.
– 12 Tutto mi è lecito!
– Sì, ma non tutto giova.
– Tutto mi è lecito!
– Sì, ma io non mi lascerò dominare da niente e nessuno.
vv. 9-11: Anche in Rm 1,29-31 vi è una serie di vizi e di malvagità, tuttavia qui l’affermazione
è che tutti questi «ingiusti» che fanno tali malvagità non erediteranno il Regno di Dio (cf Gal
5,19-21).
I vv. 9b-10 sono generalmente presentati come un catalogo di vizi, sebbene si parli delle
persone che fanno tali cose e non della fattispecie della malvagità. In un certo modo, essi
trovano il loro riferimento scritturistico in Dn 7,22 (LXX), che parla di giudizio, santi ed
eredità del Regno [del Figlio dell’Uomo].
Il “decalogo” dei vizi elencato non è senza problemi di identificazione:
1) πόρνοι «fornicatori»: non genericamente «immorali», ma specificamente peccatori in ambito
sessuale (cf 1 Tim 1,10);
2) εἰδωλολάτραι «idolatri»: l’accostamento con i fornicatori e gli adulteri è ben nota nel Primo
Testamento, in quanto il peccato di idolatria è spesso associato a pratiche sessuali deviate
(Nm 14,33; Os 4,11; 6,10; Ger 2,20-23; 3,6-10; Sap 14,12; si vedano anche Ef 5,5; Ap 14,8;
17,1. 2. 4. 5. 15. 16);
3) μοιχοὶ «adulteri», ovvero gli infedeli al patto nuziale (cf Rm 13,9, in riferimento al
comandamento di Dt 5,18 ed Es 20,14; si veda anche la punizione prevista da Lv 20,10);
4) μαλακοὶ «effeminati (o anche “passivi” in ogni rapporto omosessuale)»;
5) ἀρσενοκοῖται «sodomiti, coloro che praticano rapporti omosessuali» (cf 1 Tim 1,10; per il
significato si veda la legislazione di Lv 18,22 e 20,13). Il vocabolo greco non si trova né nei
LXX, né in altra letteratura giudaica.
Come si può vedere, la prima metà di questo decalogo di vizi è dedicata a peccati o
perversioni sessuali.
6) κλέπται «ladri»: la lista ora si allarga a comprendere altre forme di trasgressione (cf Rm
2,21; 13,9; 1 Pt 4,15);
7) πλεονέκται «avari»: sono coloro che non sanno usare positivamente di quanto posseggono
e nemmeno sanno condividerlo con i loro simili;
8) μέθυσοι «ubriachi», coloro dediti alle bevande inebrianti, tali da perdere la padronanza di
sé;
9) λοίδοροι «calunniatori», coloro che distruggono l’altro con la menzogna;
10) ἅρπαγες «imbroglioni», coloro che distruggono l’altro con azioni ingiuste.
In conclusione, ciò che è stato detto nel v. 9a in modo generale, è stato specificato nei vv.
9b-10 in un decalogo a due “tavole”: la mancanza di rispetto dell’altro con le trasgressioni
sessuali e con le altre azioni malvagie.
Benché alcuni fossero parte di qualche «ingiustizia» ora ricordata, tutti ora «siete stati lavati,
siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito
del nostro Dio». I tre passaggi menzionati – «lavati (ἀπελούσασθε), santificati (ἡγιάσθητε) e
10
giustificati (ἐδικαιώθητε)» – non riguardano tre momenti distinti ma si riferiscono ad modum
unius al battesimo «nel nome del Signore Gesù Cristo» e «nello Spirito del nostro Dio».
v. 12: Con questo versetto inizia un altro sviluppo dedicato alla libertà: la libertà cristiana non
significa libertinaggio, ma condizione di vita “liberata” e capace di rispondere alla relazione
nuova con Dio e con le cose del mondo in Dio. La condizione veramente libera è di non
lasciarsi dominare più da niente e da nessuno (οὐκ ἐγὼ ἐξουσιασθήσομαι ὑπό τινος). In altre
parole, la relazione che rende veramente liberi è di sentirsi legati attraverso Cristo a Dio. Tutto
è vostro, certo, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (πάντα γὰρ ὑμῶν ἐστιν… ὑμεῖς δὲ
Χριστοῦ, Χριστὸς δὲ θεοῦ), come già è stato affermato da Paolo in 1 Cor 3,21-23.
VANGELO: Mt 22,1-14
Il ministero di Gesù in Gerusalemme nella versione di Matteo comprende tre sezioni: un
trio di parabole polemiche (Mt 21,28 – 22,14), le dispute con i vari gruppi giudaici (Mt 22,1546: cf Marco) e la diatriba contro i Farisei (Mt 23).
Le tre parabole dei due figli (21,28-32), dei vignaioli omicidi (21,33-44) e dell’invito alla
festa nuziale (22,1-14) formano una sola unità. Due sono i criteri che la dimostrano in modo
particolare: la sequenza tematica che le collega di fronte ai medesimi interlocutori e i molti
vocaboli che in essi si ripetono.
Gli interlocutori di Gesù sono i capi del popolo, i sacerdoti e gli anziani: la prima è centrata
sul rifiuto di Giovanni Battista, la seconda e la terza spaziano sull’intera storia della salvezza
con approcci complementari. La seconda riguarda il destino di tutti i profeti in Israele con
l’acme per il «figlio». La terza riguarda la missione dei discepoli: dapprima al solo Israele e poi
a tutte le Genti, sino ad arrivare all’ultimo giudizio. La terza parabola è anche la più esplicita
e diretta. La prima insinua soltanto il sospetto che gli uditori sarebbero stati esclusi dal Regno
di Dio. La seconda indica che il regno sarebbe stato strappato agli interlocutori. La terza
afferma esplicitamente che Gerusalemme sarebbe stata distrutta. Inoltre, se la prima parabola
oppone i capi all’atteggiamento dei pubblicani e delle prostitute, la seconda parla di un ἔθνος
«una nazione» per il futuro, la terza – al contrario – presenta la convocazione di tutte le Genti
dagli estremi confini della terra.
Quanto al vocabolario, tutte e tre le parabole hanno come protagonista un ἄνθρωπος «un
uomo» (21,28. 33; 22,2); nelle prime due parabole si parla di vigna (ἀμπελών: 21,28. 33), con
procedimento di somiglianza (ὡσαύτως: 21,30. 36), periodizzazione dei tempi (ὕστερον: 21,29.
32. 37); è ripetuta l’introduzione «Gesù dice loro» (λέγει αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς) come segnale per
l’affermazione finale (21,31. 42); il tema è il Regno di Dio (βασιλεία τοῦ θεοῦ: 21,31. 43); altri
vocaboli comuni sono: «non voglio» (οὐ θέλω, 21,29; 22,3; cf μεταμέλομαι-ἀμελέω: 21,29. 32;
22,5); «egli mandò i suoi servi» (ἀπέστειλεν τοὺς δούλους αὐτοῦ: 21,34; 22,3); «di nuovo
mandò altri servi» (πάλιν ἀπέστειλεν ἄλλους δούλους: 21,36; 22,4), «uccidere» (ἀποκτείνω:
21,35. 39; 22,6), «figlio» (υἱός, 21,37-38; 22,2), «distruggere» (ἀπόλλυμι: 21,41; 22,7),
«parabole» (παραβολαί: 21,45; 22,1).
1
Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse:
– Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio.
3
Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non
volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli
invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati
sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. 5Ma quelli non se ne
2
11
curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero
i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue
truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi
disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni;
9
andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle
nozze”. 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono,
cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per
vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale.
12
Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello
ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori
nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
14
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti.
È ovvio che questa terza parabola presenta una difficoltà radicale: è davvero una parabola
“gesuanica” questa che racconta dapprima di una chiamata totalmente gratuita e, di seguito,
presenta una inappellabile condanna per colui che è entrato al banchetto senza l’abito nuziale?
Ma che è mai questa veste nuziale? Non si cadrebbe forse in allegoresi se ci si impegnasse a
dare subito un’interpretazione a tale veste nuziale?
Comunque si interpreti, siamo davanti a un climax della teologia matteana. Si noti, tra
l’altro, che l’enfasi di tutta la parabola sta proprio sulla dignità dell’abito nuziale. Nella chiesa
infatti, convocazione libera senza differenza di sesso, di nazione, di razza…, tutti sono
indistintamente chiamati a partecipare alla gioia del regno, ma non ci si deve dimenticare che
nessuno nella comunità cristiana possiede già la salvezza del Regno. Appartenere alla chiesa
non genera alcun diritto, ma richiama ogni volta a un dovere, quello di essere «chiesa di Gesù»,
al suo servizio. Il giudizio contro coloro che, pur appartenendo a Israele, sono stati tuttavia
esclusi da Israele, non deve far montare in superbia le Genti che hanno visto il rifiuto di buona
parte di Israele precederli. Ciò che fu vero per Israele, rimane vero ancora anche per la Chiesa:
l’invito non significa la sicumera di essere salvati. Coloro che formano la comunità dei
discepoli devono mostrare con le loro opere e la loro vita che cosa significhi essere testimoni per
altri.
Ciò era vero per Israele al tempo di Gesù, come è vero oggi per la Chiesa: «molti sono gli
invitati, ma pochi sono gli eletti». Dopo questa parabola, Mt 23 e Mt 24-25 continueranno
questo pensiero matteano: si tratta di un giudizio già manifesto che nello stesso tempo è
giudizio di Israele e ammonimento per i discepoli che credono in Gesù. Del resto, nella
condizione attuale, anche il discepolo di Gesù non può ancora conoscere Dio per quello che
Egli è (1 Gv 3,2).
La parabola non offre quindi un’immagine di Dio crudele e pagana, in una parola
anticristiana. Piuttosto va chiesto a Matteo se il concetto di “giudizio” superi per lui la
promessa di salvezza. La risposta sarebbe assolutamente negativa, anche perché la parabola
non presenta alcun elemento di allegorizzazione cristologica: il Figlio alle cui nozze tutti sono
invitati non è mai presente nella parabola. Al contrario, la necessità sta nel predicare quel
Dio-con-noi che si mostra da una parte nell’invito di tutti i popoli al banchetto della salvezza
e, dall’altra, nella richiesta di vivere di conseguenza l’accoglienza del Vangelo con
atteggiamenti degni di una vita evangelica.
Da questo che sto dicendo, si può dedurre anche l’estrema libertà della comunità primitiva
per fare memoria delle parole di Gesù: avendo compreso quale fosse il senso della chiamata di
Gesù rivolta al solo Israele, non era difficile leggere oltre quell’angusto orizzonte e trovare la
12
soluzione ai nuovi problemi che venivano ponendosi fuori della terra di Israele con una
creatività fedele, ma non imbalsamata alla parola di Gesù. «Riscrivere» la Scrittura è un
compito affidato alla viva creatività di tutti i credenti di ogni tempo, sino a poter affermare
che una fedeltà chiusa a questa “potenza in cambiamento” non è una fedeltà biblica.
L’abito nuziale che dunque è necessario per la vita della chiesa perché si possa essere
ammessi alla convocazione di tutti al banchetto nuziale per il Figlio non è se non la risposta di
fede (con tutto quanto esso comporta anche nelle opere suscitate dalla fede). Se manca tale
risposta, non è possibile entrare nella festa nuziale, nonostante vi sia una chiamata universale
alla salvezza. In altri termini, la veste nuziale della parabola vorrebbe essere un rimando
analogo a quel peccato imperdonabile di «bestemmia contro lo Spirito santo» di cui parlano
Marco e Luca (cf Mc 3,29; Lc 12,10): tutto, infatti, può essere perdonato, eccetto il rifiuto di
accogliere il perdono, perché il Dio di Gesù rispetta la decisione della libertà e non la vuole
assolutamente umiliare.
Nel contesto delle altre letture oggi proclamate, l’accento cade soprattutto sull’impossibilità di accettare l’opzione della libertà umana che sceglie il male: Dio non può accettare
dalla libertà umana il rifiuto del bene che Egli stesso ha proposto quale riuscita della vita.
PER LA NOSTRA VITA
1.
In Dio non c’è la potenza come forza di dominio e di annientamento, neppure a titolo
di punizione eterna dei malvagi. Semmai c’è, per così dire, la volenza, il voler bene portato
sino alla scelta irreversibile dell’altro, del bene dell’altro, ossia dell’umanità e del creato intero.
In Dio non c’è la potenza – che è la temporanea prerogativa di maghi e dittatori, la loro
illusione e autocondanna –, c’è l’energia dell’amore, forza generatrice e creativa, forza
rivelativa e riconciliatrice, forza redentrice e rigenerativa. E non a caso, per dire l’efficacia di
tale amore, ci manca un termine specifico che sia totalmente distinguibile da potenza, potere,
forza. Perché se ci fosse, sarebbe questo a misurare il suo amore. Al contrario, è il suo amore
a restare l’unica misura possibile della vera efficacia. E con ciò resta anche il mistero della sua
identità non perché Dio si nasconda, ma perché non si lascia razionalizzare. Non l’amore è
Dio, ma Dio è amore. Per questa ragione noi possiamo dare all’efficacia del suo amore non
un nome generico, ma molti nomi corrispondenti agli atti specifici manifestati nell’aperto
divenire di Dio: creazione, rivelazione, incarnazione, redenzione, restituzione, salvezza. Il
cammino intellettuale di chi si affida al Dio biblico sta nell’imparare a discernere la via e
l’efficacia di questo amore separandolo da qualsiasi idea di potenza e vittoria.
Ma allora, se non è nella potenza e nell’impotenza, dov’è Dio? Qual è la sua forza specifica?
In che consiste la sua libertà? Dio è lì dove l’amore crea, rivela, riconcilia, redime e rigenera,
ed è lì dove qualcuno soffre. L’efficacia del suo bene, della salvezza che Dio realizza in noi la
conosciamo già come capacità di creare la vita, di darci il tempo e lo spazio, di affidarci la
libertà, di provocarci alla conversione, alla verità, di costituirci nella responsabilità di ognuno
per gli altri.2
2.
In prospettiva cristiana, l’inferno deve essere affermato nel contesto di una sana antropologia, che non può cancellare l’assurdo di una risposta negativa della libertà umana usque
ad mortem. Ma dal momento che noi conosciamo il mistero della morte solo sul versante di
R. MANCINI, L’uomo e la comunità (Sequela Oggi), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano BI 2004,
pp. 231-232.
2
13
questa storia, non dobbiamo – e non possiamo – impedire a Dio di manifestare il suo amore
invincibile usque ad mortem sul versante della sua eternità, capace di vincere il nostro peccato
senza per questo distruggere la nostra libertà.3
3.
«No, tu non ha il diritto di aggiungere niente a quello che hai detto un tempo. E ciò
sarebbe come togliere agli uomini la libertà che difendevi tanto sulla terra. [...] Non hai detto
spesso “voglio rendervi liberi”?. Ebbene, li hai visti, questi uomini “liberi”.[...] Sì, ci è costato
caro [...] ma abbiamo infine compiuto quell’opera in tuo nome. Ci sono occorsi 15 secoli di
dura fatica per instaurare la libertà; ma ormai è cosa fatta e solida. Non lo credi che sia ben
solida? Mi guardi con dolcezza; e non ti degni neppure di indignarti? Ma sappi che mai gli
uomini si sono creduti tanto liberi come ora, e tuttavia la loro libertà essi l’hanno umilmente
posta ai nostri piedi. Ciò è opera nostra, a dir la verità; e la libertà che tu sognavi? [...] Perché
solo ora, per la prima volta (parla, s’intende, dell’inquisizione) è diventato possibile pensare
alla felicità degli uomini. L’uomo è naturalmente un ribelle; forse che i ribelli possono essere
felici? Tu eri stato avvertito, di avvertimenti ne hai avuti tanti, ma non ne hai tenuto conto.
Hai respinto l’unico mezzo che permette agli uomini di diventare felici. Per fortuna,
andandotene, ci hai trasmesso la tua opera; hai promesso, hai solennemente confermato con
le tue parole, ci hai dato il diritto di legare e di sciogliere. E non puoi, ora, pensare di ritoglierci
quel diritto. Perché dunque sei venuto a disturbarci?».4
4.
Essere liberi vuol dire che l’uomo sia in grado di riconoscere ciò che è grande come
grande e quanto è piccolo come tale; che scorga la vanità di ciò che non ha valore e la
preziosità di ciò che ha pregio, che veda giustamente tanto le differenze che corrono fra cosa
e cosa, situazione e situazione, quanto anche le relazioni e le misure delle cose stesse; che
riconosca l’ordine di dignità delle cose, la gerarchia dei valori, il loro grado infimo come il
sommo e ogni valore intermedio al suo proprio posto; che concepisca chiaramente l’idea, ma
guardi la realtà intera nella sua luce; che scorga la vita quotidiana con tutte le sue durezze e
imperfezioni, ma anche quello che in essa vi è di eterno; né l’idea lo renda cieco alla realtà, né
la mediocrità quotidiana lo svii dalla contemplazione dell’idea.
Che egli possa “guardare le stelle e badare ai mali passi nei vicoli”.5
5.
«La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni». Questo detto che si ritrova nei
paesi più diversi, non proviene dall’insolente saggezza mondana di un impenitente, bensì rivela
una profonda intelligenza cristiana. Chi con la fine dell’anno non sa fare niente di meglio che
compilare un registro con quello che di cattivo ha fatto in passato e decidere, d’ora in poi – ma
quanti “da ora in poi” sono già passati! – di iniziare il nuovo anno con propositi migliori, è ancora
nel paganesimo fino al collo. Costui pensa che i buoni propositi facciano da soli il nuovo inizio,
ovvero che egli possa iniziare di nuovo quando vuole. E questa è una pessima illusione; è
soltanto Dio che può iniziare nuovamente con l’uomo, se gli piace, ma non l’uomo con Dio. A
un nuovo inizio l’uomo non può assolutamente arrivare, bensì può soltanto pregare per esso. Dove
l’uomo è chiuso in sé e vive per sé soltanto, lì vi è sempre e soltanto il vecchio, il passato.
Soltanto dov’è Dio, è il nuovo; e l’inizio, Dio, non lo si può comandare, lo si può soltanto
G. BORGONOVO, La retribuzione alla prova della Scrittura, «Munera» 1,2 (2012) 9-22: 22.
F.M. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, a cura di E. BAZZARELLI (I Grandi Scrittori Stranieri 293-294),
UTET, Torino 1969, vol. I, pp. 353-354.
5
R. GUARDINI, Il senso della chiesa, Traduzione di O. GOGALA DI LEESTHAL (Il Pellicano), Editrice Morcelliana,
Brescia 1960, pp. 66-67.
3
4
14
pregare. Ma l’uomo può pregare soltanto se capisce che non può fare ciò che sta ai suoi limiti,
che un altro deve iniziare (DBW 13, 344s).6
6.
Congiunti dunque con Cristo nella Chiesa e contrassegnati dallo Spirito Santo «che è
il pegno della nostra eredità» (Ef 1,14), con verità siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo
veramente (cf 1 Gv 3,1), ma non siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria (cf Col 3,4),
nella quale saremo simili a Dio, perché lo vedremo qual è (cf 1 Gv 3,2). Pertanto, «finché
abitiamo in questo corpo siamo esuli lontani dal Signore» (2 Cor 5,6); avendo le primizie dello
Spirito, gemiamo interiormente (cf Rm 8,23) e bramiamo di essere con Cristo (cf Fil 1,23).
Dalla stessa carità siamo spronati a vivere più intensamente per lui, il quale per noi è morto e
risuscitato (cf 2 Cor 5,15). E per questo ci sforziamo di essere in tutto graditi al Signore (cf 2
Cor 5,9) e indossiamo l’armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del diavolo e
resistergli nel giorno cattivo (cf Ef 6,11-13). Siccome poi non conosciamo il giorno né l’ora,
bisogna che, seguendo l’avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito
il corso irrepetibile della nostra vita terrena (cf Eb 9,27), di entrare con lui al banchetto nuziale
ed essere annoverati fra i beati (cf Mt 25,31-46), e non ci venga comandato, come a servi
cattivi e pigri (cf Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (cf Mt 25,41), nelle tenebre esteriori
dove «ci sarà pianto e stridore dei denti» (Mt 22,13 e 25,30). Prima infatti di regnare con Cristo
glorioso, noi tutti compariremo «davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno il salario
della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di male» (2 Cor 5,10), e alla fine
del mondo «usciranno dalla tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha
operato il male a risurrezione di condanna» (Gv 5,29, cfr Mt 25,46). Stimando quindi che «le
sofferenze dei tempo presente non sono adeguate alla gloria futura che si dovrà manifestare
in noi» (Rm 8,18; cf 2 Tm 2,11-12), forti nella fede aspettiamo «la beata speranza e la
manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e Salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13) «il quale
trasformerà allora il nostro misero corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso» (Fil
3,21), e verrà «per essere glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che avranno
creduto».7
D. BONHOEFFER, Voglio vivere questi giorni con voi, a cura di M. WEBER, Traduzione dal tedesco di A. AGUTI G. FERRARI (Books), Editrice Queriniana, Brescia 2007, p. 11.
7
Lumen Gentium, 48.
6
15