4 ennio amodio il penalista sullo schermo del cinema italiano

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4 ennio amodio il penalista sullo schermo del cinema italiano
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ENNIO AMODIO
IL PENALISTA SULLO SCHERMO
DEL CINEMA ITALIANO (*)
1. Se si esclude il bel film di Michele Placido sull’impegno civile e il sacrificio di Giorgio Ambrosoli (1), si può ben dire che il cinema italiano abbia sempre relegato gli avvocati in un angolo poco illuminato in cui la loro professione è rappresentata in modo caricaturale o distorto. È vero che, nel confronto
con la produzione americana, il lavoro dei nostri registi e sceneggiatori per il
grande schermo rende evidente un vero e proprio «disamore» per tutti gli argomenti giudiziari (2), tanto poco numerose sono le pellicole sui temi della giustizia, per di più quasi sempre non interessate a capire le tensioni e i conflitti
che animano la scena del processo penale. In questo quadro già di per sé desolante, l’attenzione dedicata dal nostro cinema alla figura del difensore, e soprattutto al penalista, appare non solo quantitativamente ridotta, ma pesantemente afflitta da visuali preconcette che ne azzerano il tasso di credibilità.
Non si vuol certo dire che il legal film debba risolversi artisticamente in una
copia dal vero, come se codici e prassi giudiziarie dovessero costituire il rigido
copione dei plot narrativi. La cinepresa deve potersi muovere con piena libertà
di raccontare gli eventi, anche con finalità di critica sociale ovvero per dare risalto ai drammi che si consumano nelle udienze penali. Quando però lo schermo deforma grossolanamente la realtà, il suo contributo si riduce alla messa in
scena di figure di cartapesta che suscitano il sorriso o stimolano il biasimo senza aiutare a comprendere come funziona effettivamente la giustizia in un determinato momento storico.
2. In un primo gruppo di film degli anni Cinquanta e Sessanta, il penalista
è raccontato in una chiave cosı̀ farsesca e caricaturale da aver indotto un autorevole sociologo del diritto ad escludere queste opere dalla sua indagine sulla
(*) Questo scritto anticipa alcuni temi svolti più ampiamente nel volume Estetica della giustizia penale,
di prossima pubblicazione.
(1) Un eroe borghese, 1935. Per una sintesi v. R. DANOVI, Processo al buio, Lezioni di etica in venti
film, Milano, 2009, p. 191.
(2) G. VITIELLO, Perche´ non esiste un courtroom drama italiano, in In nome della legge. La giustizia nel
cinema italiano, a cura di G. VITIELLO, 2013, p. 13.
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giustizia nel cinema italiano (3). Si è però rilevato, in senso contrario, che la
produzione di quegli anni riflette i moduli della commedia all’italiana che ha
le sue radici nel carattere nazionale e si raccorda quindi al profilo dell’italiano
medio (4). È quindi utile guardare a questo cinema, pur tenendo conto di tutte
le sue profonde distorsioni, per comprendere come sia stato possibile costruire
ritratti del penalista manifestamente incongrui.
Esemplare è la figura del difensore, impersonato da Vittorio De Sica, in uno
degli episodi del film Altri tempi (1952), di Alessandro Blasetti, Il processo a
Frine. L’imputata è una popolana cui viene addebitato l’avvelenamento del
marito e della suocera. In udienza l’avvocato si esibisce nella sua veste di funambolo della parola, secondo la più logora rappresentazione radicata nella
cultura di massa. Si assiste cosı̀ alla trasgressione di elementari regole dell’etica
forense quando il difensore chiede, forse anche per un moto di sfida, di condannare la sua cliente all’ergastolo, mentre il pubblico presente sottolinea in
modo chiassoso la sua ritenuta inidoneità ad esercitare la difesa: «Avvoca’... lasciate perdere, che la figliola sta già inguaiata...», «Avvoca’ mo’ vi ci mettere
pure voi, ma per favore!».
Tutta la sequenza dibattimentale si decompone sempre più fino a rinnegare
qualsiasi barlume di plausibilità della scena processuale e l’arringa si infila in
un banale gioco di parole: poiché la legge impone di assolvere i minorati psichici, «perché non dovrebbe essere assolta una maggiorata fisica come questa
formidabile creatura?». Il processo sfocia nella risata che conferma come la scena giudiziaria sia solo un fondale preso a prestito per esaltare la vuotaggine del
pomposo avvocato.
La galleria dei vizi della classe forense si accresce poi di un altro capitolo
nella immagine del penalista che, in uno degli episodi di Un giorno in pretura
(1953), di Steno, assiste un giovane che è accusato di aver rubato e mangiato
un gatto. Qui viene censurata la presunta inclinazione dell’avvocato, da sempre
coltivata nella credenza popolare, a dilatare i tempi e i naturali confini della
causa. Nel film il difensore non si ferma davanti all’esiguità del fatto addebitato al cliente e protrae senza costrutto l’arringa fino a quando, preso atto della
condanna, esclama: «se serve, porterò questo gatto in cassazione... habent sua
sidera lites».
Anche in Hanno rubato un tram (1954), di Aldo Fabrizi, è riproposto lo stereotipo di ascendenza popolare dell’arringa inutilmente verbosa che nel film
(3) V. TOMEO, Il giudice sullo schermo. Magistratura e polizia nel cinema italiano, Bari, 1973, p. 197.
(4) G. VITIELLO, op. cit., p. 21.
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viene infarcita persino da riferimenti a tagliatelle e tortellini. Per la parte dell’avvocato il regista sceglie un noto venditore ambulante di Bologna che riproduce nell’arena giudiziaria le grida sguaiate in uso nel mercato della città emiliana. Un accostamento assai significativo tra attore e personaggio che la dice
lunga sul grado di considerazione riservato dalla cultura cinematografica di
quel tempo al lavoro del penalista.
Alla cupidigia di denaro degli avvocati è dedicato invece un altro episodio di
Un giorno in pretura nel quale un difensore di ufficio, comodamente seduto in
udienza e impegnato nella lettura del giornale, rifiuta di prestare la sua assistenza ad un imputato che si rivolge a lui per essere difeso, confessando però
di non avere soldi per pagare l’onorario richiesto a tambur battente dal troppo
indaffarato professionista. È un velenoso ritratto di vita giudiziaria costruito
sul falso presupposto del diritto del difensore d’ufficio di pretendere il pagamento del compenso, regime privo di qualsiasi riscontro nella disciplina dell’istituto al tempo in cui il film è stato girato. Ma tant’è: il romanzo popolare
della bramosia di denaro degli avvocati basta ad offrire una base per la scrittura
cinematografica.
L’immagine più devastante è però quella che emerge nei film di questo periodo in cui il difensore rinnega il suo obbligo di fedeltà al cliente e si adopera
quindi per farlo condannare. Questo paradosso ha forse origine nell’adagio popolare che scarica sull’avvocato la responsabilità per la sconfitta in sede processuale e viene espresso in una formula del tipo: «il mio legale mi ha fatto condannare». Da qui la strampalata raffigurazione cinematografica di un difensore
che tradisce la sua missione e fa di tutto per condurre il suo cliente al rovinoso
traguardo della dichiarazione di colpevolezza.
Questo modello di penalista patologicamente proteso a scavare la fossa al
cliente si ritrova nel film Buonanotte... avvocato (1959), di Giorgio Bianchi.
Un legale, ben attento a farsi versare 250 mila lire in contanti prima dell’udienza, insiste nel voler prendere la parola anche se il pubblico ministero ha
chiesto l’assoluzione dell’imputato per insufficienza di prove. Ne scaturisce cosı̀
una difesa disastrosa in cui prima l’avvocato mette in rilievo che il suo assistito
ha una faccia da ladro e poi ne sottolinea l’incapacità a delinquere proprio perché «la gente quando lo vede mette subito la mano al portafoglio» (5). Alla fine
conclude con uno sgangherato ‘‘colpo d’ala’’ che non sottrae il cliente alla condanna: «chiedo l’assoluzione con formula piena perché la faccia non costituisce
reato».
(5) V. il testo dell’arringa in G. ZICCARDI, Il diritto al cinema, Milano, 2010, p. 100.
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Anche nel film Il bigamo (1955), di Luciano Emmer, un avvocato approssimativo e pasticcione «fa condannare» il suo assistito, ingiustamente accusato di
molestie sessuali da una mitomane. E in una pellicola del 1963 di Sergio Corbucci, Il giorno piu` corto, un penalista, che rivelerà nel finale la sua follia, contribuisce a fa dichiarare la responsabilità di due soldati accusati di diserzione.
È ben evidente, quindi, che la commedia all’italiana ha scritto pagine tutt’altro che esaltanti sul ruolo del difensore penale nel cinema di casa nostra. Finisce per prevalere l’immagine della macchietta attinta dal sentimento popolare.
Atleta della parola, sempre pronto a spremere il cliente e comunque cosı̀ impreparato e incapace da causare l’esito infausto del processo. Questo il ritratto
del difensore penale.
Persino ai personaggi di contorno come i brigadieri e i marescialli che affollano la scena giudiziaria, il nostro cinema riserva uno sguardo benevolo (6), pur
non rinunziando agli spunti caricaturali. Per non dire dei giudici che sono raffigurati con l’attenzione richiesta dalla loro delicata funzione, come nel famoso
film di Pietro Germi In nome della legge (1949).
Per l’avvocato penalista, invece, il giudizio del grande schermo è impietoso e
tombale. Egli diventa il capro espiatorio di tutti i mali della giustizia perché
cosı̀ ha decretato l’imperativo desunto dai luoghi comuni che circolano nei salotti borghesi e tra i tavolini dei bar, forse anche perché sorretti dalla persuasione occulta proveniente dalle cronache giudiziarie della stampa e della televisione sempre pronte ad inchinarsi a un pubblico ministero, ma assai poco propense a perdonare il difensore anche per il più piccolo inciampo.
3. Archiviata la vena farsesca della commedia all’italiana, il nostro cinema si
avvia negli anni Settanta verso una più consapevole lettura del mondo giudiziario. La cinepresa si orienta però soprattutto verso il fronte dell’azione di polizia con Indagini di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), di Elio Petri, e Confessione di un commissario al Procuratore della Repubblica (1971), di
Damiano Damiani in cui l’analisi dei metodi per combattere la criminalità è
condotta in chiave problematica nella consapevolezza del possibile conflitto tra
rigore della legge e ragioni di efficienza del potere investigativo.
Anche con riguardo al ruolo del giudice, la scrittura cinematografica mostra
di saper affrontare nella giusta prospettiva le tensioni anche di ordine morale
che scaturiscono dai limiti conseguenti alla disciplina dei mezzi di prova rispet(6) G.B. FATELLI, Dal mito alla realta`, andata e ritorno, in Regole e funzioni. Il sistema giudiziario nelle
fiction cinetelevisiva, a cura di A. PITASI, Milano, 2010, p. 32.
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to alle esigenze di «giustizia sostanziale» che spingono verso la punizione di
esponenti di una società irrimediabilmente corrotta. Il film In nome del popolo
italiano (1971), di Dino Risi, offre il ritratto di un giudice che distrugge la
prova dell’innocenza di un imputato ritenuto portatore dell’intrinseco disvalore
derivante dalla sua appartenenza ad una classe di corrotti, mentre in Detenuto
in attesa di giudizio (1977), Nanni Loy affronta il tema drammatico della carcerazione preventiva.
Nonostante questo apprezzabile impegno, l’analisi del ruolo del penalista
non fa alcun passo in avanti. Continua a trionfare l’immagine negativa di un
professionista che, pur essendo ormai affrancato dalla maschera caricaturale elaborata dalla commedia giudiziaria, viene ritratto senza toga, fuori dalla sede
naturale delle udienze dibattimentali e presentato come controfigura del cliente, vero fiancheggiatore del mondo criminale.
Il primo a muoversi su questa lunghezza d’onda è il regista Pasquale Squitieri che nel film I guappi (1974) propone la storia strampalata di un giovane,
cresciuto in ambiente camorristico, che si laurea e indossa la toga per esercitare
la professione in ossequio ai più nobili principi, ma finisce invece ingabbiato
dalla camorra in un ruolo di sostegno alla cosca.
Analogamente in L’avvocato della mala (1977), di Alberto Marras, il penalista viene raffigurato nell’adempimento di un incarico illecito che gli fa assumere la veste di ricettatore impegnato nella vendita di quadri rubati. E un altro
‘‘servizio speciale’’, manifestamente estraneo alle funzioni tipiche della professione forense, è quello affidato ad un avvocato, nemmeno iscritto all’Albo,
protagonista del film La mazzetta (1978), di Sergio Corbucci, al quale si chiede di rintracciare la figlia di un pericoloso boss, scomparsa portando con sé importanti documenti.
Certamente meno denso di negatività è il personaggio dell’opera di Pasquale
Squitieri intitolata L’avvocato De Gregorio (2003). È un film che vuole raccontare il percorso di redenzione di un professionista radiato dall’Albo che, ad un
certo punto, riesce a scoprire i colpevoli di un infortunio nel quale ha trovato
la morte un operaio che lavorava in nero. Questo personaggio non incarna però la figura del difensore che si batte contro la pubblica accusa per l’innocenza
di un imputato, ma è schierato nel processo a tutela della parte civile e, soprattutto, ha alle sue spalle un passato poco virtuoso. Il messaggio sembra
dunque quello che fa pensare ad un intrinseco disvalore della professione di
penalista. Essa può «emendarsi» solo quando l’avvocato compie le «vere buone
azioni» consistenti nell’assistere persone offese dal reato, collaborando cosı̀ con
il pubblico ministero al fine di far applicare la giusta pena ai colpevoli.
Questo tema è ripreso anche nel film Il silenzio intorno (2005), di Dodo
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Fiori, in cui un giovane praticante uscito da una comunità di tossicodipendenti cerca di riconquistare il suo equilibrio lavorando all’interno di uno studio legale, ma non ci riesce e alla fine ripiomba nella spirale della droga. Anche qui
la metafora è ben trasparente: il penalista si libera del suo peccato di origine se
fa una scelta di vita in favore di nuovi valori, ma spesso non vi riesce perché
la sua natura è più incline al male che al bene.
Non credo che questo bilancio possa essere tacciato di inattendibilità per eccessivo pessimismo. La verità è che anche negli anni più recenti non c’è una
sola pellicola di produzione italiana in cui il penalista sia ritratto nel suo ruolo
istituzionale di difensore impegnato nel sottrarre l’imputato al rischio di una
sentenza ingiusta. Per il cinema italiano la toga dell’avvocato che opera nel
processo penale nasconde sempre sotto le sue pieghe sbandati, emarginati o
sconfitti.
Eppure, anche a prescindere dalle splendide figure dei professionisti in prima linea nei processi di grande risonanza mediatica, almeno dall’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1989 la professione del penalista lascia
percepire una grande ricchezza di sfaccettature che ben possono offrire allo
schermo l’occasione per indagare sulla realtà della nostra giustizia penale. Ed è
quindi davvero sconcertante che a fronte del dilatarsi dell’alveo processuale penale nel quale ormai confluisce tutto l’universo delle problematiche sociali,
dalla violenza in famiglia alla corruzione, dalla malasanità ai conflitti tra ecologia ed esigenze produttive dell’industria fino ai gravissimi reati di criminalità
organizzata, gli autori del nostro cinema abbiano girato la testa da un’altra parte senza interrogarsi sui nodi e sui conflitti che emergono dalle vicende processuali.
È il segno di un conformismo culturale assai deplorevole. Non osando entrare nel recinto certamente complesso del potere giudiziario per mettere a nudo l’operare di una magistratura sempre più forte e imperscrutabile, il nostro
cinema ha prima scelto di adeguarsi alla logora formula di conio popolare del
difensore manutengolo della criminalità e poi, negli ultimi trent’anni, ha preferito stare in silenzio.
4. Si poteva percorrere una strada diversa? La risposta affermativa viene da
una fonte autorevolissima della cultura cinematografica di casa nostra. Federico
Fellini, in una lettera inviata all’amico avvocato riminese «Titta» Benzi, ha
tracciato le linee di un’opera da dedicare alla difesa penale mostrando di saper
compiere una fine introspezione della realtà professionale forense, sottratta alla
lente deformante dei luoghi comuni.
La lettera del grande maestro, inserita in un volume di memorie dello stesso
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Benzi (7), è stata ripubblicata e commentata in un volume di Giovanni Ziccardi
dedicato alla giustizia sullo schermo (8). È una testimonianza di straordinario interesse che scardina con pochi rilievi tutto il cumulo delle false credenze cresciute attorno all’avvocato penalista.
Fellini fissa in primo luogo una premessa che sfata il mito del courtroom
drama stravisto nelle fiction americane. Egli pensava ad un film «su un avvocato anche modesto, ma vero, autentico. Che non fosse come quel ‘‘panzone’’ di
Perry Mason che le cause le vinceva tutte. Un avvocato che sapesse anche perderle».
Poi comincia a puntare lo sguardo sul vissuto professionale, come se conoscesse dall’interno l’animo del penalista. E chiede all’amico avvocato, a proposito dei clienti: «ne ricevi qualcuno di notte? Qualcuno che non vuol farsi vedere?». Si interroga anche sulle virtù richieste dall’arte forense: «preparazione?
Facondia? Furbizia? Senso psicologico? Umanità? Spregiudicatezza? Ribalderia?
Gigioneria?». Infine fa la rassegna dei vizi: «troppo sentimentale? o al contrario
troppo cinico? Arraffi tutto, non sei capace di rinunciare al cliente? ».
C’è una prodigiosa sensibilità in questa analisi che non trascura di affacciarsi
pure al tema del conflitto tra legalità e interesse difensivo dell’imputato. Fellini
chiede all’amico: «raccontami con la spregiudicatezza che ti distingue un tipico
caso di sentenza vittoriosa ma completamente ingiusta».
La lettera prosegue sollecitando risposte sul tema dei rapporti con i magistrati, per sapere come essi vengono blanditi e corteggiati. E, dopo aver fatto
cenno alla tipologia dei clienti e al problema del pagamento dell’onorario («ti
è capitato qualche volta di commuoverti e di non farti pagare la parcella?»), sa
far balenare nel finale una sequenza di immagini di un realismo davvero magico che mette in primo piano la solitudine del difensore.
L’avvocato è in trasferta in una città che non ha scelto perché è la sede del
tribunale davanti al quale dovrà discutere l’indomani la causa in difesa del suo
assistito. In una carrellata virtuale si scorgono la stazione, una piazza sconosciuta, il ristorante e l’albergo. La tensione della vigilia sale sempre più e si
stempera solo quando alla sera l’avvocato rilegge la scaletta preparata per la discussione davanti allo specchio, proprio come l’attore che deve debuttare sul
palcoscenico.
Questo sı̀ che è un frammento di autentica vita professionale, che fa apparire, per contrasto, come ingannevoli sovrastrutture tanto la sfilata delle mac(7) Pantache`di, Guaraldi editore, 1995.
(8) Op. cit., p. 105.
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chiette della commedia all’italiana, quanto i difensori presentati come controfigure dei criminali nel cinema degli anni Settanta.
Bastava quindi a registi e sceneggiatori dei nostri film bruciare nel fuoco di
un camino la raccolta di cartoline ingiallite con ritratti di avvocati confezionati
con l’approssimazione di un naif per procedere invece a una lettura realistica
del mondo forense. Proprio come ha fatto Federico Fellini regalandoci la più
bella pellicola virtuale sul penalista italiano.
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