Prime pagine - Codice Edizioni

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Prime pagine - Codice Edizioni
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Enrico Bellone
Galilei e l’abisso
Un racconto
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Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene.
In perpuosito de la Stella Nuova
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A Simona, Michele, Fiammetta e alla scodinzolante Lula
Enrico Bellone
Galilei e l’abisso
Un racconto
Progetto grafico: studiofluo srl
Impaginazione: adfarmandchicas
Coordinamento produttivo: Enrico Casadei
© 2009 Codice edizioni, Torino
Tutti i diritti sono riservati
ISBN 978-88-7578-134-7
Il testo del Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene, riproposto in appendice
a questo volume, è stato scaricato dalla Galileo/thek@,
a cura dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza
(http://brunelleschi.imss.fi.it/portalegalileo/galileoteka.html).
Si tratta della versione pubblicata nell’Edizione Nazionale delle opere galileiane,
curata da Antonio Favaro per la casa editrice Barbèra
(Firenze 1890-1909; ristampe nel 1929-1939 e 1964-1968).
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Indice
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Premessa
Chi era Cecco?
La materia delle stelle e di chi le guarda
Di che cosa si parla nel Dialogo de Cecco?
La mala pasqua
Sui timori di un autodidatta
Come salvare Copernico
I primi frammenti del salvataggio
Il corpo e lo spazio
Tanto rumor per nulla?
Conclusione
Appendice
Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene.
In perpuosito de la Stella Nuova
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Procuriamo pure di sapere qualche cosa per noi, quietandosi
in questa sola soddisfazione; ma dell’avanzarsi nell’opinione
popolare, o del guadagnarsi l’assenso dei filosofi in libris,
lasciamone il desiderio e la speranza.
Galileo Galilei, lettera a Benedetto Castelli, 1610
Estrema temerità mi è parsa sempre quella di coloro che vogliono
far la capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la
natura, dove che, all’incontro, e’ non è effetto alcuno in natura, per
minimo che e’ sia, all’intera cognizion del quale possano arrivare
i più specolativi ingegni. Questa così vana presunzione d’intendere
il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla.
Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, 1632
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Premessa
E poi viene il tempo in cui il lato in ombra del giardino è un posto
buono per lavorare. Sfoglio gli appunti che ho buttato giù d’inverno, e nelle ultime giornate di pioggia traffico nel togliere aggettivi e
avverbi o nel riscrivere interi paragrafi. Mi restano alla fine poche
pagine, tutto sommato: che girano attorno ad altre poche pagine,
scritte in dialetto padovano più di quattro secoli fa e d’autore incerto, sotto il titolo Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene. In perpuosito
de la Stella Nuova.
Autore incerto, è vero: ma restano indizi, che sono sfumati e
suscettibili di varie interpretazioni. Le due uniche certezze sono
queste: negli ultimi tempi sono poche le persone che hanno letto
con attenzione quelle antiche paginette che andarono a stampa agli
inizi del 1605, e i punti di vista su chi le ha scritte – e sul perché ha
scelto come linguaggio non il latino o l’italiano, ma un dialetto –
restano variegati e appesi a fili sottili di cui si danno scarne tracce in
qualche lettera privata.
La curiosità mi ha fatto lavorare su quel vecchio libricino: per ricostruirne un poco la storia, che alla fine mi è parsa piena di spunti
forti e, sotto molti aspetti, sovversivi; e per difendere a modo mio l’ipotesi – già enunciata da altri – che il libricino lo abbia addirittura
scritto Galileo Galilei, nascondendosi dietro uno pseudonimo, per
ragioni abbastanza precise (ma non notissime) e in un periodo piuttosto complicato della sua vita.
Come tutti sanno, di quel pover’uomo che si chiamava Galileo
Galilei si conoscono oggi molte cose. È allora giusto dire subito che
questo mio libro si colloca ai margini della vicenda galileiana: ho infatti scelto di fare un racconto breve e centrato su un episodio apparentemente marginale nella vita di un Galilei già quarantenne ma
ancora ben lontano dalla gloria. Un racconto basato su congetture
che vengono a galla solo incrociando fra loro storie diverse; dove,
peraltro, alcuni incroci rinviano a problemi che non erano neppure
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Galilei e l’abisso
immaginabili negli anni galileiani. A proposito di questi problemi,
comunque, si parlerà nel racconto: in alcune digressioni, rispettivamente intitolate La materia delle stelle e di chi le guarda, Il corpo e lo spazio e Tanto rumor per nulla?.
Diciamo così: nel presentare il volumetto del 1605 ho fatto un
racconto nel senso tradizionale del termine. Insomma, un lavoro di
fantasia, che può tuttavia darci una mano nel ricostruire e reinterpretare certi aspetti di quell’impresa culturale che chiamiamo scienza.
Nel difendere la fantasia posso pur sempre rifarmi a un principio di
autorità: è stato Ernest Hemingway, nelle righe di presentazione di
Festa mobile, a sostenere che «esiste sempre la possibilità che un’opera
di fantasia […] getti un po’ di luce su ciò che è andato sotto il nome
di realtà». Nel caso di Hemingway mi si potrebbe far notare che Festa mobile restò un’opera incompiuta. Ma ciò non toglie che, nel caso
di Galilei, ci sia un gran bisogno di meglio illuminare «ciò che è andato sotto il nome di realtà».
Ce n’è bisogno soprattutto perché resta quanto mai popolare l’opinione che l’eredità lasciataci da Galilei consista nell’invenzione di
un metodo scientifico rivoluzionario: un’invenzione che ha la stessa
fondatezza di tante altre storie metropolitane sulla natura della conoscenza umana. Mi ripeto: rispetto a certe opinioni il mio racconto è
davvero marginale. Lo è in quanto si presenta al lettore come un
tentativo di fargli vedere che sono a volte decisivi, nell’evoluzione
delle conoscenze umane sulla natura, certi eventi accidentali o imprevedibili o non intenzionali che dir si voglia: e sicuramente non
intenzionale è la supernova di cui si parlotta nel Dialogo de Cecco.
Inoltre, il mio racconto è marginale anche nel suggerire che l’evoluzione della cultura non tende a uno scopo predefinito: non tende, per dirla tutta, alla verità, anche se usa – come mutevoli regole
del gioco – mutevoli famiglie di criteri di verità grazie alle quali il
sapere può crescere con libere controversie: mutevoli famiglie, non
eterne regole metodologiche.
Con il mio racconto, quindi, evito di parteggiare per un Galilei
che dice la verità in quanto seguace di Copernico, e di condannare
una Chiesa menzognera in quanto nemica del sistema copernicano.
Dal punto di vista della scienza odierna, infatti, è completamente irrilevante chiederci se la Terra si muove attorno al Sole immobile, o
se invece è il Sole a muoversi attorno a una Terra ferma nel centro
dell’universo: e di questo si parla nella digressione intitolata Tanto
rumor per nulla?.
Premessa
XIII
Parteggio invece per un Galilei pover’uomo, la cui bocca fu ieri tappata con la violenza, perché, difendendolo, si difende oggi la libertà
degli esseri umani dagli attacchi di chi ritiene di possedere delle verità
rivelate da un dio che sta in alto, o di una metafisica che – sempre dall’alto – scruta le pratiche umane e le giudica.
Quale Galilei, dunque? Un Galilei che se ne sta – ancora oggi –
nell’abisso che da sempre separa l’esplorazione della natura dal senso
comune e dalle credenze radicate nella cultura diffusa. Un abisso che
può essere almeno in parte scavalcato se si ammette, con Einstein,
che la scienza è un affinamento del senso comune e un continuo superamento di pregiudizi, e, con Galilei, che la filosofia può trarre
giovamento dalla crescita delle conoscenze sperimentali e teoriche.
Qui sta, allora, l’eredità filosofica lasciataci da Galilei: nel ritenere
che la scienza non è mai in grado di fornire una spiegazione completa anche del più semplice fenomeno naturale, e che la libertà di
ricerca deve tutelare se stessa da coloro i quali credono invece di
possedere risposte intrise di Verità.
Questo è tutto ciò che mi pare doveroso dire come premessa. In
chiusura del libro il lettore troverà il testo del Dialogo de Cecco sia
nella versione dialettale sia in un’eccellente traduzione in italiano
seicentesco.
Buon divertimento, allora.
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Galilei e l’abisso
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Chi era Cecco?
Fu stampato in quel di Padova, agli inizi del 1605, un curioso libercolo. Curioso per varie ragioni. Tanto per cominciare era un dialogo fra
due contadini, ed era scritto in dialetto padovano. Era poi assai breve:
in tutto, 28 paginette, compresa una dedica a un canonico, Antonio
Quarengo, che era datata sull’ultimo giorno di febbraio di quell’anno. Inoltre ebbe due edizioni, sempre nella stessa annata: qualcuno lo
leggeva, insomma. In quarto luogo, entrambe le edizioni si chiudevano con una sequenza di versi in lingua italiana: un attacco francamente feroce contro Aristotele e contro certe opinioni aristoteliche
sui corpi celesti che erano assai popolari sia a livello di senso comune,
sia nella cornice degli insegnamenti di tipo universitario – un attacco
che nella seconda edizione si sarebbe fatto più cauto, ma non troppo.
Recava infine una firma strana: chi sfogliava quel libercolo era
indotto a credere che l’autore fosse un tal Cecco di Ronchitti, originario di una minuscola località alla periferia di Padova (una
manciata di case che allora era nota come Bruzene e che oggi è
denominata Brugine).
Non era di per sé stravagante, ad ogni modo, la pensata di scrivere pagine in dialetto: in quegli anni erano assai lette le opere del Ruzante, che proprio sul dialetto pavano erano centrate. La stravaganza
stava semmai altrove: e, per la precisione, se ne stava proprio sull’autore del piccolo volume. Probabilmente nessuna donna aveva in quei
tempi partorito un Cecco di Ronchitti – e se un Cecco di Ronchitti
era comunque nato a Brugine o altrove, di sicuro non era lo scrittore
di ciò che era andato alle stampe «In Padova appresso Pietro Paulo
Tozzi» e successivamente riedito con la dizione «In Padova per Pietro Paulo Tozzi et poi in Verona, per Bortolamio Merlo».
Chi dunque si celava dietro quel Cecco di Ronchitti? E perché
lo scrittore aveva deciso di nascondersi dietro uno pseudonimo?
E, infine, per quali motivi dovremmo oggi ristamparlo, leggerlo e
commentarlo?
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Galilei e l’abisso
Cominciamo dalla prima di queste tre domande. Per ammettere
subito e con onestà che, sulla base dei documenti rimastici di quegli anni, non esiste alcuna risposta certa. Il che non è poi così grave: visto che in nessuna scienza troviamo certezze o verità assolute, perché dovremmo pretendere di individuarne una in campo
storico? Siamo liberi di fare ipotesi, però: tenendo ovviamente
conto degli argomenti esposti nelle poche paginette di quel Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene. In perpuosito de la Stella Nuova di
cui stiamo qui conversando. Tenendone conto, come vedremo,
apriremo la strada per rispondere anche alla seconda e alla terza
domanda.
Bene, gli argomenti. Il Dialogo si chiama “dialogo” perché vi si
legge di due contadini, Matteo e Natale, che tra loro parlottano in
dialetto mentre, stanchi, tornano dai campi. Discutono, con il loro
linguaggio elementare, di una “stella nuova” che d’improvviso è apparsa nel cielo notturno poco prima della metà dell’ottobre del 1604.
Ma, soprattutto, discutono delle critiche che un certo filosofo ha diffuso contro un matematico secondo il quale la nuova e brillante fonte
notturna di luce è davvero una stella, checché ne pensino i seguaci di
Aristotele e molti professori universitari.
Ecco: chi era il filosofo, e come si chiamava il matematico?
Il dileggio dei due contadini è focalizzato su un’immagine caricaturale del filosofare, e ci rinvia ad almeno due studiosi che non vengono mai citati per nome ma le cui tesi sono oggetto di veemente
polemica: un conte, Baldassarre Capra, e (forse) un docente di filosofia all’Università di Padova che si chiamava Antonio Lorenzini.
Perché quel “forse” tra parentesi? Perché si possono sollevare dubbi
anche sull’operetta che andò alle stampe con la firma di Lorenzini:
nulla vieta, infatti, di pensare che in realtà tale operetta sia stata composta – o comunque ispirata, o dettata – da un altro personaggio che
in quegli anni era quanto mai importante nella vita accademica padovana1. Si trattava di un interprete del pensiero aristotelico. Il suo
nome era Cesare Cremonini.
Ad ogni modo, sia Capra sia Lorenzini (o Cremonini) avevano
effettivamente parlato della “stella nuova” in opere a stampa poche
settimane prima che uscisse il Dialogo de Cecco. In particolare, a nome
del Lorenzini era stato pubblicato un Discorso intorno alla Nuova Stel1 Annibale Fantoli, Galileo. Per il copernicanesimo e per la Chiesa, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 1993.
Chi era Cecco?
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la, e, guarda caso, anche questo libro era uscito in due edizioni che
avevano coinvolto sia la stamperia padovana di Lorenzo Pasquato, sia
il già citato Pietro Paulo Tozzi (stamperia ed editore che avevano
dato alla luce anche il Dialogo de Cecco).
E chi era il matematico? Un signore il cui nome non viene mai
fatto da Matteo e Natale ma che, come si vedrà tra poche righe, è
forse facile individuare: un uomo sulla quarantina d’anni che insegnava appunto matematica nell’Ateneo padovano, amava il Ruzante,
conosceva benissimo il dialetto di Padova e – avendo scelto come
tema del proprio corso universitario nell’anno accademico 16041605 i movimenti dei pianeti – aveva tenuto, nella prima metà di dicembre, tre lezioni pubbliche sulla “stella nuova”.
Le critiche che Matteo e Natale rivolgono (con frasi ruvide) al filosofare messo alla berlina vanno sottobraccio alla difesa che il Dialogo de Cecco sviluppa a proposito delle opinioni di questo matematico.
Le persone che in quei mesi s’erano procurata una copia del libretto
non avevano troppi dubbi su chi fosse costui: si chiamava Galileo
Galilei, insegnava a Padova dal 1592 ed era tra i pochi individui convinti che la “stella nuova” fosse un corpo celeste e non un fenomeno collocato al di sotto della Luna.
Tra Padova e Venezia il nome di Galilei era notissimo. Ma la
notorietà non aveva radici nella sua reputazione di scienziato.
Quest’ultima era presente, semmai, in un circolo quanto mai ristretto di individui che in Italia e in Europa coltivavano la passione per la geometria e per le sue possibili applicazioni ai fenomeni
naturali. I risultati dei loro studi non erano noti al grande pubblico, e restavano estranei alla maggioranza delle persone colte: non
esistevano riviste dove pubblicare quei risultati, e questi ultimi circolavano solo fra i pochi addetti ai lavori attraverso la corrispondenza privata.
Di Galilei, comunque, molto si parlava in Padova e Venezia: di
lui si diceva che fosse un eccellente didatta e che le sue lezioni universitarie fossero il meglio che si potesse desiderare; ma, soprattutto, egli era conosciuto – fuori dalle mura universitarie – come
uomo di grande cultura umanistica: sapeva citare brani di poesia
greca e latina, era addentro alle discussioni sui generi letterari del
suo tempo, poteva allietare una festa suonando con professionalità
uno strumento musicale a corde, parlava con serietà di pittura e arti
varie. Inoltre, amava con forza le sfaccettature del ben vivere: il
vino, le donne, il buon cibo.
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Galilei e l’abisso
La gloria scientifica di Galilei sarebbe nata qualche anno più tardi,
cioè con la pubblicazione, all’inizio del 1610, di un suo breve saggio
in latino dove si annunciavano le straordinarie scoperte che egli aveva fatto scrutando il cielo con i primi telescopi. Ma a cavallo tra il
1604 e il 1605 quella gloria era inesistente.
Andiamo allora con ordine. Che cosa aveva mai detto Galilei
nelle sue tre conferenze citate poche righe fa? Anche qui, non esistono risposte complete. Ci restano infatti, di quelle conferenze, solo
alcune tracce: note manoscritte che Galilei aveva steso in preparazione di ciò che avrebbe poi detto in pubblico2 e qualche lettera3.
Nelle note manoscritte troviamo considerazioni molto schematiche su misure che Galilei avrebbe fatto con lo scopo di valutare
eventuali spostamenti della “stella nuova”. I dati così raccolti non
erano di grande qualità, e avevano a che fare con la posizione apparente della strana fonte di luce rispetto a pianeti e stelle4: pur essendo
di debole qualità, quei pochi dati erano bastevoli, secondo Galilei,
per sostenere in pubblico che la “stella nuova” era effettivamente
una stella, e non un misterioso fenomeno – più o meno meteorologico – avente la propria sede al di sotto della Luna.
Un punto di vista, questo, che era dato per certo anche da un
tal Ilario Altobelli di Verona. Il quale, in qualche lettera inviata per
l’appunto a Galilei nel novembre del 1604, senza mezzi termini
sottolineava come il «nuovo mostro del cielo» stesse facendo impazzire tutti i «semifilosofi», secondo i quali ciò che s’era presentato in cielo ai primi di ottobre non poteva essere un corpo celeste.
Così stavano davvero le cose: nel sapere diffuso di quegli anni, infatti, un corpo celeste era “celeste” in un senso profondo: era cioè
immune da mutamenti di qualsiasi tipo – e, di conseguenza, anche
la sua luminosità doveva essere costante, e non variabile come
quella esibita dal «nuovo mostro». La follia dei «semifilosofi» s’aggravava, poi, in quanto già nel 1572 s’era acceso in cielo un altro
“mostro” che, per tutto il tempo in cui era stato visibile, non aveva mostrato segni d’essere in moto rispetto alle altre stelle: anch’esso era stato, come ricordava Altobelli a Galilei, privo «di
Chi era Cecco?
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moto e di parallasse». In breve: occorreva arrendersi alla «manifesta
esperienza» che era stata elogiata dai grandi studiosi dell’antica
Grecia, poiché lo stesso Aristotele avrebbe cambiato idea di fronte
alle osservazioni del 1572 e del 16045.
Due temi, quello della “manifesta esperienza” e quello dei “semifilosofi” che la negavano, assai cari a Galilei, che per tutta la vita
avrebbe poi polemizzato, in molte occasioni, con coloro che egli indicava come «filosofi in libris»; questi, dovendo analizzare un qualsiasi evento naturale, si rifugiavano nelle dotte bibliografie anziché premurarsi di effettuare osservazioni e misure. Ma restiamo nei mesi a
cavallo tra il 1604 e il 1605, e nel rileggere il Dialogo de Cecco facciamo tesoro di quanto oggi sappiamo a proposito della posizione assunta da Galilei nel dibattito sulla “stella nuova”.
A questo punto restano ancora senza risposta i tre quesiti di cui
sopra: chi si nasconde alle spalle di un inesistente Cecco di Ronchitti, perché celarsi dietro uno pseudonimo e come mai dovrebbe essere oggi importante dedicare un po’ di tempo alle chiacchiere in dialetto di due contadini ignoranti.
Per rispondere a queste tre domande è tuttavia utile fare una digressione e porre due questioni di tipo preliminare: che cosa effettivamente si vedeva di notte a partire dal 9 ottobre del 1604 e che cosa
invece oggi sappiamo a proposito del “mostro” di quell’anno e del
suo compagno del 1572.
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Galileo Galilei, Frammenti di lezioni e di studi sulla nuova stella dell’Ottobre 1604, in Le
Opere, Edizione Nazionale, Barbèra, Firenze, 1968, vol. II.
3 Galileo Galilei, lettera a Onofrio Castelli del gennaio 1605, in Le Opere, cit., vol. x; corrispondenza con Ilario Altobelli.
4 Guglielmo Righini, Contributo alla interpretazione scientifica dell’opera astronomica di Galileo,
in “Supplemento agli Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza”, fasc. 2, 1978.
5 Corrispondenza
con Ilario Altobelli, vedere Nota 3.