La storia della salvezza nelle vetrate di Pino Casarini

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La storia della salvezza nelle vetrate di Pino Casarini
Prof.ssa Elena Bartolini
Pino Casarini (Verona, 1897 – 1972) lavora nell’Istituto nel
1954 per le vetrate della Cappella della comunità di Verona
Porta Nuova, dove raffigura i misteri del Rosario, e negli anni
1966/ ’67 per le vetrate della Cappella di Casa Madre a
Castelletto di Brenzone che illustrano la storia della salvezza.
Queste vetrate, “per varietà delle soluzioni compositive,
formali ed espressive,possono essere considerate una summa
della pittura a fuoco di Casarini, dalle immagini più
teneramente liriche a quelle più drammatiche”. La storia della
salvezza, come si rivela attraverso l’Antico e il Nuovo
Testamento è dispiegata, per quasi 80 mq, a partire dalla
creazione, alla promessa del Messia della Genesi fino al suo
incarnarsi e attuare il disegno del Padre nella missione che
giunge al Calvario e alla glorificazione.
La Prof.ssa Elena Bartolini, docente di Lingua e Cultura
ebraica, a partire dai passi biblici e dai nomi dei personaggi
rappresentati dall’artista che ha utilizzato il testo originale
ebraico della Scrittura, ci offre una lettura delle vetrate
dell’Antica Alleanza, con riferimento alla “particolare teologia
biblica che emerge dai simboli utilizzati, dalla scelta di episodi
biblici raffigurati e dal modo in cui le diverse scene sono state
messe in relazione fra loro”.
Si tratta di una “lettura simbolica possibile, che non pretende
di essere unica o esaustiva, ma che cerca di orientare
l’osservatore alla luce delle dinamiche con cui i testi biblici qui
raffigurati sono interpretati sia all’interno della tradizione
ebraica, che per prima li ha fissati, che di quella cristiana che
li ha ricevuti e riletti a partire dal mistero pasquale di Gesù di
Nazaret conosciuto come Messia”.
Presentazione delle vetrate decorate
da Pino Casarini nella Cappella dell’Istituto delle
Piccole Suore della Sacra Famiglia
in occasione del 75° Anniversario
di fondazione: 1967
I “segni” particolari della storia della salvezza universale
Vetrate del raccordo: lato Ovest e lato Nord
Queste vetrate, decorate fra il 1966 e il 1967 da Pino Casarini (18971972) per la Chiesa della Casa Madre delle Piccole Suore della Sacra
Famiglia in occasione del 75 dell’Istituto, non possono non colpire chi
le osserva sia per la loro imponenza che per la ricchezza simbolica con
cui illustrano alcuni momenti significativi della storia della salvezza. In
questo raccordo, che unisce la parte più antica della Chiesa con quella
più nuova, è rappresentato l’Antico Testamento con particolare
attenzione ad alcune connessioni con i suoi imprevedibili sviluppi nel
Nuovo. Si nota inoltre la ricerca di forme e colori che esprimano il più
possibile una comprensione di Dio in riferimento al mistero trinitario,
segno di una particolare sensibilità che cerca una sintesi fra intuizioni
artistiche e teologia biblica, secondo una prospettiva cristocentrica che
si mantiene in dialogo col contesto di fede ebraica nell’ambito del quale
avviene l’incarnazione.
Dalla documentazione sull’artista e sulle sue opere in possesso
dell’Istituto, fornitami gentilmente da Suor Emilia Andreose che teneva
in modo particolare allo studio e alla spiegazione delle immagini di
queste vetrate, si deduce una sincera passione del Casarini per la Sacra
Scrittura che, non solo leggeva con interesse, ma della quale ricercava il
senso profondo consultandosi con biblisti e teologi ai quali chiedeva
spesso consulenza attraverso incontri che potevano durare anni.
Tale passione riusciva inoltre a coinvolgere chi entrava in relazione con
lui: le stesse Suore di Castelletto ricordano di aver imparato dalle sue
conversazioni a gustare il “libro sacro” da lui illustrato con lo spirito e
l’intuito di chi, attraverso l’arte, comunica il suo essere un uomo aperto
al mistero.
Le spiegazioni che seguono, e che purtroppo non possono trovare
riscontro diretto con il pensiero dell’artista in quanto il medesimo non
ha lasciato indicazioni scritte al riguardo, cercano di sottolineare la
particolare teologia biblica che emerge dai simboli utilizzati, dalla scelta
degli episodi biblici raffigurati e dal modo con cui le diverse scene sono
state messe in relazione fra loro. Quella che si offre è pertanto una
lettura simbolica possibile, che non pretende di essere unica o esaustiva,
ma che cerca di orientare l’osservatore alla luce delle dinamiche con cui
i testi biblici qui raffigurati sono interpretati sia all’interno della
tradizione ebraica, che per prima li ha fissati, che di quella cristiana che
li ha ricevuti e riletti a partire dal mistero pasquale di Gesù di Nazaret
riconosciuto come Messia.
Il percorso parte dalla vetrata del lato ovest che presenta al centro la
creazione, per poi proseguire con la vetrata del lato nord che presenta al
centro l’Arca di Noè dopo il diluvio. Già da un primo sguardo d’insieme
si può notare la particolare scelta tematica dell’artista: da una parte la
creazione, che sottolinea l’universalità della storia umana, attorno alla
quale si articola la storia particolare del popolo di Israele da Abramo a
Mosè; dall’altra la prospettiva universale dell’Alleanza testimoniata da
Noè e dai profeti con particolare attenzione ad alcuni incontri
significativi fra ebrei e gentili. Tutto ciò orientato fin dalle origini da
una promessa divina di salvezza che nella storia si svela e si compie.
Tale promessa, nella testimonianza anticotestamentaria, si mostra
attraverso la cultura e la lingua del popolo di Israele che costituisce il
mezzo con cui la parola di Dio entra nella storia degli uomini, per
questo l’ebraico rimane la “lingua sacra” di un’esperienza di Alleanza
che in Gesù ha trovato conferma e compimento. Significativa allora la
decisione del Casarini di riproporre passi biblici e nomi dei personaggi
rappresentati preferendo il testo
originale ebraico della Scrittura.
perdenti. Se, da una parte, il peccato degli uomini può essere causa di
sventura, dall’altra c’è la garanzia dell’amore fedele di un Dio che non
può venir meno ad una promessa di vita e di bene. È questo l’orizzonte
di fede in cui avviene l’incarnazione e affonda le radici il mistero
cristiano in una prospettiva di continuità e novità.
Elena Bartolini
Castelletto, agosto 2002
quali perdonerà il peccato dimenticando tutte le loro colpe.
Riedificherà inoltre Gerusalemme che non sarà più distrutta (cf. Ger
31,31-34).
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La visione del profeta Ezechiele (subito sotto). Ritroviamo qui la
visione con cui il profeta Ezechiele riceve da Dio la promessa di
restaurazione dopo la distruzione recepita come castigo.
L’immagine, significativamente posta in corrispondenza dei morti
del diluvio, è quella delle “ossa inaridite” che ricevono di nuovo la
vita dallo Spirito di Dio (cf. Ez 37,1-6). Anche in questo caso è
significativo l’atteggiamento del profeta che, con le braccia distese
verso i cadaveri, sembra soffiare su di loro. Il gesto sottolinea che
questa è una situazione di morte alla quale tuttavia si contrappone
una promessa divina di vita: “Riconoscerete che io sono il Signore,
quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o
popolo mio. Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete; vi farò
riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e
lo farò” (Ez 37,13-14). Se, da una parte, la profezia è riferita alla
fine dell’esilio e al ritorno a Gerusalemme, dall’altra lascia spazio
alla fede nella resurrezione intesa come azione divina che ridona la
vita.
Anche questa volta l’utilizzo del colore rosso si conferma in relazione
all’azione di Dio e ai suoi segni nella storia che, in questa vetrata,
sottolineano in modo significativo l’universalità di un messaggio di
salvezza che trova una sua particolare mediazione nel rapporto fra il
popolo di Israele e le genti. Le immagini profetiche ci mostrano infatti
come l’incontro, spesso in contesti perdenti, fra ebrei e gentili può
divenire spazio rivelativo. Significativa è la presenza in questo contesto
di due donne: Giaele e Giuditta, che rimanda a tutte le grandi donne che
hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia della salvezza, come le
mogli dei patriarchi, Miriam, Anna Deborah, Ester, Ruth, Elisabetta,
Maria … segno di una profezia che si esprime anche al femminile.
Emerge inoltre che la storia della salvezza si svela e attua nel tempo
rimanendo strettamente connessa alle vicende umane, alle scelte degli
uomini spesso contraddittorie, alternando momenti vincenti a momenti
L’universalità della creazione e la particolarità
della storia del popolo di Israele
(lato ovest)
IL PASSAGGIO
DEL MAR ROSSO
LE TAVOLE
DELL’ALLEANZA
SPEZZATE
GIUSEPPE VENDUTO
DAI FRATELLI
IL DONO DELLA MANNA
GIUSEPPE SI FA
RICONOSCERE
DIO CREATORE
LA LOTTA DI
GIACOBBE
ABRAMO E
MELKISEDEK
IL SOGNO DI GIACOBBE
TRE ANGELI
VISITANO ABRAMO
ABRAMO
È MESSO ALLA PROVA
Scena centrale:
creazione divina e conseguenze del peccato umano
La scena centrale che domina la vetrata presenta in primo piano Dio
Creatore circondato da schiere angeliche. Secondo la Scrittura l’azione
del “creare” è propria di Dio, tanto che il testo ebraico utilizza una
particolare radice verbale, che può avere come soggetto soltanto il
Signore, per distinguere il “creare” divino (bara’) dal “fare” dell’uomo
(‘asà) che può solo trasformare ciò che già è stato creato.
Particolarmente significativi sono i colori della veste e del manto di Dio:
l’azzurro e il rosso che, nell’iconografia cristiana, esprimono la
compresenza di divinità e umanità, trascendenza e immanenza. È un
esplicito richiamo simbolico al mistero dell’incarnazione, sottolineato
anche dall’aureola divina a forma triangolare che rimanda a quello
trinitario. In questa prospettiva possiamo considerare anche le mani di
Dio: la destra indica l’alto, quindi la trascendenza, mentre la sinistra è
orientata verso il basso con le tre dita centrali unite, interpretabili come
ulteriore riferimento ad una comunione trinitaria aperta alla storia.
Le schiere angeliche, che circondano Dio Creatore, richiamano un modo
tipicamente biblico di definire il Signore, là dove si dice che è il “Dio
degli eserciti”, affermazione che non va intesa nel senso di un “Dio
guerriero”, ma di un Dio circondato appunto da schiere angeliche che,
collaborando con Lui, costituiscono una mediazione della Sua
rivelazione nei confronti dell’umanità. Spesso infatti la Scrittura ci
presenta gli angeli come inviati da Dio che portano Suoi messaggi agli
uomini.
Tali schiere sono raffigurate utilizzando una simbologia particolarmente
interessante: sulla sinistra di quella centrale che circonda Dio, e che è
rappresentata secondo il canone tradizionale della figura umana alata,
compaiono altre due schiere che si presentano invece come un insieme
di figure circolari, un gruppo delle quali ha al centro un occhio luminoso
mentre l’altro, munito di piccole ali, ha al centro una corona anch’essa
luminosa.
Un possibile riferimento simbolico è al capitolo quarto dell’Apocalisse,
dove si descrive Dio glorificato sul Suo trono dalla corte celeste, che
comprende “vegliardi” seduti su seggi con corone d’oro sul capo (cf. Ap
4,4-5). A ciò si può aggiungere che l’utilizzo di forme circolari o
sferiche è abbastanza ricorrente nell’iconografia religiosa che coglie in
queste figure geometriche un simbolo di eternità: il cerchio e la sfera si
caratterizzano infatti per essere un insieme infinito di punti. La mistica
ebraica utilizza questa immagine in relazione alle sefirot, che sono una
sorta di “emanazioni divine” da intendersi nell’orizzonte di “ipostasi”
ove immanenza e trascendenza coabitano, e che esprimono la modalità
con cui Dio “entra” nella storia e sta in relazione con la medesima: sono
il segno della luce divina percepibile attraverso la materia creata, luce
che porta in sé la regalità della parola del Signore. Non a caso, ancora
oggi, il rotolo della Scrittura conservato nelle Sinagoghe e
comprendente la Torà, il Pentateuco, viene adornato con una corona che
sottolinea tale dimensione.
La raffigurazione centrale, che rimette a tema la grandezza dell’azione
creatrice di Dio, è completata da quattro pannelli più piccoli che
ripropongono la creazione di Adamo e di Eva tratta da una sua costola
come il Signore possa rivelarsi alle genti attraverso il suo popolo.
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Il profeta Isaia annuncia al re Acaz la nascita di un figlio (subito
sopra). La scena ripropone ciò che è narrato al capitolo settimo del
libro di Isaia, nella sezione denominata come “Il libro
dell’Emmanuele”, che in ebraico significa “Dio con noi”. Il profeta,
raffigurato con un mantello rosso che può essere considerato in
relazione al suo essere un portavoce di Dio, suggerisce al re Acaz
che si trova in una situazione politica difficile di chiedere un segno
al Signore. Di fronte al rifiuto del monarca Isaia annuncia che Dio
stesso darà un segno: “la vergine/giovane donna (in ebraico ‘almà
che significa “giovane donna in età da marito”) concepirà e partorirà
un figlio, che chiamerà Emmanuele” (Is 7,14). È un segno per Acaz,
probabilmente riferito al suo futuro figlio Ezechia, ma che per il
particolare nome può anche essere interpretato in prospettiva
messianica. Per questo la tradizione cristiana collega tale evento con
l’annunciazione della nascita di Gesù (cf. Mt 1,22-23; Lc 1,31). Tale
relazione è anche qui rilevabile, ma c’è di più: la donna è raffigura
con un aureola e con il capo coronato di stelle (cf. Ap 12,1), tiene in
grembo un bambino che, con le braccia aperte, rimanda alla morte in
croce, alle sue spalle vi sono due angeli. È pertanto evidente il
collegamento con il concepimento di Gesù in Maria, ma è anche
evidente quello con il suo mistero pasquale, richiamato sia dal segno
della croce che dalla duplice presenza degli angeli che rimandano a
quelli che, presso la tomba vuota, invitano le donne a “non cercare
fra i morti colui che è vivo” (cf. Lc 24,4-5).
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La profezia di Geremia su Gerusalemme (a destra del quadro
centrale, alla stessa altezza). La scena raffigura il profeta Geremia
che profetizza la distruzione di Gerusalemme e l’esilio per il popolo
(cf. Ger 13-15,9). Significativa la posizione delle braccia e delle
mani del profeta: la sinistra, rivolta verso l’alto, rimanda alla
“sinistra di Dio” che secondo la tradizione biblica è la mano divina
che giudica e castiga, mentre la destra, rivolta verso il basso, mostra
i segni di tale giudizio e può essere collegata al fuoco rosso che
distrugge. Non è tuttavia un giudizio definitivo: Dio stesso farà una
nuova Alleanza col suo popolo, nel senso che rinnoverà quella già
stipulata, e scriverà il suo insegnamento nel cuore degli uomini ai
questo gesto affinché il Signore possa convertire il cuore di chi ha
peccato contro di lui (cf. 1Re 18,27). Il sacrificio che il fuoco divino
consuma, appare pertanto un segno dal duplice significato: rivela chi
è l’unico Dio degno di lode e ristabilisce la comunione con il popolo
chiamato a testimoniarne la verità fra le genti.
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Il generale Naaman si presenta al profeta Eliseo dopo la
guarigione (subito a destra), che avviene nonostante le perplessità
iniziali dovute al singolare comportamento del profeta che, anziché
riceverlo personalmente, gli comunica cosa fare attraverso un
messaggero (cf. 2Re 5,8-14). Naaman, generale del re di Aram che
ha sconfitto gli israeliti, è malato di lebbra e ha saputo che in
Samaria c’è un profeta capace di guarire, per questo si è recato da
lui. La guarigione diventa momento rivelativo che spinge il generale
a tornare da Eliseo per dirgli: “Ebbene, ora so che c’è un Dio su tutta
la terra se non in Israele. Ora accetta un dono dal tuo servo”; ma
Eliseo, che sa di essere il mediatore di una salvezza che non gli
appartiene, risponde: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io
sto, non lo prenderò” (2Re 5,15-16). L’arameo Naaman incontra e
riconosce così il Dio di Israele attraverso il suo rapporto con Eliseo,
qui raffigurato con un mantello rosso che può essere considerato un
segno del suo essere “un uomo di Dio” (cf. 2Re 5,8 e 15).
Daniele indovina e spiega a Nabucodonosor un sogno che lo
preoccupa (a sinistra sopra Davide e Golia).
Si tratta di un particolare momento della vicenda di Daniele
deportato presso la corte del re di Babilonia assieme ad Anania,
Misaele e Azaria (cf. Dn 1-2). Il monarca ha fatto una richiesta
impossibile che li coinvolge: devono indovinare e spiegare un sogno
che lo preoccupa ma del quale non intende rivelare nulla. Se non ne
saranno capaci verranno sterminati insieme ai saggi e a tutti gli
indovini di corte. Insieme invocano Dio che svela a Daniele cosa
riferire al re: egli ha sognato una particolare statua che rappresenta
cosa accadrà al suo regno. Di fronte alle spiegazioni di Daniele,
Nabucodonosor non solo riconosce la sua saggezza ma incontra il
Dio di Israele e dice: “Certo, il vostro Dio è il Dio degli dei, il
Signore dei re e il rivelatore dei misteri, poiché tu hai potuto svelare
questo mistero” (Dn 2,47). È una significativa testimonianza di
(cf. Gen 2,7ss.), il peccato originale e la conseguente cacciata dal
giardino dell’Eden (cf. Gen 3,1ss.). Se ci si sofferma sulla creazione di
Adamo, ci si accorge che Dio è raffigurato in un atteggiamento che
richiama Gesù sotto il peso della croce, chiara allusione all’incarnazione
e al mistero pasquale. Viene così riproposta la relazione fra Adamo e
Gesù spiegata dall’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: “Come
dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la
condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su
tutti gli uomini la giustificazione che dà vita” (Rm 5,18).
Come si può notare, dall’insieme emerge un uso particolare del colore
rosso: è il colore sia del manto divino che dell’aureola del Signore nelle
due scene che mostrano la creazione di Adamo e di Eva, ed è lo stesso
colore del fuoco nelle mani degli angeli che, nell’ambito della creazione
sembra sottolineare continuità fra Dio, gli angeli e la coppia umana,
evidenziando quindi l’essere degli uomini ad immagine divina, mentre
nell’ambito della cacciata dopo il peccato sembra sottolineare il giudizio
divino di fronte all’uso scorretto della libertà umana. Emerge così la
duplice valenza del segno del fuoco nella Scrittura: può essere infatti un
fuoco rivelativo come quello del roveto attraverso il quale un angelo di
Dio parla a Mosè (cf. Es 3,2), oppure può essere un fuoco distruttivo
come quello con cui il Signore punisce il peccato di Sodoma (cf. Gen
19,23-25).
Dieci pannelli per dieci momenti-chiave della storia
del popolo di Israele
Attorno al gesto divino della creazione, che ha a che fare con
l’universalità della storia umana, si articolano dieci scene che
sottolineano invece la particolarità della storia del popolo ebraico da
Abramo a Mosè.
La tradizione ebraica individua un particolare rapporto fra la creazione
del mondo e dell’umanità e la chiamata di Abramo mettendo in
relazione le parole del primo capitolo della Genesi con quelle del
dodicesimo: se infatti consideriamo i versetti relativi al primo giorno
della creazione (Gen 1,2-5), ci accorgiamo che la parola “luce” compare
ben cinque volte, così come compare cinque volte l’espressione
“benedire/benedizione” nella pericope relativa alla vocazione del primo
patriarca (Gen 12,1-4a). Ciò starebbe a significare che all’abbondanza di
luce della creazione originaria offuscata dal peccato umano, corrisponde
un’abbondanza di benedizione, considerata come una sorta di “nuova
creazione”, che attraverso Abramo e il popolo che da lui discende deve
raggiungere “tutte le famiglie della terra”. Viene così sottolineato il fatto
che, nella testimonianza biblica, l’universalità della rivelazione si
manifesta nella storia attraverso quei particolari che Dio, secondo
l’imperscrutabilità dei suoi disegni, elegge per un servizio di
testimonianza fra le genti.
Col gesto divino della creazione ha inizio infatti una rivelazione che
avviene attraverso parole ed eventi che devono essere ascoltati e
compresi a partire dai segni che si mostrano agli uomini nel tempo. In
questo orizzonte sia l’elezione del popolo di Israele che l’incarnazione,
nelle loro reciproche implicazioni, sono particolari e unici eventi che
vanno considerati nella prospettiva del compimento della salvezza per
tutti.
Se osserviamo i dieci pannelli a partire dal basso a sinistra, che sono
accompagnati da passi biblici riprodotti nell’originale ebraico, possiamo
rilevare la seguente progressione:
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L’incontro fra Abramo e Melkisedeq. Le parole che accompagnano
il quadro sono i due nomi dei protagonisti: Abramo e Melkisedeq, il
cui nome, in ebraico Malkitzedeq, significa “il mio re è giustizia”.
Questo incontro, narrato al capitolo quattordicesimo della Genesi
(cf. Gen 14,17ss.), mostra il re-sacerdote dell’antica Shalem,
divenuta poi Gerusalemme, che benedice Abramo nel Nome del
“Dio Altissimo”. Secondo autorevoli commenti rabbinici (cf.
Bereshit Rabbà XLIII,6), tale modo di agire mostra che in questo
luogo, allora della gentilità, si venerava e si serviva l’unico Dio
Creatore, per questo è un luogo di incontro significativo fra un
autorevole gentile e Abramo, il primo patriarca.
Tre angeli visitano Abramo e gli annunciano la nascita di Isacco,
annuncio avvenuto presso le Querce di Mamre (cf. Gen 18,1-5). In
secondo piano, seminascosta dalla tenda, si può notare Sara che
incredula ride e, per questo, il figlio della promessa si chiamerà
riscatto dalle sue precedenti scelte ambigue. La sua nascita era stata
annunciata come quella di un “nazireo consacrato a Dio per liberare
Israele” (cf. Gdc 13,1-8); egli si lascia invece sedurre dalla cultura
cananea e sposa una filistea mettendosi così “nelle mani dei nemici”.
Le conseguenze tragiche dell’astuto tradimento da parte della moglie
Dalila (cf. Gdc 16,4-21), non solo lo mettono in una situazione
grottesca, ma soprattutto gli mostrano il suo peccato. Solo quando ha
il coraggio di ritornare pentito al Dio dei padri ritrova la sua forza e,
pagando di persona, sconfigge i Filistei uccidendone un gran
numero. La Scrittura commenta questo evento sottolineando che la
morte di Sansone produce più vittime di quante egli non ne avesse
fatte in vita (cf. Gdc 16,22-31). La forza sovrumana di Sansone si
manifesta così in relazione alla fedeltà al Signore e alla volontà di
riconoscere il proprio peccato. In questo contesto un segno di
avvenuta conversione può essere colto nella veste rossa che egli
indossa. Tutto ciò costituisce un insegnamento sia per il popolo di
Israele che per i Filistei.
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Davide uccide il gigante Golia (in basso all’estrema sinistra).
Famoso episodio narrato nel primo libro di Samuele, dove si
mettono in risalto il coraggio, l’astuzia e la fede di Davide ancora
ragazzo: egli infatti si offre volontariamente per accettare la sfida
lanciata dal gigante filisteo all’esercito israelita, e fa questo convinto
che il Signore, che Golia ha insultato, lo farà cadere nelle sue mani
mostrando a tutti che il Dio di Israele “non salva per mezzo della
spada” (cf. 1Sam 17,32-54). È in seguito a tale evento che il re Saul
decide di tenere Davide con sé a corte (cf. 1Sam 17,55-18,2).
Probabilmente Saul è il personaggio esultante raffigurato a destra di
Davide vittorioso, il manto rosso che indossa potrebbe essere un
segno della sua regalità che, come per ogni re di Israele, viene
compresa in relazione ad una unzione divina.
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Il profeta Elia invoca dal cielo il fuoco di Dio (a destra di Davide e
Golia), che domina il centro della scena con grandi fiamme rosse.
Anche questo è un episodio noto: Elia, sul monte Carmelo, mostra a
tutti la grandezza e l’unicità del Dio di Israele che, rispondendo alla
sua invocazione, rivela la falsità dei profeti di Baal (cf. 1Re 18,2040). La narrazione biblica precisa inoltre che il profeta compie
Isacco, in ebraico Jischaq, che significa “ha riso”. Le parole del
versetto biblico sovrastante sono la risposta del Signore di fronte a
tale reazione: “Qualcosa è impossibile per JHWH?” (Gen 18,14).
Compare qui il tetragramma JHWH, che indica il Nome proprio del
Dio di Israele, che non si vocalizza e non si pronunzia per rispettarne
la trascendenza, cioè la sua inafferrabilità totale da parte dell’uomo.
Tuttavia, tale dimensione “altra” non impedisce al Signore di
mostrarsi e di agire nel mondo da lui creato attraverso parole ed
eventi, espressi in ebraico con l’unico termine davar che comprende
entrambi i significati. La Scrittura sottolinea così che questa nascita
va compresa come un prodigio che Dio compie, nonostante la
sterilità di Sara e l’età avanzata di Abramo, un vero e proprio
miracolo affinché la promessa possa realizzarsi. Se osserviamo poi i
colori degli abiti, ci accorgiamo che Abramo ha un mantello rosso
mentre Sara è vestita di azzurro: insieme rimandano ai colori della
veste e del manto di Dio, segno che permette di stabilire una
relazione con l’essere ad immagine Sua come coppia che, in questo
contesto, partecipa in maniera significativa alla storia della salvezza.
nei limiti del possibile, le sequenze della narrazione biblica. A questo
proposito, partendo dall’alto a sinistra, ci soffermeremo inizialmente
sulle scene che, ai quattro angoli, presentano quattro gesti violenti
connessi a particolari messaggi; successivamente considereremo le altre
sei scene. Le scritte in ebraico che accompagnano ogni quadro indicano
il nome del personaggio rappresentato.
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Giaele uccide il generale nemico Sisara (in alto all’estrema
sinistra). Sulla scena si può notare Giaele che mostra a Barak il
corpo senza vita di Sisara, confermando ciò che la profetessa e
giudice di Israele Deborah gli aveva preannunciato: “Il Signore
metterà Sisara nelle mani di una donna” (Gdc 4,9). Tutta la
narrazione della vicenda sottolinea il ruolo vincente dell’astuzia
femminile (cf. Gdc 4,1ss.), tuttavia la Scrittura testimonia che questo
evento viene compreso e celebrato come azione diretta di Dio a
favore della salvezza del suo popolo, come si può rilevare dal
cantico di Deborah a cui Barak si associa, nel quale si loda JHWH
proclamando le sue vittorie (cf. Gdc 5,1ss.). In questa prospettiva è
significativo che Barak indossi un mantello rosso.
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Giuditta uccide Oloferne (in alto all’estrema destra). La scena
rappresenta anche in questo caso l’azione astuta e coraggiosa di una
donna, Giuditta, che riesce ad uccidere il generale dell’esercito di
Nabucodonosor che sta terrorizzando con la sua ferocia il popolo di
Israele. Il modo con cui la Scrittura celebra la potenza di Dio che
attraverso di lei si manifesta, sottolinea una particolare relazione con
il suo comportamento “retto davanti a Dio” (cf. Gdt 13,17-20).
Questa donna è infatti definita come una vedova dalla condotta
irreprensibile che teme il Signore e osserva i suoi insegnamenti (cf.
Gdt 8,1-8), capace di mettere a rischio la vita per la salvezza del suo
popolo. Il rosso del sangue di Oloferne, che macchia il telo bianco
nella mano sinistra di Giuditta, crea un contrasto significativo dal
punto di vista simbolico: può essere interpretato come il segno della
purezza di una vita integra (bianco) che permette alla giustizia di
Dio (rosso) di manifestarsi.
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Sansone uccide i Filistei e muore (in basso all’estrema destra).
Questo gesto, che gli costa la vita, costituisce in qualche modo un
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Abramo è messo alla prova. Le parole che accompagnano la
raffigurazione sono quelle con cui Dio chiede ad Abramo il
sacrificio di Isacco: “Offrilo là (sul Moria) in olocausto”(Gen 22,2).
L’importanza di questo sacrificio sta proprio nel suo essere non
compiuto, segno che il Dio di Israele mette alla prova ma non vuole
sacrifici umani. Sulla scena sono visibili sia l’angelo che ferma il
patriarca che l’ariete offerto in olocausto al posto di Isacco. Come si
può inoltre notare, in tutte e tre le scene Abramo compare con un
mantello rosso, segno che può essere interpretato come il richiamo
alla dimensione rivelativa che la sua vicenda mostra.
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Il sogno di Giacobbe (immediatamente sopra), il passo biblico di
riferimento ripropone le parole del patriarca successivamente alla
visione degli angeli di Dio che salgono e scendono dalla scala che
unisce cielo e terra: “Quanto è terribile (questo) luogo” (Gen 28,17),
terribile nel senso che è segno di un mistero divino. Come si può
notare, Dio è qui rappresentato, al culmine della precessione
angelica, in modo analogo a quello con cui compare nella scena
centrale della creazione ma con una variante simbolica interessante:
la figura è molto piccola rispetto agli altri personaggi ed è
nell’atteggiamento di Colui che soffia il suo Spirito verso la terra. Se
inoltre osserviamo le sue mani, ci accorgiamo che la destra è
appoggiata alle labbra mettendo in evidenza il dito indice e medio
uniti, simbolo che nell’iconografia cristiana indica sempre l’unione
della natura divina con quella umana, mentre la mano sinistra, come
nel quadro della creazione, mostra con le dita centrali il numero tre
rimandando al mistero trinitario. Si può pertanto cogliere una
relazione fra il sogno di Giacobbe e l’incarnazione. La
raffigurazione di tale sogno è posta inoltre accanto a quella del
sonno di Adamo durante il quale avviene la creazione di Eva, fatto
che ci permette un’altra associazione simbolica: secondo la
narrazione biblica, la donna è stata tratta dall’uomo affinché fosse
possibile una relazione fra essere umani diversi e complementari (cf.
Gen 2,21-24); la tradizione ebraica commenta tutto ciò sottolineando
che se tale relazione è d’amore autentico è un segno di Dio e della
sua presenza nella storia, mentre se avviene nel segno dell’egoismo
e del peccato è “come un fuoco” che consuma i due (cf. Talmud
Babilonese, Sotah17a). In altri termini: quando la relazione uomodonna mostra la santità di una reciprocità donata è come la scala del
sogno di Giacobbe che unisce terra e cielo.
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La lotta di Giacobbe con l’angelo inviato da Dio (alla stessa altezza
a sinistra), accompagnata dalle parole con cui gli viene posto un
nome nuovo che, secondo la tradizione biblica, è segno di un nuovo
destino: “Non (sarai) più Giacobbe ma Israele” (Gen 32,29). In
ebraico Giacobbe significa “inganno”, caratteristica che ha
accompagnato fino a questo momento la vicenda del patriarca che,
ingannando, ha carpito la primogenitura al fratello Esaù e si è
arricchito per sposare le figlie di Labano che, a sua volta, aveva
ingannato lui (cf. Gen 27,1ss.; 29-30). Il nuovo nome Israele, che
Giacobbe riceve dopo essere stato ferito dell’angelo a causa della
sua forza, può essere interpretato sia in senso strettamente letterale:
“colui che vede Dio”, oppure così come spiegato dal testo biblico
stesso: “colui che ha lottato con Dio e ha vinto”. Questo è il nome
che ancora oggi designa il popolo della promessa che vive
l’Alleanza, dinamica secondo la quale si può essere anche in
rapporto dialettico con Dio. Sullo sfondo emerge poi un’altra scena
secondo la promessa. Tutto ciò costituisce un “segno di salvezza”
che si irradia positivamente fra i popoli, come ben sottolineato da
Elia Benamozegh, rabbino a Livorno nella seconda metà del 1800 e
autore di un importante saggio sui rapporti fra Israele e l’umanità,
ecco cosa scrive nel medesimo: “Il vero spirito dell’ebraismo si
manifesta chiaramente quando proclama che esistono, tra i gentili,
uomini giusti amati da Dio, i cui meriti fanno la prosperità delle
Nazioni. Non è soltanto Giobbe che i dottori citano come il giusto
per eccellenza” (E. BENAMOZEGH, Israele e l’umanità, p.209). I
“giusti fra le Nazioni”, chiamati anche “timorati di Dio”, sono
quindi coloro che insieme al popolo di Israele testimoniano
l’orizzonte universale della salvezza rivelata nella Scrittura e, non a
caso, sono menzionati anche dall’evangelista Luca negli Atti degli
apostoli sia in riferimento alla Pentecoste che all’incontro fra Pietro
e il centurione romano Cornelio (cf. At 2,11 e 10,2 e 22).
Dieci pannelli per dieci momenti di profezia universale
Attorno alla scena centrale e ai suoi segni universali di salvezza, si
articolano dieci pannelli più piccoli che ripropongono dieci momenti
profetici particolarmente significativi. È infatti attraverso la profezia che
la Scrittura testimonia e sviluppa l’universalismo comunque già presente
nella Torà, l’insegnamento divino rivelato al Sinai. La scelta comprende
sia i profeti maggiori che quelli minori, ma anche Davide, Sansone e
Giaele che, nel canone biblico cristiano cattolico, sono personaggi che
appartengono a libri considerati storici. Dal punto di vista ebraico
tuttavia, i libri storici fanno invece parte della sezione profetica, in
quanto sono la testimonianza di una storia vissuta e compresa come
storia di salvezza, motivo per cui anche il canone biblico protestante ha
preferito non estrapolarli dalla profezia. In questo contesto fanno
eccezione il pannello dedicato a Daniele, che il canone ebraico e
protestante collocano fra gli scritti agiografico-sapienziali, e il pannello
dedicato a Giuditta, il cui libro è entrato tardivamente nel canone biblico
cattolico ma non compare né in quello ebraico, né in quello protestante.
In ogni caso la scelta dell’artista, nel suo insieme, lascia trasparire un
orizzonte ecumenico di ampio respiro nel quale sono collocati segni e
simboli universali. Vediamoli dunque nel dettaglio cercando di seguire,
Il “segno dell’arco” è particolarmente significativo nella Scrittura:
innanzitutto segue la decisione di Dio di “non maledire più la terra a
causa dell’uomo” (cf. Gen 8,21); inoltre è connesso ad un momento
dell’Alleanza fra il Signore e l’umanità che è in questo caso
rappresentata da un uomo “giusto e integro” che non appartiene al
popolo di Israele, in quanto tutto ciò precede la storia di Abramo, segno
quindi di una prospettiva universale che verrà ribadita sia dalla chiamata
del primo patriarca (cf. Gen 12,14a) che da tutta la profezia; infine
questo è un segno sia per l’uomo che per Dio il quale, guardandolo ogni
volta che comparirà fra le nubi, ricorderà l’Alleanza eterna stabilita
attraverso Noè con “ogni carne che è sulla terra” (cf. Gen 9,14-17). Un
segno naturale che esprime dunque un particolare legame fra il Signore
e la storia, un impegno di pace che, come sottolineano alcuni commenti
della tradizione rabbinica, risulta così legato ad un potenziale strumento
di guerra: l’arco munito di corda è quello che il guerriero usa per
scagliare frecce di morte, l’arco fra le nubi invece non ha corda, quindi
non può scagliare frecce e non può uccidere, per questo può essere
messo in relazione ai segni messianici della profezia di Isaia:
“Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo
non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più
nell’arte della guerra” (Is 2,4).
La tradizione ebraica individua inoltre nel patto fra Dio e Noè un
interessante prospettiva universale nel segno del rapporto fra il popolo
di Israele e le genti che vale la pena ricordare. Secondo la medesima,
l’unica rivelazione Sinaitica comprenderebbe un insegnamento divino
rivelato in duplice forma: 613 precetti, che costituiscono la prassi
religiosa particolare per il popolo di Israele, e 7 precetti per i non ebrei
definiti come “i precetti di Noè” o noachidi, in quanto sarebbero stati
dati da Dio a questo “uomo giusto” dopo il diluvio (cfr.: Gen 8,21-9,17).
Tali precetti, nella loro rielaborazione rabbinica, costituiscono una sorta
di minimum di obblighi religiosi ai quali i “giusti come Noè” presenti in
ogni Nazione possono attenersi per camminare con Israele. Tale
prospettiva implica che ci sia una relazione positiva fra i gentili e il
popolo ebraico che, in forme diverse, accolgono e vivono un’unica
rivelazione che ha come obiettivo finale la stessa meta, la stessa
salvezza, riconoscimento che fa parte del “benedirsi” in Abramo
che
sembra
rimandare
all’incontro
rappacificatore
fra
Giacobbe/Israele ed Esaù (cf. Gen 33,1-11), nella quale il patriarca è
vestito di rosso, segno che può essere interpretato in relazione
all’esperienza della precedente “lotta vincente con Dio”.
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Giuseppe venduto dai fratelli (immediatamente sopra), le parole che
accompagnano la scena sottolineano: “e vendettero Giuseppe” (Gen
37,28). L’immagine ci rimanda dunque agli ultimi capitoli della
Genesi, che fanno da cerniera con l’Esodo narrandoci la vicenda di
Giuseppe in Egitto seguita dalle benedizioni di Giacobbe sui figli
prima della morte. Anche in questo caso una significativa
associazione simbolica: la scena, che mostra il peccato dei figli di
Giacobbe nei confronti del fratello Giuseppe, sta accanto a quella del
peccato originale.
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Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli (alla stessa altezza a destra),
il passo biblico riportato ripropone il momento in cui Giuseppe dice:
“Sono io, Giuseppe, vostro fratello” (Gen 45,4), che culmina
nell’abbraccio segno del perdono per quanto è avvenuto. Tutto ciò si
contrappone simbolicamente alla cacciata dall’Eden accanto a cui
questa scena è posta: tale cacciata non è una condanna definitiva
perché Dio promette la sconfitta del male (cf. Gen 3,15) ed è pronto
a perdonare il peccatore pentito (cf. Is 1,18; Sal 65,4), motivo per
cui anche l’uomo può perdonare le offese ricevute. Ogni perdono
umano è quindi segno della misericordia divina e, in questa
prospettiva, si può considerare il colore rosso della cintura di
Giuseppe.
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Il passaggio del Mar Rosso (in alto a sinistra), significativamente
sottolineato dalle parole del cantico attribuito a Mosè: “JHWH è il
suo Nome, è stato per me salvezza” (cf. Es 15,2-3). In nome della
promessa fatta ad Abramo Dio libera dalla schiavitù il suo popolo
che, guidato da Mosè, passa il Mar Rosso ed inizia il cammino nel
deserto verso la Terra promessa. È un momento decisivo e unico
nella storia della salvezza a partire dal quale va compreso anche il
mistero pasquale che in Gesù si compie. Come si può notare Mosè,
che svolge un ruolo-chiave in relazione all’azione liberatrice di Dio,
è vestito di rosso.
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Il dono della manna nel deserto (in alto a destra), sottolineato dalla
parole di Mosè che spiega al popolo: “È il pane che ha dato JHWH”
(Es 16,15). È il segno dell’amorevole provvidenza divina che nutre e
sostiene durante il cammino. Un dono di cui Dio stesso spiega le
modalità di consumazione: deve infatti essere raccolto in base alle
necessità giornaliere di ciascuno e, nel sesto giorno della settimana,
in misura doppia al fine di poter osservare il riposo sabbatico,
pertanto chi cerca di farne scorta lo vede imputridire (cf. Es 16,1630). In questo modo il popolo impara a non sentirsi proprietario ma
amministratore secondo giustizia dei doni divini per tutti.
Significativo è che, in questo contesto, un mantello rosso distingua
un israelita che raccoglie la manna secondo le indicazioni di Dio
sotto lo sguardo vigile di Mosè.
Le tavole dell’Alleanza spezzate e il vitello d’oro (in alto al centro),
accompagnate dalle parole: “Mosè scagliò dalle mani le tavole” (Es
32,19). Mentre Mosè è sul monte al cospetto di Dio, il popolo
costruisce il vitello d’oro; il peccato consiste nell’aver voluto
raffigurare il Signore sotto le sembianze di un essere vivente,
violando così il secondo comandamento che vieta di farsi immagini
di Lui (Es 20, 4-5). Per questo Mosè decide di spezzare le tavole
della Torà, l’insegnamento divino rivelato al Sinai, gesto col quale
mostra al popolo che il peccato rompe il patto di Alleanza con Dio;
tuttavia, certo della misericordia divina, ritiene anche di dover
mediare il perdono presso il Signore a favore di tutti gli israeliti (cf.
Es 32,30-35). Significativo al riguardo è il suo vestito rosso.
Il colore rosso è dunque emerso come una sorta di filo conduttore di
tutta la vetrata che sottolinea l’agire di Dio e i suoi segni nella storia
spesso mediati da figure-chiave. Riconsiderando inoltre nel loro insieme
tutti gli elementi analizzati, appare con una certa evidenza come
l’universalità dell’azione creatrice di Dio stia in significativo rapporto
con un promessa di salvezza che si attua nella storia in stretta
connessione con la testimonianza del popolo di Israele, quel popolo che,
come ricorda l’apostolo Paolo, rimane il popolo della promessa caro al
Signore, poiché l’elezione divina è un dono irrevocabile (cf. Rm 9-11).
La prospettiva universale dell’Alleanza
testimoniata da Noè e dai profeti d’Israele
(lato nord)
Giaele uccide Sisara
Isaia annuncia
una nascita
Daniele e
Nabucodonosor
Davide uccide
Golia
Costruzione dell’Arca
Alleanza di Dio con
Noè
dopo il diluvio
Elia e il fuoco
di Dio
Eliseo e
Naamàn
Giuditta uccide
Oloferne
Profezia di Geremia
Visione di Ezechiele
Sansone uccide
i Filistei e muore
Scena centrale:
l’Arca dei salvati e il segno dell’Alleanza fra Dio e Noè
La scena che domina la vetrata, comprendendo sia il riquadro centrale
che il pannello immediatamente superiore, presenta la tragedia del
diluvio universale, conseguenza del peccato dell’umanità, alla quale si
contrappone l’Arca dei salvati assieme a Noè, definito dalla Scrittura
come “uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei” capace di
“camminare con Dio” (Gen 6,9), caratteristica che può essere messa in
relazione alla tunica rossa che indossa. La scena, nel suo insieme,
ripropone i momenti e i simboli più significativi testimoniati nella
Genesi in rapporto a questo evento (Gen 6-9): Noè che, assieme ai figli,
costruisce l’Arca secondo le indicazioni del Signore (cf. Gen 6,14-16);
l’azione distruttrice delle acque del diluvio mandato da Dio che fanno
perire ogni essere vivente (cf. Gen 7,24); la colomba inviata da Noè
fuori dall’Arca che, ritornata con nel becco un ramo di ulivo, è per lui
segno del ritiro delle acque dalla terra (cf. Gen 8,6-12); l’arcobaleno o,
più biblicamente, “l’arco nelle nubi”, segno dell’Alleanza fra Dio e Noè
a favore di tutti gli uomini e di tutti gli esseri viventi (cf. Gen 9,8-17).