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Monitor: Libri - QT n. 6, giugno 2015
Storia intima della Grande Guerra. Lettere, diari e
memorie dei soldati dal fronte.
Lettere dal fronte. Quinto Antonelli. Con un dvd del film di Enrico Verra “Scemi di guerra”. Roma, Donzelli,
2014, pp. XVIII-312, euro 32.
di Carlo “Tòs” Dogheria
L’interesse per la scrittura popolare, soprattutto di guerra, si è intensificato negli ultimi trent’anni, e nel recupero di
testimonianze l’apporto degli storici trentini è stato importante. La “Storia intima della Grande Guerra” di Quinto Antonelli
- un po’ il capofila di questi studiosi - è una corposa, appassionante antologia di lettere, diari e memorie lasciati per lo più da
soldati semplici o di basso grado, dunque una scrittura davvero popolare, in certo modo più autentica dei testi prodotti da
intellettuali o semplicemente ufficiali, i quali, più o meno consapevolmente, si rivolgevano ad un pubblico di lettori. Qui i soli
interlocutori sono i famigliari e la sincerità è più garantita.
Lingua e sintassi sono spesso scorrette; eppure, nota l’autore, vi si avverte “una tensione, uno sforzo (che ha del grandioso) di
abbandonare il dialetto e il mondo dell’oralità per avvicinarsi alla scrittura dell’italiano”.
È un libro specialistico ma alla portata di tutti, una lettura appassionante e un prezioso strumento didattico: un racconto
collettivo con un ricco apparato di introduzioni ai vari capitoli, che si dipana per tappe che cominciano con la partenza da
casa e attraversano i vari momenti dell’avventura, passando per le trincee, i bombardamenti, gli assalti.
Al principio, la mobilitazione di massa: è il 1° agosto 1914 (per il Trentino la guerra è già cominciata) e l’artigiano Giuseppe
Lunelli annota: “Tutti lessero il manifesto e tutti restarono aviliti e pieni di compasione io pure restai molto mal contento
andai subito a casa a mettere il tutto all’ordine e con buone parole consolavo tutti i miei di casa”. Dunque si parte, con la
progressiva scoperta di un altro mondo: per il rivano Umberto Artel è la desolazione della Russia: “Ovunque impronte di
immondizie. Gli abitanti, sporchi e sudici quanto mai, emanano un’acre odore nauseabondo, fanno schifo. Le case fatte di
pantano con tetti di paglia. Le donne mezze ignude con le gambe nere e luride”.
Presto cominciano gli orrori: “Uno spettacolo barbaro si presentò ai nostri occhi! Appiccati alle travi di una capanna 14
civili d’ogni età penzolavano morti. Seppi che avevano sparato alle spalle dei nostri soldati e perciò li avevano condannati a
morte”.
Un’altra sgradevole scoperta la fanno - su un altro fronte - gli italiani penetrati nelle “terre irredente”, dove lo smarrimento
degli abitanti viene interpretato come ostilità: “Voi trentini siete tutti austriacanti!” - diceva un generale. Una sensazione che
favorì tra i militari italiani atteggiamenti prevaricatori, con saccheggi e inutili devastazioni.
E infine la guerra guerreggiata.
Le trincee: “Poco più profonde di un metro, coperte di frasche e con poca terra, e tante volte ci cadono addosso che le
frasche non reggono al peso, e sono così strette che non possiamo allungare le gambe..., per letto un po’ di paglia fradicia di
puzza, e i pidocchi brulicano sui nostri panni come i vermi in una carogna”.
L’ossessione dei bombardamenti, con “alberi lanciati in aria frammenti di corpi umani zolle di terra, macigni... Ecco
la guerra moderna! Superiore ad ogni tentativo di umana difesa... Basta non voglio seguitare”.
“Ci guardavamo tutti inorriditi. Era uno spavento. La terra tremava tutta. Dio mio, basta, basta, speriamo di finirla presto
e che presto venga la S. Pace”.
“Cose inconcepibili. Il Carso non esiste più, la terra trema, vacilla, è un terremoto continuo”.
Gli assalti: “Qual estrazio, di cuore fu in quel momento... dover alzarsi, e andar alla baionetta, cioè sotto tutti quei fuochi
fra quei urli, e spasimi, e dover battersi a sangue freddo, si da vicino con gente ingonosciuta per difendere un capricio
altrui...”.
I morti insepolti: “Io mi faceva molto scrupolo di vedere un morto ma invece cua cio dormito 3 giorni fra i cadaveri che
puzzano”.
“Dove si vedeva un teschio, dove uno stinco, una spina dorsale, uno scheletro intero; e pure non c’era chi si interessava di
farli raccogliere e seppellire”.
“Alla vista di questi morti abbandonati ed insepolti mi sentii stringere il cuore e piansi di compazione, e dissi: guarda la
civiltà moderna a che punto arriva, non si rispettano più nemmeno i poveri morti”.
La dignità perduta: “In quei momenti non ci si stima più per cristiani: quando lì ci bisognava di orinare, non si
rispettava l’acqua del fiume, ansi era il piacere di vederla chioccare nell’acqua; ma poi quelli che avevano sete prendevano
quelle belle tazze d’acqua turbola di tanti sapori si beveva come birra non si cura più niente in quei momenti!”
È una spersonalizzazione, uno stravolgimento della personalità che può condurre anche degli esseri miti a provare quasi
piacere nell’uccidere: “Cara Madre... se vedeste che divertimento quando si vede qualche austriaco alzar la testa dalle sue
trincee gli facciamo tutti fuoco contro di lui”. Salvo poi conservare dell’azione commessa un ricordo angosciato, soprattutto
quando lo scontro è stato ravvicinato: “L’immagine di quel giovanetto che impallidì sotto i miei colpi e allargò le braccia
lasciando cadere il fucile... mi si presenta continuamente alla vista e molte notti lo sogno”.
Il grande freddo: “Non è possibile... di poter scorgere uno stratto di terreno, una pianta, qualche uccello, niente di tutto
ciò ma solamente noi che non si aveva la sembianza umana, vestiti di bianco con maschera sempre in viso in questo oceano
di ghiaccio, fuori dal mondo, fuori da tutte le cose di questo mondo”.
La posta. In Italia le lettere e cartoline da e per il fronte e tra un fronte e l’altro, nel corso degli anni di guerra, furono circa 4
miliardi. Un’enormità, anche se decisamente meno di quanto scrissero i francesi, i tedeschi o gli austro-ungarici, per i quali,
d’altronde, la guerra durò quasi un anno in più; e poi l’analfabetismo in Italia riguardava quasi il 40% della popolazione (ma
comunque si trovava sempre chi scrivesse per te). È una scrittura che serviva a mantenere i legami con la famiglia, con gli
affetti, col mondo di “prima”. “Quando mi scrivete - si raccomanda Celeste Paoli di Denno - fatemi sapere qualche cosa di
nuovo come state come ve la passate cosa pensate, se fioca se fa bel tempo, non mi dicete mai niente, scrivete sempre una
semplice cartolina, non mi date mai nessuna notizia, anche le mie sorele che se non fossero capaci pazienza ma è il suo
mestiere a scrivere, dunque scrivete più di spesso e più a lungo, che quando ricevo un vostro scritto mi consolo”.
La protesta, quando si esprime negli scritti, è indirizzata soprattutto contro due obiettivi: i superiori, arroganti e troppo
severi, e i giornali, che della guerra danno una visione edulcorata influenzando l’opinione pubblica: “Capirai a noi qua si
divora la rabbia nel sentire che in Italia fanno delle feste perla presa di Gorizzia e suonare le campane si dovrebbero
vergognare”- lamenta il romagnolo Cesare Menghi. L’abruzzese Francesco Giuliani fa invece delle considerazioni di ordine
psicologico: “Io non ho stima né simpatia per quelli che sono i coraggiosi eroi; in guerra tutti quelli che vi sono distinti come
eroi sono assassini, il vero eroe è quello che mette in pericolo la propria vita per salvare quella degli altri”. In qualche caso
lo scontento è politicizzato e si esprime con considerazioni sulle vere cause del conflitto e sul come arrivare alla pace: “Non si
sente che le medesime parole sui giornali - scrive il roveretano Giovanni Pederzolli. - Guerra fino a Pace onorevole. Ma
perché fare la guerra per conquiudere poi una pace tanto sanguinosa? Vittoria, gridano tutti: Vittoria! Per chi poi questa
vittoria sii più sanguinosa, lo sanno le lande sperse della Russia, le verdi campagne Francesi, i monti nevosi del Trentino e
le caverne del Carso”. Tutte proteste bloccate dalla censura, quando non perseguite penalmente.
La fuga da tanti orrori poteva essere la diserzione (verso casa più che tra le file nemiche) o l’autolesionismo; col risultato che
nei quattro anni di guerra un soldato su 12 finì sotto processo. Duilio Faustinelli, di Ponte di Legno, ci prova e ci riprova:
lamenta malesseri inesistenti, si mette del tabacco fra le ascelle, si prende a bastonate un piede, ingerisce della polvere di
cartucce mescolata nel brodo... Non ne ricava più che pochi giorni di riposo, ma forse evita qualche azione, e ha la fortuna di
non finire fucilato.
L’altro modo - involontario - di uscire dall’incubo era la malattia mentale, che sopraggiungeva quando le risorse per resistere
a quella vita erano esaurite. A quest’ultimo aspetto è soprattutto dedicato il dvd allegato al libro, col film di Enrico Verra
“Scemi di guerra”, perfetto accompagnamento visivo alle testimonianze riportate da Antonelli, con un’attenzione particolare,
appunto, allo sconvolgimento che le esperienze vissute produssero nelle menti di tanti soldati; e i filmati più sconvolgenti
sono paradossalmente quelli “scientifici”, ad uso interno, che mostrano, questi poveretti nelle manifestazioni corporee dei
loro incubi, ripresi quasi fossero cadaveri in una sala anatomica, con i medici che, sorridendo orgogliosi e soddisfatti,
mettono in funzione i loro orribili trattamenti elettrici, ultimo trovato di una presunta modernità.