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La legge di Rabat nel Sahara occidentale
di Eugenio Roscini Vitali
Mentre il popolo sahrawi reclama giustizia e libertà, Rabat fa un altro passo
indietro e in tema di diritti umani mette il veto agli stranieri che vogliono
accedere ai territori occupati nel 1975. La denuncia è di Human Rights Watch
(HRW) che parla di forze dell’ordine che il 19 ottobre 2009, in Sahara
occidentale, avrebbero più volte impedito ad un gruppo di avvocati e
giornalisti spagnoli di avere contatti con i personaggi politici che vivono
nell’area sotto influenza marocchina. Cinque i casi registrati
dall’organizzazione newyorkese: violazioni della libertà e dei diritti
fondamentali che le autorità magrebine hanno motivato asserendo che per
questo tipo di incontri è necessario un permesso speciale rilasciato dagli uffici
competenti. Una prassi del tutto nuova, che apparentemente non ha alcun
riscontro nella legge ordinaria dello Stato nord africano e che si va ad
aggiungere alle restrizioni patite dalla stessa popolazione sahrawi che abita il
“protettorato”, come nel caso dei sette attivisti politici fermati ed arrestati l’8
ottobre scorso mentre rientravano da una visita fatta ad un gruppo di
connazionali che vivono in uno dei campi profughi situati oltre frontiera, nella
provincia algerina di Tindouf. Secondo Joe Stork, vice direttore di HRW il per
Medio Oriente e per l’Africa settentrionale, le nuove regole sono un fatto
estremamente grave, soprattutto per un governo come quello di Rabat che
vanta l’applicazione di norme trasparenti e democratiche; un’ulteriore
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irrigidimento nei confronti delle Risoluzioni proposte dalle Nazioni Unite per
mettere fine al cosiddetto “conflitto del Sahara Occidentale”.
Nel report 2009 sul Regno del Marocco,
Amnesty International parla di limiti sul
diritto alla libertà di espressione, di
associazione e di riunione e riscontra un
uso eccessivo della forza come evidente
incapacità delle autorità di dare attuazione
ad una delle principali raccomandazione
della Commissione equità e riconciliazione
(IER) voluta dallo stesso Re Mohammed VI,
un comitato istituito il 7 gennaio 2004 per far
luce sulle gravi violazioni dei diritti umani
commesse tra il 1956 e il 1999. Pura teoria,
perché in realtà quanto critica continua ad
essere la situazione lo dimostrano i fatti dello scorso 19 ottobre: impedire ai
rappresentanti delle organizzazioni umanitarie e alla stampa straniera ogni
contatto con gli attivisti sahrawi significa mantenere uno status quo che
favorisce gli interessi economici di Rabat senza comunque dare spiegazioni
sulla tragedia di un popolo condannato a subire.
C’è poi il rapporto con la giustizia, difficilissimo se non addirittura impossibili
per coloro che sostengono le rivendicazioni sahrawi all’autodeterminazione.
Malgrado le innumerevoli denunce, nel Paese nord africano i casi di tortura e
di maltrattami non hanno infatti un adeguato accesso alla giustizia e i
giornalisti e i difensori dei diritti umani che esprimono opinioni che
contrastano con le posizioni del Sovrano o con l’azione del governo vengono
sanzionati duramente; le autorità marocchine continuato ad arrestare,
detenere e espellere migliaia di cittadini sahrawi e gli attivisti che si
oppongono alle istituzioni sono oggetto di vessazioni e persecuzioni
giudiziarie.
Anche se è in contrasto con quanto deciso
nel 2004, e cioè l’aver voluto un organo di
garanzia e di controllo come l’IRE, il recente
giro di vite sull’ex colonia spagnola porta
proprio la firma dell’Agellid del Marocco. In
occasione del trentaquattresimo anniversario
della Marcia verde, il Re Mohammed VI ha
infatti chiesto al popolo magrebino di “opporsi
ai complotti orditi contro la marocchinità del
Sahara”; attraverso i media, il Sovrano ha
invitato le autorità ad agire con la massima
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fermezza contro “gli avversari dell’integrità territoriale” ed ha dichiarato che “o
si è patrioti o traditori”. Un segnale per ricordare che l’operazione Al Massira
iniziata il 6 novembre 1975 era, ed è rimasta, quella voluta dal padre Hassan
II, la conquista di una terra che il Marocco ha sempre ritenuto parte integrante
del territorio nazionale e sulla quale ora esercita, de facto, un controllo
assoluto. Come depositario e garante dell’unità nazionale e dell’integrità
territoriale, Mohammed VI ha inoltre ordinato più vigilanza e più mobilitazione
per “contrastare, con la forza della legge, ogni attentato alla sovranità della
nazione e per preservare, con tutta la fermezza necessaria, la sicurezza, la
stabilità e l’ordine pubblico che costituiscono l’unica garanzia per l’esercizio
delle libertà”.
Al centro dell’attenzione dei servizi di sicurezza ci sono innanzitutto gli attivisti
sahrawi per i diritti umani, i più scomodi per il governo marocchino. Vessati e
minacciati, i militanti delle organizzazioni non governative sono oggetto di
ogni sorta di limitazione, da quella di movimento alla quella della libertà
personale. Numerosi i soprusi e i casi di violenza denunciati da Amnesty
International e dalle altre associazioni presenti sul territorio. La scorsa estate,
ad esempio, le autorità hanno negato a Brahim Sabbar, presidente
dell'Associazione sahrawi delle vittime delle violazioni dei diritti umani
(Asvdh), l’autorizzazione a visitare le zone di Laayoune, località dove il 17
giugno del 2006 era stato arrestato insieme ad un altro attivista, Ahmed Sbai.
I due, di ritorno da una visita al villaggio di Boujdour, erano stati fermati ed
accusati di disobbedienza nei riguardi di un ufficiale della polizia e per questo
condannati ad un anno di reclusione, pena che per Sabbar vedrà raddoppiata
a causa di una rivolta carceraria nella quale sarebbe stato coinvolto.
Nell’ottobre 2008, Yahya
Mohamed El Hafed Iaazza,
membro del Collettivo dei
difensori dei diritti umani sahrawi
(Codesa), è stato giudicato e
condannato a 15 anni di carcere
perché ritenuto colpevole di
comportamenti violenti e
partecipazione a una protesta
anti-governativa svoltasi nel
Marocco meridionale. Per la
stessa manifestazione, nella
quale risulterebbe essere morto
un poliziotto, altri otto imputati hanno ricevuto condanne fino a quattro anni di
reclusione. C’è poi il caso di Ennaama Asfari, co-presidente del Comitato per
il rispetto delle libertà e i diritti umani nel Sahara Occidentale (Corelso) che il
14 agosto scorso, a circa 20 chilometri da Tan-Tan, è stato arrestato e
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denunciato per resistenza a pubblico ufficiale. Da quanto riportato dalla
fondazione irlandese Front Line, Asfari si sarebbe rifiutato di rimuovere dal
suo portachiavi una medaglietta raffigurante la bandiera della Repubblica
Araba Sahrawi Democratica e per questo sarebbe stato maltrattato.
Processato il 29 agosto, Asfari è stato condannato a quattro mesi di
reclusione e ad una ammenda di 3000 dirham, una cifra equivalente a circa
263 euro.
Sono centinaia i sahrawi attualmente in carcere, uomini e donne arrestati per
aver svolto attività politiche, distribuito materiale favorevole al Fronte Polisario
o per aver manifestato contro il dominio marocchino nel Sahara occidentale.
Molte le denuncie di torture e maltrattati subiti durante gli interrogatori, con
confessioni estorte e poi utilizzate come prove decisive per i verdetti di
condanna. E se per un certo periodo si era assistito ad un tentativo di
normalizzazione dei processi, la decisione presa dalle autorità nei riguardi dei
sette sahrawi (sei uomini e una donna) arrestati l’8 ottobre scorso riporta
l’orologio indietro di almeno vent’anni. Fermati mentre sbarcavano a
Casablanca da un volo proveniente da Algeri, i sette attivisti sono stati
accusati di collaborazionismo con il nemico e di attentato alla sicurezza dello
Stato: la colpa è quella di essersi recati nei campi profughi di Tindouf, una
colpa per la quale verranno giudicati da un tribunale militare, un fatto che
ricorda il rigido sistema dittatoriale con il quale Hassan II ha governato il
Marocco per circa trent’anni. Tra gli arrestati due celebri ex carcerati politici:
Brahim Dahane, presidente dell'Asvdh, e Alí Salem Tamek, vicepresidente di
Codesa, organizzazioni indipendenti che i servizi di sicurezza considerano
vicine al Fronte Polisario.
Che il colonialismo abbia segnato in maniera indelebile la storia del
continente africano è una verità inconfutabile, così com’é innegabile che per il
Sahara occidentale il post-colonialismo ha rappresentato l’inizio di un vero e
proprio incubo: un territorio dotato di vastissime risorse naturali, definito dalla
Banca Mondiale come il più ricco di tutto il Maghreb, con una tra le zone di
pesca più importanti del mondo, grandi giacimenti di petrolio e di gas
naturale, scoperti ma non ancora sfruttati, e con il 50% delle riserve mondiali
di fosfati. Una regione che i marocchini hanno sempre visto come parte
integrante dei confini nazionali, che hanno rivendicato anche dopo il Trattato
di Madrid del 27 novembre 1912 ed che hanno occupato nel 1975.
Un territorio sul quale Rabat ha imposto la sua amministrazione, concedendo
licenze di sfruttamento grazie alle quali ha definito importanti accordi
economici, la maggior parte dei quali con aziende europee e nord americane:
secondo una relazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc),
nel 2007 il 72,8% delle esportazioni è stato destinato a Paesi dell’Unione
Europea; nel 2008 il settore dei fosfati ha incrementato in modo determinante
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il comparto dell’export ed ha ammortizzato gli effetti di una congiuntura che
per molti altri paesi è stata devastante (nel secondo semestre l’esportazione
di fosfati, fertilizzanti ed acido fosforico, ha raggiunto il +130%).
Già riconosciuta dalla Conferenza di
Berlino del 1886, la sovranità
spagnola sul Rio de Oro e sul Saguia
el Hamra è rimasta per lungo tempo
solo teorica: almeno fino all’aprile del
1934, quando Madrid ha occupato
militarmente la regione. Nel 1947
vengono scoperti i giacimenti di fosfati
di Bou Craa, fatto che cambia il valore
strategico dell’allora Sahara spagnolo;
nel 1958 è l’operazione militare ispano-francese Ecouvillon-Ouragan a
sedare le prime forme di resistenza dei sahrawi che nel 1968, con
Mohammed Basiri, danno vita al Movimento di Liberazione del Sahara. Due
anni dopo, nel giugno 1970, ad Al Ayoun, l’organizzazione nazionalista guida
le manifestazioni contro il progetto di annessione alla Spagna, dimostrazioni
che la Legione soffoca nel sangue: Basiri viene arrestato e di lui non si
avranno più notizie. La repressione, per altro durissima, non placa però le
istanze sahrawi e nel 1972, a Rabat, nasce una delle prime organizzazioni
clandestine di resistenza. A capeggiarla è Mustapha Sayed El Ouali, che nel
maggio 1973, insieme a Mohammed Ould Ziou e Hamed Ould Qaid, fonda il
Fronte Polisario (Fronte Popolare di Liberazione del Saguia al Hamra e Rio
de Oro), un movimento di liberazione nazionale, democratico e
anticolonialista, che abbraccia i settori e le personalità più progressiste della
società sahrawi e che ha come obiettivo l'indipendenza totale del Sahara
Occidentale e la costruzione di uno Stato moderno.
Il 16 dicembre 1965, con la prima Risoluzione sul
Sahara Occidentale, l’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite riafferma quanto già sancito cinque
anni prima circa il diritto dei popoli
all’autodeterminazione: alla Spagna viene chiesto
di ritirare le truppe e di organizzare nella colonia
un referendum che dia ai sahrawi la possibilità di
scegliere il loro futuro. Nell’arco di otto anni le
Nazioni Unite emanano sei Risoluzioni; nel 1970
viene indetta la Conferenza di Nouadhibou nella
quale Marocco, Mauritania e Algeria cercano una
soluzione alla decolonizzazione del Sahara occidentale. In realtà Rabat e
Nouakchott già trattano sulla futura spartizione della regione. Il 20 Maggio
1973, ad El Khanga, arriva la prima azione armata del Fronte Polisario; nel
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luglio 1974, il dittatore spagnolo Francisco Franco approva lo Statuto di
autonomia per il Sahara Occidentale e dopo un mese Madrid annuncia
all’Onu la volontà di organizzare entro 12 mesi il referendum
sull’autodeterminazione; nel gennaio 1975, su invito del Marocco e della
Mauritania, la Spagna rinvia la consultazione popolare.
La volontà sahrawi viene sondata
dieci mesi dopo dalla Commissione
dell’Onu per il Sahara Occidentale
che, visitata la regione, stila un
rapporto nel quale valuta l’esistenza
di una maggioranza favorevole
all’indipendenza e riconosce come
unico e legittimo rappresentante
politico del popolo sahrawi il Fronte
Polisario. Il 16 ottobre 1975, in base
a questo stesso rapporto, la Corte
dell’Aja dichiara che il popolo sahrawi non ha alcun legame storico con il
Marocco e la Mauritania e che è quindi necessario procedere al referendum.
Per tutta risposta, Hassan II annuncia di volersi riappropriare della colonia
spagnola ed organizza la Marcia Verde: il 6 novembre 1975, più di 350 mila
volontari attraversano la frontiera e danno inizio all’occupazione del più vasto
territorio non indipendente del pianeta; il 14 novembre, con gli accordi segreti
di Madrid, la Spagna consegna de facto l’ex colonia al Marocco e alla
Mauritania e da inizio all’evacuazione. Attraverso la Office Cherifien
Phosphates, Rabat riesce inoltre a strappare al governo iberico
l’amministrazione del ricco giacimento di Bu-Craa e il 65% della Fosbucrá, la
società mineraria fondata nel 1969 dalla Empresa Nacional Minera del
Sahara.
Inizia così l’esodo sahrawi: colonne di
profughi che fuggono verso il confine
algerino incalzati dai bombardamenti
dell’aviazione marocchina. La
resistenza però non demorde e il 28
febbraio 1976 conquista Bir Lehlu, la
località dove il Fronte Polisario
proclama la Repubblica Araba
Sahrawi Democratica (Rasd), una
repubblica in esilio che avrà sede in
Algeria. Formato il primo governo, a capo del quale viene nominato
Mohammed Lamine Uld Ahmed, e completato il trasferimento dei profughi nei
campi di El Aaiun, Awserd, Smara, e Dakhla, la Rasd viene riconosciuta
dall’ONU, dall’Unione Africana, dalla Lega Araba e da diversi paesi, tra cui
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l’Algeria che rompe le relazioni diplomatiche con il Marocco e concede ai
profughi dal Sahara Occidentale l'Hammada di Tindouf, uno dei tre
ecosistemi del deserto non glaciale e sicuramente il più ostile alla vita umana.
Nel 1979, per difendersi dagli attacchi dell’Esercito di Liberazione Popolare
Saharawi (ELPS), braccio armato del Fronte Polisario, la Mauritania decide di
lasciare la regione meridionale del Sahara occidentale e sottoscrivere con la
Rasd un accordo di pace al quale fa immediatamente seguito il ritiro delle
truppe; i territori vengono immediatamente occupati dal Marocco che l’anno
successivo, con l’aiuto di Francia, Stati Uniti e Arabia Saudita, avvia la
costruzione di un primo muro di difesa lungo 450 chilometri.
In base ad una iniziale apertura
in favore del referendum per
l’autodeterminazione espressa
da Rabat, nel 1985 il Segretario
Generale delle Nazioni Unite,
Javier Perez de Cuellar, avvia
una fase di consultazioni che nel
1988 portano il Marocco e il
Fronte Polisario a sottoscrivere
un accordo di pace con il quale
vengono sancite le condizioni
della presenza marocchina,
amministrativa e militare, nei
territori occupati e viene indicata nel 1992 la data della consultazione alla
quale dovrà partecipare il corpo elettorale censito dagli spagnoli nel 1974.
Intanto, il muro “difensivo” iniziato nel 1982 continua ad allungarsi: nel
gennaio 1984, ai primi 420 chilometri che circoscrivono il così detto “triangolo
utile”, con le città di El Aaiún, Smara, Bojador e Bou Craa, si aggiunge un
tratto che si estende verso sud e in parte taglia in due il territorio controllato
dal Fronte Polisario. A maggio partono i lavori del terzo tratto che incorpora
Hauza e gran parte del territorio confinante con il Marocco, inclusa la strada
che da El Aaiún arriva a Tindouf; la quarta fase è del gennaio 1985, con il
muro di sabbia che ingloba i centri abitati di Al Farcia e Mahbas e si estende
ad est fino a lambire il confine con l’Algeria. La quinta fase, che assorbe una
parte del Rio de Oro, inclusi i villaggi di Guelta Zemmur, Chalwa, Oum
Dreyga, Imlili e Dakhla, è del settembre 1985; la parte finale, edificata
nell'aprile 1987, raggiunge i centri di Awsard, Techla e Bir Gandouz e arriva a
pochi chilometri dal confine con la Mauritania. Una volta ultimato, il muro
racchiude i 7/8 del territorio, le città, le miniere e le aree più ricche del Sahara
Occidentale; lungo 2.720 chilometri, 17 volte il muro che per 28 anni ha diviso
la Germania, è costituito da barriere di sabbia e di pietre, difeso da bunker,
radar, fossati, batterie di artiglieria e campi minati, quasi due milioni di mine
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anti uomo, un “record” che fanno del Sahara occidentale una delle zone più
pericolose al mondo.
Il 29 aprile 1991, in seguito al rapporto
S/22P464 del Segretario Generale delle
Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza
dell’Onu approva la Risoluzione 690 con la
quale viene stabilito l’invio in Sahara
occidentale del contingente di pace MINURSO
(Missione delle Nazioni Unite per il
Referendum nel Sahara Occidentale); ad
agosto il Marocco attacca le zone liberate di
Tifariti e Bir Lehlu, avvelena i pozzi e rende in
pratica impossibile il rientro dei profughi
sahrawi; il 6 settembre Rabat e i
rappresentanti del Fronte Polisario danno inizio
al cessate il fuoco bilaterale; negli stessi giorni
arrivano a Laayoune i primi 100 osservatori
Onu; il 4 ottobre il Marocco organizza una seconda Marcia verde e con
l’ingresso nel Sahara occidentale di altri 155.000 volontari porta a 7/1 il
rapporto tra i coloni e la popolazione sahrawi. Nel gennaio 1992 l’Onu
dimostra ancora una volta la sua debolezza: il referendum viene rimandato a
data da destinarsi, troppe le pressioni di Rabat che è riuscita a cambiare i
criteri degli aventi diritto al voto. L’anno successivo il nuovo Segretario
Generale delle Nazioni Unite, Boutros Ghali, raggiunge un accordo con la
Rasd per i criteri di selezione dei votanti; i sahrawi sono disponibili a
discutere nuove regole per l’identificazione dei censiti ma il Marocco crea
nuove difficoltà sugli osservatori dell’Unione Africana presenti in Sahara
occidentale. Viene stabilito nuovo calendario che rimanda la consultazione al
1995 ma la questione sugli osservatori porta il Marocco a chiudere le
frontiere con l’Algeria. Nel 1997, a Lisbona, l’inviato speciale delle Nazioni
Unite per il Sahara occidentale, James Baker, riesce a portare a termine un
accordo sulla collocazione delle forze armate, sui prigionieri di guerra e sui
detenuti politici; a Huston, nel Texas, viene trattata una forma di autonomia
legata al controllo da parte del Marocco della sicurezza nazionale, della
difesa e della politica estera dell’ex colonia spagnola, ma l’assenza di opzioni
che chiariscano lo status giuridico del territorio portano i rappresentanti del
Fronte Polisario a rigettare la proposta. Nel dicembre 1999, grazie ad una
fase d’identificazione durata circa due anni, vengono finalmente rese note le
liste dei votanti; questa volta è il mancato accordo sul riconoscimento di tali
liste che provoca un nuovo blocco del piano di pace.
Nel 2003 James Baker lancia una seconda proposta che dovrebbe culminare
con il referendum sull’autodeterminazione. Il nuovo piano viene presentato
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alle parti coinvolte nel conflitto e ai paesi confinanti, Algeria e Mauritania. In
luglio il Consiglio di Sicurezza approva all’unanimità la Risoluzione 1495 che
prevede una transizione quinquennale durante la quale il territorio sahrawi
dovrebbe avere un’autonomia limitata: il Polisario, pur con alcune riserve,
accetta; il Marocco, che non ammette soluzioni che mettano in discussione la
propria sovranità, rifiuta. Al contrario, il Re Mohammed VI propone un Sahara
occidentale autonomo ma sotto sovranità marocchina. Posizioni contrapposte
che costringono alle dimissioni del mediatore Baker. In attesa di un
ripensamento, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite proroga, in varie
fasi, il mandato della MINURSO: con la Risoluzione 1720 fino ad aprile 2007;
con la Risoluzione 1783 fino ad aprile 2008; con la Risoluzione 1813 fino ad
aprile 2009, con la Risoluzione 1871 la presenza dei Caschi blu viene
prorogata fino al 30 aprile 2010.
Come aveva già fatto il suo predecessore Kofi Annan, nell'aprile 2007 anche
l’ultimo Segretario Generale dell'Onu, Ban Ki-moon, invita le parti ad avviare
nuovi negoziati. Un accordo di compromesso sembra essere possibile ma,
per raggiungere l’autonomia, il Sahara occidentale ha bisogno che Spagna,
Francia e Stati Uniti rivedano le loro posizioni. Mentre sembra difficile che
Parigi rinunci ad appoggiare Rabat, Madrid, consapevole dell’importanza di
mantenere buone relazioni con il Marocco e sottoposta ad una forte
pressione interna che sostiene l’indipendenza del popolo sahrawi, mantiene
una posizione più moderata ed equidistante. Al contrario la Casa Bianca, che
ha offerto assistenza nella costruzione del muro e che sente il peso strategico
del paese maghrebino, sembra più propensa ad appoggiare la soluzione
proposta dal Re Mohammad VI: un Sahara occidentale autonomo ma non
indipendente.
I colloqui del marzo 2009 che
vedono di fronte il governo
marocchino e l’auto-proclamato
esecutivo sahrawi, mediati dalla
Commissione delle Nazioni Unite sul
Sahara Occidentale, si sono conclusi
con un nulla di fatto: come scaturito
dalle precedenti trattative, il Fronte
Polisario rimane fermo sul diritto
sahrawi ad esprimere la propria
volontà attraverso un referendum
popolare; il Marocco insiste per una
soluzione che non leda la sovranità
marocchina sul territorio annesso nel
1975 e riconosce alla popolazione
autoctona la possibilità di ottenere un’autonomia parziale. Va avanti invece
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l’ambiziosa “roadmap” che Bruxelles ha concordato con Rabat: sul piatto c’è
la concessione al Marocco di uno “status avanzato” a meta strada tra il
partenariato e l'adesione all’Unione, con una maggiore cooperazione in
ambito politico, commerciale e per quanto concerne l’aspetto sicurezza; in
cambio viene richiesta l’armonizzazione della legislazione interna con gli
standard internazionali e il rispetto dei diritti dei migranti. Intanto, a
trentaquattro anni di distanza dalla Marcia verde, il muro della vergogna
continua a privare i sahrawi della loro terra, della loro libertà e della loro
dignità.
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