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LA CAPITANATA
Rivista quadrimestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia
Direttore: Franco Mercurio
Segretaria di redazione: Rossella Palmieri
Redazione e amministrazione: “La Capitanata”, viale Michelangelo, 1, 71100 Foggia
tel. 0881-791621; fax 0881-636881; email: [email protected]
“La Capitanata” è distribuita direttamente dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Per informazioni e
per iscriversi alla lista delle persone e degli enti interessati rivolgersi a “La Capitanata”, viale Michelangelo
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“LA MAGNA CAPITANA”
BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA
è un servizio della Provincia di Foggia
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Reference: Annalisa Scillitani, [email protected]
Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono elementi
simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da
Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente e futuro
senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla Biblioteca
Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e da loro gentilmente donato.
Red Hot : Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000.
_______________
LA CAPITANATA
RASSEGNA
DI VITA E DI STUDI
DELLA PROVINCIA
DI FOGGIA
_______________
11
_______________
Novecento
__________________
FEBBRAIO 2002
Questo numero di “La Capitanata” è pubblicato
nell’ambito del progetto Stigliola
(deliberazione n. 1330 del 6.12.2000)
© 2001 BPFG Biblioteca Provinciale di Foggia
4
Indice
p.
9
Presentazione
11
Novecento
11
Aspettando Godot ovvero la ricerca teatrale contemporanea
di Roberto Alonge
15
Il mito dell’infanzia. Un aspetto del leopardismo montaliano
di Luigi Blasucci
23
L’arte nel 2000
di Achile Bonito Oliva
35
“Sognando l’ippogrifo: tra psicanalisi e medicina”
di Vito Cagli
39
Le scienze della complessità
di Marcello Cini
47
Come si concludono i romanzi nel Novecento
di Giulio Ferroni
61
Teoria, critica e didattica della letteratura
di Romano Luperini
71
Stampa, TV e Internet
di Paolo Murialdi
75
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita d’un uomo” di
Ungaretti
di Luigi Paglia
75
1. Il grido
5
76
83
86
92
92
93
95
95
96
98
107
1.1 Il grido di dolore per la tragedia della guerra
1.2 Il dolore per la morte degli amici
1.3 La solitudine, la depressione esistenziale
2. L’ultragrido
2.1 La proiezione nel futuro
2.2 La mediazione materna
3. La transizione dal grido all’ultragrido
3.1 La Tragedia e il superamento del dolore
3.2 La spirale sintattica e lessicale
3.3 Il moto metamorfico
Il problema dei fondamenti della matematica
di Mauro Palma
119
Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale
e sociologia nel ‘900
di Francesco Remotti
135
La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso
di Renzo Scarabello
145
La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
di Alessandro Serpieri
161
Gli autori
169
Omaggio a Franco Marasca
di Geppe Inserra
171
Padre Pio: singolarissimo vivificatore di anime morte
di Domenico D’Ambrosio
171
172
175
176
177
179
Introduzione
Padre Pio confessore
Padre Pio: direttore di spirito
Padre Pio e la dimensione umana della direzione
Padre Pio: guida alla conoscenza del mistero
Conclusione
181
Terra di cinema
di Fabio Prencipe
187
Un osservatorio per l’immigrazione
di Carine Bizimana
6
189
Eugenio Radesca: alla riscoperta di un musicista
di Giuseppe Fagnocchi
189
192
192
193
198
Premessa
Radesca Renaissance
Nota biografica
La produzione e sue caratteristiche
(momentanea) Conclusione
199
Dalle poste borboniche alle poste italiane
di Luigi Gatta
199
200
201
207
207
208
210
215
220
224
224
1 - La triste eredità dei Borboni
2 - Le Poste di Capitanata durante il Brigantaggio
3 - Dal Ministero P. T., all’RPE, alle S.p.A.
Il servizio postale postunitario in Capitanata
1 - Per l’apertura di un nuovo Ufficio Postale
2 - La rivoluzione del francobollo anche in Capitanata
3 - Pedoni e corrieri di posta interna in Capitanata
4 - Il ratizzo postale
1 - Dalle origini della telegrafia ai primi uffici telegrafici in Capitanata
2 - Il ratizzo telegrafico
1 - La riorganizzazione del servizio postale in Capitanata
Prefettura della Provincia di Capitanata
229
Dai Versi a Macerazioni Divertenti:
l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
di Francesco Giuliani
229
231
234
237
241
1 - Un dittico di rilievo
2 - Morire di speranza
3 - Dalla pianura all’autunno
4 - Le ballate
5 - Macerazioni divertenti
247
L’Italia meridionale nella guida turistica di Mariana Starke
di Rosanna Curci
253
Il tema della violenza e le strutture profonde in Relic di Ted Hughes
di Gaetano Zenga
265
Cento autori per cento anni
di Franco Mercurio
267
Il fondo D’Urso
di Marcella Cardilli e Marianna Iafelice
7
273
Luciano Violante. Cantata per la festa dei bambini morti di mafia
di Rossella Palmieri
275
Gianna Schelotto. Per il tuo bene
di Rossella Palmieri
277
Gli autori
8
Presentazione
Novecento, il ciclo di incontri pomeridiani svolti nell’arco di un anno dalla
primavera del 2000 a quella del 2001 con studiosi di riconosciuto prestigio, nella sua
fitta trama di eventi, problemi, idee e suggestioni, attraverso cui abbiamo tentato di
tracciarne il profilo, è stato un appuntamento periodico importante ed ha apportato
alcuni innegabili elementi di novità nel panorama culturale della nostra provincia.
E’ stato un progetto culturale frutto di un’azione positiva e di coordinamento tra la
Provincia di Foggia e la storica società “Dante Alighieri” che, dal 1989, si impegna a
promuovere e a tutelare in Italia e nel mondo i valori della nostra lingua e della
nostra cultura. L’intreccio coordinato di competenze multiple, di indirizzo e di promozione culturale, la programmazione ragionata e la continuità nel tempo sono
stati i tratti salienti di questa riuscita iniziativa che ha raccolto entusiastici consensi
tra un vasto pubblico, anche giovanile. Gli itinerari scientifici, artistici e letterari con
cui questo secolo è stato rappresentato, scevri da ingombri di facile retorica e di provinciali accademismi, sono stati un’occasione di riflessione sulle radici della
contemporaneità, carica ancora oggi di profonde contraddizioni, di interrogativi
irrisolti, oltre che di prospettive allarmanti circa il suo esito futuro. I processi di
globalizzazione, l’ottimismo eccessivo della tecnologia e della scienza, la
spersonalizzazione dell’uomo, le spregiudicate logiche di mercato, i drammatici avvenimenti dopo l’attentato dell’11 settembre e quelli che si stanno consumando con
inaudita violenza nel conflitto israeliano-palestinese, ci rafforzano nella convinzione che l’esercizio del pensiero è l’unica possibile forma di resistenza e di proposta
rispetto agli scenari disumanizzanti che si annunciano con l’inizio del nuovo millennio. Disumanizzanti quanto quelli del secolo appena trascorso. Nel conflitto delle
molteplici interpretazioni della realtà odierna, la cultura, il pensiero, la parola come
segni di comunicazione e del dialogo restano l’arma più consona all’umanità per
mettere a nudo le sue contraddizioni. La “speranza” in questi valori, dell’uomo e
della cultura, è stata fortemente auspicata all’inizio di questi percorsi novecenteschi
dal presidente della Provincia Antonio Pellegrino. A lui va la nostra gratitudine e il
merito di aver consentito, attraverso il suo impegno personale ed istituzionale, la
sensibilità e la passione civile che lo contraddistinguono, la realizzazione di un’iniziativa di ampio respiro e di alto profilo culturale. E sarà impegno comune non smentire questa speranza affinché al sonno della ragione non si accompagni il sonno della
memoria.
Donatella Di Adila
9
10
Roberto Alonge
Aspettando Godot
ovvero la ricerca teatrale contemporanea
di Roberto Alonge
Parlare di teatro e di cinema può non risultare facile nel periodo del dopoguerra, considerato che la regia si è costituita effettivamente in quegli anni come
una vera e propria drammaturgia. Il regista, cioè, è riuscito a piegare gli strumenti
del proprio lavoro sino al punto di far dire ai testi delle cose che i testi in qualche
modo solo in nuce contenevano. E questo aspetto non riguarda soltanto i grandi
registi del secondo dopoguerra italiano ma anche quelli di minor rilievo. L’esempio
più emblematico è quello di Mario Missiroli che ha fatto delle cose interessanti
quando dirigeva il teatro di Torino ma si è perso, quando, per motivi meramente
economici, ha dovuto lavorare con produttori privati. Negli anni ’80 Missiroli mise
su uno straordinario spettacolo sulla “Mandragola” di Machiavelli che, a rivederlo
in video negli ultimi tempi, risulta vagamente profetico se lo paragoniamo a
Tangentopoli. Egli, infatti, inventò una dinamica di spettacolo in cui mise in luce la
dimensione di attaccamento al denaro di una società borghese contemporanea, allestendo, di fatto, una “Mandragola” in abiti moderni, o meglio, in abiti da cerimonia. Gli uomini in tight e le donne con vestiti lunghi e veletta sul capo sono la
personificazione per così dire “scenografica” della buona borghesia del tempo,
mentre il personaggio principale, il frate Timoteo con il suo saio che lascia tranquillamente intravedere pantaloni, giacca e cravatta, diventa anch’egli da uomo di Chiesa,
il frutto più naturale della razza “borghese” degli altri personaggi, come si evince
anche dai comportamenti, dai vezzi e dai tic, primi fra tutti quelli di tirar su una
spalla della tonaca o aprire il porta sigarette. Il testo di Machiavelli, attraverso questo stravolgimento dei costumi, diventava un testo assolutamente moderno che la
diceva lunga sull’interesse per il denaro e per la corruzione: ad accentuare questi
due aspetti, poi, era la stessa scenografia che metteva sì in scena una piazza perché
tutte le commedie del ‘500 si svolgono in una piazza ma con la particolarità di avere
un buco centrale e intorno dei pezzi di monumenti, di archi, di colonne e di capitelli buttati quasi alla rinfusa a terra, che davano in tal modo la dimensione di una
piazza italiana dissestata, come se ci fosse stato un terremoto o come se fosse caduta
una bomba nel cuore stesso della piazza. Ad acuire questo senso di desolazione,
inoltre la “trovata” di fare uscire dal buco nero i personaggi, una sorta di vermicaio
da cui, metaforicamente, uscivano i personaggi proprio perché tutto il discorso,
nell’ottica rovesciata della commedia, diventava la crisi di una società di mercanti e
11
Aspettando Godot ovvero la ricerca teatrale contemporanea
quindi dell’intera classe borghese italiana. A “condire” questa miscela di scenografie
e costumi chiaramente allusivi, i grandi fantasmi della borghesia italica, il sesso e il denaro in particolare, perché tutta la vicenda della “Mandragola” si basa sul principio della
necessità di avere dei figli maschi per trasmettere l’eredità, che a loro volta devono trasmettere il capitale e, per chiudere il cerchio, diventare lo strumento per poter realizzare
la corruzione. L’esempio di Missiroli, dunque, è particolarmente emblematico perché
egli, di fatto, fa il regista ma in realtà si pone in una luce di drammaturgo perché utilizza
tutti gli strumenti per fare un suo personale discorso sulla contemporaneità e sulla condizione sociale dei nostri giorni. Per esemplificare, si potrebbe paradossalmente dire
che non c’è bisogno necessariamente di una drammaturgia perché, in fondo, il discorso
sulla contemporaneità è più facile da farsi al riparo, dietro lo schermo di una messinscena. E in questo senso il regista è la figura più provocatoriamente efficace di drammaturgo perché interviene anche sulle problematiche della contemporaneità semplicemente
utilizzando i codici e gli strumenti del teatro di regia.
Si possono, tuttavia, fare delle osservazioni tecniche sull’insistenza dell’elemento scenografico, se si tratti, cioè, di una peculiarità italiana oppure straniera. Di
certo la regia europea di un certo livello è molto interessata all’indagine sullo spazio,
per cui non si tratta di una peculiarità solo italiana. Tuttavia c’è chi lamenta, in Italia,
la mancanza di drammaturghi del calibro di Shakespeare o di Molière, fatti salvi nomi
quali Goldoni e Pirandello e questo in parte è vero perché manca in Italia una tradizione di parola nel senso che l’Italia è un paese di cantanti e di scenografi piuttosto
che di attori. La peculiarità del teatro italiano, infatti, non a caso è quella dell’opera
lirica e nei grandi teatri italiani della fine dell’800 l’edificio teatrale doveva servire sia
all’opera lirica che al teatro di prosa, ma i giorni migliori venivano dati all’opera lirica
mentre quelli commercialmente più infelici venivano dati al teatro di prosa, che era
l’anello di congiuntura sulla scia di una grande tradizione di musica e di musicalità.
Ad ogni buon conto, va anche notato che gli italiani furono gli inventori, già nel ‘600,
di straordinari macchinari per la felice riuscita di alcune scene: sappiamo, da una serie
di incisioni di stampe, di cose straordinarie per quei tempi, come la roteazione degli
oggetti o la creazione di fuochi: c’è, insomma, una grandiosa abilità tecnica che fa sì
che l’occhio dello spettatore diventi centrale cioè un “teatro dell’occhio” e non tanto
un “teatro dell’orecchio”. In un certo senso Ronconi può essere definito un erede
geniale di questa tradizione, per la sua capacità di lavorare con una immaginazione
visionaria che ha bisogno sempre di inventare delle scenografie sorprendenti. Ideò,
ad esempio, un’enorme scena che riproduceva l’interno di una serie di vagoni ferroviari, ma ha fatto uno spettacolo ancora più clamoroso nel famoso “Gli ultimi giorni
dell’umanità” dove ha mosso delle masse enormi di attori, camion, mitragliatori e
truppe, dando quasi l’impressione di organizzare un vero e proprio campo di battaglia. Naturalmente il testo si prestava molto ma soprattutto si avvertiva questo piacere di inventare degli spazi inediti con gli spettatori che dovevano muoversi e vedere
in contemporanea delle scene diverse. Un regista che lavora in questo modo cioè
all’interno di uno spazio enorme tendenzialmente infinito, può, a buona ragione,
essere definito un regista di tipo scenografico.
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Roberto Alonge
Resta da chiarire, infine, l’ambivalenza di fondo tra cinema e teatro, se, cioè,
si può dire che il cinema ha rubato spazio e linguaggio al teatro. Effettivamente il
cinema ha rubato tutta una serie di possibilità al teatro ma rubandogliele ha anche
consentito al teatro di attrezzarsi con delle risposte particolari, senza dimenticare
che il teatro è l’arte dello spettacolo vivente cioè l’attore è vivo e quindi è inutile
cercare di rivaleggiare con il cinema costruendo le scenografie che saranno, per
quando straordinarie, sempre inferiori a tutta la magnificenza che il cinema può
dare. La specificità del teatro va recuperata proprio nella sua modalità di presentare
in carne ed ossa l’attore, lì dove il cinema ci presenta degli attori per così dire “finti”
e messi su una pellicola. Infine, un’ultima riflessione andrebbe fatta sulla intrinseca
purezza di un testo teatrale, se, cioè, esso debba essere restituito o meno nella sua
purezza o se il regista può permettersi delle “invadenze”. Per spiegare meglio il
concetto, potrei fare un esempio personale, a partire dalla mia esperienza. Quando
io scrivo dei libri su Pirandello o Ibsen so perfettamente che quello che io scrivo
forse non è esattamente quello che volevano dire Pirandello o Ibsen ma credo comunque che, se non posso tirare fuori quelli che sono i miei fantasmi, non mi metterei nemmeno a scrivere e troverei tale operazione noiosissima. Se uno studioso si
accinge a scrivere un libro, immagino lo faccia non per spiegare quello che già tutti
hanno detto, ma per dare e darsi la possibilità di partire dalla propria soggettività,
dalla propria autobiografia e dai propri interessi, di dire qualcosa di nuovo. Certamente è una violenza al testo, ma consente al testo stesso di far emergere una dimensione nuova. Un testo è come una pietra che ha tante facce e, dunque, una
molteplicità di chiavi di lettura, da quella sociologica a quella psicologica, da quella
strutturalista a quella antropologica. Insomma, a seconda di quello che io sono,
oriento il testo facendo venir fuori le cose che in parte sono mie. Probabilmente
anche il regista fa la stessa cosa nel momento in cui mette in scena un testo anziché
un altro.
13
14
Luigi Blasucci
Il mito dell’infanzia.
Un aspetto del leopardismo montaliano
di Luigi Blasucci
Fine dell’infanzia
Rombando si ingolfava
dentro l’arcuata ripa
un mare pulsante, sbarrato da solchi,
cresputo e fioccoso di spume.
Di contro alla foce
di un torrente che straboccava
il flutto ingialliva.
Giravano al largo i grovigli dell’alighe
e tronchi d’alberi alla deriva.
Nella conca ospitale
della spiaggia
non erano che poche case
di annosi mattoni, scarlatte,
e scarse capellature
di tamerici, pallide
più d’ora in ora; stente creature
perdute in un orrore di visioni.
Non era lieve guardarle
per chi leggeva in quelle
apparenze malfide
la musica dell’anima inquieta
che non si decide.
Pure colline chiudevano d’intorno
marine e case; ulivi ne vestivano
qua e là disseminati come greggi
o tenui come il fumo di un casale
che veleggi
la faccia candente del cielo.
Tra macchie di vigneti di pinete,
petraie si scorgevano
calve e gibbosi dorsi
15
Il mito dell’infanzia. Un aspetto del leopardismo montaliano
di collinette: un uomo
che là passasse ritto s’un muletto
nell’azzurro lavato era stampato
per sempre e nel ricordo.
Poco s’andava oltre i crinali prossimi
di quei monti; varcarli pur non osa
la memoria stancata.
So che strade correvano su fossi
Incassati, tra garbugli di spini;
mettevano a radure, poi tra botri,
e ancora dilungavano
verso recessi madidi di muffe,
d’ombre coperti e di silenzi.
Uno ne penso ancora con meraviglia
dove ogni umano impulso
appare seppellito
in aura millenaria.
Rara di roccia qualche bava d’aria
sino a quell’orlo di mondo che ne strabilia.
Ma dalle vie del monte si tornava.
Riuscivano queste a un’instabile
vicenda d’ignoti aspetti
ma il ritmo che li governa ci sfuggiva.
Ogni attimo bruciava
negli istanti futuri senza tracce.
Vivere era ventura troppo nuova
ora per ora, e ne batteva il cuore.
Norma non v’era,
solco fisso, confronto,
a sceverare gioia da tristezza.
Ma riaddotti dai viottoli
alla casa sul mare,
al chiuso asilo
della nostra stupita fanciullezza,
rapido rispondeva
a ogni moto dell’anima un consenso
esterno, si vestivano di nomi
le cose, il nostro mondo aveva un centro.
Eravamo nell’età verginale in cui le nubi non sono cifre o sigle
ma le belle sorelle che si guardano viaggiare.
D’altra semenza uscita
d’altra linfa nutrita
che non la nostra, debole, pareva la natura.
16
Luigi Blasucci
In lei l’asilo, in lei
l’estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l’anima nostra confusa.
Eravamo nell’età illusa.
Volarono anni corti come giorni,
sommerse ogni certezza un mare florido
e vorace che dava ormai l’aspetto
dubbioso dei tremanti tamarischi.
Un’alba dové sorgere che un rigo
di luce su la soglia
forbita ci annunziava come un’acqua;
e noi certo corremmo
ad aprire la porta
stridula sulla ghiaia del giardino.
L’inganno ci fu palese.
Pesanti nubi sul torbato mare
che ci bolliva in faccia, tosto apparvero.
Era in aria l’attesa di un procelloso evento.
Strania anch’essa la plaga
dell’infanzia che esplora
un segnato cortile come un mondo!
Giungeva anche per noi l’ora che indaga.
La fanciullezza era morta in un giro a tondo.
Ah il gioco dei cannibali nel canneto,
i mustacchi di palma, la raccolta
deliziosa dei bossoli sparati!
Volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme.
Certo guardammo muti nell’attesa
del minuto violento;
poi nella finta calma
sopra l’acque scavate
dové mettersi un vento.
La poesia Fine dell’infanzia presenta due singolarità rispetto alle altre poesie di
Ossi di Seppia, in primo luogo perché, con i suoi 109 versi, è il testo più lungo di tutta
la raccolta, in secondo luogo perché è un testo quasi interamente impostato su verbi
al passato. I verbi al passato sono i cosiddetti Ossi brevi, piccole poesie che fanno
parte della sezione specifica che si intitola Ossi di Seppia. Ma rispetto al passato prossimo, tempo dell’adulto, quello di Fine dell’infanzia è un passato remoto dal punto di
vista della prospettiva dei tempi, che si divide a sua volta in imperfetti e passati remoti.
17
Il mito dell’infanzia. Un aspetto del leopardismo montaliano
I verbi al passato di questa lirica determinano, nella loro successione, la linea
dinamica della lirica: l’imperfetto, tempo della durata, è dominante nelle prime sei
strofe ed è legato alla ricostruzione dell’infanzia ambientata nel paesaggio ligure,
con le sue insenature, le sue case e le sue colline; il passato remoto, invece, il tempo
della puntualità, è dominante nelle ultime due strofe e segna la rottura di quello
stato infantile e la rivelazione dell’inganno che pone fine a tale età. Nelle due parti
di questa poesia, ad ogni modo, si può riconoscere uno statuto narrativo: il poeta,
cioè, narra l’andamento della sua infanzia, per cui, sulla scorta di un grande
metodologo francese, Gerard Genette, che ha studiato i tempi del racconto, potremmo dire che nella prima parte la narrazione è di tipo narrativo, cioè Montale
racconta eventi che si svolgevano ciclicamente in quell’età ma non in un giorno
preciso: nella seconda parte, invece, gli eventi accadono una sola volta e per questo
motivo Montale si serve del passato remoto (“un’alba dové sorgere”; “l’inganno ci
fu palese” etc).
L’incipit della poesia coincide con la stessa descrizione del luogo, dei giochi,
delle gite e dei vagabondaggi del fanciullo, di modo che il poeta stesso, seguendo
uno dei tanti itinerari esplorativi del bambino, riesce a dare, per cerchi sempre più
larghi, la configurazione dello spazio infantile. Alla sesta strofe, esaurita la narrazione e la descrizione, il poeta indugia nel commento della qualità di quella condizione infantile (“eravamo nell’età verginale/ in cui le nubi non sono cifre o sigle/
ma le belle sorelle che si guardano viaggiare./ D’altra semenza uscita/ d’altra ninfa
nutrita/ che non la nostra, debole, pareva la natura/ In lei l’asilo, in lei/ l’estatico
affisare; ella il portento/ cui non sognava, o a pena, di raggiungere/ l’anima nostra
confusa./Eravamo nell’età illusa”). In questo verso in particolare emerge e si esplicita il leopardismo della fine dell’infanzia. La considerazione dell’infanzia come età
felicemente ignara dell’infelicità adulta, intesa come età della coscienza e della scoperta del male, appare squisitamente leopardiana, così come l’idea di una sintonia
vitale tra il fanciullo e la natura. In questo senso andrebbero riconsiderati i versi
(Eravamo nell’età verginale/in cui le nubi non sono cifre o sigle/ ma le belle sorelle
che si guardano viaggiare) con il passo ricavato dal Discorso di un italiano intorno
alla poesia romantica, che Leopardi compose a vent’anni: (“Imperocché dal genio
che tutti abbiamo alle memorie della puerizia si deve stimare quanto sia quello che
tutti abbiamo alla natura invariata e primitiva, la quale è né più né meno quella
natura che si palesa e regna ne’ putti, e le immagini fanciullesche e la fantasia che
dicevamo”).
Questa sintonia con la natura è molto simile all’armonia del fanciullo di cui
parla Montale riferendosi al soggetto e all’Io poetico e può essere comparata anche
con la pagina dello Zibaldone dove si elogia la condizione fanciullesca dell’umanità
primitiva e nella quale gli interpreti hanno ravvisato un preannuncio della Canzone
alla primavera (“che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo
l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata e formata da esseri uguali a
noi”). Una lirica come Fine dell’infanzia, dunque, presenta indubbie “tarature”
leopardiane: all’inizio della quarta strofe, ad esempio, si legge: “poco s’andava oltre
18
Luigi Blasucci
i crinali prossimi/ di quei monti; varcarli pur non osa/ la memoria stancata”. Qui il
lettore leopardiano ravvisa una situazione mentalmente analoga al soggetto poetico
delle Ricordanze, con il medesimo impiego del verbo ”varcare” riferito a un orizzonte di monti. Nel Sogno, infatti, così scrive il poeta: “Oggi nel vano dubitar si
stanca/la mente mia”.
Forti di queste constatazioni possiamo estendere il leopardismo del nostro
testo alla stessa scelta del metro dove la suddivisione in strofe di lunghezza oscillante tra i nove versi, come la prima strofe, e i venti versi come la settima strofe, la
larga prevalenza di endecasillabi e settenari, la costante rima clausolare di ciascuna
strofe non baciata (quando, cioè, l’ultimo verso non rima mai con il penultimo), ci
riconducono al modello della canzone libera leopardiana, quella che Leopardi inaugura da A Silvia in poi. Montale, recupera, quindi, il classicismo metrico leopardiano,
che è allusivo e mai letterale e pedantesco: una conferma di questa scelta “classicistica”
può venire dalle stesse correzioni apportate da Montale al testo primitivo della lirica che fu pubblicata sulla rivista genovese “Le opere e i giorni” nel 1924.
Passiamo adesso ad esaminare il verso montaliano “l’inganno ci fu palese” e
il leopardiano “o natura perché di tanto inganni i figli tuoi”. La scoperta dell’inganno si specifica in Leopardi nel senso di una rivelazione definitiva del crudo vero che
è di per sé funesto, mentre in Montale si specifica come l’insorgenza del dubbio
(“Giungeva anche per noi l’ora che indaga”). Proprio su questo avvento del dubbio
nella vita dell’adulto era fondata nella strofe precedente la contrapposizione tra i
due modi diversi di vedere le nubi (“eravamo nell’età verginale in cui le nubi non
sono cifre o sigle”, cioè geroglifici misteriosi), definite “belle sorelle che si guardano viaggiare”. In Fine dell’infanzia il richiamo alle nubi è svolto in un contesto
riflessivo in cui si dichiara il carattere problematico del rapporto adulto con la natura: non a caso l’immagine delle nubi si riproporrà alla fine di questa poesia con
valenze minacciose nella penultima strofe, a segnare la fine di un idillio infantile e la
definitiva trasformazione del fanciullo (pesanti nubi sul torbato mare/che ci bolliva
in faccia, tosto apparvero). Dietro l’immagine delle nubi, dunque, è in gioco la stessa definizione del negativo che in Leopardi è di origine sensistico-materialistica
perché la natura viene vista come circolo di produzione-distruzione che nel suo
evolversi stritola i singoli individui mentre in Montale è caratterizzato da una forte
componente metafisica. Finché l’uomo ha creduto in una natura come sistema unitario e ha avuto di fronte a sé un mondo da giudicare benevolo o malefico nella sua
oggettività, il pensiero europeo ha percorso tutte le tappe necessarie per disgregare
ogni valida certezza e per giungere ad affermare che il mondo non ha ragione di
esistere e che l’unica realtà sta nella nostra presa di consapevolezza. E sta proprio
qui il dramma metafisico dell’uomo montaliano. L’inganno di “fine dell’inganno”
si configura, infatti, come un evento traumatico per l’uomo, pur se ancora ipotetico.
Tuttavia è possibile avvertire, oltre alle assonanze, anche delle differenze dal
modello leopardiano. Ad esempio, la percentuale di impegno vitale riconosciuta a
se stesso da Montale è scarsa: in una sua poesia, infatti, Montale deplora coloro che
19
Il mito dell’infanzia. Un aspetto del leopardismo montaliano
lo paragonano a Leopardi affermando che quest’ultimo visse molto più intensamente di lui. Questo dato sconfesserebbe, però, la ricchezza del linguaggio di Montale, molto più vario di quello di Leopardi che è quasi ascetico nel senso che si
mantiene spesso nel solco della tradizione petrarchista: in Montale, invece, c’è un
grande dispiegamento di varietà linguistica, magari anche per esprimere il suo nulla, che, però, risulta molto variato lessicalmente. Il “nulla” in Montale, almeno per
un lungo tratto della sua poesia, si è potuto “dire” con sontuosità e con screziata
sensualità espressiva.
Anche le immagini risentono di questa ricchezza: nella poesia di Montale
tanto gli scacchi esistenziali quanto le epifanie salvatrici, cioè tanto l’assenza come
la presenza della grazia, sono sempre numerosi, nel senso che egli gioca con la concretezza degli oggetti, senza nulla togliere alla sua poeticità. Quando si parla di
“assenza della grazia” bisogna, però, fare attenzione a non confonderla con l’assenza della poesia e con la sua conseguente relegazione. Almeno due terzi degli Ossi di
seppia, infatti, Contini le relegava nel limbo della non poesia, cioè della poesia del
negativo ma non bisogna dimenticare che una cosa è poesia al negativo una cosa è
negazione della poesia, cioè Montale è poetico anche quando esprime lo scacco
della grazia, il non apparire della grazia, e non soltanto quando esprime l’apparire
della grazia. Analogo discorso vale per Leopardi e forse proprio qui sta il loro più
profondo punto di incontro. Non è un caso che si dica che le opere di genio, anche
quando rappresentano la nullità delle cose, anche quando fanno sentire l’inevitabile
infelicità della vita, anche quando esprimono le più terribili disperazioni, mantengono sempre vivo lo spirito di consolazione, riaccendendo l’entusiasmo per la vita.
Tornando alla poesia Fine dell’infanzia, ci si rende conto che mentre il Leopardi tende ad evocare l’incanto infantile, l’incanto senza aggettivi come un
azzeramento finale degli oggetti nella dimensione dell’indefinito (sovrumani silenzi, profondissima quiete, arcani monti), Montale concepisce l’incanto come una dimensione popolata da oggetti (si pensi alla descrizione di spazi “oltre i crinali prossimi/ di quei monti”, così pieni di concretezza lì dove Leopardi difficilmente sarebbe riuscito ad evocare l’incanto infantile con la stessa precisione di lessico).
Questo non toglie che per altre parti di Fine dell’infanzia si possa parlare,
come dice Contini, di un ingorgo di oggetti, ma in questo caso non è solo questione
di quantità degli oggetti. Essi dovrebbero evocare la felicità vitale dello stato infantile ma, in realtà, non sono tutti catalogabili sotto quel segno che è quello della
felicità, perché tra le pieghe delle evocazioni infantili si insinua quella notazione di
tenore inquietante, quasi un preannuncio di quella visione critica che si instaurerà
nell’età adulta. La stessa immagine iniziale di un “mare pulsante, sbarrato da solchi,
cresputo e fioccoso di spume” non suona come la premessa di una descrizione idillica ma anticipa piuttosto il “torbato mare” del finale. Inversamente, la descrizione
dell’insenatura con le sue case e le sue piante all’inizio della seconda strofe (“nella
conca ospitale/ della spiaggia/ non erano che poche case/ di annosi mattoni, scarlatte/ e scarse capellature/ di tamerici pallide/ più d’ora in ora; stente creature/ perdute in un orrore di visione”) la qualità positiva e materna per l’aggettivo “ospitale”
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Luigi Blasucci
riferito alla spiaggia, contrasta con quell’orrore di visioni, l’annotazione successiva,
e con il turbamento del soggetto nel guardare quella stentata vegetazione (“non era
lieve guardarle/ per chi leggeva in quelle/ apparenze malfide/ la musica dell’anima
inquieta/ che non si decide”). Montale, insomma, tende a sovrapporre l’occhio critico dell’adulto a quello incantato del fanciullo, ed ecco allora l’ultimo dei divari,
rispetto a Leopardi, di questo poeta novecentesco del negativo. L’età della fanciullezza, l’età illusa non ha per lui il valore di una vera alternativa vitale all’età adulta
tale, cioè, da porsi come consistente oggetto di rimpianto come succede in Leopardi. L’età infantile è, in fondo, per Montale ancora preistoria perché la sua poesia
maggiore non è quella della nostalgia dell’infanzia ma quella del male di vivere attuale, una poesia, dunque, essenzialmente al presente.
In Barche sulla Marna, poesia composta circa nove anni dopo, infatti, Montale cercherà di dare un senso alla parabola della vita con questi vani interrogativi:
(“ma dov’è/ la lenta processione di stagioni/ che fu un’alba infinita e senza strade/
dov’è la lunga attesa e qual è il nome/ del vuoto che ci invade”), ponendo l’accento
sul vuoto attuale più che sull’idea ormai mitica di “un’alba finita e senza strade”,
cioè l’infanzia con le sue vitali mancanze di distinzioni. Questa prevalenza del vuoto nella valutazione del percorso esistenziale troverà un’eloquente conferma in una
lirica coeva, Costa San Giorgio, dove il poeta rivedrà l’intera sua vita all’insegna di
un tutto sempre uguale a se stesso e un mattino dell’infanzia gli apparirà non più
che come un limbo nell’insensata discesa degli anni: “tutto è uguale; non ridere: lo
so/ lo stridere degli anni fin dal primo/ lamentoso, sui cardini/ il mattino un limbo
sulla stupida discesa”.
Per concludere, la lirica Fine dell’infanzia apre la sezione Meriggi e Ombre:
Romano Luperini ha notato come la sottosezione che va da Fine dell’infanzia a
Clivo sia caratterizzata dall’alternanza di tempi al passato e di tempi al presente, di
ricordi di un tempo remoto più felice e di constatazione della desolazione attuale,
in altri termini, la personificazione della condizione infantile e dell’attuale atonia.
La condizione infantile, ad esempio, in Egloga viene resa con dati concreti (“perdersi nel bigio ondoso/ dei miei ulivi era buono/ nel tempo andato -, loquaci/ di
riottanti uccelli/ e di cantanti rivi./ Come affondava il tallone/ nel suolo screpolato,
tra le lamelle d’argento/ dell’esili foglie) che sono di segno altamente positivo. Nella seconda parte della lirica, al contrario, abbiamo una concretezza di segno opposto, di polo negativo, anzi soprattutto il negativo ha bisogno per Montale di incarnarsi in oggetti precisi (“ora è finito il cerulo marezzo/ si getta il pino domestico/ a
rompere la grigiura;/ brucia una toppa di cielo/ in alto, un ragnatelo si squarcia al
passo:/ si svincola d’attorno un’ora fallita”). Egloga potrebbe, dunque, dirsi un equivalente di Fine dell’infanzia con due sostanziali differenze: il negativo è presente
non in previsione ma nella rappresentazione attuale; il confronto fra un passato
vitale e un presente critico è offerto per semplice contrapposizione di dati senza
dichiarazioni programmatiche.
Come proiezione in avanti, infine, abbiamo visto come in Costa San Giorgio
il tema dell’infanzia ricevesse una sorta di ridimensionamento nei confronti del tema
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Il mito dell’infanzia. Un aspetto del leopardismo montaliano
del “nemico muto che preme” ma non per questo il tema dell’infanzia scompare del
tutto dalla poesia montaliana. Nella raccolta La Bufera, ad esempio, c’è da registrare un’altra riproposizione del tema dell’età felice sia pure con coordinate un po’
diverse da Fine dell’infanzia: in Proda di Versilia la contrapposizione temporale tra
l’infanzia e l’età adulta si configura anche con una contrapposizione geografica tra
le scogliere delle cinque terre e le sabbie della Versilia ma più che la cronologia
biografica, ci interessa notare quella simbolica, il passaggio, cioè, da una realtà familiare e ben definita a una realtà amorfa ed ostile. Nella precisione del lessico che
si riferisce all’esperienza della prima età riconosciamo l’aspirazione montaliana a
una felicità vitale come determinatezza delle cose (“il pesce prete, il pesce rondine,
l’astice - il lupo della nassa - che/dimentica le pinze”): il negativo questa volta, si
configura proprio come indeterminatezza e come vuoto, il che segna il definitivo
capovolgimento nei confronti del modello leopardiano.
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Achille Bonito Oliva
L’arte nel 2000
di Achille Bonito Oliva 1
Potremmo partire da una domanda, che vi sembrerà paradossale, che io mi
sono posto: “la critica serve o sparecchia?”. Mi sono posto questa domanda come
da casalinga inquieta e da casalinga mi ricordo anche di una frase di Andy Warhol,
bellissima, che forse potrebbe essere l’emblema di questa conferenza, oppure di
qualsiasi conferenza, oppure di qualsiasi presenza dell’arte o dell’intellettuale nella
società moderna. Dice Warhol: “se avessi avuto più forza sarei rimasto in casa a fare
le pulizie”. Warhol segnala il grande problema della soggettività nella società di
massa, segna la differenza tra narcisismo e vanità.
Per me il narcisismo è il motore ecologico di ogni azione umana, oltre che di
ogni processo creativo dell’arte. La vanità è il prêt-à-porter del narcisismo. La vanità cerca consenso, la vanità è come una passerella di uno stilista che deve vendere
il proprio book perché nella moda c’è tutto un collegamento con l’industria per il
fatto che in fondo lo stilista risponde a una domanda. L’arte, invece, non è risposta.
L’arte è essa stessa, sempre, domanda sul mondo e in questo senso è una domanda
che svela. Quando si afferma che l’arte dice la verità, non si deve pensare che l’arte
sia moralista, che l’arte sia una sorta di attività terroristica di smascheramento. L’arte, la parola verità, significa svelamento. Ecco! L’arte mette a nudo il mondo, la
moda veste il mondo. L’arte lavora sullo scheletro, l’industria lavora per la carne.
Questo per dire che l’arte produce sempre un nutrimento, un nutrimento che è
frutto di una molteplicità di linguaggi che sono conseguenza di processi creativi che
nascono da tecniche, materiali, da novità linguistiche, ma anche da citazioni.
L’arte, per un retroterra filosofico di tipo idealistico, nei libri di storia ci viene sempre segnalata come produzione di una intuizione oscura che l’artista porta
poi a compimento attraverso la forma. Come se l’arte fosse, semplicemente, sempre
e solo invenzione dal nulla. C’è sempre questa idea che, filosoficamente, nasce da
una cultura che vede dietro all’arte una sorta di antagonismo demiurgico con il
creatore. L’artista è il creatore che immette nel sistema delle forme una realtà linguistica che prima non esisteva.
Volendo recintare l’arte contemporanea, essa in realtà dovrebbe cominciare
con l’impressionismo. L’arte contemporanea, infatti, ha scelto un’ottica innovativa
rispetto all’arte del passato, creando delle aperture anche filosofiche, estetiche, del-
1
Testo rivisto e rielaborato dalla professoressa Donatella Di Adila.
23
L’arte nel 2000
le opzioni formali che rompono profondamente col passato. A metà dell’800 l’ingresso sul piano della riproduzione di tecniche meccaniche, non più legate, dunque, alla manualità ma all’occhio della fotografia, poi anche del cinema, in qualche
modo suscita una crisi nella coscienza dell’artista, il quale intuisce ormai di vivere
in una società dominata dalla tecnologia, dall’automazione, in una società in cui
l’immagine può essere riprodotta meccanicamente. Prima l’artista era il produttore
di un “unicum”, frutto di una manualità che poteva prevedere delle variazioni, ma
che non sarebbe stata mai capace di una fedeltà come può la tecnica meccanica.
C’è un filosofo, un grande intellettuale ebreo, Walter Benjamin, morto suicida perché angosciato dal nazismo, che ha scritto un saggio nel 1936 “L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, in cui si richiama a questi problemi e in
cui studia e analizza l’immagine all’epoca della sua riproducibilità tecnica. In quest’epoca nasce l’immagine replicata che elimina quella che lo studioso chiama
“l’aura”, quell’atmosfera mitica che c’è intorno al capolavoro, capolavoro romantico, quell’immagine che l’artista crea e che non è riproducibile una seconda volta.
Nel momento in cui questa riproducibilità diventa meccanica è come vedere un
film a casa in televisione, con i rumori della cucina, del telefono che suona, delle
voci dei bambini, delle porte che sbattono. Il rumore di fondo della realtà tecnologica accompagna questa immagine che perde il silenzio del capolavoro. Ecco allora
che l’artista si pone il problema di come confrontarsi con la nascente civiltà industriale che altrove, in Inghilterra, poi in Francia e Germania, tranne che in Italia
dove nasce molto più tardi, già era cominciata a metà del settecento. Allora l’artista
riflette, analizza quali sono gli strumenti specifici del suo operare: il colore, il segno, la luce. Ecco la luce che viene introdotta con l’impressionismo. La luce che per
velocità dissolve i corpi e per velocità richiama la velocità della città moderna, l’automazione, il ritmo incalzante della città che trasforma l’individuo in numero.
Ecco che automaticamente poi si passa al post-impressionismo, col quale questa dissoluzione, che prima era legata alla luce, alla pittura en plein air, all’aperto, si
collega alla scienza, alla legge sui colori complementari. Il ticchettio del pennello
genera un gesto ripetitivo sulla tela, imbriglia la sensazione e la riproduce, è quasi
un sistema pre-televisivo. Il pittore comincia a mettere in discussione il trompel’œil, l’illusione prospettica della profondità. La pittura recupera la bidimensionalità
ovvero una spazialità reale. Ecco che il linguaggio si mette in movimento, gli artisti
progressivamente, nei vari decenni che si susseguono, rispondono all’incalzare di
un contesto sempre più automatizzato in cui l’artista non è più, ovviamente, al
centro del sistema produttivo dell’immagine: la macchina -l’occhio meccanico- riesce a smistare, a distribuire una quantità di immagini al di sopra del lavorio che
potrebbe produrre la bottega artigianale di un pittore. E ci sono varie risposte a
tutto questo.
Dopo c’è il simbolismo che è proprio la risposta, la ricerca di un altrove, di un
luogo epifanico dove l’apparizione rimanda a mondi che non sono collegati con la
realtà. Ci sono i preraffaelliti che vogliono recuperare la pittura prima di Raffaello.
Tra i simbolisti Gustave Moreau. Tra i preraffaelliti Dante Gabriele Rossetti. Non a
24
Achille Bonito Oliva
caso i preraffaelliti vengono dall’Inghilterra, perché è la nazione in cui comincia la
civiltà industriale ed è una risposta regressiva per recuperare la purezza di una pittura silenziosa che lavora sulla perfezione contro le brutture della macchina, delle
periferie ingorgate, ormai, di una popolazione che viene dalle campagne e che per la
miseria si trasferisce in città, in quelle industrie dove c’è lo sfruttamento della manodopera infantile, dove si lavora anche 14/16 ore al giorno. Ecco che la pittura è,
proprio questa pittura, la ricerca di un altrove, di un luogo mitico. È una pittura che
cerca di trovare riparo dietro al mito del valore, di trovare il recupero dell’unicum
nell’opera d’arte.
Finalmente arriviamo al ventesimo secolo, all’arte nel 2000 o durante tutto il
2000. In questo secolo nascono le avanguardie, lo dice la parola stessa “drappello di
uomini” che esplora un territorio in anticipo rispetto al grosso dell’esercito. Le
avanguardie sono quei movimenti che prefigurano il nuovo anticipando il gusto di
una maggioranza silenziosa che cerca nell’arte la conferma dei valori acquisiti. Le
avanguardie si danno appuntamento a Parigi, la ville lumière, capitale cosmopolita
di una città che è stata antesignana degli sviluppi dell’arte contemporanea. E qui
abbiamo una serie di movimenti che si susseguono, ma cominciando già prima nel
1905 a Dresda in Germania, col gruppo “Die Brücke” (il ponte), c’è l’espressionismo tedesco, in Francia si chiamerà “Les Fauves” (le belve). Abbiamo Kirchner in
Germania, Matisse in Francia. Poi abbiamo nel set il cubismo: Picasso, Juan Gris,
Braque, ecc.
Nel 1909 esplode il futurismo. Il movimento futurista è un movimento tutto
italiano che fa sul piano del comportamento una rivoluzione. Il primo manifesto
futurista viene pubblicato su “Le Figaro”, un quotidiano francese, non nel silenzio
di una biblioteca, non su una rivista specializzata. I futuristi hanno capito che la
macchina domina la vita. Diceva Marinetti “è più bella una machina da corsa che la
Nike di Samotracia”. Essi hanno capito che la città è lo spazio per eccellenza, che
il giornale quotidiano è un sistema di informazione per una città moderna. Ecco
perché utilizzano la prosa del quotidiano per lanciare nel mondo il proprio programma futurista.
Poi viene il dadaismo con la sua ironia, il suo non-sens, l’antiarte di Duchamp.
In seguito abbiamo il surrealismo: Breton, Dalì, ecc. Il surrealismo che parte da
Freud e che recupera la liberazione dell’inconscio attraverso il processo creativo.
Tutti questi movimenti fino al suprematismo con Malevic, il costruttivismo con Tatlin
in Russia, perseguono un’utopia: rinnovare il linguaggio per rinnovare il mondo,
rinnovare attraverso la forma il comportamento di chi contempla l’arte. Questa
utopia, la parola utopia deriva dal greco “ou tòpos” (non luogo), è proprio riferirsi
alla possibilità di un’arte totale, di un’arte capace di costituirsi come anti realtà e
capace, quindi, di combattere la parzialità di una realtà minore, frutto di un quotidiano dominato dalla produzione, dal sistema utilitaristico dell’economia capitalista, dall’alienazione.
Poi, negli anni ’30, arrivano il nazismo, il fascismo, il salazarismo, il
franchismo. Le dittature di destra in qualche modo producono una diaspora nel-
ˆ
25
L’arte nel 2000
l’arte: gli artisti partono per alcuni paesi nordici, per la Svizzera, o vanno in America e diventano il seme della grande arte americana del secondo dopoguerra. Nel
secondo dopoguerra, dopo la liberazione, dopo il novecento italiano, dopo il realismo - lo stesso avviene in Russia perché in fondo tra il realismo socialista e il realismo nazista non c’è alcuna differenza, sono due stili agiografici e celebrativi, retorici, servili della parola forte della politica, epoche di oscurantismo sia con Stalin che
con Hitler - l’artista cerca, recupera l’autonomia del processo creativo. Ecco che
recupera anche il filo, la tradizione delle “avanguardie storiche”, quelle appunto
dei primi decenni del ‘900, ma naturalmente non può più recuperarne l’utopia. È
chiaro che ha dovuto prendere atto che la realtà non si lascia facilmente catturare
dalla poetica previsione dell’artista, tanto è vero che le avanguardie storiche non
hanno potuto, giustamente, rimediare, combattere, evitare il fascismo o il nazismo.
E abbiamo grandi movimenti che, specialmente in America, trovano una grande
radicalità: l’action painting, l’espressionismo astratto americano, la pittura d’azione, Jackson Pollock, innanzitutto, Tobey, Franz Kline. In Europa si chiama pittura
di segno con Hartung, in Italia abbiamo la pittura di materia con Burri, c’è poi il
grande chirurgo della pittura, come io lo chiamo, Lucio Fontana col suo taglio.
L’action painting, la pittura informale come si dice in Europa, è in qualche modo il
frutto della ferita profonda di una seconda guerra mondiale, ma direi anche della
tragedia della diaspora, della persecuzione degli Ebrei, dei campi di concentramento, di una morte ormai massificata che già aveva trovato nella prima guerra mondiale la sua grande prova generale. Quella prima guerra mondiale che aveva già
anticipato la carneficina ovvero la morte di massa, un buco nero, morti che si
assommano tra loro e che, malgrado lascino sbigottita l’umanità, poi a distanza di
30 anni ritornano con la seconda guerra mondiale.
Allora l’arte subito dopo il ’45-’50 si trova a costituirsi in maniera involontaria come una sorta di testimonianza della ferita, tentativo di risarcire e di sarcire.
Ecco che l’arte diventa segno di una testimonianza individuale, malgrado si
viva in una società di massa, malgrado si parli dell’America, della grande città: la
scena urbana, New York, il numero, l’estraneità collettiva della metropoli. Il soggetto risponde testimoniando attraverso la gestualità la libertà espressiva. Alle spalle della action painting, naturalmente, c’è il surrealismo, c’è l’automatismo psichico
del surrealismo, la manualità, la libertà espressiva contro ogni tecnica accademica.
È chiaro che poi, man mano, il vivere nella città comporta non più di scendere
dentro di sé, scendere nelle proprie viscere, ma anche risalire, confrontarsi. E allora
il new-dada: accanto alla pittura, alla gestualità, si recupera l’oggetto di dadaista
memoria. Abbiamo Rauschenberg, Jasper Johns.
Poi si arriva al linguaggio, per eccellenza classico, dell’arte americana: la PopArt. Io direi che la Pop-Art è un linguaggio assolutamente rivoluzionario che dà
classicità all’arte americana e fa di Warhol il Raffaello della società di massa americana, l’artista che dà classicità all’oggetto di consumo - all’immagine della pubblicità, alle immagini televisive, allo star-system, alla campbell’s-soup, che diventa natura morta - riprodotto col sistema della serigrafia su seta da parte di Warhol che non
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Achille Bonito Oliva
disdegna di fare i ritratti come un artista rinascimentale ai grandi industriali, ai personaggi popolari come Elvis Presley, Elizabeth Taylor, Jacqueline Kennedy, ecc.
Arte frutto di una società americana pragmatica che trova nella città la sua natura
seconda, una natura artificiale, disseminata di grattacieli, di produttività, ma anche
di energia, di erotismo che la città americana nel suo improvviso prodursi, momento per momento, sviluppa come sensazione sulla sensibilità dell’artista. In Italia
abbiamo: Burri e Fontana; in Germania abbiamo Hartung, Wols anche; Mathieu in
Francia. Poi c’è lo spostamento verso questa pittura di superficie anche in Italia con
artisti come Schifano, Festa, Angeli, artisti protoconcettuali come Paolini, Pistoletto,
ecc. Poi si arriva col tempo a quell’arte processuale, dopo la Pop-Art, chiamata
“antiform” in America con Robert Morris, Smithson con la “land-art”, in Germania con Beuys.
In Italia abbiamo Kounellis, Fabro, Merz, Zorio, Anselmo, ecc. L’arte recupera
l’oggetto, lo associa ad altri oggetti, l’artista lavora sulla possibilità di recuperare
energia attraverso materiali naturali. Lavorare all’aperto significa poter adoperare il
territorio come una sorta di immensa superficie su cui segnare la propria presenza.
Ecco che c’è come una sorta di mentalità cinematografica; come un dolly dall’alto
l’artista col suo occhio domina una quantità spaziale che non è quella della superficie pittorica. La land-art è segnare un territorio, ed è anche frutto della poetica di
un’America che sempre ha adoperato l’antropologia pionieristica del cow-boy, il
mito della natura incontaminata - il mito dei grandi spazi del west - contrapposta,
agli spazi ridotti, economici della città: la land-art, quindi, è proprio frutto di una
antropologia culturale che tenta di ricaricarsi spostando il processo creativo dall’artificio della città agli spazi aperti del deserto, della campagna, negli spazi dove alcune volte vengono adoperate anche le protesi di grandi strumenti industriali, perché
in effetti l’artista comincia ad operare con una mentalità di chi deve segnalare il suo
lavoro in un circuito, ormai, internazionale.
Quel sistema dell’arte che io comincio a teorizzare nel 1972. Questa catena
di S.Antonio, in una società altamente sviluppata a livello tecnologico, che produce
divisione del lavoro, anche intellettuale. C’è l’artista che crea, il critico che riflette,
il gallerista che espone, il mercante che vende, il collezionista che tesaurizza, il museo
che storicizza, i mass-media che celebrano e il pubblico che contempla. Ecco che
questa catena produce un valore aggiunto, un plus-valore, quello che io chiamo la
“superarte”, lo spostamento del valore linguistico in valore culturale. In questo sistema l’arte comincia a circolare a livello internazionale, anche l’arte italiana.
Si arriva all’arte concettuale che è il frutto anche del ’68, di una smaterializzazione del prodotto artistico, di un tentativo di antimercificazione. C’è l’uso della
fotografia, del video, di tracce, dunque, di un processo creativo più che della materia che generalmente accompagna l’opera d’arte. Ed è chiaro che questo tipo di
atteggiamento era frutto di una ideologia che io chiamo “l’ideologia del darwinismo linguistico”. Una ideologia evoluzionistica, lineare dell’arte: il pensare di essere
eredi di una tradizione che è quella delle avanguardie storiche, di avere gli antenati
nobili lungo una linea internazionale che poi corrisponde ai modelli forti dell’arte
27
L’arte nel 2000
americana. Una linea che assolve l’artista, gli dà un senso di modernità e lo fa sentire
partecipe di questo sistema.
In seguito nel ‘73 ci sono degli eventi che incidono sul contesto storico e
quindi anche sulla produzione dell’arte. Sia chiaro che, quando si parla di incidenza, non si parla mai di incidenze meccaniche. Sono condizioni che in qualche modo
sviluppano risposte, riflessi condizionati da parte del soggetto, artista, intellettuale
o uomo della strada. Abbiamo una serie di eventi. Intanto, a livello politico, la caduta delle ideologie. Finalmente si capisce che Cuba nei Caraibi è un piccolo braccio armato di un paese dove non c’è socialismo come in Russia. Si capisce che la
rivoluzione cinese è frutto di un fanatismo che sostanzialmente porta vittime e morti,
si capisce che il marxismo è una grande analisi della storia, ma non può reggere la
costruzione di un futuro. C’è il crollo delle scienze umane, di quelle scienze totalizzanti come l’antropologia, la sociologia, la psicanalisi, che sembravano poter dare
una lettura a tutto tondo della realtà e del mondo. E poi c’è un evento militare, la
guerra del Kippur, la guerra tra Arabi ed Israele che crea degli effetti in ogni campo
devastanti. Gli Arabi utilizzano il petrolio come deterrente per cercare di sensibilizzare un’opinione pubblica che ritengono troppo schierata con Israele. Aumentano il prezzo del petrolio con conseguente crollo della produttività delle società
occidentali, basate su un ottimismo produttivo, sull’importanza che esse hanno sempre dato alla trasformazione del greggio in petrolio, ovvero trasformazione della
natura in storia.
La cultura occidentale è frutto di un mito dell’azione, della capacità di trasformare la natura in artificio. Ha sottovalutato il problema delle materie prime,
ecco che c’è il crollo di tutta l’economia occidentale, dell’ottimismo produttivo e
anche, a questo punto, c’è la riflessione di quegli intellettuali e di quegli artisti che,
lavorando nel campo delle neo-avanguardie, come anche il sottoscritto, ritenevano
di appartenere a una parte migliore della storia, di elaborare modelli culturali, è il
caso di dire, per un futuro migliore. Quindi nasce la riflessione su quello che io ho
chiamato “l’ideologia del darwinismo linguistico”. Mi rendo conto che all’ottimismo produttivo del sistema capitalistico e industriale corrisponde l’ottimismo sperimentale delle neo-avanguardie che hanno sempre pensato con un sistema edipico
di uccidere il padre, sistematicamente. L’ideologia del darwinismo linguistico, quell’ideologia che portava gli artisti a sentirsi al riparo. Ecco: il fatto edipico che un’avanguardia schiaccia l’altra pensando che, sperimentando solo nuove tecniche e nuovi
materiali, si realizzasse un’ arte più inserita nella modernità. L’ottimismo produttivo dell’industria, l’ottimismo sperimentale dell’avanguardia: crollo reciproco.
Questo è l’impasse in cui io entro a gamba tesa e teorizzo la “transavanguardia”. Che cosa è la transavanguardia? Premesso che le avanguardie nascono dalla
grande cultura romantica, sono il frutto di uno “sturm und drang”, di un impetoassalto della tradizione, un rovesciamento di tutto. Infatti il grande padre delle avanguardie è Wagner, l’artefice dell’arte totale. Quelle avanguardie che per impeto credono nelle novità: la cultura del nuovo, la fiducia nel futuro, perché vivono nel
‘900, un’epoca costruttiva, durante la quale la borghesia prende sempre più, giusta28
Achille Bonito Oliva
mente, il sopravvento nel senso che produce condizioni di vita migliori per tutti.
C’è anche, siamo nel ’73, uno sbigottimento perché anche i partiti di sinistra, i cosiddetti partiti progressisti, credevano nella storia come progresso, ovvero che la
storia si muoveva sempre verso il meglio, verso il superamento delle antinomie.
Allora io mi sono chiesto: che fare per uscire da questa sorta di geometria che mi
aveva portato ad un’accademia post-concettuale, assolutamente insostenibile anche
per me che ero stato tra quelli che, critico ardimentoso, avevo appoggiato tutti i
rinnovamenti precedenti? Io avevo già scritto un saggio sul manierismo, e ne stavo
scrivendo un altro in cui prendevo in considerazione il ‘500, un’epoca che aveva dei
paralleli con la nostra epoca presente. Il ‘500, secolo in cui avviene una sorta di
catastrofe epistemologica che investe tutti i campi strutturali del sapere.
Durante il Rinascimento, il picco dell’arte italiana, la conquista della prospettiva, la misura della storia attraverso la geometria euclidea, i parametri di armonia, proporzione e simmetria, l’uomo domina la storia, la recinta, la misura, crea la
gerarchia tra il principe e la corte, tra l’uomo e la storia, tra la natura e la città, e
realizza questa misura simbolica della storia, della profondità: la prospettiva. “Quisque faber fortunae suae”, ciascuno è artefice della propria fortuna, in quanto siamo tutti portatori di ragione e la ragione è ciò che ci dà il primato nella scala gerarchica degli esseri viventi. L’uomo, l’orgoglio degli esseri viventi in quanto portatore
di quello strumento, la ragione, che lo rende più vicino a Dio. Non a caso si sviluppa anche tutta una pratica, quella delle mappe che è una forma di concettualizzazione dello spazio. Non a caso l’esplorazione geografica aumenta e allora che cosa
succede di così storicamente problematico che mette in discussione questo primato
dell’uomo sulla storia, questa centralità della ragione sul mondo, questo ottimismo,
questo edonismo intellettuale, culturale, dell’artista su tutta l’umanità? Ci sono una
serie di eventi storici.
Partiamo dalla scoperta dell’America, 1492. C’è in qualche modo la sensazione di una ricchezza, di un territorio che è altrove, quindi crisi della conoscenza
geografica, visto che ho parlato di crisi epistemologica, anche crisi religiosa. Lutero
contesta l’uso mondano della Chiesa, di un potere che dovrebbe essere spirituale,
smaschera le lotte delle famiglie aristocratiche romane per il possesso del trono di
Pietro e affigge le sue bolle di protesta a cui la Chiesa cattolica risponde con il
Concilio di Trento che si conclude nel 1563 e in cui detta le regole di controllo sulla
coscienza individuale. Una crisi che trova il suo culmine nel 1527 col sacco di Roma,
quando Carlo V con i suoi Lanzichenecchi arriva a Roma e bivacca per un anno
nella Chiesa di S.Pietro con i suoi cavalli. Shock della coscienza collettiva, religiosa,
dell’opinione pubblica cattolica che allora dominava il mondo. Precarietà per una
città, caput mundi. Crollo di un mito, nascita della finanza moderna. I principi si
fanno le guerre, i re si combattono, gli imperatori anche. Non esistono eserciti regolari, ma mercenari. Nasce il potere del danaro, le prime grandi famiglie di Ebrei,
i Rothschild dalla Svizzera cominciano a prestare le somme di danaro e le distribuiscono, secondo le proprie convenienze, determinando eventi storici, rafforzando
un paese contro un altro. Quindi potere del danaro, non più solo potere del sangue,
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L’arte nel 2000
passaggio dalla filosofia aristotelica a quella neoplatonica. Dall’arte come mimesi,
rappresentazione della natura, all’arte come rappresentazione del mondo delle idee.
Marsilio Ficino dice che l’ansìetas è la struttura dell’animo umano. L’ansietà: nasce
la psicologia moderna, la scissione psicologica, la dissociazione dell’io. Machiavelli
teorizza il realismo politico, la lotta politica è il frutto di antagonismi per il potere,
non c’è nessuna idealità, c’è lo sfruttamento della buona fede della popolazione. Il
realismo politico presuppone la scissione tra politica e moralità, che poi porta in
Italia fino a tangentopoli.
Tutte queste crisi determinano una condizione di precarietà esistenziale e
mettono in discussione anche i codici dell’arte. Ora la ragione non riesce più a controllare un mondo che si trasforma in maniera inaspettata. Ora l’artista non riesce
più a presentare l’ordine di un mondo disordinato, ora l’artista non ha più fiducia
nel futuro, non ha più un’idea di progresso, si rifugia nel passato, nella memoria.
Ecco il principio di citazione che sostituisce quello di invenzione. Ecco il manierismo:
dipingere alla maniera di Michelangelo, Leonardo, Raffaello. Riprendere i codici di
questo mitico Rinascimento, visto che non c’è invenzione, subentra la citazione.
Ma come si fa a citare il codice prospettico che è segno di ottimismo, di misura, di
proporzione e di armonia per rappresentare un mondo disarmonico, dissociato e
smisurato? Ecco, questo è il grande problema. Come si fa ad affrontare un mondo
in cui non si ha fiducia dopo che il Rinascimento aveva misurato questo mondo in
maniera frontale, perché è chiaro che la frontalità determina la possibilità e la misura, in un’epoca in cui l’artista è terrorizzato? Come si fa ad affrontare il mondo con
la riserva mentale dopo un’epoca di sicurezza? Ecco la sostituzione della posizione
dell’artista da quella della frontalità a quella della lateralità. Ecco il mio libro “L’ideologia del traditore”. Chi è il traditore? Uno che guarda il mondo, non lo accetta,
vorrebbe cambiarlo, non agisce, altrimenti sarebbe un rivoluzionario, e vive tutto
nello spazio della riserva mentale, la riserva dell’immagine, dell’allegoria, della metafora. Ecco che allora il traditore diventa l’emblema in positivo della posizione di
un’artista che sa che non può modificare con le sue allegorie in metafore la realtà
che si forma altrove. Ecco che l’artista capisce che tradurre significa tradire, citare
la prospettiva ma modificarla dall’interno. La prospettiva diventa plurima, dissociata, arrovellata.
Lo spazio diventa soggettivo, non più oggettivo come quello rinascimentale,
ecco che si arriva all’anamorfosi. C’è un famoso quadro di Holbein “Gli ambasciatori” in cui vediamo in una conversazione fra due ambasciatori un siluro che passa
nello spazio. Se lo guardiamo frontalmente, non sappiamo che cos’è. Se ci mettiamo di lato, scopriamo che è un cranio, un teschio che passa nell’aria. Ecco che noi
vediamo l’opera solo nella posizione di lateralità. Ecco la citazione. Citare il linguaggio che cosa significa? Capire che l’arte è il metalinguaggio. Ecco il
neoplatonismo: realtà dell’arte è il linguaggio dell’arte stessa, l’arte è artificio, da qui
la bizzarria manierista, la corazza stilistica di cui si fasciano gli artisti e gli intellettuali per non soffrire la dissociazione. L’eleganza del cortigiano che vive il sistema
della corte come un rituale protettivo. La bizzarria, i gabinetti della curiosità di
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Achille Bonito Oliva
Rodolfo II Imperatore a Praga, una sorta di piccolo zoo fantastico, gli animali più
strani, più bizzarri. In un’epoca di crisi il soggetto ha bisogno di segnalarsi , di
individuarsi per non farsi cancellare. Ecco, quindi, che la citazione non è solo ricalcare, non è solo ripetere, ma significa introdurre una modificazione. Ecco, tradurre
è tradire, arrovellamento che poi ritroviamo anche nella letteratura. Se noi guardiamo Don Chisciotte, leggiamo Shakespeare, è tutta sempre una pratica giocata sullo
strabismo, sulla doppia visione, sull’arrovellamento, sull’impossibilità del soggetto
ad agire e a sentirsi protagonista. Nell’Otello Jago è il vero protagonista, Otello è
mosso nella sua gelosia da Jago che muove i fili dell’azione omicida su Desdemona.
E quando Otello ingenuamente loda Jago, non ancora scoperto in tutta la sua strategia della menzogna, lo loda e Jago risponde: io non sono che un critico, ovvero
un soggetto che può guardare il mondo, ma non può agire e agisce attraverso gli
altri. Ecco l’inazione, la riflessione, l’arma indiretta del linguaggio dell’arte, quindi
metalinguaggio, citazione. A questo punto, in un’epoca di crisi, ho teorizzato la
transavanguardia, una forma di neo-manierismo: recupero della pittura, della scultura, di pratiche che riportavano l’estetico nel campo dell’artistico e che lavoravano
sulla memoria, ma su una memoria non ortodossa, sul nomadismo culturale. Riprendeva anche le avanguardie, ma anche strade laterali. Eclettismo stilistico, l’intreccio tra astratto e figurativo, assemblaggio, riconversione, dissociazione,
destrutturazione, contaminazione. Ecco che il traditore patetico, nel senso di investito dal pàthos manierista -Pontorno, Bronzino, Parmigianino, Rosso Fiorentino,
Beccafumi- diventa il traditore cinico, intellettuale, l’artista che sa, come diceva
Heidegger, che il terribile è già accaduto. Citazione, ma senza nevrosi, senza identificazione col passato, senza sensi di colpa che il ‘68 aveva introdotto negli artisti e
negli intellettuali e che portavano molti intellettuali ad essere angeli custodi del
ciclostile, a dimettersi dal loro ruolo creativo.
La transavanguardia recupera la dimensione creativa, l’idea della forma, l’elaborazione del processo creativo, non più solo mentale, concettuale, ma anche manuale. L’etica del lavoro creativo reintroduce il soggetto dopo un ‘68 che aveva
mortificato il soggetto in nome di un noi, di un collettivo, di una decisione assembleare. Questo è possibile anche perché io ho sempre detto: non sono mai stato
marxista, ma sempre ”totoista”, ovviamente mi riferisco a Totò. Io sono l’erede
intellettuale di questa tradizione culturale, ma nel senso migliore, anche un po’ ludica
dell’ “a prescindere” di Totò, che è un mettere tra parentesi. Il processo creativo, è
sempre un a prescindere, è come il ready-made di Duchamp: sottrarre,
decontestualizzare, defunzionalizzare e reinvestire di una nuova funzione la parola, la teoria, l’oggetto. Totoismo, oscillazione, ironia. Ecco che il soggetto ritorna
nella pittura, ma è un soggetto domestico, non più superbo, monumentale, che deve
sconfiggere frontalmente la storia. È, quindi, un soggetto che ritorna attraverso
quell’ironia che potremmo definire, come Goethe, la passione che si libera nel distacco, lucidità.
La transavanguardia non significa preferire l’opzione picassiana a quella
duchampiana, non significa rinunciare alla concettualità a pena per la manualità
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L’arte nel 2000
espressiva, anzi la transavanguardia è il matrimonio morganatico tra Picasso e
Duchamp. Recupero della pittura della citazione, della memoria , ma anche uso del
ready-made. Che cos’è la citazione degli stili del passato se non una sorta di readymade stilistico, di stili prelevati - come la ruota di bicicletta o l’orinatoio di Duchamp,
o le zollette di zucchero - e reinseriti in un contesto di pitture attuali, shakerati,
ridistribuiti, pellicolari, di superficie. Ecco, questa è la transavanguardia.
Nasce in Italia - Clemente, Paladino, De Maria, Cucchi, Chia - poi ci sono
anche artisti tedeschi, americani. Anzi in Germania comincia anni prima: Baselitz,
Penck, Polke, Immenddorf. In America: Schnabel, David Salle, ecc.
A questa prima fase della transavanguardia calda, poi negli anni ‘80 e ‘90
succede la transavanguardia fredda, ovvero stessi criteri - destrutturazione, riciclaggio, assemblaggio, riconversione ma applicati all’installazione, all’oggetto- quindi, una post-modernità che utilizza la stessa mentalità ma raffreddando il procedimento. Ci sono artisti come Förg in Germania, in Francia Lavier, in America Jeff
Koons: un artista importante che utilizza un procedimento manierista, quello della
simulazione. Egli prende un gadget qualsiasi, potrebbe essere anche un soprammobile, un souvenir preso a Orlando, alla Disneyland, e lo cala nell’argento, gli dà
preziosità, proprio perché nel sistema dell’arte il collezionista va alla ricerca del
valore. L’artista gli dà questo valore di superficie, la preziosità del materiale che è
una forma di simulazione, vale a dire recupero di un codice di preziosità che l’arte
nel suo mito ha sempre conservato.
Ecco che ci avviamo alla fine del 2000 verso un sistema che diventa sempre
più telematico. L’industria dell’immagine recupera le migliori lezioni dell’avanguardia. Gli artisti sanno recuperare nei video-clips - Michael Jackson, Madonna - il
meglio, ma con velocità futurista, non-sens dadaista e condensazione onirica,
surrealista. Non c’è più trama. Il video diventa estremamente moderno in un’industria sofisticata che produce un’immagine pellicolare e contro questi, oggi, c’è la
possibilità di artisti di porsi il grande problema finale di questa nostra conferenza.
All’immagine pellicolare, bidimensionale, di superficie, all’anoressia dell’immagine
che produce l’industria per arrivare nelle nostre case smaterializzata, l’arte come
deve rispondere? Questo è il problema. Come può il singolo artista in maniera
artigianale rispondere a un’industria così bene attrezzata fino al buon gusto? E questo
è il discorso: affrontare il tema della comunicazione, la moda lo ha dimostrato. Non
esiste più il prodotto, esiste la comunicazione.
La comunicazione irradia la propria bontà su tutto. Quindi non bisogna presentare, è l’evento che conta. Questo è il grande tema di oggi. L’artista deve confrontarsi con una società di massa come la nostra, post-industriale, telematica, computerizzata, pellicolare. Sviluppare una comunicazione alternativa, capace di ridare il senso a questo svuotamento. Ecco che quindi l’arte recupera, a mio avviso, il valore e la
possibilità di quello che io chiamo “un progetto dolce”, non la progettualità superba
anni ‘30, da Bauhaus, quando si pensava di disegnare il mondo attraverso l’oggetto di
serie, ma quanto piuttosto attraverso l’arte dare i segni di una resistenza individuale.
Il progetto è un sistema di ordine linguistico, concentrato sull’opera, che non si river32
Achille Bonito Oliva
bera all’esterno come si pensava potesse fare utopicamente l’avanguardia storica, ma
diventa luogo di visitazione , di approccio per lo spettatore.
Quindi, per finire, io credo che l’arte senza dubbio non ha la funzione storica
che aveva. Ed è chiaro che quando Hegel parlava di morte dell’arte, ne parlava
come perdita di una funzione nel sociale. Ma l’arte, a mio avviso, è un bisogno
biologico dell’uomo, quindi come tale riuscirà sempre sotto traccia a mantenersi
viva, ma nello stesso tempo ha bisogno del contatto, dello scambio, e allora il problema è proprio questo. Lo scambio deve sviluppare una coscienza e deve produrre
dei processi di conoscenza in chi la guarda. Non deve essere semplicemente consumo edonistico, quell’immagine pellicolare, che delle volte è anche gradevole, a cui
tutti ci sottomettiamo nel senso migliore della parola.
Non credo che bisogna stare a tempo pieno nei musei, l’arte non è quaresimale in questo senso. Può produrre anche il piacere della conoscenza, ma la cosa
importante ed è lo slogan con cui vorrei finire è proprio questo: l’arte è come la
festa nel senso proprio dell’antropologia culturale. La festa è lo spazio dove non
esiste né alto e né basso, né destra e né sinistra, è il superamento della gerarchia ed è
per questo che io ho impostato e ho teorizzato un modello di critica creativa che ha
superato la dimensione del critico come servo di scena, figura a servizio dell’arte. Io
ho la modernità di una posizione laica che crede alla complementarità dei ruoli, tra
artista e critico, e credo anche che il pubblico debba uscire dal ruolo di terminale
spento a cui spesso masochisticamente si adatta, perché altrimenti veramente si conferma quello che una volta ho dichiarato: “critico si nasce, artista si diventa e pubblico si muore.”
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Vito Cagli
“Sognando l’ippogrifo”: tra psicanalisi e medicina
di Vito Cagli
Io credo che in un programma così ben strutturato come quello di questo
ciclo di conferenze che vuole in una certa misura tener conto di alcuni eventi scientifici, artistici e letterari che hanno attraversato il secolo che si è appena concluso,
non possa mancare la psicoanalisi. Ancora oggi, malgrado vi siano ancora molti
detrattori, è una “scienza” ancora praticata e ha delle aperture straordinarie su tutto
il sapere umano, perché è una scienza antropologica che prende in esame l’uomo
nella sua interezza. Per quello che riguarda il titolo della relazione, l’ippogrifo altro
non è se non la metafora di una medicina così come vorremmo che fosse, cioè qualcosa di ben piantato a terra con i suoi zoccoli, con la fisicità dei corpi, ricordando
che senza corpo non ci può essere medicina ma ricordando allo stesso tempo che
occorrono le ali per volare, perchè altrimenti si arriva prima in paradiso e poi, come
succede nell’Orlando Furioso, si monta sul carro di Elia e si arriva sino sulla luna a
recuperare il senno di Orlando. La domanda che dobbiamo porci è se tra medicina
e psicanalisi ci sia una convergenza o una divergenza, una sintonia di pensiero oppure c’è un’opposizione. Di certo sorprende un po’ il fatto che una scienza nata in
ambito medico sia guardata dalla medicina con lontananza, sicché tra psicanalisti e
medici c’è una divaricazione che anziché diminuire è aumentata nel tempo.
Goethe diceva che “si vede ciò che si sa”, il che fa supporre che è la cultura a
farci vedere o non vedere certe cose in un modo piuttosto che in un altro: e così
accade per la medicina e per la psicanalisi. Quando noi ci muoviamo nel campo
della soggettività, quando noi andiamo all’essere invece che all’avere la cosa che si
richiama subito con prepotenza è la necessità di un significato, perché se c’è una
cosa che connota l’uomo è il bisogno di dare senso a ciò che fa , vedere ciò che è
intorno a noi. La cosa più terribile per l’uomo, infatti, è il non senso, l’essere straniato,
trovarsi in una dimensione dell’assurdo: l’uomo non resiste a questo perché ha bisogno di dare un senso e la malattia nasce con un senso. Ce lo insegna, infatti, quel
grande documento della protostoria che è l’Iliade. Essa si apre con l’invocazione
“Canta o mia diva del Pelide Achille” e con la scena grandiosa in cui Crise, sacerdote di Apollo, si presenta ad Agamennone, capo dell’esercito acheo, per chiedergli la
restituzione di sua figlia Criseide che Agamennone tiene come schiava, concubina e
preda di guerra. Agamennone non solo rifiuta ma scaccia Crise, lo umilia di fronte
a tutti e per questo motivo Crise si allontana e implora Apollo perchè lo vendichi. Il
dio a sua volta scaglia delle frecce avvelenate sul campo degli Achei e scoppia la
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Sognando l’ippogrifo: tra psicanalisi e medicina
peste. Dopo nove giorni Achille, uomo intelligente, va da Calcante, il vecchio indovino che tutto conosce del passato e tutto immagina del futuro e gli chiede cosa si
possa fare per far fronte alla peste. Egli risponde che l’umiliazione del sacerdote
Crise ha scatenato l’ira di Apollo e per placarla occorrerebbe restituirgli la figlia e
fare sacrificio ad Apollo. Così viene fatto e la peste scompare: dunque, ci troviamo
di fronte a un evento carico di significati in cui solo il fatto di aver rintracciato un
significato porta alla guarigione. Questa concezione di malattia secondo la quale
l’interpretazione di un significato guarisce la malattia è molto suggestiva.
Ma è solo con Aristotele che tale ipotesi prende corpo: egli, infatti, afferma
che non dobbiamo cercare il senso ma la causa delle cose, concetto, quest’ultimo
che viene ereditato in pieno nel secolo del positivismo. Freud, ad esempio, matura
in questa temperie con il suo primo “Progetto di una psicologia”, opera che una
volta completata e pubblicata venne chiusa in un cassetto e verrà pubblicata solo
post mortem nella sua opera omnia.
A mio parere è come se si fosse liberato del peso di questa elucubrazione
meccanicistica per poter seguire il filone che era suo proprio. Egli, infatti, si sforzò
di cercare una sede, un organo che è colpito e una causa che ha colpito tale organo:
l’alterazione anatomica ha degli equivalenti clinici che sono quelli che il medico
coglie facendo un percorso a ritroso dai segni clinici alle alterazioni degli organi
sino a giungere alle cause che l’hanno provocato. Quando questa sequenza si interrompe il medico resta stranito, non sa più che cosa fare e in quel caso la neuropatologia non sa più che cosa dire. Freud, quindi, si serve del metodo catartico, l’antesignano della psicoanalisi, ovvero l’ascolto del paziente, il grande segreto dimenticato dai medici. Ma egli va oltre soprattutto con il suo testo sull’interpretazione dei
sogni, libro che segnerà il secolo. Due anni dopo prenderà in esame quello che noi
gettiamo nel cestino della carta straccia, perchè la scienza stranamente a volte getta
delle cose importanti nel cestino, non le considera, non prende in esame, cioè, quei
piccoli errori che noi facciamo quotidianamente o quasi (il vaso che sbadatamente
rovesciamo, quando è il regalo, magari, fatto da chi ci è antipatico), un errore di
parola, a volte tragico perchè diventa una gaffe: insomma tutti questi piccoli errori,
i cosiddetti lapsus freudiani, hanno un senso. Nel frattempo si faceva strada un
altro campo di indagine, praticato da chi, invece di capire la malattia si preoccupa di
attenuarne i sintomi. Tale filone si afferma soprattutto dopo il 1950 quando in
rapida successione vengono messi a disposizione dei medici varie categorie di psicofarmaci che interferiscono in maniera notevole con le capacità psichiche del paziente e riescono a dominare molti quadri morbosi o quanto meno ad attenuarli.
Però la domanda che gli psicanalisti pongono agli psichiatri è questa: “voi avete
scoperto una sorta di aspirina e la somministrate a chi ha la febbre. Ma il fatto che
vada giù è un vantaggio?” Gli psichiatri dal canto loro rispondono che in tal modo
i pazienti riescono a svolgere le loro attività e a reinserirsi nella vita, senza stendersi
sul lettino per tre o quattro volte la settimana e per un ampio lasso di tempo.
Secondo Freud, inoltre, la causa del nervosismo moderno sta nella sessualità
repressa ma negli ultimi cinquant’anni anni, al contrario, la sessualità è esplosa e
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Vito Cagli
mai si è vista una libertà sessuale come quella di oggi. Eppure le nevrosi non sono
diminuite. Tuttavia Freud parlava di forme di nevrosi particolari come l’isterismo
d’angoscia, che corrisponde ai disturbi d’ansia o ai disturbi di panico che sono le
patologie più diffuse. Ma forse sarebbe più opportuno porsi altri interrogativi, di
certo più importanti. Alla soglia del terzo millennio ha senso dire che la malattia
può avere un significato o non è un ritorno al passato, qualcosa di antiscientifico?
In realtà mentre una polmonite o una colica renale hanno una causa ma non un
senso, per una nevrosi è diverso. Essa, infatti, può avere un senso, allora possiamo
affermare che le malattie fisiche e organiche hanno una causa e quelle psichiche
hanno un senso. Ma se andiamo a scavare un po’ di più, come sempre ci accorgiamo
che questa spaccatura in due non regge. Se prendiamo in esame le malattie somatiche,
ad esempio, ci accorgiamo che esiste tutto un campo, quello della psicosomatica
che ci dice che la psiche può interferire sul corpo. In Italia abbiamo un caso particolarmente emblematico, quello di Enzo Tortora, che morì per una patologia tumorale
probabilmente causata dall’ingiusta carcerazione, dall’umiliazione che aveva seguito. Ma di certo non c’è una prova scientifica per questo.
In altri termini, insomma, è possibile trovarsi a “gestire” non soltanto malattie organiche. La malattia, di per sè è un’ospite indesiderata finchè si vuole ma è pur
sempre un’ospite, con la quale noi per un certo periodo, si spera breve, dobbiamo
convivere. Se, ad esempio, osserviamo un malato in dialisi ci accorgiamo che esiste
un legame particolare con la macchina, prim’ancora che con l’équipe curante. Se ci
spostiamo nel versante delle malattie con sintomi psichici noi ci rendiamo conto
che anche lì dietro ci può essere il tranello, perché può succedere che una persona
addirittura cominci a sragionare e poi si scopre che ha un tumore frontale, un altro
cade in depressione e si scopre che ha un tumore del fegato. E ciò può succedere
anche nei disturbi più banali: una persona diventa svogliata all’improvviso e poi ci
si accorge che è anemica, un’altra è diventata irritabile e ci si accorge che è ipertiroidea.
Ci sono addirittura delle condizioni morbose come la sindrome della stanchezza
cronica che è comparsa alla ribalta medica ormai da una decina di anni, di cui ancora non sappiamo se le cause sono psichiche o organiche.
Un personaggio illuminante della prima metà del ‘900 è Karl Jaspers, filosofo
e psichiatra tedesco che nel 1913 pubblica un libro fondamentale, la Psicopatologia
generale, sulla base della fenomenologia di Husserl, dove riprende due concetti
introdotti da un filosofo tedesco che, a sua volta, aveva fatto una distinzione molto
importante tra scienza della natura e scienza dello spirito. La prima è, praticamente,
la fisica ed è considerata una scienza governata da regole e leggi (per fare due esempi, l’acqua bolle sempre a 100 gradi e su questo non si può discutere mentre l’acqua
distillata ha 740 millimetri di mercurio per chi vuole essere preciso), la seconda
ingloba scienze come la storia o la psicologia che non hanno delle leggi fondamentali ma hanno degli approcci per capire . Nel caso delle scienze fisiche bisogna spiegare, nell’altro bisogna comprendere quindi questi due termini, spiegare e comprendere, sono molto importanti.
Nel campo psichiatrico oggi, rispetto a 50 anni fa, sappiamo una quantità di
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Sognando l’ippogrifo: tra psicanalisi e medicina
cose che prima non conoscevamo neppure: tutti i neurotrasmettitori, tutti i mediatori chimici corrispondono ai nostri stati d’animo e alle nostre patologie psichiche:
la depressione, la mania, la schizofrenia che sono poi i presupposti per gli psicofarmaci, erano sconosciute. Ma spiegare e comprendere non sempre viaggiano sullo
stesso binario perché spiegare non ha nulla a che vedere (o non sempre, almeno)
con il comprendere. Prendiamo un esempio semplice: una persona sta piangendo,
ma non credo sia utile dirgli che un treno di impulsi sta percorrendo il settimo paio
di nervi cranici, arriva poi al quinto paio e poi va alle ghiandole lacrimali e induce la
secrezione delle lacrime.
Tutto ciò non serve a nulla: noi a questa persona domanderemo il motivo del
suo pianto e lui ci risponderà, magari, che ha perso un figlio, e allora noi capiremo
che quel lutto e quel pianto sono in collegamento l’uno con l’altro, avremo fatto ciò
che dice Jaspers, avremo spiegato psicologicamente, cioè compreso.
Qualcuno, infine, afferma che la psicanalisi è qualcosa di irrazionale perché
si occupa del “sotterraneo” dell’uomo, ma non dobbiamo dimenticare che aspetti
notturni, istintuali, l’inconscio, il sogno, le pulsioni e gli istinti umani sono particolarmente illuminanti. Non si tratta, quindi, di un’operazione irrazionale ma
illuminista.
C’è chi sostiene che la psicanalisi di Freud sia rigidamente deterministica, che
è in un sistema che lega i presupposti alle conseguenze così come fanno le scienze
della fisica: ma in questo non c’è nessuna opposizione di pensiero. In altri termini,
medici e psicanalisti vedono lo stesso panorama ma da due finestre diverse: se si
mettessero insieme i due aspetti sarebbe l’optimum: entrambi, insomma, devono
guardare dell’uomo la fisicità del proprio corpo ma devono allo stesso tempo essere
pronto ad accettare ed ascoltare anche quelle che sono le sue ansie, i turbamenti e
gli smarrimenti. In altre parole devono essere pronti a recuperare l’Ippogrifo.
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Marcello Cini
Le scienze della complessità
di Marcello Cini
1.1 .Per secoli l’ideale conoscitivo della scienza galileiana e newtoniana si è
identificato con la possibilità di prevedere l’evoluzione futura di ogni fenomeno a
partire dalla conoscenza della legge che lo regola. Il successo empirico di questo
metodo ha via via rafforzato la convinzione che l’infinita varietà dei fenomeni fisici,
nonostante le loro apparenze così diverse, fosse riconducibile a una spiegazione in
termini di leggi semplici e universali. Esso infatti si fonda sulla convinzione che qualunque fenomeno può essere sfrondato dalle accidentalità che non ne alterano sostanzialmente la natura e l’evoluzione, e sull’assunzione che gli effetti del caso, dell’imprevisto e delle circostanze esterne possano essere ridotti fino a diventare trascurabili.
Il modello newtoniano domina dunque in tutte le discipline fino alla fine del
secolo scorso e definisce implicitamente i mezzi e gli obiettivi della scienza. Anche
le scienze umane e sociali assumono più o meno esplicitamente questo modello.
1.2. Dai lumi della nuova scienza di Galileo e Newton, e dai fuochi delle fabbriche accesi dalla rivoluzione industriale, è nata una cultura, diventata egemone nei
paesi più avanzati industrialmente, che potremmo chiamare cultura del macchinismo,
perché fondata sull’abitudine a considerare le macchine come il mezzo “naturale” per
fare le cose. Nella cultura del macchinismo la macchina diventa il modello per spiegare e rappresentare il comportamento di ogni organismo naturale. L’uomo stesso nel
‘700 è visto come una macchina meccanica, nell’800 come una macchina a vapore, poi
come un laboratorio chimico, e oggi, infine, come un computer.
È una cultura che vede il mondo come un mosaico di parti differenti, ognuna
analizzabile di per sé in termini dei suoi costituenti e delle forze che li tengono
insieme, a prescindere dal contesto e dall’ambiente circostante. È un mondo
prevedibile, nel senso che, in linea di principio, lo sono i comportamenti delle sue
parti, soggette a leggi semplici e universali.
La cultura del macchinismo è riduzionista. Questo vuol dire che siamo abituati a cercare la spiegazione delle proprietà di un sistema composto assumendo
che esse siano completamente determinate dalle proprietà delle sue parti. In una
macchina questo è sempre possibile, perché i pezzi nei quali può essere smontata
sono stati progettati proprio in modo tale da stabilire questa rigida relazione causale. Questa cultura è anche lineare. Lineare vuol dire che siamo abituati a pensare
che alla concomitanza di due cause indipendenti consegua un effetto che è la somma dei singoli effetti corrispondenti. Questo modo di vedere la realtà è una
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Le scienze della complessità
estrapolazione della radicata convinzione che ogni mutamento sia riconducibile a
movimento, e che questo movimento in ultima analisi segua le leggi newtoniane del
moto dei corpi materiali.
Questa cultura sta ancora alla base di ogni approccio scientifico alla comprensione dei fenomeni del corpo umano.
2.1. Fino alla metà di questo secolo il panorama delle scienze è dominato dal
modello newtoniano. Ma negli anni ’60 questo panorama comincia a mutare radicalmente. La ricerca nei settori di punta, si concentra infatti sullo studio degli aspetti che
caratterizzano l’evoluzione di processi irregolari e irripetibili. Invece di cercare di
unificare diversi fenomeni complessi e irregolari attraverso l’identificazione di alcuni
elementi semplici e regolari comuni unificanti, il nuovo approccio sottolinea al contrario che sistemi strutturalmente identici possono manifestare comportamenti “selvaggiamente” diversi. Esso rinuncia alla priorità epistemologica delle categorie di ordine, semplicità, regolarità nei confronti delle categorie opposte di disordine, complessità, irregolarità quando risulta impossibile ricondurre queste ultime alle prime.
In particolare esso rinuncia a identificare la conoscenza scientifica con il
riduzionismo, cioè con la riduzione delle proprietà di un sistema a quelle delle sue
parti costituenti, per contemperarlo con l’adozione di un punto di vista globale, che
considera le proprietà di un sistema complesso come aspetti reciprocamente connessi di una unica totalità autoconsistente da comprendere nella sua integrità.
2.2. Un segnale di questo mutamento è lo straordinario sviluppo del pensiero
evoluzionista. Si tratta, come sappiamo, della ripresa di una scoperta ottocentesca,
la teoria darwiniana dell’evoluzione della vita sulla Terra. Oggetto fino agli inizi del
secolo di violente polemiche all’interno stesso della comunità scientifica, essa venne successivamente accettata e codificata nella forma della cosiddetta “sintesi moderna” negli anni ’40, ma rimasta fino agli anni ’60 confinata all’interno del settore
della biologia evolutiva.
Come è noto, Darwin ha proposto una spiegazione del processo evolutivo
della vita sulla Terra facendo ricorso all’azione concomitante di due fattori: un meccanismo (sulla cui natura egli non si pronuncia) che dà origine alla variabilità dei
caratteri somatici dei differenti individui di una data popolazione, e un processo di
selezione naturale che permette agli individui dotati di caratteri vantaggiosi per la
sopravvivenza di trasmettere questi caratteri ai loro discendenti a un tasso più elevato di quello dei più svantaggiati, destinati a morire precocemente.
Ma negli anni ’60 l’idea di Darwin si afferma trasversalmente all’interno di
numerose discipline trasformandole profondamente, e dà origine a un vero e proprio nuovo modo di guardare il mondo. “Il nuovo paradigma.. - scrive Erwin Laszlo
- è completamente differente dalle concezioni classiche. Alla luce di questo paradigma
l’evoluzione ha luogo, passo dopo passo, e livello dopo livello, alternando fasi di
determinazione e di indeterminazione, attuando processi di autoconservazione attraverso il cambiamento e processi di riorganizzazione - casuali e forse caotici - nel
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Marcello Cini
corso di fasi di biforcazione che sono prodotte da instabilità critiche. L’evoluzione
si arrampica lungo la scala della complessità strutturale e dell’organizzazione, una
scala che tende alla massimizzazione dell’energia libera e alla minimizzazione
dell’entropia. [..] A partire da condizioni iniziali identiche e nei limiti delle possibilità definite dalle leggi, possono aver luogo differenti sequenze di eventi. Queste
sequenze creano a loro volte nuovi insiemi di limiti e di possibilità, che serviranno
da base per nuovi giocatori. Così l’evoluzione è sempre possibilità, mai fato. Il suo
corso è logico e comprensibile, ma non è predeterminato né prevedibile.”
2.3. Mario Ageno, il biofisico romano che ha studiato con grande acume e
originalità le “radici della biologia” (ed è proprio questo il titolo di un suo libro fondamentale) chiarisce bene il significato di questa svolta. “Di fronte all’enorme varietà
di soluzioni organizzative, regolative, adattative - scrive - che risultano [da questa
dinamica del DNA] il biologo molecolare si vede ora, un po’ per volta, costretto a
cambiare il tipo delle domande che, nel quadro della sua ricerca sulla funzionalità
dell’organismo, egli era solito fare... Di fronte alla molteplicità delle soluzioni a priori
equivalenti, la ricerca delle cause, la domanda dei perché, si rivela sorprendentemente
non decisiva, irrilevante, e il biologo molecolare è sempre più portato a chiedersi
come ciascuna soluzione si sia affermata, attraverso quale catena di eventi e in quali
condizioni generali di ambiente. Così scienza naturale e biologia funzionale stanno di
fatto trovando la loro radice comune nella teoria dell’evoluzione biologica. Non ci
sono, per i fenomeni biologici, altre spiegazioni possibili che quelle evolutive.”
2.4. L’interesse per i sistemi complessi, in particolare per gli organismi viventi, investe dunque a partire dagli anni ’60, molte discipline tradizionali. La prima
proprietà di questi sistemi è, come abbiamo appena visto, l’irriducibilità della storia
di un organismo alla sua struttura fisica. Essa deriva in primo luogo dal ruolo fondamentale che gioca il caso, cioè l’intervento aleatorio di fattori esterni, nell’evoluzione dei processi che li coinvolgono. È noto, ad esempio, che una componente
essenziale del processo di evoluzione delle specie è costituita dalle mutazioni casuali che producono la variabilità del patrimonio genetico tra individuo e individuo
della medesima specie.
Ma soprattutto la impossibilità di ridurre la storia di un organismo unicamente a cause strutturali intrinseche deriva dalla dipendenza dal contesto delle sue
proprietà. I sistemi complessi sono infatti anche sistemi altamente ridondanti. Questo
vuol dire che al loro interno esistono molti elementi in grado di svolgere le medesime funzioni (p. es. DNA ripetitivo, degenerazione del codice genetico). Può accadere allora che l’intervento dell’ambiente distrugga in parte la ridondanza iniziale
senza compromettere le funzioni vitali dando origine a una differenziazione funzionale corrispondente a un aumento di complessità. Questo sembra accadere per
esempio nel corso dello sviluppo del sistema nervoso successivo alla nascita, dove
l’intervento esterno produce connessioni sempre più complesse, non codificate inizialmente nel DNA embrionale, fra i cento miliardi di neuroni che lo compongono.
41
Le scienze della complessità
Un discorso analogo sembra essere valido anche per lo sviluppo del sistema immunitario,
e forse per le strutture cerebrali connesse con le funzioni mentali superiori.
2.5. Un’altra proprietà fondamentale caratterizza gli oggetti al disopra della
prima soglia di complessità. Essa è l’autoreferenzialità. Questo concetto svolge un
ruolo centrale nella spiegazione del funzionamento dei sistemi biologici. Esso significa che il sistema è sede di catene circolari di causalità nelle quali ogni componente fornisce alle altre un segnale dotato di significato, nel senso che contiene nuova informazione rispetto ai segnali che essa ha ricevuto dalle altre. Questa proprietà
implica che soltanto quando si instaura una coerenza interna fra i segnali in entrata
e in uscita di ogni componente, che permette di riprodurre a ogni iterazione successiva del segnale circolante la situazione precedente, il sistema viene a trovarsi in uno
stato stabile. In questo caso il sistema è autoreferenziale.
Strettamente connesso con il concetto di autoreferenzialità è anche quello di
autorganizzazione. Anzi la prima è una condizione necessaria perché un sistema
possa essere in grado di produrre la sua stessa organizzazione. Secondo questo punto
di vista dunque la metafora corrente secondo la quale il DNA sarebbe come un
“programma” di calcolatore fornito alle cellule che, seguendo le istruzioni in esso
contenute assemblano le proteine necessarie alla vita dell’organismo, non sarebbe
corretta. Basta pensare che, a differenza dei programmi di una macchina il “programma” del DNA ha bisogno dei prodotti della propria lettura e della propria
esecuzione per essere letto ed eseguito a sua volta, secondo un anello ricorsivo che
è tipico di tutti i sistemi autorganizzatori.
3.1. La realtà ci appare strutturata in livelli di organizzazione della materia.
Ogni unità di un dato livello è una collezione coerente di elementi del livello inferiore, ognuno dei quali è una collezione coerente di elementi di quello ancora
sottostante. La soglia della complessità si incontra quando si constata che esistono
“oggetti” che non possono essere “rimontati” o costruiti con un processo lineare a
partire dagli elementi del livello inferiore.
In particolare si constata che i linguaggi che descrivono le proprietà dei livelli
superiori non sono interamente riducibili a quelli dei livelli inferiori. Essi sono fra
loro compatibili (ci sono vincoli reciproci da rispettare) ma le proposizioni del linguaggio che “spiega” le proprietà degli oggetti di un dato livello non possono essere
completamente sostituite da proposizioni del linguaggio che “spiega” le proprietà
degli elementi del livello inferiore, dei quali gli oggetti in questione sono costituiti.
3.2. Un esempio di questa pluralità di punti di vista è dato dal dibattito sul
ruolo del caso nel processo evolutivo della vita sulla Terra. Abbiamo già detto che
una prima componente essenziale di questo processo è costituita dalle mutazioni
casuali che producono la variabilità del patrimonio genetico tra individuo e individuo della medesima specie. Il caso ha tuttavia anche un ruolo al livello macroscopico
dell’ecosistema terrestre. Basta pensare alle estinzioni di massa, dovute a eventi ca42
Marcello Cini
tastrofici di natura imprecisata, seguite da periodi di crescita esplosiva, che hanno
marcato la fine di ere geologiche come quella del Cambriano (510 milioni di anni
fa) e del Permiano (220 milioni di anni fa).
Lo sottolinea Jay Gould a conclusione del suo libro La vita meravigliosa:
“Perciò, se ci poniamo la domanda fondamentale di tutte le epoche - perché esistono gli esseri umani? - una parte essenziale della risposta deve essere: perché Pikaia
[il nome dato a un esemplare insignificante che mostra una traccia di rudimentale
corda spinale trovato nel giacimento fossile della Burgess shale che risale a 570 milioni di anni fa] sopravvisse alla grande decimazione della popolazione di Burgess.
Questa risposta non cita alcuna legge della natura, non contiene alcuna affermazione sui cammini evolutivi prevedibili, né alcun calcolo di probabilità basato su regole generali dell’anatomia o dell’ecologia. La sopravvivenza di Pikaia è stato soltanto
un evento contingente della “storia”. Non credo che possa essere data una risposta
più “elevata”, e, d’altra parte, non posso immaginare alcuna soluzione più affascinante. Siamo il risultato della storia, e dobbiamo scegliere da soli i cammini che
vogliamo percorrere in questo che è tra i più interessanti e variati degli universi
concepibili - un universo indifferente alle nostre sofferenze, che ci offre il massimo
di libertà di fiorire o di fallire a modo nostro.”
3.3 Negli ultimi anni sta tuttavia affermandosi una scuola di pensiero formata da coloro che, pur ammettendo che il caso possa giocare un ruolo importante nel
processo evolutivo, ritengono ragionevole affermare che alcune caratteristiche della vita si ripresenterebbero comunque invariate, in quanto risultato di regolarità
emergenti dalle proprietà di autorganizzazione dei sistemi formati da un gran numero di semplici elementi reciprocamente interagenti. Questa linea di ricerca si
riallaccia dunque alla tradizione della scienza “newtoniana”, tornando a rivendicare anche per la biologia il ruolo, già svolto in passato dalla fisica, di scienza
nomologica, che aspira a fornire spiegazioni universali e astoriche dei fenomeni
biologici fondate su leggi matematiche strutturali o morfogenetiche (sulla scia della
tradizione della biologia della forma e della struttura che ha avuto in questo secolo
esponenti come Ludwig von Bertalanffy, D’Arcy Thompson e Conrad Waddington
e i contemporanei René Thom e Brian Goodwin).
Per questa scuola di pensiero, che ha come centro di riferimento il Santa Fè
Institute in California, l’unico modo per tentare di rispondere a questa domanda,
visto che non è possibile ricominciare da capo l’evoluzione della vita sulla terra, è
costruire un modello semplice di “universo” da sottoporre a una molteplicità di
processi evolutivi in condizioni differenti, in modo da identificare quali siano le
caratteristiche che compaiono comunque indipendentemente dai fattori contingenti
operanti in ognuno di questi processi.
La rilevanza di questi risultati rispetto alla domanda iniziale di Gould consiste dunque nell’avere mostrato come livelli diversi di organizzazione biologica possano avere origine indipendentemente dai meccanismi di mutazione e selezione tipici dell’evoluzione darwiniana. In questo senso il ruolo del caso nell’evoluzione
43
Le scienze della complessità
della varietà delle forme della vita potrebbe essere limitato dai vincoli determinati
dall’esistenza di forme di organizzazione emergenti dal necessario operare delle
proprietà di autorganizzazione della materia.
3.4 Si assiste dunque alla nascita di discipline scientifiche nelle quali il conflitto fra “paradigmi” alternativi fondati su teorie in competizione e dati empirici
contrastanti non può essere eliminato attraverso i mezzi tradizionali del dibattito
scientifico, cioè il ricorso a esperimenti più precisi e al giudizio unanime di una
comunità che pronuncia un verdetto di accettazione o di rifiuto dell’uno o dell’altro, ma diventa una condizione permanente che corrisponde a una pluralità di verità non contraddittorie ma parziali.
La pluralità dei punti di vista dunque, fa parte della dialettica scientifica. Anche questo è un aspetto da tener conto soprattutto nei dibattiti in cui si confrontano
opinioni di esperti su questioni che riguardano sistemi complessi molto importanti.
Tutte le questioni che riguardano l’ecosistema terrestre, dall’effetto serra, alle varie
forme di inquinamento, al buco dell’ozono, insomma agli effetti possibili di certe
forme di sviluppo che, come sappiamo bene sono oggetto di dibattito, troviamo sempre chi dice: “no, questo non fa nulla””, e un altro che dice : “no, è una catastrofe”.
Utilizzare il vecchio modello di scienza per dire : uno avrà ragione e l’altro
avrà torto, pensando che lo scienziato per definizione è quello che sa, che è in grado
di prevedere, che è in grado di dare certezze, sarebbe dunque sbagliato. Quando
troviamo due “esperti” dei quali uno dice: “questa roba si può fare benissimo perché tanto non succederà nulla”, mentre l’altro dice: “per carità non si può fare perché questo genererà una catastrofe”, non è vero che uno dice la verità e l’altro dice
le bugie. È certamente vero che ci sono anche interessi contrapposti molto forti, e ci
sono da tutte le parti, ma voglio anche sottolineare che è inevitabile che un sistema
complesso venga guardato da punti di vista differenti e quindi con premesse differenti. Questo significa che il confronto tra esperti che dicono cose diverse deve
essere un dibattito pubblico in cui questi punti di vista diversi, queste premesse
diverse vengano portate alla luce.
È un poco come avviene nei dibattiti giudiziari: c’è l’avvocato difensore che
sostiene una tesi e il pubblico ministero che ne sostiene un’altra e il giudice deve
fare emergere l’approssimazione migliore alla verità che emerge dal confronto delle
prove, delle ipotesi, delle testimonianze che da parti diverse vengono presentate. La
vecchia scienza era quella che diceva: la traiettoria del proiettile è con certezza quella lì, il proiettile cadrà lì perché la legge che lo regola prevede che cada in quel
punto. Le scienze della complessità, invece, con il loro intreccio di caso e necessità,
con il loro aspetto di imprevedibilità intrinseca, hanno come limite il fatto che bisogna scontare l’esistenza di punti di vista differenti e che quindi non possiamo dire
con certezza che se una cosa accadrà avrà certamente un effetto benefico o un effetto dannoso. La cosa importante che emerge è che bisogna riuscire a individuare
molti scenari possibili di quello che può accadere come conseguenza dell’adozione
di certe scelte e di certe decisioni, di certi vincoli, di certe restrizioni.
44
Marcello Cini
Di qui l’importanza sempre maggiore che acquista in questo quadro, in primo luogo l’esistenza di un’opinione pubblica informata e consapevole di questa
possibile molteplicità di punti di vista. E soprattutto la necessità che da parte degli
scienziati si tenga conto della eventualità di eventi imprevedibili che possono portare a conseguenze anche molto gravi e quindi si tenga conto di questo famoso
“principio di precauzione” che il filosofo Hans Jonas ha pubblicizzato in una serie
di libri molto importanti, che sono anche stati tradotti in italiano, secondo il quale,
nell’eventualità di possibili scenari sfavorevoli, ci si deve comportare tenendo conto di quello più sfavorevole.
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Giulio Ferroni
Come si concludono i romanzi nel Novecento
di Giulio Ferroni
Il luogo in cui ci troviamo, già Caserma dei Vigili del Fuoco, mi fa venire in
mente un celebre romanzo fantascientifico degli anni ’50, quello di Ray Bradbury,
Farenheit 451, da cui è stato tratto il bellissimo film di uno dei più grandi registi di
tutta la storia del cinema, François Truffaut, con lo stesso titolo Farenheit 451.
Qualcuno di voi ricorderà che in quel libro si parla di un gruppo di incendiari, gli
uomini della Fenice, gli ex Vigili del fuoco, che in origine spegnevano gli incendi
(quando gli incendi si dovevano spegnere) ma, ormai in una società avanzatissima,
dove più nulla si brucia spontaneamente, hanno il compito di bruciare libri. Siamo
in un mondo futuro che, però, si sta avvicinando sempre più: lì nel romanzo la
lettura dei libri è addirittura vietata; solo pochi e vecchi professori cacciati dalle
scuole e dalle ultime facoltà umanistiche chiuse per mancanza di fondi, li tengono
nascosti, cercando di farli sopravvivere. Uno degli incendiari, Montag, il protagonista del romanzo, a un certo punto entra in crisi e passa dalla parte opposta, si
ribella e, invece di bruciarli, custodisce i libri: ma è costretto a fuggire dalla città,
che è in preda ad una situazione di guerra, e a rifugiarsi tra le colline, dove trova
degli emarginati che vivono conservando la memoria dei libri e lì attendono che
succeda qualcosa, che faccia risorgere la cultura libraria, che è una cultura della
distanza, della coscienza critica, della non omologazione ai modelli televisivi. Nel
romanzo, come poi nel film di Truffaut, in tutte le case di questa società futura c’è
un grande schermo che occupa tre pareti di una stanza: e i più ricchi possono comprare una quarta parete per essere circondati da schermi televisivi, sui quali si proietta continuamente una trasmissione chiamata Il grande salotto: essa nel film di
Truffaut viene chiamata La grande famiglia: come vedete ci vuole poco per arrivare
al Grande fratello. Nel romanzo (che risale al 1951) il pubblico normale vive
dialogando con lo schermo: partecipa alla la trasmissione attraverso tutto un gioco
complesso di interazioni: vive nello schermo, nella finzione, lontano dalla occasioni di coscienza, di distanza, di esperienza che darebbero i libri e che quella società
tende a tener lontano. Dato che noi siamo nella Caserma dei Vigili del fuoco non
potevano non venirmi in mente questo romanzo e questo film. Ma c’è anche un
altro elemento interessante che ci collega a quel romanzo, cioè la questione dei
finali e della fine, tema della mia conversazione: Fahrenheit 451 è un romanzo di
tipo apocalittico, come lo sono molti romanzi fantascientifici che naturalmente
immaginano un futuro angoscioso, che poi in parte si realizza sempre, anche se non
si realizza proprio in quel modo. È facile accusare questi scrittori e questi romanzi
47
Come si concludono i romanzi nel Novecento
di essere apocalittici o troppo pessimisti: però il pessimismo a volte serve a tener
lontani i pericoli. Il pessimismo non vuole che si realizzino le brutte cose che pensa:
e può essere uno strumento, un antidoto nei riguardi di certa incoscienza a cui la
società spesso va incontro, trascinata magari dal gusto dello spettacolo e
dell’intrattenimento, trascurando i valori essenziali di cui ha bisogno la società
umana. Io credo che all’inizio del nuovo millennio ci troviamo in un momento di
trasformazione tremenda, in cui si rischiano di perdere tante cose, pur guadagnandone delle altre: di perdere cose essenziali per la dimensione dell’umano, ad esempio, e tra queste c’è proprio il libro, se lo intendiamo non tanto come oggetto,
quanto come strumento di esperienza (il libro della grande letteratura, non il libro
di consumo da quattro soldi che certo si può indifferentemente bruciare). Oggi ci
stiamo avvicinando proprio a quello che cinquant’anni anni fa Bradbury immaginava: c’è il Grande fratello e addirittura ci sono dei giornali che ogni giorno gli
dedicano pagine intere.
Se, comunque, parliamo dei finali nei romanzi del ‘900, possiamo allora partire proprio dal finale di Fahrenheit 451, che poi in fondo non è tanto pessimistico,
poiché narra la storia dell’ex pompiere, rifugiatosi nelle colline insieme a coloro che
conservano i libri e la memoria dei libri (e talvolta li conservano soltanto nella loro
memoria: hanno imparato a memoria parte dei libri che non ci sono più). Noi,
purtroppo, a partire dagli anni ‘70 abbiamo praticamente vietato lo studio delle
poesie a memoria, anche se oggi per fortuna ci si sta ripensando: però l’abitudine si
è persa ed è difficile restaurarla. Comunque, per tornare al finale di Bradbury, ricordo che coloro che conservano la memoria dei libri attendono che tale memoria
agisca sul mondo, che le cose essenziali che essa raccoglie non si perdano: se la
società può andare incontro a delle rovine, è possibile che, quanto più gravi siano
queste rovine, tanto più possa far risorgere qualcosa che recuperi il senso profondo
della vita, che ricostituisca il mondo. Montag e gli abitanti delle colline, infatti,
parlano di un piano per il futuro della memoria, ricordando tra l’altro un passo di
un testo ben noto l’Apocalisse di S. Giovanni Evangelista: il romanzo di Bradbury
finisce proprio con una citazione dell’Apocalisse di S.Giovanni (più apocalittico di
così), con una frase che però non è poi tanto pessimistica, perché dice che dall’albero della vita forse le genti vedranno risorgere la vita. E proprio da S.Giovanni può
partire il nostro percorso sui finali, perché, secondo me, uno dei finali più belli della
letteratura di tutti i tempi è il finale del Vangelo secondo Giovanni.
Dopo aver fatto riferimento ad un equivoco sorto sulla vita dello stesso autore del libro, Giovanni, che, male interpretando parole dette di lui a Pietro da Gesù,
i suoi confratelli avevano creduto immortale, egli precisa che Gesù ha detto semplicemente. “Se voglio che egli resti finché io ritorni, a te che importa?”; e poi conclude ribadendo la veridicità della propria testimonianza e rinviando alle tante altre
cose dette e fatte da Cristo: “Ci sono molte altre cose fatte da Gesù, le quali, se
fossero scritte ad una ad una, non so se il mondo stesso potrebbe contenere i libri
che si dovrebbero scrivere”. Insomma, se si volesse dire tutto quello che ha fatto
Cristo, i libri riempirebbero il mondo: Giovanni ne ha detto appena una piccola
48
Giulio Ferroni
parte, altrimenti i libri necessari occuperebbero tutti gli spazi del mondo. Il finale
del Vangelo di Giovanni si conclude con l’ipotesi di un libro totale, di un libro che
invade il mondo, di tanti libri che invaderebbero il mondo se si potesse dire tutto
quello che è Cristo, tutto l’agire e il dire di Dio. Insomma, il finale di un grande
libro, di un Vangelo, fa l’ipotesi di una invasione del mondo da parte dei libri: e la
cosa è particolarmente sorprendente e affascinante.
Chi studia i finali dei romanzi non ha mai fatto riferimento, che io sappia, a
questo grande finale del Vangelo di Giovanni, che peraltro mi fa pensare a ipotesi
anche inquietanti e apocalittiche che sono state fatte nel ‘900, come quella di un
raccontino di un grande scrittore argentino Julio Cortázar che si intitola Fine del
mondo del fine, che fa un’ipotesi in fondo opposta a quella di Bradbury (della fine
di tutti i libri nell’incendio) e sembra realizzare in maniera rovesciata addirittura
quello che dice Giovanni alla fine del Vangelo. Questo racconto di Cortazar parla
di un espandersi infinito della scrittura: tutti scrivono, tutti sono scribi e nessuno
legge, mentre i libri riempiono il mondo: la carta riempie il mondo, scrivono tutti
dappertutto (in fondo adesso succede un po’ anche questo: molti vogliono scrivere,
pubblicare, senza comunque leggere le cose degli altri), ad un certo punto la carta
scritta riempie perfino i mari, l’Oceano è tutto riempito di libri, l’Universo diventa
un libro totale. E notiamo che questa ipotesi apocalittica si collega a quel celebre
racconto dell’altro grande argentino Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele, in
cui l’universo intero è identificato in una biblioteca. Tutti questi riferimenti ci fanno pensare a quanto sia interessante la riflessione proprio sui modi in cui i libri
iniziano e finiscono, proprio perché da questo punto di vista il libro, in qualche
modo, rappresenta un rapporto dell’uomo col mondo, un rapporto tra l’esperienza
della scrittura e l’esperienza esterna: nell’inizio e nella fine il libro espone all’esterno se stesso, si mette in rapporto col mondo fisico che è di fuori, con la realtà
materiale. E oggi l’attenzione all’inizio e alla fine delle opere letterarie è particolarmente forte nella critica e nella teoria letteraria, perché ci dà il senso del rapporto
della scrittura, della letteratura, di tutto ciò che è scritto, col mondo esterno. Nell’inizio e nella fine ogni opera entra in rapporto con le realtà che la condiziona: in
essi si misura una sorta di ritagliamento tra ciò che è scritto, l’esperienza dell’autore
che scrive e il mondo di fuori. Con Nel mezzo del cammin di nostra vita e con
l’amor che move il sol e l’altre stelle si definisce, all’inizio e alla fine, il rapporto
della scrittura con il mondo materiale, la sua apertura e la sua chiusura: e questo è
molto importante anche dal punto di vista teorico, perché fare attenzione a queste
cose significa fare attenzione concretamente al rapporto tra la letteratura e quella
che chiamiamo la realtà.
Italo Calvino aveva cominciato a elaborare una riflessione sull’inizio e la fine
in un testo che doveva far parte di quelle Lezioni americane che lui non è riuscito a
tenere alla Harvard University, perché è morto, nel settembre 1985, prima di partire per l’America: aveva, in effetti, scritto cinque lezioni (poi pubblicate nel volume
postumo apparso in Italia nel 1988), lasciando dei materiali per una sesta, che doveva intitolarsi Consinstency. Tra questi materiali per la sesta lezione ci sono interes49
Come si concludono i romanzi nel Novecento
santi riflessioni su come si inizia e su come si finisce (e del resto sull’iniziare Calvino
aveva scritto un intero libro, Se una notte d’inverno un viaggiatore, tutto fatto di
inizi di romanzi di cui non si ritrova più il filo): Calvino dice, giustamente, che
studiare gli inizi e i finali significa studiare le zone di confine dell’opera letteraria,
proprio la frontiera tra l’opera e quella che chiamiamo realtà; piuttosto che guardare, secondo modi grevemente sociologici, soltanto i riflessi della realtà dentro le
opere, è ben più interessante vedere come le opere segnano i loro confini nei confronti della realtà stessa. Per ciò che riguarda i finali, egli distingue finali di tipo
diverso, anche con l’aiuto di un certo numero di esempi. Ci sono così finali che
svelano l’artificio, che mostrano, cioè, che l’opera è una finzione, non una copia
della realtà. Ci sono, poi, finali cosmici, che collegano l’opera all’intero sistema dell’universo: ed è ovvio che non c’è finale più cosmico di quello della Commedia di
Dante, dove l’autore finisce per entrare addirittura nel movimento del cosmo, vede
il suo disio e il suo velle ruotare spinti da Dio primo motore immobile; è il finale
cosmico più assoluto che sia stato mai scritto: “e già volgeva il mio disio e ‘l velle, /
sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle” (e
sapete tutti che la parola stelle conclude anche le altre cantiche della Commedia). Ci
sono poi finali indeterminati, a volte legati ad effetti di non finito: e nel ‘900 ci sono
tantissime opere che si costruiscono proprio con effetti di non finito, oppure sono
letteralmente non finite: si pensi a grandi capolavori come L’uomo senza qualità di
Musil, opera insieme aperta e non finita, o i romanzi maggiori di Gadda, La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, romanzi conclusi sì,
ma in maniera aperta, come sospesi, senza che il lettore possa capire se ci sia veramente un finale (e lo stesso autore era incerto tra finali diversi e ha pensato a soluzioni tra loro alternative).
Nella rassegna di Calvino c’è un ultimo tipo di finale, quello dei finali che
mettono in discussione tutta la narrazione, che praticamente ne rovesciano il punto
di vista, la sospendono o comunque ironizzano su di essa o ne mutano i connotati
completamente.
Per seguire i procedimenti dei finali nel romanzo del ‘900 bisognerebbe in
effetti confrontarsi con tutta la letteratura precedente, almeno con la letteratura di
tipo più specificamente narrativo (ma non solo): e può essere anche occasione di
esercitazione scolastica vedere come finiscono anche i componimenti lirici, specialmente quelli della tradizione (le canzoni antiche avevano un congedo, che spesso
non era una semplice chiusura formale, ma faceva riferimento a qualcosa di esterno,
mandava la canzone da qualche parte oppure rinviava ad altro). Ma tralasciando
tutto ciò, e anche i finali dell’epica (che pure costituiscono un punto di riferimento
determinante per la letteratura romanzesca), facciamo solo un cenno alla letteratura
più lontana, ricordando il finale di quello che viene considerato il vero primo romanzo moderno, cioè il Don Chisciotte di Cervantes. Dal punto di vista della struttura narrativa (di quella che si chiama la fabula) questo grande capolavoro finisce
nel modo più semplice, con la morte del protagonista (in fondo, dal punto di vista
della storia raccontata, è chiaro che il finale più semplice, per ogni romanzo basato
50
Giulio Ferroni
su di un eroe protagonista, di cui segue l’intera vita, è per l’appunto la sua morte).
Muore, insomma, Don Chisciotte, ma la sua morte avviene dopo che egli ha
recuperato il suo senno, la sua saggezza: muore chiedendo di bruciare tutti i libri di
cavalleria che l’hanno fatto impazzire e scusandosi con l’autore per avergli dato
l’occasione di scrivere tante cose vane; con la sua devota confessione in qualche
modo arriva a smentire tutte le vicende precedenti, oltre a chiamare ambiguamente
in causa lo stesso autore. Questo finale non è piaciuto a tutti: anche un grande
romanziere come Thomas Mann, in un suo bellissimo saggio dice tante cose affascinanti sul Don Chisciotte ma si esprime con disappunto nei confronti di quel
finale, del fatto che quel personaggio che ci piace proprio per la sua follia viene fatto
rinsavire, condotto a rientrare nell’ordine. A Mann si potrebbe rispondere che certo, è vero che Don Chisciotte rientra nell’ordine: ma così facendo ironicamente
contesta tutto il romanzo che è stato scritto e tutte le proprie stesse vicende: e non
bisogna trascurare il gioco ironico del narratore, che gioca con le proprie voci molteplici, che basa il suo romanzo sulla finzione di aver trascritto la storia da un cronista arabo, Cide Hamete Benengueli; e ora, alla fine, egli finge di trascrivere un
dialogo di Cide Hamete con la sua penna. Il finale viene ad essere, così, del tipo che
svela l’artificio: ci ricorda che il personaggio non è esistito, che è la penna ad aver
fatto tutto, ad aver scritto e inventato tutto.
Sarebbe interessante una diretta analisi di questo finale del Don Chisciotte:
ma qui mi limito a farvi riferimento solo perché in esso ci sono elementi ironici,
sottili rovesciamenti, che ci conducono più vicini a noi. E, dato che nel manifesto di
questo ciclo conferenze c’è un celebre quadro ottocentesco di Francesco Hayez,
non possiamo non ricordare colui che da Hayez fu ritratto, Alessandro Manzoni, e
il singolarissimo finale dei Promessi Sposi, segnato da essenziali caratteri ironici.
Non dico che il finale del romanzo contesti tutta l’opera che esso chiude: ma è pur
vero che esso sembra darci l’idea che l’autore, giunto alla fine, non voglia nemmeno
staccarsi dall’opera, voglia quasi rimetterla in discussione per continuare. Se guardiamo la prima redazione (il Fermo e Lucia), ci accorgiamo che essa si conclude
piuttosto rapidamente, quando gli sposi Renzo e Lucia vendono tutti i loro beni e
dalla loro Brianza se ne vanno nel bergamasco, impiantando lì la loro attività, la
loro famiglia: e della storia si trae una morale, con il commento di Renzo e di Lucia
sul senso degli eventi. Quando, però, Manzoni scrive i Promessi Sposi veri e propri,
inserisce in questo finale un prolungamento sorprendente, curioso: gli sposi si trasferiscono sì nel bergamasco, ma la cosa non finisce lì, perché poco dopo si devono
trasferire un’altra volta, per una serie di nuove difficoltà. E ricordate qual è la ragione di questo nuovo trasferimento? È che non si trovano bene lì dove si sono istallati,
perché vi sono stati accompagnati dalla fama della bellezza di Lucia, che invece
suscita una imprevista delusione nei paesani che si aspettavano chissà quale sconvolgente bellezza. Possibile che per questa donna, che non sembra poi un gran che,
Renzo abbia lottato e sofferto tanto, per una di cui si diceva che era una gran
bellezza, ma che bellezza non è per niente, una donna abbastanza normale?
Tutto ciò comincia a creare chiacchiere e risentimenti: Renzo ne viene tocca51
Come si concludono i romanzi nel Novecento
to e alla fine, per evitare che le cose si complichino di nuovo, Manzoni porta la
famigliola da un’altra parte. Si tratta, insomma, di un prolungamento: come se l’autore, non volendo staccarsi dai suoi personaggi, si metta quasi sul punto di cominciare un altro romanzo, ma si accontenti poi di prolungarlo ironicamente solo per
un po’, introducendo qualcosa che rovescia tutto quello che era stato detto prima di
Lucia, sospende la tragicità della sua serissima vicenda, piena di valori morali, religiosi, in qualcosa di frivolo e di inessenziale: tutto il mondo dei Promessi Sposi
viene sospeso in una sorta di gioco ironico, che naturalmente occupa poche pagine
finali, ma ci serve a capire tutto l’atteggiamento che Manzoni stesso ha nei confronti del romanzo, ci fa riconoscere come esso non possa essere letto come un’opera
provvidenzialistica e moralistica, ma come nel moralismo manzoniano si nascondano essenziali elementi di contraddizione. E, del resto, la critica ha mostrato quanto
sia importante il rapporto di Manzoni con Cervantes stesso e con un grande umorista del ‘700 come Laurence Sterne.
A partire da Manzoni il romanzo dell’800 ci darebbe tanti esempi interessanti, anche con molti finali di tipo positivo e addirittura parenetico, molto lontani
dall’ironia manzoniana. Un finale tutto in positivo si dà in un grande romanzo che
pure è ricco di elementi ironici come Le confessioni di un Italiano di Nievo: qui il
vecchio, ormai ottuagenario che parla in prima persona, si prepara alla morte, ma
con uno slancio fortemente ottimistico, quasi da giovane (come giovane era in lo
scrittore Nievo), pieno di speranza per i destini futuri d’Italia e con un senso assai
positivo del valore della vita e della morte, senza niente di tragico. Occorrerebbe
affrontare almeno tutti i più grandi autori stranieri del secolo, notando come sia
molto diffuso un finale che si potrebbe dire epifanico e rivelatore, come quello del
Temps retrouvé, alla fine dell’intera Recherche di Proust: finale dove si ritrova il
tempo cercato in tutto il romanzo, e dove, alla fine di un percorso di totale circolarità,
l’autore stesso si colloca entro il tempo, entro il suo flusso. L’ultima parola è appunto temps: e l’uso per l’ultima parola di una parola che è anche nel titolo è cosa
molto diffusa, come un sigillo con cui gli autori possono chiudere a circolo la propria opera. Ma si può anche finire con la parola morte, oppure rifiutare radicalmente la negatività, come sembra fare l’Ulysses di James Joyce, la cui ultima parola è Yes.
In linea di massima, però, i finali dei romanzi novecenteschi si collegano a un senso
della fine, a qualche cosa di angoscioso che pervade tutte le forme letterarie del
secolo trascorso, che tocca autori schierati anche secondo tendenze ed orizzonti tra
loro diversissimi. C’è come una coazione a sentirsi addirittura dopo la fine stessa: e
in tali casi il finale è come il sigillo distruttivo che collega l’opera a ciò che di tremendamente negativo si sente nell’aria del mondo contemporaneo.
Se si studiano da questo punto di vista i finali pirandelliani, possiamo lasciare
da parte i romanzi scritti da Pirandello alla fine dell’Ottocento, L’Esclusa e Il Turno, che però sono molto interessanti, perché si concludono tutti e due con delle
veglie funebri, sembrano rivelare verità e situazioni paradossali davanti alla veglia al
morto. Qui hanno funzione essenziale le candele, l’osservazione del loro consumarsi; in tutti e due i romanzi i personaggi che partecipano alla veglia funebre si
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Giulio Ferroni
servono di forbici per tagliare la cera che è rimasta intorno e che rischia di spegnere
lo stoppino della candela. Tralasciando questi due romanzi, si giunge al romanzo
veramente inaugurale del Novecento italiano (pubblicato nel 1904), Il fu Mattia
Pascal, che ha un finale che ribadisce e sottolinea il tema centrale del romanzo, che
è quello della vita dopo la morte, della vita postuma del personaggio insieme vivo e
morto, morto addirittura due volte, che ora vive come morto rintanato in una biblioteca, non ha più stato civile, e può andare a visitare la propria tomba, dove è
sepolto un ignoto che la moglie ha identificato con lui stesso. A Mattia Pascal, che
ha raccontato la storia della propria vita segnata da una doppia morte, qualcuno
chiede di trarre una morale dalla propria vicenda; ma egli non sa vedere che frutto
se ne possa cavare: il romanzo novecentesco non può trarre una morale da se stesso,
non può cavare da sé nessun frutto e Mattia Pascal può congedarsi riportando la
lapide dettata da Lodoletta sulla propria tomba: “Colpito da avversi fati/ Mattia
Pascal/ bibliotecario/ cuor generoso anima aperta/ qui volontario/ riposa// la pietà
dei concittadini/ questa lapide pose”. Ma, oltre la lapide, si affaccia un elemento
ulteriore: nel tornare dal cimitero, dove ha portato fiori alla propria tomba, Mattia
incontra qualche curioso che al ritorno si accompagna con lui: “sorride, e - considerando la mia condizione - mi domanda:/ - Ma voi, insomma, si può sapere chi
siete?/ Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:/ - Eh, caro mio…
io sono il fu Mattia Pascal”.
Il romanzo si chiude, insomma, con il proprio stesso il titolo, ribadendo questa dimensione del vivo morto, del personaggio morto più volte che rappresenta
quella condizione dell’uomo nella società contemporanea: la sola identità possibile
è un’identità postuma, è quell’essere il fu, in cui solo può consistere il personaggio.
Tra gli altri finali dei romanzi di Pirandello, ricordiamo quello de I vecchi e i giovani, il romanzo storico- politico del 1911, che ha un finale per così dire doppio: dopo
che si sono concluse tutte le tragiche vicende dei fasci siciliani, ci affacciamo sul
destino di due personaggi diversi, che danno due punti di vista opposti sugli eventi.
Nel primo c’è un personaggio appartato, ironico, Don Cosmo Laurentano, che fa
parte della famiglia dei nobili Laurentano, protagonisti di gran parte delle vicende
del romanzo: Don Cosmo viene visitato da alcuni parenti e amici in fuga e dà sugli
eventi trascorsi un giudizio di tipo completamente ironico, in un famoso passo che
si suole citare per mostrare la concezione pirandelliana della vita come illusione.
Per Don Cosmo tutto quello che è stato vissuto non è altro che illusione; l’importante, dice, è “aver capito il giuoco…il giuoco di questo demoniaccio beffardo che
ciascuno di noi ha dentro”; egli è convinto che al di fuori di queste illusioni non ci
sia nessun’altra realtà e guarda amaramente al fatto che “tutto questo
passerà…passerà…”. Gli eventi storici così tragici, così rovinosi, pieni di conflitti
sociali e di altro tipo sono visti da Don Cosmo in questa chiave nullificante, nella
loro natura illusoria e vana. Una chiave conclusiva del tutto diversa viene offerta,
poi, da un personaggio di vecchio ex garibaldino, Mauro Mortara, che, di fronte
allo schieramento dei soldati che attaccano gli scioperanti, si fa avanti con le sue
medaglie sul petto, per mettersi dalla loro parte: essi però non capiscono e lo colpi53
Come si concludono i romanzi nel Novecento
scono; il romanzo si conclude, narrando del suo ritrovamento la mattina seguente,
con l’angosciosa domanda, che tre militari sembrano rivolgere a se stessi: “Rimosso, quel cadavere mostrò sul petto insanguinato quattro medaglie./ I tre, allora,
rimasero a guardarsi negli occhi, stupiti e sgomenti./ Chi avevano ucciso?”. I due
punti di vista di Don Cosmo e di Mauro Mortara inseriscono dei cannocchiali rovesciati, per usare un termine caro a Pirandello, due punti di vista opposti sugli
eventi del romanzo che si sta concludendo.
Ancora un forte interesse, tra i romanzi di Pirandello, ha il finale, che si potrebbe definire sia cosmico che epifanico (nel senso che in esso l’io narrante sembra
giungere ad afferrare il senso segreto della realtà), di Uno nessuno e centomila: qui
Vitangelo Mostarda, ormai pazzo e svuotato completamente di se stesso, ci dice di
essere giunto a vivere affidandosi al ritmo silenzioso del mondo esterno, ai rumori,
ai fruscii, agli eventi della natura, in cui si è come versato, uscendo fuori di sé, facendo completamente il vuoto delle vane costrizioni: “Pensare alla morte, pregare. C’è
pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più
questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo
e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori”. Ed è da notare il rilievo dell’ultima
parola, fuori, che mette in definitiva evidenza quell’aspirazione ad uscire dai limiti
della vita e della prigione sociale, a liberarsi della maschera, a cui tende tutta l’opera
di Pirandello. Fuori dalla maschera, fuori persino dalla letteratura: la parola ultima,
fuori, indica davvero il confine tra il senso di ciò che è stato scritto e il mondo
assoluto nel quale lo scrittore e il personaggio vorrebbero come immergersi; essere
fuori e via da tutto, anche dal rapporto con il lettore; aspirazione impossibile, anche
assurda, intorno a cui la letteratura non cessa mai di ruotare.
Tra i finali dei grandi romanzi del ‘900 un rilievo tutto particolare, per il suo
carattere apocalittico, ha quello della Coscienza di Zeno di Svevo, che certamente è
uno dei finali più noti e più studiati della nostra letteratura. La coscienza di Zeno
(1923) è del resto anche cronologicamente abbastanza vicina al pirandelliano Uno
nessuno e centomila, che è stato pubblicato nel ’26, anche se la sua elaborazione è
stata molto più lunga e travagliata e risale più indietro del romanzo di Svevo. Questo finale della Coscienza si svolge in un vero e proprio “crescendo”: e in primo
luogo rappresenta quasi una correzione e smentita del romanzo stesso viene a concludere. Come sapete, Zeno ha avuto dallo psicanalista il compito di scrivere il
romanzo-diario per curare la sua nevrosi: ma l’ultimo pezzo del diario (datato 24
marzo 1916, nel pieno della prima guerra mondiale) ci dice improvvisamente che
egli è guarito e non vuole saperne più per niente del dottore: e, anzi, se ora dovesse
riscrivere il diario dal punto di vista di questo suo essere dopo la guarigione, lo
scriverebbe in un modo completamente diverso. Inoltre egli è guarito, perché finalmente, dopo tanti fallimenti, egli è improvvisamente arrivato al successo: quando
tutto il mondo crolla, nel disastro della guerra, che non permette più nessuna sicurezza, egli si è arricchito con delle vendita un po’ fortunate, quasi da accaparratore
bellico. Quindi, guarito e pieno di successo in un mondo universalmente malato,
così egli ci parla del romanzo che si sta concludendo: “Il dottore, quando avrà rice54
Giulio Ferroni
vuta quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne
conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad
esso!”. Insomma il successo raggiunto alla fine smentisce in qualche modo tutta la
narrazione precedente, o comunque costringerebbe a riscriverla in un modo completamente diverso (si noti il rilievo di quel condizionale “lo rifarei con chiarezza
vera”). Ma la sua salute, il suo essere sfuggito alla malattia, si collega alla definitiva
coscienza del fatto che tutta la vita è malata: se prima credeva di essere lui il malato,
dentro una società fondamentalmente sana, ora ha scoperto che la “vita attuale è
inquinata alle radici” e che “Qualunque sforzo di darci la salute è vano”. È un
supremo paradosso: nel momento stesso in cui ci dice che è guarito, afferma però
che la malattia è insuperabile e dappertutto, che ogni sforzo di darci la salute è vano:
e non dimentichiamoci che, anche se non lo dice esplicitamente, ha davanti a sé gli
orrori della prima guerra mondiale. È proprio la presenza, sullo sfondo, di questi
orrori, a far venir fuori un’ulteriore riflessione sul fatto che l’uomo inventa continuamente ordigni fuori del suo corpo per acquistare un simulacro di salute, una
falsa salute: e cosa direbbe oggi, cosa direbbero con lui tanti grandi scrittori del
Novecento di fronte agli apologeti sperticati dei destini digitali, che esaltano un
futuro virtuale, in cui la coscienza individuale dovrebbe tutta affidarsi all’artificio
tecnologico, agli ordigni infiniti che sostituiscono i nostri corpi e le nostre menti!
Tra queste apologie veramente sorprendenti, secondo me addirittura ridicole, vorrei ricordare quella di un libro che sto leggendo, di uno psicolinguista che esalta i
cambiamenti assoluti che il computer introdurrà nella scuola, eliminando, secondo
lui, il rapporto personale del docente con il ragazzo e offrendo nuovi modi privilegiati di conoscenza: secondo costui, ad esempio, la storia si potrà studiare molto
meglio attraverso tutti i giochi di simulazione costruiti dal computer, in un radioso
futuro in cui appunto il computer ci darà tutto quello che non abbiamo mai avuto,
nuovi utopici orizzonti dell’umano. Ma rispetto a questa cieca fiducia negli ordigni
ci può mettere in guardia proprio il finale della Coscienza di Zeno, che immagina
l’azione di un uomo come gli altri che, quando non basteranno più i gas velenosi
sperimentati proprio nella prima guerra mondiale, “nel segreto di una stanza di
questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli” (e vengono
in mente i tanti uomini che nel Novecento e tuttora, nel segreto di diverse stanza ne
hanno fatto e ne fanno di tutti i colori). E un altro uomo come gli altri, “ma degli
altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della
terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei
cieli priva di parassiti e di malattie”. Insomma, un finale non solo apocalittico, ma
anche cosmico (quella terra sola nei cieli, purificata senza più malattie) e in parte
epifanico: e, se ci poniamo dal punto di vista dell’autore, possiamo anche aggiungere che c’è una malinconia legata al concludersi stesso dell’opera, una malinconia
della fine.
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Come si concludono i romanzi nel Novecento
Schematizzando al massimo, si potrebbe dire che gli stati creativi, l’atto dello
scrivere, si risolvono in veri e propri stati maniacali: lo scrittore scrive in preda ad
una mania creativa, che non necessariamente è patologica: ma il confine tra la patologia e la normalità è davvero molto labile: e d’altra parte ogni scrittore in quanto
tale non è “normale” (altrimenti non sarebbe scrittore, o comunque, non sarebbe
un grande scrittore), tutti i grandi scrittori non sono certo stati dei personaggi normali. Si potrebbe dire che nel mondo moderno, quando il rapporto tra la letteratura
e la società non è così sicuro e istituzionale, lo scrittore è un tipo malinconico, che
sfugge alla malinconia gettandosi nella mania della scrittura, della creazione; e quando
le opere si concludono, viene meno lo scatto energetico, l’investimento creativo
maniacale: lo scrittore può sentirsi come privato di qualcosa. Contento certo di
aver finito, ma in fondo quasi recalcitrante ad allontanarsi dalla propria opera (e lo
abbiamo visto per Manzoni). Svevo per suo conto si allontana dall’opera facendola
esplodere e facendo esplodere il mondo tutto: gioco psicologico abbastanza sottile,
ma in fondo piuttosto chiaro. La conclusione dell’opera si identifica con la fine di
tutto; è come se l’autore dicesse: “Io ho finito e quindi esplode l’universo!”: un
punto di vista “soggettivo”, insomma, che comunque non ci deve far trascurare
quegli altri significati “apocalittici” di questo finale, che si sono già detti. E occorrerà notare che tutto ciò si svolge entro una apparente indifferenza e leggerezza:
Zeno è anche uno che gioca sui trampoli (e ciò lo ha fatto paragonare ai comici del
grande cinema muto degli anni ‘20, in primo luogo a Charlot, come del resto ha
suggerito lo stesso Svevo), che sa sfiorare l’apocalisse mantenendo una sua svagata
e ironica cordialità.
Un altro esempio di finale che si rivolge con nostalgica tristezza alle figure
della finzione da cui ormai ci si allontana e che in qualche modo chiama in causa la
necessità della bellezza e dell’amicizia, è quello del romanzo di Elsa Morante, Menzogna e sortilegio, del 1948: un finale abbastanza sorprendente, affidato alla voce
narrante, Elisa (dietro cui ovviamente si cela il nome dell’autrice, Elsa), che nel
romanzo ha raccontato tutta la vicenda della propria complicata e lacerata famiglia.
Prima di iniziare la narrazione Elisa aveva fatto riferimento ad un certo Alvaro
amico suo, senza farci capire chi potesse essere e senza poi mai più nominarlo nel
lungo percorso del romanzo: alla fine, in modo improvviso, ci rivela che questo
Alvaro non è altri che il suo gatto; così un romanzo che si è svolto sull’onda di tutta
una serie di rapporti sentimentali eccessivi, violenti, pieni di ostilità, rancori, follie e
complicazioni di tutti i tipi, nella sottile crudeltà della menzogna e del sortilegio,
questo romanzo si chiude con una sorta di omaggio al piccolo umile gatto, a ciò che
il gatto Alvaro rappresenta nella vita di Elisa. In effetti, la narratrice è rimasta sola
nella casa, a ricordare le vicende della propria famiglia, pensando, infine, che tutti
quei personaggi, di cui ha narrato e che si sono tanto amati e odiati tra loro, oggi
possono essere visti in cielo come una sorta di costellazione, che ella chiama “costellazione del cugino” (il cugino è uno dei personaggi del romanzo, tanto assurdamente amato dalla madre di Elisa). Ma, dopo aver rivolto l’ultimo saluto a questa
costellazione, ella preferisce concludere rivolgendosi al gatto, con una poesiola dal
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Giulio Ferroni
titolo Canto per il gatto Alvaro, di cui così suonano gli ultimi versi. “L’allegria
d’averti amico/ basta al cuore. E di mie fole e stragi/ coi tuoi baci, coi tuoi dolci
lamenti/ tu mi consoli,/ o gatto mio!”. Dal mondo eccessivo degli strani sentimenti
dei personaggi di cui ha parlato Elisa, si arriva insomma a questa dolce e semplicissima immagine di amicizia con il mondo animale, ad un mondo chiuso quasi nel
caldo bozzolo di un interno casalingo di cui il gatto è accogliente nume tutelare. Se,
invece, prendiamo l’ultimo romanzo di Elsa Morante, il tremendo, dolorosissimo
Aracoeli, del 1982, troviamo un finale del tutto diverso, lacerante e disperato, che
come ultima parola non può trovare altro che morte: parola che sembra come anticipare e annunciare la morte dell’autrice che, dopo la conclusione di quel romanzo,
si sentirà come staccata dalla vita, rinuncerà per sempre a scrivere e a vivere.
Proprio tenendo conto del finale di questo ultimo romanzo della Morante, si
può considerare come le conclusioni di certe opere, anche per effetto del caso, finiscono spesso per rinviare drammaticamente alla reale esperienza biografica degli
autori: al finale lacerante dell’opera corrisponde spesso la lacerazione della vita dell’autore. Pensate all’ultimo libro pubblicato in vita da Italo Calvino, Palomar, del
1983, che è una serie di sottili, bellissime ed inquiete osservazioni della realtà da
parte di un signor Palomar, che, in maniera spesso un po’ ironicamente malaccorta,
cerca di capire il mondo, di misurarlo, di afferrarne e interpretarne le diverse apparenze. L’ultimo dei pezzi di Palomar si intitola Come imparare a essere morto: in
esso l’impegno del signor Palomar nell’afferrare la realtà, il suo tentativo di descrivere la realtà spaziale e temporale con precisione assoluta (quella precisione impossibile a cui tende il Calvino scrittore in tutto il suo esercizio della letteratura) sembra porsi come la sola possibilità di sfuggire al pensiero della morte; ma egli muore
proprio nel momento stesso in cui decide di descrivere fino in fondo ogni momento della sua esperienza: “Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua
vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel
momento muore”. E muore è l’ultima parola di quello che (l’autore non poteva
certo ancora saperlo) sarà poi l’ultimo libro pubblicato in vita da Italo Calvino;
tremendo gioco del caso, inscritto nel sigillo finale del libro.
Tra i finali più belli del Novecento italiano, legati alla morte del personaggio
protagonista, ci sono certamente quelli dei romanzi del grandissimo Beppe Fenoglio.
Per ciò che riguarda Il partigiano Johnny, romanzo incompiuto e sul cui stato testuale ci sono tante divergenze tra critici e filologi, la conclusione è data dallo scontro di Valdivilla, in cui Johnny, già scampato a tante situazioni tremende, muore in
un modo quasi improvviso, senza che l’autore ci dica direttamente ed esplicitamente della sua morte. Queste sono le battute finali: “Johnny si alzò col fucile di Tarzan
e il semiautomatico..../ due mesi dopo la guerra era finita”. Siamo comunque certi
che Johnny sia morto, anche perché il capitolo si intitola proprio La fine; mentre
l’accenno alla prossima fine della guerra (di lì a due mesi) entra in contrasto con la
stessa fine del personaggio, quasi ne evidenzia ulteriormente l’assurdità. Una tensione tragica ancora più forte si trova in quel più breve capolavoro di Fenoglio, che
è Una questione privata: il protagonista è qui il partigiano Milton, il cui nome è
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Come si concludono i romanzi nel Novecento
dato dal suo amore per la letteratura inglese. È un vero e proprio romanzo di ricerca, dato che Milton cerca di sapere a tutti i costi cosa è accaduto tra Fulvia, la donna
da lui amata, e l’ amico Giorgio, che nel frattempo è stato fatto prigioniero dai
fascisti: per questo cerca di liberare Giorgio, tentando uno scambio, che non gli
riesce, con un fascista che egli stesso ha catturato; dopo questo fallimento, si dirige
verso la villa di Fulvia, ancor per sapere, ossessionato dall’amore e da quella assurda
volontà di conoscenza. La “questione privata” ha preso del tutto il sopravvento sul
suo stesso impegno di attività di partigiano; ma, mentre giunge in vista della casa di
Fulvia, si vede improvvisamente davanti una brigata di fascisti, che lo accerchiano
da tutte le parti: e fugge correndo, sotto gli sparti che non sembrano raggiungerlo.
Nel fuggire perde la pistola che ha con sé e potrebbe usare, almeno per uccidersi
senza farsi prendere: il romanzo si conclude nel ritmo velocissimo di questa fuga,
che sembra avere addirittura successo, la cui gioia nel pensiero egli sembra come
comunicare a Fulvia (“Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi”). Ma poi attraverso una borgata si imbatte nei ragazzini di una scuola che, nonostante tutto, stanno vivendo una vita normale, e ormai continua a fuggire, come
in una corsa infinita, dalla cui descrizione ci rendiamo conto che probabilmente è
stato colpito, ma, nella concitazione del fuggire, non se ne è nemmeno accorto.
“Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo.
Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro
da quel muro crollò”. Il crollo (morte che non ci viene designata come tale) di
Milton avviene davanti ad un limite, ad un muro che gli si para davanti proprio
quando si è liberato dai suoi inseguitori: questo limite segna proprio la fine del
romanzo e la fine della tensione tragica assoluta, del senso di colpa e della volontà
di “vedere” che lo hanno animato. Questo ultimo capitolo è davvero sconvolgente:
può far pensare ad un inseguimento “cinematografico”, ma dotato di una tensione
tragica che fughe e inseguimenti cinematografici non possono avere, proprio perché si avvalgono di figure umane reali in movimento, mentre qui sono semplicemente le parole dello scrittore ad alludere ad una realtà che diventa qualcosa di più
della realtà stessa, più angosciosa, più tragica, più definitiva, più assoluta. La corsa
che porta davanti al bosco, il bosco che diventa muro, segnano la fine del romanzo,
ma segnano anche la fine della vita di Fenoglio, che morì il 18 febbraio 1963, solo
un paio di mesi prima della pubblicazione di Una questione privata (e ancora una
volta il caso intreccia e sovrappone l’esperienza della scrittura e l’esperienza della
vita).
Per finire in un modo meno tragico, torniamo a Calvino e ad un romanzo
che abbiamo sopra citato, quel Se una notte d’inverno un viaggiatore, fatto di una
successione di inizi, che ha un finale singolare e interessante: il protagonista, che
non è altri che il Lettore che cerca il romanzo completo, che possa tutto leggersi dal
principio alla fine (mentre ha subito lo strano sortilegio di trovare solo tutta una
serie di inizi), si trova in una biblioteca e, nel leggere tutti i titoli di quei romanzi di
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Giulio Ferroni
cui ha avuto solo gli inizi, viene a riconoscere una sorta di frase compiuta, che sembra il testo di una fiaba, proprio una delle solite storie fiabesche, da Mille e una
notte. Di fronte a questa scoperta, decide di sposare la Lettrice Ludmilla, che aveva
incontrato varie volte nel corso della sua ricerca del romanzo. E allora i due, una
volta sposati, si trovano tranquillamente a letto (noto en passant che in Francia è
ora uscito anche un libro che insiste sul rapporto tra il leggere e il letto): a letto
entrambi (si tenga presente che il racconto si svolge qui in seconda persona, rivolto
al tu del Lettore), leggono tutti e due prima di dormire; Ludmilla ha finito di leggere il suo libro lo chiude, “spegne la sua luce, abbandona il capo sul guanciale, dice:
- Spegni anche tu. Non sei stanco di leggere?/ E tu? - Ancora un momento. Sto per
finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Insomma, anche qui
(come avveniva in parte ne Il fu Mattia Pascal), troviamo alla conclusione il titolo
dello stesso libro, anche col nome dell’autore. Perciò non posso non ricordare e
ringraziare, in questa mia visita a Foggia, la Caserma dei Vigili del Fuoco, che ci ha
dato occasione di parlare di letteratura e di libri vivi che speriamo di non dover mai
bruciare.
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Romano Luperini
Teoria, critica e didattica della letteratura
di Romano Luperini
Il mio discorso è su un argomento non semplice, ed è rivolto più agli insegnanti che agli studenti. Tuttavia può servire anche agli studenti per capire i meccanismi attraverso i quali viene impartito l’insegnamento della letteratura italiana Ma,
ovviamente, il mio discorso è rivolto di più ai docenti, anche perché implica una
serie di cognizioni che sono tra l’estetica e la critica, concernenti la teoria della
letteratura che sono di per sè alquanto ardue, anche se io cercherò di renderle in
termini molto semplificati, finalizzando tutto il discorso al tipo di didattica che
oggi è necessario fare e che non può che essere nuovo, perché di fronte alla novità
della situazione si impone anche in modo diverso di impostare l’insegnamento.
La crisi della letteratura che già porta con sè la crisi della critica, implica poi
la crisi della didattica e, quindi, può portare anche ad emarginare la letteratura dalla
scuola; c’è, insomma, un processo in atto di questo tipo volto ad emarginare, se non
l’educazione linguistica per lo meno l’educazione letteraria. Di qui l’esigenza di
difendere questo terreno non in modo passivo ma con delle proposte innovative
capaci di interpretare i nuovi tempi.
Comincio da un’ovvietà, che però è bene richiamare. Quando abbiamo a che
fare con un testo letterario, uno studente, un professore, un critico, non cambia
molto, lo può considerare almeno da tre punti di vista ( sempre un testo letterario è
stato considerato da uno di questi tre punti di vista o anche contemporaneamente
da tutti e tre) e cioè:
1 - Si può considerare un testo letterario analizzando l’autore e il rapporto
tra l’autore e l’opera o l’autore e la storia ma con il centro fissato sull’autore. È
quello che i teorici della letteratura chiamano studio dell’intentio auctoris.
2 - Si può studiare l’intentio operis, cioè si può studiare l’opera nella sua autonomia come se non esistesse l’autore, quasi che non fosse firmata, come una compagine organizzata di parole.
3 - Si può considerare il destinatario dell’opera, il lettore, il pubblico e poi
magari risalire da questo all’opera e all’autore, si può studiare, cioè, l’ intentio lectoris.
Come dicevo prima, questi tre tipi di approccio sono sempre stati praticati:
tuttavia, se noi muoviamo da un’ottica storica e guardiamo il paesaggio della teoria
letteraria degli ultimi due secoli, noi vediamo che ci sono stati dei cambiamenti: si è
passati da un’epoca in cui prevaleva la centralità dell’autore e quindi si studiava
soprattutto il rapporto dell’autore con l’opera e dell’autore con la storia ad un’epoca successiva basata sulla centralità del testo o centralità dell’opera dove si studiava
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Teoria, critica e didattica della letteratura
l’opera in modo prevalente e poi un’epoca corrispondente, grosso modo all’ultimo
quarto di secolo, in cui si assiste, invece, alla centralità del lettore, per cui nello
spazio di due secoli la lancetta dell’attenzione critica ha percorso un arco di 180
gradi, dalla centralità dell’emittente alla centralità del messaggio sino alla centralità
del destinatario.
Questo processo, lo possiamo anche cogliere nel dettaglio. C’è stato un periodo che va da Saint-Beuve a Freud o a Croce, passando ovviamente in Italia
attraverso De Sanctis, in cui prevaleva nettamente la centralità dell’autore. Croce
proponeva come unico metodo quello monografico, l’unica cosa che gli interessa è
il soggetto, anche se inteso come soggetto lirico. Viceversa a De Sanctis interessa il
soggetto storico, cioè le grandi figure degli intellettuali che campeggiano nella sua
storia della letteratura, quali Machiavelli, Guicciardini, o Pietro Aretino. A differenza di Croce, il soggetto è visto da De Sanctis come soggetto eminentemente
storico. Ma l’autore può essere considerato anche come soggetto psicologico, come
accade in Saint-Beuve e in Freud, che fonda un tipo di critica psicanalitica basata
sulla centralità del soggetto in quanto soggetto psicologico che va studiato nelle sue
nevrosi e nelle patologie della psiche, perché solo così sarebbe possibile capirne le
opere.
Questo primo periodo va dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Venti del
Novecento. Se noi consideriamo il periodo successivo, che va dal 1925 al 1975,
vediamo che in questo cinquantennio da un lato continua l’insegnamento dello
storicismo quale era stato proposto da De Sanctis, cioè lo studio del rapporto del
soggetto con la storia (e continua soprattutto nella critica di impostazione marxista
o di impostazione sociologica, come quella di Lukàcs, di Benjamin e in parte anche
di Bachtin che non è propriamente marxista ma privilegia un approccio di tipo
antropologico): in Italia è il momento dello storicismo idealistico degli allievi di
Croce, da Luigi Russo, fino a Natalino Sapegno, che si colloca ancora dentro questa linea. Se, però, noi consideriamo le punte della ricerca europea, noi vediamo che
già negli anni Venti c’è un grande cambiamento che nasce con il formalismo russo e
poi con la prima grande codificazione dei principi, nelle cosiddette “Tesi di Praga”.
Queste date, soprattutto quella del ‘29, sono molto importanti perché fanno vedere
un radicale cambiamento nel modo di concepire la critica. I formalisti russi per
esempio Sklowskij, Jakobson e la scuola di Praga, mettono l’accento sull’opera senza più bisogno di considerare l’autore. Si arriverà più tardi a teorizzare la morte
dell’autore, ovvero che non c’è più bisogno dell’autore per fare la critica letteraria.
Le conseguenze che ne derivano per la didattica sono notevoli. Per esempio, noi a
scuola studiamo Petrarca e Boccaccio, mentre secondo questi autori bisognerebe
studiare “Il Canzoniere”, “Il Decamerone”. Insomma, la personalità dell’autore
perde importanza. Le nuove mode si sviluppano anche in Inghilterra, gettando le
basi della tendenza che prende il nome di new criticism e che si basa sull’analisi
formale delle opere.
Se noi ci limitiamo a considerare le posizioni di Jakobson, possiamo elencare una serie di posizioni tipiche che qualificano le nuove tendenze. Ora, ad esem62
Romano Luperini
pio, si studia soprattutto lo scarto tra il linguaggio comune e quello artistico. Il
linguaggio artistico viene definito dalla prevalenza della funzione poetica e della
lingua, resa evidente dallo scarto dal linguaggio comune e legata all’importanza del
significante: non è il significato che conta ma il significante e gli elementi fonici e
retorici diventano decisivi. Di conseguenza la letteratura non insegna più nulla,
non è studiata perché ci insegna la realtà, anzi si sostiene che il linguaggio letterario
è autoriflessivo, cioè si caratterizza perché riflette su se stesso, non perché riflette la
realtà. Insomma, il linguaggio letterario gioca con se stesso, la letteratura si qualifica perché manipola le parole, gioca con le parole: la letteratura viene concepita come
puro procedimento formale e linguistico e non più come conoscenza del mondo.
Si privilegia una forma di approccio che è di tipo scientifico e descrittivo: il
testo va descritto nella sua compagine formale, perciò si tende a preferire un approccio di tipo sincronico. Non interessa tanto il rapporto con la storia quanto la
descrizione dell’opera come un oggetto letterario, un oggetto interessa in sè per sè
e, anzi, viene “resecato” via dalla storia si potrebbe dire. Questa è la tendenza più
radicale che parte dal formalismo russo e la scuola di Praga e porta allo strutturalismo. Una tendenza diversa è rappresentata dalla critica stilistica di due grandi maestri, Aurbach e Spitzer, che si differenziano abbastanza nettamente dal formalismo
russo. Auerbach parte sì dallo stile ma per arrivare alla storia, quindi non dimentica
la storia; Spitzer parte dallo stile per arrivare a quello che lui chiama l’etimo spirituale o etimo psicologico (Spitzer viene da Vienna, che è la patria di Freud, e,
quindi, considera sì l’elemento stilistico come prioritario ma poi risale all’uomo, al
soggetto).
Le nuove tendenze formaliste giungono a un massimo di organicità, di compattezza e di egemonia su tutte le altre tendenze in un quindicennio che va dal 1960
al 1975, anni del trionfo dello strutturalismo. La stessa parola “testo”, che noi oggi
usiamo in maniera neutra, risale a questi anni. Quando io ero studente di liceo si
non si usava la parola “testo” ma la parola “opera”. La parola “testo”, infatti, ha un
significato preciso, significa che c’è una connessione, un’orditura, un ordine, una
intelaiatura che è ordinata, cioè si presuppone che il testo sia una struttura coerente
di forme che il critico deve studiare. Questa struttura coerente di forme è in re cioè
è nell’oggetto, nell’opera. Ora, che la struttura coerente di un’opera sia nell’opera
può sembrare ovvio, ma così non è.
Si può, per esempio, osservare che critici diversi individuano strutture coerenti diversi e che uno stesso critico, analizzando una stessa opera a distanza di
anni, può definirne la struttura coerente in modi fra loro diversi. Per questo si osserverà più tardi che il bisogno di una struttura coerente forse è nel soggetto che
legge e non di per sè nell’opera. Un grande critico canadese che si chiamava Frye
dirà: “anche la poesia più caotica quando passa nella mente del lettore acquista un
ordine perché il lettore che ha bisogno di trovare un ordine nell’opera e lo troverà
diversamente a seconda degli strumenti di lettura di cui dispone”. Lo strutturalismo, invece, è convinto che un testo sia un testo, cioè abbia una tessitura coerente
ed essa sia in re, nell’oggetto letterario. È famosissima la lettura che fecero di un
63
Teoria, critica e didattica della letteratura
poema di Baudelaire, Jakobson e Lévi-Strauss, mostrandone la coerenza interna
delle rime, delle assonanze e delle le figure retoriche. In Italia il primo che farà
un’operazione simile sarà Avalle nel ‘65 studiando una poesia di Montale che si
intitola “Gli orecchini” e anche in questo caso mostrando che ci sarebbe una struttura in Montale che ritorna continuamente, a prescindere dagli anni, per cui c’è una
poesia giovanile, “Vasca”, dove c’è una certa struttura (qualcosa che appare dal basso nell’acqua ed emerge alla superficie e poi riaffonda e scompare), che torna in
componimenti successivi e anche venti anni dopo, ne “Gli Orecchini”, dove c’è un
volto di donna che appare allo specchio e poi scompare.
Tale struttura, quindi, non dipende dalla storia: si può e si deve studiare
questa struttura della poesia prescindendo dalla storia. Per sostenere questa tesi
Avalle poi faceva qualche piccola forzatura, perché in questa poesia “Gli Orecchini”, scritta durante la seconda guerra mondiale, compaiono anche due aeroplani da
guerra che portano un “folle mortorio” e questo dettaglio manca, ovviamente,
nella struttura degli altri componimenti. Questa lettura astorica, fuori dalla storia,
era tipica della prima fase dello strutturalismo che poi si è evoluto, in Italia, anche in
direzione storicizzante, mentre in Francia ha conservato una vocazione più astratta, più scientista e contraria all’approccio storico. In Italia, invece, si è cercato, da
parte soprattutto di Segre e della rivista “Strumenti critici”, di studiare la struttura
del testo in relazione con la struttura della storia e a questo scopo si è utilizzato
soprattutto l’insegnamento di Lotman e degli studiosi di cultorologia russi: si è
cercato, cioè, di dimostrare che esiste una struttura coerente dell’opera che corrisponde ala struttura coerente della cultura di un’epoca (ricordate tutti l’analisi che
Lotman fa del viaggio di Ulisse, descritto nell’Inferno dantesco e correlato alla
visione del mondo “verticale” della civiltà medievale): le grandi categorie
cosmologiche, come la concezione del tempo e dello spazio, non sono inventate
dagli autori, sono categorie che essi mutuano dall’epoca in cui vivono, dalla struttura che li circonda. Quindi, come è evidente, si può studiare il rapporto tra struttura
di un’opera e struttura di una cultura . Faccio solo due esempi per mostrare la profondità dell’influenza strutturalistica negli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta. La stessa critica marxista, per esempio quella di Galvano della Volpe, assimila
l’idea che ciò che differenzia il linguaggio letterario dagli altri linguaggi è l’uso tecnico del linguaggio, perché il linguaggio poetico, a differenza di quello scientifico, è
plurisenso. Il secondo esempio è questo: Francesco Orlando è uno studioso di
psicanalisi applicata alla letteratura ma elabora una teoria scandalosa dal punto di
vista psicanalitico: sostiene che bisogna analizzare freudianamente un’opera prescindendo dall’autore e dalle sue nevrosi. Secondo Orlando è nel tasso figurale di
un’opera, quindi nelle figure retoriche, che si coglie il ritorno del rimosso, anzi, il
ritorno del represso “storico”. Quindi, la storia si vede soltanto nella compagine
normale di un’opera e bisogna prescindere dall’autore, per analizzare solo quest’ultima. Anche in un suo libro recente su Tomasi di Lampedusa egli afferma che vuole
analizzare l’opera prescindendo dall’autore che lui conosceva bene, perché Orlando è nipote di questo scrittore. Dunque, perfino un critico psicanalitico dichiara in
64
Romano Luperini
questi anni di voler fare critica letteraria prescindendo dall’autore.
Ora, quali sono le conseguenze didattiche delle teorie che abbiamo considerato?
Quelle dello storicismo sono abbastanza evidenti. Lo storicismo, da quello
desanctisiano a quello idealista e a quello marxista che si è diffuso in Italia fino agli
anni ’50, partiva dalla centralità del soggetto ma coniugandola con la centralità della
storia, cioè studiava il rapporto tra il soggetto e la storia, e questa importanza che
veniva data alla storia aveva delle conseguenze nella didattica che potevano essere
anche negative: per esempio si studiava una storia della letteratura, prima quella del
Sapegno poi magari quella del Petronio, e si cercavano sporadiche conferme su
un’antologia, che, però, aveva solo una funzione sussidiaria.
I testi, quindi rischiavano di essere posti in second’ordine perché l’unica cosa
che contava era la personalità dell’autore e il suo rapporto con la storia. Con lo
strutturalismo, ovviamente, avviene tutt’altro perché penetrò nella scuola solo alla
fine degli anni ’70. Nella didattica, tuttavia, lo storicismo continuò a persistere anche dopo l’ingresso nella scuola dello strutturalismo. Esso penetra in ritardo nella
scuola e proprio quando sta scomparendo dalla ricerca più avanzata, ovvero alcuni
anni dopo il ’75 e quando ormai, nelle università occidentali, siamo in un’epoca
poststrutturalista o antistrutturalista. Le conseguenze che lo strutturalismo produce nella didattica raramente si trovano allo stato puro, perché nella didattica, in
realtà, si realizza una sintesi basata su un po’ di buon senso tra il vecchio storicismo
e il nuovo strutturalismo. Le nuove acquisizioni didattiche dello strutturalismo
pongono al primo posto l’analisi del testo, che comincia a diffondersi proprio allora. L’analisi del testo viene concepita come una forma di “Close reading”, cioè di
lettura ravvicinata del testo, concentrata sugli aspetti linguistici e retorici e centrata
sul commento, non sull’interpretazione. L’elemento ermeneutico viene visto anche
con grande sospetto, perché l’interpretazione non è scientifica mentre ora si privilegia un approccio scientifico che può essere praticato solo basandosi sulla descrizione oggettiva del testo dal punto di vista linguistico e retorico. Se si passasse all’interpretazione interverrebbe un elemento soggettivo, dunque non scientifico, che
la critica strutturalistica cerca di ridurre al massimo. Verrebbe da chiedersi: ma noi
leggiamo un testo per descriverlo?
In realtà non vedo perché uno studente dovrebbe essere così folle da leggere
un testo per descriverlo, uno studente legge un testo per capirne il significato, e il
problema del significato è un problema di interpretazione. La seconda conseguenza, che ha avuto anche alcuni esiti positivi, deriva dalla prima: è la diffusione di
modelli descrittivi, soprattutto narratologici. La narratologia comincia allora, con
la divisione in sequenze, i tipi di focalizzazione di un testo, il punto di vista, il
sistema dei personaggi. Si tratta di acquisizioni importanti, che ancora oggi uno
studente deve conoscere. Il problema è che questi modelli descrittivi non venivano
considerati degli strumenti ma costituivano l’unico fine della didattica. Credo che
tutto questo abbia avuto poi delle responsabilità nell’allontanare anche gli studenti
dalla lettura. Io non credo che la scuola sia responsabile di questo allontanamento
65
Teoria, critica e didattica della letteratura
degli studenti dalla lettura, questo è un problema molto vasto, in Italia si è sempre
letto poco per ragioni storiche (in Italia non c’è stata la riforma protestante che ha
portato a dare importanza alla lettura diretta del testo per eccellenza, la Bibbia).
Aggiungo un altro elemento che lo strutturalismo ha proposto: l’insegnante doveva
diventare un tecnico che impartisce competenze oggettive e non valori. È l’idea che
oggi rispunta in modo diverso, che il professore, cioè, debba essere solo un tecnico
della letteratura che distribuisce esclusivamente competenze tecniche e neutrali. Per
questa ragione un docente non dovrebbe entrare nel merito dell’interpretazione,
perché questo comporta la questione del valore. Qui osservo: si può fare veramente
a meno del valore? Perché a scuola non si studia Folcacchiero dei Folcacchieri ma si
studia, invece, Dante. Perché? A vedere bene è solo una questione di valori. Tutte le
scelte che noi facciamo sono scelte di valore, noi leggiamo Petrarca o leggiamo Verga ma non leggiamo gli infiniti autori che c’erano all’epoca di Petrarca e di Verga
perché il loro valore al cospetto della storia della civiltà è minore. Dunque lo strutturalismo già poneva la questione della trasformazione del professore da intellettuale a esperto, cosa che oggi è ancora all’ordine del giorno. Quando, ad esempio, si
dice che il professore deve fare soltanto educazione linguistica, perché l’educazione
linguistica è oggettiva e funzionale agli usi pratici, si dimentica che esiste anche
l’educazione letteraria e che anche questa in qualche modo può servire.
Ho cercato di dimostrare quali sono state le conseguenze didattiche di
un’impostazione dello strutturalismo. Nel campo della teoria, a metà degli anni ’70,
è avvenuto un cambiamento. Si entra nel terzo periodo e si comincia a porre in
discussione soprattutto lo specifico letterario. Si è cominciato a osservare: ma cosa
ci dice che un’opera è letteraria perché vi prevalgono l’autoriflessività e la funzione
poetica della lingua? Io leggo Dostoevskij in traduzione russa e l’opera mi sembra
un capolavoro. Se ci fosse un primato dei significanti magari quell’ignoto traduttore sarebbe un autore geniale! Eppure l’idea che l’artisticità vada cercata esclusivamente nell’autoriflessività della lingua porterebbe a questo paradosso. Facciamo
l’esempio di Machiavelli. Perché dobbiamo leggerlo dal punto di vista poetico e
non dal punto di vista politico?, e perché possiamo leggere la Bibbia dal punto di
vista letterario oppure dal punto di vista religioso, filosofico o antropologico? In
fondo è il lettore che sceglie l’ottica in cui leggere, o meglio, è una comunità a scegliere l’ottica con cui leggere determinate opere. Dunque la ricezione gioca un ruolo fondamentale. L’opera di Machiavelli può essere benissimo letta come opera politica o letteraria, oppure come opera scientifica: dipende da come una comunità o
una serie di lettori stabiliscono una tradizione di lettura. La stessa coerenza interna
di un’opera è piuttosto un’ipotesi di lettura che un dato oggettivo, cioè un lettore
per capire un’opera deve trovarci una coerenza interna perché se non la trova non
riesce a capire l’opera. Ma la coerenza interna è attribuita dal critico, non è in re.
Insomma, attraverso queste e altre riflessioni si è arrivati nel corso degli anni ‘70 a
un superamento delle ipotesi strutturaliste. Si è formata una nuova macrodisciplina,
l’ermeneutica, di cui il fondatore moderno è Gadamer , autore di “Verità e merito”
uscito all’inizio degli anni ‘60, Per l’ermeneutica va ribadita la centralità del lettore.
66
Romano Luperini
Attraverso la lettura si realizza una fusione di orizzonti: l’orizzonte del lettore si
fonde con l’orizzonte dell’opera attraverso una partecipazione interpretante, cioè il
soggetto cambia leggendo l’opera e l’opera stessa viene cambiata dalla lettura, nel
senso che, ad esempio, la Divina Commedia è sempre quella, ma cambia il significato della Divina Commedia a seconda di chi la legge e a seconda delle generazioni
storiche. Questa teoria che mette al primo posto il modo con cui si legge e perciò
giudica decisivo il momento della lettura, assume una varietà di esiti contrastanti
fra di loro, dal decostruzionismo americano alla teologia della letteratura praticata
da grandi critici come Steiner o Bloom sino all’estetica della ricezione. Nell’estetica
della ricezione ciò che conta è l’orizzonte d’attesa del pubblico Jauss, per esempio,
studia l’orizzonte d’attesa del pubblico, cioè cosa si attende un pubblico quando
esce un’opera e come reagisce ad essa. Varie forme di sociologia della letteratura che
si diffondono negli ultimi trent’anni sono basate proprio sullo studio del pubblico,
della fruizione di un’opera e della sua circolazione. Una tendenza critica che si sviluppa soprattutto negli ultimi ‘30 anni è la critica tematica, che oggi ha grande importanza per l’insegnamento. Essa presuppone che ci sia il terreno dell’ immaginario a produrre la fusione di orizzonti di cui parla Gadamer. Gli studiosi dell’immaginario sostengono che l’opera e il lettore hanno in comune l’immaginario, cioè un
insieme di miti, di archetipi, di simboli, che vengono messi in moto dalla lettura e
che il soggetto ha dentro il proprio inconscio collettivo. L’opera stessa affonda le
radici in questo serbatoio di miti condivisi anche dal lettore. Ciò porta a una lettura
antropologica dei testi, quale quella proposta da grandi critici come Starobinskij o
il canadese Frye che hanno compiuto alcune fondamentali letture tematiche.
Quali sono le conseguenze didattiche positive e negative che emergono dal
primato del lettore? Cominciamo da quelle positive, che si riscontrano al di là delle
varie scuole contrastanti tra di loro. La principale è la centralità dell’interpretazione: non più la centralità del commento e della descrizione ma la centralità dell’interpretazione. Quello che conta è la ricerca del significato di un opera e dal punto di
vista didattico questa posizione presenta molti esiti interessanti. Una seconda conseguenza positiva è l’attualizzazione del testo. Essa per molto tempo è stata vista
con sospetto, come se fosse una operazione di sopraffazione ideologica del lettore
sul testo. Al contrario, si è capito che qualunque critico fa un’attualizzazione del
testo: De Sanctis, per esempio, attualizza la Divina Commedia in senso romantico.
Ogni critico non può che attualizzare un opera del passato proprio perché la ritiene
valida oggi, e un critico, come un professore, deve mostrare che quell’opera del
passato oggi è utile perchè noi la leggiamo non come un reperto archeologico ma
come un’opera del passato che ancora oggi ci parla. Una terza conseguenza positiva
è la sottolineatura della responsabilità morale dell’interprete: esso quando legge
un’opera non può dire quello che gli passa per la testa perché è responsabilizzato
eticamente sia di fronte al testo che di fronte ai lettori di quel testo. Questa responsabilità comporta la necessità dell’aspetto filologico e cioè dello studio e dell’ascolto dell’opera. Essa implica un rapporto dialogico: l’ermeneutica presuppone un dialogo reciproco tra il soggetto e l’opera. Un’altra conseguenza è che la classe viene
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Teoria, critica e didattica della letteratura
vista come comunità, cioè come un gruppo che ha un sapere comune e che si divide
però nell’interpretazione a partire da questo sapere comune. Infine, centralità dell’interpretazione e del conflitto interpretativo all’interno di una comunità significa
centralità della democrazia in quanto sviluppa il libero dibattito delle interpretazioni. Esse sono libere, non sono date una volta per tutte, tanto è vero che le interpretazioni di un testo sono infinite. La parola “rosa”, ad esempio, in un trattato
di botanica ha un unico significato mentre in poesia ha moltissimi significati, quindi ci possono essere interpretazioni diverse di quella parola o di quella poesia.
Quali sono, invece, le conseguenze negative? La principale è la possibilità di
utilizzare l’arbitrio interpretativo. Anche da parte di alcune posizioni teoriche emerse
negli Stati Uniti – per esempio da parte del decostruzionismo - si rischia di avallare
l’arbitrio interpretativo. Se tutti possono interpretare liberamente il testo, qualunque interpretazione è giusta, quindi tutte le interpretazioni sono legittime. Ora è
vero che le interpretazioni di un testo sono infinite ma ciò non vuol dire che siano
illimitate. I numeri pari sono infiniti ma escludono i numeri dispari, quindi non
sono illimitati: così le interpretazioni di un testo sono infinite ma non sono illimitate. Se in un testo si legge: “oggi piove” e io parto dalla mia analisi dal fatto che il
testo dice “oggi c’è il sole” ciò non è accettabile non per ragioni scientifiche ma per
ragioni etiche. Se una persona mi parla io ho il dovere di stare a quello che lei mi
dice. Dunque, occorre il rispetto del testo, il rispetto del messaggio del testo e il
rispetto anche per gli altri lettori che vedono quello che c’è scritto nel testo. L’arbitrio interpretativo è uno dei rischi di questa tendenza e si corregge dando importanza al commento, perché io affermo sì l’importanza dell’interpretazione ma che
si basa sul commento stesso.
Il commento costituisce il momento dell’ascolto del testo, implica l’interesse
filologico e nasce dal bisogno di capire quello che il testo dice, come lo dice e quando lo dice. Un’altra possibile conseguenza negativa è la destoricizzazione: una lettura tematica “selvaggia” può essere destoricizzante.
Per esempio, il tema dell’amore si trova in tutti i poeti del mondo, in tutte le
epoche e nelle varie generazioni. Ed è facile generalizzare perdendo di vista la peculiarità storica e il modo con cui questo tema viene di volta in volta affrontato. In
realtà il tema dell’amore assume contenuti diversi. L’amore per Dante è diverso
dall’amore per Boccaccio, quello di Boccaccio è diverso rispetto a quello di Flaubert
in Emma Bovary. Per impedire questi rischi occorre che in un primo momento si
continui a porre al centro della didattica il testo per poterlo ben conoscere: la descrizione del testo ci deve essere ma va considerata un mezzo, non un fine. La descrizione del testo deve servire per interpretare, perché la scommessa di ogni critico
dovrebbe essere quella di legare l’interpretazione alla descrizione del testo, cercare
di fare scaturire la propria interpretazione dall’analisi e non cervelloticamente dalle
proprie ipotesi personali. Di qui, appunto, la proposta, che mi pare poi si vada
sempre di più affermando, della centralità della lettura. Mentre la formula “centralità
del testo” presuppone un atteggiamento statico del lettore, passivo, la lettura è una
esperienza, un avvenimento, la lettura è qualcosa che coinvolge il soggetto e fa cam68
Romano Luperini
biare le prospettive culturali del soggetto. Questo non significa far scomparire la
storicizzazione, anzi l’aspetto storico e lo stesso insegnamento storiografico devono essere risucchiati all’interno dell’interpretazione del testo. Non si può interpretare il testo se si prescinde dalla storia, e quindi il momento storicizzante è fondamentale per interpretare un opera in modo non cervellotico. È chiaro, però, che,
anche se è fondante l’approccio con la concreta individualità del testo, ciò non significa che il professore possa limitarsi a offrire agli studenti una serie di testi
scollegati tra di loro. Anzi, il vero problema della didattica della letteratura è il
passaggio dal testo singolo alla serie dei testi.
Ora, questa serie può essere costruita in vari modi, può essere una serie
tematica e avremo allora percorsi tematici; può essere una serie per generi e avremo
allora percorsi per generi; può essere collegata ai movimenti letterari e allora servirà
un approccio di tipo storiografico. Questi diversi tipi di approccio possono essere
tutti ugualmente praticati dagli insegnanti e dagli studenti.
Si osservi che di per sè la critica tematica non comporta affatto una destoricizzazione. Starobinskij ha fornito un bellissimo esempio nel suo Ritratto dell’artista saltimbanco, mostrando come all’epoca di Eva di Verga o delle ballerine dei
pittori impressionisti, lo scrittore si scopre come una ballerina, come una prostituta, come un saltimbanco. Tutto ciò va posto in correlazione con la centralità del
mercato e con la mercificazione dell’arte che emerge negli anni dell’imperialismo
ottocentesco.
In conclusione, la letteratura è di per sè una disciplina aperta e quindi ampiamente disponibile a un approccio interdisciplinare. Forse deriva da qui la condanna
del professore di letteratura italiana a divenire coordinatore dei programmi interdisciplinari di istituto. Indubbiamente si tratta di un onere, ma è un onere che implica
il riconoscimento del fatto che quasi sempre il docente d’italiano è la persona che
maggiormente incarna il senso della multidisciplinarità lì dove le discipline scientifiche rispondono ad una logica monodisciplinare. Un critico letterario (ma anche
un professore) quando insegna deve fare un po’ di psicologia, un po’ di storia, un
po’ di sociologia: deve ricorrere, cioè, a numerose discipline. Lo studio della letteratura, invece, è una disciplina aperta che ci immette in tanti mondi e per questo,
poi, è così formativa, perché permette di collegare tra di loro mondi diversi, e quindi offre agli studenti una formazione complessiva, una capacità di muoversi fra i
vari campi del sapere che è estremamente formativa.
Lo studio della letteratura contribuisce a creare nello studente tre grandi capacità: la capacità cognitiva, che è quella specifica, è la conoscenza di un campo
nuovo; la capacità immaginativa permette di gettare le sonde in quel grande serbatoio dell’immaginario che è la letteratura (nessun’altra disciplina può aprire alla
dimensione esistenziale e antropologica come quella che noi insegniamo); la capacità critica, perché la letteratura educa alla complessità delle interpretazioni e alla
problematicità della verità (in letteratura la verità non è assoluta perchè se esistono
tanti modi di leggere il testo, vuol dire che il paradigma di verità della letteratura è
un paradigma aperto non dogmatico).
69
Teoria, critica e didattica della letteratura
L’insegnamento della letteratura deve rinnovarsi: non possiamo più insegnare letteratura come venti anni fa, tanto meno che mai come cinquanta anni fa. Ma
esso mantiene tutt’oggi la sua importanza formativa. Ma perché il docente sia in
grado di svolgere un compito adeguato a tale importanza occorre che venga rispettata la sua funzione storica e addirittura antropologica. Il professore di letteratura
non può essere né solo un esperto nè un intrattenitore, come oggi si vorrebbe. Non
può essere solo un esperto di lingua o di filologia o di retorica, perché deve spiegare
per quale ragione oggi leggiamo Dante e questa spiegazione comporta un ordine di
valori su cui un docente non può tacere.
D’altronde un professore non può essere un intrattenitore che diverte e trasforma la scuola in un supermercato dove gli studenti, i clienti, si aggirano leggiadramente come in certi servizi di pubblicità televisiva.
La scuola deve avere un suo rigore, il professore deve essere un mediatore
culturale e, dunque, deve svolgere un ruolo eminentemente intellettuale. Il professore non può essere soltanto un esperto e neppure un brillante tuttologo che parla
di tutto, compresa l’educazione sessuale e quella stradale. Interdisciplinarità non
significa tuttologia: significa far ricorso ad aspetti di altre discipline per spiegare
meglio la nostra. I contenuti disciplinari specifici non devono andare perduti.
70
Paolo Murialdi
Stampa, TV e Internet
di Paolo Murialdi
Nel campo della comunicazione e dei mezzi d’informazione, il secolo XX ha
visto susseguirsi diverse rivoluzioni determinate da straordinarie novità tecnologiche. I nuovi media nati all’inizio del Novecento e poi alla metà del secolo, hanno
condizionato e poi demolito il dominio incontrastato dell’era Gutenberg, iniziata a
metà del ‘400. Poi è arrivata la televisione: subito dopo la seconda guerra mondiale
negli Stati Uniti, negli anni ‘50 in Italia. Come tutti sappiamo, perchè, bene o male
l’abbiamo sotto gli occhi, la televisione si è rivelata un mezzo eccezionale di informazione, di intrattenimento e di formazione di mentalità in tendenze. E ha una
portata globale, cioè può essere vista in diretta in ogni parte del mondo. Alcuni
eventi, come lo sbarco dell’uomo sulla luna, l’assassinio di Kennedy, le Olimpiadi,
i campionati del mondo di calcio hanno mostrato quando grande può essere la televisione. Nello stesso tempo sappiamo che la TV, quella via cavo, può essere molto
piccola, nel senso che può essere circoscritta a comunità anche piccole.
In pochi decenni, dunque, l’informazione legata all’invenzione di Gutenberg,
cioè quella stampata, ritrova oralità con la radio e il carattere visivo con la televisione. Visibilità che l’uomo preistorico aveva usato nelle caverne per comunicare insieme a quella orale.
L’ultima rivoluzione è quella che ha prodotto con il computer, i satelliti e il
sistema digitale i nuovi media. Di qui Internet.
Oggi, nell’ultimo anno del XX secolo, siamo arrivati a prodigi impensabili.
Ed è questa situazione di fine secolo che affronto nella mia relazione.
Alla fine del XX secolo il mondo dell’informazione, arricchito anche in Italia
dalle straordinarie novità dell’era digitale, presenta successi di pubblico, ottimi risultati finanziari alternati a situazioni di crisi e serie incognite di fronte alla potenza
dell’ultimo arrivato: internet. Una potenza che si sta dispiegando nel nostro Paese
proprio nell’anno 2000. Le incognite immediate riguardano il futuro della stampa e
l’evoluzione del giornalismo.
Nel 1999 in base a rilevazioni e a stime attendibili, lo stato dei media
tardizionali è questo:
1 - I telegiornali della sera del duopolio televisivo hanno avuto in media 22
milioni e 659 mila spettatori. In testa il TG1 seguito dal TG5;
2 - Le 107 testate quotidiane hanno venduto una media di 5 milioni 936 mila 595
copie, con un lieve incremento (più 0,81% ) rispetto al 1998. Siamo sempre al terzultimo
posto in Europa perchè si vendono 102 copie di quotidiani ogni mille abitanti.
71
Stampa, TV e Internet
3 - La diffusione dei settimanali è calata del 2,5% mentre è salita quella dei
mensili del 2,7%.
4 - Rilevante l’aumento degli investimenti pubblicitari, che ha superato i 14
mila miliardi. La parte del leone l’ha fatta la televisione (55,3%) rispetto alla stampa
(35,6%)
5 - In ascesa sono anche gli introiti pubblicitari della radio (+16,1%)
Nel campo della comunicazione elettronica, il 1999 ha visto l’aumento del
possesso di personal computer (in Italia il 27% delle famiglie) e di collegamenti
Internet: si calcola che i naviganti delle reti siano stati più di 5 milioni. Cifre inferiori alle medie europee ma in crescita esponenziale.
Per la stampa quotidiana l’aspetto più preoccupante è il distacco dei giovani.
Da un’indagine del 1999 risulta che soltanto il 19% degli uomini e delle donne fra i
16 e i 24 anni legge un quotidiano e che la lettura dura al massimo 10 minuti. Aumenta, inoltre, la disparità tra le regioni del nord e quelle del sud. Contro la scarsità
della diffusione, cronica nel nostro paese, gli editori e i giornalisti ricorrono più o
meno alle stesse ricette degli anni ’90. Nei quotidiani più forti si ha il gigantismo,
con i supplementi in rotocalco, con gli inserti specializzati (prevale l’economia) e
quelli promozionali gratuiti. Al sensazionalismo, alla visibilità con la titolazione
grande e l’impiego del colore è stata aggiunta anche una ricerca di spigliatezza quotidiana, non soltanto con la vignetta satirica, ma anche con brevi interventi destinati
a vivacizzare i giornali. Ne sono protagonisti, in genere, giornalisti della generazione uscita dalla contestazione giovanile e ai movimenti extraparlamentari.
Nei telegiornali delle reti nazionali si nota una maggiore evidenza data alle
notizie di cronaca nera e a quelle sportive rispetto alle informazioni politiche. Nella
stampa quotidiana locale si cerca di realizzare un’abbondanza di notizie anche minime, che è un’operazione impossibile per le piccole televisioni a causa dei costi.
Comunque lo stile del giornalismo italiano dei media tradizionali resta in
prevalenza quello impressionistico rispetto a quello fattuale, tipico del giornalismo
di stampo anglosassone. Ma continua a mancare o a difettare la cultura professionale del controllo e dell’indagine. È cambiato anche il rapporto tra il giornalismo e la
politica. Resta un rapporto più stretto e diretto che nei paesi di vecchia tradizione
democratica ma non è più quello esercitato in presenza dei grandi partiti, ora scomparsi. In una fase caratterizzata da instabilità politica e dallo scontro di coalizioni
non sempre coese e persino conflittuali, questo rapporto si è, in un certo senso,
individualizzato o spezzettato in clan. E l’informazione politica – ma non solo questa – è più influenzabile da parte dei poteri politici ed economici.
Vanno bene i conti delle maggiori imprese. Complessivamente nel 1998 gli
utili dei quotidiani hanno superato i 260 miliardi, ma nonostante i risultati brillanti
riguardino poche imprese, non si può affermare che la stampa sia in crisi nelle proporzioni quasi generali come accadde negli anni ’70.
Nel 1999 il primato è rimasto al “Corriere della Sera”, con una vendita media
di 685.635 copie, seguito da “la Repubblica” ( 611.663) , “Gazzetta dello Sport”
72
Paolo Murialdi
(432.992), “Il Sole 24 ore” (391.067) e la Stampa (390.184). Queste cinque testate
assommano da sole la metà della diffusione globale giornaliera dei quotidiani. Le
cifre di ciascuna testata possono anche ondeggiare nelle vendite a seconda dell’accoglienza riservata alle periodiche offerte promozionali oppure a causa degli accoppiamenti con piccoli giornali locali. Da tempo sono queste le cinque testate più
importanti, entrate nella comunicazione elettronica: il caso più rilevante alla fine
del secolo è quello del gruppo “Espresso” che edita, oltre al newsmagazine con lo
stesso nome una catena di dodici quotidiani locali, gestisce tre emittenti radiofoniche
e un portale di accesso in rete che si chiama Kataweb.
Non sono da meno, economicamente, il gruppo Rcs con il “Corriere della
Sera”, “Gazzetta dello Sport”, ventiquattro periodici, i libri e, dal giugno 2000, un
settore multimedialità che coordina Rcs Web e, infine, la Mondadori, priva di quotidiani ma ricca di periodici e con il primato della produzione libraria. Appartiene a
Silvio Berlusconi e, perciò, è affiliata alle tre reti televisive Mediaset.
Finanziariamente va bene anche il gruppo “Riffeser”. Comprende “il resto del
Carlino”, “La Nazione” e “Il Giorno”. Le crisi finanziarie più gravi le subiscono
“l’Unità” e “il Tempo”. Entrambi hanno una diffusione che non supera le 50 mila
copie. Rischiano, quindi, la chiusura. Il crollo del “L’Unità” colpisce in modo particolare non soltanto se si pensa alle diffusioni da primato ottenute molti anni fa con la
vendita militante; basta ricordare che le copie erano più del doppio del periodo recente, cioè nel periodo in cui la coalizione dell’Ulivo, guidata da Prodi e da Veltroni,
conquistò la maggioranza parlamentare. Le cause sono i dissensi che le scelte dei
dirigenti postcomunisti hanno compiuto al governo, dissensi che si erano già manifestati con la scissione di Rifondazione Comunista che ha un proprio quotidiano. Ma
pesano, inoltre, le nostalgie del forte partito comunista dei tempi di Togliatti.
I piccoli giornali di opinione e di partito, come “il Foglio” e “il Manifesto”,
per citare i due più noti e in posizioni contrapposte, navigano finanziariamente in
cattive acque e si sostengono con sovvenzioni pubbliche. Esse sono contrarie alle
direttive dell’Unione Europea e, quindi, prima o poi dovranno cessare o cambiare
strada. Alcune appaiono molto discutibili anche per i sostenitori della necessità di
un forte pluralismo di voci giornalistiche.
La riduzione dei costi di produzione determinata dallo sviluppo tecnologico, ha consentito la pubblicazione di piccoli quotidiani locali a diffusione limitata
in mercati circoscritti. Un esempio sono i “Corrierini” che escono in Toscana e in
Umbria. È anche per questo che le testate giornalistiche nel 1999 sono più di cento.
Le vere novità degli ultimi anni vengono dalla comunicazione elettronica e dalla
svolta digitale: internet, il giornale on line e fra non molto la televisione interattiva. Il
primo tratto di questo processo - in corso e in forte crescita nell’anno 2000 - è stato la
riproduzione dei giornali sullo schermo dei computers. Cominciò nel 1982 un quotidiano del Texas. Nel nostro Paese l’avvio risale all’inizio del decennio Novanta: tre testate on
line nel 1994, una dozzina nel 1996 e 62 nel 1999. Fin dall’inizio si sono visti i vantaggi
rappresentati da Internet rispetto al tradizionale foglio stampato: tempestività, possibilità
di aggiornamenti continui, coinvolgimento e partecipazione del lettore, multimedialità.
73
Stampa, TV e Internet
Dalla riproduzione pura e semplice delle pagine dei quotidiani si è passati – nelle
maggiori imprese - ad una elaborazione di fusione di servizi giornalistici e di informazione di servizio, accoppiando a queste iniziative l’offerta di spazi pubblicitari. Sono
nate vere redazioni on line, dal “Sole 24 Ore” a “La Repubblica”, da “La Stampa” a
“Corriere”, dall’”Espresso” a “Panorama”, per citare i più noti e i più impegnati.
Le pagine che questi giornalisti creano e curano sono composti di notizie, di
titoli, di immagini e di rubriche e hanno un uso molto maneggevole del colore. I
forum di argomento politico e sociale, nei quali il protagonista è persona di riconosciuta importanza o notorietà registrano migliaia di contatti. Lo si è constatato nella campagna dell’aprile 2000 per le elezioni regionali e di fronte alle clamorose vicende delle telecomunicazioni e di Internet che sono gli “alfieri” della nuova economia. Il linguaggio del web, asciutto e pratico, esclude i cosiddetti “teatrini” e il
chiacchiericcio del mondo politico italiano.
Queste prime prove su vasta scala dimostrano che gli editori non possono
rimanere legati soltanto alla carta e all’etere. E pongono anche problemi non
procrastinabili agli organismi della categoria giornalistica: sia al sindacato perché il
contratto di lavoro, già invecchiato da tempo, è da rifare in buona parte, sia all’Ordine professionale perché la sua essenza corporativa è sempre più avvertibile. Internet
non è un medium che si sovrappone ai media nati precedentemente, come è accaduto sino ad ora nella storia dei mezzi di comunicazione. La rete delle reti, il web, è
una tecnologia di comunicazione completamente nuova. Questa caratteristica, la
potenzialità, che si misura in tempo reale, le straordinarie possibilità informative e
di comunicazione interpersonale o di gruppi, la facilità di accesso e l’attrazione che
esercita tra i giovani sono all’origine del grande quesito di questi anni: il quotidiano
stampato sopravviverà?
C’è chi ritiene che nel giro di pochi anni la mappa dei media tradizionali dei
paesi sviluppati sarà sconvolta e subirà cambiamenti inimmaginabili fino a poco
tempo fa. Quello che è certo, fin da oggi è che ai giornalismi particolari che i media
dell’etere e la scomposizione dei prodotti di carta stampata hanno creato, se ne sta
aggiungendo uno nuovo che si sviluppa in un contesto e con strumenti diversi. Con
conseguenze sul linguaggio, sul processo e sui criteri di “notiziabilità” e sulla scelta
degli argomenti. E sul ruolo stesso del giornalista. Inoltre, l’interattività che
contraddistingue l’informazione su Internet e la “nuova economia” che permette a
chiunque di pubblicare on line quello che vuole perché l’accesso è facile e i costi
sono molto bassi, allargano la competizione a tutto campo. Non soltanto alle testate giornalistiche ma anche a tutti quei siti d’informazione che praticano
un’intermediazione di natura giornalistica. Un sito web può facilmente assumere la
forma di un giornale elettronico senza che gli operatori siano obbligati a possedere
la tessera dell’Ordine. Amazon e Drudge Report sono due casi americani esemplari. Il primo è un grande centro commerciale elettronico che, oltre a vendere libri, li
recensisce e pubblica le recensioni dei lettori-utenti. Il secondo sito, fondato da
Matt Drude, è specializzato nelle inchieste e ha ottenuto una grande notorietà perché ha svelato lo scandalo Lewinsky che ha coinvolto il presidente Clinton.
74
Luigi Paglia
La transizione dal grido all’ultragrido nella
“Vita d’un uomo” di Ungaretti*
di Luigi Paglia
A Renato Lo Polito
1. Il grido
Si cercherà di analizzare alcuni nuclei tematici e stilistici della Vita d’un uomo,
percorrendo un itinerario che, tra i tanti angoli visuali dai quali può essere riguardata la poesia ungarettiana, ne costituisce un punto di vista privilegiato, una prospettiva particolarmente rappresentativa, in quanto segue un filo tematico che l’attraversa quasi interamente.
Nella poesia di Ungaretti il grido è espressione del dolore e della più profonda disperazione
1) per la tragedia delle due guerre mondiali,
2) per la morte dei suoi cari (gli amici, il figlio Antonietto, il fratello
Costantino),
3) per la solitudine e la depressione esistenziale.
Ma il grido non è solo un motivo a livello tematico, si traduce addirittura in
uno straordinario connotato stilistico che informa non solo la poesia dell’Allegria,
ma anche le successive raccolte (Sentimento del Tempo, Il Dolore1), pur con variazioni o slittamenti di tono e di stile.
* Si ricorda che, nella serata del 16. 11. 2000, le tre prospettive individuate della poesia di Ungaretti sono
state sottolineate, con il collegamento musicale, dagli intermezzi corali della Cappella Musicale “Iconavetere”,
diretta dal Maestro Renato Lo Polito, per cui al grido ungarettiano ha corrisposto il ‘dolore cosmico’ del
Coro finale della Passione secondo Matteo, all’ultragrido la preghiera dell’Aria sulla quarta corda, mentre la
transizione dal grido all’ultragrido è stata rievocata dal Sanctus dalla Messa in si min. L’esecuzione delle tre
composizioni di J. S. Bach ha anche costituito l’omaggio all’eccelso musicista tedesco, nel 250 ° anniversario
della morte.
1
È noto che nell’Allegria (Preda, Milano 1931, ed. definitiva: Mondadori, Milano 1942) confluirono le
prime due raccoltine ungarettiane: Il Porto Sepolto, Stabilimento tipografico Friulano, Udine, 1916, e L’Allegria di Naufragi, Vallecchi, Firenze 1919, mentre il Sentimento del Tempo usciva presso Vallecchi, 1933, ed.
def. Mondadori 1943, e Il Dolore nel 1947 sempre presso Mondadori). Le opere poetiche ungarettiane sono
state poi raccolte nel volume: Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a c. di Leone Piccioni,
Milano, Mondadori, 1969 (d’ora in poi, M69).
75
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
La prima stagione (L’Allegria) è quella dell’espressionismo, in dialettica con
il simbolismo, la seconda e la terza (Sentimento e Dolore) sono quelle della violenta
esplosione barocca (che rappresenta il dirottamento o l’equivalente dell’espressionismo) in accesa dialettica con il classicismo. Si porrà l’accento soprattutto sulle
connotazioni espressionistiche e su quelle barocche che, a mio avviso, costituiscono l’elemento di maggiore originalità di Ungaretti, tralasciando i motivi simbolisti
e quelli classicistici, largamente indagati dalla critica.
La rivoluzione linguistica e poetica dell’Allegria è attuata proprio con la fusione o l’innesto, o la collisione, della violenza espressionistica e dell’evocazione
simbolista: l’attenzione indirizzata agli oggetti (che subiscono una straordinaria
deformazione o esasperazione figurativa, connesse alla violenza della partecipazione emotiva ed esistenziale dell’esperienza del soggetto lirico – in una visione corrispondente ai connotati dell’Espressionismo) si lega ai moti di espansione, diffusione, comunione cosmica (che sono alcuni aspetti del Simbolismo), con effetti di originalissima dialettica, o interazione, tra microcosmo e macrocosmo, tra io ed oggetti, tra finito ed infinito, e ciò rappresenta il segno distintivo, ed eccezionale, dell’operazione poetica ungarettiana nell’ambito della letteratura italiana del ‘900.
D’altra parte, nella sua seconda stagione poetica, Ungaretti attua la riscoperta
(o la reinvenzione) dei classici, delle fonti della poesia italiana (da Petrarca a Leopardi), li fa collidere con la prospettiva della più alta poesia del barocco europeo
(dei grandissimi Gongora e Shakespeare, frequentati da Ungaretti come traduttore
e studioso) e li innesta con la visione michelangiolesca e con la moderna, balenante
operazione poetica mallermeana.
1.1. Il grido di dolore per la tragedia della guerra
La prima espressione del grido, ossia la rivolta contro la guerra, contro la sua
disumana violenza, appare esplicita e dirompente in almeno tre testi dell’Allegria, il
primo dei quali è
Sono una creatura
Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
76
Luigi Paglia
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
Il grido di dolore ha il suo correlativo stilistico, da una parte, nel lessico di
violenza espressionistica, usato quasi come uno strumento a percussione e, dall’altra, nell’ossessiva, martellante replicazione della locuzione avverbiale “così” in
epifora, all’inizio di cinque versi successivi.
La struttura fonico-ritmico-metrica della composizione appare come il
‘correlativo verbale’ della “pietra” (ritagliata dal desolato, scarnificato paesaggio
carsico) che è evocata a livello semantico, in collegamento con il prosciugato pianto
esistenziale e con il desolato panorama della vita.
L’oggetto verbale appare nella sua incalzante, ossessiva scansione ritmicometrica e nell’aspra scabrosità fonica generata dalla frequenza altissima dei suoni
duri, dissonanti: della sorda dentale /t/, la cui disseminazione si estende in tutta la
poesia (14 occorrenze, ed in otto casi in collegamento con altre consonanti), con cui
si realizza a livello fonico la confluenza delle tre parole tematiche della poesia: pietra, pianto, morte); ma anche del fonema /k/ (nove occorrenze) che apre in modo
dirompente la maggior parte dei versi (“Come, così”).
La prima strofa della composizione, rappresenta una dilungata prolessi, l’introduzione, sospesa per tutto lo spazio degli otto versi, del veicolo analogico ripreso, con un ricalco testuale (“Come questa pietra”), nella seconda strofa la quale fa
emergere nella sua folgorante brevità il tenore della comparazione 2.
La serie lessicale si svolge dalla superficie dell’oggetto, con la precisazione
delle sensazioni tattili (“fredda”, “dura”), alla profondità (“refrattaria”) e, si direbbe all’interiorità dello stesso (col termine “disanimata” attribuibile più al tenore
umano che non al veicolo), attraverso la mediazione di “prosciugata”, per cui viene
attuato il collegamento analogico al negativo tra l’acqua e la vita e, quindi, tra l’aridità della pietra (e l’impietrimento del pianto umano) e la morte.
La desolata aridità della “creatura” Ungaretti, immersa nel dolore della condizione della guerra (metafora di quella generale della vita umana, evidenziata dal
titolo della poesia), è vissuta come identificazione con la pietra, dettata anche dal
deittico “questa” oltre che dalla serie tormentata degli attributi analogici in cui è
2
Tra i vari schemi utili per definire il meccanismo delle comparazioni e delle metafore, tra i quali ricordo
quello di A. Henry (Metonimia e metafora, Einaudi, Torino, 1975) e del Gruppo µ (Retorica generale, Bompiani,
Milano, 1976), adotto la terminologia più semplice ma efficace dello studioso inglese I. A. Richards ( Filosofia
della retorica, Feltrinelli, Milano, 1967) che distingue tre elementi: il tenore, ossia l’elemento referenziale,
l’argomento di cui si parla; il veicolo o il nuovo argomento o oggetto introdotto, a cui si paragona il tenore; e
il terreno o tratti comuni, che sono gli elementi di somiglianza tra tenore e veicolo, tra i quali si stabilisce una
più o meno profonda identificazione a seconda del tipo di figura attuata (comparazione, metafora prepositiva,
verbale, copulativa, appositiva ecc.).
77
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
evidenziata l’equazione della privazione dell’acqua e della perdita della vitalità e
della sensibilità umana: ne discende che, con folgorante ellissi analogica, il pianto
diventa invisibile, in quanto la guerra ha pietrificato il mondo umano; il piantopietra perde le connotatazioni positive della vita, apparendo solo nell’aspetto desolato della perpetuazione della pena: la vita si identifica con l’aspettativa della morte3.
La seconda poesia in cui risuona il grido di dolore, per lo strazio della guerra
e per la terrificante presenza della morte, che tuttavia approda alla finale affermazione della vita e dell’amore, è
Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
I primi dieci versi della poesia rappresentano una crudele fissazione emotiva
resa stilisticamente dalla concomitanza (oltre che dello straziante traslato “congestione”) della traumatizzante sequenza dei cinque participi passati, la cui portata è
3
Con acutezza interpretativa A. Budriesi (in Letteratura: forme e modelli. Il novecento, S.E.I., Torino,
1989, p. 686) puntualizza: “il pianto, segnale di dolore, ma anche di vita, indizio di una dinamica emozionalità,
sparisce, è pietra. È morto il pianto ma non il dolore: si è impietrito penetrando nell’interno dell’uomo, senza
lasciare segnali esterni, senza lasciare, dunque, tracce di vita. La similitudine si è chiusa. Pietra e pianto
approdono quasi inevitabilmente, nella terna dei versi finali, al segno morte che chiude il trittico dei sostantivi
della poesia accomunati sia a livello dei suoni (allitterazione della /t/ sorda) sia a livello dell’equivalenza semantica
sulla base del tema dell’immutabilità e dell’irreversibilità. Si spegne così, chiarendosi per categorie negative, la
carica presente nel titolo: Sono una creatura. L’essere uomo coincide con l’inaridirsi, col pagare con la vita il
privilegio della morte reale. Ancora una volta la guerra, come condizione esistenziale, non è vista nella sua
realtà oggettiva, ma nei suoi riflessi, dentro le macerie dell’anima”.
78
Luigi Paglia
potenziata dalla rete delle omofonie: “buttato”, “massacrato”; “digrignata”, “volta”, “penetrata” (che sia per il modo indefinito della coniugazione, sia per il significato lessicale implicano il blocco del movimento), e delle modalità dell’assenza
grammaticale della prima persona4 : la situazione appare drammaticamente paralizzata, quasi pietrificata - con un forte effetto dissonante tra violenza ed immobilità nella disperazione folgorata dei gesti.
La poesia rovescia, con uno sconvolgente ossimoro implicito, il gelato silenzio del compagno ucciso in un grido lacerante, che è ancora più dilaniante (per la
contraddizione interna) di quello del ferito di Rebora5 .
L’ossessiva percussione espressionistica del lessico (ritagliato nel campo
semantico dell’esasperata violenza per cui “Dalle fattezze umane l’uomo lacera/
L’immagine divina” - come il poeta dirà quasi trent’anni dopo in Mio fiume anche
tu) è resa dirompente dalla incisiva scansione ritmica e fonica (degli aspri e cupi
fonemi /t/, /n/ e /k/) e si concentra nell’agghiacciante presenza della morte che
urla con lo straziato silenzio della bocca “digrignata” ed artiglia con la “congestione” delle mani il silenzio interiore dell’io lirico e quello esteriore della scena
lunare. La violenza espressionistica dei martellanti dieci versi iniziali, brevi o brevissimi, entra in contatto e in contrasto con la serie lessicale degli ultimi cinque
versi in cui sono dichiarate, con contrapposta energia, le insopprimibili ragioni
della vita e dell’amore il cui affiorare induce anche ad un mutamento timbrico per
la prevalenza dei fonemi vocalici /e/ nel verso 13 (“lettere piene d’amore”), ed /a/
nella strofa conclusiva (“Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita”). Infatti,
il passaggio (vv. 11-16) dalla prospettiva esterna della descrizione dell’evento in
4
Tale modalità potrebbe essere meglio definita come ‘sospensione’ grammaticale della prima persona:
mentre gli altri participi, riferiti al compagno ucciso, sono tutti, ovviamente, enunciati in terza persona, “buttato” potrebbe essere indifferentemente concordato con la 3a, la 2a, o la 1a persona singolare la quale viene
introdotta esplicitamente col possessivo “mio” e col verbo “ho scritto” (vv. 11-12), per cui nella prima parte
della poesia si realizza la modalità straordinaria dell’apparenza eterodiegetica, a cui corrisponde un supposto
“punto di vista” (o prospettiva) esterno, e ciò rappresenta la “distanza” narrativa tra l’io-personaggio e la
situazione, e sottolinea che tale situazione è subita dall’io lirico che appare, quindi, come un soggetto passivo.
Nella seconda parte della poesia si realizza il salto o rovesciamento omodiegetico, collegato alla focalizzazione
interna, per cui si attuano il pieno inserimento del soggetto lirico nella situazione e la sua partecipazione
attiva (“Ho scritto”). Per approfondire i concetti narratologici di prospettiva o punto di vista o focalizzazione
esterna e interna, di distanza, e delle modalità omo ed eterodiegetiche, relative alla voce narrante, cfr. H.
Glosser, Narrativa, Milano, Principato, p. 64 ss. Per una succosa sintesi degli argomenti, cfr. A. Marchese,
L’officina del racconto, Milano, Mondadori, 1983, p. 92 ss. e 164 ss.
5
Si ricordano i versi di Viatico che, insieme a Veglia, è uno dei documenti più strazianti della tragedia
della guerra: “O ferito laggiù nel valloncello,/ tanto invocasti/ se tre compagni interi/ cadder per te che quasi
più non eri, / tra melma e sangue/ tronco senza gambe/ e il tuo lamento ancora,/ pietà di noi rimasti/ a
rantolarci e non ha fine l’ora,/ affretta l’agonia,/ tu puoi finire,/ e conforto ti sia/ nella demenza che non sa
impazzire,/ mentre sosta il momento,/ il sonno sul cervello,/ làsciaci in silenzio - // grazie, fratello./ 1916”.
Cfr. Clemente Rebora, Poesie, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1982, p.178. La stessa situazione di morte
e di strazio di un “compagno/ massacrato/ con la sua bocca digrignata” ispira anche la contigua soluzione
stilistica e lessicale reboriana di accesa, violentissima deprecazione della guerra in Voce di vedetta morta : “un
corpo in poltiglia/ con crespe di faccia” (ibi, p. 181).
79
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
terza persona al punto di vista interno e all’uso della prima persona verbale, che
implica un coinvolgimento diretto ed attivo dell’io lirico, segna l’affioramento
imperioso delle istanze profonde dell’esistenza, incorniciate e potenziate dal bianco
tipografico, con il rovesciamento della violenza di morte nella raddoppiata energia dell’ “istinto di vita” e dell’espansione dell’amore.
Il terzo testo in cui è gridata la deprecazione della guerra è
San Martino del Carso
Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
La composizione appare come una sorta di panoramica desolata di tre ‘paesi’: San Martino del Carso, il cimitero, il cuore dell’io lirico, concentrandosi soprattutto sul paesaggio nascosto e straziato del cuore. Essa realizza una straordinaria
circolarità semantica, avvalorata dal chiasmo figurale6 , fondata sullo scambio metaforico tra i ‘luoghi’ predetti che sottolinea l’assoluta corrispondenza (o rispecchiamento o, al limite, identità) del panorama di strazio e di rovine dello spazio interno
del cuore e di quello esterno del paese (e del cimitero).
La prima metafora (“brandello di muro”) stabilisce, infatti, un’equivalenza tra il
paese e il cuore-organismo umano, insinuata dal veicolo “brandello” che semanticamente
rinvia al mondo delle espressioni o espansioni umane: carne, cuore, vestiti.
Questa connotazione è avvalorata dall’attribuzione di “brandello” (con il
rovesciamento o la riconduzione dell’espressione dal piano metaforico a quello proprio per mezzo del sintagma “neppure tanto”) al referente umano (“tanti che mi
6
Il chiasmo figurale è realizzato con la disposizione incrociata dei termini, per cui nella prima strofa
paese = cuore, e nella quarta cuore = paese.
80
Luigi Paglia
corrispondevano”), con l’ulteriore designazione di esistenza al negativo e, quindi,
di assenza dettata dallo stesso sintagma “neppure tanto” il quale riecheggia specularmente in epifora “tanti” del quinto verso, stabilendo un’opposizione quantitativa e temporale tra la molteplicità delle presenze degli amici nel passato e la loro
diradazione o cancellazione nel presente della scrittura.
La seconda metafora (“nel cuore nessuna/ croce manca”) configura un’identità tra il cuore dell’io lirico e il cimitero (insinuata dalla sineddoche di “croce”, ed
avvalorata dal quasi perfetto anagramma cuore-croce7 ), stabilendo un rapporto,
rovesciato, tra la scomparsa, l’eclissi, delle persone care e, invece, il ricordo costante
di esse da parte del soggetto lirico per il quale le croci metaforiche rappresentano la
memoria, i segni di riconoscimento di vite umane ormai lontane nel vento della
morte.
Nel terzo procedimento metaforico, il cuore è identificato col paese sconvolto e distrutto dalla guerra (con l’ulteriore riconversione metaforica: l’attribuzione
di un’espressione umana, “straziato”, al paese), col rovesciamento della metafora
iniziale del paese identificato col cuore (o organismo umano), che ribadisce il significato, già insinuato nella prima strofa, della perfetta identità (o interconnessione)
del destino di tragedia, morte e distruzione, che incombe sul mondo umano e sulle
espansioni e le opere dell’uomo (le case, i paesi), indotto dalla folle vicenda della
guerra.
Concorre a rinsaldare l’organismo compositivo e la compattezza del mondo semantico, nella corrispondenza tra significante e significato, la fitta tramatura
fonica che s’incentra sulla sequenza omofonica delle assonanze e consonanze e
sulla serie allitterativa dei duri fonemi gutturali /k/ e /q/ e della vibrante alveolare
/r/, che contraddistinguono i lessemi più significativi della composizione: le parole tematiche (“queste case”, “cuore”, “croce”) ed anche i due termini (“brandello” e “straziato”) di maggiore energia espressionistica e di violenta deprecazione
della devastazione bellica.
Il grido contro la prima guerra mondiale si rinnova, e si modula, con uno
straordinario rovesciamento semantico, in quello che risuona a proposito delle stragi
della seconda guerra mondiale, in una composizione del Dolore:
Non gridate più
Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
7
O. Macrì (in Realtà del simbolo, Firenze, Vallecchi, p. 22) ricorda appunto l’anagramma croce-cuore
81
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
Se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
La poesia (scritta a caldo, sotto l’emozione suscitata, nell’ultima fase della seconda guerra mondiale, dal bombardamento alleato del quartiere S. Lorenzo di Roma,
in cui è situato il cimitero del Verano) è passata attraverso un’accanita distillazione e
sublimazione lirica - come testimonia con puntuale perizia Marco Forti8 - dalla prima
stesura pubblicata in “Parallelo” n. 2, 1943, ed intitolata Poeti d’oltreoceano, vi dico,
dispiegata ampiamente (27 versi divisi in sei strofe) sul filo dell’accesa e indignata
oratoria politica, fino al mirabile dettato dell’edizione conclusiva.
Lo straordinario impulso ritmico della prima quartina, che propone un movimento “veloce” o “presto”, si distende, in contrapposizione ritmica e figurativa,
nella lieve, sussurrata pronuncia (“lento” o “lentissimo”) della seconda strofa; la
trama gremita delle rime (“gridate, gridate, cessate, sperate, udire, perire, hanno,
fanno”), lo straordinario ordito allitterativo, che attraversa tutto il testo, giocato
sulla connessione della /r/ e della variazione vocalica (“uccidERE i mORti, gRIdate,
gRidate, spERAte, pERIRE, impERcettibile sussURRO, RUmORE del cREscERE,
ERba”), sono i segni della straordinaria perizia tecnica dispiegata da Ungaretti nella
poesia che “Raggiunge il popolare per estremo artifizio e estrema raffinatezza. Intatta l’eloquenza per estrema ingenuità. È una situazione capovolta, e l’estremo
contrasto è composto, con e dagli accordi, per illusione” - come suona il penetrante
autocommento del poeta, riportato da Forti9 .
Nella serie delle reiterazioni a contatto o anaforiche, degli scambi o variazioni lessicali, e degli ossimori (“Cessate d’uccidere i morti,/ Non gridate più non
gridate/ Se li volete ancora udire,/ Se sperate di non perire.// Hanno l’ impercettibile sussurro,/ Non fanno più rumore/ Del crescere dell’erba”), e nella progressione
angosciosa dei tre imperativi del memorabile incipit, e delle due ipotetiche successive, si consuma il martellante paradosso della composizione: la spalancata prospettiva del tempo e dello spazio, nella dimensione metafisica (e umana), il dialogo tra
i vivi e i morti che avviene, ossimoricamente, nel silenzio della parola non pronunciata, interiore, l’addensarsi della vita e il superamento della morte, in una prospettiva ultraterrena di salvezza - ancora ossimoricamente - offerta dai morti ai vivi.
“Uccidere i morti - interpreta giustamente P. Leoncini10 - significa uccidere
se stessi, negarsi alla vita; i morti sono l’ ‘impercettibile sussurro’ della nostra co-
8
Cfr. M. Forti, “Sui manoscritti di Non gridate più”, in Atti del Convegno Internazionale su Giuseppe
Ungaretti, Urbino 3-6 Ottobre 1979, Urbino, 4venti, 1981, pp. 1005 - 1018
9
ibidem, p. 1015
10
Cfr. P. Leoncini, Proposta di lettura per Il Dolore, ibi, p.1094.
82
Luigi Paglia
scienza, della coscienza della nostra vittoria sulla nostra finitudine”.
La straordinaria musica del silenzio, della voce dei morti e del crescere dell’erba, sommessamente afferma le ragioni della vita sul grido di violenza (“Non
gridate”) dell’uomo-belva.
1.2 Il dolore per la morte degli amici
In San Martino del Carso l’orrore e la deprecazione per la guerra si fondono
con l’altro tema del dolore per la morte dei suoi amici (“di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto”), mentre nella poesia In memoria Ungaretti esprime la profonda desolazione dell’io lirico per il suicidio del fraterno compagno di
studi e di esperienze della sua giovinezza, il quale sperimenta non la violenza della
guerra, ma quella egualmente spietata della metropoli parigina estranea e nemica.
In memoria
Lacvizza il 30 settembre 1916
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
83
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse
La circolarità memoriale (avviata col titolo staccato, ed evidenziato per la sua
collocazione dominante, dal testo poetico di cui, invece, faceva parte integrante
nella prima stesura del Porto Sepolto11 ) si conclude col senso di desolazione e di
tristezza per la vita cancellata di Moammed Sceab, con la straordinaria sequenza
allitterativa del fonema /s/ e con il ritmo rallentato, quasi un balbettio, della scansione
ritmica (“E forSe io Solo So ancora che viSSe”), che rappresentano quasi l’equivalente fonico di una definitiva pietra tombale.
Insistendo sullo stesso piano tematico-compositivo, le nervature verbali (“Si
chiamava [...]// Amò [...]// Fu [...]// E non sapeva [...]// Riposa [...] visse”, evidenziate
dalle anafore strofiche e dall’epifora conclusiva, la brevità incisiva dei versi, e la
lapidarietà dei tempi storici che confluiscono nel presente definitivo di “Riposa”)
scandiscono con la concisione di un’epigrafe funeraria le tappe della vita del fraterno amico, quasi un alter ego di Ungaretti per la coincidenza dei loro itinerari letterari ed umani: di esuli sradicati.
Utilizzando lo schema topologico del Lotman12 , si può dire che nella composizione vengono prefigurati, allusi più che rappresentati, due spazi: quello
interno, protetto della tenda (IN), straordinario microcosmo vivente nella totalità sinestesica delle notazioni sensibili (auditiva, gustativa, olfattiva oltre che
visiva e spaziale-tattile: il suono delle cantilene del Corano, il sapore e l’aroma
del caffè nella circoscritta inquadratura spaziale) in opposizione ma anche in
11
Cfr. C. Ossola, Commento a G. Ungaretti, Il Porto Sepolto, Milano, il Saggiatore, 1981, p.9.
Sui concetti di spazio interno (IN) e di spazio esterno (ES), cfr. Ju. M. Lotman, Il metalinguaggio delle
descrizioni tipologiche della cultura, in Ju. M. Lotman e A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani,
1975, pp. 145-181.
12
84
Luigi Paglia
complementarità con lo spazio esterno, non evocato ma latente, del deserto
(ES1).
È straordinario che Ungaretti abbia anticipato, per forza di poesia, le conclusioni a cui sono giunti gli studi di antropologia culturale, ossia che non vi è un solo
centro, ma una moltiplicazione di centri . Mohamed lascia un luogo del tutto periferico e deserto per trasferirsi nella metropoli parigina, veramente il centro del mondo
culturale di allora, ma la sua tragica vicenda rivela che il vero centro, per lui, era
proprio la tenda nel deserto e non la grande città.
L’uscita da questa (doppia) spazialità, il taglio delle radici, e l’immissione in
uno spazio esterno e nemico (ES2), quello della metropoli, senza la possibilità della
reintegrazione nella protezione dello spazio amico della tenda, causano il trauma e
la morte di Moammed Sceab: in altri termini, il nuovo spazio urbano è omologo al
deserto, è un labirinto di pietra e cemento, è, per dirla con Borges, un deserto assoluto, ma senza l’interiorità e la consolazione del centro psichico, religioso e culturale della tenda. Infine, la dispersione nella dimensione esteriore della città, la mancanza di un centro di orientamento e di una struttura antropologica in cui riconoscersi13 causano lo sprofondamento nello spazio inferiore (ES3) della morte, la discesa agl’inferi
La descrizione della degradazione della stradina parigina (“rue des Carmes”),
e del mesto, squallido convoglio funebre insinua una sorta di identificazione tra la
città dei vivi e quella dei morti, sia per la presenza di tratti comuni sul piano lessicale
e metaforico (l’attribuzione “decomposta” rinvia al campo semantico della decomposizione dei cadaveri, come “appassita” denota un processo di degenerazione vegetale, a cui si potrebbe aggiungere la locuzione “in discesa”, prefigurante una caduta sul piano della simbologia spaziale, di discesa verso la morte, verso un desolato, disperato luogo infernale), sia sul piano del significante per la quasi equivalenza
fonica delle forme anagrammatiche, stabilita tra CAMPOSanTO, deCOMPOSTA,
AppASsiTO, in diSCesA, così che viene realizzata una straordinaria tessitura
timbrica tra i 4 termini.
L’interpretazione negativa, in questa poesia, del mondo parigino (insinuata e
tradotta nel correlativo figurativo dello squallore del luogo abbandonato dopo la
13
Da parte di Moammed Sceab, la perdita del centro (in cui si incardina la dimensione culturale: tenda
o casa o altri luoghi della città o del villaggio) può essere spiegata, appunto, più che come perdita - secondo
le indicazioni di Eliade - della prospettiva sacra o religiosa (la cui manifestazione nella poesia è intessuta
con gli altri elementi della vita, configurando quindi la totalità della dimensione culturale, il cui straordinario correlativo figurale è rappresentato dall’interazione sinestesica), appunto, come “sradicamento”, come
mancanza di integrazione in una nuova struttura antropologica, come salto senza approdo dal luogo fisico
e simbolico dell’organizzazione del mondo tribale a quello della società occidentale e industriale (che,
ovviamente, configura un’organizzazione socio-antropologica del tutto diversa; la perdita di una precisa
identità è mirabilmente precisata), in una parola, come incapacità di sostituire un centro con un altro centro. Sulla questione sono illuminanti le notazioni di F. Remotti nell’introduzione al bel volume di F. Remotti,
P. Scarduelli, U. Fabietti, Centri, ritualità, potere. Significati antropologici dello spazio, Bologna, il Mulino,
pp. 11-44.
85
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
festa, del movimento e dell’agitazione della fiera, e nel senso di morte e di
putrefazione che emana dalla città dei vivi-morti, visione che suggerisce il paragone con La Terra desolata di Eliot14) discende dallo ‘scarto culturale’, dalla
sovrapposizione del modello antropologico africano di Moammed Sceab, assunto e fatto proprio dall’io lirico, su quello incarnato nella metropoli occidentale,
con la conseguente perdita dell’identità culturale, e della vita, da parte del “suicida”.
La vita di Moammed, infatti, appare coniugata al negativo, rimarcato nella
serie delle negazioni, quasi anaforiche, che mirabilmente sottolineano la perdita
della sua identità culturale: “suicida/ perché non aveva più/ Patria”; “ma non era
Francese/ e non sapeva più/ vivere” 15 , nella cui enunciazione le negazioni si sommano all’avversativa ed agli avverbi, posti in posizione anaforica ed epiforica di
evidenza. Gli elementi microgrammaticali di negatività si saldano ai lessemi che
designano la cessazione della vita (“suicida” e “(non) vivere” che appaiono isolati, nello spazio totale del verso), e l’incapacità di sublimazione poetica: “E non
sapeva sciogliere il canto”. Tale vita negativa precipita, fatalmente, nella negazione
assoluta della morte, che si propaga e si raddoppia (quasi una seconda morte) nell’apparente16 rovesciamento della reiterazione lessicale, per cui anche la memoria
di Moammed è completamente cancellata e solo una labile traccia ne resta affidata
alla dubitosa voce dell’io lirico: “e non sapeva più vivere [...] E forse io solo so
ancora che visse”.
1.3 La solitudine, la depressione esistenziale
Il grido contro la devastazione bellica in Natale risulta implicito, sottotraccia, “un grido taciuto, un silenzio”, per dirla con un’efficace espressione di
Pavese, realizzandosi nella poesia una vera e propria rimozione della guerra,
mentre sono dichiarati i motivi della desolazione, dell’estrema prostrazione, della
mortale stanchezza dell’io lirico, che costituiscono la terza manifestazione del
dolore:
14
Cfr. The Waste Land: “Unreal City,/ Under the brown fog of a winter dawn/ A crowd flower over
London Bridge, so many/ I had not thought death had undone so many” in T. S. Eliot, Poesie, a c. di R.
Sanesi, Milano, Bompiani, 1963 vv. 60-65, p.180.
15
Ossola, nel commento al Porto Sepolto, op. cit., p.12-13, ricorda che “questi versi sono contigui alla V
sezione di Roman Cinéma: ‘c’était un roi du désert/ il ne pouvait pas vivre/ en Ocident// Il avait perdu/ ses
domaines’ (cfr. M69, p. 361). Al di là della ricorrenza stilistica, ciò che importa sottolineare è l’iterazione
sistematica della formula sintattica della negazione”. Citando L’évolution créatrice di H. Bergson, Ossola
afferma che da essa sembra derivare la “prospettiva ermeneutica che sorregge la tournure negativa della sintassi ungarettiana nel Porto sepolto e in Allegria di Naufragi: negare significa insomma prospettare, al di là della
realtà o del presente che si giudicano insufficienti una “réalité inconnue” […] che “resta”, rimosso l’ hinc et
nunc dell’avvenimento. La negazione infatti “ne tient compte que du remplacé et ne s’occupe pas du
remplacant”, essa si inflette insomma su se stessa e sogna l’ “assenza”, s’involge sul passato” ( ibidem, p.13).
16
Il rovesciamento lessicale avviene solo a livello superficiale, ma non sul terreno delle strutture profonde, per la presenza nel secondo sintagma del dubitativo “forse” e della limitazione della memoria di Moammed
alla sola persona dell’io lirico (“io solo so ancora che visse”).
86
Luigi Paglia
Natale
Napoli il 26 dicembre 1916
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
Ad una prima lettura, cioè a livello superficiale (o denotativo), il testo potrebbe apparire addirittura banale o pantofolaio: l’io personaggio dichiara di essere
stanco, di non voler uscire di casa, e desidera restare al calduccio piacevole del focolare.
Ma se esaminiamo la poesia a livello più profondo (o connotativo) e la inseriamo nel contesto situazionale, ecco che essa assume significati straordinariamente
rivelativi ed inquietanti.
Il 26 dicembre 1916, nel pieno della prima guerra mondiale, da lui combattuta come soldato semplice, Ungaretti è a Napoli, per una breve licenza, ospite dell’amico Gherardo Marone, direttore della rivista “La Diana” nella quale il poeta ha
pubblicato alcune delle sue prime liriche, e nella casa dell’amico compone Natale.
Il testo presenta le caratteristiche, da una parte, della diffusione figurale e
dalla stratificazione semantica, e, dall’altra, del balbettio metrico dei versi brevissi87
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
mi mono e bisillabici (e la disarticolazione sintattica dell’articolo diviso dal nome:
“come una/ cosa”; “in un/ angolo”), e della sintesi espressiva realizzata, con l’eliminazione dei passaggi narrativi, e delle ipotizzabili battute di dialogo (per es., l’invito dell’interlocutore-amico ad uscire nelle strade di Napoli viene sottaciuto), per
raggiungere la massima concentrazione degli elementi emotivamente e poeticamente
più intensi, che appaiono quasi come punte dell’iceberg psichico.
L’espansione figurativa, incentrata soprattutto nella prima strofa, deriva
dall’intersezione ed interazione di due figure. Nella metafora prepositiva “gomitolo di strade” il tenore17 è strade, il veicolo è gomitolo e i tratti comuni sono rappresentati dal groviglio, dall’intersecazione, dall’arrotolamento delle strade-fili; mentre “tuffarmi” è una metafora verbale massima che presenta, in restrizione
metonimica, solo il veicolo, o metaforizzante: l’acqua o il mare, mentre il tenore, o
metaforizzato18 , ossia il referente reale: la folla, si desume solo in connessione con
la prima realizzazione metaforica, in quanto è richiamato - ancora in modo dissimulato, per la metonimia di “strade”- e convogliato a sotterraneo compimento della metafora “tuffarmi”. Pertanto, le caratteristiche dell’elemento acquatico (la densità, la pericolosità, la pluralità dei componenti-gocce, l’ondeggiamento, la peculiarità di circondare, premere, travolgere, sommergere ecc.) vengono attribuite alla
folla che circola nell’aggrovigliata matassa dei vicoli di Napoli19 . È proprio
l’interazione delle due metafore che gremisce di una rete amplissima di significati e
di connotazioni (implicanti la confusione, il pericolo della folla e la stanchezza e la
depressione del poeta) il ristretto spazio verbale, costituito da tre soli termini.
La stratificazione semantica si rapporta al motivo della guerra in absentia: la
guerra, mai nominata, è tuttavia il tema ossessivamente presente a livello profondo,
in sottotraccia memoriale (e, si direbbe, biologica, oltre che psichica); essa è latente,
quasi rimossa, ma le sue ferite e le sue emergenze si evidenziano attraverso la serie
figurativa e locutiva:
1) “Ho tanta /stanchezza /sulle spalle” rivela il peso psicologico, ma anche
quasi fisico, della guerra (la depressione dell’animo e la prostrazione del corpo), che
ha il correlativo fonico nella sequenza allitterativa della dentale /t/ e della sibilante
sorda /s/;
2) “Lasciatemi così /come una /cosa /posata /in un /angolo /e dimenticata” fa
affiorare l’estrema sensibilizzazione emotiva, le profonde ferite psichiche del con-
17
Secondo I. A. Richards il tenore è “l’idea sottesa il soggetto principale che il veicolo o immagine trasmette”. Cfr. La filosofia della retorica, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 92.
18
Sui concetti di metaforizzato e metaforizzante, cfr. A. Henry, Metonimia e metafora, Torino, Einaudi,
1975, p. 101 ss.
19
Secondo il modello di Henry la metafora “tuffarmi” potrebbe essere ricostruita nel seguente modo:
tuffarmi
passeggiare
acqua
=
folla
88
Luigi Paglia
flitto subite dall’io lirico che è spinto in una spirale regressiva; affiora quasi il desiderio della perdita della propria identità umana nella disumanizzazione dell’oggetto, nella chiusura spaziale (“in un angolo”) e psichica (“dimenticata”), nella spirale
di depressione correlata alla frantumazione metrica, quasi un balbettio di stanchezza, e alla straordinaria percussione allitterativa delle dure gutturali /k/ e /g/ (oltre
che alla deriva della dentale /t/ e della sibilante sorda /s/) e all’effetto eco ed alla
rima “cOSA pOSATA dimenticATA”; tuttavia, nella serie fonica e semantica si
insinua anche la vibrazione positiva del calore domestico che si manifesta appieno
nella quarta e nella quinta strofa;
3) “Qui non si sente altro che il caldo buono” in cui il deittico “qui”
sotterraneamente rinvia al ‘là’ della guerra, ed “il caldo buono”, correlativamente,
allude in filigrana al freddo ‘cattivo’ (fisico e psichico), proiettando il fantasma della
vita in trincea;
4) “Sto con le quattro capriole di fumo del focolare”: la bellissima metafora
prepositiva connota la spensieratezza, la gioia, i giochi dei bambini, o le evoluzioni
dei giocolieri e dei clowns - assimilabili o riferibili al mondo infantile - in contrapposizione agli atroci ‘giochi’ della guerra.
Lo sciame fonico delle gutturali: /k/ e /q/ (a cui si aggiunge la sorda spirante
/f/ che suggerisce il movimento di liberazione o di evasione nel sogno dell’infanzia)
si diffonde, dalla terza strofa, rivelando specularmente gli aspetti positivi del caldo
e del focolare che, tuttavia, come si è detto, sono il rovescio allusivo del freddo e
della guerra, di modo che i fenomeni allitterativi più rilevanti sono collegati al tema
già individuato della prostrazione/disumanizzazione e a quello connesso del caldo,
figura rovesciata del freddo.
La staticità della situazione evidenziata dalla poesia è rappresentabile (utilizzando lo schema del Lotman relativo ai rapporti spaziali) con la chiusura in IN
(nello spazio interno, protetto, nel caldo nido della casa) del soggetto lirico, che si
manifesta con l’assoluta incapacità o volontà di uscire all’esterno (ES1: le strade di
Napoli, la gente); ma c’è un altro spazio esterno (ES2) che - emotivamente e
sotterraneamente - viene proiettato sul primo, non nominato, come si è detto, ma
costantemente presente a livello profondo: quello della guerra da cui il soggetto
lirico rifugge in modo totale, che viene allontanato e, forse, rimosso, da cui cerca
l’evasione all’interno della casa, della psiche. In realtà il desiderio di non avventurarsi nello spazio ES1 nasconde e raffigura quello ben più profondo, e retrocesso ai
margini della coscienza, di essere lontano dalla guerra20 ; tra i due spazi ES (1 e 2) si
stabilisce un rapporto di trasposizione figurale: in opposizione allo spazio interno
che si collega al caldo, alla sicurezza e all’amicizia, lo spazio esterno viene connotato come freddo e nemico.
20
È lo stesso Ungaretti che, nelle Note all’Allegria, M69, p.525, a proposito di Dolina notturna, la poesia
gemella di Natale, sottolinea il collegamento con la guerra: “Fantasma della guerra apparso nelle dolcezze di
Napoli”.
89
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
Lo scambio si realizza anche sul piano dei rapporti temporali: la poesia è
rigorosamente coniugata al presente, manca qualunque riferimento esplicito al passato prossimo e al futuro, che si identificano, evocando la stessa situazione di guerra, con la sola variante della trasposizione temporale; è solo possibile ipotizzare, al
di là del passato prossimo, una fuga nel passato remoto dell’infanzia, a cui si allude
metaforicamente (“capriole”).
Anche se (e proprio perché) gli effetti della guerra (stanchezza, depressione
emotiva ecc.) perdurano nell’io lirico nel presente della scrittura, è evidente in lui il
desiderio di dimenticare gli eventi del passato prossimo, quasi di rimuovere il trauma del tempo della guerra, nella proiezione metaforica nel passato remoto della
fanciullezza, dei giocosi e lievitati paradisi infantili.
La depressione esistenziale, la desolazione di Natale si rivelano egualmente
in Solitudine 21, con la variazione, tuttavia, delle situazioni, degli ambienti e delle
motivazioni.
Solitudine
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
Ma le mie urla
feriscono
come fulmini
la campana fioca
del cielo
Sprofondano
Impaurite
I connotati più incisivi della poesia: l’espressionistica violenza della tessitura
lessicale e metaforica, l’innesto dissonante della percussiva comparazione di lacerazione (“feriscono come fulmini”), la ‘blasfema preghiera’ di strazio e di ribellione
fanno di Solitudine - con tutte le cautele dovute al passaggio dall’arte verbale a
quella pittorica - l’equivalente dell’Urlo del pittore Edvard Munch, precursore dell’Espressionismo.
Sotto un cielo basso ed opprimente (che anticipa il “Cielo sordo, che scende
senza un soffio, / Sordo che udrò continuamente opprimere...” di Gridasti: Soffoco,
21
Per un’analisi più ampia delle poesie Natale e Solitudine, cfr. L. Paglia, Lettura stratigrafica di “Natale”
di Ungaretti, in AA. VV., Letteratura italiana e utopia, Editori Riuniti, Roma, 1995 (FM 1994 Annali del
Dipartimento di Italianistica, Università di Roma “la Sapienza”), e Configurazione dei rapporti spaziali in un
trittico dell’“Allegria” ungarettiana, in “Otto / Novecento”, n. 6, novembre/dicembre 1992.
90
Luigi Paglia
e riecheggia il baudelairiano “cielo basso pesante come un coperchio” di Spleen 22)
che esaspera fino all’angoscia la solitudine dell’ io lirico (rimarcata dal titolo che fa
corpo col testo), il grido ‘muto’ ricade senza risposta sul soggetto, nella desolazione
del paesaggio interiore ed esteriore, connotando tutto lo strazio della creatura impotente di fronte al cielo vuoto.
In termini comunicativi23, il ‘messaggio’ attivato dalla voce lirica in direzione del cielo non giunge al ‘destinatario’ o, almeno, resta senza una chiara risposta,
ritorna sul ‘mittente’: la comunicazione non si realizza; la metafora della campanacielo, fondata sul doppio tratto comune della concavità (che connota il senso di
chiusura, di oppressione della cappa incombente), e della voce della natura-divinità, si rovescia nella negazione o nell’impercettibilità comunicativa indotta dall’attributo “fioca”. La dominante auditiva delle metafore sinestesiche (“urla feriscono”, “la campana fioca”) rimarca proprio questa chiusura dell’ascolto, sottolinea il
‘rumore’ al livello del ricettore.
Nella prospettiva spaziale della composizione è visibile un doppio movimento
di ascesa-discesa (“feriscono/ come fulmini/ la campana fioca/ del cielo”, con l’inversione della direzione del moto dei fulmini metaforici: verso l’alto, invece che
verso il basso24 ; e “sprofondano” che, invece designa il movimento di discesa).
Viene a configurarsi uno spazio orientato sulla verticale basso-alto-basso,
per cui, facendo riferimento alle teorizzazioni del Lotman, si può dire che il movimento di espansione dell’ io dal ristretto spazio interno (IN) in cui si trova verso
l’alto (ES, lo spazio esterno: il polo celeste) s’inverte nella discesa sullo stesso soggetto e prefigura, addirittura, lo sfondamento abissale (ES2) che potrebbe coincidere con la psiche dell’ io lirico (IN2).
La poesia realizza uno straordinario rovesciamento figurativo-semantico (che
trova la sua spia grammaticale nel “Ma” iniziale che appare come “discontinuità
agonistica col non detto” 25, contraddizione con un sottaciuto discorso interiore
22
In questo testo sembra realizzarsi una straordinaria scomposizione e ricomposizione (e concentrazione) di due versi dello Spleen baudelairiano che declinano appunto il tema della tristezza e della solitudine:
“Des cloches tout à coup sautent avec furie/ Et lancent vers le ciel un affreux hurlement” (“Campane tutt’a un
tratto saltano con furia/ e lanciano verso il cielo uno spaventoso urlo”). Cfr. C. Baudelaire, I fiori del male,
Milano, Feltrinelli, 1971, p.136. Vi compaiono tutti gli elementi ripresi da Baudelaire e magistralmente
rimodellati: l’urlo lanciato verso il cielo, lo scoppio furioso (la cui violenza dirompente viene resa con “feriscono”), le campane (che da soggetto vengono trasformate in oggetto della lacerante ferita vocale), mentre
tutta l’atmosfera di spleen, di profonda desolazione, viene suggerita da “sprofondano impaurite”.
23
Nella teoria della comunicazione, i soggetti del processo comunicativo sono il mittente, il destinatario
o ricettore del messaggio, mentre il rumore è ogni forma di disturbo che impedisce la comunicazione, e che
interessa o il mittente o il destinatario, o il canale attraverso il quale passa la comunicazione. Cfr. sull’argomento U.Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968, p. 17 ssg. e F. Casetti, Semiotica, Milano, Accademia, 1977.
24
Tale inversione nel movimento dei fulmini è stata già individuata nella penetrante analisi della lirica da
P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Milano, Feltrinelli, 1975, p. 245.
25
Cfr. P. V. Mengaldo, op. cit., p. 248: il procedimento trova i suoi antecedenti letterari in Foscolo, Pascoli,
D’Annunzio, Mallarmè.
91
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
precedente), individuabile nell’inversione del movimento dei fulmini, nelle urla che
“sprofondano”, nella preghiera che si muta in bestemmia così che nella visione straziata e stupefatta del poeta il mondo appare capovolto nei suoi cardini essenziali.
Inoltre, lo spazio bianco tra il quinto e il sesto verso rappresenta il correlativo
iconico del senso di vuoto, del lacerante silenzio che incombe sulla solitudine e
sulla disperazione dell’io lirico.
2. L’ultragrido
Il secondo polo della poesia ungarettiana è rappresentato da quello che ho chiamato altrove26 “l’ultragrido”. Il neologismo è coniato sull’esempio della parola ultrasuono: come ci sono suoni che vanno al di là della percezione umana, così l’invocazione religiosa si dispiega nella dimensione metafisica, raggiunge, andando al di là
dell’orizzonte umano, direttamente la divinità. Solitudine rappresenta l’impulso, ancora oscuro, di rivolgersi all’Altro, di indirizzarsi alla natura-divinità anche se il messaggio resta senza risposta, facendo precipitare l’io lirico in una più profonda solitudine, e il tentativo di incerta preghiera si trasforma in “blasfema” ribellione.
2.1. La proiezione nel futuro
Alla conclusione dell’Allegria, invece, la preghiera diventa, nel tremore, nell’oscurità e nel peso dell’esistenza, un segno di superamento e di sublimazione.
Preghiera
Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida ed attonita sfera
Quando il mio peso mi sarà leggero
Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido
La composizione (la cui strutturazione, articolata nel settenario e negli
endecasillabi, prelude già alla ricompozione metrica del Sentimento) è fondata su
una doppia arcatura anaforica del funzionale “quando” in posizione di evidenza: la
freccia temporale scoccata dall’anafora massima (all’inizio della poesia) resta in so-
26
Cfr. L. Paglia, Il grido e l’ultragrido. Note sulla semantica e sulla stilistica del Dolore ungarettiano, in
“Rivista di Letteratura italiana”, n. 2-3, 2000, da cui ho ripreso alcuni motivi, utilizzati nella sez. 3 del presente
saggio.
92
Luigi Paglia
spensione (in una sorta di prolessi rinviata) per la ripresa della seconda strofa e
trova un bersaglio nell’ultimo verso nella quasi anafora del deittico “quel [...] giorno” che prolunga l’arco dell’indeterminazione.
La marea temporale si moltiplica nella deriva fonica, nel balbettamento estatico, “attonito” che lega (e rovescia) “BArBAGlIO” a “naufraGIO” e che si prolunga
nell’ondata allitterante “GIOvane GIOrno”. Il soggetto lirico si espande (nel mare
dell’essere), con la proliferazione (presente anche in Mattina) della cellula fonica /
MI/ (e il suo rispecchiamento /IM/), nonché dell’altra cellula /IO/ - /MIO/ che replicano sul piano fonico il pronome e l’aggettivo possessivo di prima persona, epicentro
emotivo e semantico: l’io che si rispecchia, e naufraga -leopardianamente- nell’universo (“MI desterò; barbaglIO; proMIscuità in una lIMpida e attOnIta; il MIO peso
MI; naufragIO concediMI; gIOvane gIOrno al prIMO grIdO”).
La violenza espressionistica delle attese e delle richieste dell’io lirico si concentra ed esplode nelle conclusive, folgoranti metafore del “naufragio”, del “primo
grido” e del “giovane giorno” ai quali vengono attribuite, con uno straordinario
meccanismo di traslazione psichica e figurale, l’erompente invocazione e la giovinezza, proprie del soggetto umano, rimarcate, oltre che dalla predetta stupenda eco
allitterativa in /gio/, dall’assonanza “prImO grIdO”. Straordinariamente, la
sublimazione del “grido” di Preghiera appare come una corrispondenza ed un rovesciamento delle “urla” di Solitudine.
Il dato stilistico, già rilevabile in questa poesia, che connota la dimensione della
preghiera, e che si manifesterà in modo sempre più marcato nelle poesie “religiose”
del Sentimento e del Dolore, è quello della doppia antitesi “barbaglio della promiscuità” - “limpida ed attonita”, dell’ossimoro “Peso leggero” e della sinestesia “di quel
giovane giorno al primo grido”, in cui è realizzato l’accostamento del piano auditivo:
“grido” e di quello visivo ”giorno” (a significare l’erompere della prima “giovane”
luce del giorno), modalità tutte che sottolineano il passaggio di dimensione dall’umano al metafisico, che viene ulteriormente connotato nella proiezione nel tempo futuro, dilungata - come si è detto - nella doppia ondata della congiunzione “quando”.
2.2. La mediazione materna
Nella Madre (nel Sentimento del Tempo), la preghiera, realizzata per interposta persona, mediante la mediazione materna, diventa scala per raggiungere il
divino, nello spalancarsi della dimensione metafisica e dell’eternità.
La madre
1930
E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
93
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
Come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.
La poesia squaderna la dimensione temporale, innestando sull’ellisse del futuro la freccia retrospettiva del passato, realizzando flashback e flashforward folgoranti spalancati dalle comparazioni, viaggi correlati avanti e indietro nel tempo
illusorio della memoria e nel tempo virtuale del futuro (di cui vengono sdoppiati i
piani, nella configurazione di un ipotetico passato del futuro, o futuro anteriore:
“avrà fatto cadere”; “m’avrà perdonato”; “d’avermi atteso”). Essa prospetta un
egualmente dilatato ed infinito spazio ipotetico che si allunga dal punto del mondo
costituito dalla posizione dell’io lirico alla prospettiva extramondana dopo il
superamento dell’ostacolo terreno (“il muro d’ombra” assume la stessa funzione
della siepe leopardiana dell’ Infinito).
La posizione del poeta-personaggio è correlata a quella della madre ed alla
perpetuazione del suo affetto nei confronti dell’io poetico: i gesti materni nudi ed
essenziali composti nel silenzio o nella scarna parola (“eccomi”) vengono recuperati
nell’archivio della memoria e proiettati nell’immaginario del futuro, nella linea di
continuità psicologica, esistenziale e religiosa che individua la persona della madre,
attraverso la triplice ripetizione anaforica del morfema avverbiale di comparazione
(“Per condurmi -> Come una volta mi darai la mano”; “Sarai una statua -> Come
già ti vedeva”; Alzerai tremante le vecchie braccia -> Come quando spirasti”).
Inoltre, la ripetizione del funzionale temporale “quando” proietta alternativamente in avanti (“quando avrà fatto cadere”; “quando m’avrà perdonato”) ed indietro
(“quando eri ancora in vita”; “quando spirasti”) nel tempo la freccia temporale, unificando e collegando i piani del passato e del futuro e dell’umano e del soprannaturale27,
27
A questo proposito, A. Marchese (in Metodi e prove strutturali, Milano, Principato, 1979, p. 76) afferma “la
continuità [...] fra umano (memoria della madre) e soprannaturale (azione intermediaria della madre)”; mentre G.
Getto sottolinea che “tre sono gli aspetti della madre di fronte a Dio e per ognuno si stabilisce un rapporto terreno” .
94
Luigi Paglia
in una sorta di rispecchiamento totale e di dilatazione dell’orizzonte umano coincidente con la vita universale che ricorda la visione di Teilhard de Chardin28 , in una prospettiva di coordinate spaziali e temporali che si estendono all’infinito.
Il presente della scrittura e della situazione in cui è collocabile l’io lirico si
dilata nelle dimensioni del passato della retrovisione memoriale e spaziale del mondo terreno, e in quelle del futuro della prospezione e dell’infinito spazio metafisico,
le quali hanno come punto focale ed unificante la figura della Madre. Il suo incrollabile atto di preghiera si prolunga, in puntuale rispecchiamento, dalla vita mondana alla dimensione extraterrena (nella quale l’impetrazione viene esercitata a favore
del figlio), e appare quasi come una proiezione o identificazione dello stesso poeta.
La costellazione metaforica (dal “muro d’ombra”, che, come si è detto, trasferisce sul piano metafisico la siepe leopardiana, alla posizione statuaria della madre, fino
alla trepida sinestesia “e avrai negli occhi un rapido sospiro”) “trasponendo sul piano
della fantasia religiosa una serie di atteggiamenti umanissimi” viene a comporre - come
sottolinea A. Marchese - “una solenne simbologia liturgica centrata sulla madre” 29.
3. La transizione dal grido all’ultragrido
I due motivi del dolore e della preghiera che si presentano staccati ed autonomi nelle composizioni dell’Allegria e del Sentimento del Tempo permangono e
si intensificano nel Dolore presentando, però, un nuovo straordinario connotato
poiché entrano in serrata dialettica tra loro, ed implicano il finale rovesciamento
della dimensione terrestre in quella metafisica, così che il grido si trasforma in
ultragrido.
3.1 La tragedia e il superamento del dolore
Il Dolore è segnato dalla crudele irruzione, nel mondo della parola poetica
ungarettiana, della tragedia, sia nell’ambito delle vicende personali del poeta (la scomparsa nel 1937 dell’unico fratello, Costantino, e, nel 1939, del figlio Antonietto,
morto a nove anni per un’appendicite mal curata), sia degli eventi collettivi (gli
strazianti avvenimenti della seconda guerra mondiale, rievocati in Mio fiume anche
tu: “ogni attimo spariscono di schianto/ O temono l’offesa tanti segni”; “Il mondo
d’abissale pena soffoca”; “la stolta iniquità/ delle deportazioni”; “Ora che nelle
fosse [...] Dalle fattezze umane l’uomo lacera/ L’immagine divina”); tali tragiche
esperienze costituiscono i temi più rilevanti e di maggiore investimento emotivo
della raccolta che è divisa in sei sezioni: 1) Tutto ho perduto, che contiene due testi
28
29
Cfr. P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, Milano, il Saggiatore, 1968.
Cfr. A. Marchese, op.cit., p. 77.
95
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
scritti per la morte del fratello, 2-3) i diciassette tratti o segmenti di Giorno per
giorno e i tre testi del Tempo è muto, dedicati alla morte del figlio, 4) l’unica composizione, omonima, di Incontro a un pino, 5-6) i cinque intensi testi di Roma occupata e i quattro dei Ricordi, quasi tutti ispirati dalle tragiche vicende belliche.
Tuttavia, l’esperienza della depressione, dello scacco, della catastrofe è solo
un aspetto del Dolore: il primo movimento di disperazione e di strazio (“Come si
può ch’io regga a tanta notte?...”; “Quando non spero più...”; “è continuo schianto!...”; “Mi spezza ad ogni soffio…” in Giorno per giorno; tratti 2, 4, 8, 10; “Il
mondo d’abissale pena soffoca…” in Mio fiume anche tu) viene superato dal tentativo di uscire dai limiti delle situazioni.
La reazione che scatta, spesso in diretta connessione con il negativo nell’ambito dello stesso testo, è esperita nella possibilità del sogno consolatore (“Ora
potrò baciare solo in sogno/ Le fiduciose mani...”, tratto 2), o, almeno, nella sofferta aspirazione o transizione alla calma interiore (“Se dall’inferno arrivo a qualche quiete...”, tratto 11), nell’evocazione di Antonietto, ma, significativamente,
solo degli attributi più incorporei: l’ombra e la voce (“ Mai, non saprete mai come
m’illumina/ L’ombra”; “la premurosa/ Carità d’una voce mi consuma...”, segmenti 4 e 12), nell’illusoria retrocessione nel tempo memoriale e favoloso (“Ora
dov’è, dov’è l’ingenua voce/ […]/ La terra l’ha disfatta, la protegge/ Un passato
di favola...”, tratto 5).
Tali prospettive vengono, infine, superate (o sublimate) nella visione metafisica, suscitata (mediante le metafore dell’altezza, dell’estensione spaziale o delle
transizioni temporali) dall’esplicito richiamo alle “vette immortali” nel tratto sesto
e al “cielo” nel settimo, o insinuata per contrasto con la dimensione terrestre nel
nono tratto (“Quella voce d’anima/ che non seppi difendere quaggiù…//M’isola,
sempre più festosa e amica” e nel quindicesimo (“Un’anima è partita/ Dal comune
castigo ancora illesa”) mentre nel segmento 17 la dimensione spaziale è coniugata
con quella temporale: “Questo sole e tanto spazio/ Ti calmino. Nel puro vento
udire/ Puoi il tempo camminare e la mia voce/[...]/ Sono per te l’aurora e intatto
giorno”. L’altezza e l’apertura spaziale (e temporale), infatti, appaiono, in alcune
composizioni del Dolore, come introduzione (e figura) alla spazialità dell’infinito
metafisico ed al dispiegarsi dell’eternità, col trasferimento, quindi, delle coordinate
leopardiane dell’“infinito” e dell’“eterno” nell’orizzonte cristiano, nella prospettiva teilhardiana del “punto omega”30 e, comunque, cristocentrica, come avviene nella
terza strofa di Mio fiume anche tu e nelle ultime due di Defunti su montagne).
3.2. La spirale sintattica e lessicale
Dal punto di vista stilistico, le modalità che assumono il massimo rilievo nel
Dolore (contemporaneamente alla diradazione delle figure metaforiche egemoni
30
Cfr. P. Teilhard de Chardin, op. cit., pp. 346-67.
96
Luigi Paglia
nel tessuto semantico dell’Allegria e del Sentimento del Tempo), e che gremiscono e
rendono estremamente complesso il periodo, sono quelle dell’inarrestabile spirale
sintattica, suscitata dall’accanita accumulazione delle frasi subordinate, che ricorda
la marea sintattica ed emotiva del foscoliano A Zacinto, ed, inoltre, dell’inesausta
proliferazione degli attributi. Tale straordinaria torsione barocca31 degli enunciati
appare come il correlativo stilistico e il rispecchiamento dell’indicibile sofferenza,
del gorgo della più fonda disperazione, di cui sono esempi, soprattutto, testi sconvolgenti come Amaro accordo, Tu ti spezzasti, Folli i miei passi, e, inoltre, Defunti
su montagne e Mio fiume anche tu32 le cui parti conclusive, tuttavia, sono attratte
nella visione redentrice del dolore. Altre procedure rilevanti che si svolgono su un
piano di contiguità espressiva rispetto alle precedenti, e con cui egualmente si cerca
di gremire il vuoto lancinante dello spazio interiore ed esterno, sono quelle delle
percussive reiterazioni lessicali a contatto e a distanza, per cui il grido si avvolge e
cresce su se stesso, nella vanità disperante della vita33 .
Infatti, i testi di Tutto ho perduto e di Se tu mio fratello sono dominati dall’erompere del grido straziato e senza sbocchi, che si convoglia, stilisticamente, nella progressione inesorabile delle ripetizioni (“Tutto [...] tutto”; “ho perduto [...]
eccomi perduto”; “dell’infanzia [...] L’infanzia”; “notti [...] notti”; l’epifora massima “grido [...] gridi” con cui si conclude la prima composizione nella disperata
pietrificazione del grido; e, nella seconda poesia, “fratello [...] fratello ”; “Mano [...]
mano”; “di te, di te”; “A me stesso io stesso”; ed, infine, “I fuochi senza fuoco” e
“Che sogni barlumi [...] Che l’annientante nulla del pensiero” in cui appaiono la
concentrazione e il rispecchiamento del negativo); inoltre il testo dei Ricordi si addensa nelle desolate e reiterate ombre della memoria, nella costellazione fonica,
31
Le modalità della replicazione, dell’ossimoro, dell’antitesi, la struttura sintattica avvolgente sono procedure stilistiche utilizzate in modo amplissimo nell’ambito della letteratura barocca e manierista, frequentata
con particolare attenzione e profondità da Ungaretti (e ne fanno fede le straordinarie traduzioni da Góngora
e Shakespeare da lui realizzate, e i saggi e i commenti, collegati alle traduzioni, sui due sommi poeti: Góngora
al lume d’oggi, Significato dei sonetti di Shakespeare, e Della metrica e del tradurre, in Giuseppe Ungaretti,
Saggi ed interventi, Milano, Mondadori, 1974, pp. 528-550, 551-570, e 571-576), ma la poesia di Ungaretti,
che a partire dal Sentimento del Tempo trae influssi fecondi da quella poetica, appare contrassegnata da un
tono di sofferta verità e di ‘naturalezza’ che la poesia barocca, ad eccezione dei grandi autori, non possiede; è
evidente, comunque, che la poesia di Ungaretti condivide col mondo barocco l’inquietudine esistenziale,
l’angoscia, l’ossessione del tempo, il pensiero dominante della morte, la carica di ambivalenza e di contraddittorietà, relativa all’esperienza ed alla condizione umana, ed, inoltre, il collegamento (o il rispecchiamento) del
microcosmo col macrocosmo (come argomenta Georges Poulet nell’acutissimo libro Le metamorfosi del cerchio, Milano, Rizzoli, 1971, pp. 55-76) che in Ungaretti appare come rovesciamento del negativo nel positivo,
della morte nella vita ultraterrena, del terrestre nel metafisico.
32
La ricorrenza delle subordinate nei predetti testi va dal 70% all’83% sul totale dei diversi tipi di frasi,
mentre nella sequenza Giorno per giorno si riscontra un’incidenza più limitata delle subordinate (31%), che
rispecchia il maggiore equilibrio tra l’espressione del dolore e il suo superamento nella prospettiva religiosa.
33
Ossola individua, con molta precisione, nelle pagine del Dolore, “la ripetizione ossessiva della stessa
parola nel vuoto”, il “risuonare della parola su se stessa sino a esplodere in grido” (Cfr . C. Ossola., Giuseppe
Ungaretti, Milano, Mursia, 1982 2., p. 394), privilegiando totalmente tale prospettiva rispetto a quella
dell’impennata (e della liberazione) metafisica.
97
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
oltre che nella gremita seriazione lessicale, e il tessuto linguistico di Mio fiume anche tu è percorso dalla straordinaria percussione replicativa dei lessemi “notte”,
“male” e della locuzione temporale “ora”, evidenziata spesso dalla posizione
anaforica, mentre quello di Tu ti spezzasti è segnato dal raddoppiamento della desolata interrogazione “Non rammenti?”.
Sul piano della compresenza e dell’interazione delle predette procedure, la
sequenza Giorno per giorno appare paradigmatica: le modalità ripetitive, rimarcate
dalla reiterazione fonica delle allitterazioni dei fonemi /t/ ed /m/, alimentano e
moltiplicano l’esplosione del grido, in connessione con gli enunciati di disperazione e di dolore (“Mai, non saprete mai [...] Quando non spero più...” nel tratto 4;
“Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce [...] La terra l’ha disfatta”, nel 5; “E t’amo, t’amo,
ed è continuo schianto!...”, nel tratto 8, e il poliptoto “Passa la rondine […] passerò
[…] Se dall’inferno”, segmento 11) nei tratti temporalmente o emotivamente più
vicini all’evento luttuoso34.
3.3. Il moto metamorfico
Il moto metamorfico si realizza pienamente in molte composizioni del
Dolore per la presenza e l’incidenza di modalità di tipo oppositivo o dialettico,
dispiegate su tutti i livelli (semantico, logico, spaziale, temporale) del testo, che
rappresentano lo sfondamento dei limiti o il salto di dimensione. Esse rispecchiano l’itinerario semantico della raccolta in cui l’intensità del grido e il diapason della disperazione confluiscono e si rovesciano in un moto consolatorio o
nella parabola della preghiera, o si slargano nell’orizzonte metafisico, per cui la
liberazione o la ‘sublimazione’ dell’io lirico, bloccate per l’eclissi della possibilità di ricostituire la situazione edenica, o, comunque, quella della precedente
integrità e felicità, si realizzano, con l’inversione della direzione della freccia
temporale, nel passaggio dal tempo delle origini all’ultratempo della dimensione religiosa.
Il movimento di trasformazione o di sublimazione si afferma con la massima
intensità in Giorno per giorno con le modalità dell’antitesi e dell’ossimoro, e della
sinestesia, oppure col loro innesto o collisione con le procedure reiterative (e con i
raddoppiamenti pronominali), modalità con le quali si realizzano l’evoluzione e la
conversione della parabola del grido in alcuni tratti della sequenza (“MAI non saprete MAI come m’illumina/ L’ombra”, 4; “L’ha disfatta, LA protegge”, 5; “Ogni
altra VOCE è un’eco che si spegne/ Ora che UNA mi chiama”, 6; “Ed i MIEI
OCCHI in me null’altro vedano/ Quando anch’ESSI vorrà chiudere Iddio”, 7;
“ombre [...] fulgore”, 14; “Un’incantevole agonia”, “Dal comune castigo ancora
34
La reiterazione del grido risuona parossisticamente anche in un testo di Un grido e paesaggi: Gridasti
soffoco, che rientra, come si è già detto, nello stesso universo del Dolore non ancora sublimato nella levitazione
della preghiera, composto nel 1939-40, nello stesso periodo di Giorno per giorno. (Cfr. Giuseppe Ungaretti,
Note a Un grido e Paesaggi, in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969, p. 589).
98
Luigi Paglia
illesa”, “vivi [...] estinto” 15; “fermezza inquieta”; “aurora e intatto giorno”, 17) e,
inoltre, gli ossimori spaziali: “quella voce [...] quaggiù”, 9; “fragore di onde [...]
nella stanza”, 16.
La ricorrenza delle modalità ossimoriche o metamorfiche ed il loro innesto
in quelle replicative avvalorano, sul piano delle strutture figurali, proprio il passaggio di dimensione (dal presente al futuro, dalla morte alla vita extraterrena, dal grido disperato alla preghiera) che fortemente caratterizza il piano semantico e che
rappresenta il rovesciamento e l’impennata dell’umano nella dimensione metafisica, di cui è esempio luminoso il conclusivo
Tratto 17 di Giorno per giorno
Fa dolce e forse qui vicino passi
Dicendo: “Questo sole e tanto spazio
Ti calmino. Nel puro vento udire
Puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
lo slancio muto della tua speranza:
Sono per te l’aurora e intatto giorno”.
Spalancata in tutte le possibili dimensioni e direzioni (e rispecchiata nella
gremitissima trama di rimandi assonantici, soprattutto del fonema /o/, che legano i
vari piani lessicali) appare la struttura figurativa (ed ideologica) dell’ultimo tratto,
la quale si articola nello spazio interno della casa romana dell’io lirico (indicata dal
deittico “qui”) e nello spazio aperto del ricordo, ed anche nella dimensione mondana corrispondente miracolosamente all’apertura metafisica, e infine nella prospettiva temporale (“il tempo camminare”) e atemporale (“la mia voce”).
Inoltre, la coincidenza dettata dallo sconvolgente ossimoro (“aurora e intatto giorno”) squaderna la visione dell’eternità (che conclude l’impennarsi della parabola passato-presente-futuro) che ha in Antonietto il suo evocatore (per cui alla
morte del soggetto lirico, il figlio sarà per il padre l’aurora di un giorno che si prolungherà per sempre), così che il bimbo ricopre, anche se in una prospettiva diversa,
il ruolo di Beatrice nella Commedia.
Sembra attuarsi il rovesciamento del rapporto di paternità-figliolanza, segnalato, oltre che dalla già notata antitesi incardinata sulla metafora “aurora e intatto giorno”, dall’espressione fondata sull’ossimoro (e sinestesia auditivo-cinetica) “Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso/ Lo slancio muto della tua speranza”, e dallo scambio pronominale: l’ “io” (insieme al “me” e al possessivo “mia”)
assunto dal figlio, ed il “tu” (con “ti” - “te”) pertinente al padre.
L’ultimo tratto appare veramente conclusivo di una parabola vertiginosa: in
esso si attua la coincidenza o la confluenza dei piani (spazio interno ed esterno,
mondo terreno e metafisico, dialettica temporale ed eternità), ed il ‘microcosmo’ si
rovescia in ‘macrocosmo’.
99
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
Un altro testo del Dolore in cui scocca il balzo metafisico, tanto più sconvolgente e rivoluzionario perché innestato sulla depressione e sulla disperazione iniziali, è
Defunti su montagne
Poche cose mi restano visibili
E, per sempre, l’aprile
Trascinante la nuvola insolubile,
Ma d’improvviso splendido:
Pallore, al Colosseo
Su estremi fumi emerso,
Col precipizio alle orbite
D’un azzurro che sorte più non eccita
Né turba.
Come nelle distanze
Le apparizioni incerte trascorrenti
Il chiarore impegnando
A limiti d’inganni,
Da pochi passi apparsi
I passanti alla base di quel muro
Perdevano statura
Dilatando il deserto dell’altezza,
E la sorpresa se, ombre, parlavano.
Agli echi fondi attento
Dello strano tamburo,
A quale ansia suprema rispondevo
Di volontà, bruciante
Quanto appariva esausta?
Non, da remoti eventi sobbalzando,
M’allettavano, ancora familiari
Nel ricordo, i pensieri dell’orgoglio:
Non era nostalgia, né delirio;
Non invidia di quiete inalterabile.
Allora fu che, entrato in San Clemente,
Dalla crocefissione di Masaccio
M’accolsero, d’un alito staccati
Mentre l’equestre rabbia
Convertita giù in roccia ammutoliva,
100
Luigi Paglia
Desti dietro il biancore
Delle tombe abolite,
Defunti, su montagne
Sbocciate lievi da leggere nuvole.
Da pertinaci fumi risalito
Fu allora che intravidi
Perché m’accende ancora la speranza.
Defunti su montagne appare nelle prime tre strofe, come la poesia della negazione, delle apparenze labili, degli inganni, della precarietà.
Al livello più basso dell’evanescenza sono collocate le “apparizioni incerte
trascorrenti”, velate da grandi distanze, delle figure umane la cui percezione sfuma
“A limiti d’inganni”; e la sorpresa (la quale si prolunga sul piano fonico nelle
reiterazioni allitterative ed anagrammatiche: “dA PochI PASSI APPArSI I
PASSAntI) della loro più decisa apparizione dalle nebbie dell’indistinto non serve a
liberarle dalla loro parvenza di “ombre”, anche se parlanti.
Assumono più vigore e consistenza (“Poche cose mi restano visibili”), ma
per declinare subito, la ciclicità dell’Aprile e la forma circolare dello “strano tamburo” del Colosseo (e la sequenza allitterativa “Su eStremi fumi emerSo” ne sottolinea la quasi onirica apparizione) alla cui base le figure umane “Perdevano statura/
Dilatando il deserto dell’altezza”, in un gioco allucinante di prospettive: presenze
entrambe, l’una meteorologico-atmosferica, l’altra storico-architettonica, emerse a
fatica dalla “nuvola insolubile” e dagli “estremi fumi”) correlativi oggettivi dell’oscurità del momento storico) e accomunate dalla fissazione dell’ “azzurro” che
sembra alludere all’indifferenza rispetto alle vicende umane.
Come acutamente afferma Guglielmi, “Lo spazio in cui si profilano figure si
converte in uno spazio illusionistico, da palcoscenico di teatro. Abbiamo un processo di innalzamento a significato della rovina e di derealizzazione, di abbassamento della presenza ad apparenza” 35 .
La percussiva serie delle negazioni (tre volte “non”, in posizione anaforica,
e “né”) declina nella terza strofa l’incertezza vibrante (sottolineata dall’ossimoro
“bruciante - esausta”) della salvezza “storica” intravista nelle ‘opere dell’uomo’;
l’ “ansia suprema [...]/ Di volontà bruciante/ Quanto appariva esausta”, percepita
negli “echi fondi” del monumento, appare destinata ad avere una risposta negativa: non trovano consistenza e motivazione “i pensieri dell’orgoglio”, la “nostalgia”, il “delirio”, l”invidia di quiete inalterabile”, nella spirale avvolgente delle
negazioni.
35
Cfr. G. Guglielmi, Interpretazione di Ungaretti, Bologna, il Mulino, 1989, p. 84.
101
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
La folgorante rivelazione del trascendente, (spalancata, per forza d’arte, dalla
Crocefissione di Masaccio36 ) che improvvisa appare (con l’attacco percussivo della
quarta strofa: “Allora fu”, in opposizione alla desolazione del momento storico e
all’evanescenza degli uomini e delle loro opere) e che si prolunga (con l’arretramento
del soggetto “defunti” alla fine della catena sintagmatica), sconvolgendo col paradosso cristiano le misure e le certezze umane (così come vengono a ribaltarsi le
leggi naturali e le convenzioni spaziali: le “montagne Sbocciate lievi da leggere nuvole”), capovolge in liberazione e speranza metafisica il senso della morte e della
caducità umana (con le ripezioni a distanza “la nuvola insolubile” - “Sbocciate lievi
da leggere nuvole” e “su estremi fumi emerso” - da pertinaci fumi risalito” che ne
ribadiscono il valore oppositivo37).
Il rovesciamento semantico (dalla desolazione alla speranza) trova il suo
correlativo topologico nell’inversione della direzione spaziale: dall’alto al basso:
“l’equestre rabbia/ Convertita giù in roccia ammutoliva” vs dal basso all’alto: “Defunti su montagne/ Sbocciate lievi da leggere nuvole”, nella cui sequenza, inoltre, la
figurazione della morte, straordinariamente, si converte in prospettiva di vita (eterna38).
La composizione Mio fiume anche tu porta alle massime conseguenze la dialettica tra il grido e l’ultragrido, realizzando il superamento del dolore umano nella
dimensione della preghiera e, correlativamente, della prospettiva terrestre in quella
metafisica:
36
Cfr. le acute affermazioni di P.Leoncini in Proposta di lettura per Il Dolore, in Atti, cit. p. 1093: “In
Defunti su montagne vi è un disarmante candore, la meraviglia di riconoscere il trascendente svelato nel
figurativismo di una umana immaginazione. Gli artisti che sfidano la morte sono il cristiano Michelangelo e
l’umanista Masaccio che la esorcizza nel suo immanentistico fideismo”.
37
L’interpretazione proposta non concorda con quelle di Guglielmi (“Il senso che promana dalle
opere e che continua ad essere raccolto protegge dal nulla ed assicura un ordine alla storia. La memoria
ritesse i vuoti operati dal tempo. E salva sia il passato, sia la possibilità del futuro” in Interpretazione ...,
op. cit., p. 85) e di Ossola (“Nell’incalzare della storia, non era più il mito a offrire il rifugio [...] ma ciò
che prodotto dalla storia ad essa sopravvive: l’eloquenza muta del monumento, gli ‘echi fondi’ insomma
‘dello strano tamburo’. È l’arte infatti a trasformare la morte in resurrezione, a fermare il tempo, ad
‘abolire le tombe’ ”, in op. cit, p. 410). Mi sembra, in consonanza con la tesi di P. Leoncini (cfr. la nota
precedente), che la poesia ungarettiana proponga l’assunto che l’arte (in particolare, quella della Crocefissione masaccesca o, più esattamente, masoliniana) salvi l’uomo, in quanto portatrice e rivelatrice di
valori religiosi e trascendenti.
38
Alle stesse conclusioni giunge Francesca Bernardini Napoletano (cfr. Parola e immagine. Giuseppe
Ungaretti e l’arte italiana del Novecento, in AA.VV., Poesia italiana del Novecento, Roma, Editori Riuniti,
1994, pp. 53-56) nella finissima e suggestiva analisi della poesia, introducendo il parallelo con il canto I dell’Inferno dantesco in cui egualmente è attivato il contrasto tra alto e “basso loco”, e sottolineando la sostituzione “al “Pallore” e al “chiarore” della precarietà e degli “inganni” [...] “il biancore/ Delle tombe abolite” ed,
inoltre, precisando, a proposito del rispecchiamento dei versi 6 e 38, che “all’interno del parallelismo sintattico
(aggettivo + sostantivo + participio), sottolineato dalla coincidenza del nome, si evidenzia, grazie anche allo
scarto costituito dalla preposizione, il valore semantico, moralmente attivo del secondo verso rispetto al primo: ‘Su estremi fumi emerso’ - ‘Da pertinaci fumi risalito’ ”.
102
Luigi Paglia
Mio fiume anche tu
Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
Ora che notte già turbata scorre,
Ora che persistente
E come a stento erotto dalla pietra
Un gemito d’agnelli si propaga
Smarrito per le strade esterrefatte;
Che di male l’attesa senza requie,
Che l’attesa di male imprevedibile
intralcia animo e passi;
Che singhiozzi infiniti ,a lungo rantoli
Agghiacciano le case tane incerte;
Ora che scorre notte già straziata,
Che ogni attimo spariscono di schianto
O temono l’offesa tanti segni
Giunti, quasi divine forme, a splendere
Per ascensione di millenni umani;
Ora che sconvolta scorre notte,
E quanto un uomo può patire imparo;
Ora ora, mentre schiavo
Il mondo d’abissale pena soffoca;
Ora che insopportabile il tormento
Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
“ Cristo, pensoso palpito,
Perché la Tua bontà
S’è tanto allontanata? ”
2
Ora che pecorelle cogli agnelli
Si sbandano stupite e, per le strade
Che già furono urbane, si desolano;
Ora che prova un popolo
Dopo gli strappi dell’emigrazione,
La stolta iniquità
Delle deportazioni;
Ora che nelle fosse
Con fantasia ritorta
E mani spudorate
Dalle fattezze umane l’uomo lacera
L’immagine divina
103
La transizione dal grido all’ultragrido nella “Vita di un uomo” di Ungaretti
E pietà in grido si contrae di pietra;
Ora che l’innocenza
Reclama almeno un’eco,
E geme anche nel cuore più_ indurito;
Ora che sono vani gli altri gridi;
Vedo ora chiaro nella notte triste.
Vedo ora nella notte triste, imparo,
So che l’inferno s’apre sulla terra
Su misura di quanto
L’uomo si sottrae, folle,
Alla purezza della Tua passione.
3
Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo Santo,
Santo, Santo che soffri.
La reiterazione insistente, ossessiva, le riprese anaforiche percussive soprattutto
delle cerniere sintattiche (la ricorrenza per 14 volte di “ora che”) ma anche di elementi
lessicali (che rappresentano quasi il correlativo sintattico della reiterazione dei singhiozzi)
motivano la tesi interpretativa, avanzata pertinentemente da Ossola, “del risuonare della parola su se stessa, sino ad esplodere in grido” 39, ma le modalità con le quali viene
modulata la ripetizione ampliano l’orizzonte semantico della composizione.
39
Cfr. C. Ossola, Giuseppe Ungaretti, op. cit., p. 394.
104
Luigi Paglia
Le replicazioni, infatti, sono coniugate con le procedure della variazione in
due serie di enunciati (“Ora che NOTTE già turbata SCORRE”, “Ora che SCORRE NOTTE già straziata”, “Ora che già sconvolta SCORRE NOTTE”; “Che DI
MALE L’ATTESA senza requie”, “Che L’ATTESA DI MALE imprevedibile”) che
riguardano non solo la configurazione sintattica, ma anche l’area lessicale, di modo
che le sequenze appaiono come una combinazione di parti invarianti (che evidenziano
le parole tematiche “notte” e “male”) e di parti variabili nella disposizione dei membri, e nella sostituzione lessicale.
Nell’ambito delle procedure replicative che globalmente investono la struttura sintagmatica, la sostituzione, a livello paradigmatico (e molecolare), di singoli
lessemi rivela la carica d’intensificazione e di progressione, il suo profilo d’ascesa
semantica (una sorta di gradatio a distanza), apparendo quasi come figurazione
dell’intensità crescente del grido: infatti, i lessemi attributivi sono posti su una scala
di intensificazione (“turbata-straziata-sconvolta”; e “senza requie-imprevedibile”).
La poesia, inoltre, presenta modalità di ordine dialettico: ossimori, antitesi e
rettifiche, che implicano lo sviluppo (o il superamento) delle posizioni di partenza,
attuato in un terreno dialogico, pluriprospettico in cui viene pronunciata la parola
poetica (“grido [...] di pietra”, che si modula anche sul piano sinestesico; “chiaro
[...] notte”; “Astro incarnato nelle umane tenebre”, in cui confluiscono le traiettorie metaforiche ed ossimoriche: “Astro - Dio - luce” in rapporto dialettico con
“umane” e “tenebre”, dialettica sottolineato dal termine “incarnato”, e dalla collocazione all’inizio e alla fine del verso di “astro” e “tenebre”), ed, infine, il rovesciamento semantico costruito sul riecheggiamento lessicale legato alla variazione
morfologica (“per riedificare/ Umanamente l’uomo”; “Per liberare dalla morte i
morti”, e, a conclusione della parabola meditativa, “D’un pianto solo mio non piango
più”).
La replicazione “Santo” a contatto e a distanza, in anafora ed epifora, per ben
sette volte, ed in tre ondate successive, che suggella la composizione, acquista un
valore corale e totale, declinata insieme all’assunzione della sofferenza umana da
parte del Cristo, e consonando con la preghiera collettiva del popolo di Dio.
Il crescere del grido non è senza bersaglio, non ricade su se stesso - come
accade in Solitudine - non risuona nel vuoto di un universo senza risposta o partecipazione, si scioglie, trova uno sbocco nella preghiera (ed è il ricalco - come è stato
notato - della preghiera canonica della Messa: “Santo, Santo, Santo”).
Sulla parabola del grido umano giunto alla massima violenza (e disperazione) si innesta folgorante e fulmineo il salto metafisico; la parabola non si conclude
su se stessa, ma si impenna nella verticale del divino; la grandiosa ‘fuga’ bachiana,
articolata in riprese e variazioni, sfocia, attraverso la ricerca ossessiva, finalmente,
nel mare di Dio.
105
106
Mauro Palma
Il problema dei fondamenti della matematica 1
di Mauro Palma
Le Scienze hanno permeato tutti gli eventi del ‘900 e si sono sviluppate molto
spesso intorno ad eventi drammatici di questo secolo. Molti settori si sono sviluppati a partire da eventi bellici: lo sviluppo in ambito chimico relativo alla prima
guerra mondiale ed alla campagna d’Africa, gli aerei utilizzati prima come aerei di
guerra e poi come aerei da trasporto, le ricerche sull’atomo e la bomba atomica.
Anche l’informatica è nata per l’opera di Alan Turing (1912-54), che riuscì a
decodificare, per conto dei servizi britannici, il codice di trasmissione dei tedeschi.
Così si arriva alla contemporaneità, la guerra del Golfo, la guerra del Kosovo, le cui
immagini visualizzate e schematizzate dai monitor televisivi, rappresentano in fondo applicazioni più consistenti degli investimenti informatici.
Il ‘900 è quindi un secolo caratterizzato innanzitutto dal rapporto tra lo sviluppo scientifico e le varie tappe drammatiche che l’umanità ha attraversato, ma è
anche un secolo in cui la scienza è stata sempre più vicina alla vita quotidiana: è
infatti arrivata a modificare gli usi, i comportamenti; è diventata cioè scienza distribuita, che ha posto anche problemi di carattere etico, come, in anni recenti, la bioetica
o la manipolazione genetica.
Per quel che riguarda la matematica, in particolare, negli ultimi tempi, si è
fortemente specializzata. I matematici parlano vari dialetti, quello della topologia,
dell’algebra, dei singoli specialismi eppure la matematica è molto più vicina ai soggetti nella quotidianità proprio perché si è tutti immersi in grandi processi di
numerizzazione. Il rapporto con il numero e con le rappresentazioni grafiche è
oggi molto diverso da quello che una persona poteva avere 50 anni fa.
Per una breve riflessione sulla prossimità tra matematica e quotidianità, si
deve necessariamente partire dall’inizio di questo secolo, in particolare dalla crisi
dei fondamenti della matematica.
Gottlob Frege (1848-1925) stava pubblicando il secondo volume dei
Grundgesetze, in cui costruiva la matematica come un’estensione della logica, quando
ricevette da Bertrand Russell (1872-1970) una lettera che lo informava dei paradossi della teoria degli insiemi e quindi della stessa teoria di Frege.
Nella chiusura del secondo volume della sua opera, lo stesso Frege osserva:
È difficile che uno scienziato si imbatta in qualcosa di meno desiderabile del
1
Testo rivisto e rielaborato dalla prof. Miryam Benvenuto.
107
Il problema dei fondamenti della matematica
vedere buttare a mare i fondamenti proprio quando ha appena finito il suo lavoro.
Sono stato messo in questa posizione da una lettera del sig. Bertrand Russell proprio
quando il lavoro stava per essere stampato.
Infatti nel 1903 il programma di Frege di mettere in piedi un sistema di coerenza logica complessiva, viene messo in crisi dalla lettera del giovane Russell.
Gli anni che si svilupperanno subito dopo, la prima decade del secolo e gli
anni successivi, vedranno il formarsi di varie scuole di pensiero. Saranno anni importanti, dal 1903 al 1931, fin quando un teorema stabilito da un altro logico matematico Kurt Gödel (1906-1978) affermerà l’inutilità di cercare l’autoconsistenza
logica di una teoria. Ogni teoria, infatti, ha bisogno di un’altra teoria che la spieghi.
Non esiste una teoria ultima, un sistema totalmente autosufficiente che sia in grado
di spiegare se stesso senza far ricorso ad un altro. Dal 1931 si svilupperà il cammino
della contemporaneità, in cui si abbandoneranno i programmi logicisti, cioè di una
totale fondazione logica, della matematica e si andrà verso i programmi costruzionisti,
cioè i programmi in cui si cercherà di capire quali sono gli oggetti che sono effettivamente costruibili e non solo ben definibili. La logica matematica tenderà a saldarsi con l’informatica, disciplina, quest’ultima, che ha poco a che vedere con la
definibilità degli oggetti, ma è più interessata alla loro concretezza, alla loro
costruibilità.
Alla fine del diciannovesimo secolo, ci sono alcune certezze: prima di tutto la
sistemazione disciplinare. Le discipline così formulate e ben definite nella scuola
attuale, sono infatti una sistemazione post napoleonica, della prima metà dell’800.
Come esempio si consideri che in Italia, anche per la sua frammentazione territoriale, erano moltissime le unità di misura di lunghezza utilizzate nei vari paesi e
soltanto attorno al 1845 si ha una unificazione complessiva di esse.
Anche nella letteratura, ad esempio, in alcune pagine di Guerra e Pace (1860),
si nota l’interesse che L. N. Tolstoj (1828-1910) ha per quella che lui chiama il nuovo
ramo delle matematiche, cioè la sistemazione che aveva avuto l’analisi matematica nei
primi anni dell’’800. Tolstoj fa un paragone tra i flussi della storia che non sono
descrivibili esaminando le singole soggettività perché sono moti di popolazioni, e le
continuità dei processi che esamina l’analisi matematica che non sono riconducibili a
tanti piccoli punti, forme e situazioni perché la continuità non è riconducibile a tante
piccole discretezze. Contrapponendosi ad una visione della storia come risultato
delle gesta di personaggi positivi o negativi, Tolstoj sottolinea il ruolo delle volontà
dei singoli individui che costituiscono le masse: di essi i protagonisti della storia sono
semplicemente degli interpreti, delle sintesi, allo stesso modo in cui un integrale registra e condensa, in un valore solo, le singole infinite variazioni.
L’altro aspetto che l’800 sistema è l’aspetto dell’esperimentum: la scienza deve
abbandonare ogni teleologismo, deve essere esperienza concreta. Si fa strada un
positivismo che sarà poi messo in crisi nel secolo successivo ma che ricerca obiettività al di là di qualunque pulsione finalistica. C’è, inoltre, una necessità di sistemare
le scienze attraverso una organizzazione deduttiva: dopo aver fatto l’esperimento,
si dà una sistemazione in chiave deduttiva a ciò che si è scoperto.
108
Mauro Palma
Nell’800 c’è il sorgere anche di nuove discipline di area sociologica e psicologica, quelle che oggi si indicherebbero come scienze sociali. Sintetizzando alcune
delle certezze dell’800, si potrebbe seguire uno schema in cui mettere per prima la
sistemazione disciplinare, quindi le discipline con i loro separati statuti e le loro
separate costruzioni, poi alcuni concetti assoluti come spazio e tempo e le loro
rappresentazioni, quindi l’esperimentum, la fiducia nella ricerca scientifica e la sua
relativa espansione, la sistemazione deduttiva come a posteriori ed infine l’avvento
di nuove discipline.
L’800 è, però, anche segnato, ormai già al suo esordio, da alcune distinzioni.
Emanuel Kant afferma, nella Critica della ragion pura (1781), che la geometria
euclidea è la sintesi a priori del concetto di spazio, così come i numeri naturali sono
una sintesi a priori del concetto di tempo; quindi numeri naturali e geometria euclidea
per lo scienziato che inizia il suo percorso nell’800 e per la cultura allora diffusa,
sono elementi stabili, certezze che non possono essere messe in discussione.
In questo panorama culturale avvengono tre eventi che mutano il patrimonio di riflessioni del secolo successivo.
Il primo evento, verso la prima metà del secolo diciannovesimo, ma reso
noto e generalizzato attorno alla metà dello stesso secolo, è quello delle geometrie
non euclidee. Il problema delle geometrie non euclidee passa come crisi del quinto
postulato. Euclide, infatti, aveva dato una sistemazione rigorosa alle conoscenze
geometriche attraverso una organizzazione ipotetico-deduttiva, individuando 23
definizioni e formulando 10 assiomi, o più precisamente 5 nozioni comuni e 5
postulati. Gli assiomi sono delle proposizioni non dimostrate che vengono assunte
come vere dalle quali ricaviamo le altre proposizioni: in particolare le nozioni comuni riguardano il comune modo di ragionare, mentre i postulati riguardano il
ragionare geometrico cioè le caratteristiche della geometria. Di questi cinque
postulati, il quinto ha una minore autoevidenza rispetto agli altri e ha una formulazione ben più complessa, al contrario degli altri facilmente accessibili.
I primi quattro affermano:
- Si può condurre una linea retta da un qualsiasi punto ad ogni altro punto
- Una retta finita si può prolungare continuamente in linea retta
- Si può descrivere un cerchio con qualsiasi centro ed ogni raggio
- Tutti gli angoli retti sono uguali fra loro.
Il quinto o postulato della parallela, non era formulato come lo riportano i testi
attuali (per un punto esterno ad una retta passa una sola parallela alla retta data) ma
aveva una formulazione più complessa, riconducibile però alla precedente:
Se una retta venendo a cadere su due rette forma gli angoli interni e dalla
stessa parte tali che la loro somma sia minore di due rette, le due rette prolungate
illimitatamente verranno ad incontrarsi da quella parte in cui sono gli angoli la cui
somma è minore di due rette.
109
Il problema dei fondamenti della matematica
Euclide stesso, nella sua opera, non lo utilizza per un gran tratto, anzi dimostra come teorema la seguente affermazione che è inversa rispetto al quinto postulato:
Se due rette intersecate da una trasversale formano angoli coniugati la cui
somma è un angolo piatto, allora le due rette non si intersecano.
Il dubbio, quindi, era che il quinto postulato potesse essere ricavato a partire
dagli altri quattro, cioè che non fosse anch’esso un assioma indipendente dagli altri
ma che fosse dimostrabile come un teorema. La dimostrazione della indipendenza
del quinto postulato e quindi della impossibilità di ricavarlo dagli altri quattro apre
la strada a nuove geometrie.
Le geometrie non euclidee non ebbero vita facile in un mondo in cui lo spazio aveva come sua sintesi a priori la geometria euclidea stessa così come Kant aveva detto e abituato a pensare: si trattava, infatti, di mettere in discussione la sintesi a
priori del concetto di spazio cioè un modo a priori con cui l’intelletto realizza la
conoscenza della spazialità.
È interessante notare come nell’800 i matematici che incominciarono a mettere in discussione la geometria euclidea furono destinati a vite grame. La storia del
povero I. Bolyai (1802-60) ne è un esempio. Egli era arrivato a buoni risultati sulla
geometria non euclidea e li aveva sottoposti al padre matematico egli stesso e amico
del più insigne matematico del momento che era C.F.Gauss (1777-1855). Quest’ultimo manifestò la sua perplessità rispetto ai modelli che Bolyai aveva sviluppato.
Bolyai, sfiduciato, abbandonò i suoi studi, salvo rivederseli poi riproposti anni dopo
da un altro matematico che parallelamente li aveva sviluppati, N.I. Lobatchevsky
(1793-1856) e poi successivamente da Gauss stesso che vent’anni dopo li aveva acquisiti e genialmente anche sviluppati.
Un secondo evento determinante riguarda i primi studi della teoria degli insiemi, cioè la formulazione del concetto stesso di insieme e l’organizzazione delle
conoscenze matematiche a partire da tale concetto. L’osservazione riguardava essenzialmente il problema di come si confrontano due insiemi, come si fa, cioè, a
stabilire se un insieme è maggiore o minore di un altro. La risposta è semplice se gli
insiemi sono finiti: se per le persone che sono all’interno di un’aula, si immagina un
altro gruppo di persone all’interno di un’altra aula e se si riesce a stabilire una corrispondenza di tipo uno a uno, tra i due gruppi di persone alla fine si può stabilire se
sono rimaste alcune persone di un gruppo o dell’altro. Se nessuno resta fuori da
questa corrispondenza, i due insiemi sono ugualmente numerosi o, come si dice in
matematica, hanno la stessa cardinalità.
La teoria degli insiemi estende anche agli insiemi infiniti la possibilità del
confronto. Ad esempio, confrontando l’insieme dei numeri naturali e l’insieme dei
numeri pari, a ogni numero naturale corrisponde un numero pari, basta moltiplicarlo per due; viceversa, a ogni numero pari corrisponde un numero naturale, basta
dividerlo per due. I numeri pari e i numeri naturali sono ugualmente numerosi e
sono due insiemi infiniti, che possono essere messi in corrispondenza di tipo uno a
uno. Eppure i numeri pari sono una parte dei numeri naturali, cioè sono tanti quan110
Mauro Palma
ti i numeri naturali pur essendo una loro parte. La quinta delle nozioni comuni di
Euclide che afferma che il tutto è sempre maggiore della parte, non regge più applicata alla teoria degli insiemi. Per una matematica che andava costruendo la propria
organizzazione numerica a partire dal concetto di insieme e quindi organizzava i
vari insiemi numerici successivi (N i naturali, Z gli interi, Q i razionali, R i reali, C
i complessi) questo diventa un forte punto di discussione.
Il terzo evento è rappresentato dalle nuove discipline che si andavano sviluppando. Esse, dalla sociologia alla psicologia, sono discipline che si interessano di
fenomeni collettivi piuttosto che delle individualità, sono discipline che hanno un
germe statistico e che quindi non possono seguire i singoli casi, non possono esaminare le singole situazioni, ma hanno bisogno di utilizzare modelli non più
deterministici ma di tipo probabilistico. Sono discipline che hanno un altro modo
di giungere a delle conseguenze. L’inferenza non è più soltanto un’inferenza logica
ma è anche un’inferenza statistica. Si possono trarre delle conseguenze su un’intera
popolazione avendo esaminato alcune situazioni su un particolare sottoinsieme o,
come si usa dire, su un particolare campione. Le discipline di indagine scientifica
nel sociale pongono, quindi, il problema di ricavare delle asserzioni generali a partire da una sapiente oculata osservazione di sottoinsiemi particolari finiti. Tre punti
di grande crisi nascono da tre contesti diversi: la possibilità di altre geometrie, la
necessità di reinterrogarsi su come trattare l’infinito, la necessità di aprirsi a modelli
non solo deterministici ma anche a modelli probabilistici.
Il Novecento si apre con la crisi di una triade che caratterizzava il sapere del
secolo precedente: il reale, il razionale e l’evidente. All’inizio dell’800, ciò che è
reale è razionale, ciò che è evidente è anch’esso reale; questi legami sono messi in
crisi da una serie di eventi e successivamente anche da una serie di contributi del
tipo: esistono dei mondi logici e razionali che non sono né reali né evidenti; una
geometria non euclidea, ad esempio, è un mondo logico e razionale che non è assolutamente evidente. Sarà più avanti A. Einstein nel 1905 ad affermare che una geometria non euclidea può essere reale in quanto un modello della realtà. Per il filosofo e il matematico di fine 800, invece, è rotto il legame sia con l’evidenza sia con la
realtà: ci sono dei mondi costruiti come logicamente coerenti quindi razionali indipendentemente dalle loro caratteristiche di realtà. Quindi si può prima definire
deduttivamente un mondo simbolico e poi eventualmente interpretarlo, cioè stabilire un insieme di regole formali, come dirà in seguito Ludwig Wittgenstein (18891951). Il matematico non scopre ma inventa, quindi può prima inventare un mondo
matematico e successivamente interpretarlo. La rivoluzione è totale rispetto al punto
di vista dell’800, per cui prima si sperimenta, poi si dà l’organizzazione deduttiva.
Anche scrittori del ‘900 scriveranno frasi del tipo: non esiste un solo mondo. Questa
frase, ad esempio, è l’inizio di un dialogo di R. Queneau (1903-1976), appartenente,
insieme ad I. Calvino, al movimento letterario dell’Oulipò, che aveva fra i suoi
obiettivi anche quello di organizzare scientificamente il mondo letterario. Si possono stabilire, per esempio, anche nella narrazione, possibili organizzazioni logiche e
poi riempirle di contenuti.
111
Il problema dei fondamenti della matematica
Alla fine dell’800, altri legami vengono meno. F. Klein (1849-1925), infatti,
nel 1872, sistema nel programma di Erlangen le geometrie non euclidee. Anche in
altri campi, il legame che si rompe all’inizio del secolo è quello tra realtà ed evidenza. Per quel che riguarda la psicanalisi, S. Freud pubblica L’interpretazione dei sogni, esattamente nell’anno 1900. La psicanalisi testimonia così l’esistenza di meccanismi e processi reali dell’individuo che sono indipendenti dalla loro evidenza. L’evidenza che il mondo si rappresenta e la realtà del subconscio non è detto che siano
collegate e connesse tra di loro, ma possono essere scisse.
Tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, precisamente
nel 1898, G. Frege tenterà di dare una sistemazione al problema dei numeri, al problema dell’infinito e a quello degli insiemi, problema che sarà poi messo in crisi nel
1902 e nel 1903 dal giovane B.Russell. Quasi contemporaneamente, nel 1905, Einstein
pubblica gli studi sulla relatività ricostruendo in un altro modo il legame tra razionalità e realtà.
La splendida certezza che avevo riposto nella matematica si è ora persa in un
labirinto inestricabile, scriverà Russell. Questa è la situazione con cui si apre il
Novecento e in questo contesto si apre il problema dei fondamenti della matematica. Si apre cioè per la matematica il problema di domandarsi di quale natura siano i
propri oggetti, quale siano in sostanza i fondamenti su cui la propria costruzione si
basa.
Nel 1893 Frege avvia un tentativo di basare tutta la costruzione della matematica sulla logica e sui suoi concetti, pubblicando il primo volume de I principi
dell’aritmetica (Grundgesetze der Arithmetik). Ogni insieme numerico matematico è riconducibile ad un insieme via via più elementare fino ad arrivare ai numeri
naturali. Se si fondano logicamente i numeri naturali e l’aritmetica, si dà una costruzione logica a tutto l’impianto matematico. È l’operazione simile ma concettualmente
inversa di quella di Leibniz che tendeva a matematizzare il ragionamento. L’ipotesi
che poi si pone Frege, in questo programma fondazionale, è di ricondurre la matematica a particolare capitolo di un programma logico. D’altra parte la logica ha
sempre avuto un modello privilegiato nell’insiemistica. Frege, quindi, utilizza fortemente il modello logico e ne dà una costruzione complessiva tenendo ben presente che dare una costruzione complessiva di un sistema in termini logici significa
stabilire che tutto ciò si sa essere vero è dimostrabile all’interno di quel sistema. Il
sistema, quindi, è completo, cioè le proprietà vere sono dimostrabili, e soprattutto
il sistema è consistente, non contiene alcuna contraddizione. Un sistema è consistente se non contraddittorio, cioè se, al suo interno, non può essere dimostrato
una proposizione P e contemporaneamente la proposizione non P. Frege sostanzialmente cerca di rispondere a tre requisiti sintetizzati in tre aggettivi: deducibile,
consistente, completo.
Mentre stava per dare alle stampe il secondo volume, Frege ricevette da Russell
una lettera in cui questi gli comunicava una antinomia.
Ma cosa è un’antinomia? Una antinomia è una proposizione contraddittoria
in sé, tale cioè che “se è vera allora è falsa e se è falsa allora è vera”.
112
Mauro Palma
Occorre distinguere tra incongruenze logiche in senso proprio e proposizioni che solo apparentemente producono contraddizioni, ma in realtà testimoniano
soltanto di un “cattivo” modo di ragionare, oppure conducono a conclusioni che
cozzano con l’opinione comune. Si usa perciò distinguere tra antinomie, che recano in sé, per motivi logici o linguistici, qualcosa di irresolubile, e paradossi che,
come rivela l’etimologia, esprimono qualcosa che contrasta l’opinione comune, ma
non contengono in sé insanabili contraddizioni. Tuttavia, nell’uso, il termine “paradosso” comprende entrambe le categorie.
I paradossi di solito sono di tre tipi:
- veridici, cioè in un certo senso non fanno altro che esprimere una proprietà
che in realtà è vera, ma è espressa in maniera molto singolare, e quindi attraverso un ragionamento per assurdo possono essere risolti;
- falsifici, cioè che partono da fallace iniziali e che quindi in realtà sono semplicemente un qualcosa da negare;
- antinomici, che rappresentano una antinomia e che costringono ad una nuova sistemazione concettuale.
Quello di Russell è appunto un paradosso antinomico.
Si erano già avuti paradossi di questo genere nell’antichità come il paradosso
del mentitore, che risale all’antica Grecia del VI secolo avanti Cristo e che così si
può formulare:
“Io mento”
Se chi parla stesse mentendo (affermasse cioè il falso), allora non starebbe
dicendo una bugia (direbbe cioè il vero). Se invece non stesse mentendo (e affermasse perciò il vero), starebbe effettivamente dicendo una bugia (direbbe cioè il
falso). In ambedue le ipotesi, ci si imbatte in proposizioni per le quali l’attribuzione
di un valore di verità obbliga ad attribuire loro il valore di verità opposto.
I paradossi sono tanti e di vario genere. Si racconta che nel convegno del
1905, ai tempi della lettera di Russell a Frege, uno dei paradossi, analogo al paradosso del mentitore, consisteva in un foglietto di carta con scritto sui suoi due
lati:
Ciò che è scritto sull’altro lato di questo biglietto è falso.
Ciò che è scritto sull’altro lato di questo biglietto è vero.
Ma quale era l’antinomia in cui Frege era caduto? Per Russell l’antinomia è
essenzialmente questa, il poter parlare di insieme di tutti gli insiemi. Russell infatti
generalizza la categoria di insieme anche all’insieme di tutti gli insiemi e praticamente utilizza il termine insieme per indicare questa totalità. Egli osserva che il
pensare che l’insieme di tutti gli insiemi sia ancora un insieme determina delle irriducibili antinomie.
113
Il problema dei fondamenti della matematica
Poiché gli insiemi si definiscono “in piena libertà”, essi si possono pensare
suddivisi in due categorie:
- insiemi che tra gli elementi hanno loro stessi: ad esempio, l’insieme di tutti i
concetti astratti è a sua volta un concetto astratto ed ha perciò se stesso tra i
suoi elementi;
- insiemi che non hanno loro stessi come elementi: ad esempio, l’insieme dei
numeri naturali non è un numero naturale e perciò, tra i suoi elementi, non
c’è se stesso; analogamente, l’insieme di tutti i gatti non è un gatto.
Si indichi allora con K l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se
stessi. Formalmente, si può scrivere:
K = {x; x∉x}
Ci si pone il problema: K appartiene o no a se stesso?
Se K appartiene a se stesso, allora, per la definizione, K ha la proprietà di non
avere se stesso tra i suoi elementi; K perciò non appartiene a se stesso:
K∈K fi K∉K
Se invece K non appartiene a se stesso, allora, per definizione, ha la proprietà
di avere se stesso tra i suoi elementi; K perciò appartiene a se stesso:
K∉K fi K∈K
Un esempio banale può aiutare a capire quanto sopra scritto: si considerino
degli aggettivi della lingua italiana. Essi possono essere suddivisi in due categorie:
- gli aggettivi autologici, che si riferiscono a loro stessi (ad esempio “polisillabo”
è autologico perché è esso stesso polisillabo);
- gli aggettivi eterologici, che non si riferiscono a loro stessi (ad esempio “monosillabo” è eterologico perché esso stesso non è monosillabo).
Se quindi si considera “eterologico” come aggettivo, se è eterologico vuol
dire che è omologico, se invece è omologico vuol dire che è eterologico. Di qui
l’antinomia perché uno stesso termine è sia eterologico che omologico.
Analogamente se si presuppone che esista una totalità che contiene tutti i
predicati, dovrà contenere anche il predicato essere un predicato, e si avrebbe anche
questa volta una antinomia.
G.G. Berry nel 1906 dice che ogni numero è identificato da un’espressione
linguistica: per esempio il numero 18 è il prodotto di 3 con 6. Tutti i numeri che
possono essere espressi con meno di 30 sillabe costituiscono un insieme finito, sottoinsieme dei numeri naturali. Se si considera il più piccolo numero naturale che
non può essere indicato con meno di 30 sillabe, questo numero, dice Berry, determina una contraddizione, perché è il più piccolo numero naturale che non può
essere indicato con meno di 30 sillabe, ma contemporaneamente l’espressione è il
più piccolo numero naturale che non può essere indicato con meno di 30 sillabe contiene meno di 30 sillabe. Anche in questo caso si ha una contraddizione.
114
Mauro Palma
Ritornando, quindi, all’antinomia di Russell, questa fu pubblicata proprio da
Frege come epilogo del secondo volume della sua opera e, confessando il suo sconforto, lo stesso Frege aprì la crisi dei fondamenti della matematica, scrivendo:
Tutti coloro che nelle loro dimostrazioni hanno fatto uso di estensioni concettuali, classi, insiemi sono nella mia stessa situazione. Qui non è in causa il mio metodo di fondazione particolare, ma la possibilità di una fondazione logica dell’aritmetica in generale.
Nel 1918 Bertrand Russell propone una versione figurata della sua antinomia.
Essa è nota come paradosso del barbiere:
“In un paese vi è un solo barbiere, che non porta la barba. Egli rade tutti e soli
gli uomini del paese che non si radono da soli. Il barbiere rade se stesso?”
Se si rade da solo non è vero che rade tutte e sole le persone che non si radono
da sole, se si fa radere da un altro cade lo stesso in contraddizione.
In questi anni la letteratura è piena di invenzioni e di paradossi che hanno
tutti lo stesso schema: l’antinomia di Russell, sceneggiata in vari modi, è riformulata
sotto vari aspetti.
La scoperta delle antinomie determinò intense ricerche ed un lungo dibattito
nel corso del quale si confrontarono diverse scuole di pensiero: Russell stesso non
abbandonò l’idea di fondare la matematica come capitolo della logica; c’era, infatti,
chi proponeva di evitare le astrazioni incondizionate che derivavano dalla teoria
degli insiemi di Georg Cantor (1848-1918) e chi, invece, sottolineava la necessità di
non perdere la potenza degli strumenti concettuali che la matematica era riuscita a
darsi da Cantor in poi. Il maggiore esponente di quest’ultimo indirizzo di pensiero
era il matematico tedesco David Hilbert (1862-1943), che così si espresse: “Nessuno
potrà cacciarci dal paradiso che Cantor ha creato per noi!”.
Il metodo proposto da Hilbert era quello di distinguere tra la matematica ed
i discorsi che si fanno attorno alla matematica.
“Accanto alla matematica vera e propria - disse in una conferenza del 1922 si presenta in un certo senso una nuova matematica, una metamatematica, che è
necessaria per la sicurezza dell’altra, nella quale - contrariamente al modo di inferenza puramente formale della matematica vera e propria - si applica l’inferenza
contenutistica, ma unicamente per la dimostrazione della coerenza degli assiomi. In
questa metamatematica si opera con le dimostrazioni della matematica vera e propria e queste ultime formano l’oggetto della ricerca contenutistica”.
Con i metodi della metamatematica (nella quale si evitava di far ricorso a
procedure e concetti che implicassero l’infinito), si dovevano impegnare tutte le
energie nella ricerca di dimostrazioni non contradditorie rispetto agli assiomi delle
diverse teorie matematiche, ed in particolare della teoria dei numeri naturali, che sta
alla base di ogni altra teoria.
Questo programma hilbertiano sarà messo in crisi da H. Poincaré (18541912). Egli scriverà che Hilbert ha ridotto la geometria come una strana macchina
115
Il problema dei fondamenti della matematica
dove si infilano dei simboli e si producono dei teoremi. Anzi si servirà di una metafora molto pesante, che prende spunto dal fatto che, in quel periodo, andavano per
la maggiore i macelli di Chicago con la grande lavorazione delle carni e si favoleggiava
di una macchina, che avrebbe realizzato un prodotto finito già macellato, immettendo
semplicemente dei pezzi di animale.
Scrive Poincaré che il programma formalista hilbertiano è come la favolosa
macchina di Chicago dove entrano maiali ed escono salsicce, citazione testuale per
descrivere un processo deduttivo che non governa più se stesso in quanto non capisce più gli oggetti su cui lavora.
Il programma di studi e di ricerche che aveva delineato Hilbert per superare
la crisi dei fondamenti si prefiggeva l’obiettivo di dimostrare la non contraddittorietà dei sistemi di assiomi delle diverse teorie matematiche. All’interno di tale programma hilbertiano si situa l’opera di Kurt Gödel (1906-1978), i cui risultati sono
da considerarsi tra i più importanti della storia del pensiero contemporaneo. Inizialmente i suoi studi sembravano confermare l’impostazione hilbertiana secondo
la quale un maggiore sforzo di ricerca avrebbe messo ordine nei sistemi assiomatici
fino ad arrivare a dimostrare la consistenza dei diversi sistemi. Invece, nel 1931,
Gödel mise fine ad una grande illusione razionalista: la possibilità che la matematica sia in grado di dimostrare la propria non-contraddittorietà. Egli, esasperando il
progetto di Frege sull’utilizzo dell’aritmetica, fa diventare ogni affermazione logica
affermazione numerica. Realizza quindi un processo di aritmetizzazione: ciò che è
deduzione logica diventa sostanzialmente una successione di stringhe numeriche.
Riesce a stabilire, in questo modo, una codifica assegnando ad ogni simbolo, qualunque sia il linguaggio utilizzato, un particolare numero, secondo un procedimento che, sfruttando le proprietà dell’aritmetica, permette di riconoscere se quel numero è rappresentativo di un simbolo, di una stringa o di un intero ragionamento.
Fatto ciò, Gödel dimostra un teorema, il quale afferma che un sistema logico e completo non è consistente.
Il senso del teorema di Gödel è il seguente: l’aritmetica, con l’utilizzo dei
suoi propri mezzi (e cioè attraverso il processo di aritmetizzazione ottenuto con i
numeri di Gödel), non può dimostrare la sua propria consistenza, cioè che nessuna
affermazione è contraddittoria. D’altra parte, l’aritmetica (cioè l’insieme delle proposizioni riguardanti i numeri naturali) è alla base dell’intero impianto costruttivo
della matematica. Quindi, esiste un limite invalicabile al processo di formalizzazione
e di costruzione su basi logiche dell’impianto matematico: esso, senza ricorrere a
“livelli superiori”, non può, tramite se stesso, garantire la sua non contraddittorietà. O, meglio, è necessario realizzare una sorta di “compromesso” tra le esigenze di
non contraddittorietà e quelle di completezza: se si vuole che la teoria assiomatica
dei numeri naturali non abbia contraddizioni, non si può pretendere che essa sia
completa e quindi permetta di dimostrare, al suo interno, tutte le verità riguardanti
i numeri naturali stessi.
Come conseguenza di questo risultato, si ottiene un limite più generale alle
potenzialità di qualunque formalizzazione: ogni dimostrazione della matematica
116
Mauro Palma
sulla coerenza di un sistema formale deve utilizzare principi più complessi di quelli
del sistema in esame.
La coerenza di qualunque sistema formale o linguaggio può essere dimostrata soltanto ricorrendo ad un metalinguaggio che utilizzi strutture sempre più complesse di quelle impiegate dal sistema stesso.
Ogni teoria ha quindi bisogno di una metateoria e non esiste alcuna “teoria
ultima” che fondi tutte le altre, inclusa se stessa, perché necessariamente si
autoreferirebbe.
Sui piani matematico, filosofico, comportamentale e personale, le conseguenze
del teorema di Gödel sono notevoli.
Dopo Gödel l’attenzione matematica non è più rivolta alla totalità ma alla
parzialità, non è più rivolta alla costruzione di un universo in grado di descrivere
l’intero universo matematico ma a quello di caratterizzare universi parziali, e questo sarà l’aspetto più aperto nella logica degli anni successivi. Gödel dice che ogni
teoria ha qualcosa di indecidibile, qualcosa che non si può dimostrare come vera e
lo stesso vale per la sua negazione.
Quale è il significato del suo risultato? È la fine della crisi dei fondamenti
non perché si raggiunga la certezza ma perché si è capito l’inutilità di cercare il
fondamento del tutto, l’inutilità della generalizzazione. Si aprirà, da quel momento
in poi, un’altra branca della logica, la logica delle parzialità, la logica che indaga non
tanto sull’assoluta fondazione dei propri elementi ma sulla capacità che hanno gli
elementi di essere costruibili, di essere concretamente realizzabili. Si aprirà la strada
dell’intuizionismo logico, del costruttivismo, una matematica più attenta e che dà
realtà a ciò che si costruisce.
Due nomi significativi sono L.E.J. Brouwer (1881-1967) e A. Turing (191254). Con Brouwer si va verso l’intuizionismo, con Turing verso l’informatica. Essi
hanno fatto in modo che il tipo di indagine del matematico e del logico non fosse
più caratterizzato soltanto dai termini definibile, ben definito, corretta definizione,
ma anche dal termine costruibile e successivamente, negli anni recenti, sulla base
dello sviluppo degli strumenti di calcolo, dal termine trattabile. Oggi la logica matematica si occupa della definibilità degli oggetti ma anche della loro costruibilità,
in quanto non tutto ciò che è ben definito può essere costruito, e all’interno degli
oggetti costruibili, della trattabilità degli oggetti perché un oggetto che può essere
costruito può non essere trattabile.
É una logica, quella moderna, che non cessa di essere fondamento ma che
capisce i perimetri e gli angoli del proprio possibile sviluppo.
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118
Francesco Remotti
Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale
e sociologia del ‘900
di Francesco Remotti
Intendo iniziare questa mia conversazione in una maniera suppongo inaspettata e irrituale, inaspettata – devo dire – anche per me. Dato che è stato evocato il
mio curriculum e la mia biografia intellettuale, e si è fatto particolare riferimento
alle ricerche etnografiche che ho compiuto in Africa (ricerche che hanno segnato
profondamente il mio percorso sia sotto il profilo intellettuale, sia sotto il profilo
umano ed esistenziale), vorrei porgere il mio saluto amichevole e fraterno e il mio
più profondo ringraziamento a una persona che è qui tra noi, presente nel pubblico: si chiama Gianni Losito, ed è stato a lungo (per ben 25 anni) come missionario
tra i BaNande del Nord Kivu dello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo).
Conobbi Gianni Losito nei primi anni settanta all’Università di Torino, dove lui
concludeva i suoi studi di filosofia e di psicologia e io cominciavo il mio insegnamento di antropologia culturale e, come ricercatore sul campo, mi interessavo di
“zingari”, di Sinti piemontesi. Fu lui con una lettera inviatami da Lukanga tra il
1975 e il 1976 a invitarmi ad andare nel Kivu. Così, nell’agosto del 1976 mi recai per
la prima volta tra i BaNande e vi ritornai diverse volte in un arco di un ventennio
(l’ultimo mio soggiorno, al momento di questa mia conversazione è in effetti del
1996). Non posso dimenticare quell’invito iniziale, ma non posso nemmeno dimenticare l’aiuto fraterno e la profonda amicizia, insieme a una squisita partecipazione umana e intellettuale, con cui Gianni ha saputo sostenermi sia nei momenti
esaltanti della ricerca, sia nei momenti più difficili sul piano personale. Grazie Gianni.
Io spero che in questo “grazie” tu possa sentire non soltanto la mia voce e il mio
sentimento di gratitudine, ma anche i sentimenti di gratitudine e di amicizia di tutti
coloro (e non sono pochi) che dopo di me hanno voluto intraprendere, spesso con
risultati lusinghieri, lo studio di qualche aspetto di quella società africana che tu hai
amato molto e che a ciascuno di noi, etnologi africanisti alle prime armi, hai insegnato ad amare. Con il nostro “grazie” collettivo intendiamo a nostra volta sostenerti in questo momento e dirti che, in un modo o nell’altro, continueremo a “collaborare” con i “nostri” BaNande, ad apprezzarli nella loro cultura e ad interessarci
al loro destino, alle loro scelte e alle loro trasformazioni.
Tutto questo ha indubbiamente a che fare con l’argomento della nostra conversazione: in primo luogo, perché le esperienze personali di un antropologo, e
soprattutto le esperienze vissute sul campo entrano nelle sue riflessioni più teoriche; in secondo luogo perché, svolgendo le mie ricerche appunto in quella parte
119
Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale e sociologia del ‘900
dell’Africa, ho realizzato sul piano personale quella sorta di “andata e ritorno” (“dal
centro alla periferia e viceversa”) a cui si allude nel titolo della nostra conversazione; in terzo luogo, perché riflettendo sulle mie esperienze in quell’angolo di mondo, ho più facilmente potuto rendermi conto di come anche la nostra società – la
società che si autodefinisce “moderna” per antonomasia – è a sua volta null’altro
che un angolo di mondo. Qui vorrei riprendere proprio la tesi di Claude LéviStrauss riguardante da un lato il compito dell’antropologia e dall’altro la diversità
delle culture umane. In effetti, nonostante le sue crisi e le sue perplessità attuali, la
sua perdita di certezze, di presunzioni o di ambizioni sul piano della sua capacità di
generalizzazione, ritengo che l’antropologia possa ancora condividere la tesi di LéviStrauss, secondo cui, se non altro, essa insegna almeno questo alle società e alle
culture umane: nonostante quanto possano pensare delle loro scelte, i loro costumi
e le loro istituzioni non sono le uniche soluzioni possibili; le società e le culture
umane non sono mai sole, uniche, e questo non soltanto perché di fatto sono contornate da altre società e da altre culture, ma anche e soprattutto perché le altre
società e le altre culture sono la realizzazione di altre possibilità, spesso divergenti e
alternative, talvolta persino opposte, e che, se non altro in linea di principio, richiedono da parte nostra un grado altrettanto elevato di considerazione quanto le possibilità da noi stessi realizzate.
Pur essendo il tema scelto molto ampio, cercherò di dare un taglio particolare, proponendo fin da subito la tesi seguente, ovvero che sia l’antropologia culturale sia, più in generale, le scienze sociali, considerate nell’arco del Novecento, indubbiamente si originano da un centro, meglio ancora, nascono da una cultura che si è
proposta e anche potremmo dire si è imposta come “centro” e anzi come “il centro”, rispetto a cui tutte le altre situazioni, contesti e aree si presentano invariabilmente come “periferie”. Ciò che si è autoimposto come “centro” è ovviamente
l’occidente moderno, per meglio dire la cultura della modernità, la cultura della
modernità occidentale. La modernità è in effetti la matrice storica, culturale e ideologica sia dell’antropologia culturale sia delle scienze sociali.
Vedremo più avanti – specialmente dal punto di vista dell’antropologia culturale – quali siano gli effetti di ritorno su questo “centro” e quindi le modificazioni
che la sua stessa concezione e il suo ruolo subiranno a seguito dello sviluppo del
sapere antropologico. Soffermiamoci per ora – e sia pure in modo estremamente
sommario – sul concetto di modernità intesa come matrice delle scienze sociali. Per
modernità di solito intendiamo sia un certo tipo di società (o di civiltà), sia un’era
storica, ovvero una società (o civiltà) che coincide con un periodo storico, e non
soltanto con un ambito geografico e una porzione dello spazio. Il concetto di società moderna implica una qualche rilevante cesura storica: quando si dice modernità
infatti si immagina che ci sia quanto meno un “pre-”, un “prima” della modernità.
Il concetto di modernità comporta esattamente una differenziazione cronologica e
nello stesso tempo culturale, storica nel senso più pregnante: se parliamo di noi
come di “noi moderni”, inevitabilmente ci riferiamo ad altri o ad altre società che,
rispetto a noi, non sarebbero altro che fasi le quali avrebbero appunto preceduto la
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Francesco Remotti
modernità. Non si tratta tuttavia di una semplice constatazione di fatto, secondo la
quale in effetti molte società ci avrebbero preceduto nel corso della storia: la pre- modernità indica, insieme a una differenziazione cronologica, anche una differenziazione
antropologica, e questo conferisce alla differenziazione storica PM//M (pre-modernità // modernità) una pregnanza del tutto particolare.
Volendo analizzare un po’ più da vicino alcune implicazioni di questa
differenziazione storico-antropologica, risulta evidente che la modernità concepisce la differenziazione su cui è costituita come diversa dalle altre. Questa collocazione storica della modernità – tale per cui esistono “prima” le società PM – si
collega all’idea che la differenza PM//M sia una differenza assai più forte, marcata e
decisiva, rispetto a qualsiasi altra differenza che intercorre tra le altre società: le
altre società possono certamente differenziarsi tra loro, ma le loro differenze non
sono storicamente e antropologicamente così importanti com’è invece la differenza
che separa PM da M. Le altre differenze non sono in grado di fare quello che fa
invece la differenza PM//M: le altre differenze, meno potenti, differenziano soltanto alcune società da alcune altre; la differenza PM//M invece separa la società M da
tutte le altre società PM. La differenza PM//M è tanto energica da cancellare le altre
differenze, finendo per raggruppare le altre società e metterle insieme in una stessa
categoria (PM), la quale si definisce soltanto grazie alla differenziazione prodotta
da M. Non solo, ma questa differenziazione della modernità ha una forza ideologica tale da trasformare persino le differenze di ordine spaziale in differenze di ordine
temporale: le società contemporanee della modernità, ma aventi caratteristiche diverse, vengono ugualmente intese dalla modernità come “pre-moderne”, ricacciate
nella categoria PM insieme a società storicamente estinte e superate. In questo senso, il discrimine storico che costituisce la modernità non è solo storico-temporale,
ma anche antropologico-generale: la discontinuità, la frattura, grazie a cui si costruisce la modernità, riguarda qualsivoglia tipo di società, indipendentemente da
genealogie e derivazioni storiche, e questo perché la modernità si autorappresenta
come una società (o come una civiltà) del tutto inedita nella storia dell’umanità.
Vediamo ora alcuni temi tipici dell’autorappresentazione della società moderna, con l’avvertenza che si tratta appunto di autorappresentazione, da cui occorre in buona misura prendere le distanze: si tratta infatti di elementi dell’immagine
che la cultura della modernità ha elaborato di se stessa. Modernità vuol dire, per
esempio, un tipo di società in cui verrebbe dato il massimo risalto all’individuo, alla
sua libertà, ai suoi diritti insopprimibili, alla sua iniziativa, alla sua inventiva, anche
in contrasto con il corpo sociale in cui è inserito; al contrario, le altre società sarebbero caratterizzate da un conformismo pressoché totale, da un adeguamento, appiattimento e quasi annullamento dell’individuo rispetto alle direttive e alle norme
sociali. Dal punto di vista politico, la modernità si è auto-rappresentata fondamentalmente come una società democratica, in grado di dare luogo in maniera compiuta e definitiva alle istituzioni e alle tecniche politiche della democrazia (il
parlamentarismo, per esempio), considerando le altre società in preda ad assolutismi,
dispotismi (dal dispotismo orientale al dispotismo africano) o, in alternativa, come
121
Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale e sociologia del ‘900
quasi del tutto prive di organizzazione politica. Dal punto di vista economico, è
sufficiente evocare le trasformazioni coincidenti con la rivoluzione industriale, concepita come il vero propulsore della modernità, l’incremento della ricchezza, degli
scambi e del commercio, e insieme a tutto ciò lo sviluppo del pensiero economico
(l’economia classica) che vede nel “calcolo” economico da parte degli individui, i
quali perseguono i propri interessi, l’elemento di razionalità e insieme di benessere
della società moderna. Anche attraverso l’economia (ma non solo) la modernità
offre di sé l’immagine di una società che potremmo definire fondamentalmente
antitradizionale o antitradizionalista, cioè come una società che si oppone alle tradizioni, ai modi di vita tradizionali: e non a questa o a quella tradizione storica
soltanto, ma alle tradizioni in quanto tali, al dominio delle tradizioni, al principio
delle tradizioni.
Si ritiene, infatti, che la modernità emerga sulla scena storica esattamente
quando vengono fatti valere principi o meccanismi di regolazione e di sviluppo
della vita sociale, economica e intellettuale indipendenti dai vincoli delle tradizioni
e di costumi locali. Tradizionalismi (influenza di tradizioni storiche particolari) e
localismi (prevalere di costumi legati a luoghi particolari) sono le condizioni che
contraddistinguono le società premoderne, arretrate e contro cui la modernità ritiene di far valere un’impostazione libera, razionale, aperta al futuro, alla realizzazione più autentica e vantaggiosa dell’umanità. In diverse occasioni e in diversi autori la modernità si autorappresenta davvero come una società sostanzialmente priva di costumi tradizionali, liberata finalmente dal peso delle consuetudini e delle
tradizioni: costumi e tradizioni sarebbero destinati a sparire nella società moderna
a seguito di un’estinzione progressiva (una specie di morte naturale) o a seguito
invece di un programma di distruzione da parte delle forze di trasformazione della
società moderna. In definitiva, la modernità si autorappresenta come la civiltà in cui
si sarebbe sviluppato in pieno lo spirito razionale: nei più diversi campi, la razionalità è, infatti, intesa esattamente come il fattore anti-tradizionale per eccellenza,
come il fattore di distruzione dei costumi, come ciò che maggiormente produce la
frattura, scava il solco, lo iato rispetto al passato e al prevalere dei principi
tradizionalisti (ammantati – come spesso si ritiene – di un’aura di sacralità religiosa
o di oscurantismo e di magia).
A questo proposito vale la pena citare un autore molto importante e significativo, Max Weber, il quale affermava esplicitamente che solo in Occidente e solo
nell’Occidente moderno si sarebbero realizzate in pieno quelle forme di razionalità
che invece altrove sono per lo più assenti o si sono realizzate in maniera molto
parziale e aurorale. Per Weber, è del tutto evidente la razionalità che impronta di sé
la struttura politica della modernità, la sua organizzazione economica, persino l’arte e, più in generale, il pensiero moderno nelle sue varie forme e sviluppi. Ma – per
Weber, come per tutti gli autori della modernità – la razionalità si palesa nel modo
più evidente, diretto e immediatamente efficace in quello che viene ritenuto il prodotto più esclusivo della modernità, cioè la scienza. Molti autori della modernità
sono anche disposti ad ammettere che la civiltà moderna condivide con altre società
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Francesco Remotti
una molteplicità di tratti e di caratteristiche: un elemento tuttavia essi ritengono che
sia esclusivamente moderno, e questo è la scienza. Di certo, anche altrove sono
possibili tradizioni scientifiche (caso emblematico sarebbe quello della civiltà cinese); ma agli occhi degli autori della modernità (filosofi, storici, sociologi, antropologi)
si tratta per l’appunto di forme “tradizionali”, ovvero di un sapere scientifico di
livello inferiore, non pienamente realizzato, un sapere scientifico rimasto bloccato,
intrappolato dalle tradizioni, e per questo vincolato ai condizionamenti culturali,
storici, politici o religiosi, sempre particolari, tipici delle società in cui è timidamente affiorato. Invece nell’Occidente moderno la scienza riesce a sganciarsi dalle tradizioni e, portando a piena realizzazione i principi della razionalità umana, a provocare quella spaccatura e quella separazione che allontana la modernità da tutte le
altre manifestazioni sociali e culturali umane.
In questo complesso storico – fatto nel contempo di eventi, di processi di
varia natura, ma anche di immagini, di prospettive ideologiche generali e di
autorappresentazioni – si può dire che sorgono anche le scienze sociali. Quando –
come abbiamo fatto finora – noi parliamo di scienza e di sviluppo scientifico a
proposito della modernità, quasi inevitabilmente ci riferiamo alle scienze naturali,
anche perché – come si è soliti sostenere – sotto il profilo storico sono quelle che
per prime si sarebbero imposte. Occorre sottolineare fin da subito che una visione
di questo genere, secondo cui prima si sarebbero sviluppate le scienze naturali e poi
le scienze sociali, tra cui soprattutto sociologia e antropologia culturale, è una visione tipicamente positivistica, che andrebbe probabilmente revisionata e corretta.
Concentrandoci sulle scienze sociali, la tesi della modernità rimane comunque sempre la stessa: per gli autori che aderiscono all’immagine della modernità che abbiamo delineato sopra, vale la tesi secondo cui da nessun’altra parte, in nessun’altra
società o civiltà, si sarebbe mai venuto a formare quel complesso di scienze sociali
quali appunto la sociologia, l’antropologia, l’economia, il diritto ecc. In questa visione, anche le scienze sociali finiscono per contribuire a scavare il solco che separa
la modernità da qualsiasi altra società o cultura. La modernità sarebbe una società
inedita, mai vista prima storicamente, una società completamente diversa da quelle
che l’hanno preceduta, in quanto sviluppa un sapere scientifico che non si rivolge
soltanto alla natura, ma anche alla società, alle sue strutture, alle sue funzioni, ai
suoi meccanismi.
In fondo, si ritiene che, grazie a questo tipo di sviluppo scientifico (quello
delle scienze sociali) la modernità può sganciarsi dalle tradizioni, liberarsi dai lacci
dei costumi. Con le scienze sociali tradizioni e costumi arretrano e si volatilizzano:
essi non sono più lì a guidare le azioni degli uomini della modernità. Al posto di
tradizioni e costumi, le azioni degli uomini in società appaiono guidate da scelte,
calcoli e prospettive razionali, che le scienze sociali tendono non solo a studiare, ma
a ispirare e a insegnare. Spodestati dalla razionalità sociale, tradizioni e costumi
tendono a ridursi a semplici “sopravvivenze”, a testimonianze di un passato ormai
tramontato e sepolto. Isole o isolotti destinati a scomparire nel mare della razionalità moderna, essi sarebbero la testimonianza non soltanto di un passato, ma anche
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Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale e sociologia del ‘900
di forme di umanità (dominate da superstizioni magiche o da sacralità religiosa)
con cui la modernità (razionale) ritiene di avere ben poco da spartire: forme di
umanità (là dove sopravvivono) alla deriva, ai margini della storia, sopraffatte da
un’umanità irrimediabilmente diversa e trionfante sui costumi che finora l’avrebbero schiacciata e resa deforme; forme di umanità del tutto improponibili, il cui
interesse scientifico pare essere alla fine quasi soltanto di tipo archeologico, in grado di farci capire la distanza che – anche grazie alle scienze sociali – separa “noi
moderni” da tutti gli altri.
Sociologia e antropologia culturale nascono in questo complesso storico e
culturale della modernità; e nascono già subito con una distinzione piuttosto netta
di interessi e di prospettive. Da una parte la sociologia si configura soprattutto come
uno studio che concerne le trasformazioni indotte dalla modernità: i sociologi sono
soprattutto coloro che intendono porre sotto osservazione e analizzare quel tipo di
società storicamente inedito, che è appunto la modernità. Se la modernità ha provocato la frattura rispetto alle altre società e rispetto al passato, la sociologia è la scienza sociale che indaga per certi versi la frattura, i meccanismi che l’hanno prodotta e
continuano a produrla, qui e altrove (vedi gli studi dei processi di modernizzazione),
nonché il tipo di società che ne deriva. Non è (o non è stato) estraneo alla sociologia
l’ambizione di presentarsi come un sapere sociale che guida la modernizzazione o
che comunque contribuisce a chiarirne linee, problemi e processi di sviluppo.
L’antropologia culturale, che grosso modo possiamo dire che emerge tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento negli Stati Uniti d’America, e l’antropologia sociale, che più o meno negli stessi anni si presenta in Gran Bretagna, si
caratterizzano fin da subito per una predilezione accentuata per le società “altre”,
per le società rimaste ai margini rispetto al continente della “modernità”: le società
PM così radicalmente diverse dalla società M. Come i sociologi e in generale gli
scienziati sociali, anche gli antropologi si formano nelle istituzioni culturali della
modernità, nel cuore della modernità. Ma mentre i sociologi e gli scienziati sociali
fissano lo sguardo sulla modernità, sulle sue caratteristiche e sui suoi processi, gli
antropologi prolungano il loro sguardo al di là della frattura prodotta dalla modernità. In un certo senso, possiamo dire che l’antropologia culturale o sociale, almeno
ai loro inizi, coinciderebbero con lo sguardo che la modernità (M) proietta sulle
altre società (PM).
Ciò che si verifica tra sociologia e antropologia culturale (o sociale) è una
sorta di divisione del lavoro, basata sulla condivisione di una comune classificazione delle società proposta dalla stessa modernità. Prima abbiamo visto operare una
tipologia dicotomica, coincidente con la distinzione molto netta tra società moderna (M) e società premoderne (PM); ora possiamo prendere in considerazione una
classificazione leggermente più articolata, fondata su una tripartizione. A tutti è
nota l’espressione “Terzo Mondo”, un’espressione ricorrente in vari tipi di analisi e
di discorsi. Perché “terzo” mondo? Che cosa significa “terzo”? Se c’è un “terzo”
mondo, ciò significa che esistono allora un “primo” mondo e un “secondo” mondo, a cui le società del “terzo” per definizione non appartengono. Significativamen124
Francesco Remotti
te, il “primo” mondo coincide con la società occidentale, moderna e capitalistica: è
il mondo in cui le istanze e le tendenze della modernità si sarebbero realizzate più
compiutamente. Quando è stata elaborata l’espressione Terzo Mondo (dopo la Seconda Guerra Mondiale) vi era ancora l’Unione Sovietica: il “secondo” mondo designa – o designava – in generale i paesi socialisti. Nella classificazione proposta il
“secondo” mondo era una categoria intermedia, a metà strada tra il “primo” mondo quello della modernità dispiegata, pienamente realizzata, e il mondo delle società tradizionali. Da un punto di vista tecnologico, l’Unione Sovietica veniva considerata come una società in via di accelerata modernizzazione (pensiamo, per esempio, ai successi di quel paese in campo spaziale e in campo militare), una società
dunque che già aveva messo un piede, e anche in modo pesante, nella modernità.
Da un punto di vista ideologico e da un punto di vista politico, il mondo socialista
veniva invece considerato davvero come un “secondo” mondo, come un mondo
che, a causa dell’autoritarismo, del dispotismo, del totalitarismo, del militarismo,
manterrebbe ancora un piede nelle società tradizionali. Infine, al di là del “primo” e
del “secondo” mondo, vi sarebbe il “terzo” mondo, il mondo dell’arretratezza e del
sottosviluppo nei più diversi settori (tecnologico, economico, politico, culturale,
sociale). La nozione di “sottosviluppo”, con cui si designa il “terzo” mondo, è ovviamente opposta a quelle di “sviluppo” e di “progresso”, che invece caratterizzano
il “primo” mondo. Ciascuna di queste nozioni è a sua volta organicamente collegata alle condizioni che le rendono possibili. Così il “sottosviluppo” del “terzo” mondo” è collegato alla presenza oscurantistica di costumi e tradizioni locali, mentre lo
“sviluppo” o il “progresso” del “primo” mondo sarebbero dovuti allo spirito critico, alla razionalità e alla scienza, che bruciano e buttano via le tradizioni e i costumi.
Questa impostazione in termini di “sviluppo” e “sottosviluppo”, di “progresso” e “arretratezza”, di “modernità” e “tradizionalismo” è in gran parte fatta
propria dalle scienze sociali in generale, le quali – come si è detto – si sono formate
all’interno della modernità e della sua visione del mondo e della storia. Sotto questo
profilo, è riscontrabile una certa divergenza da parte dell’antropologia culturale (o
sociale). Fin nei primi decenni di formazione è stata osservata una più netta predilezione del sapere antropologico per le varietà locali e per i dettagli culturali a confronto della sociologia, più portata forse a una teorizzazione in termini generali e
astratti: il gusto per il concreto e per il particolare e – diciamo pure – per l’esotico ha
contrassegnato fin dall’inizio l’indagine antropologica. Ai grandi sociologi del
Novecento, costruttori talvolta di imponenti edifici teorici (un nome per tutti: Talcott
Parsons, per esempio), non interessavano minimamente i piccoli angoli di mondo
in cui invece gli antropologi culturali avevano cominciato a intrufolarsi. Gli
antropologi culturali sono coloro che vanno a rovistare nei piccoli angoli di mondo, nei villaggi dell’Africa, nelle isole della Polinesia, nelle radure della foresta
amazzonica: angoli di mondo dove ancora vigono costumi e tradizioni locali. Sotto
questo profilo, l’antropologia culturale si presenta come una scienza sociale in un
certo senso un po’ “attardata”, poiché ha continuamente a che fare con comporta125
Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale e sociologia del ‘900
menti, idee, credenze, istituzioni molto locali e particolari, tipici di situazioni che la
modernità non esiterebbe a qualificare come “arretrate”. È significativo ricordare
che molti antropologi hanno definito se stessi o la propria disciplina in termini
volutamente o provocatoriamente peggiorativi. Antropologia come “scienza dei
rimasugli” (Clyde Kluckhohn) è una definizione che corrisponde bene al tipo di
oggetti di cui questo sapere va alla ricerca, evocando nello stesso tempo, sia pure in
maniera implicita, il punto di vista a partire dal quale questa definizione viene elaborata. Che cosa sono infatti quegli angoli di mondo in cui persistono, spesso in
condizioni frammentate, costumi, tradizioni, credenze, istituzioni tipici di società
storicamente marginali, alla deriva? Gli antropologi hanno anche definito se stessi
come gli “straccivendoli” della storia, in quanto vanno a frugare nelle “pattumiere”
della storia (Lévi-Strauss), in quanto, anziché rivolgersi alla modernità, al suo progresso, al suo sviluppo, preferiscono indagare i “rifiuti” della storia della modernità. Gli antropologi si sono pure definiti come i “mercanti dello stupore” (Clifford
Geertz), come coloro che vanno altrove, nelle società lontane ed esotiche, per raccogliere “stranezze”, “bizzarrie”, qualcosa che suscita meraviglia e stupore, come
sono appunto i costumi più strani e incredibili, di cui fanno incetta gli antropologi.
Gli antropologi prediligono le “deviazioni”, invece che la strada maestra, quella
che la modernità ritiene di percorrere e anzi di tracciare a vantaggio di tutta l’umanità. Gli antropologi preferiscono le strade laterali, forse anche i vicoli ciechi: tali
appaiono, agli occhi di “noi moderni”, le strade alternative e devianti rispetto alla
modernità; strade improponibili, non più percorribili per coloro stessi che con le
loro culture particolari vi si sono incamminati. Marshall Sahlins ha parlato a questo
proposito di quell’immensa “deviazione” che sarebbe l’antropologia, abituata fin
dai suoi inizi ha frequentare ciò che egli chiama le “periferie dell’umanità”.
Sahlins ci riporta in questo modo al titolo della nostra conversazione, definendo gli antropologi come coloro che si spostano, che vanno dal “centro” alle
“periferie”. Così facendo, gli antropologi spostano anche il loro “centro” (il centro
dei loro interessi e soprattutto delle loro prospettive)? Oppure il centro da cui partono (la modernità) continua a prevalere nelle loro ricerche e nelle loro riflessioni,
come fonte insopprimibile dei loro metodi e dei loro concetti, come guida più o
meno segreta e ispiratrice delle loro teorie? Perché gli antropologi vanno nelle “periferie dell’umanità”? Davvero il loro interesse è fare incetta di rimasugli, di rifiuti e
di stranezze? La modernità – come si è già detto – tende in fondo ad
autorappresentarsi come la realizzazione più autentica dell’umanità. E che cosa gli
antropologi pensano di avere trovato e di trovare nei loro diseredati, talvolta squallidi angoli di mondo, se non la testimonianza, ancorché spesso frammentata, di
“forme di umanità” alternative rispetto a quelle incarnate nella modernità? Quando gli antropologi parlano di rimasugli, di spazzatura, di bizzarrie, di stranezze, di
deviazioni, di anomalie, in fondo rispondono a due esigenze di provocazione e di
denuncia. Da un lato (e questa è la provocazione) sottolineano il carattere marginale e residuale delle forme di umanità alternative, in quanto dovuto alla prospettiva
della modernità, la quale concepisce se stessa come la realizzazione più autentica,
126
Francesco Remotti
soddisfacente e vantaggiosa dell’umanità: un po’ come dire, le culture altre, proprio
in quanto alternative, “appaiono” come rifiuti e spazzatura dal punto di vista di
quella cultura che si considera come il “centro”, la “strada maestra”, il fiume principale della storia del mondo, destinato a convogliare in sé o a travolgere ogni altro
percorso o tracciato. Dall’altro lato, parlare di rimasugli, di rifiuti, di spazzatura
significa anche (e qui è la denuncia) parlare di condizioni che si sono realmente
verificate: gli “altri” non sono frammenti e bizzarrie soltanto perché tali appaiono
allo sguardo della modernità, ma sono stati resi tali (rifiuti, spazzatura) a causa delle
trasformazioni e delle distruzioni portate dalla modernità. La società moderna non
si è limitata a “guardare”; nel suo espansionismo a livello mondiale ha “fatto”, “agito”, “costruito”, “trasformato”, “distrutto”. “Noi moderni” vediamo “spazzatura” negli angoli di mondo in cui ci imbattiamo e, nello stesso tempo, trasformando
e distruggendo le loro culture, ne facciamo “rimasugli”, “scarti”, “rifiuti”. La “visione” e l’“azione” della modernità nei confronti degli altri ottengono lo stesso
effetto frammentante e distruttivo: ciò che è considerato intellettualmente spazzatura ha da essere distrutto, eliminato, spazzato via, così da non ingombrare la strada
maestra della modernità.
La modernità – è bene sottolineare – conosce un proselitismo molto accentuato. I fautori della modernità non si accontentano di dire: “noi siamo fatti così”,
“noi abbiamo realizzato forme di progresso” (per esempio, in campo tecnologico,
economico, scientifico). I fautori della modernità sostengono che ciò che stiamo
realizzando è la manifestazione più ampia della razionalità, la realizzazione dell’umanità più autentica e vantaggiosa per tutti. Una società che si auto-rappresenta
in questo modo si pone immediatamente come punto di riferimento ineludibile e
come motore di trasformazioni indispensabili a livello mondiale: non solo la modernità è legittimata (si è autolegittimata) a operare come ha operato, ma è tenuta
(ritiene di essere tenuta, come una sorta di dovere storico imprescindibile) a proporre e imporre le proprie scelte e le proprie soluzioni. Se consideriamo la storia
delle società occidentali nei secoli della modernità (dalla scoperta dell’America in
avanti), è difficile sottrarsi all’impressione di un proselitismo fiero, caparbio, forsennato e distruttore: una sorta di cogite intrare (“costringeteli a entrare”), per usare l’espressione che Sant’Agostino ricavava dal vangelo di Luca e che a sua volta
applicava contro gli eretici del suo tempo. La modernità non sopporta le culture
particolari, devianti, “eretiche” rispetto al destino storico che essa rappresenta e
realizza, e rispetto al quale le altre società dovrebbero appunto adeguarsi, volenti o
nolenti.
Gli antropologi, che pure nascono dalla modernità, sono coloro che intravedono, ed anzi osservano e analizzano in concreto, possibilità alternative di
impostazione o di configurazione dell’umanità. Inviati in un certo senso a studiare
gli “altri” per misurarne la distanza da “noi”, colgono negli altri la loro
“incommensurabilità”: gli altri non sono “arretrati”; sono invece “alternativi” e la
loro stessa presenza storica da qualche parte nel mondo è la dimostrazione palpabile
e vivente di strade differenti. Può essere utile, sotto questo profilo, ritornare sul
127
Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale e sociologia del ‘900
gesto di fondazione dell’antropologia culturale: l’invenzione e l’applicazione del
concetto di “cultura” per descrivere ciò che in apparenza potrebbero davvero sembrare soltanto rimasugli e spazzatura. Quelle bizzarrie non sono “spazzatura”: sono
“cultura”. Il concetto di cultura, così come lo definisce Edward B. Tylor nel 1871,
obbliga a vedere le “stranezze” degli altri in un altro modo. Non si tratta più di cose
inspiegate e incomprensibili: si tratta invece di elementi (comportamenti, credenze,
valori, in generale costumi) che gli uomini apprendono per il fatto stesso di vivere
in una determinata società. Nella definizione di Tylor queste stranezze si compongono in un “insieme complesso”: c’è organicità nel complesso, c’è una logica di
insieme; gli elementi non sono sparsi e frammentati, casuali e del tutto arbitrari, ma
si richiamano tra loro, in quanto rispondono a forme di pensiero, a mentalità che
vengono “coltivate”. Significativamente, proprio in Tylor, l’inventore della definizione antropologica del concetto di cultura, troviamo già la metafora della “spazzatura” a proposito dei fenomeni di cui si occupano gli antropologi. Ma ancor più
significativamente, grazie al suo concetto di cultura Tylor può sostenere che le religioni “primitive” (quelle che allora venivano chiamate religioni primitive) non sono
affatto “un mucchio di spazzatura di svariate follie”: nonostante la loro indubbia
stranezza! Non sono un “mucchio”: al contrario, sono qualcosa di organico, di
sistematico. Non sono “spazzatura”: quindi hanno un valore intrinseco. Non sono
“follie”: cioè hanno un significato, una logica, che va capita, e forse anche apprezzata, da parte di “noi, moderni”.
Se la cultura (attribuire cultura agli altri) rappresenta – come si è detto – un
gesto di fondazione dell’antropologia culturale, quasi subito assistiamo, da parte
della cultura della modernità, a un gesto di separazione. La modernità si separa
dalla cultura, così come un tempo si era separata dai costumi: la modernità non
vuole saperne di “cultura”, perché, così come viene definita dagli antropologi, è
qualcosa che riguarda gli altri. Non si usa più il termine “costumi”; al suo posto si
impiega il termine “cultura”: in ogni caso (che si tratti di costumi o di cultura), la
faccenda non ci riguarda, o ci riguarda assai poco. Certo, anche per “noi moderni”
si parla di cultura; anzi, è a proposito della modernità che si può/ si deve parlare di
cultura. Ma la cultura di “noi moderni” non è la cultura dei costumi, fatta di costumi e di tradizioni (secondo la definizione degli antropologi); è invece la “cultura
della ragione” (secondo la definizione di filosofi come Bacone, Cartesio, Kant ecc.).
Insomma, sono due concetti molto diversi, quasi in opposizione tra loro; la differenza dipende infatti da che cosa si “coltiva”: se si coltivano i costumi (sempre
particolari e locali) o se si coltiva la ragione (generale e universale). Con questo
gesto di separazione la modernità si barrica, si difende. L’uso del concetto di cultura
da parte degli antropologi si configura come una sorta di minaccia nei confronti del
senso di unicità e di esclusività di “noi moderni”. Attribuire cultura agli “altri”,
chiamati fino a poco prima “popoli di natura” (Naturvölker) o “selvaggi”, significa
avvicinarli in una certa misura a noi, anche se l’appellativo di “primitivi” contribuisce a ristabilire le distanze. Ora essi diventano, per così dire, “popoli di cultura” (in
senso antropologico), mentre la modernità si rifugia a sua volta nella natura, riven128
Francesco Remotti
dicando per sé importanti caratteristiche di naturalità, dovute all’impiego della ragione (alla cultura della ragione): a differenza delle società primitive, impregnate di
costumi e quindi di cultura (in senso antropologico), la modernità ritiene di dar
luogo a una società libera dai costumi e quindi “naturale”. È curioso questo rovesciamento di attribuzione di cultura e natura: in certi contesti e per certi aspetti la
modernità vede i selvaggi come “popoli di natura”, mentre in altri contesti e per
altri aspetti attribuisce a se stessa la naturalità, nello stesso tempo in cui i selvaggi
diventano “popoli di cultura”. Ciò che conta in questo gioco di rovesciamenti è
l’opposizione, ovvero la separazione tra noi e gli altri.
Con gli antropologi il concetto di cultura, applicato sistematicamente a
qualsivoglia tipo di società umana, manifesta una notevole e generalizzata capacità
di estensione: se si applica a ogni tipo di società, perché non anche alla modernità?
Perché mai la modernità dovrebbe essere immune dalla cultura in senso antropologico? Nel Novecento il concetto antropologico di cultura comincia a uscire dal
campo strettamente etnologico per infiltrarsi nella modernità, ed entrando nella
modernità comincia a entrare in competizione con altri concetti, come quello di
ragione o come quello di storia, con cui la modernità aveva descritto se stessa. Nel
Novecento assistiamo a un uso sempre più generalizzato del concetto di cultura (in
senso antropologico) non solo da parte degli antropologi, ma anche da parte di
storici e di sociologi, di filosofi e di economisti. E mediante questo uso generalizzato la modernità appare sempre avvolta di cultura, fatta anch’essa di cultura: una
“società di cultura” insomma proprio come le altre società del mondo. Questa dilatazione del concetto di cultura dai “primitivi” ai “moderni” (in un certo senso, una
specie di ritorno di un concetto che, formulato dal “centro” ed esteso alla “periferia”, ritorna al “centro”) ha delle implicazioni molto profonde. Quando si comincia ad applicare il concetto di cultura (in senso antropologico) alla modernità, si
comincia a sgretolare nello stesso tempo i pilastri dell’autorappresentazione della
modernità. E questo perché la cultura in senso antropologico rifiuta l’universalità,
così come rifiuta la naturalità. Se anche la modernità è culturale, essa non può più
rivendicare quelle dimensioni di universalità e di naturalità che la facevano apparire
ai suoi stessi occhi come radicalmente diversa da qualsiasi altra società o cultura.
Nessuna cultura, intesa in senso antropologico, può essere considerata universale,
avente cioè un valore universale, e ciò nonostante le sue ambizioni o le sue aspirazioni. Con il concetto antropologico di cultura applicato alla modernità si assiste a
un ritorno, nel recinto della modernità, di tradizioni, di costumi, di rituali. La società moderna aveva sempre concepito se stessa non solo come anti-tradizionalista,
ma anche come anti-ritualista. Ora questa immagine viene negata dalle analisi sempre più dettagliate di tradizioni e di rituali, tanto nella sfera del comportamento e
dell’azione, quanto in quella del pensiero e delle credenze. Lo sviluppo della scienza (ancora una volta) era stato concepito come il più potente fattore di liberazione
dai rituali nella società moderna: non c’è più bisogno di seguire dei rituali (prodotti
tipicamente sociali o fenomeni tipicamente culturali) nella misura in cui la scienza
ci pone a più diretto contatto con la natura, con i suoi ritmi, i suoi meccanismi, i
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Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale e sociologia del ‘900
suoi processi. Se persistono dei rituali – si pensava – è solo perché esistono delle
“sopravvivenze” per lo più ininfluenti. Ma l’uso del concetto di cultura nell’ambito
della modernità fa vedere dei rituali un po’ dappertutto: altro che sopravvivenze;
essi appaiono sempre più come una dimensione irrinunciabile o ineludibile dello
stesso agire sociale, di qualsivoglia tipo di società. E ciò che vale per i riti (riti
costitutivi, per esempio, della vita politica moderna), vale anche i miti. Due filosofi
tedeschi, assai vicini alla sociologia (più che non all’antropologia), Theodor W.
Adorno e Max Horkheimer, avevano messo in luce esattamente il mito della modernità (ovvero la stessa modernità concepita come creatrice di miti), proprio nella
misura in cui la modernità rappresenta se stessa come una società che non ha nulla
a che vedere con i miti.
L’infiltrazione del concetto antropologico di cultura ha riguardato vari ambiti della modernità: miti, riti, costumi tanto della vita quotidiana, quanto della vita
politica. La modernità è così costretta a cedere spazi sempre maggiori alla dilatazione del concetto di cultura. Di fronte a questo avanzare della cultura nella modernità, sembra resistere la sua roccaforte più importante: la scienza. Tutto si può concedere alla cultura (in senso antropologico): dalla politica all’arte, dalla letteratura al
comportamento quotidiano, non però la scienza. La scienza no, la scienza ha da
rimanere come il nucleo inalienabile della modernità, un’isola di verità e di ragione
su cui la modernità ha costruito se stessa e su quell’isola non ci possono essere riti,
miti, costumi, tradizioni: lì non c’è cultura in senso antropologico, lì non c’è spazzatura; lì c’è ordine, lì c’è regolarità, lì ci sono leggi. Ma questa immagine ha retto di
fronte alla pressione del concetto antropologico di cultura? Karl Popper è colui che
già intravede, alla base del sapere scientifico, la presenza di costumi, tradizioni, idee
ricevute o elaborate in maniera acritica: egli riconosce che alla base è presente la
cultura in senso antropologico. Ma Popper salva tutta quanta la scienza moderna
affermando che essa è l’unico sapere programmaticamente in grado di falsificarsi: il
principio di falsificazione – quello per il quale il sapere scientifico è programmato
in modo da produrre la falsificazione delle proprie idee – è ciò che consente, ancora
una volta, di “separare” la scienza da qualsiasi altra forma di sapere. Senza questo
programma di auto-falsificazione, anche la scienza moderna si ridurrebbe ad essere
null’altro che sapere mitologico, di tipo tradizionale: senza autofalsificazione, le
idee che la scienza “coltiva” non sono poi tante diverse da quelle dei miti e delle
credenze che gli antropologi indagano nelle più diverse società. Con Popper si ha
una sorta di difesa estrema della scienza e della modernità verso l’accerchiamento
sempre più stretto della cultura in senso antropologico.
Ma la scienza è davvero organizzata sulla base del principio di falsificabilità?
Normalmente, la scienza fa davvero di tutto per falsificare le proprie idee? È normale aspettarsi questo continuo processo di autodistruzione da parte della scienza?
È concepibile una scienza di questo genere? Come sarebbero possibili i suoi risultati e i suoi progressi, se davvero essa fosse costantemente impegnata a distruggere
(a falsificare e a buttare via) le ipotesi via via formulate? Oppure, di norma la scienza cerca di difendere le proprie idee, di mantenere le impostazioni generali che si
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Francesco Remotti
dà? A queste domande risponde un libro molto importante di Thomas Kuhn, intitolato (nella traduzione italiana) La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Curiosamente – e siamo ormai nella seconda metà del Novecento – è lo stesso anno (1962)
in cui viene pubblicato Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss, nel quale
l’antropologo francese pone in luce il lavorio scientifico che noi troviamo nelle
società un tempo definite primitive, negli angoli di mondo rimasti fuori dalle grandi trasformazioni storiche. Famoso è l’esempio degli Hanunoo delle Filippine, i
quali – abitatori di foresta – hanno elaborato un sapere botanico rispetto al quale la
nostra botanica, ufficiale e “scientifica”, si rivela assai meno raffinata per quanto
riguarda la capacità di classificazione. In questo modo, l’antropologo avverte i fautori della modernità che anche nelle altre società, nelle società considerate fino ad
ora selvagge e primitive, vi è un’operosa attività scientifica, uno spirito scientifico
che senza dubbio non realizza le grandi opere della scienza moderna e che tuttavia
agisce per fornire mezzi indispensabili di orientamento nel mondo anche in quelle
società in apparenza prive di scrittura e di calcolo matematico. Con il suo lavoro su
Il pensiero selvaggio Lévi-Strauss dimostra che la scienza non si concentra soltanto
nella civiltà moderna occidentale, né soltanto nelle grandi civiltà (antiche o moderne) di altre parti del mondo: vi è scienza in non importa quale società, in non importa quale angolo di mondo. Lo spirito scientifico – inteso a conoscere il mondo
che ci circonda, anche al di là delle immediate esigenze strumentali – è intrinsecamente connaturato a qualsiasi cultura.
Thomas Kuhn, storico e filosofo della scienza, compie un’altra operazione.
Egli si concentra sulla storia della scienza occidentale moderna, e analizzando certi
suoi momenti dimostra che anche la scienza, e in particolare la scienza moderna,
non è un sapere disincarnato e astratto, determinato dalla struttura generale del
mondo, che si rivela non appena la si guardi o analizzi con accuratezza metodologica.
La scienza è invece sempre l’espressione di determinate e particolari “comunità”
scientifiche, fatte di uomini che agiscono e pensano sulla base di idee condivise. Il
fatto stesso di utilizzare il termine “comunità” denota in Kuhn una sensibilità – che
non troviamo, per esempio, in Popper – per il linguaggio delle scienze sociali: con
Kuhn la scienza, finora sottratta all’attenzione di un sapere che non fosse di tipo
filosofico (epistemologico) e storico, viene sottomessa invece a un’analisi che risente delle scienze sociali e umane. Quando poi Kuhn sostiene che le comunità scientifiche sono caratterizzate dall’elaborazione e dall’adozione di paradigmi specifici e
che i paradigmi sono impostazioni di ordine generale che non derivano dalla natura, egli avvicina ancor più la scienza alle altre manifestazioni culturali delle società
umane. Kuhn ha poi dimostrato come nella scienza vi sia continuamente un conflitto tra paradigmi, tra paradigmi alternativi, e questo deriva dal fatto che, essendo
i paradigmi frutto di scelte e di selezioni, non di imposizioni della natura o della
realtà, essi sono sempre intrinsecamente contestabili. Parallelamente alle nozioni di
comunità e di paradigmi, Kuhn ha quindi rilevato come anche nella scienza esistano tradizioni: le comunità scientifiche, in quanto utilizzano certi paradigmi, sviluppano vere e proprie tradizioni, veri e propri costumi, veri e propri rituali. Egli ha
131
Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale e sociologia del ‘900
posto in luce come tutto ciò abbia a che fare sostanzialmente con la cultura, così
come è intesa dagli antropologi. Questo concetto, inizialmente applicato soltanto a
società lontane da noi, penetra dunque non solo nella modernità, nel corpo della
modernità in generale, bensì nel cuore della modernità, cioè nella scienza.
In un altro filosofo della scienza del Novecento, Paul Feyerabend, troviamo
un’apertura ancora maggiore nei confronti di una considerazione antropologica
della scienza moderna. In un libro molto importante, qual è stato Contro il metodo
(1975), Feyerabend invita esplicitamente gli antropologi (come Lévi-Strauss ed
Evans-Pritchard) ad occuparsi non solo delle loro solite tribù (i Nambikwara del
Mato Grosso o i Nuer del Sudan), ma anche di quelle altrettanto strane tribù, quali
sono, per esempio, le comunità scientifiche dei fisici quantistici. Tutto ciò ovviamente non è irrazionalismo a buon mercato (per quanto mi riguarda, vorrei distinguermi da qualsiasi deriva di tipo irrazionalistico); è invece una riconsiderazione
della stessa razionalità in termini più contenuti. L’idea è in fondo che ci sono forme
diverse di razionalità e di sviluppo scientifico. Feyerabend era molto interessato
proprio a questo tema della molteplicità di scelte possibili: il modo con cui si è
sviluppata la scienza in Occidente non è l’unico possibile. E così nella scienza, nel
cuore della modernità, si impone la tesi che gli antropologi (dopo la crisi dell’evoluzionismo) avevano da sempre sostenuto in considerazione delle altre società, ovvero quella della molteplicità delle vie possibili. Se per i fautori della modernità esiste
indubbiamente una strada maestra, per gli antropologi e per quei filosofi della scienza
che, come Thomas Kuhn e Paul Feyerabend, si sono dimostrati più vicini all’insegnamento dell’antropologia, la strada maestra esiste solo in quanto di fatto, e provvisoriamente, si impone una qualche direzione. Sotto questo profilo è d’obbligo
evocare un altro filosofo del Novecento, che agli antropologi di solito piace molto:
Ludwig Wittgenstein, il quale sosteneva che solo per una sorta di illusione ottica
noi riteniamo di percorrere una strada maestra: noi siamo su una certa strada e
pensiamo che quella sia la strada maestra, ma in realtà non facciamo altro che percorrere una qualche strada laterale. Non esistono strade maestre; esistono soltanto
tante strade laterali.
Con lo sviluppo del senso delle possibilità, la modernità così come viene
considerata dagli antropologi e da coloro che risentono dell’antropologia, cessa di
apparire come portatrice di valori universali. “Noi moderni”, anziché separarci dagli
“altri” (selvaggi, primitivi: gli “scarti” della modernità e della storia), finiamo nel
“mucchio” insieme agli altri. La modernità non appare più come un continente a sé,
a parte, ma diventa invece una società in mezzo alle altre; e la nozione di “centro”,
da cui siamo partiti, con la nozione opposta di “periferia” subisce per un verso un
declino e per un altro verso una plurizzazione. Si è infatti sempre più disposti a
riconoscere che non vi è un unico centro, rispetto al quale tutte le altre società
sarebbero periferie (le “periferie dell’umanità”). Si riconosce invece che vi sono
molti centri, come in effetti il mondo contemporaneo sta a dimostrare. Da Clifford
Geertz a James Clifford, da Ulf Hannerz a Jean-Loup Amselle, molti antropologi
sottolineano con vigore non solo la pluralizzazione di centri, ma anche le loro in132
Francesco Remotti
trinseche connessioni. Ormai neppure a livello di auto-rappresentazione sarebbe
possibile parlare di un centro della modernità: sarebbe un’immagine del tutto inadeguata, inefficace ed obsoleta. Concludo, quindi, evocando una metafora che emerge
dal senso delle possibilità e dalla nozione di pluralizzazione, quella cioè di una rete
di connessioni, che non si limita però a collegare una pluralità di centri dati, ma che
induce pure a continue modificazioni: i centri non preesistono alla rete; i centri si
formano e si impongono al contrario grazie alla forte dinamicità della rete; i centri
di un tempo divengono le periferie di un altro momento e viceversa. Non solo, ma
la dinamicità della rete si esprime anche nel fatto che non sempre si tratta di connessioni pacifiche; anzi, spesso si tratta di connessioni conflittuali e i conflitti comportano il più delle volte lacerazioni e quindi buchi e separazioni. È indubbio quindi
che viviamo in un’epoca di “globalizzazione” – come si è soliti affermare – ovvero
in un mondo in cui ciò che avviene in un lontano angolo della terra finisce per
interessare in un modo o nell’altro anche coloro che abitano in tutt’altra parte del
pianeta. Ma, a causa della natura spesso conflittuale dei reciproci coinvolgimenti, la
rete di cui si tratta si presenta in molti casi sfilacciata e carente sul piano della comunicazione. Si tratta insomma di una rete tutt’altro che perfetta. Ma, in un momento
di crisi dei valori dell’universalità – sbandierati con tanta fiducia quando si pensava
all’esistenza di un unico centro, quello della modernità occidentale – è bene sottolineare che la rete di connessioni è ciò che soltanto ci rimane. L’idea che la sorregge
e che ci viene trasmessa è che non esiste un’isola della verità e della salvezza (come
voleva Kant). L’unico modo per salvarci dal disastro forse è quello di praticare, per
così dire, un pensiero orizzontale, trasversale rispetto alla pluralità di centri e di
culture, fatto di comunicazione interculturale, di scambio, di dialogo tra le varie
società, e fatto di tentativi di ripresa della comunicazione, non appena questa –
come è inevitabile che succeda – dimostri i suoi limiti e i suoi fallimenti. Anche nei
tentativi di ripresa del dialogo, nonostante i fallimenti, l’antropologia culturale del
Novecento, critica della Modernità, può nel secolo appena iniziato fornire il suo
contributo. E ciò sarebbe già un buon motivo di giustificazione della sua esistenza
anche per il prossimo futuro.
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134
Renzo Scarabello
La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso
di Renzo Scarabello
Io credo, innanzitutto, di dover rispondere ad una possibile, legittima obiezione, dal momento che, in questa sede, si propongono percorsi pluridisciplinari,
che hanno l’ambizione di fornire il resoconto culturale di un secolo, magari azzardando proiezioni e prospettive in direzione di futuri sviluppi. Nella variegata
sfaccettatura del panorama, è giustificata la preponderanza della poesia, o, quanto
meno, della letteratura, visto che su venti incontri, indicativi della situazione del
‘900, ben sette sono specificamente dedicati alla poesia, con sondaggi che, da
Ungaretti a Montale, dal romanzo del ‘900 a Eliot e a Yeats, recuperano à rebour
Leopardi, e addirittura Dante; e diventano dieci, l’esatta metà di quelli programmati, se vi si aggiungono teatro, storia della lingua e teoria della letteratura? Insomma,
tanto spazio concesso all’immaginario, in un itinerario novecentesco, non è un po’
sfrontato? Non è controtendenza, nell’aurora di un terzo millennio che nasce all’insegna della cibernetica, della biotecnica , della globalizzazione?
No, io credo proprio di no, perché l’immaginario di cui si nutre la poesia è
vitale per il nostro spirito, come lo è, per il nostro corpo, l’aria che respiriamo;
perché la poesia conserva, nella inesausta convertibilità della sua materia, la memoria degli uomini, cioè la loro identità, che più che di certezze si nutre di sogni, di
speranze, di ideali. Ed è a questi sentimenti, a questi sogni che danno voce i poeti,
come recita Borges in Ariosto e gli Arabi:
Nessuno può scrivere un libro. Un libro
Perché esista davvero, è necessaria
L’aurora col tramonto, secoli, armi
E il vasto mare che unisce e che divide.
Così pensava Ariosto, che al piacere
Lento si diede, nell’ozio delle vie
Di neri pini e di lucenti marmi,
di tornare a sognare il già sognato…
La letteratura, la poesia, esprimono l’autenticità, la libertà dell’uomo proprio
perché contraddicono all’arida massima leibniziana Nihil est sine ratione, perché il
calcolo, la verità assoluta, matematica, rendono il mondo piccolo, tarpano le ali
della speranza, e insinuano la depressione, tolgono, insomma, la gioia, il piacere
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La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso
della vita, disponendo a quel rischio denunciato dal più geniale pensiero moderno e
contemporaneo, da Leopardi a Nietzsche, da Schopenauer a Heidegger, da Cioran
a Kundera, al rischio, cioè, dell’ ”oblio” o della insostenibile leggerezza dell’essere”, all’”inconveniente di essere nati” o alla “caduta nel tempo”.
L’uomo, più che di certezze ha bisogno, soprattutto oggi, di sogni e di immaginazioni; e la saggezza, il fascino, la bellezza della letteratura, la sua intramontabile
attualità, va vista proprio nella denuncia del relativismo di ogni verità, della sostanziale relatività delle cose umane, il che è il più rassicurante e gratificante viatico
dell’uomo di ieri, dell’uomo di oggi, e di quello di domani.
E allora non indaghiamo da quale parte stia la ragione, se da quella di Don
Chisciotte o da quella di Sancho; di Karenin o di Anna; di K o dei suoi inquisitori;
non dispensiamo giudizi di condanna o di assoluzione su Emma Bovary; non cerchiamo a tutti i costi la verità sul memorabile endecasillabo di If XXXIII ( poscia ,
più che il dolor potè il digiuno), per leggervi la morte per fame del Conte Ugolino o
un terribile atto di cannibalismo paterno: o, se proprio vogliamo farlo, facciamolo
tacitamente, senza sbandierarlo agli altri, teniamocelo per noi.
Magari in questa condizione di permanente sospensione si ridimensioneranno le nostre certezze e cresceranno le nostre insicurezze, ma indubbiamente si dilateranno gli orizzonti della nostra anima e si consoliderà la nostra sintonia col mondo e con la vita.
Quanto poi alla ripetuta intrusione di Dante, in una serie di itinerari impeccabilmente novecenteschi, ricordo, en passant, il contributo del giugno scorso della
crestomazia dantesca magistralmente recitata da Nando Gazzolo (e rammento che
proprio questo mese di novembre si chiuderà, secondo programma, ancora all’insegna di Dante); è un fatto che la Divina Commedia, giusta l’affermazione continiana,
tiene ancora, e anche bene, ad onta dell’ostracismo della scuola, orientata sempre
più in direzione di un modernismo che privilegia la forma sulla sostanza, il vaniloquio
sui contenuti culturali; essa sarà per tutto il nuovo millennio, e per quelli a venire,
disponibile a sempre nuove letture, interpretazioni, confronti: inesauribile archetipo
di tutte le forme della poesia, quella già scritta e quella ancora da scrivere, insomma
il libro ideale della borghesiana biblioteca di Babele, immagine indistruttibile della
perennità dell’opera di Dante.
Uno dei grandi temi della Comedia, uno dei temi portanti, è quello dell’ineffabile, che, annunciato già nell’esordio del poema (Ahi quanto a dir qual era è cosa
dura…), e ripreso in diverse sequenze dell’Inferno e del Purgatorio, assurge a filo
conduttore nella terza cantica, dove celebra il suo trionfo.
Il motivo, naturalmente, non è nuovo; non estraneo alla poesia classica (basti, per tutti, il virgiliano infandum regina iubes renovare dolorem), diventa topos
privilegiato della poesia moderna a cominciare dal romanticismo, dove viene ad
intrecciarsi con la sehnsucht, con quell’ansia d’infinito, che è malessere, aspirazione
struggente, perché negata dalla coscienza (anche qui mi limito a un solo specimen, il
prodigioso distico settenario leopardiano: lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno).
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Renzo Scarabello
Ma le proporzioni sono inadeguate, perché nel Paradiso dantesco l’ineffabile diventa connotazione, cifra, sostanza, fondamento della poesia stessa, tanto più
per noi moderni che, lontani anni luce dalla mentalità medievale, abbiamo perduto
inesorabilmente, coinvolti nel frenetico e insulso ritmo della nostra povera, materiale quotidianità, la coscienza della dimensione dello spirito, in quell’epoca, invece, così viva da sormontare quella della realtà fenomenica.
L’uomo del Medioevo, infatti, era pienamente consapevole dell’aleatorietà,
provvisorietà, transitorietà della vita terrena, e sapeva benissimo che ogni cosa si
protrae per gran tratto nell’aldilà: videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc
autem facie ad faciem. La verità, non quella ingannevole e vana dei sensi, ma quella
assoluta, sarà chiara solo post mortem.
Dante nel Paradiso ha voluto farsi portavoce al mondo di questa verità. E per
quanto si rivolgesse ad un pubblico ben più misticamente disposto dell’uomo moderno, ha dovuto mettere a profitto tutte le risorse del suo genio, per rendere
percepibile l’impercepibile, sensibile ciò che è spirito, tangibile ciò che esula dall’umana esperienza. Ecce perché il tema dell’ineffabile è dominante nella terza cantica.
Ma come si raffigurava l’uomo medievale lo spirito, quella vita piena, integra,
beata, che avrebbe sperimentato solo dopo il suo pellegrinaggio terreno? Semplicemente come luce, luce sfavillante.
Nei mistici medievali, da Alberto Magno a S. Bonaventura, da Roberto
Grossatesta a Tommaso d’Aquino, la luce è forma sostanziale dei corpi, la cui partecipazione all’essere è direttamente proporzionale all’irradiazione di luce che essi
ricevono, come suonano i primi versi del Paradiso:
La gloria di colui che tutto move
Per l’universo penetra e risplende
In una parte più e meno altrove.
La luce, sorgente, principio dell’essere, comprende tutte le cose, è forma perfetta, bellezza suprema, metafora dello spirito, identificazione con Dio, armonia
assoluta.
Se l’Inferno è il regno della notte eterna, dell’aura sanza tempo tinta, il luogo
d’ogne luce muto, il cieco carcere; e il Purgatorio quello della penombra, degli albori
crepuscoli, dei tramonti chiaroscuri, il Paradiso, regno dello spirito, della perfezione, della compiutezza, non può che essere il trionfo del fulgore, del sole sfavillante,
del raddoppio, dei laghi, delle fiumane di luce, delle maree e degli oceani di splendore. Perché Dio, luce eterna e pura, irradia, per atto d’amore, la sua energia,
dall’Empireo ai cieli rotanti:
Non per avere a sé di bene acquisto,
ch’esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,
in sua etternità di tempo fore,
137
La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.
E questo splendore, questa luce- energia, viene trasmessa dagli astri superiori
a quelli inferiori, che si comportano, così, come specchi riflettenti, in un ininterrotto processo dall’alto in basso, dai cieli alla terra, un processo che perpetua, miracolosamente, l’atto d’amore della creazione.
È per questo che il tema dell’ineffabile si connette indissolubilmente nel Paradiso con quello della luce, sino a lasciarsene, addirittura, soggiogare, in un dettato che non conosce soluzioni di continuità, e che costituisce gran parte del fascino di questa straordinaria poesia dell’intelligenza e della fede.
Rivediamo l’incipit del Paradiso:
La gloria di colui che tutto move
Per l’universo penetra e risplende
In una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più della sua luce prende
Fu’ io, e vidi cose che ridire
Né sa né può chi di lassù discende;…
La gloria di colui che tutto move: Dio è luce suprema, grazia illuminante, e la
luce della Sua grazia penetra e risplende nell’universo, investendo le cose di diversa
intensità luminosa; Nel ciel che più della sua luce prende/ fu’ io…: Dante ha avuto la
grazia di essere stato, vivo, in carne e ossa, nell’Empireo, nella sede diretta di Dio,
in quel cielo che è maggiormente inondato dalla Sua luce! E vidi cose che ridire/ né
sa né può chi di lassù discende: ecco annunciati, intimamente concatenati, già nella
protasi della terza cantica, questi due temi portanti dell’ineffabile e della luce.
Ma se quello dell’ineffabile tornerà esplicitamente a riaffiorare singolarmente
in più riprese (già nel primo canto, ove si ricordi il sublime Trasumanar significar per
verba/ non si poria;…), rinforzandosi, ovviamente, nell’appressamento alla mirabile
visione, nei canti finali, con le reiterate similitudini del fantolin, dell’infante che, incapace di articolare il linguaggio, balbetta (Omai sarà più corta mia favella,/ pur a quel
ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella.), il tema della
luce sarà, invece, un continuum, inglobando, incorporando in sé lo stesso ineffabile
che, nel miracolo della poesia di Dante, diventa esprimibile.
Il terzo canto del Paradiso esordisce proprio all’insegna della luce, con Beatrice sole, fiamma, ardore di carità:
Quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e si sigilla con Beatrice luce di verità, ardore intellettuale:
138
Renzo Scarabello
ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo;
connotando la donna della salute delle due supreme virtù, amore e sapienza,
quelle stesse che caratterizzano i massimi gradi delle gerarchie angeliche, i serafini e
i cherubini; S. Francesco e S. Domenico vengono, appunto, in Paradiso XI, così
presentati da S.Tommaso:
L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapienza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.
De l’un dirò, però che d’amendue
Si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ad un fin fur l’opere sue.
Il Paradiso è soprattutto un ritorno alla Vita Nuova, un recupero, attuato
all’insegna della luce, della donna della salute, allora, simbolicamente, solo intuita
nelle sue implicazioni mistico-cristologiche, ma già gratificata in somma misura
dalla grazia illuminante:
Voi le vedete Amor pinto nel viso,
là ‘ve non pote alcun mirarla fiso.
Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia , quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven, tremando, muta
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
La trasfigurazione spirituale di Beatrice è parallela all’ascesa del suo fulgore,
un fulgore portato alle estreme conseguenze. Già nella prima epifania registrata nel
poema, Beatrice si lascia alle spalle ogni stilnovistica oltranza retorica; in Inferno II
Virgilio racconta a Dante l’apparizione di lei nel Limbo:
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce , in sua favella…
La luce di Beatrice, che nella Vita Nuova era sostanzialmente luce evangelica
di carità, diviene ora, in prospettiva allegorica, splendore intellettuale, raggio che
139
La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso
eleva alla suprema conoscenza. E il Paradiso è tutta un’ascesa verso l’integrazione
totale, attuata nella piena sintonia di ragione e fede, ardore e splendore, voglia e
argomento, affetto e senno( Pd XV).
Il terzo canto del Paradiso, stemperando, nella struttura teatrale, il dettato
narrativo-didascalico dei primi due, si propone come esemplare dell’intera cantica,
come una sorta di concentrato tematico in cui, attraverso un abile gioco di intrecci,
associazioni , allusioni, e, soprattutto, attraverso un sapiente uso di incomparabili
risorse tecniche e retoriche, si viene a comporre il tessuto di quella poesia della fede
e dell’intelligenza, che segna forse il più alto livello di poesia della civiltà occidentale. Rileggiamo le prime battute del canto:
Quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan de’ nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men tosto a le nostre pupille,
tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e il fonte.
Subito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
Sol… scaldò… scoverto… aspetto… visione… vedersi… vetri trasparenti e
tersi… acque nitide e tranquille… visi… perla… bianca… pupille… vidi… accese… specchiati sembianti… veder… occhi… vidi… lume… sorridendo… ardea…
occhi: è un lessico tutto convergente nella direzione dell’idea, dell’immagine della
luce, luce come calore e fulgore, come carità e sapienza.
Quali per vetri trasparenti e tersi: come per incanto, entriamo con il poeta nel
140
Renzo Scarabello
Paradiso, negli interni di una cattedrale gotica, inondata dai riverberi della luce che
penetra dai rosoni di marmo traforato e si rifrange nel tripudio policromo delle
vetrate a sesto acuto, irradiandosi su nelle concavità e nervature delle volte, comunicando lo slancio verticale, mistico, verso l’empireo, regno della luce totale. Da
quelle vertiginose altezze Piccarda snocciola la sua dichiarazione di fede:
Frate, la nostra volontà quieta
Virtù di carità, che fa volerne
Sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne:
che vedrai non capère in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
Tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace,
come a lo re che al suo voler ne invoglia.
E ‘n la sua volontà è nostra pace:
ell’è quel mar al qual tutto si move
ciò ch’ella cria e che natura face.
L’entrata in scena di Piccarda, questo spirito diafano, questo specchiato sembiante, che richiama nella sua inconsistenza le silhouettes delle angelette e angiolelle
stilnovistiche, è preparata da un sapiente gioco lessicale e sintattico, inteso a creare
una magica atmosfera di spiritualità, evanescenza e impalpabilità.
La frequente, insistita, ossessiva aggettivazione smussa, ridimensiona, attenua, diluisce la fisicità, il peso comunicato dal sostantivo: la verità è bella, l’aspetto
dolce, i vetri trasparenti e tersi, le acque nitide e tranquille, i fondi persi, le postille
debili, la fronte bianca. La rarefazione dell’atmosfera è ulteriormente sottolineata
da immagini e similitudini di indefinitezza, di sospensione, come di una lontananza
sfocata, impercettibile:
Debili sì, che perla in bianca fronte
Non vien men tosto a le nostre pupille;
…Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende un non so che divino;
141
La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso
immagini che percorrono anche il secondo intervento di Piccarda (Iddio si sa
qual poi mia vita fusi), e, come ne avevano annunciato l’apparizione, così ne suggellano il dileguarsi:
Così parlommi, e poi cominciò “Ave
Maria” cantando, e cantando vanio
Come per acqua cupa cosa grave.
Ma non mancano altre risorse, come quelle fonosimboliche, timbriche, che
fanno di questo canto una sorta di inno, di canto liturgico, di lauda intonata
coralmente, che, come in un gioco meraviglioso, si fonde e si confonde con la luce
in questa cattedrale gotica che accoglie Dante nell’ingresso del Paradiso e la inonda
di bellezza e di armonia. Si pensi alle rime in –enne e in –ille, alle finali aperte –anti,
-ati, o a certe flessuose allitterazioni (quelle stimando specchiati sembianti); ma si
pensi, soprattutto, alle iterazioni, ai ritorni della parola su se stessa: li occhi torsi…e
ritorsili; sorridendo…sorrida; a voto…per manco di voto; beati…beata; li nostri
voti…e voti; divina voglia…voglie; di soglia in soglia; per questo regno, a tutto il
regno; Ave Maria cantando e cantando.
La gotica cattedrale del cielo della Luna, questa architettura vertiginosamente slanciata verso Dio, è animata, dunque, non solo dalla poesia della luce, ma anche
da quella della musica. E non poteva mancare, in questo trionfo delle arti, la pittura.
Le sequenze drammatiche, infatti, si dispongono, come ha acutamente evidenziato
M. Marti, a mo’ di pala d’altare, di ancona, di trittico gotico, in cui troneggia la
maestà di Piccarda, figura centrale del canto, contornata dai due pannelli laterali
istoriati, il primo, rispondente alla sequenza iniziale, dai personaggi di Dante e Beatrice, e l’altro, epilogo del canto, da Piccarda stessa e da Costanza d’Altavilla:
Questa è la luce della gran Costanza,
che dal secondo vento di Soave
generò il terzo e l’ultima possanza.
L’epifania di Costanza, e la citazione perifrastica del figlio Federico II (il terzo e l’ultima possanza) ribadiscono ulteriormente la struttura squisitamente gotica
del canto, evidente in quel gusto, in quel compiacimento dei parallelismi, delle simmetrie, complicato dall’architettura simbolica dei numeri, che trova nella trilogia,
nel legame trinitario, la sua espressione più alta.
Qui, infatti, in questo terzo canto del Paradiso, vengono finalmente al pettine tre nodi ideologici del poema, si completano, insomma, tre trilogie, illuminanti
del pensiero, della cultura, dell’umanità del poeta: quella dei Donati, quella degli
Svevi, quella del femminino.
Piccarda rinvia, infatti, al fratello Forese, che espia il peccato di gola nella
sesta cornice del Purgatorio, ma anche all’altro fratello Corso, ancora in vita al142
Renzo Scarabello
l’epoca del nostos dantesco, ma già, in Purgatorio XXIV, collocato, in profezia, nel
profondo inferno; Costanza d’Altavilla conclude la trilogia degli Svevi, richiamando il figlio Federico, citato in Inferno X da Farinata tra gli epicurei, e il nipote
Manfredi, che sta espiando, nell’Antipurgatorio (Purgatorio III), la sua “presunzion”; infine, ancora Piccarda suggella la trilogia del femminino, delle donne, cioè,
rappresentative delle tre cantiche, chiamando in causa Francesca da Rimini, tra i
lussuriosi di Inferno V, e Pia de’ Tolomei (Purgatorio V) tra i negligenti morti violentemente, e tardivamente pentiti, che sostano nell’Antipurgatorio; tre donne accomunate dalla violenza subita, tre donne che vivono in dimensioni incompatibili:
nell’eros, nella fol’amor, Francesca; nell’agape, nella carità, nella fin’amor Piccarda,
nel rimpianto degli affetti terreni, adombrato dalla viva speranza della luce eterna,
Pia; tre donne, infine, che reagiscono al male del mondo in piena coerenza col loro
carattere: la passionale Francesca maledice perentoriamente il marito assassino (Caina
attende chi a vita ci spense); l’elegiaca Pia accenna a una larvata accusa, più per il
risentimento di essere stata tradita negli affetti, che per odio o vendetta (Sena mi fe’,
disfecemi Maremma:/ salsi colui che ‘nnanellata pria/ disposando m’avea con la sua
gemma); nessuna condanna, nessuna accusa, neppure per perifrasi, al fratello persecutore pronuncia, invece, Piccarda, che, lontana anni luce dalle miserie terrene, si
limita ad una generica, quanto sofferta e dolente considerazione sulla malvagità
umana:
Uomini poi, a mal più che a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
Canto, dunque, questo terzo del Paradiso, della poesia, dell’arte, della musica, ma anche, e soprattutto, degli affetti e delle passioni umane: io credo che nessun’altra poesia abbia saputo esprimere simili altezze.
143
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Alessandro Serpieri
La terra desolata: cenni sulla poesia
di W. B. Yeats e T. S. Eliot
di Alessandro Serpieri
Parlare in una sola volta di Yeats e di Eliot, accomunandoli all’insegna di una
desolazione cui trovarono vie d’uscita del tutto differenti, è un’impresa estremamente impegnativa che si può affrontare solo per sommi capi e facendo riferimento a
poche poesie che possano rendere concreto un discorso necessariamente introduttivo.
Converrà cominciare da Yeats, nato prima di Eliot, nel 1865, nella contea di
Sligo nella parte nordoccidentale dell’Irlanda. Giovanissimo, si iscrisse alla
“Metropolitan Art School” di Londra per studiare pittura e seguire il percorso del
padre, pittore ritrattista e, in un secondo momento, paesaggista, grande conversatore,
lettore ad alta voce di Shakespeare, Shelley, Rossetti e Blake, sostenitore di un “vangelo” di ateismo ed estetismo: dunque una personalità molto forte, alla cui influenza si sottrasse volgendosi ben presto alla letteratura. Negli anni Ottanta pubblicò i
suoi primi versi e cominciò a interessarsi ai movimenti ermetici e occultisti assai in
voga in quegli anni. Tornato in Irlanda, nel 1885 partecipò alla fondazione della
“Dublin Hermetic Society”. Nello stesso anno incontrò il vecchio leader feniano1
John O’Leary che gli ispirò uno spirito nazionalista, ma non riuscì a convincerlo ad
abbandonare le idee mistiche e occultiste che egli aveva ormai abbracciato (“La
magia”, gli scrisse, “è, subito dopo la poesia, la cosa più importante della mia vita
[…] La vita mistica è il centro di tutto ciò che io faccio, penso e scrivo”. Nell’86
abbandonò la Scuola d’Arte per dedicarsi definitivamente alla letteratura. Nell’87
tornò di nuovo con la famiglia a Londra, dove incontrò il mago MacGregor Mathers,
talmente esoterico e fanatico da diventare poi quasi folle, traduttore di The Kabbala
Unveiled, oscuro rivelatore del cabalistico “albero della vita”, e poi la celebre
spiritualista teosofa Madame Blavatsky, autrice tra l’altro di Isis Unveiled, una russa emigrata a New York dove aveva fondato la “Theosophical Society”, che doveva
promuovere la fratellanza universale, lo studio delle letterature e delle religioni orientali, e investigava le leggi segrete della natura e le facoltà latenti negli esseri umani.
1
I Feniani erano stati un corpo militare semileggendario che nel lontano passato aveva difeso l’Irlanda
dagli attacchi norvegesi. Prendevano il nome da Finn Mac Coul, l’eroe delle leggende irlandesi note come
ciclo feniano o ossianico, figlio di Cunan e padre di Ossian, o Oisin, leggendario guerriero e bardo gaelico,
che sarebbe vissuto nel terzo secolo, e al quale Macpherson attribuì le poesie che portano il suo nome. I
Feniani moderni erano un movimento costituito fra gli irlandesi emigrati negli Stati Uniti e altri rimasti in
patria alla metà dell’800 per rovesciare il dominio inglese.
145
La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
Yeats ne fu conquistato, partecipò a sedute spiritiche e aderì alla “Esoteric Section”
della Società Teosofica. In seguito doveva scrivere: “Soltanto quando ho cominciato a studiare la ricerca psichica e la filosofia mistica, mi sono staccato dall’influenza
di mio padre”. Per lui ora la poesia doveva diventare una religione, una investigazione dei segreti occulti del mondo e della storia tutta. Un altro evento molto importante fu l’incontro, nel 1889, con Maud Gonne, considerata la donna più bella
d’Irlanda: pur se di madre e padre inglesi (il padre era ufficiale nella guarnigione
britannica di Dublino), era una appassionata sostenitrice del nazionalismo irlandese e in varie occasioni avrebbe agito in seguito come una rivoluzionaria contro il
dominio inglese. Yeats se ne innamorò perdutamente e infinite volte le chiese invano di sposarlo (e lei avrebbe poi detto che la posterità avrebbe dovuto ringraziarla
per un rifiuto che aveva solo alimentato la sua poesia). Questi pur rapidi riferimenti
biografici sono essenziali per la comprensione di molti testi di Yeats.
Tutta la sua prima produzione obbedisce ancora ai moduli tipici del
decadentismo e sarà solo all’inizio del Novecento che, in contatto con le avanguardie poetiche e in particolare con Pound, egli troverà modi e misure più sperimentali, pur non tradendo quell’impostazione mistico-occultistica che aveva assimilato e
che non cesserà mai di sviluppare e approfondire. Decisivo per tali sviluppi fu il
matrimonio nel 1917 con Georgie Hyde-Lees, una donna dotata di singolari poteri
psichici. Pochi giorni dopo le nozze, la moglie manifestò una capacità medianica di
scrittura automatica, che entusiasmò Yeats e gli procurò il materiale, trasmesso da
“sconosciuti comunicatori” (secondo la tradizione esoterica di Boehme, Swedenborg
e Blake), da cui in seguito avrebbe composto il libro del suo sistema visionario, A
Vision (1925 e poi 1937: “un ultimo atto di difesa contro il caos del mondo”).
Yeats rifuggiva dal realismo come dal vago impressionismo filofrancese di un
Arthur Symons, anche se subì fortemente l’influsso di Mallarmé: per lui, il grande
simbolo non è contenuto in una poesia, ma è la poesia stessa, una “parola intera”,
una complessa interrelazione di immagini, ritmi e suoni, che equivale a un nodo di
esperienze emotive altrimenti inesprimibili. La poesia è come l’Albero della Vita o
la Grande Ruota, è la nuova religione, o meglio è l’evocazione di sistemi simbolici
profondi e universali che sono stati poi codificati e sterilizzati dalle religioni.
Yeats cercava le immagini rivelanti e arrivò a concludere che derivavano tutte
da una stessa fonte, un magazzino universale di simboli da cui ciascun uomo può
attingere se solo non sia cieco. Secondo un’antica tradizione chiamò questo grande
serbatoio Anima Mundi. E così espose i suoi principi: credeva “1) che i confini della
nostra mente cambiano continuamente, che molte menti fluiscono l’una nell’altra, e
creano o rivelano una singola mente, una singola energia; 2) che i confini della nostre
memorie cambiano allo stesso modo e che le nostre memorie fanno parte di una unica
grande memoria, la memoria della Natura stessa; 3) che questa grande mente e grande
memoria può essere evocata tramite simboli.” Rifiutando la religione cristiana, creò
dunque una sua religione personale, che si basa su una serie di teorie che sviluppò in
un lungo arco di tempo. La prima è quella della Maschera: se la vita è incoerente, se il
soggetto non riesce più a conoscersi, dove si volgerà la ricerca dell’artista? Sempre in
guardia contro l’incoerenza della vita, del mondo che lo circonda, della storia turbo146
Alessandro Serpieri
lenta e sanguinosa dell’Irlanda, della mancanza di forma e di senso delle cose “reali”,
già nel 1906 fa il punto su questo bisogno di afferrare il “certo” che non è l’Io come si
manifesta a se stesso: “Ero partito nella vita con l’idea di mettere me stesso in poesia
[…] Mi pensavo come un qualcosa di immobile e silenzioso che viveva nel centro
della mia mente e del mio corpo […] Poi, un giorno, capii d’improvviso, come avviene, che stavo cercando qualcosa di immutabile e intatto e sempre fuori di me stesso,
una pietra filosofale o un elisir che mi sfuggiva sempre, e capii che ero io stesso la cosa
che fuggiva e mi porgeva la mano. E quanto più cercavo di rendere deliberatamente
bella la mia arte tanto più inseguivo l’opposto di me stesso.”
Dall’Io come centro gravitazionale del mondo egli si volge dunque all’Io come
pianeta o cometa vagante alla ricerca del centro misterioso a se stesso esterno. Non è
più la rivelazione dell’Io come nucleo segreto che si deve scoprire (secondo tutta la
tradizione logocentrica occidentale, a partire da Socrate), ma l’altro da sé, l’immagine
opposta, la Maschera, l’Antiself 2. L’arte, pertanto, non doveva più essere espressione
del Sé, ma caccia all’Altro, misterioso ed immobile, Ombra forse del Sé, ma di fatto
unica Sostanza, estetica (rimando per esempio alla poesia “Ego Dominus Tuus” del
’15 e al saggio Per Amica Silentia Lunae del ’17). Ogni uomo ha una sua controparte,
un doppio antitetico, e la poesia è un conflitto volto a rivelare tale Maschera, l’Antiself che si deve scoprire. Yeats arriverà a vedersi come “un uccello dorato” o come
una statua di un tritone e avrà spesso la sensazione di starsi pietrificando o di trasformarsi in un’immagine o di essere il pupazzo di ventriloqui sovrannaturali. Come
vedremo, questa scissione dell’Io, insieme alla tendenza all’impersonalità,
all’antisoggettivismo, sarà comune - pur in termini del tutto diversi - anche a Eliot.
Su una linea analoga si sviluppa la sua teoria delle fasi lunari. Ognuna delle 28
fasi assume per lui un significato tipologico: ogni individuo corrisponde a una fase,
tranne la 1 (la fase della luna nera, della personalità assolutamente oggettiva) e la 15 (la
fase della luna piena, della personalità assolutamente soggettiva), fasi zero, e ogni
individuo può passare per ventotto incarnazioni (secondo l’influenza della religione
induista): “L’uomo cerca il proprio opposto o l’opposto della sua condizione, raggiunge il suo scopo per quanto esso è raggiungibile, alla fase 15, e ritorna un’altra
volta alla fase 1” Quindi ogni uomo passa per molte reincarnazioni e alla fine è stato
tutto: contadino, politico, eroe, poeta ecc. Nel flusso e nel conflitto sta l’unica “realtà”. E lo stesso conflitto può riferirsi a una nazione, e nella fattispecie all’Irlanda, che
deve cercare la sua Maschera, i cui lineamenti sono rintracciabili nei suoi antichi miti.
A partire dal dicembre del 1917 si aggiunge a tutto ciò il sistema di “due coni
interpenetranti” che girano in direzioni opposte e rappresentano l’unione dinamica e
oscillatoria di ogni paio di opposti che progrediscono in virtù del loro conflitto: “per
me tutte le cose sono costituite dal conflitto fra due stati di coscienza, fra due esseri o
persone che reciprocamente muoiono l’uno la vita dell’altro, e vivono l’uno la morte
dell’altro. Ciò vale anche per la vita e per la morte. Due coni o vortici, l’apice dell’uno
2
Il suo Antiself aveva un nome, era un certo Leo Africanus, un fantasma che gli era apparso per anni
durante le sedute spiritiche.
147
La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
nella base dell’altro”. Due coni con alla base due cerchi opposti, diciamo bianco e
nero, che si espandono e si contraggono in relazione reciproca, cosicché quando il
cerchio bianco si allarga il nero si rimpicciolisce fino a diventare un punto che poi
riprende a espandersi fino a ridurre il bianco a un punto. L’intera storia ne è governata, fatta com’è di ere soggettive e oggettive che si alternano, e ogni era, di 2000 anni, è
inaugurata dalla nascita di un dio. Quella cristiana, iniziata con la nascita miracolosa
di Gesù da una vergine, ha insegnato le virtù oggettive: obbedienza, castità, fede in
una divinità astratta. Prima, l’antichità greca, iniziata con lo stupro di Leda a opera
del cigno-Zeus, era stata soggettiva apprezzando le opposte virtù della bellezza, aristocrazia, sessualità, eroismo (evidente l’influenza di Nietzsche).
Volgiamoci ora ad alcune sue poesie che rispecchiano la sua visione e il suo
metodo poetico. Cominciamo da The Magi (1913):
Now as at all times I can see in the mind’s eye,
In their stiff, painted clothes, the pale unsatisfied ones
Appear and disappear in the blue depth of the sky
With all their ancient faces like rain-beaten stones,
And all their helms of Silver hovering side by side,
And all their eyes still fixed, hoping to find once more,
Being by Calvary’s turbulence unsatisfied,
The uncontrollable mystery on the bestial floor 3.
La misura è una di quelle tipiche di Yeats, che spesso privilegia composizioni di
due quartine, o di tre, oppure la forma del sonetto vero e proprio, oppure ancora le
quattro quartine. Abbiamo in questo caso due quartine che costituiscono un unico
lungo periodo. I magi della visione (li vede “in the mind’s eye”: sintagma tratto da
Amleto, I.1) appaiono e scompaiono nell’azzurra profondità del cielo, figure antiche
che gli furono suggerite dalle immagini di santi dei mosaici di Ravenna e di Monreale
che l’avevano molto colpito in due diversi viaggi in Italia, volti astratti e tuttavia sofferenti,
gli occhi fissi e l’espressione stupefatta e allo stesso tempo insoddisfatta. Si noti l’insistenza su questo non appagamento dei testimoni della nascita del Cristo (unsatisfied si
ripropone dal v. 2 al 7) che capovolge il senso stesso della epifania collegata ai magi dalla
religione cristiana e quindi della rivelazione che “soddisfa” definitivamente l’ansia umana
di conoscere il mistero del tempo e il senso della vita. Lo sguardo dei magi yeatsiani
unisce la nascita al martirio del Cristo non trovando alcuna soluzione nel “tumulto del
Calvario”, cosicché essi sono ancora tesi a scoprire il mistero universale e ne intravedono la radice non già nell’avvento di un nuovo messia antropomorfo bensì nell’animarsi
di un qualcosa di misterioso sul fondo bestiale della vita. Ai valori morali, alle norme e
alle leggi del cristianesimo dovrà succedere una nuova rivelazione, animalesca in quan3
“Ora, come sempre, io posso vedere con l’occhio della mente, / nelle loro rigide vesti dipinte, i pallidi insoddisfatti / apparire e sparire nel blu profondo del cielo / con tutte le loro antiche facce come pietre battute dalla pioggia, /
e tutti i loro elmi d’argento ondeggianti fianco a fianco, / e tutti i loro occhi sempre fissi a sperar di trovare ancora una
volta, / essendo insoddisfatti del tumulto del calvario, / il mistero incontrollabile sul pavimento bestiale.”
148
Alessandro Serpieri
to istintiva, passionale, soggettiva, artistica, rivoluzionaria: una trasvalutazione dei valori che Yeats attingeva in parte dal prediletto Blake, il grande romantico rivoluzionario
della fine del Settecento che aveva scritto ad esempio Il matrimonio del paradiso e dell’inferno, e ricavava anche dal Nietzsche dell’Anticristo. Dal “pavimento”, dal fondo
dell’animalità organica ecco l’erompere di un mistero non rivelato, l’energia di una visione che sovverte ogni legge 4.
Yeats va continuamente alla ricerca di una energia nascosta nel cuore delle
cose e quindi non può accettare nessuna religione rivelata che codifica il mistero e
ne fa discendere comandamenti e norme. Lo si può vedere in una poesia di sei anni
dopo, The Second Coming:
Turning and turning in the widening gyre
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.
Surely some revelation is at hand;
Surely the Second Coming is at hand.
The Second Coming! Hardly are those words out
When a vast image out of Spiritus Mundi
Troubles my sight: somewhere in sands of the desert
A shape with lion body and the head of a man,
A gaze blank and pitiless as the sun,
Is moving its slow thighs, while all about it
Reel shadows of the indignant desert birds.
The darkness drops again; but now I know
That twenty centuries of stony sleep
Were vexed to nightmare by a rocking cradle,
And what rough beast, its hour come round at last,
Slouches towards Bethlehem to be born?5
4
L’ultimo verso di questa poesia riecheggerà molti anni più tardi nella mente del poeta durante la stesura di A
Vision: “… the old realization of an objective moral law is changed into a subconscious turbulent istinct. The world of
rigid custom and law is broken up by the uncontrollable mystery on the bestial floor.”
5
“Girando e girando nella spirale che si allarga / il falco non può udire il falconiere; / le cose vanno a pezzi; il
centro non può reggere; / assoluta anarchia si scatena sul mondo, / la marea sanguinosa si spande e dovunque / annega
la cerimonia dell’innocenza; / ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori / sono pieni di passionale intensità. / Sicuramente c’è una rivelazione in vista; / sicuramente il Secondo Avvento è in vista. / Il Secondo Avvento!
Appena pronunciate queste parole / una vasta immagine uscita dallo Spiritus Mundi / turba la mia vista: da qualche
parte tra le sabbie del deserto / una forma con corpo di leone e testa d’uomo, / uno sguardo vuoto e spietato come il
sole, / sta muovendo le sue lente cosce, mentre tutt’intorno / turbinano ombre degli sdegnati uccelli del deserto. / La
tenebra di nuovo scende; ma ora io so / che venti secoli di pietroso sonno / furono disturbati fino all’incubo da una
culla dondolante, / e quale informe bestia, venuta infine la sua ora, / si scancoscia verso Betlemme per nascervi?”
149
La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
Il Secondo Avvento che, secondo il vangelo di Matteo, sarà quello del Cristo
che inaugurerà il regno della pace e della felicità, viene qui visto invece come l’avvento di una nuova epoca ancora una volta rappresentata dalla nascita di una bestia. Girando e girando nel cono epocale che sempre più si allarga e si sfalda, il falco simbolico dell’incipit non può più udire il falconiere, il centro di un sistema che collassa.
Siamo nel 1919, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, in un panorama di
disastro, che è poi anche quello della Terra desolata di Eliot. Se tutto crolla, sta per
nascere una nuova era: le rovine annunciano una rivelazione. Ma quale? Non già un
messaggio, non già le tavole mosaiche della legge o i vangeli, ma un’immagine tratta
dallo Spiritus Mundi, da quel serbatoio inesplicabile di simboli che alimentava la visione yeatsiana. Ed è l’immagine di una sfinge spietata perché misteriosa al di là di
qualsiasi possibile definizione e declinazione del suo senso, una sfinge che si muove
sulle sue lente cosce verso Betlemme per cancellare il “sonno pietroso” che ha dominato i duemila anni cristiani. La rough beast rappresenta l’Anticristo e l’Antitetico
che spalancherà un’era soggettiva, violenta, arrogante, politeistica, immorale, radicalmente estetica. È una visione del tragico come sfrenamento dionisiaco alla stregua del
Nietzsche della Nascita della tragedia, che si può ritrovare anche in una poesia apparentemente di tutt’altro impianto e tema, An Irish Airman Foresees His Death:
I know that I shall meet my fate
Somewhere among the clouds above;
Those that I fight I do not hate,
Those that I guard I do not love;
My county is Kiltartan Cross,
My countrymen Kiltartan’s poor,
No likely end could bring them loss
Or leave them happier than before.
Nor law, nor duty bade me fight,
Nor public men, nor cheering crowds,
A lonely impulse of delight
Drove to this tumult in the clouds;
I balanced all, brought all to mind,
The years to come seemed waste of breath,
A waste of breath the years behind
In balance with this life, this death 6.
6
“So che incontrerò il mio destino / da qualche parte tra le nuvole lassù. / Quelli che combatto io non li
odio, / quelli che difendo io non li amo; / il mio paese è Kiltartan Cross, / i miei paesani i poveri di Kiltartan:
/ quale che sia l’esito, non ne avranno perdita / né troveranno più felicità di prima. / Né legge né dovere mi
spinsero a combattere, / né uomini politici né folle plaudenti: / un solitario impulso di delizia / mi portò a
questo tumulto tra le nuvole; / soppesai tutto, portai tutto alla mente, / gli anni a venire sembravano spreco di
fiato, / spreco di fiato gli anni alle spalle / bilanciati con questa vita, questa morte.”
150
Alessandro Serpieri
Si tratta di un sonetto allungato, fatto di quattro quartine di tetrametri
giambici a rime alternate, che Yeats scrisse in occasione della morte, sul fronte
italiano, di Robert Gregory, figlio di Augusta Gregory, la nobildonna che lo aiutò
molto nel reperire antiche leggende di Irlanda e nel fondare a Dublino lo “Abbey
Theatre”. È il monologo drammatico dell’aviatore che va incontro alla sua morte
in una battaglia aerea nei cieli. Egli sa di essere sul punto di trovarsi di fronte al
proprio destino (v. 1), in un luogo indecifrabile, lassù in mezzo a quelle nuvole
verso cui si dirige (v. 2), e fa un bilancio delle sue scelte (vv. 3-8), che equivarrà poi
al bilancio dell’intera sua vita (v. 13), e non solo, al bilancio del senso stesso della
vita (vv. 14-15) a fronte della morte, la quale ha luogo nel verso di chiusura. Perché combatte? Non ama quelli per i quali mette a rischio la vita, gli inglesi
dominatori dell’Irlanda, e non odia i suoi nemici. Il suo unico luogo di appartenenza è Kiltartan Cross, il crocevia vicino a Coole Park dove si trovava la magione
di famiglia, un crocevia che assume evidenti connotazioni simboliche, sia perché
luogo di sofferenza dei poveri di Kiltartan (soggiogati, “messi in croce”) sia, ancor
più, perché prefigura il destino sacrificale dell’aviatore. Il quale a quella origine si
richiama e tuttavia non va incontro al suo “martirio” nelle vesti di un messia, ma
vi è spinto da un sentimento opposto alla morale, alla legge, al dovere: vi è spinto
da un solitario impulso di delizia (v. 11), un impulso aristocratico, estetico, che
cerca la consumazione della vita in un brivido tragico che possa annullare il prima e il dopo soppesati nella loro inanità - gli anni passati e quelli futuri solo uno
spreco di fiato. Il monologo drammatico esprime dunque la vacuità dell’estensione stessa del tempo e si conclude con grande suggestione tra le nuvole, che nel
frattempo l’aereo ha raggiunto, in un ultimo verso in cui il precario bilanciamento
tra la vita e la morte mima l’ultima oscillazione dell’aereo (iconica croce anch’esso) che sta per avvitarsi giù nel precipizio.
Leggiamo infine un’ultima poesia, Leda and the Swan:
A SUDDEN blow: the great wings beating still
Above the staggering girl, her thighs caressed
By the dark webs, her nape caught in his bill,
He holds her helpless breast upon his breast.
How can those terrified vague fingers push
The feathered glory from her loosening thighs?
And how can body, laid in that white rush,
But feel the strange heart beating where it lies?
A shudder in the loins engenders there
The broken wall, the burning roof and tower
And Agamemnon dead.
Being so caught up,
So mastered by the brute blood of the air,
151
La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
Did she put on his knowledge with his power
Before the indifferent beak could let her drop? 7
È un sonetto scritto nel 1923-24 e va annoverato tra le poesie più celebri del
Novecento inglese. Yeats lo compose con grande difficoltà come attestano le cinque versioni che ci restano. Lo si deve inquadrare nella sua visione della storia, un
succedersi di ere in cicli di duemila anni. Nella prima stesura questo sonetto portava il titolo Annunciation, una annunciazione non cristiana, anzi anticristiana, che
vede Zeus, sotto le spoglie di un cigno, “annunciare”, in modo antitetico all’angelo
alato sceso a comunicare a Maria la discesa del Verbo pronto a farsi carne, la nascita
di una nuova era, l’era greca, tragica, soggettiva, estetica. Se l’annunciazione dell’angelo chiuderà proprio quell’epoca dando vita, nel segno della spiritualità e della
moralità, ai duemila anni del cristianesimo, era oggettiva e codificata da norme,
questa “annunciazione” di Zeus avviene sotto spoglie bestiali ed è tutta affidata ai
sensi e a una passionalità incontrollata. E non avrà luogo tramite la parola, il verbo,
ma tramite il corpo impiegato nell’atto più brutale, lo stupro. Dall’accoppiamento
del dio-animale e della donna indifesa nasceranno le due uova che, schiudendosi,
daranno vita a Elena e Clitennestra, e a Castore e Polluce. La nascita di Elena inaugurerà l’era tragica della guerra di Troia e quindi della civiltà greca.
Il sonetto si apre fulmineamente con una frase nominale che rappresenta un’azione appena avvenuta: il bestiale cigno divino ha già afferrato la sua preda e non le lascia
scampo, come testimonia la straordinaria raffigurazione di tutti gli elementi visivi dei
due corpi già intrecciati (ed è qui indubbiamente all’opera la suggestione iconica dei
tanti dipinti di Leda e il cigno che Yeats doveva avere in mente): la violenza percorre
le grandi ali che battono sulla fanciulla che barcolla, le membrane oscure - e la qualificazione dark esprime sia il colore tenebroso dentro il bianco del cigno sia l’impenetrabile senso della sua furia -, il becco feroce che afferra la nuca di Leda per tenerla
soggiogata nello stupro, il petto che stringe con forza sovrumana il petto inerme della
fanciulla.
La seconda quartina apre un’altra prospettiva, quella del testimone artista del
terribile evento, che si interroga, come assistendo alla scena (si vedano i deittici
those e that ai vv. 5 e 7) sulla possibile-impossibile reazione di Leda e sul suo implicito punto di vista: le sue dita terrorizzate potranno riuscire a respingere lo “splendore piumato” del dio-cigno che le sta aprendo le cosce (e quelle dita sono viste
come vague: incerte, indecise, forse anche ambigue: e quest’ultimo senso può far
pensare a una sua pur contrastata accettazione dell’amplesso) e quelle cosce potranno mai riuscire a non aprirsi (ma anche qui la qualificazione loosening può indicare
7
Un colpo improvviso: le grandi ali ancora battenti / sulla ragazza vacillante, le sue cosce carezzate / dalle
scure membrane, la nuca afferrata dal suo becco, / lui stringe il suo petto indifeso contro il suo petto. / Come
possono quelle dita atterrite e incerte spingere via / il piumato splendore dalle sue cosce che s’allentano? / E
come può il corpo, sepolto in quel bianco assalto, / non sentire quello strano cuore battere dove esso giace? /
Un fremito nei lombi genera lì / il muro infranto, il tetto e la torre in fiamme / e Agamennone morto. Presa
così, in alto, / così dominata dal sangue selvaggio dell’aria, / si mise addosso il suo sapere insieme al suo potere
/ prima che il becco indifferente la lasciasse cadere?”
152
Alessandro Serpieri
sia l’inevitabilità del loro schiudersi sia l’accettazione del loro allargarsi)? E ancora:
quel corpo tutto umano, sopraffatto da quel bianco assalto (l’occhio testimone vede
ora il cigno non più nelle pieghe segrete, oscure, dell’interno delle ali, ma come
fremente e indistinta massa di bianco) può non sentire vicino, troppo vicino, quello
strano cuore che le batte addosso (strange: strano, non umano, estraneo all’umano
in un senso doppio, in quanto allo stesso tempo bestiale e divino)?
Segue la prima terzina, interrotta a metà del suo terzo verso. L’occhio testimone assiste ancora alla scena, ma subito se ne distacca per volgersi con straordinaria
concisione ai tragici eventi che l’atto finale dell’amplesso, il coito del dio bestia, ben
presto provocherà: non una nascita miracolosa che annunci la salvezza umana dal
tempo e dalla morte, ma la tragedia della guerra, la caduta di Troia, il muro infranto, il
tetto e la torre in fiamme, e la morte di Agamennone. In meno di tre versi si spalanca
l’inizio di una nuova era, tragica, un’era di passioni sconvolgenti, che è tutt’altra cosa
dal bello, dal buono, dal rassicurante. L’orgasmo genera tutto questo, e tutto questo si
chiude non a caso con “Agamennone morto”: la generazione non apre alla vita bensì
alla morte, il suo frutto è un cadavere tragico. Il secondo emistichio del v. 11 introduce l’ultima terzina che, parallelamente alla seconda quartina, propone un interrogativo del testimone che ancora si volge verso Leda, nel momento dell’orgasmo e subito
dopo: così dominata da quel “bruto sangue”, che ossimoricamente pur proviene dall’aria (l’elemento più leggero e dunque più mite come ci sarebbe da aspettarsi), quale
fu la sua prospettiva, e cosa, lei tutta umana, poté ricavarne? In quell’amplesso riuscì
a “mettersi addosso”, (“Did she put on”, così come aveva “indossato” il bianco corpo del dio, quel white rush che l’aveva avvolta), in altre parole riuscì ad assumere da
quel cigno divino non solo la sua potenza, ma anche la sua conoscenza ben più che
umana? In altri termini, poté assorbire il suo mistero prima che il suo becco indifferente la lasciasse cadere giù dopo averla goduta? Dunque, in questa congiunzione
tremendamente fisica tra il divino e l’umano è stato trasmesso qualcosa che possa
rivelare il senso del mondo? La domanda rimane sospesa, e tuttavia la risposta è implicita: la conoscenza del mistero non è transitata; il mistero non è razionalizzabile da
mente umana; non solo, il mistero non viene neanche adombrato da un messaggio di
rivelazione. Questa “annunciazione” convoglia solo la tragicità del tempo e il brivido
estetico della scommessa umana dentro il tempo contro il tempo. Il cigno divino non
è un dio generoso e pietoso, ma violento e infine indifferente.
In definitiva, possiamo concludere, anche da questi cenni sommari, che per Yeats
dalla desolazione del presente si esce solo nel nome di un recupero della istintualità e
della esteticità che rappresentano il tragico e in qualche modo lo trascendono.
Tutt’altra via è quella di Eliot, che ha rappresentato e cantato esplicitamente
la terra desolata, come recita il titolo del suo celebre poemetto (The Waste Land,
1922). T. S. Eliot (1888-1965) cominciò a scrivere poesie ancor prima di aver compiuto venti anni e ben presto si impose sulla scena inglese e poi mondiale come una
delle voci più importanti del modernismo. Dedicherò la mia attenzione agli inizi
della sua carriera senza soffermarmi tanto, a differenza di quanto fatto per Yeats,
sui dati biografici che nel suo caso sono relativamente poco rilevanti. Egli nasce in
153
La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
America, a St. Louis nel Missouri, una città a quel tempo molto squallida che diventerà lo scenario di base della desolazione urbana di tutta la sua produzione, cui
si sovrapposero poi altre città dove visse o che visitò, come Boston, Parigi e infine
Londra. Studiò all’Università di Harvard appassionandosi a molte discipline: la letteratura naturalmente (inglese, francese, italiana), la filosofia presocratica, la religione e la filosofia indiana. Fu colpito in particolare, come d’altronde era successo
anche a Yeats, dal volume di un poeta e critico Arthur Symons, uscito nel 1899 con
il titolo The Symbolist Movement in Literature, che faceva il punto sulle
sperimentazioni del simbolismo francese. Fin da giovanissimo aveva ripudiato la
tradizione romantica e tardoromantica, e in quel volume trovava le nuove voci che
l’avviavano alla sua misura poetica. Fu affascinato da uno in particolare di questi
poeti, e cioè Laforgue, che, pur con toni alle volte estenuati, aveva a sua volta rifiutato gli stereotipi della tradizione e aveva fatto ricorso a toni ironici e dissacranti
nonché a tagli amari nei registri alti del poetico, raffigurando ambienti urbani e
figure straniate come quella del Pierrot. Il giovane Eliot lo segue innanzitutto nel
tono e in parte nei temi, ma già assorbe anche la lezione di Dante che legge con
l’aiuto di una traduzione in prosa. Laforgue sarà fondamentale per la sua primissima produzione, ma Dante già comincia a suggestionarlo e il suo influsso sarà ben
più duraturo estendendosi a tutto l’arco della sua vita. Poeta fin dall’inizio sperimentale, Eliot dimostra però subito un senso molto forte di una tradizione letteraria che si costruisce secondo i suoi gusti e secondo le sollecitazioni di altri artisti,
primo fra tutti Pound. Il canone che gli fa da riferimento annovera i grandi poeti
latini, Dante, i dolcestilnovisti (Cavalcanti e Guinizzelli), i poeti metafisici del Seicento e infine i simbolisti francesi (a cominciare appunto con Laforgue).
Concentriamo l’attenzione sui suoi esordi, di cui solo da poco siamo a conoscenza. Aveva scritto poesia fin dal 1908-1909, ma ne erano rimaste scarse tracce. Poi, negli
anni Sessanta, fu rinvenuto un suo taccuino ricco di abbozzi, di prime versioni di alcune
poesie pubblicate nella sua prima raccolta, Prufrock and Other Observations (1917),
nonché di altre composizioni di grande interesse di cui non si sapeva nulla. Questo
taccuino è stato finalmente pubblicato nel 1996 col titolo che aveva originariamente,
Inventions of the March Hare, invenzioni della lepre marzolina, il cui evidente riferimento è Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Queste poesie ci mostrano
tutti i toni del primo Eliot e ci fanno capire la sua grande coerenza complessiva profilando molti temi e registri della sua produzione maggiore, almeno fino alla Waste Land.
Vediamone qualcuna. Il taccuino si apre con Convictions, datata 1909-10:
Among my marionettes I find
The enthusiasm is intense!
They see the outlines of their stage
Conceived upon a scale immense
An even in this later age
Await an audience open-mouthed
At climax and suspense.
154
Alessandro Serpieri
Two in a garden scene
Go picking tissue paper roses;
Hero and heroine, alone,
The monotone
Of promises and compliments
And guesses and supposes.
And over there my Paladins
Are talking of effect and cause,
With “learn to live by nature’s laws!”
And “strive for social happiness
And contact with your fellow men
In Reason: nothing to excess!”
As one leaves off the next begins.
And one, a lady with a fan
Cries to her waiting-maid discreet
“Where shall I ever find the man!
One who appreciates my soul;
I’d throw my heart beneath his feet.
I’d give my life to his control.”
(With more that I shall not repeat.)
My marionettes (or so they say)
Have these keen moments every day8.
Quali sono le “convinzioni” del titolo? Lo annuncia già la parentesi che lo
completa: si apre il sipario su un teatro di marionette, le marionette del poeta, del suo
mondo apparentemente reale, sentimentale, intellettuale, ma falso come è falso il palcoscenico dei pupazzi. “Non siamo tutti pupazzi, in un teatro di marionette?”, si era
chiesto in quegli stessi anni Arthur Symons. Il tema, che ha radici nel romanticismo
(per esempio in Kleist), è diffuso tra gli artisti dell’epoca (e basti pensare a Pirandello,
oltre che naturalmente a Laforgue). L’uomo diventa marionetta nel momento in cui si
perde una visione forte, simbolica, della sua presenza sulla terra: una marionetta guidata
non da un Dio ma dal caso e tuttavia illusa dalla propria presunzione di star dando
8
“Tra le mie marionette trovo che / L’entusiasmo è intenso! / Vedono il profilo del loro palco / Concepito
su una immensa scala / E anche in questa tarda età / Aspettano un pubblico a bocca spalancata / Per la
suspense e il culmine della scena. / Due, in una scena di giardino, / Vanno cogliendo rose di carta; / Tutti soli,
eroe ed eroina, / Nella monotonia / Di promesse e complimenti / E congetture e supposizioni. / E laggiù i
miei Paladini / Parlano di causa ed effetto, / Come “Impara a vivere con le leggi di natura!” / E “Impegnati per
la felicità sociale / E mettiti in contatto con quanti come te / Credono nella Ragione: niente eccessi!”
E, come uno smette, l’altro comincia. / E una, una signora col ventaglio, / Grida alla sua domestica discreta /
“Dove mai troverò il mio uomo! / Uno che la mia anima apprezzi; / Gli metterei il cuore sotto ai piedi. / Gli
darei la vita nelle mani.” / (Con altro che non starò a ripetere.) / Le mie marionette (o così dicono) / Hanno
ogni giorno questi momenti acuti.”
155
La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
comunque un senso alle sue azioni e ai suoi pensieri. Il giovane Eliot ci presenta qui una
scena multipla che è tutta percorsa da vanità e vacuità ed è già, a suo modo, una “terra
desolata”. I vari attori si aspettano un pubblico a bocca spalancata per una recita che
ritengono ricca di passioni e di suspense, ma è un’attesa vana perché il dramma umano
si è svuotato esaurendo la sua tensione sia sentimentale che tragica.
Si noterà già nella prima quartina il gioco ironico delle rime - intense, immense, suspense - che sarà tipico di tutta la sua prima produzione, un gioco che
accosta parole-chiave e, nella consonanza, ne esibisce lo stridore. La seconda stanza
presenta una scena d’amore che ricorda antifrasticamente l’incontro di Romeo e
Giulietta: i due innamorati raccolgono rose 9, ma sono di carta, e si scambiano sentimenti, ma sono monotoni svilendosi tra promesse e supposizioni (e si veda anche
qui la rima dissonante tra roses e supposes). Nella terza stanza la scena è quella di
uomini impegnati in una discussione apparentemente profonda in cui si parla,
positivisticamente, di causa ed effetto, delle leggi di natura, del dominio della Ragione. Ma chi sono questi “paladini”? Non più i celebri loro predecessori, i dodici
pari della corte di Carlomagno, ma vani chiacchieroni che presumono di trovare
nel principio di causalità la chiave del fluire del tempo e affidano all’utilitarismo e al
razionalismo il compito di promuovere “le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. La quarta stanza ritorna sul registro dei sentimenti presentando una signora dell’alta borghesia (chiara prefigurazione della signora del Portrait of a Lady)
che nel suo ambiente claustrofobico confida alla cameriera i suoi patemi d’animo,
una impossibile ricerca d’amore che viene tagliata da un’ironia in gran parte affidata
ancora una volta al gioco delle rime in cui collidono categorie semantiche e toni
disparati (fan-man, discreet-feet-repeat, soul-control). Gli ultimi due versi concludono con uno sberleffo tutte queste scene percorse da vane cerimonie, da pretese
intellettuali, da patetico romanticismo: le marionette del poeta non si accorgono
della loro vanità, ma anzi credono di vivere una vita piena di keen moments come
quelli appena offerti in questa loro fatua recita.
Vediamo ora un’altra poesia, First Caprice at North Cambridge, datata novembre 1909:
A street-piano, garrulous and frail;
The yellow evening flung against the panes
Of dirty windows: and the distant strains
Of children’s voices, ended in a wail.
Bottles and broken glass,
Trampled mud and grass;
A heap of broken barrows;
9
Si veda quale carica simbolica aveva la rosa sulla bocca di Giulietta: “What’s in a name? That which we
call a rose / By any other word would smell as sweet.”
156
Alessandro Serpieri
And a crowd of tattered sparrows
Delve in the gutter with sordid patience.
Oh, these minor considerations!….10
La tematica e la struttura ricordano da vicino i Preludes, le quattro scene di
squallore urbano che Eliot avrebbe incluso nella sua prima raccolta del 1917, e ci si
chiede perché non abbia accolto anche questa e l’abbia lasciata inedita in un taccuino. Anche questo è un “preludio” e ne porta l’impronta già nel riferimento musicale del titolo: capriccio. Simili appaiono pure i toni e i registri verbali, affidati quasi
esclusivamente a frasi nominali di impianto già imagista, anche se Eliot non era
ancora entrato in contatto con il movimento dell’Imagismo. La desolazione della
scena si apre con il lamento di un organetto in una strada; e se ne veda la qualificazione, “garrulo”, “gracile”, con trasferimento, tipico di Eliot, di attributi umani a
oggetti (e, viceversa, di reificazioni oggettuali a esseri umani), che anticipa lo “streetpiano, mechanical and tired” del Portrait of a Lady. Ai vv. 2 e 3 appare una sera
gialla - a indicare l’inquinamento urbano - gettata, come se avesse una sua fisicità
animalesca, contro vetri sporchi di finestre affacciate su questa stessa strada; e qui è
già prefigurata la celebre immagine che apre Prufrock (“Let us go then, you and I, /
When the evening is spread out against the sky / Like a patient etherised upon a
table…”) combinata con quella della gialla nebbia animalesca all’inizio del suo terzo movimento (“The yellow fog that rubs its back upon the window-panes…”). La
scena è urbana e tuttavia vuota di umanità: si sentono solo, lontane, voci di bambini
che poi terminano in un lamento parallelo a quello iniziale dell’organetto umanizzato.
La seconda stanza si apre con altre tre frasi nominali che presentano immagini di
residui e frammenti, di fango calpestato, di cumuli di oggetti ormai inutilizzati. Si
noti l’iterazione dell’aggettivo verbale broken, che diventerà uno dei paradigmi fondamentali della frantumazione delle cose e del senso in tutta la produzione eliotiana:
“A heap of broken barrows” anticipa il celebre monito quasi in apertura della Waste
Land, “Son of man, You cannot say, or guess, for you know only / A heap of
broken images…”, mentre il “broken glass” anticipa l’identico sintagma nel primo
movimento di The Hollow Men. Si presenta poi un’ultima immagine, finalmente di
esseri animati: una folla di passeri cenciosi (e sia crowd che tattered
antropomorfizzano questi uccelli svilendoli alla stregua di quella umanità alienata
che abita questa scena e pure non vi compare) occupati in un’attività da meschini (si
noti la qualificazione anch’essa antropomorfa: “with sordid patience”) accaparratori
di immondizie. E la loro attività (delve) viene trasmessa dall’unico verbo di tempo
finito dell’intero componimento. Gli uccelli cantati e celebrati dalla poesia romantica si assimilano ora al grande squallore. Tutto è residuo. E lo è anche, ironicamen-
10
“Un organetto nella strada, garrulo e gracile; / La gialla sera gettata contro i vetri / Di finestre sporche:
e le distanti melodie / Di voci di bambini terminanti in un lamento. / Bottiglie e vetri rotti, / Fango ed erba
calpestati; / Un cumulo di carrette rotte; / E una folla di passeri cenciosi / Rovistano nelle gronde con sordida
pazienza. / Oh, queste secondarie considerazioni!…”
157
La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
te, il verso di chiusura che sigla metaletterariamente lo stesso compito del poeta il
cui campo semantico non può essere, ora, che “minore”.
Un altro titolo musicale troviamo in Interlude in London, datata aprile 1911:
We hibernate among the bricks
And live across the window panes
With marmalade and tea at six
Indifferent to what the wind does
Indifferent to sudden rains
Softening last year’s garden plots
And apathetic, with cigars
Careless, while down the street the spring goes
Inspiring mouldy flowerpots,
And broken flutes at garret windows 11.
L’interludio si riferisce a qualcosa che non avviene, un intermezzo piuttosto
che un brano musicale interposto tra due pezzi di un componimento. Questa è la vita
contemporanea per il giovane Eliot. Se nella prima poesia che abbiamo visto appariva
l’io soggettivo di fronte alla scena delle sue marionette, mentre, nella seconda, la serie
delle immagini escludeva la prospettiva soggettiva, presente solo nell’ultimo verso,
qui è in questione un soggetto plurale, noi, che rappresenta quegli “uomini vuoti” che
popoleranno le poesie maggiori fino, appunto, a The Hollow Men del 1925. Che vita
è questa? Una ibernazione, per giunta peggiore di quella degli animali che la passano
nelle loro tane naturali, una ibernazione tra mattoni, in tane artificiali. Una vita immobile, che non transita da un dentro a un fuori (v. 2: si vive attraverso le finestre, non
si supera il diaframma, non ci si avventura tra le cose), ma viene ritmata solo da rituali
borghesi (la cerimonia del tè si troverà poi dovunque, in Prufrock, nel Portrait of a
Lady ecc.) e accompagnata da un’inerzia indifferente: indifferente a ciò che fa il vento
(e si veda poi nella Waste Land il grido della Signora: “What is the wind doing?”),
indifferente alle piogge che secondo il ritmo naturale bagnano la terra risvegliandola
in primavera (e qui c’è già in nuce il celebre attacco della Waste Land). Questo è il
tema anche della seconda stanza dove la primavera è vista ispirare fangosi vasi e rotte
scanalature sugli abbaini, rinnovando così quello squallore, invernale, che nel ciclo
della natura è solo una fase, mentre per l’umanità alienata, e non ispirata, nella propria
innaturale ibernazione è divenuto uno stato costante, una terra desolata. Gli uomini
vuoti non riescono più a sentire nemmeno il ruotare delle stagioni e quindi non
partecipano della meraviglia della rinascita perché rifiutano il dramma della vita, che
11
“Noi iberniamo tra i mattoni / E viviamo attraverso le finestre / Con marmellata e tè alle sei / Indifferenti a quel che il vento fa / Indifferenti a improvvise piogge / Che ammollano le aiole dell’altr’anno / E
apatici, con sigari / Incuranti, mentre per la strada va la primavera / Ispirando fangosi vasi / E rotte scanalature
sugli abbaini.”
158
Alessandro Serpieri
è primavera estate autunno e inverno, rintanandosi nell’inverno di una totale apatia.
Perciò poi aprile sarà “il mese più crudele” perché generando lillà dalla terra morta
mescolerà memoria e desiderio attivando e scombinando i piani temporali per profilare loro il rischio, ora rifiutato, della ricerca del senso nel dramma della vita.
Vediamo infine Mandarins 2, datata agosto 1910:
Two ladies of uncertain age
Sit by a window drinking tea
(No persiflage!)
With assured tranquilllity
Regard
A distant prospect of the sea.
The outlines delicate and hard
Of gowns that fall from neck and knee;
Grey and yellow patterns move
From the shoulder to the floor.
By attitude
It would seem they approve
The abstract sunset (rich, not crude).
And while one lifts her hand to pour
You have the other raise
A thin translucent porcelain,
Murmurs a word of praise 12.
Un altro esercizio, estremamente raffinato, che ci introduce alla maniera del
grande Eliot che conosciamo. Qui siamo in un interno, in un salotto come quello in
cui si troverà Prufrock. Vi siedono due signore dell’alta borghesia, riprese nella
consueta cerimonia del tè e delle chiacchiere vane, che tuttavia qui vengono sottaciute
perché l’attenzione è tutta rivolta alle loro pose, al loro abbigliamento, al loro atteggiamento che, volgendosi dal rito del tè alla vista lontana del mare al tramonto,
sembra esprimere approvazione proprio per la distanza che rende “astratto” lo spettacolo, non già “volgare” o “rozzo” (crude) come invece potrebbe apparire ai loro
sensi raffinati se fosse troppo vicino, invadente. Si ripropone, dunque, il solito diaframma che separa un’umanità vuota, e tuttavia presuntuosa, dall’energia vitale delle
cose. Sono le stesse signore che in Prufrock andranno e verranno da una stanza
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“Due signore di incerta età / Siedono a una finestra bevendo il tè / (Non è canzonatura!) / Con rassicurata tranquillità / Mirano / Una veduta lontana del mare. / Il profilo delicato e netto / Di vesti che piombano
da collo e ginocchio; / Disegni grigi e gialli si muovono / Dalle spalle al pavimento. / Dall’atteggiamento /
Sembrerebbero approvare / Il tramonto astratto (ricco, non volgare). / E mentre una solleva la mano per
versare / Tu fai che l’altra alzi / Una traslucida fine porcellana / Mormorando una parola di apprezzamento.”
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La terra desolata: cenni sulla poesia di W. B. Yeats e T. S. Eliot
all’altra “parlando di Michelangelo”, e cioè affettando cultura, partecipazione, sfoggio di informazioni raccolte in vani giri turistici. I loro valori tendono all’astratto,
al ricco, al prezioso (come sottolinea l’unica parola che viene registrata tra di loro:
si veda l’ultimo verso). E anche qui a un certo punto, nel secondo verso dell’ultima
stanza, fa capolino, nella forma della seconda persona, il poeta-entomologo di questi strani esseri vani, di queste marionette disarticolate.
La terra desolata di Eliot troverà infine salvezza nella sua conversione al cristianesimo. Una scelta diversa da quella di Yeats che, alla stregua di Blake, si costruì
piuttosto una sua religione personale. Fatto sta che entrambi dovettero opporre (o
costruire) un senso alla deriva in cui si sentivano trascinati.
Per concludere questa sommaria panoramica su quelli che sono considerati i
due più grandi poeti di lingua inglese del Novecento riassumiamone alcuni aspetti
fondamentali. In Yeats, il Self e l’Antiself, l’Io e la Maschera afferiscono a una concezione miticamente, visionariamente, dialettica e dialogica della coscienza e della
identità, e, per analogia, dell’intera storia dell’uomo. Il conflitto tra due
identificazioni, la quotidiana fattuale e l’ideale mitica e simbolica, corrisponde al
conflitto tra il mondo oggettivo, solo apparentemente reale e razionale, e la visione
soggettiva, sede della creatività non già individuale ma innestata nella Anima Mundi
e da essa estratta dall’artista in quanto interprete simbolico, e corrisponde alla dialettica di ere soggettive e oggettive che si alternano nello scorrere della storia. Siamo
alla fine di un’epoca, nel segno di una crisi che tuttavia dovrà produrre un’altra
epoca, a questa opposta, in cui la creatività, la visionarietà, lo scatenamento dei
sensi e il fiorire e rifiorire delle Immagini fondamentali risarciranno finalmente l’umanità del lungo sonno oggettivo e morale dell’epoca cristiana al tramonto: tutto collassa
verso un nuovo punto germinale, il vortice di un altro cono. Questo sistema visionario reclama, per la comprensione di molte sue poesie, una conoscenza paratestuale
(delle sue lettere, dei suoi diari, dei suoi scritti in prosa) e talvolta extratestuale.
In Eliot, c’è ugualmente, e anzi in maniera ben più marcata, il senso della fine, la
desolazione, i vuoti riti, la falsità dei rapporti, la crisi della coscienza. La crisi del soggetto, ancor più vistosa che in Yeats, conduce a sdoppiamenti dell’Io in io e tu, se non
anche in egli, mentre si animano minacciosamente gli elementi inanimati (strade, finestre, lampioni, sera ecc.). Di conseguenza i registri stilistici si moltiplicano: descrittivo,
ironico, sarcastico, grottesco, lirico e non lirico, epico e non epico, elegiaco e non elegiaco.
E ciò avviene di fronte alla frantumazione di un’intera civiltà e perfino della sua tradizione che va ricostruita secondo un canone personale. Di qui la ben più forte
intertestualità della sua poesia, una trama straordinaria di frammenti e un interseco
continuo di registri, con salti da epoca a epoca e da comparto ad altro comparto semantico
e simbolico. L’impersonalità eliotiana è pertanto più radicale di quella di Yeats e il suo
“metodo mitico” reclama una conoscenza intertestuale più che paratestuale ed
extratestuale. Anche in lui c’è omologia tra crisi della coscienza e crisi della storia, ma
proprio perché, a differenza di Yeats, egli non credeva più in nessun sistema simbolico
cui appellarsi per trovare il serbatoio di Senso da cui ricominciare, il punto di svolta non
poté infine consistere in altra scelta - se una scelta positiva doveva esserci - se non quella
di una religione rivelata, codificata, e si convertì all’anglicanesimo.
160
Gli autori
Gli autori
Roberto Alonge è uno dei più autorevoli e prestigiosi studiosi di teatro in Italia.
Ordinario di Storia del teatro e dello spettacolo presso il DAMS di Torino, si è occupato di Ibsen, Pirandello, di civiltà teatrale tra Cinquecento e Ottocento e della regia
contemporanea. Dirige la rivista teatrale “Il Castello di Elsinore” ed è attualmente
preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Torino.
Bibliografia:
Il teatro dei Rozzi di Siena, Olschki, Firenze, 1967; Pirandello tra realismo e
mistificazione, Guida, Napoli, 1972 (ristampa 1977); Struttura e ideologia nel teatro
italiano fra ‘500 e ‘900, Stampatori, Torino, 1978; “I giganti della montagna” di Luigi
Pirandello, Multimmagini, Torino, 1980; Epopea borghese nel teatro di Ibsen, Guida,
Napoli, 1984; Dal testo alla scena. Studi sullo spettacolo teatrale, Tirrenia Stampatori,
Torino, 1984 (ristampa 1988); Lungo viaggio verso il silenzio. L’allestimento di Massimo Castri del “Piccolo Eyolf” di Ibsen, Tirrenia Stampatori, Torino, 1985; Teatro e
spettacolo nel secondo Ottocento, Laterza, Bari, 1988 (ristampe 1993, 1994); Henrik
Ibsen. L’opera e la fortuna scenica, Le Lettere, Firenze, 1995; Scene perturbanti e rimosse. Interno ed esterno sulla scena teatrale, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996;
Madri, baldracche, amanti. La figura femminile nel teatro di Pirandello, Costa & Nolan,
Genova, 1997; Luigi Pirandello, Laterza, Bari-Roma, 1997.
Luigi Blasucci, pugliese residente in Toscana., insegna letteratura italiana alla
Scuola Normale di Pisa. Si è occupato, tra gli altri, di Dante, Ariosto e Leopardi e ha
curato anche edizioni di opere, tra cui l'edizione critica degli scritti di De Sanctis su
Manzoni. Di grande rilievo i suoi contributi sulla poesia contemporanea, in particolare
su Montale. Da tutti è auspicata la raccolta dei suoi preziosi “Saggi” montaliani.
Bibliografia:
Studi su Dante e Ariosto, Ricciardi, Milano-Napoli, 1969; Alessandro Manzoni
in Francesco De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, I, Laterza, Bari, 1962;
Opere Letterarie di Machiavelli, Adelphi, Milano, 1974; Leopardi e i segnali dell'infinito, Il Mulino, Bologna, 1985; I tempi dei Canti, Einaudi, Torino, 1996.
Achille Bonito Oliva, critico d'arte, ha iniziato il suo percorso artistico con la
poesia, partecipando alla riunione di Fano del Gruppo ‘63 con il suo primo libro di
poesia Made in mater, a cui seguiranno Fiction poems, Mappe, Antologia della poesia
visiva. Dal 1968 vive a Roma dove ha iniziato la sua avventura di critico d'arte. È ordinario di Storia dell'arte contemporanea alla Facoltà di Architettura dell'Università “La
Sapienza”. Ha organizzato in Italia e all'estero numerose mostre e ha curato la parteci161
Gli autori
pazione italiana alla VIII e XIII Biennale di Parigi (1973, 1985), alla Biennale di Sidney
(1982), alla Biennale di San Paolo (1996) e a quella di Dakar (1998). È stato curatore
generale della XLV edizione della Biennale di Venezia (1993), oltre che curatore culturale degli Incontri internazionali d'arte e dell'Electronic Art Café. È autore dei video:
Totomodo, l’arte spiegata anche ai bambini, Rai3 (1995); Autoritratto dell'arte contemporanea, Rai3 (1992/1996); A.B.O. Collaudi d'arte, Rai1 (2000).
Bibliografia:
Il territorio magico (1971), Arte e sistema dell'arte (1975), L’ideologia del traditore (1976), Vita di M.D. (1976), Le avanguardie diverse. Europa-America (1976),
Autocritico, Automobile, attraverso le avanguardie (1977), Passo dello strabismo (1978),
Arcimboldo (1978), Il mercante del segno: scritti da M.D. (1978), Autonomia e creatività della critica (1980), La transavanguardia italiana (1980), Monsù Desiderio (1981), Il
sogno dell’arte (1981), L’annunciazione del segno: Paul Klee (1982), La transavanguardia
internazionale (1982), Manuale di volo (1982), Dialoghi d'artista (1984), Minori maniere (1985), Progetto dolce (1986), Antipatia (1987), Superarte (1988), Il tallone d’Achille
(1988), L’arte fino al 2000 (1991), Così fan tutti: l’arte assolutamente (1991), Propaganda arte (1992), Conversation pieces (1993), Wim Wenders (1993), Lezioni anatomia: il
corpo dell’arte di (1995), Oggetti di turno (1997), M.D. (1997).
Vito Cagli, nato ad Ancona nel 1926, si è laureato in Medicina nel 1950 a Roma,
dove è stato per undici anni nelle Cliniche Universitarie del Policlinico Umberto I,
fino al conseguimento della specializzazione in Medicina Interna, della libera docenza
in Malattie Infettive e della libera docenza in Semeiotica Medica. Successivamente, ha
intrapreso poi la carriera ospedaliera e dal 1961 al 1966 ha prestato servizio come assistente all’Ospedale S. Giovanni di Roma. Nel 1966 è ritornato al Policlinico prima
come Vice-Direttore e poi come Direttore del Centro per lo Studio e la Cura dell’Ipertensione Arteriosa e delle Malattie Renali, dove è rimasto fino alla cessazione dal servizio (1991). Autore di oltre 250 pubblicazioni scientifiche, tra cui 6 monografie, è stato
relatore e moderatore in molti congressi nazionali e internazionali. I suoi campi di
interesse sono la medicina di laboratorio, la nefrologia, l'ipertensione arteriosa, la
metodologia clinica, i rapporti tra medicina e psicoanalisi. È stato membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Medicina Interna e della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa. È stato insignito del Premio “Sanimarche” istituito per i
marchigiani che, fuori dalle Marche, si sono distinti nel campo della sanità. Ha ricevuto un Diploma di benemerenza della Croce Rossa Italiana per 25 anni di insegnamento
prestati nella Scuola per Infermieri Professionali. È stato per molti anni Professore a
contratto nell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, con insegnamento nella
Scuole di Specializzazione per Medici di Laboratorio e in quella di Nefrologia. È accademico della Lancisiana di Roma e socio corrispondente dell'Accademia marchigiana
di Scienze, Lettere e Arti.
Marcello Cini, nato a Firenze nel 1923, è stato ordinario di Teorie Quantistiche
e di Istituzioni di Fisica Teorica all’Università “La Sapienza” di Roma fin dal 1957. È
stato nominato professore emerito all'atto del suo collocamento a riposo. Nella sua
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Gli autori
attività di ricerca in fisica teorica si è occupato di particelle elementari e poi, a partire
dai primi anni ‘70, di fondamenti della meccanica quantistica e di processi stocastici.
Da quegli stessi anni ha cominciato a dedicarsi anche a studi di storia della scienza e di
epistemologia. In tutti questi campi ha pubblicato quasi un centinaio di articoli e di
relazioni sulle principali riviste internazionali e sui volumi degli atti di congressi e
convegni. Ha scritto numerosi articoli di divulgazione scientifica e di politica della
scienza su riviste come “Sapere e Scienza”, “Esperienza” e sul giornale “Il Manifesto”.
È stato vice-presidente della Società Italiana di Fisica, vice-direttore della rivista internazionale di fisica Il Nuovo Cimento, e direttore del Centro Interdipartimentale di
Ricerca sulle Metodologie della Scienza dell'Università “La Sapienza”.
Bibliografia:
L’Ape e l’Architetto (in collaborazione con G. Ciccotti, G. Jona-Lasinio e M.
De Maria, Feltrinelli, 1976); Il gioco delle regole (in collaborazione con D. Mazzonis,
Feltrinelli, 1982); Un paradiso perduto (Feltrinelli, 1994); Trentatré variazioni su un
tema (Editori Riuniti, 1990); Quantum Theory without Reduction (in collaborazione
con J. M. Lévy-Leblond, Adam Hilger IOP, 1991).
Donatella Di Adila, associa, da molti anni, al suo lavoro di insegnante di lettere
nelle scuole superiori un forte impegno nel campo della promozione culturale. Ha
diretto e coordinato numerosi corsi di aggiornamento e di formazione per docenti
promossi dal M.P.I. e dall’I.R.R.S.A.E. Puglia. È collaboratrice del giornale per insegnanti “Chichibio” diretto da Romano Luperini. È Presidente del Comitato di Foggia
della Società Dante Alighieri, nata nel 1889 per diffondere e tutelare in Italia e nel
mondo la lingua e la cultura italiana. Dal 1997 ricopre, a livello istituzionale, la carica
del Distretto Scolastico di Foggia.
Giulio Ferroni, storico e critico letterario, è nato a Roma nel 1943, ha studiato
con Walter Binni e dopo una tesi di laurea su Annibal Caro ha studiato aspetti diversi
del teatro del Cinquecento e i maggiori autori rinascimentali, frequentando, nel
contempo, gli ambienti della giovane letteratura romana tra gli anni ‘60 e ‘70. Dal 1975
al 1982 ha insegnato all’Università della Calabria, in un intenso scambio con docenti di
altre discipline letterarie e filosofiche; dal 1982 occupa la cattedra di letteratura italiana
presso l’Università di Roma “La Sapienza” e all’attività universitaria accompagna una
presenza militante nel dibattito culturale, con diretta attenzione alla letteratura contemporanea e ai problemi della scuola. Ha tenuto corsi presso università straniere e ha
collaborato a varie riviste e quotidiani (“l’Unità”, “Corriere della Sera”, “Belfagor”,
“Reset”, “Liberal”, etc.).
Bibliografia:
Mutazione e riscontro nel teatro di Machiavelli, Bulzoni, Roma, 1972. Il comico
nelle teorie contemporanee, Bulzoni, Roma, 1974. Le voci dell'istrione. Pietro Aretino e
la dissoluzione del teatro, Liguori, Napoli, 1977. Il testo e la scena, Bulzoni, Roma,
1980. Ambiguità del comico, Sellerio, Palermo, 1983. Storia della letteratura italiana,
163
Gli autori
Einaudi Scuola, Milano, 1991 (versione ridotta: Profilo storico della letteratura, Einaudi
Scuola, Milano, 1992). Gianmatteo del Brica. Lettere a Belfagor, Donzelli, Roma, 1994.
Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino, 1996. La
scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma, Einaudi, Torino, 1997. La
scena intellettuale. Tipi italiani, Rizzoli, Milano, 1998. Passioni del Novecento, Donzelli,
Roma, 1999. Dizionarietto di Robic, Piero Manni, Lecce, 2000.
Romano Luperini è uno dei più eminenti critici italiani. Nato a Lucca nel 1940,
insegna letteratura italiana all'Università di Siena. Dal 1965 al 1971 è stato uno dei
redattori della rivista politica “Nuovo impegno”. Dirige attualmente la rivista “Allegoria” occupandosi in particolare della sezione “Letteratura e scuola”. Dopo anni di
militanza politica e di convinta adesione alle esperienze della critica neomarxista, ha
allargato i suoi interessi dalla critica formalistica e semiotica a quella psicoanalitica ed
ermeneutica. È autore di vari studi su Verga, dopo quello da cui prese l’avvio “il caso
Verga”. È anche autore di saggi teorici e metodologici, di scritti sulla storia degli intellettuali e di studi e ricerche sulla storia letteraria del Novecento. Da anni presta attenzione ai problemi della scuola, in particolare a quelli dell'insegnamento letterario, della
sua difesa e del suo profondo rinnovamento. Per questo ha sostenuto la nascita di un
giornale di cui è direttore, fatto dagli insegnanti e destinato agli insegnanti, dal titolo
emblematico “ChichibÏo”, prefigurando, nell’attuale società massmediologica
dell'intrattenimento, il ruolo che fu dell'intellettuale nell’indicare significati e proporre idee e valori. Ha anche commentato per la scuola alcuni classici, ultimamente “I
promessi sposi”, ed è autore di un manuale di letteratura “La Scrittura e l’interpretazione” per le scuole superiori.
Bibliografia:
Pessimismo e verismo in Giovanni Verga, Liviana, Padova 1968, n.e. 1982. L’orgoglio e la disperata rassegnazione. Natura e società, maschera e realtà nell’ultimo Verga, Savelli, Roma, 1974. Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su Rosso
Malpelo, Liviana, Padova, 1976. Verga, Laterza, Roma-Bari, 1979. Verga. Le strutture
narrative, l’ideologia e il “caso” critico, Milella, Lecce, 1982. I Malavoglia (commento),
Mondadori, Milano, 1988. Marxismo e letteratura, De Donato, Bari, 1971. Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, Edizioni di ideologie,
Roma, 1971. Marxismo e intellettuali, Marsilio, Padova, 1974. Scipio Slataper, La Nuova Italia, Firenze, 1977. Gli esordi del Novecento e l'esperienza della “Voce”, Laterza,
Roma-Bari, 1979. Il Novecento e l’età presente, voll. IX e X in Letteratura italiana,
Laterza, Roma-Bari, 1976 e 1980. Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale,
sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, 2 voll., Loescher, Torino, 1982.
Montale o l’identità negata, Liguori, Napoli, 1984. Storia di Montale, Laterza, RomaBari, 1986. La lotta mentale. Per un profilo di Franco Fortini, Editori Riuniti, Roma,
1986. L’allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma. Il professore come intellettuale,
Piero Manni, Lecce, 1998. Federigo Tozzi, Le immagini, le idee, le opere, Laterza, RomaBari, 1999. Montale e il canone poetico del ‘900, Laterza, Roma-Bari, 1999. Il dialogo e
il conflitto, Laterza, Roma-Bari, 1999.
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Gli autori
Paolo Murialdi, firma prestigiosa del giornalismo italiano, è nato a Genova nel
1919 dove si è laureato in Giurisprudenza. Approdato al giornalismo, è stato redattore
del “Corriere della Sera” e dal 1956 al 1974 caporedattore centrale de “Il Giorno”. È
stato Presidente della Federazione nazionale della Stampa Italiana dal 1974 al 1981 e
Tesoriere della Federazione Internazionale dei Giornalisti (1986-1990). Ha diretto la
rivista “Problemi dell'informazione” dal 1976 al 1998. Docente di Storia del giornalismo e di comunicazioni di massa in diverse Università, attualmente insegna al Corso di
laurea in Scienze della comunicazione dell’Università di Torino. È stato, inoltre, consigliere di amministrazione RAI dal 1993 al 1994.
Bibliografia:
La stampa italiana del dopoguerra, Laterza, Roma-Bari, 1973. Come si legge un
giornale, Laterza, Roma-Bari, 1975. La stampa del regime fascista, Laterza, Roma-Bari,
1986. Maledetti Professori, Rizzoli, Milano, 1994. Storia del giornalismo italiano, Il Mulino, Bologna, 1996. La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine secolo, Laterza,
Roma-Bari, 1998. Il giornale, Il Mulino, Bologna, 1998. È autore della voce Giornali e
giornalismo nelle ultime tre appendici dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Roma.
Luigi Paglia svolge la sua ricerca soprattutto nel campo della letteratura contemporanea. È stato docente di Scienze dell’informazione, e di Metodologia e critica
letteraria nella scuola di perfezionamento per laureati dell’Università di Bari. Ha, inoltre, partecipato, in qualità di Formatore - Tutor, al progetto nazionale R.e.T.e. del Ministero della Pubblica Istruzione per l’introduzione delle tecnologie informatiche nella didattica dell’italiano. Ha pubblicato in volume: Invito alla lettura di Marinetti,
Mursia 1977; Poeti in Puglia in “Inchiesta sulla poesia”, Bastogi 1979; Luzi in “Poesia
italiana del Novecento”, Editori Riuniti 1993; Ungaretti in “Letteratura italiana ed
utopia”, Editori Riuniti 1995; Il viaggio ungarettiano nel tempo e nello spazio 2002, Il
grido e lo stupore (in c.s) e saggi e studi in riviste (Strumenti critici, Lingua e stile,
Annali dell’Università di Roma “La Sapienza”, Critica Letteraria, Otto/Novecento,
Rivista di Letteratura italiana, Nuova Antologia, Vita e pensiero, Rapporti, di cui è
stato membro della direzione, Paragone, etc) su Dante, Eliot, Grass, Woolf, Luzi,
Pirandello e Betti.
Mauro Palma lavora e vive a Roma. Da circa trenta anni si occupa di didattica
della matematica.
Insieme a Walter Maraschini ha scritto per la Paravia vari libri di testo per le
scuole medie superiori. Numerosissime le sue pubblicazioni ed i suoi articoli di informatica e didattica della matematica. Componente di varie commissioni ministeriali, già
direttore della rivista Epsilon della Paravia, attualmente è coordinatore delle iniziative
nell’ambito dell’Istruzione dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani nonché
direttore della rivista ITER. Risulta anche membro della Commissione del MIUR
dell’Accreditamento degli Enti che operano nell’ambito della formazione del personale della scuola.
Non meno impegnato in altri campi, è stato presidente onorario di “Antigone”,
associazione molto attiva nella tutela dei diritti e delle garanzie del sistema penale e
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Gli autori
carcerario. È anche componente dei comitati scientifici delle riviste: “Dei delitti e delle
pene”, “Fuoriluogo” e altre.
Attualmente è il componente italiano del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, dei trattamenti o delle pene inumane o degradanti presso il Consiglio d’Europa.
Francesco Remotti, nato il 6 giugno 1943 a Pozzolo Formigaro (Alessandria),
ha conseguito nel 1967 la laurea in Filosofia presso l’Università di Torino con una tesi
sull’antropologia di Claude Lévi-Strauss. Negli anni immediatamente successivi si è
occupato di temi e prospettive metodologiche in antropologia (strutturalismo, sistemi
di parentela, sistemi di classificazione). Nel frattempo (primi anni settanta) ha avviato
svariate ricerche etnologiche. Dopo alcuni anni di insegnamento come professore incaricato presso la Facoltà di Magistero di Torino, nel 1976 ha ricoperto la cattedra di
Antropologia culturale nell'Università Statale di Milano fino al trasferimento nel 1979
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Nel 1976 inizia una
ricerca sui BaNande dello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo), che conduce per circa un ventennio, e nel 1979, sotto il patrocinio del Ministero degli Affari
Esteri, fonda la Missione Etnologica Italiana in Zaire, poi trasformata in Missione
Etnologica Italiana in Africa Equatoriale, coordinando l’attività di numerosi ricercatori. Oltre all’etnografia dei BaNande, si occupa - in chiave etnostorica - dell’organizzazione dello spazio nei regni dell’Africa equatoriale precoloniale e in particolare del
fenomeno delle capitali mobili. Più di recente, ha ripreso interessi di natura teorica,
riflettendo sui significati della ricerca antropologica e ha elaborato una prospettiva di
ricerca sull'antropo-poiesi, ovvero sulle motivazioni e sulle modalità dei modi di costruzione delle forme di umanità. È stato Presidente del Centro Piemontese di Studi
Africani di Torino e Direttore del Dipartimento di Scienze Antropologiche,
Archeologiche e Storico-Territoriali. Attualmente è coordinatore del Dottorato di ricerca in Scienze Antropologiche presso l'Università di Torino.
Bibliografia:
Lévi-Strauss. Struttura e storia, Torino, Einaudi, 1971. (a cura di) I sistemi di
parentela, Torino, Loescher, 1973. (a cura di) La mente dei primitivi, Milano, Principato, 1974. Temi di antropologia giuridica, Torino, Giappichelli, 1982. Centri, capitali,
città. Un’esplorazione nelle strutture politiche dell’Africa precoloniale sub-sahariana,
Torino, Giappichelli, 1984. Antenati e antagonisti. Consensi e dissensi in antropologia
culturale, Bologna, Il Mulino, 1986. (con P. Scarduelli e U. Fabietti) Centri, ritualità,
potere, Bologna, il Mulino, 1989. Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino,
Bollati Boringhieri, 1990. Etnografia nande. Società, matrimoni, potere, Torino, Il
Segnalibro, 1993. Etnografia nande II. Ecologia, cultura, simbolismo, Torino, Il
Segnalibro, 1994. (con C. Buffa, S. Facci, C. Pennacini) Etnografia nande III. Musica,
danze, rituali, Torino, Il Segnalibro, 1996. Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996.
(a cura di) Le antropologie degli altri. Saggi di etnoantropologia, Torino, Scriptorium,
1997. (a cura di e con U. Fabietti); Dizionario di antropologia, Bologna, Zanichelli,
1997. Separazione, violenza e disagio culturale nei rapporti cultura/natura e potere/
società, Torino, Thélème, 1998. (a cura di) Forme di umanità. Progetti incompleti e
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Gli autori
cantieri sempre aperti, Torino, Paravia-Scriptorium, 1999; Prima lezione di antropologia, Roma-Bari, Laterza, 2000.
Renzo Scarabello, dopo aver conseguito, nel 1969, la laurea in letteratura latina, e
aver insegnato nella scuola media e negli istituti professionali, ha vinto la cattedra di
materie letterarie, e, dal 1980, è docente di italiano e latino nel Liceo classico “V. Lanza”
di Foggia. Per quindici anni, come docente associato della Facoltà di Lingue e letterature
straniere dell’Università dell’Aquila, ha tenuto i corsi di letteratura italiana presso l’Istituto Cattolico di Studi Universitari di Troia. Ha diretto e coordinato seminari di studi e
corsi di aggiornamento per docenti di scuola superiore, tenendo relazioni in particolare
sulla letteratura medievale, su Dante, sul Rinascimento, sulla letteratura popolare, su
Leopardi e il Romanticismo. Alcune delle sue conferenze, rielaborate, sono apparse su
riviste e quotidiani. Una lectura del XXXII canto dell’Inferno è stata pubblicata in un
volume miscellaneo. Si è anche occupato di letteratura latina con un saggio su Plauto.
Recentemente sta approfondendo i rapporti tra poesia, musica e teatro nella letteratura
medievale; in tale direzione ha curato la sceneggiatura di concerti danteschi e iacoponici,
che sono stati rappresentati nelle scuole, al Teatro “U. Giordano”, nella Cattedrale di
Foggia, alla sala “Paisiello” di Lucera. L’ultimo suo lavoro, un saggio sulla Beatrice
dantesca, è stato ora pubblicato nella rivista “Nuova Antologia”.
Alessandro Serpieri, nato a Molfetta nel 1935, è uno dei più eminenti anglisti e
semiologi italiani. È stato assistente ordinario di Lingua e Letteratura Inglese all’Università di Bologna dal 1963 al 1968, poi incaricato presso la stessa Università, ed è professore
ordinario della stessa disciplina presso l’Università di Firenze dal 1971. È stato presidente della Associazione Italiana di Studi Semiotici (1979-1983) e presidente della Associazione Italiana di Anglistica (1991-1993). Si è occupato prevalentemente di Shakespeare e
di altri autori elisabettiani, di poesia romantica e moderna, di dramma contemporaneo.
Fondamentali sono i suoi commenti e i suoi studi su T. S. Eliot e su Shakespeare.
Bibliografia:
John Webster, Bari, 1966; Hopkins - Eliot - Auden: saggi sul parallelismo poetico,
Bologna, 1969; T.S. Eliot: le strutture profonde, Bologna, 1973; I sonetti dell’immortalità, Milano, 1975; Otello: l’Eros negato, Milano, 1978; Retorica e immaginario, Parma,
1986; Direttore della ricerca per “Nel laboratorio di Shakespeare: dalle fonti ai drammi”, 4 voll., Parma, 1988; Ha tradotto e curato: La terra desolata di T.S. Eliot, Milano,
1982; Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, Firenze, 1994; L’amore moderno di George Meredith, Milano, 1999; di Shakespeare: Amleto, Milano, 1980/Venezia,
1997; Il Mercante di Venezia, Milano, 1987; Tito Andronico, Milano, 1989; Pericle principe di Tiro, Milano, 1991; I sonetti, Milano, 1991 (Premio Mondello 1992 per la traduzione); Giulio Cesare, Milano, 1993; Macbeth, Firenze, 1996; Il primo Amleto, Venezia, 1997 (Premio Internaz. Monselice per la Traduzione ‘98); Di Joseph Conrad ha
curato: Epistolario, Milano, 1966; Falk, Venezia, 1994; L’agente segreto, Firenze, 1994.
È anche autore di numerosissimi saggi, pubblicati su riviste italiane e straniere, su Donne,
Wordsworth, Coleridge, Beckett, sulla teoria del dramma, sulla teoria della traduzione, sulla psicoanalisi e sulla letteratura. Ha pubblicato, inoltre, un romanzo, Mostri
agli alisei, Milano, 1977, e un dramma, Dracula, Milano, 1988.Guido Salvetti
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Geppe Inserra
Omaggio a Franco Marasca
di Geppe Inserra
Franco Marasca è stato molte cose per la cultura e per l’informazione in Puglia
e in Capitanata. Per me è stato soprattutto un compagno di viaggio, un interlocutore
costante di molti progetti sognati e perseguiti, e di qualcuno pure realizzato, nell’arco di vent’anni.
Il tratto distintivo di questa comunanza, di questi progetti è stato rappresentato dalla comune consapevolezza che l’informazione e la cultura sono risorse
prioritarie per lo sviluppo del nostro territorio. Più precisamente, che senza informazione e senza cultura non sarà possibile un vero sviluppo economico, sociale e
civile, ma tutt’al più uno sviluppo limitato, imitato, replicato e quindi fatalmente
con le gambe e con il respiro corto.
Di questa idea Franco è stato un testimone e nello stesso tempo un protagonista, a cominciare dalla sua scelta di tornarsene da Milano in provincia di Foggia,
nella sua Troia, portandosi con sé “Il Rosone”, la sua prima creatura editoriale,
creata assieme a quell’altro vulcano di idee e di entusiasmo che è Peppino Palumbo.
Il periodico, nato inizialmente con l’idea di rappresentare un ponte tra la
folta colonia di emigrati pugliesi a Milano e la loro terra d’origine, è diventato via
via molto di più: uno strumento reale di riflessione e di confronto sullo sviluppo
del Mezzogiorno, ma all’interno di un laboratorio non solo meridionale. Ponte,
dunque, non solo di nostalgia, ma di idee, dibattiti. Ma soprattutto “Il Rosone” è
stato la cifra visibile (e non poteva essere diversamente, visto che del giornale Marasca
era non solo il direttore e l’editore, ma l’anima, il solerte ispiratore, il correttore di
bozze) di ciò che per Franco erano l’informazione ed il suo ruolo. Non un’informazione schiacciata sull’attualità, e quindi non un’informazione relegata al rango
di mero specchio della realtà; ma una informazione che diventa vetrina di una realtà
possibile, che indica percorsi di futuro, a partire dalla scoperta o dalla riscoperta di
pezzi di realtà che ci circonda, ma che non sempre vediamo o apprezziamo.
Una cosa che mi ha sempre impressionato di Franco è la rigorosa coerenza con
cui ha perseguito questa sua idea, e che diventa evidente a scorrere il lunghissimo
elenco dei volumi pubblicati da quella che è stata l’altra sua grande creatura: la casa
editrice “Il Rosone”. Il ricchissimo catalogo, sedimentatosi in ormai quasi vent’anni
di attività, spazia dall’arte alla poesia, dalla storia locale al teatro, dal reportage alla
letteratura, con fior di autori come Nino Casiglio, Maria Marcone, Anacleto Lupo,
Lello Vecchiarino, Cristanziano Serricchio, Stefano Capone, Michele Magno, Davide Grittani, Antonio Ventura, Oronzo Marangelli, Enzo Lordi e Mario Giorgio.
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Il “Rosone”: un’avventura editoriale. Omaggio a Franco Marasca
Il libro più fortunato a livello di vendite è anche quello che meglio fotografa
la filosofia dell’impresa editoriale messa su da Franco Marasca: “Cucina pugliese
alla poverella” di Luigi Sada. In questo libro, la gastronomia, la tradizione
riacquistano dignità culturale; il territorio diventa libro, il libro un positivo prodotto di mercato, all’interno di un circolo virtuoso che descrive felicemente le
potenzialità del binomio “cultura d’impresa / impresa della cultura”, che per la
Capitanata potrebbe essere una carta vincente.
Ci è riuscito senz’altro Franco a farci vedere che “perfino” in provincia di
Foggia non è azzardato sognare una cultura (fortemente collegata al territorio, ed
anzi, sua diretta “produzione”) che diventa, in se stessa, fattore di sviluppo: la conoscenza che si trasforma e si valorizza in lavoro, economia, reddito. Soprattutto,
Marasca ci ha insegnato che sognare è possibile, addirittura indispensabile, se vogliamo uscire dalle secche di un attualità che scandisce soltanto crisi, occasioni perdute.
Il gruppo editoriale che fa capo al “Rosone” è oggi molto più ricco ed articolato di quello che vent’anni fa Marasca aveva sognato. Accanto alla rivista ed alla
casa editrice, spiccano il periodico “Il Provinciale”, diretto da Giucar Marcone e la
catena di riviste specializzate (“Carte di Puglia, semestrale di letteratura, storia,
arte, “Impegno forense”, rivista giuridica e “Percorsi grafologici”, rivista della scuola
superiore di grafologia “Moretti” di Foggia). Molti fiori all’occhiello, all’interno di
una storia esemplare, nel cui ultimo tratto troviamo l’ennesima perla. Poco prima
che apprendesse la notizia del male che lo ha stroncato (e che ha affrontato con il
consueto coraggio), Franco si è distinto per essere stato l’anima della partecipazione della Provincia di Foggia al Salone del Libro, grazie anche alla collaborazione
della Delivery Book Service, un’agenzia di distribuzione (la prima a Foggia) che
Marasca ha voluto e propiziato. Per la prima volta, la Capitanata è stata presente nel
più prestigioso appuntamento editoriale nazionale: con la sua cultura, con i suoi
libri. Sul lungo ponte gettato anni fa da Marasca tra il Nord ed il Sud, adesso si
marcia in due direzioni. Ed il Sud, la Capitanata non esportano più soltanto braccia
e teste nel Nord, ma anche la cultura, la loro cultura, la loro produzione culturale.
Mi accorgo di aver ricordato l’amico ed il collega soprattutto parlando delle
cose che ha fatto, e credo che sia giusto e bello così. Quando si può parlare di
qualcuno che non c’è più, ricordandone le opere, significa che le sue opere sono di
per se stesse testimonianza di ciò che quest’uomo è stato. Una testimonianza destinata a durare nel tempo.
Non a caso, la cosa forse più bella ed entusiasmante che Franco ci ha lasciato
è l’entusiasmo della sua famiglia, dei suoi collaboratori, che hanno deciso, dopo la
comprensibile amarezza lasciata da una scomparsa repentina e purtroppo rapida, di
proseguirne l’opera. Una identità che non muore, e che anzi si consolida: ciò che è
stato Franco Marasca, è anche ciò che saranno le sue opere.
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Domenico D’Ambrosio
Padre Pio:
singolarissimo vivificatore di anime morte
di Domenico D’Ambrosio
INTRODUZIONE
1. Motivazioni varie, significative, talvolta gioiosamente espresse, e lunghi, entusiasmanti e fecondi anni di ministero sacerdotale vissuti nel luogo in cui tutto e tutti
narrano della misericordia che il Signore ha rivelato nel mistero della vita del Beato Pio
da Pietrelcina, giustificano quel particolare, singolare rapporto di gratitudine, ammirazione e devozione verso questo perfetto imitatore di Cristo che fa entrare anche me in
quella ‘clientela mondiale’ di cui ha parlato Paolo VI riferendosi alla moltitudine di
quanti vedono in lui il ‘rappresentante stampato delle stigmate di Nostro Signore’.
Noi che la Provvidenza divina ha posto a lavorare e ad annunziare il Vangelo
del Regno nella stessa realtà e luogo in cui Padre Pio per oltre cinquant’anni è stato
testimone dell’Amore Crocifisso e Redentore, siamo chiamati a guardare a Lui come
a un modello di fedeltà santa e a un testimone inequivocabile dell’amore redentore
di Cristo Signore.
I gruppi di preghiera della diocesi di Foggia, hanno voluto questo incontro
in concomitanza con il primo anniversario della beatificazione di P. Pio non soltanto per rinnovare fedeltà e impegno nel servizio a questa nostra Santa Chiesa che
manifesta e proclama le meraviglie del Signore qui, in Foggia ma per approfondire
qualche aspetto della ricca spiritualità del Beato Pio in vista di un rinnovato e nuovo impegno alla ‘sequela Christi’ ricalcando le orme che hanno guidato il nostro
Santo lungo l’itinerario della perfezione.
2. Il 23 maggio 1987 nella memorabile visita di Giovanni Paolo II alle Chiese
della Capitanata, iniziando da San Giovanni Rotondo il suo ‘pellegrinaggio’, in un
discorso tenuto nel Santuario di S. Maria delle Grazie, il Papa ha voluto richiamare
in particolare la straordinaria ricchezza del ministero sacerdotale di P. Pio, dicendo
fra l’altro, quasi a sottolineare i due poli che scandiscono la vita del Beato, che “
l’intima e amorosa partecipazione al sacrificio di Cristo fu per P. Pio l’origine della
dedizione e disponibilità nei confronti delle anime, di quelle soprattutto impigliate
nei lacci del peccato e nelle angustie della miseria umana”.1
Nel ‘Breve Apostolico di beatificazione del Ven.le Pio da Pietrelcina’ , Gio-
1
G. Leone ( a cura di ), Il Papa a S. Giovanni R., Ed. Casa Sollievo della S., S.Giovanni R. 1987, p. 65.
171
Padre Pio: singolarissimo vivificatore di anime morte
vanni Paolo II afferma: “Fin da giovane Padre Pio comprese che doveva colmare,
insieme a Gesù, lo spazio che separa gli uomini da Dio. Attuò questo programma
con tre mezzi: la direzione delle anime, la confessione sacramentale e la celebrazione della messa. Dai volumi della sua corrispondenza si può cogliere la statura dell’esperto direttore di anime, che fermamente vive e fa vivere le verità fondamentali
della fede. Confessarsi da Padre Pio non era impresa facile e con la prospettiva di un
incontro non sempre carezzevole, eppure il suo confessionale era sempre assiepato”.
3. Il titolo di queste mie note: ‘Padre Pio: straordinario vivificatore di anime
morte’, non è mio ma di un confratello del venerato Padre, P. Tarcisio da Cervinara,
che così ha voluto sintetizzare l’azione rigenerante della grazia divina nei tanti che
si accalcavano al confessionale di Padre Pio, strumento docile e profetico del gesto
del perdono divino che ricrea e risuscita.
Questo singolare aspetto del ministero di Padre Pio si sviluppa e si integra
con una seconda dimensione che ci viene svelata dalla corrispondenza del venerato
Padre: Padre Pio, maestro di spirito e guida sicura verso il cammino di perfezione.
Padre Pio confessore:
4. La confessione è stato l’apostolato fecondo di Padre Pio per oltre cinquant’anni. In un momento in cui nella Chiesa si usa la parola crisi in rapporto a
questo sacramento anche per nostre colpevoli omissioni, dimenticanze e superficialità, il venerabile Padre Pio, odierno antesignano, testimone e rivelatore del volto
della misericordia di Dio, ricorda alla Chiesa, ai sacerdoti confessori, la gratuità
complessa e crocifissa di questo sacramento.
Molto si è scritto su Padre Pio confessore.
Non era facile confessarsi da lui, non solo per la lunga attesa ma anche perché
egli era un confessore esigente. Il messaggio che scaturiva dal confessionale di Padre Pio era un messaggio di misericordia e di amore ma anche di fermezza. Non
erano rari i casi in cui egli negava l’assoluzione perché non c’erano le condizioni per
poter ricevere il perdono. Scrive il card. Lercaro: “Fermo e deciso fino ad essere
brusco e quasi scontroso; e, nel tempo stesso, aperto e confortante così da dare la pace
e la serenità a chi non l’aveva da anni o, forse, mai gustata, e da innamorare della
fede, del sacrificio e della donazione generosa anche chi a lui, spesso senza saperne il
perché, scettico o deliberatamente refrattario, arrivava”.
Le lunghe ore passate al tribunale della misericordia - Padre Pio nei primi
anni del suo sacerdozio rimaneva in confessionale fino a 16 ore al giorno -, fanno di
questo santo uomo di Dio un modello e un preciso segno per i sacerdoti.
Egli, ha scritto l’Osservatore Romano dopo la sua morte, “Non voleva rinunziare alla missione e al dovere di ogni sacerdote, ministro della grazia e misericordia di Dio”.
Il ministero della confessione è stato l’assillo quotidiano del venerato Padre,
172
Domenico D’Ambrosio
l’offerta della misericordia divina ai tanti sfiduciati e smarriti di cuore che accorrevano a lui da ogni parte. Singolare la risposta che mons. Andrea Cesarano, Arcivescovo
di Manfredonia, diede a Pio XII che, in occasione della visita ad limina nel 1947, gli
chiese: “Che fa Padre Pio?” E l’ Arcivescovo: “Santità, toglie i peccati del mondo”.
Padre Pio viene ordinato sacerdote il 10 agosto 1910 e nel Natale dello stesso
anno chiede al Provinciale P. Benedetto da San Marco in Lamis l’autorizzazione ad
amministrare il sacramento della Penitenza, vista la richiesta pressante di molti suoi
concittadini.
La richiesta è appoggiata dall’Arciprete di Pietrelcina don Salvatore Pannullo.
Nell’Epistolario sono ben 18 le lettere che nello spazio di due anni (aprile 1911 –
aprile 1913) registrano da parte del Padre le pressanti richieste al Provinciale e i
dinieghi dello stesso per svariate ragioni.
Così scrive P. Benedetto in risposta a un’ulteriore richiesta di P. Pio il 4 marzo 1912: “Non posso concedervi la facoltà chiesta e ciò non solo per un riguardo alla
vostra malferma salute, ma anche perché debbo essere certo della necessaria capacità
scientifica prima di autorizzare qualcuno al sacro ministero (…). La teologia morale
è una materia tanto lunga che non basta l’averla appresa diligentemente ma bisogna
averla sempre fra le mani (…) Posso mai congetturare che ne abbiate la cognizione
sufficiente se oltre a non averla percorsa regolarmente con l’aiuto di un lettore non
siete stato da lungo tempo in grado di rileggerla?”.2
Sono le misteriose vie di Dio che bisogna adorare. E Padre Pio china la testa
ai voleri del cielo e attende con trepidazione e fiducia.
Ci troviamo di fronte a quella singolare e, molte volte a noi, incomprensibile
divaricazione tra i progetti di Dio e le letture dell’uomo.
Colui che farà di tutta la sua vita sacerdotale un servizio per accogliere i
peccatori e ricondurli all’abbraccio del Padre, abbattendo resistenze e durezze all’azione vivificante della grazia, vive una fase iniziale di tormento causato da dinieghi e giudizi non positivi sulla sua effettiva capacità di poter adempiere al ministero
della riconciliazione e del perdono.
Sappiamo che passerà buona parte della sua vita e delle sue giornate per 55
anni eroicamente e fruttuosamente nel confessionale dove egli vivrà una misteriosa
ma reale contemporaneità con la Morte - Risurrezione di Cristo attraverso la morte al peccato e la risurrezione alla grazia del penitente.
“Padre Pio – ha scritto un suo confratello P. Tarcisio da Cervinara – era in
confessionale, un perenne Venerdì Santo, che donava in un profluvio di sangue, ai
peccatori pentiti la vita e la pace del Risorto. L’eterna verità della Morte e Risurrezione di Cristo, gli altri sacerdoti l’hanno sempre annunziata dal pulpito: lo
Stimmatizzato del Gargano, in forma singolarissima, l’ha proclamata esclusivamente
dal confessionale”.3
2
P. Pio da Pietrelcina, Epistolario I, S.Giovanni R. 1971, p. 263.
P. Tarcisio da Cervinara ‘P.Pio Confessore….’ In Atti del I Convegno di studio, S.Giovanni R.1972, p.
222-223.
3
173
Padre Pio: singolarissimo vivificatore di anime morte
Padre Pio nel ministero della confessione si offre al Signore come vittima e
fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale. A distanza di pochi mesi dalla sua ordinazione sacerdotale il 29 novembre 1910 così scrive a P. Benedetto: “Da parecchio
tempo sento in me un bisogno, cioè di offrirmi al Signore vittima per i poveri peccatori (…) Questo desiderio è andato crescendo sempre più nel mio cuore tanto che ora
è divenuto, sarei per dire, una forte passione”.4
Il peso di questa offerta non era né leggero né facile. Alla scuola della vittima
del Calvario P. Pio aveva capito non solo l’essere vittima ma anche ciò che era chiesto ad una vittima.
Ecco alcuni brani di un colloquio tra P. Pio e una sua figlia spirituale:
“Padre, quanto soffrite?”
“Quanto può soffrire colui che sulle spalle si addossa tutta l’umanità. Pregate
per colui che porta il peso di tutti … la croce per tutti!
“Chi è, Padre, il vostro Cireneo?”
“Nessuno! Tutti dicono: povero padre! Povero Padre! … E tutti poi mi coprono di pesi.5
Era impressionante, scrivono i suoi biografi e i tanti testimoni, osservare P.
Pio quando pronunciava la formula dell’assoluzione sul capo del penitente: il mistero della morte e risurrezione del Signore si riflettevano al vivo nel suo volto.
Sembrava uno sforzo titanico quello che Padre Pio doveva compiere nel pronunciare la formula ‘Ego te absolvo’ (io ti assolvo), quasi una lotta sovrumana che
egli doveva affrontare per sconfiggere il demonio nelle anime.
L’Osservatore Romano alla sua morte ha scritto: “Fino all’ultimo P. Pio, stremato dalla penitenza, è vissuto svolgendo il suo ministero (…) Si recava al confessionale in carrozzella perché non si reggeva in piedi, ma non voleva rinunziare alla
missione e al dovere di ogni sacerdote, ministro della grazia e misericordia di Dio”.
P. Pio lascia Pietrelcina nel 1916 e rientra in provincia a causa di una nostra
concittadina: Raffaelina Cerase.
La stessa aveva manifestato a P. Agostino da San Marco in Lamis il desiderio
di conoscere P. Pio: “Padre, fatelo tornare in convento e fatelo confessare perché
farà molto bene”.
Il 17 febbraio 1916 P. Pio visita e confessa a Foggia la Cerase e, contro ogni
sua previsione, rientra definitivamente in Convento.
P. Pio passava ore al confessionale della Chiesa di S. Anna e scrive a P. Agostino:
‘dovete sapere che non mi si lascia un momento libero: una turba di anime assetate
di Gesù mi si piomba addosso da farmi mettere le mani nei capelli’.
5. Ci poniamo una domanda: chi è P. Pio confessore?
Un giorno una figlia spirituale gli chiede:
4
5
P. Pio op. cit., p. 206
P. Tarcisio da Cervinara, op. cit. p. 225
174
Domenico D’Ambrosio
Padre chi siete voi per noi?
E P. Pio: ‘In mezzo a Voi sono fratello; sull’altare vittima, in confessionale
giudice’.
“Il confessionale di P. Pio era il luogo della misericordia e della fermezza ma
era anche una culla e ogni nascita conosce i travagli del parto.
P. Pio immergeva le anime in un crudo travaglio e diventando poi tormento
di anime purificava i cuori al punto da presentarli, dopo sì salutare lavacro, con
gioia infinita, convertiti per sempre a Gesù”.6
‘Padre, perché trattate così duramente i vostri figli ?
“Tolgo il vecchio e vi metto il nuovo”.
Non era un lavoro facile. Non mancavano né pazienza né tenacia. P. Pio curava e sosteneva le anime con assiduità e dolcezza.
Era una sua caratteristica quella che riusciva a travolgere, cambiare, convertire i cuori dei tanti che accorrevano a lui per incontrare la misericordia divina e una
vita nuova.
Nella fatica che l’incontro con la misericordia divina spesso genera in tanti, la
testimonianza e l’esempio di P. Pio confessore stanno a ricordarci che anche in questo ministero non c’è la competenza dello psicologo o l’analisi introspettiva dell’esperto, ma la fedeltà alla missione ricevuta dal Signore e la capacità dell’offerta di
chi in nome di Cristo rigenera e ricrea.
b. PADRE PIO: DIRETTORE DI SPIRITO
6. la direzione spirituale
Scrive San Giovanni della Croce che “Dio è l’agente principale e la guida da
cui l’anima deve lasciarsi condurre per mano, come un cieco, là dove non saprebbe
andare da sola, cioè verso i beni soprannaturali, dei quali né il suo intelletto, né la
sua volontà, né la sua memoria possono conoscere la natura”.
Il mistico è colui che si lascia condurre per mano dallo Spirito di Dio, è un
uomo spirituale nel senso vero del termine, è un testimone di Dio che trascina non
per le sue capacità umane o per la sua particolare funzione, ma perché agisce in lui
un particolare carisma in cui si manifesta lo Spirito Santo (E. Ancilli ).
Dal mistico arriviamo al mistagogo che è “il mistico stesso nella sua funzione
di aiuto e di guida all’esperienza del Mistero. Si è mistagoghi solo per un carisma
divino, che consente una conoscenza del cuore umano nelle sue più nascoste profondità” (Ancilli ).
La vita spirituale ha bisogno di aiuti e sostegni vari ed è indubbio che una
guida spirituale autentica, capace di suscitare la sete di Dio e il gusto della sua
6
op. cit., p. 237
175
Padre Pio: singolarissimo vivificatore di anime morte
contemplazione oggi come ieri diventa esigenza insopprimibile per quanti vogliono percorrere il sentiero che porta a Dio e alla conoscenza del suo mistero nella
propria vita.
Nessun uomo può scoprire da solo il mistero di Cristo. La guida spirituale
sarà il mistagogo che porta il discepolo a penetrare le profondità della vita intima
con Cristo.
Ognuno di noi ha la sua particolare strada verso la santità che è fatta dalla
fedeltà ai doveri del proprio stato. Un cammino non facile che ha bisogno di sostegno, di luce, di indicazioni. Mediocrità, fallimenti e rese, spesso sono la conseguenza di un cammino fatto in solitudine perché è mancata una guida o la si è rifiutata.
Queste piccole sottolineature le ho volute per facilitare e situare nella giusta
ottica la presenza di questo particolare carisma nel ministero di Padre Pio.
7. PADRE PIO: GUIDA ALLA CONOSCENZA DEL MISTERO
Scrive P. Gerardo Di Flumeri: “La linea secondo la quale si sviluppa il metodo pedagogico di Padre Pio, è il carattere eminentemente teologico che egli sa imprimere alla sua direzione. Questo carattere teologico non si deduce tanto dal fatto che
Padre Pio enunzia principi, dai quali risulta che Dio è al centro della sua direzione
spirituale e che resta l’unico vero maestro delle anime, mentre il direttore ne è il
vicario o rappresentante o collaboratore, quanto dal fatto che egli mette ogni impegno nello sviluppare, nell’anima che dirige, la grazia e le virtù teologali, orientandola verso queste energie soprannaturali”.7
Questo lo rende sempre attento e capace nel cogliere la proposta di Dio e poi
trasmetterla senza manipolazioni di alcun genere: lui è solo uno strumento nelle
mani di Dio.
Così scrive al suo padre spirituale P. Benedetto: “Mi sembra che ormai non
sia il caso che voi con qualche residuo dei vostri sospetti continuiate a tormentare
queste poverine. Gesù stesso fa loro da guida e voi non siete altro se non ministro di
questa sublime guida”.8
Egli porta le anime incessantemente e con sua grande sofferenza spirituale e
materiale al Signore: “Se non ascoltassi che la voce del cuore, chiederei a Gesù che mi
desse tutte le tristezze degli uomini; ma io non lo fò, perché temo di essere troppo
egoista, bramando per me la parte migliore: il dolore”.9
Avverte che è consapevole della tremenda responsabilità che ha davanti al
Signore quando deve guidare delle anime che Dio incammina alla santità e quindi
7
P. Gerardo Di Flumeri, P. Pio direttore di anime in Atti del I Convegno di studio, S. Giovanni R.1972,
p. 264
8
P. Pio, op. cit., p. 390
9
ivi, p. 270
176
Domenico D’Ambrosio
alla profondità della conoscenza del mistero per vie straordinarie: “Io non so poi
come regolare le anime che il Signore mi ha affidate e mi va affidando. Per alcune ci
sarebbe bisogno davvero di luce soprannaturale ed io non so se ce l’abbia oppure no
e vado tentoni regolandomi più volte con un po’ di dottrina pallida e fredda appresa
nel libri. Chi sa che queste povere anime non abbiano a soffrire per colpa mia? Mi
consola soltanto il pensiero di avere, per certi spiriti straordinari specialmente, la
buona intenzione e di ricorrere al divino lume. Anche per questo ti prego di pregare
il Signore e riferirmi ciò che egli ne pensa”.10
Una costante della sua guida spirituale è l’invito all’abbandono, alla fiducia.
“Non temere di nulla, Gesù è con te... sii costante nel fare ciò che eri solita di
fare, e statti tranquilla nelle braccia della misericordia divina”. 11
“Nutrisci la tua anima nello spirito di cordiale confidenza in Dio; ed a misura
che ti troverai circondata d’imperfezioni e miserie, solleva il tuo coraggio a bene
sperare” . 12
“A noi non deve preoccuparci e angustiarci, che siamo di Dio di una maniera
piuttosto che di un’altra. In verità poiché non cerchiamo che Lui e non lo troviamo
meno allorquando camminiamo in terra arida e per deserti, che quando camminiamo sulle acque delle consolazioni sensibili, perciò bisogna essere contenti sì dell’uno
che dell’altro cammino” . 13
8. PADRE PIO E LA DIMENSIONE UMANA DELLA DIREZIONE
“La direzione spirituale di Padre Pio, bene strutturata da un punto di vista
teologico e sorretta da un provvidenziale intuito psicologico, si muove non su un
piano astratto e dei principi soltanto, ma su un piano concreto e dell’applicazione
pratica dei principi stessi”.14
Emerge dai volumi dell’Epistolario la figura di un uomo capace, di ascolto, di
dialogo, di rapporti interpersonali, fatti di cordialità sincera e di comprensione
affettiva.
Sono tanti gli esempi di capitolazioni clamorose, meglio di conversioni, avvenute per la bontà, la pazienza e introspezione di Padre Pio.
“Malgrado il tratto squisito, l’indiscutibile prudenza, la buona volontà e la
retta intenzione, non gli mancarono screzi e difficoltà che a volte giunsero al limite della rottura o quanto meno della sospensione della direzione, o per l’infondato timore di sentimenti troppo umani da parte di qualcuna delle molte anime
10
P. Pio, Epistolario III, S. Giovanni R. 1977, p.185
ivi, p. 765
12
ivi, p. 774
13
ivi, p. 482
14
G. Di Flumeri, op. cit., p. 268
11
177
Padre Pio: singolarissimo vivificatore di anime morte
dirette (...) o per una erronea o falsa idea circa la validità della sua pedagogia (…).
Di fronte a simili situazioni tese e dolorose (…) giustificava oggettivamente il suo
modo di parlare o di agire, senza rinunciare alla responsabile autorità di padre e
maestro”.15
“I miei scritti mi sono richiesti da migliaia e centinaia di migliaia di persone, e
non intendo regalarli a coloro che avvezzi sempre a mangiare ghiande ed a giudicare coll’occhio carnale, vogliono vedere e guardare e gustare a guisa di uomini carnali
e sensuali. Lo so che tu in questo non ne hai colpa e per questo ne piango, ma è per
questo appunto che voglio il tuo bene che me ne sono astenuto. Voglio che tu te ne
rimani tranquilla e di fare sempre assegnamento sulle mie povere spalle”.16
Consapevole della gravità del compito che si assumeva nel dirigere un’anima,
non indietreggiava né si avviliva di fronte alle difficoltà, convinto che la guida spirituale di un’anima esigeva coraggio, forza e generosa dedizione.
“Non dubitare della mia assistenza. Il mio ricordo ti segue dovunque e ti
precede nelle tue imprese”.17
“Nella direzione spirituale P. Pio sembrava possedere il carisma di comunicare pace e tranquillità, serenità e certezza a quanti si avvicinavano a lui con l’animo
turbato e sconvolto. E questo è uno degli aspetti più caratteristici e paradossali
della sua direzione. Egli infatti trascorse la sua giornata terrena avvolto in dense
tenebre e combattuto dalle più atroci incertezze. Eppure le sue parole avevano una
forza magica per comunicare non solo serenità, ma anche forza e coraggio nelle
lotte e nelle incertezze”.18
“Hai torto nel dire che vivi nell’inferno, nel vederti circondata da coteste
prove e da coteste tenebre, e faresti meglio a dire che ti trovi in mezzo a un roveto
ardente. Il roveto brucia, tutta l’aria si riempie di nembi e lo spirito non vede e
comprende nulla. Ma Dio parla ed è presente all’anima che ode, intende, ama e
trema”.19
Tra le motivazioni scelte per invitare alla calma e alla serenità nelle prove,
quella che più di ogni altra sortiva l’effetto desiderato era la paternità divina:
“Temere fra le braccia del Padre il più amoroso ed affliggersi, perché questi ti
fa delle carezze paterne, è una stoltezza vera e pura” .20
15
M. da Pobladura, Problematica della direzione spirituale di P. Pio, S. Giovanni R.1980, p.158
P. Pio, op. cit. p. 444
17
ivi, p. 1053
18
M. da Pobladura, op. cit. p. 167
19
P. Pio, op. cit., p. 623
20
ivi, p. 785
16
178
Domenico D’Ambrosio
9. CONCLUSIONE
Quanti tra noi hanno avuto o hanno la fortuna di un vero direttore spirituale,
sanno quanto più chiaro e sicuro è il cammino verso la perfezione con il sostegno ,
il consiglio e la saggezza di un padre nello spirito.
P. Pio ha svolto questo ministero guidando un numero immenso di anime e
percependo in esse il passaggio dello Spirito di Dio e la risonanza più o meno
rilevabile di questo passaggio.
In tanti hanno goduto della meravigliosa capacità che egli aveva di mostrare
il volto della infinita tenerezza del Padre.
Molti hanno trovato per suo mezzo ‘i pascoli erbosi e le acque tranquille’
della vita divina.
P. Pio ‘straordinario e singolarissimo vivificatore di anime morte’, come ha
detto di lui P. Tarcisio, ha fatto sentire in queste la forza e la verità della nuova
creazione che Dio compie in noi perdonando le nostre miserie e i nostri peccati
come dice il Salmo 50: ‘Crea in me, o Dio, un cuore puro’.
Cosa diremo al Signore per le meraviglie di grazia che ha voluto manifestarci
e per la rivelazione del suo volto misericordioso nella vita di questo suo fedele
servo?
La nostra gratitudine ma soprattutto il nostro sincero e autentico desiderio
di preparargli la strada per la sua incessante venuta a noi, impegnandoci a “raddrizzare i sentieri” che le nostre ipocrisie e i nostri facili accomodamenti hanno rovinato, “riempiendo i burroni” che si sono creati per le nostre inadempienze e la nostra
latitanza, “abbassando monti e colli” che i nostri orgogli e le nostre presunzioni
hanno innalzato, “spianando i luoghi impervi” creati dalle nostre diffidenze, dalle
nostre chiusure e dalle nostre angolosità.
A queste condizioni potremo godere e fregiarci dei titolo di discepoli di colui, il B. Padre Pio, che qui in terra ha saputo evidenziare i tratti dell’unico Maestro,
Cristo Signore e potremo essere certi un giorno che una qualche raccomandazione,
lecita e affettuosa, il venerato servo di Dio P. Pio la farà per noi quando saremo
ammessi alla contemplazione del volto del Signore e gli diremo: Signore è bene per
noi restare qui e per sempre.
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Fabio Prencipe
Terra di cinema
di Fabio Prencipe
Capitanata terra di cinema? Da alcuni anni le cronache giornalistiche tendono a rilanciare l’immagine della nostra provincia come un luogo privilegiato per
produzioni cinematografiche in cerca di luoghi suggestivi, scenografie naturali, paesaggi urbani e “umani” meritevoli di nuove rappresentazioni. Quanto ci sia di
concreto in questo innegabile nuovo interesse dell’industria cinematografica per la
Capitanata e quanto sia frutto di provinciale entusiasmo per il “rutilante mondo del
cinema” è tutto da definire. È ovvio che in un’analisi non si può che partire dai dati
che innegabilmente mostrano un incremento, in questi ultimi anni, di produzioni
cinematografiche con una significativa parte delle riprese svolte sul nostro territorio. Senza volere essere esaustivi, ma solo a titolo di cronaca basta ricordare: I figli
di Annibale con Diego Abatantuono e Silvio Orlando; Prima del Tramonto di Stefano Incerti; I cavalieri che fecero l’impresa di Pupi Avati con Raul Bova; fino ai più
recenti, Ti voglio bene Eugenio, con Giancarlo Giannini e Giuliana De Sio e A.A.A.
Achille, del foggiano Giovanni Albanese, con Sergio Rubini.
Gli anni ’90, dopo una sostanziale assenza di troupe cinematografiche in
Capitanata, (importante eccezione Pensavo fosse amore, invece era un calesse dell’indimenticabile Massimo Troisi, girato a Lucera) si aprono con un titolo quale La
stazione di Sergio Rubini. In gran parte girato nella “dismessa” stazione di San
Marco in Lamis, il primo film del attore-regista pugliese ha nella sua claustrofobica
ambientazione (la sceneggiatura prende il via da un testo teatrale), delle necessità
specifiche che indubbiamente i luoghi prescelti garantivano. Una stazione isolata,
gli “odori e i sapori” della campagna pugliese, la “fatiscente efficienza” delle nostre
ferrovie interne. Accanto a queste valutazioni “artistiche” vi erano però altri elementi di carattere economico-produttivo che probabilmente sono stati quelli determinanti per la scelta della stazione garganica come set per le riprese. I costi di
soggiorno decisamente contenuti per un film a basso budget (era l’opera prima di
Rubini regista); la disponibilità delle Ferrovie del Gargano nel facilitare le riprese; il
fatto che il set, pur appartato, era facilmente raggiungibile da San Severo (base
logistica della produzione). Sicuramente le conoscenze del e sul territorio dell’allora quasi esordiente produttore barese Domenico Procacci. Il successo del film fu
decisamente significativo e in molti apprezzarono l’ambientazione scenograficopaesaggistica. Ma nessun altro film, se non piccole e casuali location (lo stesso Rubini tornerà sul Gargano per alcune sequenze de Il viaggio della sposa), seguirono
nei primi anni’90 quella fortunata esperienza. Alla fine del decennio però la
181
Terra di cinema
Capitanata è stata scoperta come luogo possibile per il cinema. Quali le motivazioni di questa nuova scoperta è difficile da dire. Sicuramente hanno influito elementi
strutturali. Dopo la prima metà degli anni ’90 il cinema nazionale ha progressivamente abbandonato le storie “due camere e cucina” che avevano caratterizzato la
produzione degli anni precedenti. La televisione è tornata ad investire direttamente
in produzioni (una tendenza durata pochi anni), il settore pubblico, con una nuova
legge per il cinema, ha sostenuto la ripresa produttiva. Di sicuro non vi è stato alcun
progetto organico predefinito sul territorio ma, come spesso accade, una serie di
fortuite circostanze che hanno portato alla individuazione di luoghi sostanzialmente
“vergini” alla rappresentazione cinematografica. In questo, non è a mio avviso da
sottovalutare l’impegno di singole persone e organizzazioni locali che sono diventate riferimento credibile per gli operatori del settore.
Proviamo ad analizzare in modo oggettivo alcuni di questi aspetti rimanendo legati alla suddivisione tra elementi “artistici” ed elementi “produttivi” utilizzata per il film di Rubini.
Il punto di partenza non può che essere la scoperta della Puglia come terra di
frontiera: porta del sud di un sud del mondo ancora sconosciuto e vitale, violento e
disperato. Ragioni storiche e sociali che, come è normale che sia, catturano l’attenzione, pongono alla ribalta culture e paesaggi, storie e mondi che prima non avevano motivi di interesse per l’immaginario cinematografico.
La nostra regione è diventata così per il cinema il “nuovo sud”. Un possibile
scenario di rappresentazione. Seppur marginale per gli aspetti socio-culturali, in
questo contesto la Capitanata ha rispetto ad altre zone della Puglia, caratteristiche
peculiari che la valorizzano. Molti direttori della fotografia hanno riscontrato nella
luce e nei colori dei nostri paesaggi (in particolare il Tavoliere) un elemento di
grande forza ed impatto visivo. Le nostre città, i nostri luoghi, sanno immediatamente di sud senza essere identificabili o riconoscibili. La vastità del territorio provinciale e la sua connotazione morfologica permettono di offrire ambienti
paesaggistici differenti: si va dalla montagna boscosa alla pianura; dalle coste rocciose alle lunghe spiagge di sabbia; dai villaggi turistici alla moda ai centri storici
arroccati sul mare.
L’ampia “offerta” (per usare un termine economico) paesaggistica è un elemento di grande importanza anche per quanto riguarda le ragioni “produttive” dei
set in Capitanata (in particolar modo per quelli con scarse risorse economiche). Set
e ambienti diversi nel raggio di poche decine di chilometri riducono tempi e costi di
trasporto. Altri aspetti importanti, che spingono spesso a preferire la nostra provincia come luogo favorito per la produzione, sono quelli di natura organizzativa.
Prima di tutto i costi logistici ancora relativamente contenuti e la vicinanza geografica con Roma, sede di quasi tutti i fornitori. Accanto a questo c’è da considerare la
sostanziale disponibilità, non si sa ancora per quanto, delle Amministrazioni e degli uffici locali a concedere autorizzazioni e servizi: dalla chiusura al traffico di
strade, alla polizia municipale per il servizio d’ordine. Dalla concessione gratuita di
spazi ed edifici, alla celerità nel disbrigo di formalità burocratiche. Una disponibili182
Fabio Prencipe
tà non dissimile viene da privati cittadini che mettono a disposizione locali o abitazioni, senza spesso pretendere costi di affitto per le location. Infine, parlando di
sud, non è da trascurare la sostanziale “sicurezza” del territorio ancora immune (in
questo settore) da infiltrazioni malavitose.
Se queste sono, per grandi linee, le motivazioni che possono spiegare l’apertura di set in Capitanata, importante è analizzare i film che finora sono stati girati
sul territorio. Una prima necessaria suddivisione ritengo debba essere fatta tra produzioni pensate per la Tv e quelle per il cinema. Questa suddivisione si rende necessaria in quanto l’elemento artistico “paesaggio” nelle produzioni televisive ha
una importanza relativa proprio per lo specifico filmico ideato e pensato per il “piccolo schermo”. Questo comporta che la scelta delle location, una volta definite le
ambientazioni, sia il più delle volte legata a motivazioni produttive. In questo senso, a parte “il filone” Padre Pio (nelle sue molteplici rappresentazioni) che ha oggettive necessità di ambientazione sul territorio, non mi sembra si siano avute significative esperienze produttive sul territorio. Negli ultimi anni (cito a memoria)
una fiction con Lino Banfi protagonista, girata a Vieste in onda su Rai Uno e Il
procuratore un tv-movie con Melba Ruffo e Fabio Testi, ancora, per quanto mi
risulta, da programmare. Questa scarsa presenza di fiction ha motivazioni precise.
Se da un lato è innegabile che la televisione, per ragioni di costi, tende a limitare le
uscite al di fuori delle regioni dove vi sono centri produttivi, è anche vero che, in
caso di ambientazione in esterni, richiede strutture organizzative professionali con
le quali dialogare. In caso contrario utilizza la location solo per lo stretto indispensabile. Come avvenuto per il film con Banfi i cui esterni sono stati girati a Vieste
solo per le inquadrature “di mare” e per il resto, invece, in un paesino vicino Roma.
Discorso più articolato per quanto riguarda il “grande schermo”. In questo
caso l’elemento artistico può giocare un ruolo importante. Certamente forti motivazioni hanno spinto Incerti, e Giovanni Albanese a girare da noi i loro film. Nel
primo caso, Prima del tramonto, aveva la necessità di una ambientazione a sud fortemente definita ma priva di caratterizzazione regionalistica. Un sud Italia ideale e
metaforico contraddistinto da paesaggi desolati ma di forte impatto visivo. Discorso analogo per A.A.A. Achille di Albanese. In questo caso l’ambientazione, se non
indispensabile alla storia, svolgeva una precisa funzione narrativa ed emozionale
per il regista foggiano, che ritrovava nei luoghi, ambienti e situazioni che erano
proprie di una storia con una forte impronta autobiografica. Una curiosità, non so
se significativa o meno: entrambe le produzioni sono a marchio Cecchi Gori, in
una fase aziendale piuttosto complessa (cosa di cui il film di Albanese ha patito
molto). Motivazioni forti, probabilmente, hanno spinto anche Gianluca Greco,
esordiente alla regia, a preferire Peschici per ambientare la commedia Nemmeno in
un sogno (di prossima uscita). La storia di un immigrato turco, sbarcato clandestinamente, che finisce in un villaggio turistico affollato per l’estate. In questo caso
però, non è escluso che le ragioni produttive abbiano influito non poco sulla scelta
di Peschici in una Puglia terra di sbarchi. Un discorso per molti versi analogo lo si
può fare per Ti voglio bene Eugenio, con Giancarlo Giannini e Giuliana De Sio,
183
Terra di cinema
girato a Foggia ed in provincia. In questo caso, ferme restando le scelte artistiche,
probabilmente dettate dalla voglia di privare di qualunque caratterizzazione ambientale la storia, decisive sono state le motivazioni produttive. Molte scene sono
state girate nell’ospedale D’Avanzo, gli interni in ville private messe a disposizione
della troupe mentre gli esterni rimandano ad una città priva di immediata
riconoscibilità (se non per i foggiani).
Importante appare per il territorio, invece, la scelta di Pupi Avati di utilizzare
la Foresta Umbra come set de I cavalieri che fecero l’impresa. Un film in costume,
con Raul Bova protagonista, che utilizza i boschi del promontorio come teatro di
sfide e battaglie di condottieri alle Crociate. In questo caso la scelta ha, come facile
immaginare, precise motivazioni scenografiche essendo il film in costume. Luoghi
naturali affascinanti e senza tempo utilizzabili in mille altri contesti.
Mere ragioni produttive hanno invece caratterizzato altre due produzioni, di
natura, per così dire indipendente, in gran parte girate in Capitanata. Zana, con
Daniel Mc Vicar attore di Beautiful, sulla improbabile storia di una kossovara e Il
conte di Melissa, una storia in costume ambientata in Calabria. Produzioni anomale
nel panorama nazionale che sono arrivate a compimento più per la forte volontà dei
promotori che per reali motivazioni economiche e che hanno puntato forse un po’
troppo sulla “voglia di far cinema” del territorio. In quest’ottica di promozione
delle energie e delle professionalità locali, molto più significative mi sembrano le
esperienze degli Enti Locali a sostegno di giovani filmakers alle prese con
cortometraggi. Tra questi sono da ricordare, Urban Bus dei foggiani Nicola Scorza
e Lino De Virgilio e La controra, promosso dall’Amministrazione Provinciale. Tentativi lodevoli per una rappresentazione cinematografica del nostro essere, piccoli
esperimenti alla ricerca di un cinema “foggiano”.
Al di la dei risultati artistici e/o economici dei film sopra citati è importante,
in una ottica di promozione e sviluppo del settore nel territorio, considerare le
produzioni che hanno operato nella nostra provincia. Tra l’organizzazione produttiva del film di Avati e quella per esempio di Zana ci sono notevoli differenze.
Andando ad analizzare i titoli scopriamo che, a parte il film di Pupi Avati, quasi
sempre le pellicole realizzate sono opere prime o comunque film di giovani registi
più o meno emergenti. Una svolta importante per l’intero movimento poteva arrivare con l’ambientazione a Vieste di Malena di Giuseppe Tornatore. Uno slittamento
nell’inizio lavorazione ha comportato l’abbandono dell’ipotesi Vieste. Tornatore,
con una produzione hollywoodiana, avrebbe significato molto per la Capitanata
come terra di cinema (anche se utilizzata per rappresentare la Sicilia degli anni ’40).
Oltre alla visibilità mondiale e prescindendo dal valore cinematografico dell’opera,
film come quelli permettono ai luoghi rappresentati di entrare a far parte dell’immaginario cinematografico collettivo. Perché quello che realmente manca alla nostra provincia è una caratterizzazione. Un elemento identificativo forte che unisca
il territorio. Caratteri che permettano di ambientare qui e solo qui storie e racconti
di cinema. La mancanza di una identità comune che poi è il nostro limite culturale
ben oltre il cinema. Perché non vi è, ed è difficile che ci sia, un film foggiano. Non
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Fabio Prencipe
abbiamo Sangue vivo di taratati nella nostra cultura. Non siamo il Salento di
Winspeare che affascina il mondo. Non possiamo, dunque, che puntare sulle suggestive cartoline animate che il grande cinema può regalare al nostro territorio. Una
scelta pragmatica che se supportata da strategie e progetti di ampio respiro potrebbe creare possibilità di sviluppo e crescita del settore. Perché una troupe cinematografica impegna una quarantina di persone al giorno con un costo giornaliero medio di una quarantina di milioni (in vecchie lire). Le singole produzioni sopra citate
sono state impegnate sul nostro territorio con troupe per un periodo non inferiore
alle quattro settimane, utilizzando, sia pur marginalmente, professionalità locali.
L’indotto, può avere risvolti economici interessanti, se si stabilizza il numero delle
produzioni. Perché se il cinema ha il fascino del divismo, un sistema produttivo
serio sul territorio potrebbe sfruttare le molteplici possibilità che il mercato attuale
dell’audiovisivo offre. Per far questo però c’è bisogno di meno improvvisazione e
di una maggiore sinergia tra gli operatori del settore. Di certo, non so dire se purtroppo o per fortuna, un ruolo importante lo deve giocare il settore pubblico. Per
far questo però c’è bisogno di scelte politiche serie che invece di utilizzare risorse
alla rinfusa, programmino una serie di interventi mirati. Le film commission, di cui
tanto si parla anche da noi, devono essere organizzazioni con professionalità locali
a disposizione delle società di produzione. Le produzioni cinematografiche, come
più in generale i prodotti dell’industria culturale, non devono più essere visti come
medaglie di cui fregiarsi in occasioni importanti. Nella maggior parte dei territori
in cui si sono significativamente sviluppate, Piemonte Toscana, Lombardia, tutti i
soggetti istituzionalmente interessati hanno svolto il loro compito senza farsi dispetti e giocare a fare i primi della classe, come spesso accade da noi. Una unica film
commisison pugliese, solo considerando le caratteristiche geografiche, avrebbe difficoltà operative non indifferenti. Certamente, però, è altrettanto ridicolo ipotizzarne
una per provincia. Per essere economicamente convenienti queste società devono
operare su grandi numeri ed è difficile che l’attività svolta in Capitanata, per quanto
professionalmente ineccepibile, modifichi le caratteristiche dell’industria dell’audiovisivo. Gli Enti Locali del territorio se davvero credono nello sviluppo di questo settore si siedano tutti insieme intorno ad un tavolo e individuino un progetto
comune che permetta a chi opera di confrontarsi con pari dignità e mezzi con gli
operatori delle altre regioni d’Italia. Hollywood continuerà a preferire Firenze,
Venezia o Capri per gli esterni in Italia, forse però la televisione tedesca deciderà di
ambientare sul Gargano la storia di una scolaresca in gita in Italia e, forse, in Puglia
si girerà qualche spot pubblicitario in più. Altrimenti non ci saranno che produzioni “mordi e fuggi” o piccoli carrozzoni clientelari da far utilizzare ad amici e parenti.
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Carine Bizimana
Un osservatorio per l’immigrazione
di Carine Bizimana
Una mattina poco prima del Natale 2001 si costituiva ufficialmente l’Osservatorio provinciale per l’immigrazione di Foggia. I protagonisti firmatari dell’ accordo che vede la nascita dell’osservatorio, sono l’Assessorato alle politiche sociali
della Provincia di Foggia, la Facoltà di Lettere e Filosofie dell’Università degli
Studi di Foggia, il Consorzio per l’Università di Capitanata e la Cooperativa Xenia
–Onlus di Foggia.
La volontà politica dell’amministrazione della Provincia di Foggia, vera pioniera nell’affrontare il fenomeno dell’immigrazione nella Capitanata coordinando i
vari soggetti sociali, è quella di conoscere monitorare il fenomeno con l’ausilio della cooperativa Xenia e dell’Università. L’idea dell’osservatorio, in realtà, è nata tre
anni prima con i risultati del C.I.O.C. Xenia, Centro di Informazione, Orientamento e Consulenza per Immigrati Extracomunitari della Provincia di Foggia, che
con il suo lavoro negli attuali locali della Facoltà di lettere e Filosofia in Via Arpi, ha
monitorato il fenomeno dell’immigrazione in Capitanata durante la sanatoria prevista dalla Legge 40/98 sull’immigrazione e, successivamente, con il regolamento di
attuazione del Testo Unico sull’immigrazione. I firmatari, entrambi promotori dell’inserimento socio-culturale degli immigrati per la crescita della realtà culturale
foggiana, con la conoscenza delle culture di origine degli stranieri residenti in
Capitanata, nonché con il coordinamento e l’erogazione di servizi, hanno concordato la costituzione dell’osservatorio. Tra gli obiettivi primari, spicca senz’altro
quello del monitoraggio della presenza degli stranieri – non più con i connotati di
emergenza e occasionalità ma nel “risvolto sociale”- e dei flussi migratori attraverso la raccolta e l’elaborazione dei dati; lo studio del rapporto fra immigrati e popolazioni residenti; la fornitura di servizi di consulenza scientifica nelle scuole e nelle
strutture di formazione attraverso Workshop e corsi di aggiornamento; l’elaborazione di politiche di settore a disposizione dei soggetti che a vario titolo si occupano di immigrazione in provincia di Foggia, compresi gli Enti locali, le strutture di
ricerca, le organizzazioni di volontariato e del non-profit; l’ elaborazione di studi e
ricerche sulla qualità della vita degli stranieri, il loro inserimento lavorativo, la
scolarizzazione dei minori e il ruolo delle donne immigrate.
Una cosa è certa: i benefeciari di un’ambizione così grande saranno soprattutto i cittadini preoccupati dall’afflusso degli immigrati e intimoriti da un fenomeno “inatteso” per la loro storia e “sconosciuto” però ormai irreversibile, che potrà
essere studiato e spiegato dagli addetti alla materia. Ricordiamo che un buon
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Immigrazione e cultura: come nasce un osservatorio
monitoraggio del fenomeno in collaborazione con le Questure è una delle più importanti prevenzioni contro la delinquenza e la microcriminalità che quasi sempre
si nasconde dietro i viaggi della speranza di migliaia di popolazioni. Si tutela più
facilmente la sicurezza territoriale e la dignità della maggioranza degli ospiti stranieri, spesso confusa con quella minoranza problematica. I secondi beneficiari saranno i prossimi laureandi di una facoltà nuovissima - Lettere e Filosofia - dell’Università degli Studi di Foggia che si potranno avvalere di uno strumento importante per le loro ricerche. Infine, gli immigrati disorientati e non sempre tutelati dai
vari cambiamenti delle leggi negli anni, forse, e ribadisco forse, potranno trovare
nell’osservatorio uno strumento che possa dar corpo alle loro voci silenziose.
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Giuseppe Fagnocchi
Eugenio Radesca da Foggia: alla riscoperta di un musicista
di Giuseppe Fagnocchi
Fan celesti concenti
RADESCA le tue note,
Onde l’alme devote
Rapite da gl’accenti
S’inalzan co’l pensier fin’a le sfere
De l’Angeliche schiere
Dove per meraviglia
Restan mute, ò felice
Te, cui di far’opre sì degne lice.
Madrigale di Giovan Batista Feis
Premessa
La sola collocazione storica di Enrico Antonio Radesca, nato a Foggia verso
il 1570 e morto a Torino nel 1625, non può che attirare la nostra intellettuale curiosità verso colui che visse e operò in uno dei momenti più emozionanti e complessi,
sia musicalmente, sia in senso più lato culturalmente e spiritualmente, nella storia
del mondo occidentale. Siamo infatti agli inizi del barocco “una forma di pensiero
che accetta e addirittura rivendica, a proprio fondamento, la necessità simultanea
dell’uno e del suo doppio, forma compiuta del molteplice, dell’identico e del diverso, del simmetrico e del paradossale, dell’immoto e del mobile, nel prima e nel dopo,
che muta ad ogni istante. Il barocco è, nello stesso tempo e in forme estremamente
complesse, calcoli e figure di geometria, di fisica, di filosofia e di diritto.” La forza
di estrinsecazione e di sviluppo di tali caratteristiche è inoltre resa particolarmente
possibile “dall’elevatissimo numero di grandi spiriti che vi si sono concentrati. L’inizio di secolo XVII è probabilmente l’ultimo momento nella storia individuale dell’umanità in cui gli stessi uomini capiscono e si appropriano di tutte le grandi discipline.” Per evidenziare - limitandoci al solo campo della musica e, in questo, ai soli
nomi italiani - eventi e personalità che contribuiscono in maniera fondamentale a
questa grande epopea, molti dei quali sicuramente presenti alla memoria del lettore,
proponiamo il seguente sintetico prospetto cronologico relativo al primo ventennio
del Seicento, in cui si colloca l’attività creativa di Radesca, dal quale si evince con
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Eugenio Radesca da Foggia: alla riscoperta di un musicista
immediatezza la complessità e soprattutto la varietas del linguaggio musicale del
periodo in esame.
1600 - Emilio de’ Cavalieri, Rappresentazione di Anima et di Corpo
1600-01 - Jacopo Peri e Giulio Caccini, Musiche … sopra l’Euridice del sig.
Ottavio Rinuccini
1602 - Giulio Caccini, Nuove Musiche a una voce sola
1602 - Ludovico da Viadana, Cento concerti ecclesiastici … con il basso continuo
1605 - Claudio Monteverdi, Quinto Libro dei Madrigali
1606 - Girolamo Montesardo, Nuova invenzione d’intavolatura per sonare li
balletti sopra la chitarra spagniuola
1607 - Claudio Monteverdi, Orfeo
1610 - Claudio Monteverdi, Vespro della Beata Vergine
1615 - Girolamo Frescobaldi, Primo Libro di Toccate
1615 - Sigismondo d’India, Musiche a due voci
1619 - Gio. Francesco Anerio, Teatro armonico spirituale
1619 - Claudio Monteverdi, Concerto (Settimo Libro dei Madrigali)
A questi nomi vanno indissolubilmente associati, almeno per i lavori vocali,
quelli di diversi poeti tra i quali, al momento, ci limitiamo al solo cantore per
antonomasia del barocco italiano: Giovan Battista Marino (1569-1625), napoletano
ma anch’egli (come Radesca) attivo per alcuni anni a Torino sotto la protezione di
Carlo Emanuele I - prima di incorrere nelle disavventure dovute alla rivalità con un
altro scrittore, Gaspare Murtola - dalle cui Rime pubblicate a Venezia nel 1602
attinse, nell’arco di un solo decennio (1602-1611), un nutritissimo gruppo di ben
quarantasette compositori tra cui il Nostro nel 1610.
La pluralità degli eventi sopraccitati, che segna il trapasso dal sedicesimo al
diciassettesimo secolo, registra quindi una compresenza di tipologie strutturali e
contenutistiche spesso antitetiche ma pur sempre inscindibilmente legate tra loro,
tipiche come abbiamo rilevato in apertura, dell’affascinante e oggi giustamente rivalutato, mondo barocco, quali: proseguimento ed evoluzione del madrigale
polifonico rinascimentale e suo mutamento in senso monodico; nascita e rapido
sviluppo del basso continuo che segna il passaggio da una visione prevalentemente
contrappuntistica ad una essenzialmente armonica; emancipazione di una prassi
strumentale sì legata ad esigenze coreutiche nelle celebrazioni di corte oppure liturgiche in quelle sacre, ma in realtà sempre più pensata come autonoma; rigorosità
costruttiva da un lato e fantasia lasciata sovente anche alle qualità dell’interprete
dall’altro; genesi della rappresentazione, sacra e profana, caratterizzata innanzitutto
da quella indifferenza di sacro e profano tipica nella visione dell’uomo barocco, per
cui si celebra ugualmente la corte profana o quella divina all’interno sempre e comunque di una visione unitaria del mondo che, attraverso una gamma comprendente tutte le scelte possibili dalla sensualità più morbida e molle ad elevate espe190
Giuseppe Fagnocchi
rienze mistiche, è essenzialmente improntata su di un forte desiderio di conoscenza
dell’Essere che trova tra i suoi principali protagonisti pensatori quali Giordano
Bruno e Wilhelm Gottfried Leibniz, Cartesio e Blaise Pascal.
Radesca Renaissance
Ecco quindi riassunto il panorama nel quale Radesca vive partecipando attivamente e così contribuendo alla dinamica evoluzione del suo periodo, e anche se
gli anni della sua maturità li trascorrerà a Torino alla corte dei Savoia e in particolare di uno dei più grandi mecenati d’inizio Seicento il duca Carlo Emanuele I, è
comunque nell’ambiente della Capitanata che egli si forma, un territorio pertanto
che non può, anche per questo motivo, essere considerato esclusivamente confinato alle sole attività economiche, e indifferente alla dimensione culturale e civile.
A dimostrazione di ciò, almeno per l’argomento qui trattato, va innanzitutto
detto che, nel periodo a cavallo tra Cinquecento e Seicento, non fu Radesca il solo
musicista nativo della Capitanata; a lui possiamo infatti aggiungere almeno altri
cinque nomi quali:
Francesco Mazza (compositore) nato a Manfredonia a metà del XVI secolo e
attivo a Roma (1584) e a Manfredonia (1590);
Cesare Cardillo (compositore), nato a Ascoli Satriano a metà del XVI secolo,
maestro di cappella di Ascoli (1594);
Salvatore Sacchi (compositore e organista), nato a Cerignola nel 1572 e attivo
a Roma e Tuscanica (1607);
Cesare (Vito) Marotta (clavicembalista e compositore), nato a S.Agata di Puglia
verso il 1580 e morto a Roma nel 1630;
Luigi Rossi (compositore e clavicembalista), nato a Torremaggiore di Foggia
verso il 1598 e morto a Roma nel 1653.
E grazie alla vivacità d’intelletto che ancora oggi caratterizza il territorio di
Foggia ecco che Enrico Antonio Radesca, “di Foggia”, come lui stesso voleva venisse scritto nei frontespizi delle proprie composizioni, rivive ancora agli albori del
ventunesimo secolo, grazie ad una capillare indagine scientifica promossa dal Conservatorio Statale di Musica “Umberto Giordano” di Foggia, resa possibile
innanzitutto dalla intelligente e insaziabile determinazione dei suoi primi responsabili, il Presidente Antonio Vitulli e il Direttore Mario Rucci, desiderosi di affermare sul campo, appena l’occasione lo consenta, quella dicitura di istituzione di alta
cultura che al Conservatorio da qualche anno spetta per diritto, e dalla intraprendenza dei suoi docenti, in questo caso particolare di due oramai “ex”, Marco Giuliani
e Francesca Seller fino a qualche anno fa docenti di Storia della Musica nella Scuola
di Didattica rispettivamente delle sedi di Rodi Garganico e di Foggia.
Mediante anche l’avvio e il consolidamento di una forma di collaborazione
con altre istituzioni quali, al momento, l’Amministrazione provinciale di Foggia, la
Società Italiana di Musicologia e il Rotary Club International di Foggia, e con stu191
Eugenio Radesca da Foggia: alla riscoperta di un musicista
diosi di chiara fama, si è resa così possibile la pubblicazione di tre poderosi e ponderosi tomi di musiche del Radesca unitamente all’allestimento di un Convegno di
studi in suo onore tenutosi a Foggia nei giorni 7 e 8 aprile 2000 di cui sono già stati
editi gli atti. Il materiale realizzato - in attesa del completamento della pubblicazione dell’opera omnia del Nostro - comprende pertanto, allo stato attuale, i seguenti
quattro preziosi documenti:
Atti del Convegno
Francesca Seller, a cura di, Enrico Radesca di Foggia e il suo tempo/Atti del
Convegno di studi - Foggia, 7-8 aprile 2000, Libreria Musicale Italiana, Lucca, 2001,
ISBN 88-7096-347-0
I volumi I, II e III del progetto bibliografico. Enrico Radesca di Foggia/
Opera omnia. Edizione critica.
Volume I
Enrico Radesca, I Quattro Libri di Canzonette, Madrigali e Arie alla Romana/per cantare e suonare con il Chitarrone o Spinetta del Radesca di Foggia, organista della Metropolitana di Torino, a cura di Marco Giuliani, LIM, Lucca, 2000, ISBN
88-7096-240-7
Volume II
Enrico Radesca, Il Quinto Libro delle Canzonette, Madrigali et Arie a tre, a
una et a due voci/ per cantare e suonare con il Chitarrone, Spinetta &t altri stromenti,
del Radesca di Foggia, Maestro di capella della Metropolitana di Torino et delle
Serenissime Altezze di Savoia, a cura di Marco Giuliani, LIM, Lucca, 2001, ISBN
88-7096-348-9
Volume III
Enrico Radesca, Madrigali a Cinque et a Otto Voci/con il basso continuo e
partito da sonare per chi piacerà del Radesca di Foggia, Maestro di Cappella della
Metropolitana di Torino & delle Altezze Serenissime di Savoia/Libro Primo, a cura
di Rosy Moffa, LIM, Lucca, 2002, ISBN 88-7096-343-8
Traendo abbondante alimento da queste fonti, dalle quali attingiamo ampiamente in questo scritto anche allo scopo di illustrare nella sua interezza il complesso
lavoro svolto (anche nei frequenti richiami alle note poste in calce), ci accingiamo ora
a presentare storia, caratteristiche e problematiche legate alla figura del Nostro.
Nota biografica
Dagli studi svolti principalmente da Rosy Moffa, già compilatrice della voce
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Giuseppe Fagnocchi
Radesca per il monumentale Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e
dei Musicisti (UTET, Torino), e grazie alle ricerche svolte degli altri relatori al Convegno possiamo così brevemente ricostruire la biografia e la produzione di Enrico
Antonio Radesca.
Nato a Foggia intorno al 1570, Radesca arriva in Piemonte verso il 1597 stabilendosi poi a Torino dal 1601 e divenendo in quello stesso anno musico di camera
di don Amedeo di Savoia. Due sono le ipotesi espresse dagli studiosi sul primo
trentennio di vita del Nostro, che si rivela piuttosto misterioso e per questo forse
ancora più entusiasmante. Dinko Fabris traccia, purtroppo non suffragato da fonti
documentarie, per Radesca un itinerario simile a quello “del conterraneo e coevo
Cesare Marotta: studi e prime esperienze a Napoli, possibilmente nella cerchia
Gesualdo e poi il nord, via Roma (Montalto?), Firenze, Parma e Milano”, procedendo in parallelo ad una interpretazione del nome “in codice” Simone (al posto di
Enrico) che appare in un manoscritto parmense del 1610 e motivandolo o per le
origini ebree della famiglia oppure per la radice slava del cognome la quale potrebbe a maggior ragione giustificarne un’avventura militare in Dalmazia, al soldo della
Repubblica Veneta.
Di diverso avviso è invece Rosy Moffa: Radesca sarebbe giunto in Piemonte
proprio in qualità di militare e avrebbe soggiornato dal 1597 al 1601 a Vercelli dove
era divenuto amico della famiglia Lignana.
Verso il 1602-03 riceve l’incarico di organista del Duomo torinese, mentre
nel 1615 la sua carriera alla corte sabauda conosce la promozione a Maestro di Cappella e quella al servizio della Chiesa l’analogo passaggio a Maestro di Cappella del
Duomo. Successivamente, nel 1625 - lo stesso anno della morte - registriamo un
ulteriore “scatto” professionale a corte, almeno a livello stipendiale. Così come era
avvenuto precedentemente anche nella parte finale della sua vita Radesca ripeterà
“con armi e cavalli a sue spese” l’esperienza militare partecipando alla prima guerra
del Monferrato (1613-1617) e ricevendo in segno di benemerenza da Carlo Emanuele I una cascina e una vigna.
La fortuna musicale di cui Radesca godette in vita è in particolar modo testimoniata dalle numerose ristampe del Primo Libro di Canzonette, Madrigali e Arie
significativo indice di un evidente gradimento dell’opera in oggetto.
La produzione e sue caratteristiche
La produzione di Radesca è pubblicata in un arco di tempo che si colloca tra
il 1599 e il 1620 e comprende musiche sacre e profane per un totale di undici opere
a stampa:
1599 - Thesoro amoroso. Il primo libro delle Canzonette a 3 e 4 voci.
1604 - Messe a 4 voci (…) Libro I. Con il basso continuo per sonare nell’organo.
1605 - Canzonette, Madrigali e Arie alla romana a due voci per cantare e
sonare con il chitarrone o spinetta. Libro Primo.
193
Eugenio Radesca da Foggia: alla riscoperta di un musicista
1606 - Il Secondo Libro delle Canzonette, Madrigali e Arie alla romana a due
voci per cantare e sonare con il chitarrone o spinetta.
1607-1610 - Il Terzo Libro delle Canzonette Madrigali e Arie alla romana a
due voci per cantare e sonare con il chitarrone, spinetta e altri simili stromenti.
1607 - Armoniosa Corona. Concerti a due voci. Il primo Libro de Motetti,
Salmi e Falsi Bordoni. Con il basso continuo per sonare nell’organo.
1610 - Il Quarto Libro delle Canzonette, Madrigali e Arie alla romana a due
voci, con alcune a tre, e un Dialogo a quattro nel fine, per cantare e sonare con il
chitarrone, spinetta e altri simili stromenti.
1615 - Madrigali a 5 e 8 voci con il basso continuo e partito da sonare per chi
piacerà. Libro primo.
1617 - Il Quinto Libro delle Canzonette, Madrigali et Arie a tre, a una et a
due voci per cantare e sonare con il chitarrone, spinetta e altri simili stromenti.
Opera Nona.
1618 - Musiche a una, due e tre voci, per cantare e suonare con il chitarrone,
spinetta e altri simili stromenti. Libro quinto e opera decima.
1620 - Messe et Motetti a otto voci e doi chori con la partitura per l’organo.
Libro primo. Opera Undecima.
A queste va aggiunto un dodicesimo numero d’opus (Compieta a otto voci)
segnalato ripetutamente nei cataloghi dell’editore Alessandro Vincenti.
Appare evidente, dai generi musicali trattati, come Radesca sia sì uomo del
suo tempo, ma soprattutto uomo per il suo tempo annoverando la sua opera - in
un’epoca come già detto caratterizzata in particolare dalla continua mutevolezza
degli eventi - anche elementi di innovazione: “è infatti il primo autore a pubblicare
libri interi di questa tipologia di canzonette a due voci [il riferimento è al Primo
Libro di Canzonette, Madrigali e Arie], un primato assoluto che vale anche per
quanto riguarda il numero di brani a due voci usciti a stampa nel XVI-XVII secolo!
A questa originalità stilistica ‘del Radesca alla piemontese’ - unanimemente riconosciuta dal mondo musicale coevo - si riferisce Adriano Banchieri quando intona a 5
voci (col b.c.) la sua Aria d’imitazione del Radesca nel liuto, tutta intessuta sul duetto a canone (Soprano e Basso) Voi dite esser di foco.” Inoltre, nell’ottica barocca
basata non più sulla razionale prospettiva rinascimentale bensì sui frequenti giochi
di effetti di luce e di ombre, ossia di opposizione, lo vediamo alternare continuamente le strutture discorsive del madrigale con la forma strofica dell’aria, spaziare
dal repertorio polifonico rinascimentale alle nuove forme drammatico recitative
della monodia accompagnata dal basso continuo, lasciando aperta la sua opera agli
esecutori resi liberi di modificare le trame della polifonia a poche voci (contenuta
nei Libri di Canzonette, Madrigali e Arie) anche per una voce sola sostenuta, nelle
rimanenti parti, dagli strumenti e concedendo loro una ampia discrezionalità nella
fantasia tutta barocca della “diminuzione”; sotto il profilo contenutistico va registrato, quasi un itinerario umano-spirituale di purificazione, il significativo passaggio dalla dimensione profana a quella sacra - liturgica ed extra-liturgica - a cui ap194
Giuseppe Fagnocchi
partengono l’Armoniosa Corona del 1607, il Quinto Libro delle Canzonette del
1617 e il corpus di Messe e Mottetti del 1620.
Vediamo ora in dettaglio come Radesca sviluppa nella sua opera, spesso intersecandoli tra loro, tali elementi, ad iniziare dalla prima pubblicazione curata dal
Conservatorio di Foggia, il tomo comprendente i Quattro Libri di Canzonette,
Madrigali e Arie.
Innanzitutto il segno del grande salto dalla “vecchia” polifonia alla “nuova”
monodia si concretizza con evidente chiarezza solo nel Quarto Libro delle Canzonette, Madrigali e Arie alla romana (1610) in cui compare il primo (e unico) brano
esplicitamente scritto a una voce sola, il madrigale Ch’io non t’ami, cor mio? su
testo del Guarini, mentre fino a quel momento “tutti i brani sono a due o tre voci
per cantare e sonare: vale a dire che uno strumento come il liuto o la spinetta deve
realizzare armonicamente il basso, il quale può essere eseguito dal solo strumento
oppure anche cantato.”
Tuttavia va detto come tutti e quattro i libri - in cui furono raccolte con tutta
probabilità musiche preparate per essere cantate e suonate (non mancano alcuni
balletti che possono ben sottendere episodi coreutici) nelle feste di palazzo di cui la
corte sabauda era ben generosa - presentino in diversi passi una scrittura di effetto
drammatico culminante nella “notazione recitativa” che richiama quella utilizzata
negli stessi anni da Claudio Monteverdi nel Quarto e Quinto Libro di Madrigali e
che non può pertanto non essere considerata già sensibilmente “moderna”, pur se
in qualche modo ancora legata alla polifonia che aveva caratterizzato l’età precedente.
Anche sotto il profilo contenutistico i Quattro Libri delle Canzonette, Madrigali e Arie possono essere considerati - oltre che una sorta di corpus unico costituente una vasta fenomenologia dell’amore con tematiche ricorrenti ciclicamente e
sottolineate puntualmente da Radesca con le didascalie apposte ad ogni brano, quali la lontananza, la fede tradita, la gelosia, lo sdegno, il bacio, il fiore simbolo della
verginità, il dolore dell’amore non corrisposto - pienamente aderenti all’età barocca in quanto elaborati sul verso riccamente ornato al fine di suscitare la meraviglia
di alcuni tra i principali poeti contemporanei quali Giovan Battista Guarini, Gabriello
Chiabrera, Giovan Battista Marino, A. Cabà e Ottavio Rinuccini.
Accanto alla preponderante tematica d’amore Radesca non manca di celebrare anche vari protagonisti della corte sabauda e addirittura, in due occasioni
scaturite da festeggiamenti nuziali, la stessa Italia, come significativamente appare
dai rispettivi incipit: Hor che l’Italia altiera/Sotto nodo di fede,/Quell’alme unite
vede (Secondo Libro, n. III) e O d’Italia Alme famose/Regij Amanti/Regie infanti
(Quarto Libro, n. XIII).
Nel successivo Quinto Libro delle Canzonette, Madrigali et Arie gli esempi
di musica monodica accompagnata assumono una chiara rilevanza (sei numeri su
ventuno) evidenziando il sempre crescente interesse di Radesca verso la dimensione recitativo-drammatica con una scelta di testi che, se a prima vista appaiono essere ancora intessuti della ampollosa retorica dell’amor profano celebrato, lodato o
195
Eugenio Radesca da Foggia: alla riscoperta di un musicista
pianto nei primi quattro libri, in realtà trasformano questo metaforicamente in amor
sacro rivolgendo il cuore del novello cavaliere non più ad una dama, ma alla Madonna o a Cristo. A titolo di esempio possiamo citare l’incipit tratto dal n. XII della
raccolta Con tanto amor mi chiami/Dolcissimo amor mio destinato a trovare nel
titolo la sua soluzione: “[…] Carità di Cristo verso l’Huomo”.
È quindi interessante notare come, anche nella tematica spirituale, il testo scaturisca sempre con abbondanza da “similitudini corporee” più efficaci da fissare nella
mente, ma da considerare ora non più fini a sé stesse, bensì quale mezzo più opportuno per dirigere le “intenzioni spirituali” verso le cose intelligibili. In questo non si
può non ricordare l’analogo insegnamento fornito da Giordano Bruno a proposito
della sua fondamentale arte della memoria e come tale riferimento a sua volta non
possa non richiamare alla mente il n. XVIII del Primo Libro del Nostro Io mi sento
morire/E non lo posso dire, testo attribuibile con molta probabilità allo stesso Radesca
ma pubblicato come “D’Incerto. Celato foco per ragion di Stato”, che pare volerci
suggerire uno strano messaggio esoterico; se a questo aggiungiamo le due avventure
militari e il soprannome di Simone conferito a Radesca nel manoscritto parmense del
1610, eccoci entrati a pieno diritto, anche con il nostro autore, nel meraviglioso (e
spesso occulto) labirinto armonico e cromatico del mondo barocco!
Possiamo quindi affermare sempre più che non solo lo stile, ma anche i contenuti della produzione di Radesca lo immettono a pieno titolo nella nuova affascinante ed esoterica cultura barocca, come osserva acutamente Francesco Cotticelli:
“Uno sguardo ai componimenti musicati dal Radesca conferma la natura sottilmente sperimentale dell’officina barocca, il respiro ambiguo e inquieto che il primato dell’elocutio sull’inventio conferisce alla meditazione devota o amorosa, le
implicazioni spettacolari di un gusto espressivo ai limiti del virtuosismo, impegnato nella sintesi e nella concentrazione di contenuti emotivi impetuosi e sfuggenti.”
Tuttavia la scrittura di Radesca, pur nelle sue varie forme e sperimentazioni
non sarà mai particolarmente complessa, lasciando invece ampia discrezione all’esecutore il quale, a seconda delle proprie personali potenzialità, potrà,
empiricamente, intervenire (con diminuzioni, cioè con figure ornamentali da improvvisare sulle note “strutturali” scritte in maniera che siano il più possibile naturali, e potendo variare numero e tipologia delle voci tendendo presente che non i
mezzi ma il fine ultimo - in questo caso la lode di Nostro Signore - è l’obiettivo
dell’opera) attendendo quello che lo stesso autore raccomanda attraverso le parole
del dedicatario del Quinto Libro Ludovico Caligaris in un avviso “Ai lettori” preposto all’opera stessa.
E proprio nel Quinto Libro l’intonazione di Radesca si rivela particolarmente sentita esprimendo affetti piuttosto suggestivi e coinvolgenti all’ascolto su testi
italiani religiosi o spirituali che, esulando dalla più ufficiale musica liturgica, appartengono invece ad un repertorio di tipo devozionale e pertanto elaborato con “intendimenti edificanti” che trova, nel corso del Seicento, una continua proliferazione
in varie forme e occasioni.
Concentrandosi con particolare intensità emozionale sulla figura di Gesù
196
Giuseppe Fagnocchi
Cristo mediante una scrittura ricca di intervalli audaci e di dissonanze tra basso e
canto tale da “infondere ai brani la massima tensione espressiva e poetica, in tali
melodie il musicista foggiano raggiunge vertici di notevole intensità ed efficacia
artistica.” Il Quinto Libro si rivela inoltre “documento probante del repertorio
devozionale e paraliturgico del Duomo di Torino, persuasivo altresì di una precisa
selezione cultuale e agiografica locale”, un esempio tra tutti il n. XV, Amorosa pietade,
madrigale di lode alla Santa Sindone.
L’itinerario “sacro” di Radesca, qui presentato nella sua forma più drammatica tale da coinvolgere con maggiore effetto il sentimento popolare e quasi come
una sorta di preparazione per un eventuale ed ipotetico oratorio, è completato come già accennato - da ulteriori due opere, una precedente il Quinto Libro e cioè
l’Armoniosa Corona (1607), un Libro di concerti sacri a 2 voci comprendente
mottetti, salmi e falsi bordoni, e l’altra, che dovrebbe costituire la prossima pubblicazione del progetto promosso dal Conservatorio di Foggia, il libro di Messe e
motetti a otto voci a doi chori, con la partitura dell’organo del 1620.
Tale itinerarium sembra inoltre evidenziare come il pensiero di Radesca fosse volto sempre con maggior coinvolgimento (e non solamente quale puro gioco di
retorica) verso il Sacro come si evince anche dalla dedica del Quinto Libro alla
Serenissima Infanta D. Caterina Principessa di Savoia (terziaria francescana) in cui
il Nostro afferma come gli “amori Divini” siano, rispetto ai profani, “più perfetti,
& somministrano al nostro canto affetti più caldi, & sentimenti più dolci, oltre la
dignità, che n’acquista il Cantore nell’usar la voce à lodar Dio, facendosi uguale à
gli spirti de’ Chori celesti.” Ma ancora una volta non deve sorprendere il proseguimento della dedica in cui Radesca, stupendoci secondo il gusto scenografico del
colpo di scena, osserva come tali canti siano stati composti “allo strepito de’ ferri, &
dell’armi”!
Altro elemento interessante, quello della guerra, richiamato anche nell’ultima raccolta finora riedita nell’ambito del progetto foggiano, i Madrigali a cinque et
a otto voci (1615), anch’essi risententi della stridore delle armi in battaglia visto che
l’opera è dedicata a Raniero (o Ranieri) Zeno, ambasciatore della Serenissima presso i Savoia durante la prima guerra del Monferrato, e che la memoria degli storici
fatti d’arme è ancora una volta presente nella dedicatoria con l’auspicio che la musica possa “placare gli sdegni guerrieri, & frà l’armi addolcire gli spirti più feroci, &
bellicosi.”
Giunti ormai a conclusione di questo rapido excursus sull’opera di Radesca
potremmo così compiere una suggestiva sintesi ricca di metafore e opposizioni di
significati proprio partendo dal termine latino certamen (= lotta, gara, ma anche
combattimento, guerra).
Radesca fu, abbiamo visto, anche uomo d’armi e, come dal termine certamen
si genera nel Seicento il termine di Concerto (derivato appunto da con-certare e
utilizzato da Monteverdi per il suo Settimo Libro di Madrigali e, qualche anno
prima, da Radesca per l’Armoniosa Corona), così Radesca si offre alla sua società
sia quale persona d’azione ma ancor più quale musicista conducendo un certamen
197
Eugenio Radesca da Foggia: alla riscoperta di un musicista
che dai campi di battaglia si sposta al canto, spesso fatto di sofferenze e delusioni,
inizialmente indirizzato all’amor profano, e infine, sconfitti i falsi piaceri della carne e del mondo, volto verso Dio (richiamandoci così anche alla buona battaglia di
paolina memoria).
Al termine alcune brevissime osservazioni per i Madrigali a cinque et a otto
voci, nei quali Radesca, ritorna a fare un evidente uso della polifonia.
Sebbene sia previsto il sostegno del continuo, questo non è indispensabile
anzi forse è preferibile una esecuzione in “stile antico” per le sole voci. È evidente la
differenza tra i madrigali a cinque e quelli a otto: nei primi “l’impianto compositivo
generale è quello contrappuntistico, con ampi passi in cui le voci si muovono in
imitazione talvolta rigorosa ma più spesso libera, creata dal riproporsi dell’andamento ritmico e da una generica direzionalità intervallare della melodia [creando]
spesso ‘durezze’ e false relazioni, particolarmente laddove la ricerca espressiva induce il compositore al cromatismo.”
Nei madrigali a otto voci, in realtà brani per coro spezzato, la trama melodica si presenta semplificata e dominano i procedimenti omoritmici.
Raro è l’uso di madrigalismi, mentre gli affetti ricorrenti sono, anche per i
motivi storici che abbiamo già individuato, quelli della battaglia, metafora della
forse più innocua (ma non sempre!) battaglia amorosa.
(momentanea) Conclusione
In attesa della pubblicazione in tempi rapidi della rimanente produzione del
Nostro e di poter ascoltare dal vivo (sia attraverso l’altro encomiabile progetto della pubblicazione dei CD, sia attraverso esecuzioni nelle rassegne concertistiche di
Foggia e nel rimanente territorio della Capitanata) almeno le più significative composizioni di Radesca possiamo, per il momento, concludere tale breve intervento
ricordando come l’omaggio a questo musicista rimasto finora ignoto ai più, sia non
solo in primis doveroso per far rivivere nella nostra memoria una figura intellettualmente di rilievo a cui la Capitanata ha dato i natali, ma ancor più debba costituire
un segno di stima e di rispetto per colui che sempre, anche se lontano dalla propria
terra natia, questa non dimenticò mai - come già ricordato egli soleva presentarsi
Radesca di Foggia - e prova ultima ne è la dedica del mottetto a otto voci Gaudete
omnes in Domino agli “Illustri e Molto Reverendi Signori il Capitolo di Santa Maria Maggiore di Foggia”, che auspichiamo possa ben presto solennemente risuonare nella Cattedrale del capoluogo della Capitanata.
198
Luigi Gatta
Dalle poste borboniche alle poste italiane
di Luigi Gatta
1 - La triste eredità dei Borboni
Malgrado le concessioni di Francesco II ai liberali (amnistia, Guardia Nazionale, Costituzione del ’48 e addirittura il Tricolore italiano), con l’entrata di Garibaldi
in Napoli il 7 settembre 1860, dopo la travolgente avanzata dalla Sicilia, tramontava
per sempre con la dinastia borbonica lo stesso Regno delle Due Sicilie.
La dittatura dell’invitto Generale assicurerà la continuità amministrativa,
confermando il debito pubblico e nello stesso tempo cercando di rimediare alla
triste eredità dei Borboni: meno dazi sui generi di prima necessità e più servizi civili
come scuole e ospedali.
Ma il tentativo del Generale di laicizzare la società meridionale susciterà la
decisa avversione del clero al processo unitario nazionale.
Comunque, dopo il Plebiscito annessionistico del 21 ottobre 1860, anche il
Regno di Napoli, con l’arrivo dei Piemontesi, fece parte del neo Stato unitario italiano.
E con i Piemontesi si afferma il partito moderato: i funzionari garibaldini
sono sostituiti dai cavouriani e così le attese delle plebi meridionali, che pure accolsero con entusiasmo Garibaldi, attese di riforme sociali (la suddivisione dei demani
soprattutto) e di rinnovamento civile (una scuola in ogni Comune e assistenza sanitaria) andarono deluse.
Facile, quindi, che quelle stesse plebi diventassero in seguito massa di manovra della reazione borbonica prima e del brigantaggio dopo. Per la verità il Governo Luogotenenziale del Farini, sia pure in un anno, cercò non solo di rilanciare
l’economia del Sud (mutui ai Comuni per le opere pubbliche, soprattutto strade,
provvedimenti per lenire la disoccupazione, ecc.), ma col decreto del 7 febbraio
1861 stabilì anche una scuola in ogni Comune per combattere concretamente l’analfabetismo, causa prima di tutti i mali del Sud. La fine anzitempo della Luogotenenza,
però, e i primi governi nazionali accentratori aggraveranno ulteriormente la condizione generale di sottosviluppo del meridione, alimentando nello stesso tempo le
rivolte contadine e il brigantaggio, rafforzato ben presto dai soldati borbonici sbandati che, con i giovani di leva, rifiutavano lunghi mesi di arruolamento nel nuovo
esercito italiano. Briganti e comitati borbonici avevano un gran seguito nelle province e impegnarono per tre anni, in una dura guerra, l’esercito italiano, costretto a
una sanguinosa riconquista del Sud.
199
Dalle poste borboniche alle poste italiane
La legge fondamentale delle Poste borboniche era la 570 del 12 dicembre
1816, che all’Art. 211 prevedeva un contributo dei Comuni per il recapito della
corrispondenza da parte dei pedoni, contributi rateizzabile (il “ratizzo” di cui parleremo in seguito). Questa legge rimarrà in vigore, come vedremo, ancora per un
decennio dopo l’Unità, quando anche nei più piccoli Comuni e nelle borgate saranno aperti Uffici Postali.
2 - Le Poste di Capitanata durante il Brigantaggio
Nel periodo del brigantaggio meridionale corrieri e pedoni di posta, che percorrevano a cavallo o a piedi anche lunghi sentieri nei boschi, furono spesso facili e
indifese vittime dei fuorilegge, che immancabilmente rubavano loro le valigie postali.
Il deprecabile crimine era frequente in tutte le zone della Capitanata maggiormente infestate dalle bande brigantesche.
Anzi, nel territorio di Vieste sul Gargano la prima manifestazione brigantesca
si verificò il 1° maggio 1861 e proprio con l’assalto di una banda al vetturale postale
Manfredonia-Vieste 1.
Ma durante tutto il 1861, primo anno di guerra brigantesca, si succederanno
gli assalti ai pedoni di posta interna in varie località della provincia.
Il 26 agosto al direttore dell’Ufficio Postale di San Severo giunge notizia che
tra Rodi Garganico e Peschici è intercettato dai briganti il pedone Francesco Paolo
Regola che è poi costretto a consegnare la valigia con tutti i dispacci 2.
Il 7 settembre ancora nel territorio di Vieste, a 10 miglia, nel bosco Scuro, il
corriere Michele Quitadamo è circondato da ben 40 briganti che gli tolgono la valigia
postale con 2 pieghi diretti rispettivamente a Monte Sant’Angelo e Manfredonia 3.
Ben 2 agguati subirà, invece, il pedone di posta interna Di Stefano Leonardo
in servizio tra San Severo e alcuni paesi del Gargano: l’8 settembre vicino a Rodi è
costretto a cedere la valigia con tutta la corrispondenza; il giorno seguente, poi, alle
ore 21, vicino Apricena è aggredito da due briganti,
“...armati di fucili e pistole i quali minacciandolo di vita, impossessaronsi
delle valigie di San Nicandro, Cagnano e Carpino che lacerarono con il taglio di
una baionetta trasportando tutti i dispacci avvolti in fazzoletti e gittando le lettere
private, di cui non si conosce lo importo, perché furono lacerati i fogli di avviso” 4.
Naturalmente dalle Direzioni Compartimentali di Napoli e Bari pervenivano continue segnalazioni alla Segreteria Generale del Dicastero dell’Interno e Poli-
1
M.Della Malva: “Vieste e la Daunia nel Risorgimento”, Foggia, 1963, pag.99.
Idem, pag. 141.
3
Idem, pag. 142.
4
Idem, pag. 142.
2
200
Luigi Gatta
zia, ma al Sud il fenomeno del brigantaggio era in piena espansione e l’esercito del
neo Regno d’Italia ancora del tutto impreparato ad affrontarlo.
Anche il 1862, pertanto, il brigante rimarrà “re della strada e della foresta” e
gli indifesi pedoni di posta interna sempre tra le vittime preferite.
Così il Sindaco di Vieste il 7 maggio 1862 comunica al Signor Prefetto che
ancora nel suo territorio non meno di 50 briganti “hanno carpito la valigia postale,
che qui veniva dalla parte di Manfredonia; ed è perciò che la prego disporre che
siano rinnovati quegli uffici che qui dovevano pervenire” 5.
Durante gli anni del brigantaggio Monte Sant’Angelo, già tradizionale roccaforte liberale sul Gargano, ospitava un distaccamento di bersaglieri. Ciò nonostante nel mese di luglio 1862, dal 7 al 26, proprio in varie località della più importante cittadina garganica, Fusillo, Sant’Antonio, Monte Elci, ecc. si verificarono
diversi furti di valigie postali ai danni dei pedoni La Torre Salvatore e La Torre
Pietro 6.
Purtroppo gli assalti ai corrieri di posta interna non cessarono con la fine del
brigantaggio nel 1864. Il clima di violenza e illegalità, infatti, durerà ancora qualche
decennio e in diverse località della provincia si segnaleranno ulteriori aggressioni ai
pedoni postali. Così, ad esempio, alle 9 di sera di un giorno del dicembre 1867 sono
rubati i dispacci che il concessionario portava dall’Ufficio di Bovino alla stazione
ferroviaria del Ponte di Bovino.
In seguito il concessionario si avvalerà della scorta dei RRCC, ma dopo 3
anni, per riduzione degli organici alla stazione di Bovino, l’Arma non potrà più
assicurare tale copertura militare e la Direzione Provinciale delle Poste dovrà acconsentire di anticipare al primo pomeriggio il trasporto dei dispacci di Bovino 7.
Insomma, ieri come oggi, sempre gli stessi problemi di sicurezza nel trasporto dei dispacci e valori postali!
3 - Dal Ministero P. T. , all’ EPE, alle P.I. S.p.A.
Per rafforzare l’Unità d’Italia, così faticosamente raggiunta, occorreva anche
un’unica organizzazione postale; l’Ufficio P.T., quindi, come presenza tangibile del
neo Stato e collegamento con tutta la Nazione.
Proprio nel 1° decennio dopo l’Unità, infatti, furono varate le prime, radicali, riforme del servizio postale in Italia. Già coi decreti luogotenenziali del Farini n°
155 e 156 del 6 gennaio 1861, si tentò di organizzare l’Amministrazione delle Poste,
uniformandola per tutte le province d’Italia, fino ai domini al di qua del Faro del-
5
Archivio di Stato di Foggia (A.S.F.) I^ Serie/b, Busta 158, foglio 2031.
A.S.F., idem.
7
A.S.F., I^ S/A, B. 101, f. 220.
6
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Dalle poste borboniche alle poste italiane
l’ex Regno delle Due Sicilie, e articolandola in Direzioni Compartimentali e Locali,
uffici primari, secondari, ambulanti e nella distribuzione.
In Capitanata, Foggia divenne sede di Direzione Locale, dipendente dalla
Compartimentale di Bari; gli Uffici primari erano Bovino, Cerignola, Lucera,
Manfredonia e San Severo; i secondari, invece, Ascoli Satriano, Deliceto, Monte
Sant’Angelo, Rodi Garganico, Serracapriola, Troia, Vico del Gargano e Vieste. Non
vi erano ancora disposizioni precise per gli uffici ambulanti.
Altra importante riforma fu varata con il RR.DD. n. 2363 del 25 giugno 1865
e n. 2539 del 18 settembre 1865, che confermarono le Direzioni Compartimentali,
ma suddivisero gli uffici in 3 classi: la I e II classe rappresentavano gli uffici delle
città capoluogo e quelli dipendenti dalle varie Direzioni Locali (le Dirprov); sui
treni e sui piroscafi, invece, vennero localizzati gli Uffici ambulanti.
I successivi RR.DD. n. 5359 e 5360 del 25 novembre 1869 e n. 5764 del 30
giugno 1870 fecero assumere all’Amministrazione P.T. quell’ordinamento
ministeriale che perdurerà fino alla riforma Spataro del 1952, anche se la Direzione
Generale rimase ancora nell’ambito del Ministero dei LL.PP. Il vero e proprio Ministero delle Poste sarà istituito in seguito al R.D. n. 5973 del 10 marzo 1889, con il
trasferimento delle competenze già attribuite al Ministero dei LL.PP.
Dal 1871, intanto, e fino al 1940, ogni anno, Le Poste Italiane offrivano alle
famiglie “Il Calendario Postale”, che tra l’altro conteneva ampie informazioni sui
vari servizi allora svolti.
Tra i servizi a danaro il 1860 viene introdotto il “vaglia postale” e il 1864 il
“vaglia telegrafico”; il 1876, poi, per iniziativa di Quintino Sella, Ministro delle
Finanze, vennero istituite le “Casse di Risparmio Postale”.
Il 1895, inoltre, onde facilitare il commercio interno, le Poste si arricchirono
di un nuovo servizio, la “riscossione crediti”. Dal 1881, intanto, i corrieri postali,
oltre alla normale corrispondenza, dovevano recapitare anche i pacchi. Nel nuovo
secolo, poi, verranno istituiti i servizi dei Conti Correnti Postali nel 1917 e i Buoni
postali fruttiferi nel 1924.
Il fascismo, che certamente non sottovalutava l’importanza delle telecomunicazioni, con Regio Decreto Legge n. 596 del 30 aprile 1924 modificò il Ministero
delle Poste in “Ministero delle Comunicazioni”, comprendente anche il Commissariato della Marina Mercantile e le Ferrovie dello Stato. L’anno seguente, il 1925,
furono istituite l’Azienda Autonoma delle Poste e Telegrafo e l’Azienda di Stato
per i Servizi Telefonici (ASST), alle dipendenze dello stesso Ministero dello Comunicazioni. Verso la fine del secondo conflitto mondiale, però, il Decreto Luogotenenziale n. 413 del 12 dicembre 1944 scisse di nuovo il Dicastero delle Comunicazioni, istituendo il Ministero dei Trasporti e il Ministero delle Poste con competenze sulle due Aziende Autonome: l’Amministrazione P.T. e l’ASST.
Con la pace, il ritorno della democrazia, la ricostruzione nazionale e l’avvio di
una nuova fase economica s’impose in Italia anche una radicale riforma dell’Amministrazione P.T., soprattutto per dare un nuovo assetto ai lavoratori postelegrafonici,
prima, con le vecchie ricevitorie, praticamente senza diritti e alla mercé dei ricevitori.
202
Luigi Gatta
La grande riforma delle Poste Italiane infatti si deve alla Legge n. 656 del 1°
ottobre 1952 voluta dal Ministro Spataro che trasformò le Ricevitorie in Uffici Locali
e Agenzie P.T.
I ricevitori e i supplenti divennero così direttori e operatori, con stipendi
regolari e tredicesima mensilità, poi assistenza medica e un mese di ferie all’anno,
benefici ben presto estesi anche ai postini, ai procaccia e ai fattorini. Ma per decisione del Parlamento Italiano, dopo 40 anni, anche la riforma Spataro è archiviata.
Infatti, in un mutato clima socio-politico, di severo contenimento della spesa
pubblica, la Legge n. 71 del 29 gennaio 1994 mette fine all’Amministrazione delle
Poste, e istituisce l’Ente Pubblico Economico, col compito di risanare finanziariamente l’Amministrazione P.T., in vista della trasformazione in Società per Azioni
secondo un piano di privatizzazione dei servizi postali non universali comune a
tutti paesi dell’Unione Europea.
Le Poste Italiane diventano ufficialmente S.p.A. il 28 febbraio 1998, con gestione privatistica e manageriale del personale e dei servizi, svolti non più in regime
di monopolio, e inizialmente col Ministero del Tesoro come azionista unico.
La storica svolta delle Poste Italiane è anche in ottemperanza a una Direttiva
europea del dicembre 1997 che prevede per il 2003 la completa liberalizzazione del
mercato postale.
Alle pagine che seguono, sulla problematica del primo affermarsi delle poste
Italiane in Capitanata dopo l’Unità, risulta evidente la dedizione, anche in momenti
difficili, dei pedoni e corrieri di posta interna al loro servizio; la consapevolezza di
soddisfare il bisogno di comunicazione tra le varie comunità, anche le più piccole,
allora piuttosto isolate, ma anche l’orgoglio e l’ambizione di servire il nuovo Stato
unitario. Il regime monopolista ed esclusivo del servizio postale diventava così un
valore sentito; la Posta, la prima, vera pubblica istituzione, la più vicina ai bisogni
sociali degli Italiani.
Dopo 150 anni, però, un patrimonio ideale di dedizione generosa, e in molti
casi anche eroica, al servizio postale pubblico, per il furore privatistico dei nostri
tempi, rischia di essere sacrificato al dio profitto, mortificando e snaturando così lo
spirito stesso del servizio, con il rischio di perdere inevitabilmente la clientela più
fedele, quella popolare, nei suoi limiti culturali e nelle limitate possibilità economiche sempre difesa e assistita dagli operatori postelegrafonici.
203
Dalle poste borboniche alle poste italiane
204
Luigi Gatta
1994
Dalle Regie Poste alle Poste Italiane S.p.A.
205
Dalle poste borboniche alle poste italiane
Tre esemplari del “Calendario Postale”, risalenti a un secolo fa.
206
Luigi Gatta
IL SERVIZIO POSTALE POSTUNITARIO IN CAPITANATA
1 - Per l’apertura di un nuovo Ufficio Postale
Aprire nuovi uffici postali nel primo decennio dopo l’Unità non era affatto
facile, specie per le frazioni, anche se importanti.
Infatti in base a un Regio Decreto, le condizioni per istituire un ufficio nei
paesi e nelle borgate era la vendita per un certo importo di carte valori postali, oltre,
naturalmente, al numero degli abitanti.
Il 12 febbraio 1874, ad esempio, il Delegato Municipale di Mattinata, frazione di Monte Sant’Angelo, Sig. Francesco D’Errico, inoltrò istanza al Sig. Direttore
delle Regie Poste di Foggia per la installazione di un Ufficio Postale nella borgata.
Il Delegato giustificò la richiesta, oltre che per la lontananza dall’Ufficio del
Comune Capoluogo, anche per il numero degli abitanti, di circa 2500 anime al censimento del 31 dicembre 1872, e suscettibile di ulteriore aumento per la continua
discesa da Monte Sant’Angelo di famiglie contadine, dato l’ottimo clima di Mattinata e la maggiore fertilità dei terreni 8.
In seguito alle difficoltà frapposte dal Dirigente le Poste di Capitanata, soprattutto per l’incerto numero degli abitanti nella borgata, valutato in 1200 e non
2500 presenze, il delegato D’Errico due anni dopo, il 26 giugno 1876, scrisse al
Prefetto, per ribadire ancora una volta la necessità di un Ufficio Postale a Mattinata
e l’insufficienza del semplice servizio di posta rurale. Si legge, infatti, nella lettera
del Delegato:
“Sembrerà strano a cotesta Onorevole Prefettura che questa Delegazione non
scriva, se non per esprimere un bisogno; però è innegabilmente vero che sia tale la
miseranda condizione della Borgata. Essa con 2500 abitanti, un telegrafo a doppio
sistema, semaforico, ed elettrico, un faro ad uso dei naviganti, una Sezione Doganale, un Ufficio di Sanità Marittima, vari negozianti, diversi studenti in Napoli, incamminati per professioni, un contingente sproporzionato di giovani sotto le Reali
Bandiere, manca di un Ufficio Postale. La lontananza di 14 chilometri da Monte
Sant’Angelo, le pessime e ripide strade, la diversità del clima specialmente nella stagione invernale ai privati rendono malagevole la gita per ritirare o raccomandare
un articolo, per esigere, o fare un vaglia e per gli Impiegati Governativi sono sempre
cause di ritardo. Ad allontanare tanti inconvenienti questo ufficio tenne or sono
8
A.S.F., Pref.ra Cap.ta, I^ S/A, B.105, f. 2354.
207
Dalle poste borboniche alle poste italiane
quattro mesi una corrispondenza col Signor Direttore del ramo, il quale gentilmente
rispose non potersi aderire alla domanda...”.
“...Ora mi rivolgo alla S.V. anche con l’autorità di cui è investita, e con buon
volere che la distingue voglia compenetrarsi delle su esposte ragioni per fare istallare
in questa Borgata un Ufficio Postale, invece della semplice posta rurale, che pare
(idonea) ad una agglomerazione non afferente di tanti abitanti quanti contiene Mattinata...” 9.
Malgrado la Prefettura, con nota del 3 luglio 1876 n. 1407, confermasse al
Direttore le Poste di Foggia 2362 abitanti accertati dall’ultimo censimento, per l’installazione dell’Ufficio Postale a Mattinata si dovette attendere altri 15 anni. Infatti,
solamente il 1890 la frazione più importante del Comune Capoluogo di Monte
Sant’Angelo ebbe il suo Ufficio Postale, a servizio completo e diretto per oltre 50
anni dal Cav. Michele Azzarone fu Francesco Saverio.
Il Comune di Monte provvedeva all’assegno per il titolare Azzarone, che
aveva anche diritto alla compartecipazione ai proventi. In seguito l’Ufficio P.T. di
Mattinata passò dalla III alla II categoria, con gran vantaggio dell’utenza che poteva effettuare operazioni superiori a £ 100.
Comunque, dopo l’apertura di un ufficio, se le entrate non erano sufficienti
interveniva il Governo con un contributo, e quando questo veniva meno l’ulteriore
apertura dell’Ufficio Postale doveva essere autorizzata dalla Direzione Generale
delle Poste. È quanto avvenne, ad esempio, per l’Ufficio Postale di Celenza Valfortore
nel settembre 1873 10.
2 - La rivoluzione del francobollo anche in Capitanata
Prima del francobollo, un pezzetto di carta che, come la stampa, ha contribuito alla crescita culturale dell’umanità, la tassa di spedizione della corrispondenza
era pagata direttamente all’ufficio dal mittente o dal destinatario.
Nel primo caso un timbro con la sigla “P.P.” e la denominazione dell’ufficio
d’origine significava appunto “Porto Pagato”, già in partenza. Oggi capita di trovare sulle lettere frasi tipo “Corri postino!”, specie se trattasi di corrispondenza tra
innamorati, ma anche nei secoli passati in un angolo delle lettere si poteva leggere
“Cito, Cito, Cito...”, cioè l’esortazione al corriere di far “Presto, presto, presto”.
Fu l’inglese Sir Rowland Hill che per primo capì la necessità e l’importanza
di stabilire un tariffario per l’invio della corrispondenza, in proporzione al peso e
non alla distanza. In verità il grande riformatore delle Poste inglesi fin dal 1832,
nell’opera “Post Office Reform”, pensò all’utilizzo di un semplice pezzetto di carta
9
Idem.
A.S.F., Pref. Capit., I^ S/A, B.102, f. 2253.
10
208
Luigi Gatta
come ricevuta della tassa pagata per il recapito di una lettera. Il primo francobollo,
però, il famoso “penny black”, appunto del valore di 1 Penny e raffigurante la regina Vittoria, sarà emesso nel maggio 1840.
Dopo l’Inghilterra, la rivoluzionaria riforma del francobollo fu adottata man
mano da altri paesi: Svizzera, Francia, Stati Uniti, ecc. In Italia il primo francobollo
fu emesso il 1° giugno 1850 nel Lombardo-Veneto. Con la diffusione, poi, del francobollo in tutto il mondo l’U.P.U. stabilì delle norme valide per tutti i paesi aderenti: il nome dello Stato doveva essere scritto in lettere latine e l’importo in cifre arabe. Forse Sir Rowland non immaginò neppure quale importanza avrebbe avuto nel
tempo la sua invenzione, e non solo per i bilanci delle Poste di tutto il mondo.
Intanto perché quei quadratini, rettangolini e triangolini dentati, sempre con nuove
immagini ad ogni emissione, significheranno un nuovo servizio postale, appunto la
vendita dei francobolli, e poi una nuova interessantissima forma di collezionismo:
la filatelia, col relativo e non indifferente giro d’affari. Da 150 anni, dunque, il francobollo, quasi una nuova forma d’arte, e non solo quando riproduce le immagini
delle più significative creazioni artistiche di tutti i tempi e civiltà, rappresenta e
tramanda il ricordo delle infinite vicende umane, in altre parole registra la storia dei
vari popoli e nazioni. Quanti sudditi, ad esempio, specie nel secolo scorso, hanno
potuto conoscere i loro regnati solo grazie all’immagine riprodotta sui francobolli.
Dopo l’Unità in Capitanata non in tutte la località erano reperibili i francobolli. Giustamente i sindaci dei Comuni sprovvisti di Uffici reclamavano dal Ministero
degli Interni precise istruzioni per l’acquisto delle carte valori. Ed ecco allora la circolare della Prefettura di Capitanata del 19 aprile 1863, diramata ai sindaci, che richiamava gli articoli dal n. 120 al 126 dell’”Istruzione Generale sul servizio delle Poste”,
relativi proprio alle “Norme per la rivendita dei Franco-Bolli”. L’Ufficio Postale del
Capoluogo di Provincia doveva rifornire i francobolli ai vari rivenditori della
Capitanata, per una somma inferiore alle 10 £, e con l’aggio del 2%. I rivenditori dei
paesi o frazioni senza Ufficio Postale, però, dovevano chiedere i bolli compilando la
domanda Mod. 8, spedita, assieme ai soldi, in raccomandazione dall’ufficio più vicino. Le Poste del Capoluogo, poi, spedivano i bolli con la distinta Mod.7 allo stesso
Ufficio che aveva inoltrato la richiesta, ma intestando il plico al rivenditore 11.
Naturalmente anche nel secolo scorso vi erano uffici pubblici, o enti di utilità
pubblica, che usufruivano della franchigia postale. Ad esempio il 1868 la Direzione
Generale delle Poste presso il Ministero dei LL.PP. concesse la franchigia anche ai
“Comizi Agrari”, per “lettere chiuse e pieghi fasciati” diretti ai Sindaci, ai Prefetti e
Sottoprefetti, e col contrassegno dell’Ufficio mittente. Il provvedimento doveva
eliminare la causa del ritardo nelle comunicazioni interne al ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio e facilitare così “il miglioramento delle condizioni della patria agricoltura, la maggiore e più fruttuosa industria che abbia il paese” 12.
11
12
A.S.F., I^ S/b, B.96, f.2057.
A.S.f., I^ S/a, B.96, f.2130.
209
Dalle poste borboniche alle poste italiane
Ma, evidentemente, anche nell’800 non mancavano gli abusi della franchigia
postale. Ed ecco, allora, la nota n. 16300-5 del Ministero dell’Interno in data 26
settembre 1874 che chiamava “i Prefetti del Regno a prendere le più efficaci misure
per evitare che sia frodato l’erario abusando della franchigia postale, di cui godono
i Sindaci” 13.
In realtà i Sindaci dovevano usufruire della franchigia postale solo per le comunicazioni coi Prefetti, Sottoprefetti e altri Sindaci dello stesso mandamento,
“quando si trattasse di affari di sicurezza pubblica”, però. Le lettere d’ufficio, inoltre, dovevano “essere sempre spedite sottofascia, e non chiuse e suggellate”. Infine,
nel caso di corrispondenza fra Sindaci non della stessa Provincia ogni invio doveva
essere spedito preventivamente all’apposito ufficio della Prefettura che avrebbe successivamente provveduto all’invio oltre Provincia 14.
Questa disposizione ben dimostra il carattere accentratore dei primi governi
postunitari: la Prefettura, il “palazzo di Governo” in ogni Provincia, punto di riferimento obbligato per ogni aspetto della pubblica amministrazione; il Prefetto, quale
rappresentante del Governo, era un vero e proprio gendarme, severo e implacabile,
non solo per la difesa dell’ordine pubblico, ma soprattutto nella vigilanza sugli atti
delle ancora deboli e quasi evanescenti autonomie locali.
3 - Pedoni e corrieri di posta interna in Capitanata.
Nel 1870 non più di 17 erano gli Uffici Postali in Capitanata, su una sessantina di Comuni e grandi frazioni: 26 invece i “pedoni e corrieri di posta interna” che
trasportavano la corrispondenza da paese a paese, compreso le frazioni e la borgate.
Ogni pedone percepiva al massimo circa 100 L. di pedatico al mese (L. 540.000 di
oggi), pagate dalla Direzione Provinciale delle Poste, ma ancora con fondi della
Prefettura, o dai singoli Comuni. Uno stipendio certamente non commisurato all’impegno, alla responsabilità e al rischio dei pedoni, per l’assenza di un sistema
stradale costretti a percorrere tratturi e mulattiere. Frequenti erano, quindi, le suppliche dei corrieri, soprattutto al Prefetto, per un aumento di paga. Ad esempio il
16 ottobre 1864 Michele la Torre, pedatuo postale interno tra Monte Sant’Angelo e
la frazione Mattinata, supplicando espone al Prefetto:
“...come col tenue soldo di carlini trenta al mese non può disimpegnare agli
obblighi di tale uffizio, dovendosi sostenere e vestire in modo da presentarsi a qualsiasi Autorità locale. Non è fuori proposito far notare alla lodata S.V. che dovendo
con zelo adempiere ai suoi doveri di recarsi di continuo a Monte Sant’Angelo non
può diversamente trovarsi altro pane. È per questo che l’esponente implora dalla
innata bontà e giustizia di Lei che tanto la distingue, perché voglia fargli accordare
13
14
Idem.
Idem.
210
Luigi Gatta
da chi si conviene un soldo proporzionato alle fatiche ed alla responsabilità cui è
soggetto” 15.
Lo stesso Direttore della Direzione Provinciale delle Poste di Foggia, G. De
Palma, conferma alla Prefettura “che il servizio che si fa da quel pedone di posta
interna, atteso le impraticabili strade, ed il tempo che impiega, non potrebbe venir
eseguito con una qualche esattezza, qualora non gli s’assegni il mensile di L. 34"
(circa 200.000 Lit. di oggi) 16.
Convinto della bontà della richiesta, il Prefetto concede l’aumento al pedone
La Torre, invitando nello stesso tempo il Sindaco di Monte Sant’Angelo a vigilare
perché il La Torre esegua regolarmente il servizio assegnatogli 17.
Ancora dopo molti decenni, a dimostrazione di un rapporto di lavoro sempre precario, i procaccia della Capitanata dovevano quasi elemosinare un aumento
del compenso, specie se concesso dai Comuni. Illuminante a questo proposito, una
istanza che un altro procaccia postale Mattinata-Monte Sant’Angelo, Berardino Clemente, inoltrava il 18 giugno 1912 al Regio Commissario del Comune di Monte
Sant’Angelo:
“Illustrissimo Cavaliere,
Il supplicante Clemente Berardino fu Raffaele, procaccia postale nella frazione di Mattinata, ardisce rivolgere alla S.V. Ill.ma un’umile preghiera.
Il supplicante si onora far conoscere a S.V. Ill.ma ch’egli è sovvenzionato pel
servizio dei pacchi postali da cotesta Onorevole Amministrazione comunale nella
somma di lire quattrocento annue.
Intanto si onora far sapere a S.V. Ill.ma che se tale somma per l’addietro era
appena sufficiente a colmare le spese occorrenti, ora che il costo dei cavalli è raddoppiato, bisogna tenerne assolutamente due; l’avena da cinque a sei lire, a lire nove,
dieci e più, e cosi per le altre spese, con un movimento di passeggeri andata e ritorno
nullo, ogni tanto qualcuno, V.S. Ill.ma comprenderà che il supplicante tira una vita
impossibile.
Egli prega, supplica caldamente V.S. Ill.ma, avuto riguardo alle gravi spese
con servizio faticosissimo e pericoloso che presta, volergli portare il sussidio annuo di
lire quattrocento che dà cotesta Onorevole Amministrazione a lire seicento per petere
così tirare in qualche modo equo la vita, senza rimettere del suo.
Nella speranza che la sua preghiera venga accolta con favore, anticipa a V.S.
Ill.ma infiniti ringraziamenti” 18.
15
A.S.F., Prefettura Capitanata, l^ S/b, B.156, f. 1989.
Idem.
17
Idem.
18
Archivio Comunale di Monte Sant’Angelo, Categ. XIV, Affari diversi, Busta 1912.
16
211
Dalle poste borboniche alle poste italiane
In seguito al rigetto dell’istanza da parte dei Regio Commissario il procaccia
Clemente si vide costretto, esattamente un mese dopo, a ripresentarla con altre e
più motivate argomentazioni:
“Ill.mo Signor Regio Commissario,
il procaccia Signor Berardino Clemente, con altra istanza, umilmente e rispettosamente chiedeva a V.S. Ill.ma che il misero assegno sin’ora corrisposto dal Comune per il servizio postale a lui affidato da oltre vent’anni, venisse di santa ragione
portato almeno a L.600 annue (L. 2.750.000 circa di oggi), in base ad alcune speciali
circostanze e rilevanti giustificazioni.
Detta istanza però, in data 3 corrente, venne da Vossignoria rigettata
per la ragione che, due anni addietro, l’Amministrazione ordinaria elevò un
pochino il meschinissimo ed irrisorio corrispettivo dato, per lo innanzi, al portalettere.
Dopo ciò il Sig. Clemente, in vista delle sue buone ragioni in ordine al male
trattamento che gli viene usato dal Comune, non può tenersi dal non ricorrere una
seconda volta all’opera generosa di V.S. Ill.ma, perché voglia, a sua discrezione, deliberare, in favore del richiedente, un aumento che creda.
E però il sottoscritto Signor Clemente fa osservare alla S.V. Ill.ma che per il
disbrigo di detto servizio, egli è costretto ad impiegare due cavalli, i quali semplicemente per il breve riposo a Monte Sant’Angelo fanno sopportare una spesa di L. 6,50
mensili per stallaggio; che la rispettiva rimessa a Mattinata grava oltre cento lire annue di pigione; che pure da due anni addietro paglia, crusca, carrube e biada hanno
subito un notevole rincaro; e che la sua famiglia è composta di undici persone.
Oltre a ciò Vossignoria terrà presente pure i gravi pericoli cui è soggetto il
povero procaccia, specie nel rigore della stagione invernale, quando appunto, il 22
gennaio 1891, un suo caro, ventenne giovine, colto dalle furie della tempesta, venne
sepolto dalla neve” 19.
Più volte, inoltre, lo stesso procaccia Clemente presentò istanza per la istituzione di un calesse postale per il trasporto della corrispondenza Monte Sant’Angelo - Mattinata.
Dobbiamo dire che in qualche caso per esaudire tali istanze doveva intervenire a favore del procaccia il comandante la stazione dei RR.CC., con un proprio
rapporto, e anche il parroco.
Giustamente il procaccia Clemente nella sua seconda istanza ricordava
“i gravi pericoli” cui erano soggetti i corrieri postali nel secolo scorso, e non
solo.
Ricordava anche l’eroico sacrificio di suo fratello, Tommaso Clemente, il quale,
pur vivamente sconsigliato, a causa di una imminente bufera di neve, volle, per un
19
Idem.
212
Luigi Gatta
alto senso del dovere, portare ugualmente il dispaccio della corrispondenza a Mattinata.
Fu trovato il giorno dopo, a qualche chilometro da Monte Sant’Angelo, schiacciato contro un albero e assiderato.
A parte le inclemenze del tempo e la costante minaccia dei fuorilegge, ancora
decenni dopo la fine del brigantaggio, anche le malattie e le epidemie costituivano
un pericolo per i pedoni di Capitanata.
Nell’agosto del 1865, ad esempio, per il diffondersi di una grave infezione
colerica, ai corrieri postali diretti a Castelnuovo, e altri Comuni dei mandamento di
Celenza, fu impedito l’entrata in paese, se non dopo “la disinfettazione in un casamento isolato prossimo all’abitato” 20.
Inevitabili, di conseguenza, i ritardi nella consegna della posta e i pericoli che
le stesse “valigie” finissero in mano a persone estranee al servizio.
Naturalmente nei difficili anni del dopo Unità, per il caos politico e amministrativo e la inevitabile disorganizzazione dei servizi, del resto alquanto frettolosamente unificati a quelli piemontesi nelle regioni “liberate”, non potevano mancare
anche disservizi postali e quindi i disagi e le lamentele dell’utenza.
Ad esempio continue recriminazioni riguardavano i corrieri che, sempre da
Celenza Valfortore, ufficio di terza categoria, distribuivano la corrispondenza nei
Comuni del mandamento.
In particolare al Sottoprefetto di San Severo giungevano frequenti reclami
dal Comune di San Marco La Catola, “per la poca esattezza del corriere e pel ritardo con cui i corrieri trasportavano la corrispondenza” 21.
Il Sottoprefetto richiamò il titolare postale di Celenza, per “eccitarlo ad una
maggiore vigilanza sui corrieri”. Ma in seguito continuando i ritardi nell’arrivo della valigia con la corrispondenza postale, la Sottoprefettura ritenne opportuno chiedere alla Direzione delle Poste una inchiesta sull’andamento del servizio in tutto il
mandamento di Celenza.
Nei paesi o frazioni privi di ufficio postale, poi, in genere era il cancelliere o
amanuense del Comune e della Delegazione a ricevere la valigia della posta, e non
sempre dietro compenso. Poteva anche accadere, però, che il cancelliere un bel giorno
si rifiutasse, come avvenne il 1864 nella frazione di Mattinata.
L’amanuense della Delegazione naturalmente subì il severo richiamo del
Delegato Municipale, ma, in seguito a un rapporto della Direzione Compartimentale delle Poste, rischiò anche un provvedimento punitivo da parte della Prefettura,
se non avesse ripreso il servizio 22.
20
A.S.F., Pref. Capit., l’S/B, B.159, £2070.
A.S.F., Pref. Capit., I’S/A, B.102, f.2253.
22
A.S.F., Pref. Capit., l’Slb, B.159, f.2067.
21
213
Dalle poste borboniche alle poste italiane
E dire che due anni prima, il 1862, il Prosindaco della borgata Mattinata
fece presente al Prefetto che mentre nel Comune Capoluogo di Monte Sant’Angelo la posta arrivava tutti i giorni, nella frazione, invece, solo 2 giorni la
settimana, lunedì e giovedì, “un ritardo intollerabile a scapito degli interessi dei
naturali”.
Il Delegato Municipale, per migliorare il servizio a Mattinata chiedeva che il
corriere arrivasse almeno 3 volte la settimana.
Dopo pochi giorni, in seguito all’intervento della Prefettura, la Direzione Provinciale delle Poste, tramite l’ufficio di Monte Sant’Angelo, disponeva che il corriere Ferdinando Fracassone portasse “tre volte nel villaggio dì
Mattinata i dispacci, però col compenso di ducati 3 invece che 2 come nel
passato” 23.
Ciò malgrado non mancheranno altri episodi di disservizi, e infatti il citato
corriere di Mattinata Michele La Torre il 1864, secondo l’accusa del Direttore dell’Ufficio di Monte Sant’Angelo Francesco Paolo D’ambrosio, “capricciosamente e
abusivamente abbandonava il servizio, affidando poi per 15 giorni la valigia postale
al nipote di 8 anni!”.
Per il conseguente ritardo della corrispondenza protestò anche il comandante il distaccamento militare in Mattinata (la borgata era ancora minacciata dai briganti).
In realtà, il pedone La Torre aveva l’obbligo di pernottare a Monte Sant’Angelo, ove veniva preparata la corrispondenza, e percorrere poi di continuo la impraticabile mulattiera Monte Sant’Angelo - Mattinata.
E dire che l’incarico di pedone di posta interna era alquanto ambito: titoli di
merito, oltre alla dedizione al servizio e all’onestà, era la partecipazione alla lotta al
brigantaggio, ma anche l’essere stato soldato borbonico, oltre naturalmente l’aver
servito nell’esercito nazionale postunitario.
Nella frazione Mattinata, ad esempio, quando il pedone Ferdinando
Fracassone si dimise nel dicembre 1863, il Sindaco di Monte Sant’Angelo nominò
proprio Michele La Torre, giovane di 21 anni “probo e onesto”, corriere dì posta
interna con il mensile di £.12,75.
Nel dicembre 1865 dovendo il La Torre “servire nelle nazionali truppe”
chiese che il posto di portalettere rurale fosse assegnato al fratellastro Clemente
Raffaele.
Nell’aprile del 1866, però, al Prefetto arrivò anche l’istanza di tale Michele
Vergura che, dopo aver servito 3 anni nell’esercito borbonico e 5 in quello unitario,
chiedeva per se il posto di corriere di posta interna.
Alla fine, comunque, sarà confermato pedone Clemente Raffaele, di ottima
23
A.S.F., Pref Capit., l’S/b, B.158, f.2044.
214
Luigi Gatta
condotta morale e politica, anche dopo il ritorno del fratellastro Michele La Torre
dalla leva e il suo assassinio nel dicembre 1866 24.
Infine dobbiamo ricordare che anche nell’800 le donne spesso erano chiamate a sostituire i pedoni impediti nel loro servizio, e in qualche caso erano proprio
le mogli.
A 10 anni dall’Unità era chiaro ormai che occorreva una radicale riforma del
servizio postale in Capitanata, per assicurare ai pedoni un rapporto di lavoro non
più precario e un regolare servizio di posta in tutti i paesi e le borgate.
Ed ecco allora nel novembre 1873 una opportuna convenzione, in 9 articoli,
tra la Regia Prefettura e le Regie Poste per la riorganizzazione del servizio in
Capitanata: nomina, licenziamenti e retribuzione dei pedoni, il concorso dei Comuni nelle spese, ecc. (Vedi Appendice N. l).
A conclusione del paragrafo possiamo dire che valeva anche per i pedoni di
Capitanata quanto Erodoto, il padre della storiografia occidentale, riferisce dei corrieri postali della Persia:
“Né la neve, né la pioggia, né la canigola, né le tenebre debbono impedire ai
corrieri di compiere il loro dovere e di farlo con massima rapidità”.
4 - Il ratizzo postale.
La Legge 5 maggio 1862 n.604, agli articoli 3 e 4, stabiliva che il servizio
postale nazionale postunitario doveva essere a carico dello Stato.
Tuttavia ancora per qualche decennio dopo l’Unità rimase in vigore, almeno
nella nostra provincia di Capitanata, l’antica Legge del Regno di Napoli n.570 del
12 dicembre 1816, che all’articolo 211 prevedeva, invece, un contributo rateizzabile
(il “ratizzo”, appunto) dei Comuni per il servizio di posta interna.
Ma non tutti i Comuni della Capitanata si erano impegnati “a contribuire
nelle spese derivanti dall’estensione e dal miglioramento del servizio postale” 25.
E d’altra parte i Comuni che in bilancio avevano previsto il capitolo “ratizzo
postale” erano in perenne ritardo nei versamenti alla cassa provinciale.
24
CLEMENTE Raffaele fu Berardino (1829-1902) sarà poi in Mattinata il capostipite di una famiglia, una
vera dinastia, che, sicuramente come altre nei diversi Comuni della Capitanata, da 130 anni è al servizio delle
Poste Italiane.
Quando non fu più in grado di svolgere il servizio gli successe prima il figlio Tommaso, come già detto,
deceduto per una bufera di neve il 1891, e poi l’altro figlio Clemente Berardino (1865-1938).
A sua volta Berardino, dopo aver svolto, sempre puntualmente e con qualsiasi condizione di tempo, per
decenni il servizio di procacciato Mattinata - Monte Sant’Angelo fu sostituito prima dal figlio Clemente
Michele Maria (1905-1973) e poi dall’altro figlio Clemente Raffaele (1891-1977).
Un figlio di Michele Maria, Clemente Antonio (classe 1940), è attualmente portalettere a Mattinata; il
figlio di Raffaele, invece, Clemente Berardino (classe 1927) ha diretto per decenni l’Ufficio Postale di Mattinata.
La tradizione dei Clemente al servizio delle Poste Italiane continua con Raffaele CLEMENTE di Berardino
(classe 1956), operatore applicato presso l’Ufficio Postale di Mattinata.
25
A.S.F., Pref. Capit., 1^ S/A, B.103, £. 2255.
215
Dalle poste borboniche alle poste italiane
Inevitabili, quindi, le continue sollecitazioni del Ministero delle Finanze (Direzione Generale del Tesoro), tramite la Direzione Generale delle Poste.
Del resto le Amministrazioni locali in arretrato erano penalizzate con l’interesse del 6%.
Comunque, il ratizzo postale si poteva versare utilizzando un vaglia indirizzato al Cassiere Centrale delle Poste in Firenze, ma anche a Lorenzo Scillitani,
cassiere della Tesoreria provinciale; il vaglia era disponibile gratuitamente negli uffici autorizzati.
Il ratizzo era pagato trimestralmente, 4 rate all’anno posticipate e non era
uguale per tutti i comuni, poiché variava in base al numero degli abitanti.
Il 1867 le Poste di Capitanata pagarono L. 20.936 per stipendi ai corrieri, ma
vantavano anche crediti dai Comuni della provincia per L. 21.094: Monte Sant’Angelo, Foggia e San Marco in Lamis erano tra i Comuni più indebitati verso le Poste.
Il 1868 fu preventivato un introito da ratizzo di L. 21.204, invece per la paga
dei pedoni furono spesi L. 17.711.
Anche il 1869 Monte Sant’Angelo era tra i Comuni più in ritardo nel versamento del ratizzo, con un debito di £. 821; l’anno seguente, però, il Sindaco Donato
Giordano versava alla Tesoreria provinciale L. 1179.
Nel quinquennio 1867-1872, invece, fu preventivato dalle Poste di Capitanata
un introito complessivo per ratizzo di L. 126.914; l’incasso reale, però, fu di L. 125.066
e le uscite per stipendi ai pedoni L. 123.195.
Dal gennaio 1868, poi, la messaggeria del Gargano fu potenziata con altri 4
pedoni per il trasporto della corrispondenza: 1 pedone da Monte Sant’Angelo a
Mattinata, due pedoni da San Severo a San Marco in Lamis, 1 pedone da San Marco
in Lamis a Rignano Garganico.
Per gli stipendi a questi pedoni la Prefettura versava ogni anno alla Direzione
Compartimentale delle Poste L.3000; spesso, però, la Direzione Generale delle Poste
presso il Ministero dei LL.PP. ne sollecitava il pagamento.
Nel maggio 1873, considerata la difficoltà nel riscuotere dai Comuni il ratizzo,
la Dirpostel di Foggia propose all’Amministrazione provinciale, tramite la Prefettura, di anticipare l’ammontare delle rate di L.17.532, per il servizio di posta interna
svolto dai pedoni, e riscuotere in seguito dai Comuni debitori.
Sulla richiesta della Dirpostel, però, il Cav. Paolella, Consigliere della Deputazione, propose di consultare prima i Municipi, considerato che anche la Provincia
poteva incontrare difficoltà a farsi rimborsare il ratizzo. Anche perché il servizio di
posta interna, in base all’articolo 116 della Legge 20 marzo 1865, non rientrava tra
le spese obbligatorie dei Comuni, ma era a carico dello Stato 26.
26
A.S.F., Pref. Capit., 1^ S/A, B.105, f. 2338.
216
Luigi Gatta
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Dalle poste borboniche alle poste italiane
A. S. F., I^ S/A, B 98, f. 2144
218
Luigi Gatta
219
Dalle poste borboniche alle poste italiane
E infatti, all’invito della Deputazione provinciale di esprimersi sulla proposta di convenzione avanzata dalla Dirpostel di Foggia, le amministrazioni locali
risposero col silenzio rifiuto.
E cosi, su suggerimento del Deputato Frascolla, il Consiglio Provinciale non
deliberò sulla richiesta della Dirpostel di Foggia.
Intanto, con nota n.27241 del 7 aprile 1874, inviata al Prefetto, il Ministero dei
LL.PP., d’intesa con quello delle Finanze, rinunziava al ratizzo a carico dei Comuni,
come previsto dall’antica legge del Regno delle Due Sicilie, lasciando però ai medesimi la facoltà di compartecipare alla spesa per conseguire un servizio migliore.
Il 27 dello stesso mese di aprile la Prefettura comunicava ufficialmente ai
Comuni che dal 1 aprile 1874 il servizio postale governativo era esteso a tutta la
provincia e pertanto venivano “liberati dalla quota posta a loro carico per contributo di posta interna” 27, salvo l’ultimo versamento riguardante il 1° trimestre del ’74,
ed eventualmente gli arretrati.
E infatti non pochi Comuni erano in arretrato: Foggia doveva alla cassa del
ratizzo postale ancora £. 2425, Manfredonia £. 305,50, Monte Sant’Angelo £. 283 e
Motta Monte Corvino £. 28.
I versamenti dovevano essere effettuati dopo 15 giorni a partire dal 27 aprile,
pena “provvedimenti coattivi” per i Comuni inadempienti.
IL SERVIZIO TELEGRAFICO
1 - Dalle origini della telegrafia ai primi uffici telegrafici in Capitanata
Già verso la fine del sec. XVIII si avvertiva la necessità di un mezzo ben più
veloce dei corrieri a cavallo per trasmettere urgenti messaggi.
Il francese C. Chappe con il suo sistema di torri con bracci mobili, osservabili
a distanza e le cui posizioni equivalevano ad altrettante lettere, fu un pioniere della
telegrafia.
Il vero salto di qualità, però, si avrà alla metà del XIX secolo col telegrafo di
Morse: un sistema di punti, linee e impulsi elettrici, con la punta di un magnete che
agiva su una striscia di carta scorrevole.
Contemporaneamente alla destinazione del messaggio un manipolatore convertiva in lettere, e quindi in frasi, i punti e le linee.
In seguito D. E. Hughes facilita la ricezione, convertendo direttamente in
lettere e frasi il messaggio.
J. M. E. Baudot perfeziona ulteriormente il sistema Morse - Hughes con una
tastiera a soli 5 tasti premuti dall’operatore.
L’evoluzione successiva è la telescrivente, collegata con una centrale telex; ai
giorni nostri, però, dominati dall’informatica, il computer ha sostituito la
27
A.S.F., 1^ S/A (Appendice prima, 1861-1883), B.105, f,2338.
220
Luigi Gatta
telescrivente elettromeccanica: ora i messaggi viaggiano sempre più veloci e precisi,
in tempo reale.
La circolare ministeriale N.6287/2240 dei 22 settembre 1868 diretta ai Prefetti prevedeva varie facilitazioni per quei Comuni che avessero preso in considerazione i vantaggi della telegrafia.
In una missiva del 3 marzo 1871, poi, la Direzione Compartimentale dei Telegrafi dello Stato di Bari comunicava al Prefetto di Foggia che la Direzione Generale dei Telegrafi aveva rilevato la carenza di uffici telegrafici in alcune province, tra
le quali anche la Capitanata.
Il Prefetto di Foggia era pregato di partecipare ai Comuni più importanti
della provincia le condizioni generali per l’installazione di un ufficio telegrafico,
considerando che l’Amministrazione dei Telegrafi avrebbe preso senz’altro in considerazione anche “domande di maggiori facilitazioni” 28.
E in effetti le incombenze per i Comuni che volevano installare un ufficio
telegrafico non erano poche.
Infatti, a parte la domanda del Sindaco alla Direzione Compartimentale dei
Telegrafi, corredata dalla Delibera del Consiglio Comunale, il Comune doveva fornire i pali, pagare la mano d’opera e curare il controllo delle linee telegrafiche.
L’incaricato dell’ufficio telegrafico, poi, poteva essere, inizialmente, un impiegato dello stesso Comune, anche se donna, “da istruire in seguito”, e poteva
installare l’ufficio in casa propria.
Al telegrafista spettavano 60 centesimi per ogni dispaccio privato in partenza
e l’annuo compenso di £. 600, ma doveva provvedere alle spese d’ufficio e al recapito dei messaggi 29.
Naturalmente nelle frazioni e borgate prive di mezzi finanziari e di un proprio bilancio era impensabile un ufficio telegrafico.
Poteva essere istallato, però, provvisoriamente, in seguito a grandi disastri
naturali come alluvioni o terremoti. Il che, ad esempio, avvenne nella fase più acuta
(il 1893) del lungo periodo sismico che si verificò a Mattinata tra il 1892 e 1894.
Terminata l’emergenza terremoti l’ufficio telegrafico fu chiuso; sarà definitivamente riaperto qualche anno dopo, grazie all’impegno finanziario del Comune
Capoluogo di Monte Sant’Angelo.
Logicamente la Direzione Generale dei Telegrafi teneva all’occorrenza dei
“corsi teorico - pratici di telegrafia elettrica”, per essere ammessi ai quali bisognava
partecipare al concorso per “Alunno telegrafico” e sostenere gli esami nel Capoluogo di regione.
Nell’aprile 1871 nelle Università, nei Licei e negli Istituti Tecnici la Direzione Generale dei Telegrafi aveva affisso un manifesto, riportato anche dai gior-
28
29
A.S.F., 1^ S/A (Appendice Prima - 1861-1883), B.101, f. 2205, (1871).
Idem.
221
Dalle poste borboniche alle poste italiane
nali, relativo a un “Avviso di concorso per 40 posti di Alunno telegrafico”.
Il requisito più importante richiesto al concorrente era “la sufficienza dei
suoi mezzi per prestare servizio senza retribuzione”, fino alla nomina a “Ufficiale
telegrafico”.
Abbastanza nutrito era poi il programma d’esame, che comprendeva la lingua italiana e il francese, poi geografia, aritmetica, fisica, elementi di chimica, disegno e calligrafia.
Veniva ammesso al corso solo chi risultava idoneo in ciascuna materia e aveva sostenuto la migliore prova.
Sei mesi complessivamente durava il corso. 3 mesi per la teoria e 3 mesi di
pratica sugli apparati Morse e Hughes, che bisognava conoscere negli elementi
costitutivi (pile, circuiti, ecc.).
Chiaro poi che all’atto della nomina a Ufficiale telegrafico il concorrente non
doveva avere alcun obbligo dì leva ed essere pronto a raggiungere qualsiasi sede
assegnata; lo stipendio annuo era di L.1500.30
Una volta in servizio i neotelegrafisti particolare attenzione dovevano porre
ai “telegrammi di Stato”, che erano tali solo se trattavano “affari relativi al pubblico
servizio”, e avevano la precedenza sui telegrammi privati.
In caso di abuso il telegramma, una volta accettato, era inviato al relativo
Ministero per il controllo. Insomma si voleva limitare la facoltà dei pubblici funzionari di corrispondere fra loro e con i relativi Ministeri per mezzo del telegrafo,
limitazione che doveva riguardare anche i Sindaci.
Dal 1° luglio 1871 solamente i telegrammi del Re, dei principi, dei presidenti
delle Camere, dei Ministri e dei Direttori Generali si potevano accettare a credito,
tutti gli altri funzionari governativi invece dovevano pagare all’atto della presentazione, facendo ricorso alle “spese d’ufficio”.31
Oltre agli obblighi finanziari, di cui abbiamo detto, i Comuni che intendevano istallare un ufficio telegrafico dovevano anche far fronte alle “gravi spese pel
mantenimento di un guardafili telegrafico speciale”.
Infatti bisognava versare all’Amministrazione dei Telegrafi L.30 a chilometro per la sorveglianza della linea telegrafica.
I guardafili, nell’ambito dell’Amministrazione Postale, avevano un compito importante e gravoso come i corrieri. Dovevano vigilare e controllare, infatti,
continuamente le linee telegrafiche, a piedi e per molti chilometri, in qualsiasi
stagione.
30
Idem.
A.S.F., Prefettura Capitanata, l^ S/A, B.101, f.2208. Questi i funzionari dipendenti dal Minister o dell’Interno autorizzati a spedire “Telegrammi di Stato” a pagamento all’atto della presentazione: - Il Presidente
del Consiglio di Stato - Prefetti e Sottoprefetti - Questori - Delegati di P.S. - Ispettori delle carceri - Sindaci
per corrispondenza diretta ai Prefetti - Reali Carabinieri: Comandanti di Stazioni, Ufficiali e Sottufficiali.
31
222
Luigi Gatta
223
Dalle poste borboniche alle poste italiane
Quando si verificava una interruzione nei collegamenti, per rottura delle linee, il guardafili doveva recarsi attraverso monti, valli e dirupi a scoprire il punto
preciso e ripristinare al più presto i collegamenti, salendo sui pali in legno con le
staffe in ferro e dentate.
Una vera figura eroica, quindi, il guardafili, che oggi non esiste più, annullata
dal gran progresso delle telecomunicazioni.
2 - Il “ratizzo” telegrafico
Anche per quanto riguarda il servizio telegrafico vi era un “ratizzo” che i
Comuni dovevano versare alla Direzione Compartimentale dei Telegrafi di Bari.
Infatti, una volta stabilito dal Ministero dei LL.PP quello che doveva essere
l’introito annuale effettivo di un ufficio telegrafico, l’eventuale differenza per mancati introiti doveva essere versata dal Comune alla Direzione Compartimentale dei
Telegrafi.
Ben nove Comuni della nostra provincia erano in perenne ritardo nel versamento del ratizzo telegrafico; spesso la Deputazione Provinciale faceva colmare
d’ufficio il debito dei Comuni, che pure in bilancio dovevano prevedere un apposito Capitolo per “ratizzo telegrafico”
Uno dei Comuni morosi era senz’altro Monte Sant’Angelo che, a fronte di
un introito annuo di L. 2000 del proprio ufficio telegrafico, doveva versare alla
Direzione Compartimentale dei Telegrafi ben L.1115 il 1867 e L.1163 il 1868.
È chiaro che quanto più alto era il “ratizzo” da versare, tanto meno era l’introito dell’ufficio telegrafico, perché chiaramente ben pochi erano i telegrammi dei
privati.
1 - La riorganizzatone del servizio postale in Capitanata
PREFETTURA DELLA PROVINCIA DI CAPITANATA
Convenzione fra la Regia Prefettura e la Direzione Provinciale delle Poste di
Foggia per la riorganizzazione del servizio postale nella Provincia di Capitanata.
L’anno 1873, e nel giorno l° di Novembre la Prefettura di Foggia e la Direzione Provinciale delle Poste di Capitanata hanno di comune accordo stabilito la
seguente convenzione.
Articolo 1°
Il servizio di posta di quei Comuni della Provincia di Capitanata, che ora si
compie a mezzo di corrieri o di altri agenti di posta interna passerà dal 1° Gennaio
224
Luigi Gatta
1874 sotto la esclusiva dipendenza dell’Amministrazione delle Regie Poste, la quale
lo farà eseguire giornalmente, meno che nella frazione di Zapponeta, ove avrà effetto tre volte la settimana, giusta le norme vigenti nelle altre provincie del Regno.
Articolo 2°
La retribuzione da assegnarsi agli Agenti che saranno incaricati del servizio
anzidetto, rimarrà interamente a carico dell’Amministrazione postale, la quale curerà direttamente il relativo pagamento.
Articolo 3°
I Comuni della Provincia concorreranno nella spesa per la somma complessiva di annue Lire ventimilacinquecentotrentadue pagando ciascuno di essi la quota
loro assegnata dalla Prefettura al Signor Ricevitore Provinciale, incaricato dalla Prefettura medesima di questa speciale riscossione, e quindi dal Ricevitore stesso si
versa la indicata somma nelle casse postali a semestri posticipati.
Articolo 4°
La Direzione Provinciale delle Poste assumerà altresì l’obbligo di pagare annualmente alla Direzione Generale le Lire tremila occorrenti al mantenimento della
diligenza postale sulla linea del Gargano.
Articolo 5°
La Prefettura si obbliga di curare che siano dai Municipi fatti i necessari
stanziamenti nei rispettivi bilanci, e quindi eseguiti i relativi versamenti.
Articolo 6°
La Direzione Provinciale delle Poste sarà tenuta a somministrare a richiesta
della Prefettura tutti quei documenti e quelle informazioni di cui quest’ultima abbisognasse per qualificare l’impiego delle somme pagate dai Comuni a titolo di
concorso.
La corrispondenza riguardante le operazioni dei Ricevitore Provinciale sarà
esclusivamente rivolta alla Prefettura.
Articolo 7°
La nomina ed il licenziamento degli Agenti addetti al servizio postale sarà
integralmente devoluta all’Amministrazione delle Poste, la quale esigerà dai medesimi la piena osservanza delle discipline sancite dai regolamenti, a seconda delle
incombenze che verranno a ciascuno di essi affidate.
225
Dalle poste borboniche alle poste italiane
Articolo 8°
La presente convenzione avrà effetto dal giorno dell’attuazione del servizio e
durerà tutto l’anno 1874.
Potrà poscia continuare di anno in anno qualora non sia disdetta da una delle
due parti convenute sei mesi prima della fine di ciascun anno.
Articolo 9°
Tale convenzione fatta e sottoscritta in triplo originale non sarà obbligatoria
per l’Amministrazione delle Poste se non dopo che sia stata approvata per Decreto
dal Ministero dei Lavori Pubblici.
A sanzione e rettifica delle su esposte condizioni ambedue le Autorità contraenti si sono sottoscritte nella rispettiva qualifica ufficiale.
Foggia 11 Novembre 1873
Il Direttore Provinciale
delle Poste nella Capitanata
Il Consigliere Delegato
Angelo Fenizia
Pel Prefetto
della Provincia
(illegibile)
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228
Francesco Giuliani
Dai versi a macerazioni divertenti:
l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
di Francesco Giuliani
I - Un dittico di rilievo
Leggendo la biografia e le opere di Giuseppe Annese balza subito all’attenzione la drammatica serietà della sua esistenza e della sua ricerca artistica. Un dato,
questo, che ci ha dato subito molto da pensare. Perché, ci siamo chiesti anche noi, il
figlio di un farmacista benestante decide di emigrare, di lasciare la sua città natale,
iniziando un cammino incerto e costellato di difficoltà?
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta migliaia di pugliesi, spinti dalla povertà, si
stabiliscono in pianta stabile al Nord, cambiando il volto di intere città, come Torino, o si dirigono oltreconfine. Cosa aveva a che fare con costoro Giuseppe Annese?
Economicamente, un abisso lo divideva dai classici meridionali con la valigia
di cartone, però, al fondo, anche lui avvertiva il bisogno di qualcosa che gli mancava, benché la sua ricerca si svolgesse ad un livello diverso.
In una visione gretta dell’esistenza, Annese è uno che ha scelto di complicarsi
la vita, che ha rifiutato l’agiata quiete di una farmacia, senza sapere cosa cercare in
alternativa; ma sulle strade del mondo si muovono da sempre anche degli uomini
spinti da motivazioni meno scontate. E questo è sicuramente il caso di Giuseppe
Annese, la cui inquietudine colpisce tutti gli osservatori più sensibili, anche quanti,
magari, non avrebbero avuto il coraggio di compiere una scelta simile, anche quanti
non condividono alcuni eccessi della sua esistenza, che appaiono nitidi dagli scritti.
Una tra le operazioni culturali più intelligenti degli ultimi anni è stata rappresentata proprio dalla riscoperta di alcune delle sue numerose opere, scelte tra le
“mille che non pubblicò”, come si legge in Macerazioni divertenti, lasciate inedite
dalla prematura scomparsa del Nostro; esse sono meritatamente assurte a livello
nazionale, trovando una buona accoglienza presso gli addetti ai lavori e presso il
pubblico dei lettori.
In particolare, il romanzo appena citato, apparso nel 1997, per i tipi della
leccese Besa, ma composto negli anni Sessanta, è stato recensito positivamente da
varie testate nazionali ed è stato presentato con successo a Milano come a Foggia,
diventando un piccolo classico della nostra modernità.
Un cammino di attenzioni postume iniziò negli anni Ottanta con la pubblicazione, nel 1985, della raccolta di liriche Morire di speranza, a cura dell’Ammini229
Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
strazione Comunale di San Severo e, provvisoriamente, culminò nel 2000, con una
riedizione del volumetto, a cura di Michele Trecca, come supplemento al settimanale foggiano “Protagonisti” nella collana Zerozerosud.
In questo modo si è potuto ricostruire con maggiore chiarezza il senso di
un’esistenza inquieta e tormentata, che ha trovato nella scrittura il suo necessario
risvolto, come le due proverbiali facce della medaglia. Ovviamente, se ci interessiamo di Annese lo dobbiamo fare alla luce della qualità delle sue opere letterarie
edite, che ne fanno una voce limpida e inconfondibile, un artista di notevole spessore, con il quale ognuno riesce a confrontarsi, trovando degli spunti di interesse.
Non a caso abbiamo appena parlato di piccolo classico.
La silloge di poesia, nella quale sono confluiti i suoi amati versi, e il romanzo
edito nel 1997 sono legati da molti fili, che cercheremo di seguire in questa analisi.
Essa prende le mosse, artisticamente, nel 1953, quando Annese compone la sezione
poetica Cronache della pianura, per arrivare intorno al 1965, alla completezza di
Macerazioni divertenti.
Dal punto di vista biografico, però, dobbiamo fare un salto indietro, fino al
1932, quando Giuseppe Bernardo Annese, figlio di un agiato farmacista di San Severo, apre gli occhi sul mondo. I rapporti con il padre erano sempre stati difficili,
separati da un muro di incomunicabilità; l’ipersensibile figlio non approva nulla del
mondo paterno, fin troppo arroccato nelle sue posizioni.
Dopo la frequenza del liceo classico, Giuseppe si laurea in legge, a Bologna,
limitando però a dieci mesi il periodo di pratica legale; il titolo di studio viene riposto in un cassetto e nel 1958 Annese si ritrova a Milano. Qui si svolge l’ultima parte
della sua breve vita.
Lavora come pubblicitario in alcune agenzie, conosce persone importanti,
come Ennio Flaiano, collabora con Marcello Marchesi, fonda e dirige il giornale
satirico Budd, si fa valere anche come pittore, acquistando sempre più stima e considerazione fino al 1979, quando un tumore lo spegne prematuramente e in pochi
mesi, a soli 47 anni. Oggi Annese riposa nella città pugliese che gli ha dato i natali.
Anche da questi semplici dati crediamo traspaia il senso di una vita trascorsa
in una ricerca affannosa e talvolta disordinata di qualcosa di diverso e di più profondo della quieta rispettabilità borghese, di qualcosa che riuscisse a strapparlo alla
sua ansia e alla sua solitudine, per fargli avvertire il calore di una scoperta che ne
riscaldasse fino in fondo l’anima.
Giuseppe Bernardo aveva bisogno di placare la sua esuberanza e la sua insoddisfazione giovanile, ma il suo mondo meridionale di provincia sembrava non dargli respiro, opprimerlo in una quiete che doveva sapere di morte, di abbandono, di
fatalistico lasciarsi andare alla deriva, trasportato dagli eventi.
In vita ha pubblicato poche opere, tra cui, nel 1964, i versi della Ballata del
domani oscuro, sulle pagine del primo numero della rivista veneziana La Città. In
seguito scriverà articoli, comporrà racconti, lavori teatrali e alcuni romanzi, rimasti
a tutt’oggi inediti, come Horrore latino e Vortice africano.
Un’eccezione rimarchevole degna di nota è rappresentata dal romanzo Sere230
Francesco Giuliani
nità in agguato, l’unico dato alle stampe quando l’autore era ancora in vita, nel
1975, per i tipi della milanese Jaca Book; e fu anche allora un’operazione letteraria
coraggiosa e controcorrente, nella quale si assumeva come punto di partenza la
banalità quotidiana, facendola esplodere dall’interno, con effetti esilaranti e
pirotecnici, che rendono la pagina una continua sorpresa.
Al fondo, però, come sempre, non manca nel romanzo un’amara morale, con
quella serenità che significa alienazione, conformismo, mancanza di una via d’uscita.
I versi, dunque, accompagnano i suoi vent’anni, il periodo in cui si decide il
suo futuro di uomo, che si lascia alle spalle la provincia per cercare ed affrontare la
sfida milanese. L’attenzione riservata alle liriche, all’inizio quasi maniacale, finirà
pian piano per scemare e alla fine esse si configureranno come il frutto di una precisa, ma fondamentale, stagione della vita di Annese, della sua maturazione di uomo
e di scrittore.
Il posto della poesia sarà preso dalla prosa, specie dal romanzo postumo
Macerazioni divertenti, in cui rivive la stessa materia autobiografica, con le esperienze sanseveresi, il periodo trascorso da militare, la permanenza per poco meno
di un anno a Padova, come procuratore legale, e infine l’arrivo a Milano, dove terminerà i suoi giorni.
Un dittico, insomma, di notevole valore artistico, che merita attenzione.
II - Morire di speranza
Le liriche di Morire di speranza sono state tratte dal manoscritto, in possesso
della vedova, la signora Nives Novak, con scrupolosa fedeltà, “senza revisioni o apporti per una andata in stampa”, come viene ricordato in una Nota per il Lettore,
posta in coda all’edizione del 1985 1, e questo si nota in modo particolare in qualche
passaggio; un ipotetico intervento di Annese, in ogni caso, non sarebbe andato al di là
di qualche lieve modifica, senza stravolgere molto della sua produzione in versi, alla
quale teneva molto, tanto da affidargli, da giovane, le sorti della sua fortuna letteraria.
Come poeta, del resto, si presentò all’amico Migneco, il Peppino Budda del
romanzo postumo, il quale ricorda così il primo incontro con Annese, negli anni
Cinquanta, giunto un bel giorno inaspettatamente, non si sa per quale motivo o
dietro consiglio di chi, nel suo studio: “Un’aria, nello stesso tempo, sfrontata e
cordiale di uno che non ha tempo per i convenevoli: ‘Giuseppe Annese di San Severo di Puglia. Poeta sconosciuto, ma fortemente intenzionato di farsi conoscere’. Si
presentò più o meno così, con la sua faccia accesa e sorridente, costellata di piccole
cicatrici da acne, ma illuminata da due occhi intelligenti e spavaldi” 2.
1
2
Giuseppe Annese, Morire di speranza, Dotoli, San Severo, 1985, pag. 84.
Op. cit. pag. 9.
231
Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
La silloge è formata da tre sezioni, la prima, Cronache della pianura, che risale al
1953, la seconda, Cifrario d’autunno, che è del 1956-57, mentre l’ultima è rappresentata
dalle Ballate, che sono state composte nel quinquennio che va dal 1956 al 1961.
Si tratta di un arco di otto anni. Queste liriche non sono opera di un adolescente ma di una persona che in questo lasso di tempo matura e porta avanti il suo
desiderio di una vita più profonda ed appagante, da vero e proprio ribelle ante
litteram, in chiaro anticipo sul ribellismo degli anni Sessanta (la sua personale rivolta risale agli anni Cinquanta). Quanto ai luoghi, egli ha già lasciato la città nativa.
Nutrito di una cultura pienamente novecentesca, malgrado la frequenza del
liceo classico, egli parte da Baudelaire e dai simbolisti francesi per finire all’amato
Montale ed agli ermetici. La sua scrittura non ha nulla di arretrato e di letterario;
tutt’altro. Gli studi classici, in fondo, furono piegati al rafforzamento del suo bisogno di apertura mentale, di autenticità.
Una ricerca che passa anche attraverso notti inquiete, case di tolleranza ed
eccessi di vario genere, come si ricava del resto da Macerazioni divertenti, ma coerentemente portata avanti, senza cesure.
I suoi coetanei pugliesi hanno di lui soprattutto il ricordo di un giovane chiuso, che covava una sua viva inquietudine, ma anche brillante, quando si trovava a
proprio agio.
Annese, come capirà dopo, cercava qualcosa che non avrebbe trovato, neppure tra le nebbie della capitale industriale d’Italia, malgrado i suoi tentativi, malgrado le sue opzioni politiche di uomo di sinistra, che avrebbe voluto ancorare ad
un’ideologia il suo dolore esistenziale (e per certi versi ci viene in mente Pavese, a
lui caro, come ricorderemo in seguito), pur sapendo benissimo che non era possibile, in un mondo dalla solidità adamantina.
In questo senso, le liriche di Morire di speranza sono emblematiche, con il
loro riferimento ad un sogno di palingenesi che non arriverà.
Ma la parabola di Annese, va detto con chiarezza, non va certo letta su di un
più riduttivo piano politico, bensì su quello, più alto e comprensivo, esistenziale,
alla luce, lo ripetiamo, di quest’ansia che lo divora e che non si sarebbe placata, di
una speranza che non poteva non rimanere insoddisfatta e che pure accompagna
l’uomo fino al momento di morire o, interpretando in modo differente il titolo del
volume, di una speranza cantata ormai come morta, che fa venire la tentazione della
fine ed addolora la triste vicenda dei giorni.
I versi del Nostro rifuggono da tutte le strutture metriche chiuse, non conoscono altra norma se non il libero abbandono all’ispirazione, all’illuminazione, allo scavo.
Le strofe, di diversa misura, si susseguono obbedendo ad un’armonia tutta
interiore, con una maggiore attenzione alle ampie architetture, nelle Ballate, mentre in Cifrario d’autunno il poeta ritaglia degli episodi, dei momenti, guidando con
un titolo la lettura.
Versi più lunghi lasciano spazio ad altri ben più brevi, fino al dominio di una
semplice parola, isolata ed amplificata, come aveva imparato da modelli come quello
ungarettiano. Ma la ricerca di una musicalità più netta e coinvolgente si esprime in
232
Francesco Giuliani
uno spiccato gusto dell’iterazione, che va oltre l’anafora per estendersi ad interi versi.
Alcune liriche di Cifrario d’Autunno, ad esempio, iniziano e finiscono allo
stesso modo, come Lamento, L’asfalto e Desiderio. Quanto a Le stagioni, nella stessa sezione, la ripetizione coinvolge i primi quattro bellissimi versi, ripresi integralmente per la chiusa.
L’inquietudine e la solitudine del Nostro diventano nello stesso tempo ricerca e bisogno di esprimersi, per se stesso e per gli altri, ma senza gratuite concessioni
al lettore, che segue non senza difficoltà l’io poetante, tra opere in cui affiorano qua
e là momenti autobiografici, riferimenti storici e culturali, stilemi ermetici in un
originale impasto.
Le immagini, con i loro trapassi ex abrupto, danno corpo a vivide illuminazioni, a fulminee accensioni, ma sempre sulla base di una indiscutibile sincerità. Annese,
in altri termini, non inganna, non gioca, compiacendosi di quello che scrive.
Nelle liriche c’è la sua vita, ci sono le lacrime del suo cuore e delle cose. Del
resto, poi, questa tendenza a seguire liberamente il proprio flusso interiore è comune
anche ai due romanzi editi a tutt’oggi, dove i nessi logici si allentano fin quasi a scomparire del tutto, per dipingere o schizzare una situazione, un personaggio. Nelle poesie, però, il più giovane Annese tiene a bada quel gusto cinico e irriverente che domina nei romanzi, quella risata demistificante che si compiace di giochi verbali e di sarcasmo, come in Serenità in agguato, e anche quell’attenzione insistita verso una realtà
prosaica, che connota non di rado l’opera apparsa postuma nel 1997.
Nei versi la parola si carica di risonanze, di effetti suggestivi, obbedendo ad
un ritmo severo, austero, meditativo, che assorbe anche le note dissacranti, il realismo di certi passaggi poetici.
Nel complesso, se il lettore riconosce il marchio di fabbrica dell’arte annesiana,
si notano però anche delle differenze prodotte dai diversi generi letterari, oltre che
dal passare degli anni.
Le tre sezioni di Morire di speranza presentano delle loro caratteristiche particolari, ma formano in effetti le diverse parti di un unico libro di poesia, comunicando una visione unitaria della realtà.
Il dolore e la solitudine di Cronache della pianura non sono smentite da
Cifrario d’autunno, che pure si chiude con un timido messaggio positivo (Speranza
dello straniero), che lascia però subito spazio alle quattro Ballate, canti di delusione
e di stanchezza, chiusi dalla toccante, e più breve rispetto alle altre tre, Ballata della
nostalgia mortale.
Sono nel complesso versi disperati, ricordando il titolo, con tutte le oscillazioni della materia poetica, che non si piega ad una ratio discorsiva e segue le sue strade.
Inquadrato nel tempo, il libro assume un aspetto più ordinato, anche se, trattandosi di un testo postumo, in cui manca l’ultima volontà dell’autore, ogni discorso non può prescindere da una certa cautela. È chiaro, comunque, che l’autore ha
posto maggiormente le sue cure nella stesura delle Ballate, alle quali mostra di tenere in modo particolare; da parte nostra, non nascondiamo il fascino che ha esercitato su di noi il Cifrario d’autunno.
233
Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
III - Dalla pianura all’autunno
Cronache della pianura, che risale al 1953, come sappiamo, è dominata dal
senso della stanchezza e dell’inutilità della vita, piena solo di solitudine e di angoscia, un’esistenza nella quale la speranza è fatalmente destinata alla sconfitta.
Non c’è alcun significato nelle cose, sembra dirci l’autore, e il ricordo è una
sterile esercitazione, mentre il tempo passa. Intanto “Si estenua la tua stagione/ in
pallori di nespole/ moribonde/ nella bufera che non ci rinnova” (p. 17; citiamo, qui
e in seguito e dalla riedizione del 2000, indicando per comodità le pagine, non i
versi, dal momento che questi non sono numerati).
Annese poco dopo si ricorda di una gita alle isole Tremiti, la stessa di cui si
parla nella pagina d’apertura di Macerazioni divertenti. È significativo il fatto che la
visione delle isole, nel romanzo, dopo l’avvio lirico, lasci spazio ad uno stridente e
deliberato accostamento; nella poesia, invece, troviamo immagini di disfacimento e
di morte, che terminano coerentemente con la parola chiave “solitudine” (p. 18).
La strofa successiva, di cinque versi, è più esplicita: “Ti era destino/ invidiare
i fiumi/ vegliati di notte/ da un trepidare di donna e di lanterne/ per gli argini” 3.
Il pensiero della solitudine evoca quello di Pavese, il poeta che pochissimi
anni prima, nel 1950, aveva posto fine ai suoi giorni suicidandosi, e di cui era uscita
postuma la raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, che Annese ricorda: “Venne
la morte/ fresca come ombra di platano/ per te che sapevi della vita che nega/ l’incognita di scolorite equazioni/ di donne inventate per le sere più buie/ nessuna
donna ci può fermare nel cavo delle sue mani”4.
Il Pugliese sente vicina la sorte di Pavese e si immedesima in un uomo deluso
dall’amore e dagli amici. L’ultima strofe si apre con un “P.S.” (p. 19), quasi fosse
l’aggiunta di una lettera, ed è ancora il pensiero del poeta delle Langhe a suggerirgli
l’idea che, in fondo, il suicidio non è una scelta di morte, ma nient’altro che il desiderio di scrollarsi di dosso un po’ di tristezza.
Attraverso immagini e riflessioni, in un Sud che è “esilio e putredine di silenzi”, ma che, ci pare di capire, ha anche un valore positivo, la composizione si chiude
con il pensiero del giorno finale, quando “per sempre dormiremo nel Sud” (p. 20).
In Cronache della pianura, come nelle altre opere poetiche, spicca l’uso della
punteggiatura, ridotta in pratica ai punti, con qualche rara virgola, seguendo anche
in questo caso la libertà dell’ispirazione, come se Annese volesse negarne la sostanziale importanza. Un utilizzo che nei romanzi diventerà ancor più personale e stupefacente, in consonanza con le manifestazioni del suo estro creativo.
Cifrario d’autunno è una sezione che porta la data degli anni 1956 e 1957 e
che raccoglie dieci diverse liriche, di breve-medio respiro, alcune davvero molto
belle. Si tratta del periodo in cui il poeta fu impegnato nell’espletamento del servi-
3
4
Ivi.
Ivi.
234
Francesco Giuliani
zio militare e questo dato biografico è ben presente, in maniera più o meno diretta.
L’autunno appare un simbolo di stanchezza, di estenuazione, e nei versi si
nasconde, come in un cifrario, la verità delle cose.
Se il poeta userà nella terza sezione il nome, più legato alla tradizione, di
ballate per quattro importanti composizioni, la seconda parte del libro si apre invece con tre poesie chiamate meno ortodossamente blues, come i canti lenti e malinconici del folclore afro-americano.
Il contenuto delle opere annesiane rende plausibile la definizione. Il primo
blues è intessuto di immagini grigie ed estenuate, con il vento che “strema le foglie”
(p. 25) e la pioggia che “piange accorata/ sul volto triste della città” 5. La poesia
viene scandita dalla triplice ripetizione del verso “Anche nel Sud”, all’inizio, in
mezzo e alla fine, come in un rondeau, e se la scena è immaginata lontana, nelle
zone del Trentino-Alto Adige che lo videro militare, il Sud funge da paragone, rendendo assolute le descrizioni, dando ad esse un senso totalizzante. Non c’è fuga,
dunque, dal desolato e dal negativo.
Anche nel terzo blues ci sono delle evidenti iterazioni. Più in particolare, i
primi tre versi sono posti anche in conclusione, mentre le tre strofe intermedie si
aprono con l’anafora di “Voglio”. L’effetto è felice.
Al Signore, come in una preghiera solo in parte irriverente, ricalcando il Padre Nostro, Annese non chiede il pane quotidiano per saziarsi, bensì, in una notte di
solitudine, “una pioggia di whisky” (p. 28), ossia la possibilità di fuggire almeno
per un poco dalle maglie della realtà per spaziare nel mondo dei sogni, per ripensare
ai suoi desideri frustrati senza oltremodo soffrirne.
L’alcool come mezzo di fuga, come paradiso artificiale, dunque viene visto
come dono agli stanchi uomini di Dio, aprendo le cataratte del cielo.
Una visione di una non consueta semplicità si ritrova in Notte di guardia, che
sembra evocare in qualche modo il primo Ungaretti, quello impegnato al fronte.
Annese, da solo, mentre svolge il suo compito, si lascia coinvolgere dalla dolcezza
notturna, si scopre parte di un momento finalmente positivo.
Ancora una volta i versi iniziali (il distico, per la precisione, “Luna d’agosto/
Che addolcisci le rotaie”, p. 29), ritornano in chiusa.
È un poeta finalmente in pace con se stesso, sia pure per poco, subito smentito
dal successivo Lamento, dove si canta la conclusione della bella stagione e la conseguente delusione (“L’estate è finita e la marea che sale/ Dissolve/ La timida orma del
tuo ricordo/ A cui chiedevo un sentiero/ Per le sere di tramontana”, p. 30).
Nella lirica L’asfalto, poi, composta da soli sette versi di breve respiro, l’estate ritorna come oggetto di una dolorosa similitudine. La sofferenza avanza, canta
Annese, e “Di giorno in giorno/ La tua vita si fa più amara” (p. 31).
5
Ivi.
235
Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
Uno dei vertici della lirica del Nostro ci sembra Desiderio, con l’immagine
stupenda del vento che “si è ferito sull’erba” (p. 32), mentre “Le mani sfiorano con
pena la rugiada dei giorni” (ivi). È lo stesso contesto di dolore esistenziale e di
struggimento per il tempo che passa, per gli uomini che scivolano “Sul piano inclinato della vita” (ivi); ma tutto ciò non distrugge un superstite anelito, quello di
un’auspicata comunicazione con un tu complice, che immaginiamo rappresentato
da una donna: “Ma l’ultimo desiderio galleggia/ Col sughero del cuore/ Verso un
porto dell’infinito/ Dove le nostre parallele s’incontrano” (p. 32).
La classica definizione delle rette parallele si carica di un senso pregnante,
mentre la negatività si materializza nel vento ferito, che ritorna a suggello della
lirica.
La perizia del letterato Annese, che attraversa tutta la sezione in esame, raggiunge forse il suo acme in Ultimatum, dove in modo quasi ossessivo il distico “La
ressa dei giorni che dirada/ Memoria della vita sciupata” (p. 33) ritorna per tre volte, nei primi nove versi, per poi ridursi al solo verso iniziale, ripreso altre due volte
ancora.
Il risultato consiste in un’accentuazione del male di vivere, affidato ad alcune
immagini negative, creando un ritmo, appunto, da ultimatum esistenziale.
Riteniamo vada inserita tra i vertici della sezione e della poesia di Annese
anche la lirica Le stagioni. La quartina iniziale e finale, “Forse un raro volo di gabbiani/ È il tuo stanco sorriso Signore!/ E Tu firmi la nostra condanna/ con un rigo
di rondini” (p. 34), richiama l’idea di un mondo spento e languido, dove tutto cammina verso il nulla, stagione dopo stagione, e magari l’ultimo istante sarà segnato
dall’arrivo delle rondini, a primavera.
È molto significativo, e lo abbiamo già notato, il fatto che la sezione si chiuda
con una composizione aperta ad una positiva attesa, dopo tanti momenti pervasi in
profondità da sconforto e pessimismo.
In Speranza dello straniero l’uomo, in precedenza estraneo a se stesso, agli
altri e al mondo, e pur sempre gravato da questa condizione, riprende comunque a
sognare, ritrova un po’ della sua forza.
Il positivo è rappresentato dalla pace interiore (“ogni uomo va con se stesso/
come un antico amico…;”, p. 35), da donne dolci e comprensive, e allora non avrà
più senso la preghiera espressa nel terzo blues perché “Un uomo non berrà più/ per
ricordare il suo cielo/ per vincere la sua pietà” (ivi).
Resta da capire se la speranza espressa in questa lirica sia legata in qualche
modo al mondo politico, e più precisamente all’adesione al comunismo, maturata
proprio in concomitanza con i fatti d’Ungheria, nel 1956, quando gruppi di intellettuali lasciarono il PCI, per reazione.
Annese andò controcorrente, come ogni bastian contrario, ma il suo entusiasmo durò lo spazio di un mattino, se pure lo coinvolse mai fino in fondo, come
attestano del resto le Ballate, che esamineremo.
La nostra convinzione è che è meglio evitare delle eccessive specificazioni;
forse dietro Speranza dello straniero c’è solo l’esperienza del militare, che lo fece
236
Francesco Giuliani
sentire per un po’ unito al prossimo e fiducioso nel futuro, cacciando l’angoscia di
tanti altri momenti di naia.
Di certo, in Cifrario d’autunno Annese ha saputo darci una prova notevole
delle sue qualità, ed è stato un bene che le sue liriche siano state consegnate alla
stampa, tratte in salvo dalla precaria esistenza dei manoscritti.
IV - Le ballate
Le quattro composizioni della sezione Ballate sono accompagnate dall’indicazione cronologica 1956-1961, quindi in parte si ricollegano al periodo di Cifrario
d’autunno, in parte vanno oltre, fino a varcare la soglia degli anni Cinquanta, così
importanti per la formazione di Annese.
Non ci sono grandi differenze, e lo abbiamo già ricordato, tra queste poesie e
le altre, se si eccettua la ricerca di una più ampia ed imponente architettura
compositiva, affidata al distendersi delle strofe di versi liberi. Ma l’ultima ballata, in
verità, quella della nostalgia mortale, è ben più breve delle due più articolate, quella
d’amore alla frontiera e quella del domani oscuro, con la Ballata della fanciulla
invecchiata a Sud come posta in una posizione intermedia.
Al di là della costante tendenza alla ripetizione di interi versi, probabilmente la
scelta del nome di ballate si collega alla volontà, sia pure realizzata in modi particolari,
di raccontare, di narrare una storia, come nelle ballate romantiche. E si tratta di quattro
dolorose vicende: la cronaca del definitivo addio alla giovinezza, nell’approdo ad una
triste consapevolezza della realtà, legato al periodo di ferma militare (Ballata d’amore
alla frontiera); la rievocazione, nel segno della vanità e dell’inutilità, di una vita sfuggita
tra le mani ad una donna meridionale, maturata nel suo stesso ambiente cittadino (Ballata della fanciulla invecchiata a Sud); la tormentata ma ormai salda certezza che il
mondo non cambierà e che tutto, nella migliore delle ipotesi, si adeguerà alla solita
logica gattopardesca, malgrado la morte e le sofferenze (Ballata del domani oscuro); la
rievocazione di un amore intensamente vissuto da un animo tormentato, che ne canta
ora in modi struggenti la mancanza (Ballata della nostalgia mortale).
La prima composizione, dunque, richiama tematicamente l’esperienza degli
anni 1956-57, e si apre con una malinconica descrizione, piena di noia e di grigiore,
che contagia tutto e tutti, persino i soldati calabresi, che sembrano recarsi in una
casa di tolleranza, paradossalmente, con l’aspetto e i modi di chi si prepara a seguire
un funerale, come alle prese con un rito.
Siamo in inverno, canta il poeta, e la stagione è negativamente caratterizzata
(“Anche questo inverno passerà/ Con le unghie spezzate della tua speranza”, p.
40); ovunque c’è freddo e neve e il poeta si chiede se si è salvato qualcosa, se c’è
ancora uno spiraglio positivo. In questo senso sembra spiegarsi la sua attenzione,
nella strofe che inizia e si chiude con “Forse si è salvato l’ulivo” (ivi).
Ma la ballata, con i suoi ardui passaggi da un’immagine all’altra, con le sue
chiuse metafore, non sembra alimentare soverchie speranze. Ce lo ricorda, poco
237
Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
dopo, la descrizione di un brindisi con i camerati, per festeggiare capodanno. L’attesa era stata accompagnata da qualche illusione, da sorrisi ed auguri, ma ora, passata la fatidica scadenza, tutto pare finito e “L’occasione si è perduta/ In un parlottare
di cinque candele” (p. 42).
L’occasione, montalianamente, di una fuga dalla necessità? Probabile. Di certo, l’autore degli Ossi di seppia era uno dei poeti preferiti da Annese, che ne parla
anche in Macerazioni divertenti.
La desolazione dei luoghi, lo squallore delle cose, dei piatti sporchi come del
vino andato a male, diventano trasparenti simboli di uno stato d’animo disilluso, di
chi non ha più la forza di abbandonarsi a nulla. In un gioco sapiente di iterazioni di
versi e di anafore l’autore ribadisce il concetto: “Con la pietà di un altro anno/ È
finita l’attesa./ Il falso diamante più non tenta/ La notte del tuo cuore” (p. 43). Il
“falso diamante”, dunque l’illusione che inganna, cercando di celare il vero.
I trapassi sono bruschi, le immagini sono ardite, ma nello stesso tempo si
comprende benissimo che il tutto nasce da un’esperienza esistenziale che ha lasciato il segno. Anche la ricerca di termini realistici (si pensi a versi come: “Nei bidoni
marciti di cibo/ Che esalano la rabbia di sempre”, p. 44; o come: “Anche se non
puoi più sapere/ Stasera /Il rancio guasto che odora di fiori/ Covati in infermerie/
Di monache sudate/ In pezze antiche/ Di fondaco remoto/ Di morte”, p. 45), caricati di espressionistica tensione, è finalizzata a ribadire lo stesso concetto.
L’autore ha tanto da dire e sembra non volersi fermare, come temesse di perdere la voce, la possibilità, di qui l’aggiunta di sempre nuovi tasselli al personale
mosaico, nel distendersi delle strofe.
Il luogo, la situazione, il momento, ricorda il poeta, tutto ha lasciato il segno,
aggiungendo: “Qui è morto il fanciullo/ L’ulivo docile delle Palme/ La povera gioia
di gridare ai treni/ Oltre il tenue incendio del canneto” (p. 46). Allora la frontiera,
vera o solo simbolica che sia, diventa il simbolo di un trapasso senza ritorno, di una
rottura definitiva e dolorosa, in cui l’amore evocato nel titolo della ballata c’entra
poco, se non, forse, come anelito ad un nuovo rapporto con il prossimo.
Di qui la parte finale, e anche per certi aspetti chiarificatrice, della lunga composizione: “Anche questo cerchio ti salda e ti rinchiude/ Giovinezza/ Finita alla frontiera/ Reliquie di certezze/ Che il crine/ Del salice devasta/ All’infinito” (p. 47).
Le sicurezze ingenue, dunque, non ci sono più, ma al loro posto non c’è nulla
di realmente saldo, se non in senso negativo.
La seconda ballata ha come fulcro una donna del Sud, del suo paese, e intorno
ad essa si snodano veloci e ardue le immagini. I versi ricordano l’occupazione militare, gli oscuramenti, i “carri armati tra le querce del viale” (p. 49) della sua città, la
presenza degli americani, tra una popolazione ansiosa di voltare pagina e nello stesso
tempo affamata, in cui non mancavano le donne disponibili ad ogni compromesso.
Un passato ancora vivo, nei ricordi, e del resto neppure tanto lontano nel
tempo, mentre il poeta affidava alla carta questi flash.
Altre immagini, dense di tristezza e di malinconia, si aggiungono con rara
efficacia, nel corso dell’opera, e ricordano, ad esempio, la fatica dei contadini che
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Francesco Giuliani
sfidano la morte, “La speranza finita della festa/ Sui banchi tombali dei torroni” (p.
51), il casino, presenza ricorrente nel poeta, caricata nel complesso di valori simbolici, tra necessità fisiologica, ricerca di superamento della solitudine e mezzo per far
scoppiare le contraddizioni della realtà.
A reggere il tutto, il senso della vanità della vita, affidato al ritornello, davvero ossessivo, che apre, inframmezza e chiude la ballata, nelle sue due forme: “Ma a
che serve/ A che serve?”.
Il tempo passa e tutto è inutile, “E tu invecchi Stella Alpina!/ A che serve?/ Il
grano sterile dei desideri/ È stato tutto seminato” (ivi). Non resta null’altro, e nell’ultima strofa fa non a caso capolino la morte, a coronamento, per così dire,
dell’insensatezza assoluta, seguita anch’essa dal solito interrogativo.
Ancora una volta Annese si conferma un poeta tormentato e inquieto.
La terza poesia, la Ballata del domani oscuro, è quella in cui risultano più
scoperti i riferimenti al mondo della politica, alla crisi ideologica della seconda parte degli anni Cinquanta, quando la breve illusione di Annese lascia spazio alla certezza (già presente nel fondo del suo animo) che non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione, ma il mondo sarebbe andato avanti per la sua strada, con, al limite, un
semplice passaggio di consegne tra generazioni impegnate a raggiungere ed a gestire il potere, con in testa i soliti furbi di sempre.
L’opera è divisa in cinque parti numerate dall’autore e il senso della delusione
è già in apertura, programmatico: “Se tanto sangue ci strozza un sorriso/ Al compagno sconosciuto all’osteria/ Se attardi ogni certezza/ Sulle piaghe/ Della memoria tornata palude/ È stato tutto inutile F.!” (p. 53).
Sembra quasi di sentir riecheggiare, in un diverso contesto, il ritornello della
ballata precedente. Il nemico ha vinto e nel “canto di Caraibi perduto” (ivi) forse
possiamo leggere una prefigurazione della serenità in agguato che tornerà nell’omonimo romanzo del 1975, ossia l’illusione o la sciocca persuasione che tutto vada
bene, che non c’è bisogno di nulla; altro che domani oscuro!
Un futuro in cui, canta Annese nella ballata, “fingerai di vivere/ (Pur sapendo)/ Al mondo della gente che non crede/ Al destino/ Né al partito” (p. 54).
Le attese appaiono naufragate miseramente, in questa triste composizione, e
non si potrà più dire a chi soffre che “tutto cambierà” (p. 55), perché non è più
possibile, dopo aver bruciato il sogno della palingenesi.
La negatività assume il volto dell’inverno che assedia la pianura, nella terza parte
della ballata, probabilmente la più significativa, in cui riecheggiano il nome di Boris
Pasternak, di Alicata, poi di Stalin, pianto inutilmente anche da tanti poveri (“Nei paesi/ Scordati da Dio e da I Borboni/…; Poi venne il rapporto K.” (p. 57).
La delusione è ovunque e viene avvertita nel cuore, ancor più che da un punto di vista razionale, anche dai vecchi contadini, legati alla Camera del Lavoro, in
una scena in cui rivive il ricordo del suo paese nativo. Un frammento amaro e potentissimo, in cui c’è tutto il senso della sconfitta, tra gesti prosaici, crude verità e
invenzioni verbali. E dalla vecchia generazione la consapevolezza del fallimento si
estende anche a quella del poeta, ai giovani, senza parole e simbolicamente con una
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Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
sola vita a disposizione. Ora è il tempo dell’inverno.
All’interlocutore innominato, contrassegnato da una F., Annese augura, all’inizio della quarta parte, riprendendo stilemi montaliani (“Forse tu puoi ancora
illuderti F.!”, p. 59), di salvarsi, mentre per lui e per quelli come lui non c’è scampo
(e lo ribadisce nell’ultima parte dell’opera), in una realtà in cui la più grande sofferenza deriva dal comprendere che non c’è alcuna speranza, che non c’è nulla da
modificare e da attendersi. Dunque “il martirio non è perdere sperando” (ivi), ma è
ancora più doloroso e si collega ad un senso di morte, di inutilità.
Una ballata ampia, nella quale, come in altre composizioni simili, non mancano ardui passaggi, ma il cui messaggio arriva a destinazione in modo efficace,
anche se non ad una prima lettura.
È il “canto (quasi profetico se si bada alle date) della crisi ideologica, o meglio della crisi dell’ideologia, della divaricazione sempre più manifesta tra la realtà
dei comportamenti e l’ottimismo ideologico”, secondo la definizione di Casiglio,
nella Prefazione contenuta nell’edizione del 1985; ancor più precisamente, a nostro
modo di vedere, il canto di una crisi ideologica che contribuisce a rafforzare la crisi
esistenziale di un uomo alla ricerca di qualcosa, qui come in tutte le liriche di Morire di speranza.
L’ultima opera, la Ballata della nostalgia mortale, è formata da soli 34 versi,
parecchi dei quali brevissimi. Essa è, comunque, molto intensa e coinvolgente, ponendosi senz’altro tra le pagine più belle del Nostro.
Vi domina il sentimento dell’amore, in cui il poeta cercava un dolce annullamento, il superamento del proprio essere “Ferita remota/ Triste infezione che era/
Già/ Nelle nebulose primitive” (p. 61). Egli con questa donna riusciva a vincere la
sempre risorgente solitudine, la tenace inquietudine, ma essa è ora oggetto di una
struggente nostalgia, di un folle desiderio di ritrovarla, lei che era “ancora autunno/
E porto/ A questa mortale nostalgia” (p. 62), come si legge nei versi conclusivi.
È di certo una singolare poesia d’amore, che si avvale di immagini ed
accostamenti inconsueti, non senza note sensuali e delicate.
Il positivo è rappresentato dalla figura femminile, il duro, l’inanimato e il
negativo dall’io poetante, e dall’incontro-scontro delle due realtà nasce il ricordo di
un bene perduto, dolce come il vino d’Alcamo, ed adesso mero rimpianto.
Nel complesso le quattro ballate si rivelano ricche di poesia, come del resto
le altre due sezioni di Morire di speranza, con, qua e là, delle accensioni liriche
davvero rimarchevoli, a conferma, oltre che della sincerità, della serietà con la quale
il ventenne Annese si era tuffato nella composizione dei versi, forte del suo bagaglio di letture, dando sfogo a tutta la sua angoscia di uomo moderno.
Di sicuro, i suoi versi si affiancano alla sua produzione in prosa senza alcun
complesso di inferiorità; anzi, ne rappresentano forse la parte migliore.
Certo, la poesia di Annese è difficile, chiusa a riccio e i versi oggigiorno non
hanno praticamente mercato, a differenza dei romanzi; ma questi sono altri discorsi, che hanno poco a che fare con l’arte.
240
Francesco Giuliani
V - Macerazioni divertenti
Nel 1963, due anni dopo aver ultimato la silloge di poesie, Annese inizia a
stendere Macerazioni divertenti, che lo impegnerà fino al 1965. Il romanzo occupa,
nell’edizione del 1997, circa 160 dense pagine, divise in due parti pressoché uguali:
la prima è intitolata La naja, mentre la seconda Il Giamajca, dal nome del locale
milanese frequentato dallo scrittore nel capoluogo lombardo.
Macerazioni divertenti riprende quel gusto del paradosso tipico di gran parte della sua produzione, già segnalato nei versi. Dopo Morire di speranza, così, il
Pugliese tira fuori dal suo cilindro un altro ossimoro, un altro accostamento di
termini contraddittori, raccontando le vicende di Matteo Misura, un chiaro alter
ego di Giuseppe Bernardo Annese.
La narrazione è svolta in terza persona, più funzionale all’obiettivo di tenere
le fila della caleidoscopica e cangiante trama del romanzo, con i suoi strani personaggi, con le sue paradossali situazioni, con i suoi dialoghi sempre imprevedibili,
con le sue costanti variazioni spazio-temporali.
Matteo-Giuseppe è subito caratterizzato come un tipo “che ha avuto quasi
sempre rapporti ‘paraffinici’ con la realtà” (p. 7), ossia segnato da una impossibilità/incapacità di legare con il prossimo, di trovare un rapporto pacato e positivo con
gli uomini, le cose, i fatti e le ideologie. È, in altri termini, la storia di un personaggio alle prese con le sue macerazioni esistenziali, protratte nel tempo e piene di
paradossi, stravaganze, eccessi, ma, al fondo, tutt’altro che divertenti. Di conseguenza, si rivela molto appropriata l’immagine scelta dai curatori del romanzo, che
riproduce proprio un quadro di Annese, con un uomo angosciato che ha accanto a
sé un bicchiere e una bottiglia di vino, mentre alle spalle appare un cielo con molte
nuvole. Negli occhi azzurri del personaggio ritratto, invece, ci sembra di scorgere
l’aspirazione a qualcosa di diverso e di più vero.
Il romanzo, d’altra parte, si apre evidenziando le difficoltà relazionali di Matteo
e si chiude, dopo varie vicende, con le due lettere inviate dal protagonista, da una
casa di cura, alla moglie.
Il primo capitolo, dal nome emblematico, Pertanto, introduce immediatamente il lettore nello spirito dell’opera, presentandogli le caratteristiche fondamentali del romanzo. Pertanto è anche la parola iniziale, isolata nel rigo e seguita solo
dal punto, una congiunzione sospesa, che non giunge a conclusione di nessun discorso, ma che è una spia del continuo trapassare temporale del romanzo, sulla scia
delle associazioni mentali.
Prendendo le mosse da “Matteo oggi” (ivi), la pagina si affida spesso al gusto
del flash-back, dando vita a momenti di grande significatività, in cui ricompare il
luogo di partenza di Matteo-Giuseppe, ossia San Severo, più volte citato.
I ricordi riemergono, densi e vividi. Proprio nel capitolo d’esordio troviamo
degli squarci sull’incompatibilità tra padre e figlio, lo “sbaglio” (p. 9) dal viso che
“grondava grappoli di brufoli” (ivi), sull’ambiente familiare borghese in cui è cresciuto lo scrittore, in una società segnata da fortissime tensioni sociali. Le voci arri241
Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
vano filtrate e partigiane, e così avviene nelle parole della madre di Matteo, a proposito dei cosiddetti scioperi alla rovescia, ossia i lavori imposti dai braccianti disoccupati ai proprietari terrieri (“Volevano i soldi con la scusa che erano stati a lavorare
in campagna…; altrimenti bruciavano i raccolti, facevano crepare le vacche…; ci
sputavano per la strada appena vedevano un cappellino un po’ signorile”, p. 12).
In questo mondo provinciale, all’inizio degli anni cinquanta, l’intellettuale
Matteo si muove citando Proust e Pavese, poi, nel 1956, arriva la svolta, rappresentata dalla cartolina-precetto. Inizia così il periodo di ferma militare, la cui narrazione si distende nel romanzo per molte pagine, fin quasi alla fine della prima parte di
Macerazioni divertenti, assumendo un ruolo particolarmente importante.
La naja viene dipinta come un momento cruciale, una drastica rottura con la
realtà pugliese, fatta di lunghe passeggiate e di stanchi rituali.
Nella caserma intitolata alla “Medaglia d’oro sac. Stichizzi” (p. 15), non lontano dal confine, si ritrovano militari di diversa provenienza ed estrazione sociale,
permettendo ad Annese di dare prova delle sue qualità narrative.
Egli, qui come nel resto del romanzo, accosta diversi registri linguistici, con
effetti talvolta stridenti, oppure comici e demistificanti, quando non si ritrovano
insieme tutte queste qualità. È un linguaggio sempre scoppiettante e imprevedibile,
che spazia dal lirismo alle battutacce da caserma. Gli esempi sono tantissimi e disseminati ovunque.
Il capitolo Il grigio tenerissimo della luna sembra richiamare qualcuna delle
liriche del Cifrario d’autunno, ma poco dopo il dialogo dei soldati mescola con
libertà Patria, politica ed espliciti riferimenti sessuali, resi in modo realistico. Non
solo: trattandosi di uomini che arrivano da varie regioni d’Italia, la pagina è tramata
da frasi vernacolari, dal siciliano (“La ppreda è ppreda! Te lo appoggia Antonino
Ragonese di Thcrapani”, p. 35) al toscano (“O ragazzi la si pianta ‘on ‘odeste
bischerate?”, ivi), fino al veneto (“Perché, Parèa, ami la patria ti che la tradissi per
quatro polpéte?”, ivi).
Annese passa dalla poesia alla trivialità, dal riferimento dotto a quello volgare, con uno strumento linguistico versatilissimo e con una fantasia che si diverte a
combinare gli elementi più vari, offrendo, sul piano formale, una perfetta proiezione del piano ideologico, della sua visione inquieta e tormentata, di uomo solitario.
Un pastiche che è facile accostare a modelli illustri, a partire da quello di
Gadda, risalendo, poi, fino al Satyricon di Petronio. Ben nutrito di letture
novecentesche, ma fornito anche di solide basi classiche, visto il diploma liceale
conseguito nella città nativa, Annese vede nel romanzo uno strumento di libertà,
un modo per dare sfogo alla sua sbrigliata fantasia, ma mai in modo gratuito. La
forma rende il contenuto, lo stile si adegua alla visione della realtà, offrendo un
ritratto fedele dell’uomo inquieto e sarcastico, pieno di complessi e di dubbi, ma
anche desideroso di verità.
Il creativo Giuseppe, perfettamente a suo agio con la penna, indugia spesso
sul registro più basso, dal prosaico al gergale, fermandosi su espressioni e termini
volgari in un modo che talvolta sembra persino eccessivo; ma questa attenzione, lo
242
Francesco Giuliani
ribadiamo, è organica alla volontà di rendere senza finzioni un mondo sbandato,
nel quale si muovono delle figure talvolta inquiete e contraddittorie, talvolta superficiali, oppure chiuse nel loro misero mondo, nel loro gretto orizzonte, e dunque
irrelate con il prossimo.
La casistica è quanto mai varia. Di certo, nessuna censura moralistica interviene mai a modificare certi dialoghi tra amici, certi riferimenti ai costumi sessuali
di un’epoca che conosceva ancora le case di tolleranza.
Nello stesso capitolo appena citato, Il grigio tenerissimo della luna, il
coloritissimo dialogo dei soldati di leva si distende a lungo. Un militare, in particolare, sta raccontando di una disgrazia avvenuta al segretario della sezione comunista del suo paese, durante una partita di calcio, e la sua voce finisce per alternarsi
con quella del narratore, con le sue impressioni aperte alla sfera lirica:
Il vento raccoglie nel cortile il suono della ritirata portandolo fino alle brande.
-…; bella mezzala era! Fatto sta che nelle partita gli viene il fiatone…;
La Stichizzi, cipierre compresa, si prepara al Silenzio.
-…; si siede stranito in mezzo al campo…;
I salici prendono a strusciare sulla terra e sui muri.
-…; la ragazza ci ha recato subito l’aranciata.
E le foglie del nespolo rotolano impazzite dagli alberi.
-…; ma che aranciata, fratello!
E si infilzano stupidamente sui notturni reticolati del recinto.
-…; fu ricoverato subito in sanatorio…;
E una luna di lamiera si alza a fatica sulla montagna.
-…; quando sono tornato in licenza non c’era più a Volturara…;
E i lumi delle cascine affondano denti luminosi sul fianco oscuro dello Stabian. (p. 41)
È un passo molto riuscito, che testimonia del dominio annesiano della pagina.
La prosa del romanzo si apre non di rado anche ad accogliere dei versi, ben
distinti nel testo, e anche in questo caso si passa dagli scurrili cori dei militari, afflitti
o al contrario felici per il ritorno a casa dopo 18 mesi, ai canti delle classi popolari,
da brani di canzonette fino a frammenti tratti dalle liriche di Morire di speranza. È
il caso, quest’ultimo, del capitolo Una lunga cordata di vomito, nel quale si ritrova
la parte finale della Ballata d’amore alla frontiera, che fa riferimento alla giovinezza, sia pure con una differente divisione dei versi, che diventano più lunghi (“Finita
alla frontiera/ reliquie di certezza che il crine/ del salice devasta all’infinito”, p. 77).
In questo contesto non poteva salvarsi la punteggiatura, del resto già oggetto
di attenzioni nella silloge poetica, dove viene ridotta all’essenziale.
Nel romanzo anche i segni d’interpunzione obbediscono all’inquieta fantasia dello scrittore, che si diverte a sistemare dei punti fermi dove il lettore meno se
lo aspetta. Nel capitolo 1956. Novembre, ad esempio, il periodo termina con una e
congiunzione, a cui segue il capoverso (“Bestemmia per i duecento metri. Guarda
con malinconia le tre cime del Catinaccio intagliate nell’azzurro e./ Per la prima
volta varca la caserma sac. Stichizzi./ Che si lustra angosciata attendendo il generale./ Ovviamente”, p. 19).
243
Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
Due pagine dopo si incontra questo periodo: “Matteo. È soggetto a rigurgiti
di bontà verso i superiori (militari). Inoltre.” (p. 21).
L’uso della punteggiatura, insomma, rientra nel quadro generale che abbiamo delineato, contribuendo a rendere vivacissimi e cangianti i dialoghi e le descrizioni del romanzo, nel quale “Trallalera il telefono” (p. 32) e una voce
“radiocagliaritana” (p. 21) dice “Signor ca-ppi-tta-no, la se-gga-ttu-ra è fi-nni-tta!”
(ivi).
Dal punto di vista contenutistico, tra gli argomenti di discussione dei personaggi di questa parte di Macerazioni divertenti non manca anche la politica. Il 1956,
come sappiamo, è l’anno dell’invasione dell’Ungheria, quando Annese si avvicina
al comunismo.
Non tutti, in verità, sono inclini ad aprirsi a discussioni più impegnate, ma in
alcuni casi, con voluto contrasto, gli istinti sessuali si mescolano al pensiero dei
carri armati per le vie di Praga. Tra i soldati spicca in particolare Cejco, un
commilitone comunista di Udine, che influenza Matteo Misura, anche se l’alter ego
di Giuseppe Bernardo Annese non ha affatto le sue sicurezze, come quelle di altri
personaggi che sfilano nel romanzo.
Significativa è la pagina in cui si descrive il ritorno a San Severo, dopo la naja.
Matteo pensa alle possibili risposte alle obiezioni degli amici, quando dirà loro della sua conversione politica. Di fronte a loro l’intellettuale Misura terrà duro, ma
dentro di sé avverte il solito tarlo.
La nota esistenziale, la sua costante inquietudine, resta sempre viva e in questo modo il messaggio del romanzo si collega a quello dei versi, senza sostanziali
differenze.
La scena si sposta dalla caserma Stichizzi solo nell’ultimo, capitolo della prima parte, Se ritroviamo il nostro personaggio, di sole 4 pagine, dove si ricorda il
periodo di permanenza di Matteo-Giuseppe a Padova, tra il 1957 e il 1958, come
praticante procuratore legale.
Un periodo negativo, che terminerà con la decisione di trasferirsi a Milano.
Addirittura, l’approdo nel capoluogo lombardo viene giustificato con il bisogno di
far conoscere le poesie, per poterle dare alle stampe: “Bisognava lasciare Padova ed
andare a Milano a pubblicare le Ballate” (p. 82). Ancora più esplicito è l’ultimo
periodo del capitolo: “Le Ballate, Matteo non le pubblicò mai e il coraggio di tentare altri richiami si spense lentamente. Diventò prima pensiero puro, poi assurdità
di altri tempi” (ivi).
È facile dedurre che in un primo momento Annese non riuscì a pubblicarle
in volume, poi scelse di tenerle nel cassetto e in seguito, preso nel vortice del suo
lavoro, non ebbe più il tempo di cambiare eventualmente idea, ricordandosi dell’importanza che le Ballate avevano avuto per lui.
La seconda parte di Macerazioni divertenti, Il Giamajca, dal nome dell’omonimo locale frequentato da Annese, ha come epicentro Milano, la città dove vivrà
fino alla morte prematura. Scompaiono ora i militari di leva e il loro posto viene
preso da personaggi come il Duca, Sadim e Croathìa. Non cambia, però, il carattere
244
Francesco Giuliani
di Matteo, sempre alle prese con le sue inquietudini e con “la grande solitudine,
nastro naturale di tutta la sua vita” (p. 104).
Anche le altre caratteristiche del romanzo restano immutate e il lettore continua ad essere trasportato nella girandola di situazioni e di invenzioni verbali che
caratterizza la scrittura del Pugliese.
Nel complesso, da un punto di vista artistico, la seconda sezione del romanzo ci sembra raggiungere gli stessi livelli della prima, senza apprezzabili differenze.
Tra le pagine di maggiore rilievo, meritano senz’altro attenzione quelle in cui
Misura-Annese rievoca l’umiliazione subita da un vecchio amico, un concittadino
come lui trasferitosi in Lombardia, Michele Bisceglie.
Questi fa dell’ironia pesante sulle Ballate, di cui Matteo aveva qualche tempo
prima consegnato un dattiloscritto: “Quando Michele cominciò a sgranarsi di risate, leggendo-ricordando ad alta voce brani delle Ballate, Matteo decise di andarsene” (p. 97).
Egli, inoltre, aggiunge che sono poco divertenti e incomprensibili, arrivando
al punto di non volerne tenere neppure una copia dattiloscritta, per ricordo, malgrado l’addolorata meraviglia di Matteo, che quasi non riesce a capacitarsene.
È un passo che gronda ancora di sofferenza, scritto da un uomo profondamente colpito dalla reazione del compaesano, che in fondo rappresenta, come emerge
chiaramente nel finale, la sciocca serenità, per riprendere il romanzo edito nel 1975,
il vuoto fideismo ideologico, che non può appagare Matteo.
Nelle citazioni montaliane troviamo una conferma dell’ascendente avuto dal
poeta genovese su Annese, attento lettore delle sue opere, il cui influsso non a caso
si avverte a più riprese in Morire di speranza.
Nel capitolo Al numero civico 18 un lettore dauno riesce a penetrare più in
profondità nel testo, cogliendo le precise allusioni alle consuetudini di un tempo,
quando toccava ad un carro ritirare dalle case i rifiuti igienici, contenuti in vasi di
terracotta.
Dai ricordi d’infanzia di Annese esce fuori il fantasma di Donatino, che guidava uno di questi carri.
Dopo aver sentito il suono di corno, che ne annunciava l’arrivo, le porte si
aprivano e nelle tenebre “zampillavano cornici dense di piccole lampadine bucherellanti luce attorno alla Madonna del Soccorso sorpresa sogghignante nei bassi col
viso mulatto” (p. 106).
L’umile Donatino muore anzitempo, con il “volto fiorito di pus velenoso”
(p. 107), trovando un riscatto solo nella memoria dello scrittore.
Anche altrove il romanzo fa riferimento a personaggi e a fatti della realtà
dauna, si tratti di un vescovo o di un onorevole, senza dimenticare una chiara allusione ai noti moti del 23 marzo 1950, di rilievo nazionale.
Nelle pagine finali la figura più presente è quella di Croathìa, ossia, al di fuori
della finzione letteraria, la moglie di Annese, la signora Nives Novak, di origini
croate.
Tra litigi, discussioni ed incomprensioni, Matteo Misura sposa Croathìa, fin245
Dai versi a macerazioni divertenti: l’inquieta ricerca di Giuseppe Annese
ché, in un crescendo di paradossali contrasti coniugali, il protagonista (ma questa è
una mera invenzione letteraria) si ritrova in un “Centro Occupazionale Reparto
Alcoolopatici” (p. 163), da dove scrive due lettere alla moglie, con le quali si chiude
Macerazioni divertenti, confermando il carattere paraffinico dei suoi rapporti con
la realtà, ossia la sua impossibilità/incapacità di legare con il prossimo.
Nel complesso, il personaggio non cambia, malgrado le tante avventure descritte nel romanzo, chiara proiezione di Giuseppe Bernardo, che continuerà la sua
vicenda esistenziale fino al 1979, facendosi valere come creativo, nel mondo della
pubblicità, come giornalista, autore di teatro, di racconti e di soggetti cinematografici, persino come pittore, attività, quest’ultima, che intensifica negli anni Settanta,
allestendo delle mostre.
Per le sue opere Annese merita un posto nel vastissimo quadro della letteratura del Novecento e la riscoperta postuma rappresenta, senza ombra di dubbio, il
giusto riconoscimento per quanto ha saputo realizzare.
246
Rosanna Curci
L’Italia meridionale nella guida turistica di Mariana Starke
di Rosanna Curci
La consapevolezza dello spessore culturale delle città italiane spingeva molti
viaggiatori stranieri a sottoporsi ad un severo regime di letture di guide turistiche
riassuntive prima della partenza, per poi venire a cercare in Italia esattamente quello che era descritto in esse, banalizzando il più delle volte il giudizio su ciò che
vedevano in modo tale che corrispondesse esattamente a quello che avevano letto.
In effetti, tra gli inizi dell’Ottocento e la metà del secolo, si assistette a un proliferare di iniziative editoriali legate al fenomeno turistico e alla letteratura di viaggi tradizionale, di natura essenzialmente intellettualistica, si affiancarono sempre più
numerose le guide turistiche vere e proprie, finalizzate alla divulgazione delle informazioni pratiche riguardanti il viaggio. Le guide che ebbero maggior successo furono i Red Handbooks, editi da John Murray, e i Vademecum, pubblicati da Karl
Baedeker, entrambi ristampati in diverse edizioni successive per soddisfare le richieste del pubblico. Tra le edizioni del Murray, appunto, comparve nel 1820, la
prima guida turistica scritta da una donna, Mrs. Mariana Starke, dal titolo Travels
on the Continent written for the use and particular information of travellers.
Come afferma la Foster1, “la vasta popolarità della signora Starke in qualità di
esperta, non solo della meccanica del viaggio, ma del giudizio estetico, confermava l’approvazione della turista femminile e conferiva al suo girovagare un certo status”. L’importanza del viaggio della Starke sta appunto nell’aver dimostrato che i viaggi continentali potevano ora essere intrapresi da tutti indistintamente. L’estensione del suo itinerario italiano anche al Regno di Napoli, poi, con un corredo dettagliato di informazioni
che dovevano necessariamente tener conto delle particolari esigenze del sesso femminile, aprì la strada a quante dopo di lei vollero visitare le terre del Meridione.
Nata probabilmente nel 1862, Mariana crebbe in India, a Madras, dove suo
padre lavorava come governatore della East India Company’s post a Fort St. George.
La sua carriera letteraria iniziò proprio con due commedie sull’India, prodotte a
Londra: The Sword of Peace (1788) e The Widow of Malabar (1791), imitazione di
La Veuve de Malavar di Le Mierre. Le due opere ebbero un discreto successo, ma
attrassero anche critiche negative, che evidentemente mortificarono la Starke, spin-
1
S. FOSTER, Donne inglesi in Italia: appunti di viaggio in Viaggio e scrittura. Le straniere nell’Italia dell’800;
a cura di Luana Borghi, Firenze 1988, 53.
247
L’Italia meridionale nella guida turistica di Mariana Starke
gendola a cambiare genere letterario a favore della scrittura di viaggio e della poesia,
che non richiedevano che l’autrice si impegnasse in questioni pubbliche quali produzione, prove e messa in scena. Il primo viaggio in Italia fu motivato dai problemi
di salute di un parente, cui era stato consigliato il clima italiano. Ella lo accompagnò
nella penisola e vi risiedette per ben sette anni, raccontando poi quest’esperienza,
che le permise di assistere alla prima campagna italiana di Napoleone, nelle Letters
from Italy (1800), e aggiungendo alle sue memorie di viaggio anche un compendio
comprendente consigli e informazioni per i viaggiatori britannici. Durante gli anni
della guerra, quando viaggiare era molto difficile - Napoleone aveva dichiarato che
nessun inglese avrebbe messo piede sano e salvo sulle terre sotto il suo dominio - la
Starke lavorò come imitatrice e traduttrice, scrivendo The Tournament, a tragedy;
imitated from the celebrated German drama, entitled Agnes Bernauer (1800), e
adattando un poeta italiano in The Beauties of Carlo Maria Maggi, paraphrased: to
which are added sonnetes, by Mariana Starke (1811). Alla fine della guerra, nel
1815, la Starke tornò sul Continente, trovando la sua strada nel genere delle guide
turistiche destinate alle frotte di viaggiatori inglesi che visitavano la Francia e l’Italia in quegli anni, dopo l’interdizione dovuta alla guerra. Morì nel 1838, proprio
mentre tornava da Napoli in Inghilterra.
Come spiega l’autrice nell’introduzione all’edizione del 18202, l’idea di scrivere una nuova opera, intesa come guida per i viaggiatori, le fu suggerita dalla richiesta di pubblicare una quinta edizione della parte delle sue Letters from Italy che
conteneva appunto consigli riguardanti il viaggio. Consapevole dei cambiamenti
che gli anni della guerra avevano portato in quegli stessi luoghi, quanto a strade,
alloggi, e perfino opere d’arte, decise di ripetere il viaggio, prolungandolo per circa
due anni, dal maggio 1817 al giugno 1819, visitando non più solo l’Italia, ma anche
Francia, Svizzera, Germania, Portogallo, Spagna, Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia e Russia.
Il contenuto dell’opera comprende ogni genere di notizie necessarie a garantire il comfort dei viaggiatori: dalle spese del viaggio, agli alloggi, ai trasporti e le
strade. Le comodità per i turisti, sottolinea la Starke, sono notevolmente aumentate
nei vent’anni trascorsi dal suo ultimo viaggio: le strade sono state rese più lisce e
livellate, sono stati costruiti dei nuovi ponti, le Alpi, prima praticabili solo a dorso
di mulo, in traineaux on chaise-à-porteur, sono ora divenute“so easy of ascent that
post-horses, attached even to a heavy berlin, now traverse them speedily and safely”
(Trad.: “di così facile ascesa che i cavalli di posta, perfino attaccati a una pesante
berlina, le attraversano ora con velocità e sicurezza”). Inoltre, la disponibilità di
alloggi ammobiliati nelle grandi città è molto aumentata, in parte a causa della povertà dei nobili, che spesso affittano i loro palazzi agli stranieri; altro grande mi-
2
Mariana Starke, Travels on the Continent written for the use and particular information of travellers,
London 1820, pp. V-VI.
248
Rosanna Curci
glioramento rispetto al passato è stata l’introduzione dell’energia elettrica, grazie
alla quale le strade di ogni grande città sono ora “tolerably well lighted” (Trad.:
“illuminate in modo tollerabilmente buono”), nonché “the stop put, by this
circumstance, among others, to the dreadful practice of assassination” (Trad.: “la
fine posta da questa circostanza, tra le altre, all’orribile pratica dell’assassinio”).
D’altra parte nell’avvertenza premessa all’introduzione, l’autrice specifica anche
che le notizie diffuse da quella stampa che parla di orde di soldati sbandati convertiti in banditi che infestano il sud della Francia, le Alpi e gli Appennini, non sono
del tutto veritiere, in quanto in realtà non si corrono seri pericoli se non nella tratta
al confine tra i territori romani e napoletani tra Terracina e Mola di Gaeta, dove i
banditi “are not merely a troop of robbers who plunder, because they have no other
means of subsisting, but a whle nation, the people of Abruzzo” (Trad.: “non sono
solo una banda di ladroni che depredano, perché non hanno altri mezzi di sussistenza, ma un’intera nazione, il popolo d’Abruzzo”). Malgrado ciò, i viaggiatori
inglesi possono stare tranquilli, perché questi malviventi attaccano soprattutto i
viaggiatori romani e napoletani che si spostano con cavalli di posta, mentre “with
voiturines these freebooters appear to be in perfect amity” (Trad.: “con i vetturini
questi filibustieri sembrano essere in perfetta amicizia”) e le persone che viaggiano
in vettura non sono mai aggredite.
Per entrare nel Regno di Napoli, i viaggiatori inglesi provenienti da Roma
come la Starke devono ottenere i passaporti dal Console Generale britannico, controfirmati all’ufficio di polizia e allo stesso modo dal ministro napoletano a Roma.
Entrando a Napoli, essi sono obbligati a depositare i loro passaporti all’ufficio di
polizia fino alla partenza. Le persone di salute robusta, in viaggio da Roma a Napoli con cavalli di posta, partendo la mattina molto presto, possono raggiungere
Terracina prima della fine della giornata. Partendo ancora nelle prime ore del mattino il giorno successivo, possono arrivare a Napoli in nottata. Nel caso in cui vi
siano problemi di salute o di qualsiasi sorta, è consigliabile raggiungere Velletri il
primo giorno, partire subito dopo l’alba il secondo giorno e fermarsi a Mola di
Gaeta per la notte, per poi raggiungere Napoli il giorno seguente per l’ora di pranzo. In questo modo, infatti, è possibile attraversare le paludi pontine nell’ora più
salutare, compresa tra le nove del mattino e le tre del pomeriggio. Per i viaggiatori
che scelgano la vettura, la Starke riporta perfino la forma che deve avere il modulo
di contratto con i vetturini, indicando, poi, la durata prevista per ogni tratta del
viaggio. Poiché la prima motivazione del viaggio della Starke coincideva con questioni terapeutiche, i consigli della scrittrice comprendono sempre anche avvertimenti ai viaggiatori infermi, legati in particolare al clima dei luoghi da lei visitati.
Da questo punto di vista, Napoli presenta dei lati negativi, che consistono nell’alta
quantità di zolfo di cui è impregnata l’atmosfera, nel vento, che nella zona è spesso
forte e pungente e nei “continual vicissitudes from heat to cold , which are common
here during winter and spring” (Trad.: “continui avvicendamenti di caldo e freddo,
che sono comuni qui in inverno e primavera”). La pinaura di Sorrento, invece, è
“the most healthful summer-abode in southern Italy” (Trad.: “il soggiorno estivo
249
L’Italia meridionale nella guida turistica di Mariana Starke
più salubre dell’Italia meridionale”), anche per la scarsità di zanzare, che “during
the months of July, August and September, are a serious evil in many parts of the
Continent” (Trad.: “durante i mesi di luglio, agosto e settembre, sono un grave
male in molte parti del Continente”). Una zanzariera di garza robusta o di mussolina
sottile è infatti tra gli oggetti che la Starke indica tra i generi di prima necessità di cui
il viaggiatore si deve dotare, insieme alla biancheria, ad ago e filo, a scarpe e stivali
adatti ad affrontare ogni tipo di condizioni climatiche e che abbiano la suola abbastanza elastica, all’attrezzatura per il tè, ai medicinali e così via, tutti sistemati secondo precise indicazioni all’interno della carrozza. Tra i suggerimenti della Starke
vi sono anche piccoli trucchi contro i disagi degli alloggi: dieci gocce di lavanda, che
“distributed about a bed, will drive away either bugs or fleas” (Trad.: “distribuite
intorno al letto, terranno lontane cimici o pulci”), e cinque gocce di acido solforico,
che “put in a large decanter of bad water, will make the noxious particles deposit
themselves at the bottom, and render the water wholesome” (Trad.: “messe in un’ampia caraffa d’acqua cattiva, faranno depositare le particelle nocive sul fondo, e renderanno l’acqua salutare ”). Infatti, la buona acqua è “a scarse commodity at Naples”
(Trad.: “una merce rara a Napoli”), e chi non si sforzi di procurarsi l’acqua dalla
Fontana Medina, presso Largo del Castello o dalla Fontana di S. Pietro Martire,
entrambe rifornite da un acquedotto, “incur the risk of being attacked with a
disentery, or some other putrid desease” (Trad.: “corre il rischio di essere colpito da
dissenteria, o da qualche altra schifosa malattia”). Le varie parti della città di Napoli
sono soggette a differenti caratteristiche climatiche, perciò i viaggiatori con particolari esigenze dovranno prestare attenzione nella scelta della locazione dell’alloggio. Le persone che hanno i polmoni deboli dovrebbero risiedere alla Fouria, mentre nel quartiere di S. Lucia la vicinanza del mare, unita all’umidità causata da una
montagna di tufo al di sotto della quale sono costruite le case, “renders the air
dangerous to Invalids, and not very wholesome even for personos in health” (trad.:
“rende l’aria pericolosa per gli infermi, e non molto salutare per le persone sane”);
meno dannoso è invece il clima delle case di Chiaia, che sono più lontane dalla
montagna di tufo, mentre Pizzo Falcone è salubre e non rumoroso, “a peculiar
advantage at Naples” (trad.: “un vantaggio peculiare a Napoli”).
Al di là delle questioni materiali del viaggio, la guida della Starke contiene
anche descrizioni dei siti storici e artistici che il turista non dovrebbe mancare di
vedere, le cui opere d’arte sono valutate nei loro meriti comparativi attraverso una
scala di punti esclamativi, che rappresentano gli antesignani delle odierne stellette.
In questo modo la Starke passa in rassegna a Napoli gli Studii publici, Palazzo
Reale, Castel dell’Uovo, Castel Nuovo, il Teatro San Carlo, le varie chiese, accennando soltanto alle passeggiate di Villa Reale, di Chiaia, al Giardino Botanico, il
tutto descritto in ogni caso in modo molto schematico e oggettivo. Lo stesso tipo di
informazioni si trovano anche nel capitolo riguardante i dintorni di Napoli, che
descrive le escursioni a Baia, Pozzuoli, Caserta, Capua, Pompei, Paestum, Eboli,
fino a Capri, Procida e Ischia. La mancanza qui di quelle rapite descrizioni degli
scenari naturali dell’Italia meridionale che si troveranno in abbondanza nelle viag250
Rosanna Curci
giatrici successive, non va naturalmente attribuita ad una inferiore sensibilità della
scrittrice, in quanto si giustifica come conseguenza diretta dello scopo del testo,
inteso come vademecum per il viaggiatore e non come memoria di viaggio. Qua e
là, però, si legge l’emozione della Starke di fronte ad esperienze particolari ed insolite. Una di queste è quella vissuta in occasione dell’escursione sul Vesuvio: la viaggiatrice ha infatti la fortuna di poter assistere ad una piccola eruzione del vulcano,
avvenuta nel novembre del 1818. L’ascesa avviene all’inizio a dorso di mulo, nell’arco di circa due ore, poi in chaise-à-porteur ed infine a piedi fino al cratere; ma la
fatica del tragitto, una volta raggiunta la meta, è “richly recompensed by the sight of
five distinct streams of fire issuing from two mouths, and tumbling, wave after wave,
slowly down the mountain” (trad.: “riccamente ricompensata dalla vista di cinque
distinte correnti di fuoco, che sgorgavano da due bocche, e che precipitavano, onda
dopo onda, lentamente giù dalla montagna”). La sensazione dell’autrice nel contemplare “this awful and extraordinary scene” (trad.: “questa scena tremenda e straordinaria”) è paragonabile all’orrore sublime scatenato dai ghiacciai della Valle di
Chamouni o dalla vista del Mont Avert. Nel descrivere il paesaggio di Sorrento,
invece, si avverte un altro tipo di commozione: dapprima ella si serve delle parole
del Tasso, che aveva definito Sorrento “L’Albergo della Cortesia” e che aveva parlato dell’“aere…sì sereno, sì temperato, sì salutifero, sì vitale”, ma aggiunge poi di suo
che essa sembra “calculated at all seasons to promote longevity” (trad.: “calcolata in
tutte le stagioni per promuovere la longevità). La pianura di Sorrento appare come
un’ininterrotta serie di giardini, in cui il melograno, l’aloe, la mimosa, il melo, il
pero, il pesco, l’ulivo, la vite, il cipresso, che caratterizzano il paesaggio italiano,
appaiono “so beautifully mingled and contrasted with multitudes of oranges and
lemons, that persons standing on a height and looking down upon this plain, might
fancy it the garden of the Hesperides” (trad.: “mescolati e contrapposti a moltitudini di aranci e limoni in modo così bello che chi osservi questa pianura da un’altura,
può immaginare che sia il giardino delle Esperidi).
Raramente si legge qualcosa anche sulla popolazione, come sui Sorrentini,
che non smentiscono l’opinione del Tasso, e si mostrano ospitali ed estremamente
gentili con i viaggiatori, e soprattutto sui Napoletani, il cui carattere, afferma la
Starke, è stato frainteso dai viaggiatori del passato. Questi ultimi, infatti, hanno
descritto gli uomini delle classi più basse della popolazione come “cunning, rapacious,
profligate and cruel” (trad.: “furbi, rapaci, dissoluti e crudeli”), o addirittura
“ignorant, licentious and revengeful” (ignoranti, licenziosi e vendicativi). L’opinione della Starke è, invece, che essi siano “open-hearted, industrious, and though
passionate, so fond of drollery, that a man in the greatest rage will suffer himself to
be appeased by a joke” (trad.: “leali, industriosi, e sebbene collerici, così amanti
delle buffonerie che un uomo in preda all’ira più impetuosa permetterà di essere
placato da uno scherzo”).
L’interesse dell’opera risiede però, più che nelle osservazioni di tipo
sociologico e antropologico, nelle istruzioni pratiche che essa fornisce ai turisti: il
valore delle monete locali, la disponibilità di alberghi e locande, il costo dei beni di
251
L’Italia meridionale nella guida turistica di Mariana Starke
prima necessità, la percorribilità delle strade, i rimedi contro i piccoli imprevisti, il
vestiario e l’organizzazione del bagaglio, addirittura. Finché questo tipo di informazioni erano venute da uomini, le viaggiatrici potevano pensare che le loro diverse esigenze rispetto a loro potessero rappresentare un ostacolo al viaggio; adesso,
invece, esse potevano contare sull’esempio di una donna, viaggiatrice attraverso
tutta l’Europa, dal Portogallo alla Scandinavia fino alla Russia, talmente esperta da
permettersi di porsi quale guida a chi volesse seguire i suoi stessi percorsi. Il fatto
che la Starke non accenni mai a sé stessa come donna che viaggia, e quindi in tal
senso limitata rispetto ai suoi colleghi viaggiatori, non è che un’ulteriore conferma
del fatto che le donne potevano ormai viaggiare tranquillamente, senza che ciò fosse considerato un fatto atipico. Si può credere, dunque, che l’esperienza della Starke
abbia avuto l’effetto di incoraggiare le donne che volevano viaggiare a seguire la sua
strada, esortandole a inoltrarsi anche nel sud d’Italia, senza fermarsi neppure al
Regno di Napoli, ma andando perfino oltre, senza timore, fin nelle terre più remote.
252
Gaetano Zenga
Il tema della violenza e le strutture profonde
in Relic di Ted Hughes
di Gaetano Zenga
Ted Hughes è considerato il più rappresentativo dei poeti del “Group”, fondato a Londra nella metà degli anni cinquanta del Novecento e del quale facevano
parte anche George Macbeth e Peter Redgrove. Nel 1963 il “Group” pubblicò una
sua antologia con la quale attaccò i poeti del “Movement” Philip Larkin, Thom
Gunn e Donald Davie, perchè si erano rifugiati in un provincialismo di comodo,
ignorando i problemi reali del loro tempo. La caratteristica che distingueva i poeti
del “Group” era la predilezione per una poesia crudele e violenta, che rivelava la
loro rabbia, molto simile a quella espressa da John Osborne, il portavoce dei giovani drammaturghi inglesi conosciuti come “Angry Young Men”, in Look Back in
Anger (1956).
In linea con il suo movimento letterario, il tema ricorrente della poesia di Ted
Hughes è la violenza in ogni aspetto della vita, sia nel mondo animale che nel mondo umano.
Le brughiere dello Yorkshire, terra nativa di Hughes, gli avevano offerto l’opportunità di osservare da vicino, sin da ragazzo, la natura con i suoi elementi e la
vita selvaggia, i soggetti che saranno spesso scelti dal poeta per le sue poesie. Infatti,
la loro ambientazione è costituita quasi sempre dalla natura e i loro attori principali
sono spesso gli animali.
Comunque, l’atteggiamento di Hughes verso la natura non è quello dei poeti
romantici inglesi. Certo, la concezione della natura di Hughes è ben diversa da
quella di William Wordsworth che considera la natura una creatura vivente dotata
di un’anima in comunione con l’anima dell’uomo1 .
La natura per Wordsworth è soprattutto amica dell’uomo ed in essa, inoltre,
l’uomo può trovare una grande risorsa di forza morale e un rimedio contro i mali
della città.
Tutti i romantici inglesi concordano nel considerare la natura come rifugio
dell’uomo dalla corruzione del mondo industriale.
Anche gli animali delle poesie di Hughes sono diversi da quelli dei romantici,
1
Cfr. The prelude, I vv. 1-425.
253
Il tema della violenza e le strutture profonde in Relic di Ted Hughes
se si pensa, ad esempio, al ruolo dell’allodola in To a Skylark di Shelley. Il dolce
canto dell’uccello rappresenta per il poeta lo strumento di romantica evasione dalla
condizione umana per raggiungere la felicità.
Come l’allodola per Shelley, l’usignolo diventa per John Keats in Ode to a
Nightingale lo strumento di evasione dalla condizione umana, il simbolo di una
vita perfetta, perché ignora la realtà del dolore e della morte.
Al contrario dei romantici, la natura per Hughes non è né amica dell’uomo,
né risorsa di forza morale, né rifugio dalla corruzione del mondo industriale, ma
piuttosto specchio e teatro della violenza del mondo contemporaneo.
Inoltre, i suoi animali non sono animali metafisici come l’allodola di Shelley
e l’usignolo di Keats, simboli di evasione e di felicità, ma animali reali, crudeli e
violenti che esprimono metafore delle esperienze umane.
Il mondo di Hughes è sostanzialmente il mondo dei pittori inglesi, suoi contemporanei, Francis Bacon e Graham Sutherland. Le poesie di Hughes, come le
tele di Bacon e di Sutherland, rivelano la stessa preoccupazione per la ricerca di
forme, a volte contorte, di bestie, di uccelli e di insetti, che sembrano esprimere il
tormento causato dalla violenza del mondo e l’incubo per la minaccia di un conflitto nucleare.
Relic, che fa parte della collezione Lupercal (1960), rimane uno dei migliori
esempi della rappresentazione del mondo dominato dalla violenza. Infatti, l’osso di
mandibola di un pescecane trovato sulla spiaggia, offre al poeta lo spunto per una
riflessione sulla violenza degli animali.
È una poesia breve che si articola in due stanze, la prima di undici e la seconda di cinque versi:
I found this jawbone at the sea’s edge:
There, crabs, dogfish, broken by the breakers or
tossed
To flap for half an hour and turn to a crust
Continue the beginning. The deeps are cold:
In that darkness camaraderie does not hold:
Nothing touches but, ckutching, devours. And the
jaws,
Before they are satisfied or their stretched purpose
Slaken, go down jaws; go gnawn bare. Jaws
Eat and are finished and the jawbone comes to the
beach:
This is the sea’s achievement; with shells,
Vertebrae, claws, carapaces, skulls.
Time in the sea eats its tail, thrives, casts these
Indigestibles, the spars of purposes
254
Gaetano Zenga
In the sea. This curved jawbone did not laugh
But gripped, gripped and is now a cenotaph2 .
Malgrado la pausa, costituita dal punto fermo al verso undici, e lo stacco che
separano le due stanze, esse risultano strettamente legate, sia perché la seconda stanza
enfatizza le azioni descritte nella prima con la metafora Time in the sea eats its tail
(v.12), sia per l’uso dell’immagine This curved jawbone (v.15) che ritorna a this
jawbone del primo verso, ed ancora perché le azioni espresse dai perfetti did not
laugh (v.15), gripped (v.16) e dal presente is (v.16) sono strettamente legate all’azione espressa dal perfetto found (v.1), alla quale sono posteriori.
La personificazione del tempo, rappresentato da un animale che si morde la
coda, esprime sul piano connotativo un circolo vizioso che sottolinea le azioni di
lotta e di violenza che si ripetono da secoli nel mare e continueranno nel tempo.
Per la sua particolare significazione, Time in the sea eats its tail costituisce
una sorta di parallelismo semantico con l’espressione continue the beginning (v.4) a
riprova della forte saldatura tra la prima e la seconda stanza. Infatti, le due espressioni, incentrate entrambe sul ciclo del tempo, annunciano l’ineluttabile destino
degli animali, agenti e vittime ad un tempo della violenza.
Vedremo più avanti che anche i due enunciati In that darkness camaraderie
does not hold (v.4) e None grow rich/In the sea (vv.13-14) costituiscono un ulteriore
legame, a livello psicologico, tra le due stanze.
L’effetto della tensione nella poesia è ottenuto dalla giustapposizione dei termini jaw e jawbone che indicano rispettivamente la mandibola dell’animale e quella
dello stesso animale morto o osso di mandibola.
Il poeta usa i due termini come simboli: la mandibola in quanto organo indica la forza, la lotta, la violenza, la vita, il movimento; l’osso di mandibola, in quanto
oggetto, è invece espressione di debolezza, di sconfitta, di morte, di staticità. È lo
stesso organo che una volta persa la sua funzione di mandibola diventa soltanto
osso e si trasforma da agente in vittima (vv. 6-7 “Jaws/Eat and are finished and the
jawbone comes to the beach”).
L’osso di mandibola nell’ultimo verso viene celebrato come cenotafio ed è
consacrato, quindi, come monumento sepolcrale che offre il soggetto per il titolo
della poesia stessa.
2
Traduzione dell’autore (così come le successive): “Ho trovato quest’osso di mandibola in riva al mar:/là
granchi, pescecani, spezzati dai frangenti o gettati/a galleggiare per mezz’ora e trasformarsi in crosta/ continuano il principio. Gli abissi sono freddi:/in quel buio il cameratismo vien meno:/non si tocca, ma, afferrando, si divora./E le mandibole/prima d’esser soddisfatte o che il loro tenace sforzo/s’allenti, cadon giù mandibole, rosicchiate fino all’osso./ Mandibole/mangiano e son fatte fuori e l’osso di mandibola/arriva sulla spiaggia:/questa è l’opera del mare; con conchiglie,/vertebre, chele, gusci, crani./Il tempo nel mare si morde la
coda, prospera, rigetta/queste cose indigeste, scheletri di intenzioni/che fallirono lontano dalla superficie.
Nessuno si/arricchisce/nel mare. Quest’osso di mandibola curvo non rise/ ma abbrancò, abbrancò e ora è un
cenotafio”.
255
Il tema della violenza e le strutture profonde in Relic di Ted Hughes
La disposizione simmetrica dei due termini jaw e jawbone è rispettata sia
nell’uso delle funzioni linguistiche che nell’uso dei tempi che procedono in maniera binaria.
La funzione emotiva espressa dal pronome di prima persona I che coinvolge
direttamente l’io lirico, è presente soltanto nel primo verso, mentre negli altri versi
viene usata sempre la funzione referenziale, espressa dalla terza persona, tipica delle descrizioni. Infatti, nella poesia la disposizione delle funzioni linguistiche è la
seguente :
(v.1) I found: emotiva
(v.4) (crabs, dogfish) Continue …The deeps are cold: referenziale
(v5) Camaraderie does not hold: referenziale
(v.6) Nothing touches…devours: referenziale
(v.7) They are satisfied: referenziale
(v.8) (their stretched purpose ) Slaken …go down jaws: referenziale
(v.9) ( jaws ) Eat…are finished…the jawbone comes: referenziale
(v.10) This is: referenziale
(v.12) Time in the sea eats…thrives…casts: referenziale
(v.14) ( the spars ) that failed: referenziale
(v.14) None grow rich: referenziale paradossale
(v.15) This curved jawbone did not laugh: referenziale
(v.16) (this curved jawbone ) gripped…is: referenziale3 .
L’unica presenza della funzione emotiva nel primo verso dimostra che l’io
lirico è direttamente coinvolto nell’azione soltanto quando annuncia la scoperta
dell’osso di mandibola, per il resto della poesia l’io lirico svolge il ruolo dell’attore
passivo o del testimone che si limita a descrivere le azioni di altri soggetti.
In linea con le funzioni linguistiche, anche i tempi narrativi sono due: il presente ed il perfetto inglese.
I perfetti found (v.1), did not laugh (v.15) e gripped (v.16) esprimono azioni
interdipendenti legate ad un particolare luogo e ad un particolare tempo. Il perfetto
found indica la scoperta dell’osso di mandibola, fatta dall’io lirico; l’azione degli
altri due perfetti, dipendenti dallo stesso soggetto, è legata all’azione espressa da
found perché rivela l’impressione ricevuta dall’io lirico dall’aspetto particolare assunto dall’osso di mandibola nella stessa occasione della sua scoperta.
Il perfetto failed (v.14) non ha la stessa funzione dei precedenti perfetti perché non si riferisce ad una particolare occasione, ma ad un passato anteriore all’azione ripetitiva, atemporale, espressa dal presente casts (v.12), al quale è
sintatticamente subordinato e perciò assume anch’esso valore ripetitivo atemporale.
3
Come this curved jawbone, soggetto di gripped e di is, è collocato in parentesi perché fa parte del verso
precedente, per la stessa ragione, in questo schema di presentazione delle funzioni linguistiche, si trovano in
parentesi altri sostantivi antecedenti ai verbi .
256
Gaetano Zenga
Il presente è il tempo prevalente ed è un presente atemporale (tranne il presente is del v.16) perché non esprime azioni legate ad una particolare occasione, ma
sottolinea azioni che si ripetono e continueranno nel tempo.
Al contrario il presente is dell’ultimo verso è determinato dall’avverbio now
e perciò indica il momento preciso usato dall’io lirico allorché conferisce all’osso di
mandibola la funzione di monumento sepolcrale. Questo presente si collega all’azione della scoperta dell’osso di mandibola, espressa dal perfetto found, ed è posteriore ad essa.
Come la giustapposizione di jaw e jawbone, anche la contrapposizione
spaziale terra (spiaggia) e mare (abissi marini) è dotata di una valenza semantica.
Infatti, la spiaggia è dominata dalla morte :
I found this jawbone at the sea’s edge :
There, crabs, dogfish broken by the breakers or tossed
To flap for half an hour and turn to a crust
[…] and the jawbone comes to the beach (vv.1-9);
e gli abissi marini sono dominati dalla lotta e dalla violenza:
[…] The deeps are cold:
In that darkness camraderie does not hold:
Nothing touches but, clutching, devours. And the jaws,
Before they are satisfied or their stretched purpose
Slaken, go down jaws; go gnawn bare. Jaws
Eat and are finished (vv.4-9).
La struttura spaziale mare (abissi marini) terra (spiaggia), inoltre, indica anche una relazione di continuità tra la causa (violenza) e l’effetto (morte). Gli abissi
sono il teatro della violenza, dove gli animali più forti uccidono quelli più deboli, i
cui resti vengono trasportati dalle onde sulla spiaggia che diventa il loro cimitero,
come mostrano i versi 2-3 e 9-11.
Inoltre, i temi della violenza e della morte sono enfatizzati da una serie di
deissi, costituite da aggettivi dimostrativi e possessivi, da articoli determinativi, da
avverbi di luogo e di tempo, da verbi.
Le deissi relative al tema della violenza sono:
The +deeps (v.4), that + darkness (v.5), the + jaws (v.6), their + stretched
purpose (v.7), go down (v.8), this + is (v.11) e the + sea (v.14) .
Questi elementi deittici mettono in risalto, con puntuali dettagli, il luogo
della violenza (gli abissi, il mare), la caratteristica del luogo (il buio pesto), gli agenti
della violenza (le mandibole), la caparbietà della lotta (lo strenuo sforzo ), la sconfitta degli animali più deboli (cadono giù) .
Le deissi legate al tema della morte sono:
this + jawbone (v.1), the + sea’s edge (v.1), there (v.2), the + jawbone (v.9),
257
Il tema della violenza e le strutture profonde in Relic di Ted Hughes
comes (v.9), the + beach (v.9), these + indigestibles (vv.11-12), this + curved jawbone
(v.15), is + now (v.16).
Gli elementi deittici evidenziano il luogo della morte (la spiaggia), la sconfitta (arriva), le vittime dall’osso di mandibola alle cose indigeste, ossia le conchiglie,
le vertebre, le chele, i gusci, i crani dei versi 10-11) e la sublimazione dell’osso di
mandibola (che diventa cenotafio).
Oltre alla giustapposizione jaw/jawbone, alla struttura spaziale terra (spiaggia) mare (abissi marini), agli elementi deittici che enfatizzano i temi della violenza
e della morte, due serie diverse di verbi vengono legate in una catena isotopica per
contrapporre gli stessi temi .
Forme verbali, come do es not hold (v.5), clutching (v.6), devours (v.6), are
satisfied (v.7), slaken (v.8), eat (v.9) formano l’isotopia della violenza, mentre le forme verbali broken (v.2), tossed (v.2), turn to a crust (v.3), go down (v.8), go gnawn
bare (v.8), are finished (v.9), comes (v.9), tha failed (v.14) formano l’isotopia della
sconfitta e della morte.
Se le forme verbali go down e comes fanno parte dell’isotopia della morte è
perché non indicano un movimento prodotto da volontà propria, ma un movimento indotto da cause esterne. Infatti, il primo verbo enfatizza la caduta per forza di
gravità delle mascelle staccate dal resto del corpo, perché rosicchiate fino all’osso, il
secondo esprime come una di queste mascelle ridotta ad osso arriva sulla spiaggia,
trascinata dal moto ondoso, per poi diventare crosta.
L’enunciato in that darknes camaraderie does not hold mette in risalto che il
sentimento dell’amicizia non esiste negli abissi marini dove prevalgono l’egoismo,
la ferocia e la violenza. Gli animali ubbidiscono ai loro ciechi istinti di uccidere e
divorare.
Il senso della continuità e della ineluttabilità della violenza nel tempo è espresso
dall’enunciato this is the sea’s achievement che, sul piano psicologico, è, quindi,
strettamente collegato al precedente enunciato in that darkness camaraderie does
no hold.
La relazione tra l’azione del mare nei secoli e l’assenza assoluta di cameratismo negli abissi marini viene meglio chiarita se si considera la funzione del mare sia
sul piano denotativo che sul piano connotativo. Infatti, sul piano denotativo il mare
rappresenta sia l’agente fisico (la massa d’acqua, le onde) che trasporta sulla spiaggia i resti degli animali uccisi, per distruggerli, sia il luogo della violenza; sul piano
connotativo il mare va visto come gli animali che lo popolano, agenti e vittime della
violenza.
E ancora, il senso della continuità e della necessità della violenza nel tempo è
enfatizzato sia dal tempo prevalente nella poesia, che è il presente, un tempo
atemporale che, come è stato già notato, sottolinea azioni che si ripetono e continueranno nel tempo, sia dalla metafora time in the sea eats its tail, che svolge la
stessa funzione del presente atemporale, ripetitivo.
L’enunciato none grow rich /in the sea, a primo acchito sembra paradossale,
se riferito soltanto al mondo degli animali che popolano gli abissi marini, poiché gli
258
Gaetano Zenga
animali più forti uccidono quelli più deboli per mangiarli, non solo perché ubbidiscono ai loro ciechi istinti, ma anche e soprattutto per assicurare la loro sopravvivenza.
Il fatto è che gli animali per Ted Hughes, come è stato già osservato all’inizio
di questo lavoro, esprimono metafore delle esperienze umane. Nell’ottica delle esperienze umane, none grow rich/In the sea diventa una sottile ed ironica riflessione
dell’io lirico sull’assurdità della violenza che non arricchisce nessuno in mare e,
perciò, la risposta razionale ai due precedenti enunciati This is the sea’s achievement
e In the darkness camaraderie does not hold.
È proprio questa riflessione razionale, sulla violenza che genera soltanto miseria, che fa di Relic una grande metafora del mondo umano. Alla luce di questa
metafora, il mare rappresenta il mondo, teatro di violenze e di guerre che si ripetono da secoli ed i pescecani raffigurano gli uomini stessi, agenti irrazionali di violenza.
Nel contesto di questa metafora, l’enunciato none grow rich/In the sea, riferito alla violenza degli uomini, chiarisce in via definitiva perché le guerre, come
strumento di distruzione e di morte non arricchiscono nessuno, ma portano soltanto miseria.
Quanto al problema della lingua impiegata da Hughes in Relic, è una lingua
precisa, semplice, sobria, vigorosa; mentre la struttura della poesia è circolare perché presenta l’immagine this jawbone al primo verso e la stessa immagine, arricchita di un aggettivo, this curved jawbone al quindicesimo verso.
Lo spessore simbolico, il significato profondo, il messaggio di Relic vengono
meglio colti in un confronto tra il testo della poesia e il contesto, costituito dall’autore reale, dalla cultura e dagli avvenimenti storico-politici contemporanei; tra il
testo e le opere di altri autori; tra il testo e altre opere dello stesso autore.
Ted Hughes è nato nel 1930 e, come tutti i giovani della sua generazione, ha
vissuto il dramma di due guerre mondiali. Non solo le due grandi guerre, ma anche
il progresso scientifico tecnologico, che si configura con l’invenzione di armi capaci
di distruzioni di massa, hanno generato un senso di ansia e di paura per un terzo
conflitto mondiale. Inoltre, la perdita di valori tradizionali, come la fede religiosa, i
principi etici, la famiglia, ha causato una profonda crisi esistenziale caratterizzata
da un senso di insicurezza, di smarrimento, di confusione della coscienza, di disperazione, di mancanza di comunicazione.
Tutti i grandi narratori, poeti e drammaturghi del Novecento inglese, da Joyce
a Virginia Woolf, a Golding, a Iris Murdoch, da Eliot a Yeats, a Auden, a Dylan
Thomas, da Beckett a Harold Pinter, avvertono nelle loro opere una profonda crisi
esistenziale, un senso di frustrazione, di aridità spirituali, una sorta di nevrosi
ossessiva dell’uomo moderno.
È un mondo di “uomini vuoti”, come afferma Eliot, di uomini che non vivono ma sopravvivono, perché privi di ideali, di uomini che non agiscono ma subiscono gli eventi.
Questo è anche il mondo degli anni Sessanta, gli anni della guerra fredda,
259
Il tema della violenza e le strutture profonde in Relic di Ted Hughes
durante i quali il pacifista Bertrand Russell, premio Nobel per la letteratura, si batte
contro ogni forma di militarismo e di imperialismo, contro la corsa agli armamenti
nucleari e nel suo pamphlet Has man a future? si interroga sugli effetti catastrofici
di una eventuale guerra atomica.
In questo clima di tensione globale e di profonda crisi esistenziale, Ted Hughes
scrive Relic, un’allusione in chiave ironica alle forme di violenza e di guerra di tutti
i tempi.
È proprio la particolare Weltanschaunung, che influenzò gli scrittori dagli
anni Venti agli anni Sessanta, che giustifica l’interpretazione di Relic come grande
metafora del mondo umano e permette il suo confronto con altri autori del Novecento.
Ritornando al testo di Relic, that darkness (v.5) va interpretata, quindi, sul
piano connotativo, come oscurità del cuore degli uomini, dominato dagli istinti che
lo spingono alla violenza, alla guerra.
È anche l’oscurità che caratterizza il verso di apertura della terza sezione di
East Coker di Eliot: (“o dark dark dark.They all go into the dark”)4 .
L’umanità è vista dal poeta come un’enorme turba che si muove senza uno
scopo preciso e senza una direzione, perché la sua coscienza è avvolta nelle tenebre
ed è confusa.
È ancora la stessa oscurità che viene enfatizzata da Yeats in The Second Coming
(v. 18 “The drops fall again”: l’oscurità scende di nuovo).
Yeats afferma che venti secoli di storia cristiana sono stati cancellati dall’oscurità che si è impossessata della coscienza degli uomini e ha generato l’anarchia, caratterizzata da una spirale di violenza e di guerre che si è diffusa nel mondo (vv. 45 “Mere anarchy is loosed upon the world /The blood-dimmed tide is loosed”: una
perfetta anarchia si è diffusa nel mondo/una torbida marea di sangue dilaga).
Questi versi sono una probabile allusione alla prima guerra mondiale ed un’inconscia profezia del nazismo, considerato che The Second Coming fu pubblicata
nel 1920.
Il tema dell’oscurità che avvolge la coscienza dell’uomo viene svolto con chiarezza anche da Tom Gunn, contemporaneo di Ted Hughes, in Human Condition.
È proprio l’io lirico a fare esperienza dell’oscurità raffigurata dalla nebbia che lo
avvolge e lo isola dai suoi simili e lo fa sentire appena una “capocchia di spillo”,
ossia un punto infinitesimo nel grande universo (vv. 14-15 “a mere/ pinpoint of
consciousness: una semplice capocchia di spillo della coscienza).
Nel lontano 1902 Joseph Conrad celebrò la metafora dell’oscurità che avvolge la coscienza dell’uomo, rendendola responsabile di tutti i mali del colonialismo
europeo, nel titolo del suo capolavoro Heart of Darkness.
Quanto al confronto di Relic con altre poesie di Ted Hughes, Hawk Roosting
e To Paint a Water Lily, anch’esse incluse nella collezione Lupercal (1960) si presta-
4
“O buio buio buio.Tutti loro sono inghiottiti dal buio”.
260
Gaetano Zenga
no a tale confronto perché trattano pure il tema della violenza.
In Hawk Roosting è proprio il falco ad incarnare il tema della violenza. Il
falco esiste per uccidere, perciò, anche quando è appollaiato in cima ad un albero e
sembra inattivo, uccide e progetta la sua nuova strategia:
[…] no falsifying dream
Between my hooked head and hooked feet :
Or in sleep rearse perfect kills and eat (vv.2-4)5 .
Questi versi che enfatizzano l’istinto della violenza suonano come altri versi
di Relic (vv. 5-6 “In that darkness camaraderie does not hold: /Nothing touches
but, clutching, devours).
Inoltre, come l’oscurità degli abissi è vantaggiosa per i pescecani per i loro
attacchi, altrettanto vantaggiosi sono per il falco l’altezza degli alberi, la spinta
aerostatica e i raggi solari (vv. 4-7 “The convenience of the high trees!/The air’s
buoyancy and the sun’s ray /Are of advantage to me”)6 .
E ancora, come i pescecani, in Relic, si sentono padroni degli abissi e uccidono e divorano tutto ciò che vogliono, così in Hawk Roosting il falco considera suo
tutto ciò che vede, suo territorio e sua potenziale preda (vv. 12-14 Now I hold
Creation in my foot /or fly up ,and revolve it all slowly/ i kill vhere I please because
it is all mine”)7 .
Il falco, oltre ad essere violento e prepotente, si compiace con arroganza della
sua crudeltà (v. 16 “My manners are tearing off heads”: i miei modi sono di lacerare
le teste).
Certamente, a livello metaforico, il falco può essere interpretato come un
dittatore violento e sanguinario di ogni tempo.
In To Paint a Water Lily, il tema della violenza viene trattato nella prima
parte. Infatti, in questa parte la violenza è presentata con termini come furious arena, bullets by, to take aim, comb, battle-shouts, death-cries che descrivono la battaglia combattuta senza esclusione di colpi dagli insetti, nella quale gli insetti più forti
uccidono quelli più deboli per divorarli. La scena si svolge sulla superficie di un
laghetto e le immagini si susseguono con una rapidità incalzante, sostenute da una
lingua violenta, vigorosa e drammatica:
The flies’ furious arena […]
First observe the air’s dragonfly
That eats meat,that bullets by
5
“Non sogno ingannevole tra il mio capo uncinato e le mie zampe uncinate:/o nel sonno faccio le prove
di perfette uccisioni e mangio”.
6
“La comodità degli alberi alti!/La galleggiabilità dell’aria e i raggi del sole /sono vantaggiosi per me”.
7
“Ora stringo la Creazione nella mia zampa/ o volo in alto e la faccio girare tutta lentamente /uccido
dove mi garba perché è tutta mia”.
261
Il tema della violenza e le strutture profonde in Relic di Ted Hughes
Or stands in space to take aim;
Others as dangerous comb the hum8
Under the trees.There are battle-shouts
And death-cries eveywhere hereabouts9 .
Questi versi ricordano la stessa scena di scontro violento negli abissi marini
descritta in Relic dal quarto al nono verso. Inoltre, alcuni termini di To Paint a
WaterLily, come furious arena, bullets by, mostrano una somiglianza semantica rispettivamente con the deeps e clutching di Relic, mentre il verbo eat compare in
entrambe le poesie a riprova del fatto che, sia gli insetti che i pescecani uccidono per
mangiare e quindi per assicurare la loro sopravvivenza .
E, ancora, in Relic gli urli di battaglia e i gridi di morte sono rimpiazzati da
inconfondibili immagini, come their stretched purpose/Slaken (vv.7-8), go down
jaws, (v.8) e go gnawn bare (v.8), che enfatizzano l’inutilità degli strenui sforzi degli
animali più deboli e le conseguenze della loro sconfitta definitiva che li ha ridotti a
scheletri che cadono nel fondo degli abissi .
A questo punto, il confronto di Relic con Six Young Men, una poesia della
collezione The Hawk In The Rain (1957), nella quale Hughes affronta il tema della
violenza umana, della guerra, è doveroso.
Con il solito linguaggio semplice, sobrio, vigoroso e in questa occasione anche drammatico, Hughes nella terza stanza presenta con crudi dettagli un triste
quadro di violenza e di morte :
This one was shot in an attack and lay
Calling in the wire, then this one, his best friend,
Went out to bring him in and was shot too;
And this one, the very moment he was warned
From potting at tin cans in no man’s land,
Fell back dead with his rifle-sights shot away.
The rest, nobody knows what they came to,
But come to the worst they must have done, and held it
Closer than their hope; all were killed.10
8
La traduzione letterale di comb the hum è “rastrellano il mormorio”, il cui senso è “cercano e si imbattono in insetti ronzanti”.
9
vv. 2-10: “La violenta arena degli insetti [...] /prima osserva la libellula dell’aria/ che mangia la carne, che
si muove come un proiettile /o sta ferma nell’aria per prendere la mira; /altre altrettanto nocive rastrellano /il
mormorio/sotto gli alberi. Ci sono urli di battaglia /e gridi di morte dovunque da queste parti”.
10
vv. 19-27: “Questo fu colpito in un attacco e giacque/chiedendo aiuto nel filo spinato, poi questo, il suo
migliore amico,/ uscì per portarlo dentro e fu colpito anche lui; e questo, nel momento stesso in cui fu avvertito/di non mirare a lattine nella terra di nessuno/ cadde all’indietro col mirino del fucile spazzato via da un
colpo./Il resto, nessuno sa a cosa siano giunti,/ ma di giungere al peggio deve essere loro accaduto, ed averlo/
abbracciato più stretto della loro speranza; tutti vennero uccisi”.
262
Gaetano Zenga
Il poeta non si limita come nelle precedenti poesie a descrivere la violenza del
mondo animale, ma esprime la sua indignazione per l’assurdità della guerra e per la
morte prematura ed ingiusta di questi sei giovani.
È proprio nel guardare la fotografia che ritrae questi giovani nella loro sorridente spensieratezza, durante una gita domenicale, prima della guerra, che Hughes,
nell’ultima stanza, impreca contro la follia della guerra e i suoi orrori (vv. 42-43 To
regard this photograph might well dement,/ such contradictory permanent horrors
here)11 .
Relic, Hawk Roosting,To Paint aWater Lily, come si è osservato, svolgono il
tema della violenza nel mondo animale e Hughes afferma che in quel mondo non
c’è posto per la compassione, ma soltanto per la crudeltà. Nelle tre poesie, inoltre,
gli animali sono presentati con i loro istinti e la loro crudeltà, perché rimangano
animali autentici senza ricorso a rappresentazioni antropomorfiche .
Va chiarito, comunque, che queste poesie, come tutte quelle di Ted Hughes,
non sono una glorificazione della violenza. Se Hughes presenta gli animali con la
loro crudeltà è perché essa assicura loro la vita nel loro stato naturale.
Un altro aspetto importante e comune a queste poesie è l’uso prevalente del
tempo presente che, come è stato osservato per Relic, è un presente atemporale che
mette in risalto la continuità della violenza nei secoli.
Ogni forma di violenza, per Hughes, evoca una forma di energia più grande,
ossia l’energia fondamentale dell’universo. Questa energia naturale dovrebbe essere controllata e frenata dai principi etici e dalla religione. Ogni volta che l’etica e la
religione non riescono a controllare questa energia gli istinti dell’uomo si scatenano
nelle forme più atroci di violenza; questo è il messaggio che va visto, a livello metaforico, nella crudeltà degli animali.
Nel mondo moderno, secondo il nostro autore, l’uomo ha poca fiducia nella
religione e coltiva soltanto la razionalità, trascurando i sentimenti, l’immaginazione, gli istinti e, così facendo, si allontana dall’energia universale.
Tuttavia, in Crow’s First Lesson, Crow’s Theology e in Love Song, poesie
della collezione intitolata Crow (1970), Hughes mostra la speranza per un risveglio
della fede religiosa e dell’amore degli uomini.
Infatti, in Crow’s First Lesson, il poeta presenta Dio nel tentativo di insegnare a Corvo a parlare e ad amare (vv. 1-9 God tried to teach Crow how to talk./
”Love”, said God.”Say Love” […] “No, no” said God, “Say Love. Now try it.
Love”[…] “A final try” said God. “Now, Love”12 ).
Corvo, però non era ancora pronto per il messaggio di amore e “volò via
colpevolmente”.
11
“Guardare questa fotografia potrebbe a ragione rendere dementi, / simili orrori contraddittori e durevoli qui”.
12
“Dio tentò di insegnare a parlare a Corvo./ “Amore” disse Dio.”Dì Amore” […] “No, no”, disse Dio.
“Dì Amore. Ebbene prova . Amore” […] “Un ultimo tentativo” disse Dio. “Ebbene, Amore”.
263
Il tema della violenza e le strutture profonde in Relic di Ted Hughes
Crow’s Theology mostra, invece, una certa crescita spirituale di Corvo che
ora è consapevole del grande amore di Dio verso di lui (v. 1 “Crow realized God
loved him”: Corvo capì che Dio lo amava).
Dio come segno del suo grande amore parla il linguaggio di Corvo per comunicare con lui (v. 5 “And he realized that God spoke Crow”: E capì che Dio
parlava al corvo) .
In queste due poesie, Dio che tenta di comunicare con Corvo mostrandogli
tutto il suo amore può rappresentare la metafora di Dio, che tende la sua mano
all’uomo per aiutarlo ad abbandonare i suoi istinti di violenza e a convertirsi alla
legge dell’amore.
Infine, in Love Song Hughes affronta il tema dell’amore umano presentando
una coppia felice con il ritmo incalzante che gli è consueto, sostenuto da violente
immagini fisiche (“Her embrace was an immense press/To print him into her bones
[…] His caresses were the last hooks of a castaway [...] His promises were the
surgeon’s gag [...] Her promises took the top off his skull13 ).
Le iperboli enfatizzano, in questi versi e in tutta la poesia, la forte passione
dei due amanti. Negli ultimi cinque versi il poeta celebra il miracolo dell’amore con
termini quasi biblici, poiché i due amanti diventano un solo corpo ed una sola anima fino al punto da scambiarsi parti del loro corpo:
Their heads fell apart into sleep like the two halves
Of a lopped melon,but love is hard to stop
In their entwined sleep they exchanged arms and legs
In their dreams their brains took each other hostage
In the morning they wore each other’s face.14
Queste poesie della collezione Crow sono una riconferma che la poesia di
Ted Hughes non è una glorificazione della violenza; rispetto a Relic che celebra la
violenza tout court esse mostrano che l’energia naturale può essere controllata se
l’uomo comunica con il divino e con i suoi simili.
13
“L’abbraccio di lei era un torchio immenso /per stamparlo nelle sue ossa […] le carezze di lui erano gli
ultimi ami di un naufrago/ le promesse di lui erano l’apribocca del chirurgo/ le promesse di lei gli scoperchiavano
il cranio.
14
vv. 40-44 “Le loro teste si staccavano nel sonno come le due metà di un melone spaccato, ma l’amore è
duro da fermarsi /nel loro sonno intrecciato si scambiavano braccia e gambe/ nei loro sogni i loro cervelli/
prendevano l’un l’altro a ostaggio/ al mattino portavano l’uno il viso dell’altro”.
264
Franco Mercurio
Cento autori per cento anni
di Franco Mercurio
Parlare di un secolo di forti transizioni in tutti campi del sapere qual è, appunto, il Novecento può, forse, risultare anacronistico, ora che lo abbiamo lasciato
alle spalle. Eppure, ancora oggi ci sentiamo figli del Novecento anziché del Duemila, forse per la difficoltà di riconoscerci nell’era del nuovo millennio super tecnologico, più probabilmente perché ci sentiamo ancora idealmente legati quella fucina
di idee che ha segnato in maniera indelebile le coscienze degli uomini e i destini di
popoli e nazioni. A questo si potrebbe obiettare, parafrasando Wilde, che, Novecento o Duemila che sia, è “l’uomo che crea la sua storia” e che qualunque etichetta
le si voglia mettere, non c’è dubbio che essa faccia il suo corso. Eppure, da epigoni
di un passato che non ritorna, e consapevoli del ruolo intrinseco di una biblioteca,
il contenitore per eccellenza della memoria scritta, abbiamo deciso di rendere omaggio agli autori, italiani e stranieri, che hanno scandito quello che per definizione è
divenuto “il secolo breve”. Intellettuali, scienziati e artisti hanno raccontato una
realtà in accadimento. E molti di loro hanno segnato un’epoca. Per questo motivo
la Biblioteca Provinciale, segnando un passaggio appunto “epocale”, intende rendere omaggio agli autori che hanno caratterizzato il Novecento. E lo fa con un’iniziativa già in corso d’opera, dal titolo “cento autori per cento anni”. Su segnalazione degli stessi cittadini, o studenti, docenti e intellettuali, raccoglieremo tutte le
opere a stampa degli autori prescelti, in modo da offrire l’opportunità di conoscere
l’intera produzione letteraria di questi cento significativi scrittori. Una vera e propria “consultazione popolare” per segnalare gli autori, italiani e stranieri, è già iniziata: un apposito coupon è in distribuzione, oltre che all’interno di questa rivista,
nelle librerie, nei circoli culturali, nelle scuole, nelle edicole e sul sito ufficiale
www.bibliotecaprovinciale.foggia.it.
Crediamo nella bontà dell’iniziativa, che durerà un anno, nella sua intrinseca
utilità e nella possibilità che la stessa offre ai lettori di allargare il panorama delle
proprie conoscenze. Per la Biblioteca, “Cento autori per cento anni”, oltre a rappresentare un indubbio “monumento” al secolo passato, sarà la prova tangibile
dell’osmosi tra cittadini e istituzione culturale. Nella certezza, come ci ricorda
Wystan Hugh Auden che “l’uomo è una creatura che crea la storia e che non può
ripetere il proprio passato. Ma neanche lasciarselo alle spalle”.
265
266
Marcella Cardilli e Marianna Iafelice
Il fondo D’Urso
di Marcella Cardilli e Marianna Iafelice
I libri appartenuti al medico Giuseppe D’Urso (1875-1935) costituiscono il
primo fondo della Biblioteca Provinciale di Foggia catalogato interamente in maniera elettronica tramite l’utilizzo del software di catalogazione SeBiNa. Il fondo,
costituito complessivamente da 2305 volumi, tra i quali 50 pubblicati anteriormente al 1830, è stato donato alla biblioteca dal figlio Luigi, desideroso che il ricordo
del padre, medico condotto di Rocchetta Sant’Antonio, restasse vivo nella memoria della comunità.
Già da un’analisi sommaria dei volumi emerge la vastità degli interessi di
questo medico sui generis, appassionato studioso della malaria, sempre attivo al
fianco dei più deboli per tutelarne non solo la salute ma anche gli interessi economici e politici, amante della storia e della letteratura soprattutto classiche.
Nato a Solofra (Avellino) nel 1875, D’Urso compie i suoi studi di medicina
dal 1892 presso l’università di Napoli dove ebbe rapporti con due grandi studiosi
della malaria Giovan Battista Grassi (1856-1925)1 e Angelo Celli (1857-1914)2 che
esercitarono su di lui una notevole influenza, indirizzando il suo interesse verso
l’approfondimento dei problemi malarici. Appare per tali ragioni singolare la presenza di soli venticinque testi riguardanti la malaria e fra questi di soli quattro volumi di malariologi così importanti come Celli e Grassi. Questi si riferiscono in modo
specifico al problema della malaria nelle campagne romane: Storia della malaria
nell’agro romano, Malaria e colonizzazione nell’agro romano dai più antichi tempi
ai nostri giorni, La malaria (monografia facente parte del Trattato italiano di igiene
diretto da Oddo Casagrandi) di Angelo Celli e Seconda relazione della lotta antimalarica a Fiumicino di Battista Grassi. Rilevante la presenza di quelle che furono
probabilmente le uniche opere di Francesco Genovese (1873-1945) coetaneo di
D’Urso cresciuto anch’egli nell’ambiente dell’ateneo napoletano e interessato soprattutto all’incidenza della malaria in Calabria: La malaria in provincia di Reggio
1
Grassi individuò nelle zanzare Anopheles l’agente responsabile della trasmissione della malaria. Studiò
il ciclo vitale del plasmodio, responsabile di quella malattia e mise in atto la profilassi antimalarica nella campagna romana. Cfr. Dizionario enciclopedico Treccani, v. XVII, p. 750.
2
Celli insieme con Ettore Marchiafava riuscì a trasmettere sperimentalmente l’infezione malarica umana
con iniezioni intravenose di sangue parassitato. Nel 1885 i due studiosi identificarono il parassita della malaria
come protozoo, proponendo il nome Plasmodium. Cfr. Dizionario enciclopedico Treccani, v. IX, p. 663.
267
Il fondo D’Urso
Calabria, La malaria in Calabria, Il clima antico della Magna Grecia e la malaria
attuale di Focà. Tra i testi sulla malaria è importante segnalare le due opere (Le
paludisme macedonien e Malaria e tripanosomiasi) di Alphonse Laveran <18451922> premio Nobel nel 1907 per aver individuato per primo il parassita responsabile dell’infezione. Ad interessare D’Urso è soprattutto il problema dell’incidenza
e dell’indagine delle cause della diffusione della malaria e di altre malattie infettive
nell’Italia meridionale come emerge dalla presenza di opere come quelle di Ettore
Marchiafava e Amico Bignami (L’infezione malarica), Angelo Ricciardi (Ammaestramenti di un’epidemia di vaiuolo nel Mezzogiorno d’Italia, La malaria nel Mezzogiorno d’Italia), Giuseppe Sanarelli (Lo stato attuale del problema malarico),
Giuseppe Tropeano (Il problema della malaria, Le cause sociali della malaria nel
Mezzogiorno, La clinica della malaria nel Mezzogiorno d’Italia), Antonio Vitulli
(L’epidemia di colera del 1836-37 in Capitanata).
In linea con i suoi studi, D’Urso operò attivamente a Rocchetta nella lotta a
questa dilagante malattia. Divenne, infatti, direttore della stazione anti-malaria e fu
valido sostenitore della legge sul Chinino di Stato proposta in Parlamento nel 1900
da Angelo Celli, dimostrando che la somministrazione del chinino a Rocchetta aveva
determinato una notevole diminuzione dell’incidenza di tale malattia. Numerosi
furono gli opuscoli da lui scritti e le conferenze organizzate agli inizi del ‘900 in
polemica con il mondo politico locale che per D’Urso era in parte responsabile
della diffusione della malaria a Rocchetta. D’Urso, infatti, nell’indagare le cause
della diffusione di tale infezione, le collegava al taglio del bosco comunale deciso
dall’Amministrazione Ippolito e avvenuto nel 1895, causa di una gravissima alterazione ambientale. Risulta, a questo proposito, davvero particolare e interessante la
totale assenza nel fondo donato alla biblioteca dei testi da lui scritti che, secondo
quanto affermato dal Libertazzi in una conferenza sulla figura di Giuseppe D’Urso
del 1993, ammonta ad una decina di opuscoli.
Di soli cinque testi abbiamo notizie concrete. Quattro sono conservati nella
Biblioteca provinciale Scipione e Giulio Capone di Avellino, provincia della quale
Rocchetta all’epoca di D’Urso e fino al 1939 faceva parte: La malaria nel Comune
di Rocchetta S. Antonio durante il quinquennio 1904-08, Avellino, Litotip. Pergola,
1910, Malaria e polmonite, Napoli, Tip. Melfi-Joele, 1913 e La lotta contro la malaria, Napoli, La forza, (1900?) e La lotta contro la malaria: l’opera di Angelo Celli,
Melfi, Tip. Mario Del Secolo, 1925. Uno, invece, è reperibile nel Fondo Locale
della Biblioteca Provinciale di Foggia, La questione secolare degli usi civici a
Rocchetta S. Antonio, Foggia, Daunia Sud, 1993 che raccoglie documenti che
attestano quale fu l’altra grande tensione ideale che animò D’Urso negli anni di
permanenza a Rocchetta (dal 1901 alla morte): la volontà di combattere al fianco
dei più deboli nella secolare lotta per la definizione degli usi civici. Il far dipendere
la diffusione della malaria da un fattore socio-economico, sottolineando con forza
la necessità di un rimboschimento, collega la lotta per risanare l’ambiente a quella
per la giusta definizione dei demani usurpati, che in D’Urso si concretizza in una
battaglia contro i Piccolo, membri del notabilato locale, per le Difese di Buglia e
268
Marcella Cardilli e Marianna Iafelice
Montalvaro. Nonostante tali premesse, ci troviamo di nuovo davanti ad un’imbarazzante assenza. È presente nel fondo D’Urso un solo testo sugli usi civici, Usi
civici di Aristide Granito, e nulla che possa testimoniare gli studi di D’Urso sulla
realtà demaniale di Rocchetta.
Sottolineata questa singolare discordanza tra la passione politica e sociale di
D’Urso e ciò che è presente tra i suoi libri, occorre rilevare la prevedibile (anche se
D’Urso ci ha abituato alle sorprese) presenza di un numero considerevole di manuali specifici delle varie branche delle scienze mediche. Da segnalare la presenza di
numerosi volumi appartenenti a importanti collezioni come la Biblioteca di terapia
dell’editore Vallardi (8 v.), la Collezione di manuali di medicina della UTET (18 v.),
Manuali del Policlinico dell’editore Pozzi (17 v.), Atlanti di medicina della Società
editrice libraria (10 v.) e trattati in più volumi di rilevante spessore come il Manuale
di igiene di Vincenzo De Giaxa (1848-1928) di 4 volumi, Manuale di chirurgia di
Roberto Alessandri (1867-19488 in 5 volumi, Trattato completo di patologia e terapia speciale medica diretto da Achille De Giovanni (1838-1916) per l’editore Vallardi
(9 v.), Trattato delle malattie dei paesi tropicali di Karl Mense (4 v.), Trattato di
medicina interna di Leo Mohr (1874-1918) e Rudolf Staehelin (1875-1943) in 9
volumi, Trattato completo di anatomia umana di J. Quain (v. 6), Trattato di medicina sociale diretto da Angelo Celli e Augusto Tamburini (1848-1919) (21 v.), Nuovo trattato di medicina e terapia dell’editore UTET (19 v.).
A questo nucleo principale, si affianca un numero consistente di opere storiche da quelle, più numerose, sulla storia antica di Grecia e di Roma con la rilevante
presenza di nomi del calibro di Ettore Pais (1856-1939>) Corrado Barbagallo (18771952), Michele Rosi (1864-1934) e del premio nobel Theodor Mommsen (18171903), a quelle di illustri meridionalisti come Giustino Fortunato (1777-1862) che
fu amico di D’Urso, Pasquale Villari (1826-1917), Gaetano Salvemini (1873-1957),
Ettore Ciccotti (1863-1939), Napoleone Colajanni (1847-1921).
Uno sguardo più approfondito rivela, infine, un nutrito gruppo di libri di
letteratura italiana e straniera, nel quale emergono quantitativamente le collane di
Classici italiani dell’Istituto editoriale italiano (38 v.) e I grandi scrittori stranieri
dell’editore UTET (18 v.).
Anche i cinquanta volumi stampati anteriormente al 1830 rispecchiano i nuclei tematici emersi dell’analisi del fondo moderno.
Cominciando l’analisi dalle fonti per la storia antica bisogna soffermarsi in
primo luogo sui 16 volumi degli Annali d’Italia di Ludovico Antonio Muratori
(1672-1750), editi a Napoli da Tommaso Alfano nel 1758. Pur non essendo una
bella ed elegante edizione, come emerge osservando la carta non proprio di buona
qualità e i caratteri non estremamente ricercati, questa ha la particolarità di possedere sul frontespizio la stessa marca tipografica, se di marca si può ancora parlare
3
Il Pasquali stampa per due volte a Milano questa stessa opera, una prima volta nel 1744-49 e poi nel
1753-56.
269
Il fondo D’Urso
nel XVIII secolo, utilizzata dallo stampatore veneziano Giambattista Pasquali3 . La
presunta marca, di cui viene riprodotto anche lo stesso motto La felicità delle lettere, raffigura Minerva, dea della sapienza, guerra e vittoria, rappresentata con elmo,
scudo e libro. La particolarità di questo frontespizio è proprio quella del riuso di
una marca che, largamente usata nelle sue diverse varianti iconografiche già nel
XVI secolo, da editori come il Percacino, il Nicolini, il Cesano, è una costante nel
Pasquali, ma non nell’Alfano. Infatti, per Alfano l’uso di tale marca è un fenomeno
sporadico come lo è per altri stampatori editori napoletani del XVIII sec., quali V.
Perez (1782), G. Gravier (1760) o G. Castellano (1793), che la utilizzano solo in
alcune loro edizioni, facendole così perdere il ruolo di contrassegno della propria
tipografia, e, di conseguenza, facendole assumere il ruolo di semplice fregio. Tale
fenomeno è sicuramente da approfondire nelle sue cause che potrebbero essere individuate in seguito ad una più dettagliata analisi del contesto storico istituzionale
in cui tali stampatori editori operavano4 .
I volumi di interesse storico della parte antica del fondo D’Urso non si fermano però al colossale lavoro storiografico del Muratori, ma comprendono pure I
Rudimenti di Storia di Domenico Martuscelli, Della vita privata de’ romani tradotta da Domenico Amato, e una Storia della regia città di Ariano di Tommaso
Vitale edita a Roma dal Salomoni nel 1774, di cui un esemplare è conservato presso
la Biblioteca del Senato della Repubblica, Catalogo degli Statuti5 . Oltre a questi va
citata anche la terza edizione dell’opera L’Italia avanti il dominio dei romani dell’erudito Giuseppe Micali (1769-1844), che nel 1810 ottenne dall’Accademia della
Crusca la vittoria al Concorso Napoleonico e che destò vivissime polemiche perché, presentando la storia antica non più solo in funzione di Roma, apriva una
visione innovatrice per la cultura italiana del tempo. I quattro volumi che D’Urso
conservava sono quelli stampati a Milano da Giovanni Silvestri nel 1826, facenti
parte della collezione Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne.
La passione per la medicina che ha caratterizzato tutta la vita di G. D’Urso, si
palesa con due opere: il primo tomo del Trattato de’ mali dell’ossa di Jean Luis Petit
(1674-1750) e Il corpo umano di Alessandro Pascoli (1669-1757) cui è allegato un
piccolo trattato intitolato De fibra motrice e morbosa di Giorgio Baglivi (16691706), considerato il maestro dei clinici italiani, la cui opera è ritenuta fondamentale
nella storia della fisiologia dei muscoli. Di entrambe queste opere sono rilevanti le
incisioni: per l’opera di Jean Louis Petit, stampata a Napoli nel 1775 da Vincenzo
4
Nell’editoria settecentesca napoletana si verificano frequentemente fenomeni di ripresa (o imitazione ?)
di costanti editoriali proprie dell’area veneziana e padovana. Tali fenomeni mettono in risalto come per alcuni
stampatori napoletani dell’epoca passi in secondo piano l’importanza di tramandare il proprio nome e come
non è più fondamentale quell’“aspirazione all’immortalità” (G. ZAPPELLA, Le marche dei tipografi e degli
editori italiani del Cinquecento, Milano, Editrice Bibliografica, 1998, p. 6) che animò le celebri imprese tipografiche del XVI sec. e che in un certo qual modo continua ad animare le mosse di tipografie quali i Baglioni,
i Volpi Comino, i Remondini.
5
Biblioteca del Senato della Repubblica, Catalogo degli Statuti, colloc. 112. VII.14.
270
Marcella Cardilli e Marianna Iafelice
Orsino a spese di Felice Ippolito, sono state realizzate da quello che è considerato
dall’Antolini 6 il più importante esponente di una delle più famose dinastie di incisori
napoletani, Filippo de Grado, attivo a Napoli nel XVIII sec., collaboratore alle
incisioni delle Antichità di Ercolano, edite nel 17537 . Per l’opera Il corpo umano
dell’anatomista Alessandro Pascoli, stampata nel 1712 a Venezia da A. Paoletti, oltre alle tavole di anatomia incise da P. Garnoud, sono rilevanti l’antiporta e il ritratto dello stesso Pascoli, incisi da Girolamo Frezza (1659?-1737). La presenza di tale
ritratto, citato dal Bolaffi8 come unico esempio di opera di questo genere eseguita
dal pittore Giuseppe Laudati9 (1660-1737), conferisce un valore notevole a tutto il
trattato.
Prima di concludere l’analisi della parte antica del fondo non si può tralasciare l’opera di de Samuele Cagnazzi Luca (1764 –1852), uno degli uomini più illustri
di Altamura (Bari), economista, matematico, enciclopedista, autore di numerose
pubblicazioni tra le quali D’Urso conserva il famoso Saggio sulla popolazione del
Regno di Puglia edito nel 1820 a Napoli da Angelo Trani, la cui seconda parte è
pubblicata nel 1839 dalla Tipografia della Società Filomatica.
Una completa analisi della totalità di questo fondo non può non porre l’accento sulla rilevanza di testi privi di legature originali e fatti rilegare da D’Urso con
coperte dai piatti rigidi in mezza tela o in mezza pergamena con dorsi che riportano
impressi, oltre al cognome dell’autore e al titolo dell’opera (spesso non ripreso fedelmente ma abbreviato), anche le iniziali del possessore.
Un’ultima curiosità è quella riguardante la presenza di testi privi di coperta e
frontespizio, spesso mutili anche nel numero delle pagine, per l’identificazione e la
catalogazione dei quali si è proceduto ad una complessa ricerca incrociata su varie
fonti: repertori bibliografici, quali il CUBI o il DBI, e OPAC di biblioteche italiane
e straniere.
6
Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1960-, vol. 36, p. 192.
Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori, e degli incisori italiani dall’XI, al XX secolo, Torino, Giulio
Bolaffi Editore, 1974, Vol. VI, p.128.
8
BOLAFFI, op. cit., vol. VI, p. 364.
9
Si formò a Roma alla scuola del Maratti, Nel 1713 dipinse il baldacchino dell’altare maggiore del Duomo di Perugia e cinque anni più tardi la pala dell’altare maggiore di Santa Maria di Colle. BOLAFFI op. cit., vol.
VI, p. 364.
7
271
272
Rossella Palmieri
Luciano Violante. Cantata per la festa
dei bambini morti di mafia 1
di Rossella Palmieri
Può un'opera contenere in sé, ossimoricamente, la vita e la morte, la festa e il
dolore? E può una persona da sempre politicamente impegnata "cimentarsi" anche
con la poesia, anzi con una particolare forma di racconto, la cantata? Eppure c'è
tutto il suo sud in questo opuscolo di Luciano Violante, leggero nel numero delle
pagine, settanta, pesante nel contenuto, che abbraccia gli omicidi di mafia dalla fine
degli anni '70 al 1993. "Mi scuso con i poeti: non ho inteso, né avrei saputo, entrare
nel loro campo", spiega con umiltà lo stesso Violante nella sua presentazione. Ma la
cantata, antica forma di racconto tipica del Mezzogiorno d'Italia e di tutto il bacino
del Mediterraneo che parte dalla realtà e la sviluppa in una trama libera, ben si
presta a dare voce a un dolore appena soffocato dai versi sciolti che cantano di fiori,
giochi e bambini. Di un'innocenza perduta quando la giovane età esigeva altro.
Apprendiamo così, come in una stanca litania che immaginiamo aver accompagnato i sonni e i sogni di tanti bambini siciliani, cullati dalle loro madri o dalle loro
nonne, alcune storie agghiaccianti. Come quella di Giuseppe Letizia, pastore di
Corleone di 12 anni e involontario testimone dell'omicidio del sindacalista Placido
Rizzotto. Fu ucciso con un'iniezione da Michele Navarra, boss di Cosa Nostra e
primario dell'ospedale di Corleone dove il ragazzo era stato portato dai genitori su
segnalazione dello stesso Navarra. O come le altre, non meno toccanti, dei gemelli
Rizzo, Salvatore e Giuseppe, che morirono insieme alla madre Barbara vicino Trapani, quando, per un fatale gioco della sorte, la donna sorpassò l'autovettura del
giudice Carlo Palermo interponendosi tra la macchina del giudice e il contenitore
dell'esplosivo. E così, in un gioco di versi che mescola bouganville in fiore e riciclatori
suadenti, uomini onesti e famiglie spezzate, amori distrutti e onore violato, Violante "legge" la Sicilia. E cita anche il Gargano, "terra di dolori e di bambini pastori",
prima di ritornare di nuovo alla storia, quella degli eventi bellici. Quando a Cassibile,
nelle trattative precedenti l'armistizio del 3 settembre 1943, venne discussa l'utiliz-
*
Luciano Violante, Cantata per i bambini morti di mafia, Torino 1994, Bollati Boringhieri. Prendendo
spunto da alcuni passi tratti dal libro dell’ex presidente della Camera, l’Amministrazione Provinciale ha già
realizzato un primo incontro nel mese di gennaio. A maggio è previsto l’allestimento scenico realizzato dalla
compagnia teatrale “Cerchio di gesso” presso il Tribunale della Dogana.
273
Luciano Violante. Cantata per la festa dei bambini morti di mafia
zazione di Cosa Nostra per sostenere il partito separatista e Cosa Nostra stessa
agevolò lo sbarco degli alleati in Sicilia. E non meno significativa l'esperienza di
Peppino Impastato, militante di Democrazia proletaria impegnato in una campagna sostenuta da una radio privata contro il boss mafioso Tano Badalamenti. Fu
bollato come anarchico attentatore e il suo assassinio passò sotto silenzio perché in
quei giorni l'Italia, con l'omicidio di Aldo Moro, viveva uno dei momenti più drammatici della sua storia. E poi, ancora, nella lunga carrellata di Violante, oltre ai bambini trovano posto i giornalisti, da Mario Francese a Giuseppe Fava, coraggiosi
nell'attaccare le connivenze esistenti a Catania tra mafia, politica e finanza, parroci
impavidi pronti a offrire i loro petti dal pulpito e dirigenti della squadra mobile
dediti al loro lavoro. E finendo con l'omicidio di Paolo Borsellino, ucciso il 25
luglio del 1992, che chiude idealmente questo triste valzer di morte. A vivificarlo,
forse, solo quel titolo di speranza, disperato. Si canta a una festa. Per ricordare i
bambini morti di mafia.
274
Rossella Palmieri
Gianna Schelotto. Per il tuo bene 1
di Rossella Palmieri
“Se il buon Dio avesse dotato il nostro apparato psichico di un sistema d’allarme simile a quei sofisticati congegni antifurto che emettono suoni assordanti al
solo percepire il ronzio di una mosca o il battere d’ali di una farfalla, probabilmente
emetteremmo un gran frastuono ogni volta che qualcuno, portandosi la mano al
cuore, ci dice “Faccio questo per il tuo bene”.
Così recita la postfazione del libro di Gianna Schelotto, al termine di una
sequenza che si snoda su tre storie tanto semplici nella trama quanto complesse da
sviscerare per chi le vive: un giovane che solo in età adulta scopre di essere un figlio
adottivo, un altro che assiste impotente all’infedeltà della moglie, infine un vecchio
che, malato di Alzheimer, viene esautorato della sua autonomia in maniera traumatica e prima del previsto. Ma sui tre racconti serpeggia, inquietante, l’interrogativo
che ognuno di noi, da madre, padre, moglie marito, figlio o innamorato, almeno
una volta si è posto nella vita: è giusto “proteggere” chi amiamo da un mondo
costantemente pericoloso? O dobbiamo consentire le naturali esplorazioni e favorire le inclinazioni di ciascuno, anche quando non si conformano alle nostre? Troppo spesso, commenta la psicoterapeuta, le ingerenze, la pretesa di sapere ciò che
serve all’altro, le manipolazioni e i sotterfugi sono la comoda copertura di angosce
personali. Si creano così rapporti non maturi, ma di vera e propria dipendenza affettiva che, diventando la premessa di ricatti e frustrazioni future, il più delle volte,
fanno fallire quella grande scommessa con se stessi che è la vita in comune. Eppure,
quanto è difficile stabilire il confine tra premura e ottusa intrusione, quanto complicato far sentire il proprio compagno, o figlio o familiare trattenuto e sicuro ma
allo stesso tempo libero nei movimenti, quanto arduo, insomma, risolvere il problema dell’ambiguo equilibrio tra autonomia e dipendenza. C’è il rischio, sempre
dietro l’angolo, di proteggere senza esporre, che non garantisce il graduale e naturale passaggio dall’infanzia all’età adulta e che spesso si rivela un vero e proprio
boomerang: le paure che da bambini i genitori volevano evitare ai figli si ripresentano “da grandi” sotto forma di paranoie, fobie o comportamenti distorti. E le cronache sono piene di storie di bambini che, picchiati dai genitori e convinti di aver
1
Per il tuo bene, Mondadori Editore, Milano 2001, E 14,46. Il libro della psicoterapeuta e scrittrice
Gianna Schelotto rientra nel “Progetto Lettura” promosso dall’assessorato alle Politiche Sociali dell’Amministrazione Provinciale e volto ad avvicinare i giovani delle scuole superiori al piacere della buona lettura. La
stessa Schelotto per due volte è stata ospite della Provincia per discutere del disagio giovanile.
275
Gianna Schelotto. Per il tuo bene
meritato quelle botte perché indegni e cattivi, ripropongono il medesimo schema
comportamentale nel proprio nucleo familiare. Sembra salvarsi, in queste storie di
naufragio che cessa di essere tale solo alla fine, quando all’ultima spiaggia ci si appropria finalmente della propria esistenza, il sentimento dell’amore. I personaggi,
tutti con nomi fittizi, hanno in sé la capacità intrinseca di amare e dal pensiero di
essere amati fanno derivare la maggior parte delle proprie sicurezze; ecco perché
risulta dolorosa e inaccettabile l’idea che proprio l’amore - o ciò che si presenta
come tale - possa in certi casi essere dannoso e distruttivo.
Quasi duecento pagine, in conclusione, servono alla Schelotto per illustrare
con esempi tratti dalla vita reale quello che dovrebbe essere per tutti un dato acquisito, al punto da darlo per scontato: è, forse, solo un’illusione quella di immaginare
che esista un amore così accorto da riuscire a dare solo e sempre quello che serve. E
ancor più complicato scoprire quell’ambiguo equivoco, che induce spesso all’errore, tra amare per bisogno - tipico della fase infantile - e amare per scelta, vera conquista dell’essere con consapevolezza “nel mondo dei grandi”.
276
Gli autori
Gli autori
Carine Bizimana, nata in Burundi, vive a Foggia da sei anni. Fa parte della
cooperativa Xenia che cura i rapporti con gli immigrati. Collabora attivamente con
l’assessorato alle politiche sociali della Provincia e cura una rubrica di approfondimento sociale per l’emittente televisiva “Teleradioerre”.
Marcella Cardilli si è laureata in Lettere classiche presso l’Università degli
studi di Bari con una tesi in Storia della storiografia greca. La sua formazione postuniversitaria varia da corsi di perfezionamento in didattica a corsi di formazione in
vari campi quali la biblioteconomia, l’informatica e la comunicazione.
Ha collaborato con la biblioteca comunale di Barletta e con quella di Lucera.
Ha insegnato materie letterarie e latino in diversi licei di Foggia e provincia. Da due
anni si occupa di catalogazione del libro moderno presso la Biblioteca provinciale di
Foggia.
Mons. Domenico D’Ambrosio è nato a Peschici il 15 settembre 1941. Ha
studiato presso il Seminario Arcivescovile di Manfredonia, completando gli studi
liceali nel Seminario Interregionale di Benevento e quelli filosofici e teologici presso
la Facoltà teologica di Posillipo di Napoli, conseguendo la Licenza in Sacra Teologia. È
stato ordinato sacerdote il 19 luglio 1965 a Peschici da mons. Andrea Cesarano, dove
ha svolto la sua attività a Manfredonia come docente di lettere e vice preside del liceoGinnasio “Sacro Cuore”; come rettore del Collegio Arcivescovile e come assistente
della Gioventù Studentesca, movimento da lui stesso fondato.
Verso la fine del 1969 mons. Antonio Cunial, succeduto a mons. Cesarano, lo
destina a San Giovanni Rotondo. Nella parrocchia di san Leonardo ha inizio per lui
un’attività ventennale che si esplica in tutte le forme. Tra la fine del 1972 e l’inizio del
1973 ha trascorso una quarantina di giorni nel deserto algerino di Beni Abbés, in un
intenso ritiro spirituale dal quale è ritornato con rinnovato entusiasmo. Nell’anno
del Giubileo mons. D’Ambrosio ha modo di conoscere a fondo la realtà ecclesiale di
Foggia-Bovino. Molteplici le occasioni di incontro anche con la società civile: politici, amministratori locali, esponenti della classe culturale foggiana trovano in mons.
D’Ambrosio un attento interlocutore.
Giuseppe Fagnocchi è nato a Faenza (Ravenna) nel 1960. Dopo la maturità
scientifica conseguita con il massimo dei voti, si diploma a pieni voti in Pianoforte
presso il Conservatorio “Venezze” di Rovigo e successivamente con il massimo dei
voti in Clavicembalo presso il Conservatorio “Rossini” di Pesaro. Premiato undici
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Gli autori
volte in Concorsi nazionali ed internazionali di esecuzione musicale di Musica da
Camera, svolge attività concertistica come pianista e clavicembalista prevalentemente in duo con la moglie Elena Cornacchia, flautista. Nel 1999 pubblica il saggio Lineamenti di Storia della Letteratura flautistica per l’editore Moby Dick di Faenza; particolarmente interessato al pensiero e alla produzione musicale del XX secolo Giuseppe Fagnocchi svolge anche attività di conferenziere e ha al suo attivo la pubblicazione di vari articoli. È insignito dell'onorificenza di Cavaliere dell’Ordine equestre
di San Silvestro Papa. Vincitore di Concorso ordinario per titoli ed esami è titolare di
una cattedra di Musica da Camera presso il Conservatorio “Giordano” di Foggia.
Luigi Gatta, (Mattinata, 1945), al lavoro di routine per “Poste
Italiane”, affianca una puntuale ricerca storica, fatta sulle fonti documentarie negli
archivi pubblici di Capitanata (di Stato, comunali e diocesani). Ha pubblicato “Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900” edita da Claudio Grenzi Editore di Foggia. Ha collaborato con la rivista del Centro Studi Garganici di Monte Sant’Angelo “GarganoStudi”.
Francesco Giuliani è nato nel 1961 a San Severo. Laureato in Lettere presso
l’Università di Bari, insegna nel Liceo Classico “Fiani” di Torremaggiore. Dal 1998 è
cultore della materia presso la Cattedra di Letteratura Italiana della Facoltà di Lingue dell’Università di Pescara. Nell’ambito dell’Italianistica svolge un’attività di ricerca imperniata, da una parte, sulla valorizzazione degli autori pugliesi, dall’altra,
sull’analisi di personaggi e momenti della storia letteraria nazionale. Insegna “Letteratura teatrale” nella neonata Accademia “Verdi” di San Severo; dal 1998 è socio
ordinario della “Società di Storia Patria per la Puglia”; dal 2000 è consulente della
Città di San Severo per l’attivazione dei corsi di laurea decentrati dell’Università di
Foggia. Da poco ha pubblicato un volume sull’ultimo Carducci dal titolo Il rondò, le
torri e la Certosa.
Marianna Iafelice, nata a San Severo nel 1971, si è laureata in Conservazione
dei Beni Culturali, Indirizzo dei Beni Archivistici Librari presso L’Università degli
studi di Udine, per poi specializzarsi a Bari nella catalogazione informatizzata del
libro antico.
Di recente ha conseguito il Diploma della Scuola biennale di Archivistica
Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Bari.
Si è sempre dedicata alla schedatura dei libri antichi e in particolare ha coordinato quella degli incunaboli e delle cinquecentine della biblioteca comunale di San Severo, finalizzata alla realizzazione di un catalogo su cd-rom dal titolo “Gli incunaboli e le
cinquecentine della Biblioteca Comunale A. Minuziano di San Severo”.
Nel 2000 le è stata affidata dalla COMES ATP, la redazione di una ricerca
storica, libraria e archivistica da allegare al progetto di ristrutturazione e
riqualificazione funzionale dell’immobile di pregio che ospita l’Istituto Talassografico
Sperimentale “A. Cerruti” del CNR di Taranto.
Ha pubblicato sulla rivista “Carte di Puglia” un saggio dal titolo Per l’identifi278
Gli autori
cazione di un fondo settecentesco conservato presso la Biblioteca Comunale R. Bonghi
di Lucera.
Attualmente sta effettuando la catalogazione informatizzata del fondo antico
della Biblioteca Provinciale di Foggia.
Geppe Inserra, giornalista pubblicista, è dirigente del “Servizio Informazione
e Cultura” della Provincia di Foggia.
Franco Mercurio, laurea in filosofia e specializzazioni post-laurea in ambito
storico e amministrativo. Direttore della Biblioteca Provinciale di Foggia, è responsabile del coordinamento interprovinciale delle quattro province di Avellino,
Benevento, Campobasso e Foggia. Numerose attività di docenza fra cui, ultima, dal
1997, presso l’istituto universitario di Architettura di Venezia, Laurea in pianificazione territoriale urbanistica e ambientale, corso di “Storia delle città e del territorio”. Autore e curatore di numerose pubblicazioni fra cui La frontiera del Tavoliere.
Agricoltura, bonifiche e società nel processo di modernizzazione del Mezzogiorno tra
’800 e ’900, Foggia, 1990; Classi dirigenti o ceti dominanti? Breve storia di Foggia in
età contemporanea, in corso di stampa.
Rossella Palmieri, laureata in Lettere classiche, ha svolto il dottorato di ricerca in Filologia greca e latina presso l’Università di Bari. Nel corso degli anni ha frequentato tre corsi di perfezionamento in culture classiche e moderne e in metodologia
della letteratura italiana. Ha pubblicato su riviste specializzate due articoli di Cicerone e uno di Seneca. Giornalista pubblicista, collabora con la testata “La Gazzetta del
Mezzogiorno”.
Fabio Prencipe (Foggia, 1966), laureato in Giurisprudenza, si occupa di organizzazione e promozione di festival e rassegne cinematografiche, svolgendo anche
attività di produzione. Collaboratore della FICC per l’Italian Film Festival di
Stoccolma, è ideatore e direttore dal 1995 di Garganocinema, manifestazione dedicata al cinema italiano. Nel 1996 ha pubblicato il volume In fondo al mare - il cinema di
Francesco De Robertis (Edizioni del sud - Modugno Bari) e nel 1999 Del ritrovato
amore - Il cinema di Michele Placido (Edizioni della Battaglia - Palermo). Alcuni
suoi saggi sono apparsi su pubblicazioni di settore.
Gaetano Zenga, laureato in Lingua e Letteratura Inglese presso l’istituto universitario Orientale di Napoli, ha insegnato lingua e letteratura inglese presso il liceo
scientifico “A. Volta”. Dal 1974 sino al 1978 ha insegnato lingua inglese presso la
facoltà di Economia e Commercio di Bari. Dal 1978 al 1993 è stato incaricato di
lingua e letteratura inglese presso l’istituto cattolico di studi universitari e formazione della Daunia. Dall’84 all’86 ha insegnato lingua inglese presso l’Università della
Terza Età di Foggia. Preside negli istituti superiori sino al 2001, ha svolto attività di
docenza ai corsi di abilitazione per docenti. Ha pubblicato: Natura e mondo primitivo nei drammi di J.M. Synge (1979) e Studi su John Keats (1980).
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La Capitanata
Pubblicazione quadrimestrale, anno XXXVIII, n. 11, febbraio 2002
Direttore responsabile: Franco Mercurio
Registrato presso il Tribunale di Foggia
n. 22/01
Finito di stampare nell’aprile 2002
per conto della Biblioteca Provinciale di Foggia
presso il Centrografico Francescano - Foggia - Tel. 0881/777338 - Fax 0881/722719
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originale o in traduzione, citando la fonte, senza alcuna autorizzazione preventiva, purché sia comprovata palesemente l’esclusione di qualsiasi attività di lucro o di qualsiasi intenzione di restrizione della
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ISSN 0392 - 3339