La revisione del sistema fiscale

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La revisione del sistema fiscale
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Anno VIII • n. 1/2015
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LA REVISIONE
DEL SISTEMA FISCALE
E CONSIDERAZIONI
PENALI TRIBUTARIE
DOTTRINA
•
LEGISLAZIONE
•
GIURISPRUDENZA
•
CONVEGNI ED
ATTIVITÀ ANTI
ANTI - CONSIGLIO NAZIONALE
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Sommario
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
“Perché questa scelta e perché questo tema” di Claudio Berliri
3
DOTTRINA
•
“La revisione del sistema fiscale” - Sintesi dell’introduzione al convegno dell’ANTI
tenuto il 12.9.2014
5
di Franco Gallo
•
L’abuso del diritto nella Legge Delega Fiscale
9
di Alessandro Giovannini
•
Società di comodo e CFC - Modelli a confronto e proposte di modifica legislativa
18
di Alberto Maria Gaffuri
•
I lineamenti della nuova imposta sul reddito imprenditoriale (IRI)
nella legge delega per la revisione dell’ordinamento tributario
25
di Mauro Beghin
•
Il ‘reddito liquido’ come attuale indice di effettiva capacità contributiva
29
di Marco Versiglioni
•
Il processo tributario nella legge delega n. 23 del 2014. Brevi considerazioni
in merito alla disciplina dell’utilizzo della PEC e delle spese di giudizio
34
di Alessandro Turchi
•
Gli effetti del riconoscimento della giurisdizione esclusiva in materia tributaria
37
di Salvo Muscarà
•
Inconvenienti e necessità di superamento del “doppio binario”
di Andrea Perini e Giovanni Maria Soldi
42
•
Il sistema penale tributario - situazione attuale e modifiche necessarie
47
di Ivo Caraccioli
•
Illecito amministrativo e reato: dal principio di specialità al ne bis in idem
49
di Gaetano Ragucci
•
Crisi aziendale e reati di omesso versamento di tributi, tra contrasti giurisprudenziali
ed esigenze di riforma
53
di Paolo Aldrovandi
•
Inconvenienti dell’attuale disciplina della dichiarazione infedele
59
di Mario Garavoglia
•
Inconvenienti della repressione dei reati in materia di riscossione di imposte
e di sottrazione al pagamento
63
di Lorenzo Imperato
•
La c.d. voluntary disclosure. Prime indicazioni
66
di Luca Lunelli
LEGISLAZIONE
•
Legge delega 11 marzo 2014, n. 23
71
GIURISPRUDENZA
•
Rassegna di Giurisprudenza a cura di Roberto Lunelli
87
CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI
99
PERCHÉ QUESTA SCELTA E PERCHÉ QUESTO TEMA
I
l precedente numero di NEOTEPA era dedicato alle Legge Delega 11 marzo 2014 n. 23
per la revisione del sistema fiscale, che ha formato oggetto del convegno dell’Anti tenuto
a Riva del Garda il 12 settembre 2014. Ma questo tema non si è affatto esaurito ed anzi si è
notevolmente arricchito.
Proprio in applicazione della Legge Delega sono state emanate, o sono ancora in corso di emanazione, numerose disposizioni che hanno notevolmente modificato il nostro sistema fiscale sia
sotto l’aspetto sostanziale sia sotto il profilo procedurale.
Molte di queste novità sono state trattate nel citato convegno di Riva del Garda e ci è sembrato utile pubblicare talune delle relazioni tenute in tale sede.
Abbiamo quindi ritenuto utile pubblicare l’introduzione al Convegno tenuta dall’esimio prof.
Franco Gallo su “La revisione del sistema fiscale”, la relazione di Alessandro Giovannini su “L’abuso
del diritto nella Legge Delega fiscale”, “Le società di comodo” di Alberto Maria Gaffuri, cui abbiamo aggiunto la relazione del prof. Beghin tenuta il 14 novembre u.s. nel convegno di Udine
della Sezione Anti del Friuli Venezia Giulia e relativa a “I lineamenti nella nuova imposta sul reddito imprenditoriale I.R.I.”, come prevista nella Legge Delega per la revisione dell’ordinamento
tributario, nonché lo studio del prof. Marco Versiglioni sul “reddito liquido”.
Sotto il profilo processuale, abbiamo affrontato alcune delle modifiche previste per il processo tributario e dei rapporti tra giurisdizione tributaria e giurisdizione penale, con gli interventi
di Alessandro Turchi, Salvo Muscarà e Andrea Perini e Giovanni Maria Soldi.
Per quanto poi concerne l’aspetto penale e tributario abbiamo pubblicato una introduzione
del prof. Ivo Caraccioli nonché gli interventi di Gaetano Ragucci sui “rapporti tra illecito amministrativo e reato”, la “crisi aziendale e reati di omesso versamento di tributi” a cura di Paolo
Aldrovandi, nonché “gli inconvenienti della disciplina della dichiarazione infedele” a cura di
Mario Garavoglia.
Abbiamo inoltre pubblicato uno studio di Lorenzo Imperato sugli “Inconvenienti della
repressione dei reati in materia di riscossione di imposte e di sottrazione al pagamento”.
Infine abbiamo pubblicato l’intervento di Luca Lunelli, tenuto nel convegno presso l’Ente
Fiera di Udine l’11.1.2015, in ordine a “La c.d. voluntary disclosure”.
Per quanto poi concerne la rassegna di giurisprudenza, il Prof. Lunelli ha elaborato una rassegna cronologica e per argomento della più rilevante giurisprudenza tributaria di legittimità
emessa nell’anno 2014.
Completa questo numero – come è ormai prassi – un sintetico elenco delle iniziative e dei
convegni organizzati in questi primi mesi del 2015 dalle varie Sezioni dell’Anti.
Il contenuto del presente numero di
appare quindi più variato rispetto al-
l’obiettivo monotematico proprio della nostra rivista.
Ma l’allargamento dei temi è frutto della Legge Delega per la revisione del sistema fiscale, che
ha affrontato tutti i diversi argomenti, trattati in questo numero di
.
Claudio Berliri
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
“La revisione del sistema fiscale”
Sintesi dell’introduzione al convegno dell’ANTI
tenuto il 12.9.2014
di Franco Gallo
1. Premessa
2. L’abuso del diritto
È evidente che un convegno, come quello odierno,
dedicato alla revisione del sistema fiscale non possa che
riguardare soprattutto l’attuazione della legge delega n.
23 del 2014 avente, appunto, per oggetto “disposizioni
per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato
alla crescita”.
Questa delega ha avuto nel tempo una curiosa evoluzione, perché è stata pensata inizialmente dal Governo
per intervenire su specifici più urgenti problemi fiscali
come la revisione del catasto dei fabbricati, la stima e il
monitoraggio dell’evasione fiscale, la disciplina dell’abuso del diritto (alias elusione fiscale), la gestione del rischio
fiscale, della governance aziendale, del tutoraggio e la revisione della disciplina degli interpelli. Poi invece, strada
facendo, essa ha subito una profonda trasformazione perché ha investito materie – meno urgenti, ma più impegnative e di tenore generale – che vanno dalla “complessiva razionalizzazione e sistematizzazione della disciplina
dell’attuazione e dell’accertamento relativa alla generalità
dei tributi”, alla riforma della disciplina della riscossione,
delle sanzioni e del contenzioso tributario fino alla revisione dell’imposizione sui redditi d’impresa e di lavoro
autonomo, su quelli soggetti a tassazione separata e alla
previsione di regimi forfettari e alla definizione della c.d.
fiscalità energetica e ambientale. È, insomma, divenuta
in sede parlamentare una delega la cui puntuale attuazione, volendolo, si presterebbe a realizzare una vera e propria riforma fiscale generale, per la quale il termine di dodici mesi per l’emanazione dei decreti legislativi d’attuazione si presenta evidentemente insufficiente.
Dati gli inevitabili ristretti limiti di tempo congressuali, bene ha fatto quindi l’ANTI a limitare le relazioni
del convegno alle materie centrali dell’abuso del diritto,
delle sanzioni penali e amministrative tributarie, del
processo tributario e del reddito d’impresa e dell’IVA.
In questa mia introduzione mi limiterò a condensare
alcune mie riflessioni sulla definizione dell’abuso del diritto, sulla revisione del sistema sanzionatorio penale e
sul nuovo regime del c.d. adempimento collaborativo
2.1. Quanto all’abuso del diritto, l’art. 5 della legge
n. 23 delega il Governo a promuovere una normativa di
attuazione che determini esaustivamente e senza ambiguità i connotati dell’abuso e le modalità dell’uso distorto degli strumenti negoziali, anche in sostituzione dell’art. 37 bis del DPR n. 600. È evidente che l’obiettivo
che si è prefisso il legislatore delegante è quello di evitare
che gli uffici continuino ad esercitare i loro poteri di accertamento invocando il principio generale non scritto
antiabuso, senza precise linee guida. In particolare, il fine assegnato al legislatore delegato è quello di superare le
incertezze interpretative derivanti dalla formulazione del
richiamato art. 37 bis, e di adeguarsi alla disciplina e alla
giurisprudenza comunitarie in materia (mi riferisco alla
raccomandazione, richiamata dallo stesso art. 5, della
Commissione sulla pianificazione fiscale aggressiva n.
2012/772/UE del 6 dicembre 2012). Ciò, senza comunque contraddire le più recenti sentenze della Corte
di Cassazione che hanno rinvenuto la fonte costituzionale del principio antiabuso nel superiore principio di
capacità contributiva previsto dall’art. 53 Cost.
Definendo la condotta abusiva come l’uso distorto di
strumenti giuridici aventi lo scopo prevalente di ottenere
indebiti vantaggi fiscali, il legislatore delegante ha voluto
significare che il principio di capacità contributiva, per
essere concretamente operante e costituire un limite costituzionale all’autonomia negoziale, deve essere accompagnato dalla contestuale applicazione del principio generale della buona fede e dell’affidamento, oltreché da
quello della prevalenza della sostanza sulla forma. Si è allineato così a quel passo delle due sentenze della Corte
Suprema, nn. 30055 e 30057 del 2008, dove si sottolinea
che il principio di capacità contributiva come fonte del
principio generale antiabuso può essere invocato solo se
si è in presenza di «indebiti vantaggi fiscali» derivanti, appunto, «dall’utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni
economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione, diverse dall’aspettativa del vantaggio fiscale».
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6
DOTTRINA
Ciò che si richiede al legislatore delegato è, pertanto,
di partire dalla definizione di abuso del diritto data dall’art. 5 come una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali,
realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Esso
dovrà, però, fare un passo avanti, e cioè definire esattamente cosa si intenda per “assenza di sostanza economica” e per “realizzazione di un vantaggio fiscale indebito”.
L’impresa non è facile, non potendo essergli d’aiuto la incerta giurisprudenza della Suprema Corte, la quale spesso
ha ritenuto, un po’ anacronisticamente, l’assenza di valide ragioni economiche extrafiscali dell’operazione sufficiente, da sola, a giustificare la ripresa a tassazione dei
vantaggi fiscali invocati dal contribuente, senza porre il
dovuto accento sul carattere indebito degli stessi; con la
conseguenza, da una parte, di sottovalutare la libertà del
contribuente di scegliere tra varie operazioni possibili anche in ragione del differente carico fiscale e, dall’altra, di
attribuire rilevanza del tutto marginale a quello che, invece, dovrebbe essere uno dei principali elementi costitutivi
dell’elusione-abuso, e cioè il perseguimento di vantaggi
fiscali essenziali (fondamentali) non voluti dal legislatore
e, comunque, contrari alla ratio della norma tributaria e
ai principi dell’ordinamento fiscale.
Questo elemento interpretativo è, invece, importante ed è tenuto ben presente dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia dell’UE, secondo la quale va colpito
non qualsiasi vantaggio fiscale, ma solo quelli contrari
alla ratio dell’istituto di cui si invoca l’applicazione. Sono chiare in questo senso soprattutto le sentenze 21 febbraio 2006, causa C-255/02 e 22 dicembre 2010, causa
C-103/09, cui – credo – ha attinto lo stesso art. 5, comma 1, lett. b) n. 2 della legge delega. Secondo tali sentenze il fenomeno dell’abuso andrebbe individuato avendo
riguardo all’effettivo perseguimento di un vantaggio
non voluto dal legislatore fiscale, appunto il c.d. vantaggio indebito, e non riguardo alla sola esistenza o meno di
valide ragioni economiche extrafiscali non marginali.
Da una parte, perciò, il legislatore delegato dovrebbe
definire chiaramente la nozione di “operazioni prive di
sostanza economica” seguendo la via indicata da detta
giurisprudenza. Dovrebbe, cioè, collegare strettamente
tale nozione alla non idoneità di dette operazioni a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. La
raccomandazione della Commissione Europea, richiamata dalla stessa legge delega, porta diversi esempi di
mancanza di sostanza economica. Ne ricordo solo due:
la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la
non conformità degli strumenti giuridici usati a normali
logiche di mercato. Dall’altra parte, dovrebbe anche for-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
nire una nozione di “vantaggi fiscali indebiti” desumendola dalla richiamata raccomandazione della Commissione Europea e dalla stessa indicata giurisprudenza della Corte di Giustizia UE. Il che significa che i vantaggi
fiscali indebiti dovrebbero essere, innanzitutto, essenziali (fondamentali) rispetto agli altri fini perseguiti dal
contribuente e, in secondo luogo, dovrebbero essere solo
quelli realizzati in contrasto con le finalità delle norme
fiscali o con i principi dell’ordinamento.
2.2. Come richiesto dalle lett. d), e) ed f ) dell’art. 5,
comma 1, della legge delega, il legislatore delegato dovrebbe, inoltre, prevedere un più ampio contraddittorio
tra amministrazione finanziaria e contribuente. Esso dovrebbe passare, in particolare, attraverso le seguenti fasi:
– la possibilità per il contribuente di presentare un’istanza di interpello preventivo all’Agenzia delle entrate al
fine di conoscere se le operazioni che intende realizzare
costituiscono fattispecie di abuso del diritto;
– l’abuso del diritto deve essere accertato con apposito
atto in cui siano indicati, a pena di nullità, i motivi
per i quali si ritiene configurabile l’elusione.
2.3. Ma il problema, a mio avviso, più delicato che il
legislatore delegato dovrà risolvere è quello relativo ai
profili sanzionatori dell’abuso del diritto. Al riguardo
l’art. 8, comma 1, della legge delega non è molto chiaro.
Esso si limita, infatti, a demandare un po’ ambiguamente al Governo di procedere alla «individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie». Poteva
forse esporsi un po’ di più prendendo una più precisa
posizione sul dibattuto quanto controverso tema della
rilevanza penale dell’elusione!
La situazione attuale in via interpretativa può, a mio
avviso, così sintetizzarsi.
Secondo l’indirizzo affermatosi nella più recente giurisprudenza di legittimità, le operazioni elusive potrebbero
assumere rilevanza penale nel quadro del paradigma punitivo della dichiarazione infedele, ma solo se contrastanti
con specifiche disposizioni (per tutte, tra le ultime, Cass.,
sez. III, 6 marzo 2013-3 maggio 2013, n. 19100; Cass.,
sez. III, 12 giugno 2013-31 luglio 2013, n. 33187; Cass.,
sez. III, 20 marzo 2014–3 aprile 2014, n. 15186). Si è
negata, invece, la punibilità della c.d. “elusione non codificata”, sul rilievo che – anche alla luce di quanto affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in particolare nella sentenza Halifax e in applicazione del principio
di legalità – in assenza di un preciso fondamento normativo, non potrebbe ritenersi sanzionabile la violazione del
principio generale del divieto di abuso del diritto.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
L’introduzione di una specifica disciplina positiva in
materia attraverso l’attuazione dell’art. 5 della legge delega dovrebbe mutare i termini del dibattito, rendendo
necessaria una puntuale presa di posizione da parte del
legislatore delegato. Sotto questo profilo, sembra a me
che il suddetto tenore letterale del criterio fissato dal
comma 1 dell’art. 8 – lo ricordo: individuazione dei
confini tra fattispecie di elusione e fattispecie di evasione
e delle relative conseguenze sanzionatorie – significhi
che il legislatore delegante non ha inteso adottare la soluzione radicale di escludere ogni possibile conseguenza
sanzionatoria, penale e amministrativa, delle fattispecie
elusive. Ciò è confermato dagli stessi lavori parlamentari
relativi alla legge di delegazione, nel corso dei quali sono
stati, tra l’altro, respinti emendamenti intesi a stabilire
in termini espressi l’irrilevanza del fenomeno considerato sul versante sanzionatorio. Una simile soluzione risulterebbe, d’altro canto, non adeguata in rapporto all’esigenza di prevedere, in certi casi, un deterrente rispetto
ad operazioni che, come quelle elusive, realizzano risultati comunque “indesiderati” dal punto di vista dell’ordinamento fiscale.
Nello stesso tempo, tuttavia, proprio il riferimento
della legge delega alla «individuazione dei confini» tra
evasione ed elusione dovrebbe dimostrare come il legislatore delegante abbia chiaramente avvertito la necessità di una gradazione di gravità tra le condotte che integrano una violazione diretta di disposizioni normative e
quelle che ne “aggirano” la ratio.
In questa prospettiva, la scelta che dovrebbe fare il legislatore delegato è quella di escludere la rilevanza penale
delle operazioni costituenti abuso del diritto così come
individuate dal legislatore delegato e, contemporaneamente, di fare salva l’applicabilità ad esse delle sanzioni
amministrative, ove ne ricorrano in concreto i presupposti. L’esclusione della punibilità dell’abuso del diritto con
sanzioni penali dovrebbe essere scontata, essendo essa la
conseguenza della definizione che l’art. 5 della legge delega dà dell’abuso. Si è visto, infatti, che tale definizione,
per un verso, postula l’assenza nel comportamento elusivo del contribuente di tratti riconducibili ai paradigmi,
penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o,
più in generale, della fraudolenza, e, per l’altro verso, imprime alla disciplina dell’abuso caratteri di residualità rispetto agli altri strumenti di reazione previsti dall’ordinamento tributario. Per queste stesse ragioni dovrebbe restare comunque impregiudicata la possibilità di ritenere
che operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di
vera e propria evasione e, in particolare, di dichiarazione
fraudolenta di cui all’art. 3 del d.lgs. 74/2000.
DOTTRINA
3. Il nuovo istituto della cooperative compliance
Altro articolo della legge delega sulla cui attuazione
conviene soffermarsi per il suo carattere di originalità e
novità è l’art. 6. Esso, ispirandosi ad un rapporto OCSE
del 2013, detta principi e criteri in materia di gestione
del rischio fiscale, di governance aziendale, di tutoraggio e
di revisione della disciplina degli interpelli, delegando il
Governo a introdurre particolari forme di comunicazione e cooperazione rafforzata tra i contribuenti e l’amministrazione finanziaria, anche in termini preventivi rispetto alle scadenze fiscali. Con riferimento ai contribuenti di maggiori dimensioni sono, poi, previsti sistemi
aziendali strutturati di gestione e di controllo del rischio
fiscale, con una chiara attribuzione di responsabilità nel
quadro del complessivo sistema di controllo interno.
La novità di tale disciplina è che per la prima volta in
Europa tale materia viene regolata in via normativa e
non è rimessa alla prassi. L’obiettivo perseguito è duplice
e fa pensare ad una svolta, almeno per le grandi imprese,
della politica fiscale in tema di evasione, di prevenzione
della stessa e di deflazione del contenzioso. Si privilegia,
cioè, la cooperative compliance, e attraverso essa, si potenzia vieppiù la partecipazione attiva del contribuente
piuttosto che l’azione repressiva. Dal punto di vista del
contribuente, l’obiettivo è quello di indurlo a dotarsi volontariamente di un sistema di controllo del rischio fiscale che risponda a esigenze interne di controllo dei rischi patrimoniali e reputazionali connessi al corretto
adempimento degli obblighi fiscali. Gli si consente così
di fruire di quella certezza preventiva derivante dalla
possibilità di avere chiarimenti tempestivi sull’applicazione della normativa tributaria. Dal punto di vista dell’autorità fiscale, l’obiettivo è quello di instaurare un
rapporto di collaborazione basato su nuove forme di
partecipazione, sulla trasparenza e sulla fiducia reciproca
e, quindi, di offrire un primo presidio per la correttezza
fiscale del contribuente. Per entrambe le parti i vantaggi
della cooperative compliance dovrebbero essere quelli di
un sollecito e preventivo esame dei casi dubbi e della
corrispondente riduzione dei controlli successivi e dell’eventuale contenzioso.
È evidente che il legislatore delegato dovrà costruire
tale nuovo sistema secondo uno schema legale di accordo di diritto pubblico tra contribuente ed autorità fiscale, delineando le caratteristiche essenziali di tale accordo,
gli obblighi delle due parti e gli effetti dell’adesione al regime. Siamo, insomma, nello stesso solco della nota disciplina dettata dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che
controbilancia l’attribuzione alle società e agli enti della
responsabilità dei reati (non tributari) commessi nel loro
7
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DOTTRINA
interesse e a loro vantaggio, con l’approntamento di modelli di controllo interni (quali il ben noto “Organismo
interno di vigilanza”) diretti a esonerare l’impresa dalle
relative sanzioni. L’art. 8 applica tali principi anche al
campo fiscale, senza arrivare al punto di creare una nuova legge 231 tributaria, ma limitandosi a costruire un
modello condiviso di cooperative compliance e, quindi,
solo con riguardo a quelle imprese che intendono adottarlo e sono in grado di organizzare un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale. È evidente che questo sistema potrà reggere solo se, a
fronte dei reciproci doveri e impegni assunti dall’Agenzia delle entrate e dalle imprese contribuenti, siano previsti anche ulteriori rilevanti effetti positivi che incentivino queste ultime ad aderire al regime. Non mi sembra,
infatti, che queste possano essere sufficientemente invogliate ad aderire al regime dell’adempimento collabora-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
tivo per il solo seppur apprezzabile fatto che attraverso di
esso si può procedere ad una comune valutazione dei rischi fiscali prima della presentazione della dichiarazione.
Sarebbe forse opportuno che alle forme di interlocuzione preventive su elementi di fatto, inclusa l’anticipazione del controllo, si aggiungesse non solo la previsione di
una procedura ancora più abbreviata di interpello, ma
anche la eliminazione o la forte riduzione delle sanzioni
amministrative in tutti i casi in cui l’operazione, portata
alla preventiva conoscenza degli uffici, sia stata poi posta
in essere contro il loro parere.
Come si vede, si sta scrivendo sia pur faticosamente
un altro importante capitolo del diritto tributario: quello di nuove forme di partecipazione dell’impresa non solo alla fase dell’accertamento, ma anche a quella, antecedente, dell’adempimento dell’obbligo tributario.
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
L’abuso del diritto nella Legge Delega Fiscale
di Alessandro Giovannini
L’art. 5 della legge 11 marzo 2014, n. 23, delega il
Governo ad attuare la revisione delle vigenti disposizioni
antielusive al fine di unificarle al principio generale del
divieto dell’abuso del diritto. La disposizione tenta di
raccoglie sia esigenze concrete manifestate da alcune
parti sociali, sia concetti elaborati nel corso del dibattito
dai suoi protagonisti. Quest’opera di “assemblamento”
ha prodotto una miscellanea di nozioni, con esiti non
univoci in punto di risoluzione dei problemi in discussione. Il lavoro si propone di mettere in evidenza le questioni in via di definizione e di verificare, alla luce dei
criteri indicati nella delega, i temi ancora aperti, come
quello relativo alla nozione stessa di abuso ed il problema della sanzionabilità del comportamento abusivo, nel
tentativo di offrire possibili soluzioni.
1. L’abuso del diritto e la legge delega 11 marzo 2014, n.
23: introduzione e riferimenti normativi. - L’art. 5 della
legge 11 marzo 2014, n. 23, delega il Governo ad attuare la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto.
Tenuto conto della raccomandazione della Commissione U.E. 6 dicembre 2012, n. 2012/772, sulla c.d. pianificazione fiscale aggressiva, il Governo dovrà:
a) definire la condotta abusiva come uso distorto di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione;
b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale e, a tal fine: 1) considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente
dell’operazione abusiva; 2) escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di
operazioni è giustificata da ragioni extra fiscali non
marginali; 3) stabilire che costituiscono ragioni extra
fiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma
rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente;
c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici
di cui alla lettera a) all’amministrazione finanziaria e
il conseguente potere della stessa di disconoscere il
relativo risparmio di imposta;
d) disciplinare il regime della prova ponendo a carico
dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare
il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti
giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extra fiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti;
e) prevedere una formale e puntuale individuazione della
condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento
fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso;
f) prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni
fase del procedimento di accertamento tributario.
L’art. 5, nei termini or ora richiamati, tenta di coniugare le norme dell’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973
coi concetti elaborati dalla dottrina1, dalla giurisprudenza comunitaria2 e dalla Corte di Cassazione3 nel corso
del dibattito.
1 Tra gli altri e senza pretesa di completezza, cfr. Gallo, Brevi spunti
in tema di elusione e frode alla legge (nel reddito d’impresa), in Rass. trib.,
1989, I, 11 ss.; Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema
dell’elusione fiscale, Padova, 1992, e Id., Elusione fiscale, in Digesto, sez.
comm., Aggiornamento, I, Torino, 2007; Russo, Brevi note in tema di
disposizioni anti elusive, in Rass. trib., 1999, 68 ss.; La Rosa, Elusione e
antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Rass. trib., 2000,
I, 785 ss.; Tabet, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Boll. trib., 2009,
85 ss.; Beghin, Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra fisco e contribuente, in Riv. dir. trib., 2009, 408 ss.; Tesauro,
Elusione e abuso nel diritto tributario, in Dir. e prat. trib., 2012, I, 683
ss.; Amatucci, A., La funzione antiabuso dell’interpretazione del diritto
tributario, in Dir. prat. trib., 2012, I, 879 ss.; Prosperi, L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista, in Dir. e prat. trib., 2012, I, 717
ss.; Basilavecchia, Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione,
in Dir. prat. trib., 2012, I, 797 ss.; Carinci, Elusione tributaria, abuso
del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Dir. prat.
trib., 2012, I, 785 ss.; Zizzo, L’elusione tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario: definizione a confronto e prospettive di coordinamento, in Elusione ed abuso del diritto tributario, cit., 57 ss.
2 Cfr. Lettieri, Marini, Merone, L’abuso del diritto nel dialogo tra
corti nazionali ed internazionali, Napoli, 2014. Per una rassegna delle
9
10
DOTTRINA
Quest’opera di “assemblaggio” ha prodotto una miscellanea di nozioni, con esiti non univoci in punto di risoluzione dei problemi. Infatti, l’art. 5, se per alcuni di essi
compie scelte precise, per altri detta criteri confusi e per
altri ancora non offre nessuna indicazione decisiva. Difetti, questi, che mal si conciliano con la previsione dell’art.
76 della Costituzione e soprattutto con lo scopo al quale
la delega tende: scolpire una norma di principio, che, per
essere davvero tale, esige stringatezza e chiarezza.
2. Sulla nozione di abuso del diritto. – Il primo aspetto da
esaminare, poiché ancillare a tutti gli altri, attiene alla
nozione di abuso, sulla quale la legge delega mi pare offra indicazioni non cristalline4.
È possibile che il legislatore delegante, nel voler mettere insieme troppi fili, abbia perso di vista il bandolo
della matassa. Come e dove ritrovarlo, allora? Credo che
la via da seguire sia quella di sfrondare il ragionamento
da inutili bizantinismi e da altrettanto inutili rivoli casistici, così da andare dritti al nocciolo della categoria.
Ciò significa prendere atto della sua più antica e
compiuta elaborazione, che non è, come molti ritengono, quella comunitaria o giurisprudenziale domestica,
ma è quella civilistica, propria della nostra più feconda
ricerca giuridica, che, muovendo da un insieme di disposizioni del codice civile (artt. 833, sugli atti d’emulazione, 1175, sul comportamento secondo correttezza,
1375, sull’esecuzione di buona fede, e 1345, sul motivo
illecito comune ai contraenti), è giunta ad elaborare una
vera e propria categoria concettuale generale del diritto5.
sentenze della Corte di giustizia si v. Piantavigna, Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Torino, 2011, passim, ma prima, per un
ragionato inquadramento dell’abuso nel diritto comunitario, cfr. Gestri, Abuso del diritto e frode alla legge nell’ordinamento comunitario,
Milano, 2003, passim, ma specie 54 ss. e 183 ss.
3 Per l’esperienza italiana, si richiama la fondamentale sentenza
della Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055.
4 Si tratta, per la verità, di un’esigenza antica e mai appagata fino
in fondo: fin dagli inizi degli anni trenta del secolo passato il problema fu studiato con alterne soluzioni. Cfr. Falsitta, L’interpretazione
antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al
sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Elusione
ed abuso del diritto tributario, a cura di Maisto. Milano, 2009, 3 ss.,
specie 12, e prima L’influenza dell’opera di Albert Hensel sulla dottrina tributaristica italiana e le origini dell’interpretazione antielusiva
della norma tributaria, in Riv. dir. trib., 2007, I, 569 ss. Si veda inoltre l’approfondito studio di Melis, Sull’interpretazione antielusiva in
Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, ivi, 2008, 413 ss., e soprattutto L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 163 ss.
5 Sia consentito rinviare, per considerazioni ulteriori su questa radice civilistica, a Giovannini, Il divieto d’abuso del diritto in ambito
tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. trib., 2010,
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
2.1. La buona fede in senso oggettivo come regola di condotta. Il “nocciolo” della nozione. - In questa prospettiva, di
abuso si deve parlare quando atti od operazioni complesse, pur esattamente corrispondenti al contenuto di
una situazione giuridica soggettiva e di un precetto normativo, sono determinati per perseguire un interesse
proprio dell’agente in spregio a quello oggettivo del creditore, interesse il cui rispetto costituisce limite esterno
alle libertà giuridiche individuali, comprese le libertà
economiche e d’impresa6.
Il collegamento tra diritto tributario e diritto civile, nei
termini ora proposti, non deve essere scrutato con sospetto. Anzi, solo se pienamente consapevoli della storia della
nozione e della sua sedimentazione concettuale è possibile, anche ai nostri fini, semplificare il discorso e giungere a
quel nocciolo che è essenziale mettere in risalto.
Ed infatti, agganciare il concetto di abuso, per un
verso, a situazioni soggettive espresse in atti e negozi e all’interesse in concreto perseguito dal contribuente, e,
per altro verso, al diritto potenziale del creditore erariale,
significa raggiungere due obiettivi.
Il primo: legittimare l’inopponibilità all’amministrazione degli effetti giuridici di quei negozi, senza vanificarne gli effetti privatistici7. Il secondo: legare il concetto di
divieto di abuso a quello di buona fede in senso oggettivo,
principio, quest’ultimo, che nella nostra materia è consa-
982 ss. Sulla centralità della valutazione dell’interesse nella delimitazione della categoria dell’abuso, cfr, Giorgianni, L’abuso del diritto
nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963, specie 193 ss.
6 Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 86, precisa che “la
dottrina dell’abuso di diritto avverte i legami che corrono tra l’abuso
e la mancanza di giusta causa: essa sottolinea come la giusta causa, il
motivo legittimo siano la pietra di paragone o l’antidoto dell’abuso”.
In termini, per così dire, anticipatori dei successivi filoni di ricerca,
cfr. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano (1958), ora in Diritti fondamentali e categorie generali, Scritti di Ugo Natoli, Milano, 1993, 511 ss., il quale
chiarisce con nitidezza come costituisca una caratteristica dell’abuso
del diritto “l’apparente conformita dal comportamento del soggetto
al contenuto del suo diritto onde abusare del diritto dovrebbe significare coprire dell’apparenza del diritto un atto che si avrebbe il dovere di non compiere”. Nella scia della elaborazione del caposcuola
pisano, cfr. Bigliazzi Geri, La buona fede nel diritto privato, in
AA.VV., La buona fede, Milano, 1987, 51 ss. Si veda inoltre, per
un’ampia ricostruzione delle teorie sul punto, Breccia, L’abuso del diritto, in AA.VV., L’abuso del diritto, Padova, 1997, 5 ss.
7 Breccia, L’abuso del diritto, cit., 35, chiarisce come l’effetto del ricorso alla clausola di divieto d’abuso consenta di rendere non opponibili effetti giuridici altrimenti idonei a spiegarsi interamente: “quel che
altrimenti sarebbe efficace, in quanto frutto di atti di per sé strutturalmente e astrattamente idonei, viene inficiato da un aspetto della reciproca interrelazione delle parti in conflitto che è incompatibile con il
fondamento razionale della tutela predisposta in astratto dal sistema
giuridico”. Cfr. anche Messina, L’abuso del diritto, Napoli, 2003, 165 ss.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
DOTTRINA
crato nell’art. 10 della legge n. 212 del 2000, ma che già
discende, dritto dritto, dalle regole del codice civile, spesso dimenticate o non valorizzate adeguatamente.
Buona fede oggettiva e divieto di abuso possono non
esprimere esattamente lo stesso concetto e non essere perfettamente sovrapponibili8. Buona fede oggettiva e divieto di abuso, però, hanno una medesima connotazione:
entrambe le nozioni si caratterizzano per esigere una valutazione bilaterale. Da un lato, infatti, impongono di
valutare i diritti del privato alla realizzazione del ventaglio di interessi suoi propri e le ragioni sostanziali che lo
hanno indotto all’adozione di atti o negozi, nel rispetto
della libertà dei traffici giuridici e dell’autodeterminazione negoziale. Dall’altro, esigono che sia accertato il diritto del creditore alla realizzazione della pretesa secondo la
sua reale configurazione, in ossequio al principio di congruità sostanziale degli atti coi fini effettivi degli stessi.
Fin qui le due nozioni si accomunano. Ma il principio della buona fede oggettiva, per ricostruzione consolidata, introduce un criterio o elemento di giudizio ulteriore: la correttezza della condotta9.
L’ordinamento protegge gli atti del privato e ne legittima gli effetti – anche in ambito fiscale – sino a quando essi non divengono strumentali al perseguimento di finalità
diverse ed estranee a quelle astrattamente tutelate e non riflettono, sul terreno della condotta, uno sviamento dai fini per i quali le norme sono ordinariamente composte.
L’abuso del diritto, pertanto, si traduce in un comportamento artificioso, contrario alle regole che lo dovrebbero informare seguendo quelle della buona fede in
senso oggettivo. In termini ancor più essenziali, il divieto di abuso è regola di condotta, il cui perno, appunto, è
la buona fede oggettiva10.
2.2. Il risparmio indebito d’imposta e le ragioni extrafiscali
dell’operazione. Il giudizio postumo di congruità dei mezzi
rispetto ai fini perseguiti. - Eccoci all’altro punto focale
del ragionamento, anello successivo ed ulteriore delle
cose fin qui dette: il risparmio d’imposta.
Il risparmio d’imposta è mera conseguenza economica della qualificazione della fattispecie operata dal contribuente in forza della sua libertà negoziale. Il risparmio
d’imposta, di per sé, è lecito.
Esso diviene illecito o indebito quando le regole di
condotta e le finalità astrattamente definite dalla legge
divergono dalle regole e finalità in concreto perseguite.
Più precisamente: quando agli atti sui quali si struttura
la condotta non sono riconducibili ragioni sostanziali –
economiche o extra fiscali – apprezzabili positivamente
e non secondarie o di “non scarsa importanza”, secondo
l’espressione storicamente accreditata dell’art. 1455 cod.
civ., mentre ad essi sono riportabili, prevalentemente o
esclusivamente, finalità di natura fiscale11.
Di qui una conseguenza immediata. Si è detto che
l’uso distorto degli strumenti giuridici e delle libertà negoziali, se da un lato connota la condotta come contraria
alle regole della buona fede, da un altro e specularmente
lede il diritto del creditore.
Ebbene, giacché il diritto di credito si deve considerare leso dalla condotta e poiché la condotta si deve valutare contraria alla buona fede oggettiva se si incardina su atti impropriamente utilizzati rispetto alle reali finalità perseguite, il riscontro empirico delle valide ragioni sostanziali (economiche o extra fiscali, non secondarie o di non
scarsa importanza) consente di confermare nel comportamento i connotati della liceità e di apprezzare come
congrui gli strumenti eletti rispetto ai fini perseguiti.
8 Cfr. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007, 147 ss., specie 191 ss. Uno dei contributi sistematicamente
più chiari sul rapporto tra abuso del diritto e buona fede oggettiva rimane, secondo me, quello di Natoli, Note preliminari ad una teoria,
cit., 520 ss.
9 Che la buona fede oggettiva sia concetto espressivo o comprensivo di regole di condotta improntate a correttezza è pacifico ed è chiarito, in termini inequivoci, da Natoli, op. cit., 522 ss., che parla, appunto,
di “buona fede come regola di condotta”. E che sia possibile sostenere,
quanto al comportamento o alla condotta, la riconducibilità del divieto
di abuso alla buona fede oggettiva è ripreso, anche in tempi recenti, da
autorevole dottrina. Cfr. Busnelli e Navarretta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in Studi in onore di Pietro Rescigno, vol. V, Milano,
1998, 77 ss.; Prosperi, Il contratto di subfornitura e l’abuso di dipendenza
economica. Profili ricostruttivi e sistematici, Napoli, 2002, 326 ss.
10 È senz’altro da condividere, dunque, la teoria per la quale la
buona fede oggettiva “non è un principio costituzionale, è anche un
principio costituzionale”. Principio cioè con tracce importanti nelle
disposizioni della Carta fondamentale, ma che in realtà è norma integrativa verticale dell’intero sistema, integrativa, cioè, di ogni ordine di
produzione codificata del diritto (costituzionale, legislativa primaria,
regolamentare, comunitaria). E come lo è la buona fede, lo è il divieto
d’abuso. Il riferimento è a Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto
pubblico, Milano, ristampa, 2001, 7, che in poche e chiarissime pagine ha scolpito un contributo che rimane denso di significato anche
per la nostra materia.
11 È solo un giudizio fattuale successivo, dunque, che può condurre ad un apprezzamento negativo del risparmio d’imposta in ragione
della non congruità degli atti rispetto ai fini effettivamente perseguiti
con quegli stessi atti. Giudizio, se ben si riflette, che non diverge da
quello che tradizionalmente accompagna la valutazione della causa
negoziale, sia che la si intenda come funzione (obiettiva) economicosociale del negozio, sia che la si veda come funzione (obiettiva) giuridica dell’atto o dell’operazione. Per tutti, cfr. Betti, Teoria generale delle
obbligazioni, I, Milano, 1953, 75 ss., e Id., Causa del negozio giuridico,
in Novissimo Dig. it., III, Torino, 1957, pp. 32 ss.; Pugliatti, Nuovi
aspetti del problema della causa nei negozi giuridici, ora in Diritto civile,
Metodo – Teoria – Pratica, Milano, 1951, 76 ss. Da ultimo, proprio
sulla valutazione empirica della causa, Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, 251 ss.
11
12
DOTTRINA
Semplificando al massimo il ragionamento, siccome
le ragioni sostanziali attengono agli atti e poiché la condotta si concretizza e si riscontra, per il diritto tributario,
proprio per il loro tramite, quelle ragioni riguardano
strutturalmente la condotta: costituiscono un elemento
rappresentativo delle sue anomalie, sebbene esse si annidino in atti formalmente rispettosi dei modelli ammessi
dall’ordinamento.
Avere riportato le ragioni sostanziali – economiche e
extrafiscali – alla condotta ha un rilievo essenziale sul
piano della prova e su quello della ripartizione del suo
onere. Di questo dirò tra poco. Per ora mi basta aver
chiarito come tali ragioni, se reputate non valide o di
scarsa importanza, secondo il collaudato concetto di diritto civile, consentono di connotare negativamente la
condotta e quindi finiscono per marchiare di illiceità il
risparmio fiscale conseguente.
Il risparmio indebito d’imposta, invece e conclusivamente, non è strutturalmente parte della condotta intesa
come fattispecie, ma ne è l’effetto. Quel risparmio è indebito proprio perché conseguenza pregiudizievole della
condotta, pregiudizio che, in forza della “errata” configurazione o determinazione dell’obbligazione d’imposta, si rispecchia sul diritto del creditore.
2.3. La possibile nozione di abuso alla luce della legge delega. – Le considerazioni fin qui compiute consentono di
ritrovare quel bandolo che il legislatore delegante sembra avere smarrito.
Gli elementi costitutivi della nozione non possono
che essere due: la condotta contraria alla buona fede oggettiva, in quanto gli atti nei quali essa si struttura, privi
di ragioni sostanziali apprezzabili favorevolmente, tendono ad aggirare la legge tributaria ed a ledere per questa
via il diritto di credito statale12; il vantaggio fiscale illegittimamente conseguito alla stregua di finalità prevalente dell’operazione, finalità realizzata, proprio, per il
tramite di quella condotta13.
12 È proprio l’aggiramento che giustamente Tesauro, Elusione e
abuso nel diritto tributario, cit., specie 688, pone al centro della distinzione tra risparmio indebito o illecito e risparmio lecito. Su questo profilo, in termini simili, cfr. A. Amatucci, La funzione antiabuso
dell’interpretazione del diritto tributario, cit., 879 ss., e Russo, L’onere
probatorio in ipotesi di “abuso del diritto” alla luce dei princìpi elaborati in sede giurisprudenziale, in Il fisco, 2012, 1301 ss.
13 Impostando così il ragionamento, mi pare si evitino commistioni con istituti autonomi, quali la simulazione, problema, invece,
oggi vivacemente dibattuto. In termini giustamente critici su questa
commistione concettuale, cfr. Falsitta, Abuso del diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Riv. dir. trib., 2010, 349 ss. Sulla
stessa linea, Beghin, L’abuso del diritto tra concetti astratti e rilevanza
del fatto economico, in Corr. trib., 2010, 1759 ss.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
In questa nozione possono trovare collocazione coerente i criteri indicati sia nella lettera a), sia nella lettera
b), punto 1, dell’art. 5, ovvero il criterio dell’uso distorto
di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
d’imposta e quello del vantaggio fiscale, come “causa”
prevalente dell’atto o dell’operazione.
Si è ora osservato che se l’atto è sorretto da ragioni sostanziali (economiche o extrafiscali apprezzabili positivamente e non valutabili di scarsa importanza, riprendendo la formulazione dell’art. 1455 cod. civ.) la determinazione dell’obbligazione d’imposta nei termini rappresentati dal contribuente si deve considerare legittima.
Lo ripeto: siccome le ragioni sostanziali attengono agli
atti e siccome la condotta trova riscontro proprio negli
atti in concreto prescelti, quelle ragioni non possono che
riguardare strutturalmente la condotta.
Di conseguenza, il riscontro positivo delle ragioni sostanziali non può che determinare la qualificazione del
comportamento come conforme alle regole della buona
fede oggettiva e dunque è giocoforza che la prova dell’inesistenza di quelle ragioni gravi sull’amministrazione.
Su questi aspetti la legge delega non brilla per limpidezza. Come già ricordato, per la lettera b), punto 3,
l’abuso è da escludere se l’operazione è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali, tra le quali anche quelle
che non producono una redditività immediata, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa o di miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda. Nella
successiva lettera d) si prevede, poi, che la prova della non
conformità degli strumenti giuridici ad una normale logica di mercato sia a carico dell’amministrazione, gravando sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide
ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti e quindi anche quelle collegate all’organizzazione e al miglioramento aziendale.
Cercando di cogliere gli elementi essenziali delle previsioni adesso richiamate, mi sembra di poter dire questo. La lettera d) persegue un doppio obiettivo: per un
verso tende a disciplinare la ripartizione dell’onere della
prova conformemente all’art. 2697 cod. civ.14, e, per
me, alla collocazione strutturale delle ragioni economiche in seno alla condotta; per un altro declina le “valide
ragioni economiche” – già richiamate esplicitamente
dall’art. 37-bis del DPR n. 600 e parametro di valutazione costante della giurisprudenza – nella “normale logica di mercato”.
Cfr. Russo, L’onere probatorio in ipotesi di “abuso del diritto”,
loc. già cit.; Contrino, Il divieto d’abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamentali giuridici e connotati strutturali, in Dir.
prat. trib., 2009, 463 ss.
14
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
La lettera b), punto 3, invece, si preoccupa di ampliare l’oggetto della prova rimessa al contribuente. E infatti, qualifica alla stregua di cause giustificative dell’operazione anche ragioni prive di rilievo economico, ovvero
priva di redditività. Le ragioni extrafiscali che la norma
indica, pur rispondendo ad esigenze non esclusivamente
o propriamente reddituali, finiscono per rendere ugualmente conforme la condotta alle regole della buona fede
oggettiva e per legittimare il risparmio d’imposta.
3. Sulla sanzionabilità della violazione del divieto d’abuso.
- Le osservazioni che precedono consentono di esaminare più agevolmente uno dei corni del dilemma che l’art.
5 non si preoccupa di affrontare: la sanzionabilità della
violazione del divieto d’abuso15.
Il problema, in verità, sembra trovare una eco nell’art. 8 della stessa legge delega, dedicato alla revisione
15 Ricordo, di passata, che, la Corte di giustizia UE, con la sent. 21
febbraio 2006, causa C-255/02 (caso Halifax) ha ritenuto non sanzionabile in via amministrativa il comportamento connotato da abuso
perché privo di “un fondamento chiaro e univoco”. La Corte di Cassazione, invece, si è orientata in senso diverso. Per quanto riguarda le
sanzioni penali, ha ritenuto che esse siano applicabili in forza degli
artt. 1 e 16 del d.lgs. n. 74 del 2000 solo, però, se il fatto censurato è
tra quelli indicati nell’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973, se rientra,
cioè, in una delle fattispecie lì richiamate (operazioni straordinarie
d’impresa, conferimenti, cessioni di credito, eccetera). Cfr. Cass., sez.
II pen., 28 febbraio 2012, n. 7739. Anche per quanto riguarda le sanzioni amministrative, modificando il suo precedente orientamento, la
Corte ha finito per applicare la disposizione dell’art. 1, comma 2, del
d.lgs. n. 471 del 1997 alle sole fattispecie connotate da abuso, per così
dire, codificato, che, sempre per la Corte, integrerebbero ipotesi di dichiarazione infedele, ossia di dichiarazione nella quale l’imponibile o
l’imposta liquidata è inferiore a quella dovuta in seguito ad accertamento. Cfr. Cass., sez. trib., 30 novembre 2001, n. 25537. Condividono, nella sostanza, la posizione giurisprudenziale, Russo, Brevi note,
cit., 68 ss.; Gallo, Rilevanza penale dell’elusione tributaria, in Rass. trib.,
2001, 321 ss.; Nussi, Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi, in Riv. dir. trib., 1998, I, 505 ss.; Attardi,
Elusione fiscale, abuso del diritto e sanzioni tributarie, in Fisco, 2011,
212 ss. Così anche, se si vuole, Giovannini, Il diritto tributario per
princìpi, Milano, 2014, 131 ss. In termini dubitativi, Marini, Note in
tema di elusione fiscale, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 325 ss. La dottrina prevalente, invece, è contraria alla punibilità. Lo ricorda Basilavecchia, Presupposti ed effetti, loc. già cit., e prima Id., Funzione di accertamento tributario e funzione repressiva: i nuovi equilibri, in Dir. prat. trib., 2005, I, 3
ss.; anche Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur. comm., 2011, 465 ss., nega la sanzionabilità, così come
la negano Flora, Perché l’“elusione fiscale” non può costituire reato (a proposito del “caso Dolce & Gabbana”), in Riv. trim. dir. pen. ec., 2011, 865
ss.; Tesauro, Elusione e abuso, loc cit.; Carinci, Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Dir. prat.
trib., 2012, I, 785 ss.; Ficari, La rilevanza penale dell’elusione/abuso;
quali regole da un caso concreto?, in Riv. dir. trib., 2013, III, 81 ss.;
DOTTRINA
del sistema sanzionatorio, dove si richiede al legislatore
delegato di individuare i “confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e le relative conseguenze
sanzionatorie”. Come dirò tra poco, questa previsione
può orientare, in qualche modo, la ricerca di una soluzione ragionevole del problema.
3.1. Abuso, elusione ed evasione: diversità strutturali e convergenze. – Per verificare compiutamente questa possibilità, occorre preliminarmente soffermarsi sulla distinzione tra elusione, abuso ed evasione.
È possibile che questa tripartizione, tradizionalmente
assunta nella sua ossificata staticità per circoscrivere la
sanzionabilità alle sole fattispecie di evasione, non risponda compiutamente al diritto. Grattando l’intonaco
che tralaticiamente la sorregge, penso che l’elusione non
possa essere considerata propriamente una sua categoria,
piuttosto debba essere guardata come categoria economica, esaurente la propria utilità, dal nostro punto di vista, sul piano della descrizione della fattispecie.
Certo, sono consapevole che di elusione parla la rubrica dell’art. 37-bis del DPR n. 600, e che ad essa si richiama anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione per marcare il confine tra questa disposizione e la categoria generale dell’abuso, e non mi sfugge neppure il
fatto – l’ho ricordato poc’anzi – che all’elusione si riferisce l’art. 8 della legge delega.
Posso sbagliare, ma, nonostante questi richiami e
l’utilità, per così dire, contingente legata al bicefalismo
della categoria, rimango dell’idea che l’elusione, per come tradizionalmente intesa, non possa indossare i panni
della norma giuridica. Per il diritto la categoria che viene
in considerazione è l’abuso perché è solo la violazione
del suo divieto che determina conseguenze giuridicamente rilevanti: l’abuso, dunque, come condotta contraria alle regole della buona fede oggettiva, come comportamento artificioso lesivo del diritto del creditore,
volto ad ottenere, come finalità prevalete, un vantaggio
fiscale per il debitore.
L’evasione, finalmente, è categoria apprezzabile per il
diritto come evento, in quanto è la legge a darle questa
qualificazione. L’evasione scolpisce il risultato di quel
comportamento sul duplice piano della sottrazione o occultamento di materia imponibile e del “risparmio” dell’imposta, come specificato nell’art. 1, lettera f ), del
d.lgs. n. 74 del 2000.
Si può dire, allora, che la distinzione tra evasione ed
abuso fotografa non già due fenomeni tra di loro diversi
e separati, come si sostiene per negare la sanzionabilità
dell’abuso (o impropriamente dell’elusione), ma due
13
14
DOTTRINA
profili del medesimo fenomeno: l’abuso descrive la condotta, l’evasione il risultato16.
Per essere ancora più precisi, l’abuso connota un comportamento artificioso o inteso ad usare la legge in maniera impropria; l’evasione, invece, è il risultato – l’evento,
appunto – che accomuna tutte le condotte, siano esse riconducibili alla violazione della buona fede oggettiva e
quindi alla violazione del divieto d’abuso, siano esse di sottrazione o occultamento del reddito, comprese quelle simulatorie, che si pongono senz’altro al di fuori dell’abuso.
La distinzione tra abuso ed altre forme di risparmio
illegale di imposta, insomma, non risiede nel risultato,
ossia nell’evasione, ma nelle condotte.
3.2. Il problema della “determinatezza” e le violazioni di
“evento”. - Ebbene, se la disposizione sanzionatoria che
s’intende applicare è di evento, ovvero ha come suo elemento costitutivo l’evasione dell’imposta, senza specificazioni ulteriori sui fatti ad essa prodromici, anche l’evasione determinata da un comportamento abusivo è suscettibile di esservi ricompresa.
Non intendo portare il ragionamento sul terreno scivoloso della tassatività e determinatezza delle norme
sanzionatorie e della loro interpretazione17. Rammento
soltanto come per i sostenitori della tesi, per così dire,
negazionista della punibilità, affinché questa operi è indispensabile che il trasgressore conosca anticipatamente
fatto e condotta puniti (in via amministrativa o penale
poco importa nell’economia del discorso). L’abuso, invece, si caratterizzerebbe per l’incertezza ex ante del comportamento, il quale potrebbe essere considerato contra
ius solo con un giudizio a posteriori18.
In altra occasione ho già elevato critiche a questa impostazione19, osservando che, se la condotta che concretizza l’abuso è “aperta”, il divieto ad esso collegato si può
ormai considerare sufficientemente definito in punto di
antigiuridicità, sicché anche la condotta, pur “aperta”,
può essere percepita e valutata in questi termini.
16 È per questi motivi che non mi pare di poter condividere la pur
suggestiva distinzione tra abuso ed evasione proposta da Vacca, L’abuso e la certezza del diritto, in Corr. trib., 2014, 1127 ss., specie 1128.
17 Sulla distinzione tra determinatezza, intesa come regola rivolta al
legislatore affinché proceda alla redazione di precetti penali dal contenuto definito, e tassatività, intesa come regola impeditiva dell’estensione analogica della norma penale, cfr. Padovani, Diritto penale, Milano,
1998, 31 ss. Soggiungo che determinatezza e tassatività vengono in
considerazione sia in ambito penale, sia in quello amministrativo tributario, in forza del principio di legalità ex art. 3 del d.lgs. n. 472/1997.
18 In termini fortemente critici sulla punibilità, Flora, Perché
l’“elusione fiscale” non può costituire reato, già cit.
19 Giovannini, Il diritto tributario per princìpi, loc. ult. cit.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Non sembra persuasivo sostenere né che la determinatezza pretenda l’individuazione “casistica” delle modalità di realizzazione del pregiudizio del bene giuridico
tutelato; né che chi tiene comportamenti abusivi non
conosca ormai la loro rimproverabilità per contrasto con
una norma giuridica impeditiva, qual è quella sul divieto
d’abuso, o non possa comunque prevedere gli effetti che
può ragionevolmente produrre un comportamento siffatto20. E l’incertezza eventuale della valutazione giudiziale non può di per sé e astrattamente vietare la reazione
punitiva dell’ordinamento poiché una consimile incertezza caratterizza tutte le violazioni per le quali l’accertamento della “sufficienza causale” della condotta rispetto
all’evento si incardina su un giudizio postumo21.
3.3. La possibile soluzione al problema della punibilità
della violazione del divieto d’abuso alla luce della legge delega. - Intendendo il concetto di determinatezza come
“ragionevole” percezione dell’antigiuridicità della condotta e “ragionevole” prevedibilità degli effetti, la violazione del divieto d’abuso realizza già oggi, per me, una
fattispecie astrattamente punibile. Si tratta ora di verifi20 Significativa la tesi della Corte costituzionale espressa nella
sent. 16 maggio 1989, n. 247, concernente il delitto di frode fiscale
previsto dall’abrogato art. 4, comma 1, n. 7, del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla legge 7 agosto 1982, n. 516. La
Corte ebbe modo di chiarire, con riguardo, proprio, ai princìpi di
determinatezza e tassatività, come “il legislatore, attraverso la norma
in discussione, ha chiaramente operato la scelta del tipo di disvalore
insito nell’ipotesi in esame sul delitto di frode fiscale” e che, d’altra
parte, è pure vero “che il principio di determinatezza è violato non
tanto allorché è lasciato ampio margine alla discrezionalità dell’interprete (tale ampio margine costituisce soltanto un sintomo, da verificare, d’indeterminatezza) bensì quando il legislatore, consapevolmente o meno, s’astiene dall’operare “la scelta” relativa a tutto od a
gran parte del tipo di disvalore d’un illecito, rimettendo tale scelta al
giudice, che diviene, in tal modo, libero di “scegliere” significati tipici”. Si veda inoltre Corte cost., sentt. 9 aprile 1981, n. 96, 18 dicembre 2004, n. 5, e 30 luglio 2008, n. 327.
21 Palazzo, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979, passim, specie 190 ss. Mantovani, Diritto penale, Padova,
1979, 153 e 154. A questo proposito i riferimenti normativi potrebbero essere molti. Ne compio, nell’economia di questo lavoro, solo
due, che secondo me depongono nella direzione or ora indicata.
L’originario art. 323 del codice penale, pure indeterminato nella
condotta, venne ritenuto conforme al principio di legalità dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 7 del 1965. D’altra parte, anche
il nostro art. 16 del d.lgs. n. 74 del 2000 non si può ritenere espressivo di una norma “determinata”, eppure, per come interpretato dalla
della Corte di Cassazione e per come anche secondo me si deve interpretare seguendo il “significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse”, esso è suscettibile di ricomprendere tra i fatti
punibili quelli emersi dall’applicazione delle disposizioni antielusive, a meno che il contribuente si sia (si fosse) adeguato al parere del
Comitato consultivo o a quello del Ministero delle finanze.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
care i termini nei quali la legge delega orienta una soluzione “codificata” e definitiva del problema.
L’art. 5 – si è già sottolineato – non se ne occupa,
mentre di esso sembra esservene traccia nel successivo
art. 8, che delega il Governo ad individuare i confini tra
le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e le
relative conseguenze sanzionatorie.
Penso che la soluzione vada ricercata in seno a questa
disposizione. Vi è un doppio presupposto interpretativo,
però, dal quale è necessario muovere. Il primo: guardare
ai termini “elusione” ed “abuso”, risultanti da una lettura
congiunta degli artt. 5 e 8, come espressivi di categorie
sovrapponibili: ritenere, ai fini qui in considerazione, che
il termine elusione sia stato utilizzato dal legislatore delegato come sinonimo, proprio, di abuso. Scelta, questa,
probabilmente, frutto dell’ossificata staticità della quale
ho parlato poc’anzi a proposito del linguaggio e dei concetti che tramite le sue stringhe si vogliono esprimere.
Il secondo presupposto è riferire il criterio direttivo
dell’art. 8 alla revisione del solo sistema penale. Della
possibilità di adottare una tale interpretazione convince
la collocazione che il criterio stesso ha all’interno della
disposizione. Esso, infatti, è posto a chiusura della sua
“prima parte”, dedicata, appunto, alla revisione della legislazione penale, e prima del criterio dettato per la revisione delle sanzioni amministrative.
Di qui, privilegiando un certo modo di intrendere il
principio di determinatezza, la possibilità di escludere
dalla reazione penale le condotte elusive o abusive e la
possibilità di ritagliare per loro uno spazio all’interno del
sistema amministrativo, con una normazione simile a
quella che caratterizza l’ordinamento francese22.
L’art. 1729, primo comma, lettera b), del code general
des impots dispone l’applicazione di una maggiorazione
dell’80 per cento dell’imposta in caso di violazioni conseguenti all’abuso del diritto “au sens de l’article L. 64 du
livre des procédures fiscales”; con una riduzione al 40 per
cento quando “n’est pas établi que le contribuable a eu
l’initiative principale du ou des actes constitutifs de l’abus
de droit ou en a été le principal bénéficiaire” 23.
22 Questa soluzione, per coerenza sistematica, si dovrebbe accompagnare ad una riscrittura dei reati da dichiarazione, mantenendo la pena criminale solo per le fattispecie contraddistinte da frode,
come, del resto, sembra indicare lo stesso art. 8.
23 L’articolo L64 del Livre de procedures fiscales, contempla una
clausola generale radicata, essenzialmente, su due elementi: l’aggiramento della legge e la finalità esclusiva del risparmio fiscale, dopo
che il Consiglio costituzionale, con la sent. 29 dicembre 2013, n.
685, ha dichiarato illegittima la previsione, introdotta dalla legge finanziaria per il 2013, che collegava l’abuso alla finalità “prevalente”
DOTTRINA
L’interpretazione dell’art. 8 poc’anzi proposta può
aprire anche una diversa strada: l’indicazione che lì compare alla distinzione tra elusione ed evasione potrebbe
essere intesa come finalizzata ad escludere le fattispecie
elusive o abusive da qualsiasi forma di reazione punitiva.
Questa ipotesi potrebbe far leva anche e soprattutto
su una considerazione sistematica. Si potrebbe osservare,
invero, che anche la loro sanzionabilità in via amministrativa viola il principio di determinatezza. E in effetti,
se la misura, pur qualificata dalla legge come amministrativa, ha natura punitiva e se davvero si crede che la
punibilità dell’abuso possa ledere quel principio, riesce
difficile negare validità ad una simile obiezione, specie se
si valorizza la più recente giurisprudenza della Corte
EDU e della Corte di giustizia sulla qualificazione sostanziale delle misure afflittive24.
Si potrebbe così ipotizzare di rimettere la tutela a strumenti solo risarcitori, ipotizzando l’esistenza di un danno
in re ipsa causato dalle operazioni elusive o abusive.
Quale che sia la scelta, rimane una questione di fondo,
che qui mi limito ad introdurre con due interrogativi:
escludere da pena criminale o addirittura da sanzione amministrativa condotte comunque connotate da disvalore e
pregiudizievoli di un diritto dello Stato, sarebbe scelta
davvero rispettosa della ragionevolezza e del principio della proporzionalità della reazione ordinamentale rispetto al
disvalore del fatto (artt. 3 e 27 della Costituzione)? Da un
diverso, ma speculare punto di vista, quella esclusione sarebbe scelta davvero giustificabile alla luce di un’interpretazione della determinatezza (art. 25 Cost.) intesa come
vincolo di individuazione “casistica” dei comportamenti
preparatori dell’evento, anziché come percezione dell’antigiuridicità della condotta e prevedibilità degli effetti?
– e non soltanto esclusiva – del risparmio fiscale, per violazione del
principio di “piena accessibilità e conoscibilità delle leggi” derivante
dagli artt. 4, 5, 6 e 16 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789. Nell’attuale versione, l’art. L64 del Livre de
procedures fiscales cosi dispone: “Afin d’en restituer le veritable caractere,
l’administration est en droit d’ecarter, comme ne lui etant pas opposables,
les actes constitutifs d’un abus de droit, soit que ces actes ont un caractere
fictif, soit que, recherchant le benefice d’une application litterale des
textes ou de decisions a l’encontre des objectifs poursuivis par leurs auteurs, ils n’ont pu etre inspires par aucun autre motif que celui d’eluder ou
d’attenuer les charges fiscales que l’interesse, si ces actes n’avaient pas ete
passes ou realises, aurait normalement supportees eu egard a sa situation
ou a ses activites reelles“. Per un commento, cfr. Fouquet, Fraude a la
loi, l’explicitation du critere «subjectif», in Droit fisc., 2009, n. 39, act.
287; Liprino, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’esperienza francese, in Rass. Trib., 2009, 445 ss.
24 Mi permetto di rinviare a Giovannini e Murciano, Il principio
del “ne bis in idem” sostanziale impedisce la doppia sanzione per la medesima condotta, in Corr. trib., 2014, 1548 ss.
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DOTTRINA
4. Sulla motivazione dell’avviso di accertamento, sulla qualificazione giuridica dei fatti e sul contraddittorio anticipato. – Per terminare l’esame dell’art. 5 delle legge delega,
rimangono da valutare i criteri che esso indica in tema di
motivazione dell’avviso d’accertamento e qualificazione
giuridica dei fatti, ed in tema di contraddittorio.
4.1. La motivazione e la qualificazione giuridica dei fatti
di causa. La nullità dell’avviso di accertamento come conseguenza priva di senso giuridico. – La lettera e) dispone che
la motivazione dell’avviso d’accertamento debba contenere, a pena di nullità dell’atto, la qualificazione della
condotta come abusiva.
Si tratta di un aspetto fondamentale, perché l’indicazione normativa sovverte l’orientamento granitico della
giurisprudenza: la Corte di Cassazione, invero, ammette
pacificamente se stessa e il giudice tributario a riqualificare come abusivi i fatti di causa, sebbene l’amministrazione non li abbia configurati in tal modo nell’avviso
d’accertamento. Essa è consolidata nel sostenere, appunto, che il principio del divieto di abuso “comporta la sua
applicazione d’ufficio da parte del giudice tributario, a
prescindere da qualsiasi allegazione al riguardo ad opera
delle parti in causa”, poiché “il giudice ha – in quanto
connaturale all’esercizio stesso della giurisdizione, quand’anche abbia ad oggetto il mero riesame di atti – il potere di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione”25.
La legge delega accoglie l’opposta prospettazione, sostenuta da quasi tutti gli studiosi. Questo il nocciolo del
loro ragionamento. Poiché l’amministrazione consuma
il suo potere con l’emanazione del provvedimento, nel
quale deve indicare le “ragioni giuridiche” poste a fondamento dell’accertamento (art. 42, comma 2, DPR n.
600 del 1973, art. 56, ultimo comma, DPR n. 633 del
1972), nessuna integrazione è possibile in corso di giudizio da parte sua e dunque neppure da parte del giudice, alla stregua dell’art. 112, cod. proc. civ., per il quale
questi può pronunciare d’ufficio su eccezioni proponibili soltanto dalle parti26. Si dice, esemplificando, che, se
25 Per tutte, Cass., 11 maggio 2012, 7393, e prima Cass. 21 gennaio 2009, n. 1465, e Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055,
già cit., con osservazioni critiche di Cantillo, Profili processuali del
divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d’ufficio, in
Rass. Trib., 2009. Si tratta, quella della giurisprudenza ora ricordata,
di posizione assolutamente pacifica, come si desume facilmente
compulsando un qualunque repertorio giurisprudenziale o qualunque banca dati.
26 Tesauro, Elusione fiscale. Introduzione, in Giur. It., 2010, IV.
Coerentemente con la sua ricostruzione di teoria generale, l’Autore
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
l’amministrazione, nell’avviso d’accertamento, ha qualificato il fatto in un certo modo, il giudice non può modificare la qualificazione invocando il divieto d’abuso: se
il fatto, per l’ufficio, è di evasione, come tale deve essere
giudicato, perché come tale entra nel processo27.
Insomma, siccome il petitum sostanziale è fissato nell’atto dell’amministrazione e semmai ulteriormente delimitato nel ricorso del contribuente in qualità di attore
formale, il giudice, in questo contesto, ha l’obbligo di attenersi ad esso ai sensi dell’art. 112, cod. proc. civ.28
Per parte mia ho già scritto29 che, guardando al divieto
come ad un principio generale del diritto, ossia come ad
una norma giuridica in senso proprio30, la sua applicazione può essere valutata anche come “regola di giudizio”, alla stessa stregua di qualsiasi altra disposizione di diritto
positivo, applicabile dal giudice in forza dell’art. 113 cod.
proc. civ. E ciò perché la massima iura novit curia può essere impiegata in due significati: può indicare bensì una
semplice eccezione alla regola dell’onere della prova, per
cui le norme non si provano e il giudice deve procurarsi
d’ufficio la conoscenza delle fonti del diritto; ma può anche indicare un’eccezione al principio del “chiesto e pronunciato” con riguardo, proprio e soltanto, all’individuazione delle norme rilevanti per la decisione31.
La lettera e) dell’art. 5 fa piazza pulita dell’intero dibattuto: la qualificazione dei fatti spetta soltanto all’amministrazione e la motivazione dell’avviso di accertamento ne è lo strumento.
Quel che non convince, nel criterio dettato dalla lettera e), è la previsione della nullità dell’avviso conseguente alla mancata qualificazione dei fatti come abusivi, previsione che sortisce un grande effetto suggestivo,
ma che è priva di senso giuridico.
Se l’ufficio non qualifica l’operazione come abusiva,
ma la configura, ad esempio, come simulatoria, l’avviso
distingue processi di accertamento del credito richiesto a rimborso e
processi d’impugnazione di atti provvedimentali d’accertamento o
rettifica, riferendo solo a quest’ultimi la preclusione in esame.
27 Cfr. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, già
cit., 701 ss. A soluzione sostanzialmente identica, pur muovendo
dalla ricostruzione del processo come di accertamento del diritto di
credito dell’amministrazione, è giunto anche Russo,
28 Incentrando il ragionando sull’art. 112 c.p.c. e valutando le
previsioni dei commi 4 e 5 dell’art. 37-bis del DPR n. 600, la qualificazione del processo tributario nelle liti di impugnazione come d’annullamento o d’accertamento è irrilevante ai fini che qui interessano. Per riferimenti fondamentali, tra gli autori più recenti, sulla prima impostazione, Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino,
2013, 9 ss.; per la seconda impostazione, alla quale anch’io ritengo
di aderire, Russo, Manuale di diritto tributario, Il processo tributario,
Milano, 2013, 35 ss., 50 ss.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
non può essere considerato nullo. Semplicemente la pretesa creditoria assumerà una struttura giuridica diversa
da quella che avrebbe avuto se i fatti fossero stati qualificati come abusivi, con la conseguenza che anche causa
petendi, motivi e petitum si struttureranno diversamente,
nei termini, per l’appunto, rappresentati dall’attore sostanziale nel provvedimento, senza che il giudice possa
modificarne la loro configurazione giuridica.
4.2. Il contraddittorio anticipato e la sanzione della nullità
dell’avviso di accertamento. – L’altro aspetto che la legge
delega contribuisce a chiarire attiene al contraddittorio:
i decreti delegati – stabilisce la lettera h) – devono disciplinare forme di “efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria” a tutela del “diritto di difesa in
ogni fase del procedimento di accertamento tributario”.
La finalità della disposizione è evidente: introdurre
una fase endoprocedimentale obbligatoria e anticipata
rispetto all’emanazione dell’avviso d’accertamento, sulla
falsariga di quanto dettato dal comma 4 del art. 37-bis.
L’art. 5 della legge delega, però, a differenza di quest’ultima previsione, non indica la sanzione conseguente
al mancato rispetto della scansione procedimentale.
Non specifica, cioè, se il provvedimento d’accertamento
emanato in assenza del preventivo contraddittorio si
debba considerare affetto da nullità, ossia come assolutamente invalido o inesistente32.
La questione non ha rilievo secondario. Provo a darne conto in termini sintetici. Ponendosi nella scia di alcune sentenze delle Sezioni unite della Corte di Cassazione sugli accertamenti parametrici del reddito d’impresa, la nullità sembrerebbe poter operare indipendentemente da una previsione espressa33. Il silenzio del legislatore delegante, allora, potrebbe essere inteso come la
conseguenza di questo orientamento, sicché un eventuale silenzio (anche) del legislatore delegato non determi-
DOTTRINA
nerebbe un guaio sistematico irrimediabile: introdotta
l’obbligatorietà del contraddittorio, il suo mancato rispetto produrrebbe in ogni caso la nullità dell’avviso.
Non sono convinto che la soluzione sia giuridicamente corretta. Questo il motivo.
Il nostro ordinamento è improntato al principio di
tipicità della nullità e della tassatività dei vizi che la determinano; principio che si trova espresso nel codice civile (artt. 1418), nel codice di procedura civile (art.
156), in quello di procedura penale (art. 177) e, finalmente, nella legge n. 241 del 1990 sul procedimento
amministrativo (art. 21-septies).
Il principio di tipicità, invero, non garantisce solo le
parti del rapporto e i loro interessi privatistici, ma tutela
anche l’ordinamento in quanto tale, i cui interessi, qualificabili come d’ordine pubblico, coincidono con la certezza dei traffici e degli effetti giuridici, compresi quelli
riconducibili all’attività della pubblica amministrazione.
Questo ragionamento, secondo me, trova sicura conferma negli artt. 21-septies e 21-octies della legge n. 241 del
1990: il primo individua tassativamente i vizi che determinano la nullità dei provvedimenti; il secondo, predisposto in funzione dell’annullabilità, modula una scala di
rimedi a seconda del grado di incisività del vizio e modula, di conseguenza, i poteri di accertamento del giudice.
Ecco perché, in assenza di una previsione espressa, il
mancato rispetto del contraddittorio anticipato potrebbe non determinare la nullità, intesa come invalidità assoluta o inesistenza dell’avviso di accertamento, ma potrebbe dar luogo ad un’ipotesi di annullabilità valutabile
ai sensi del comma 2 dell’art. 21-octies 34. Ed ecco perché
è auspicabile che il legislatore delegato trovi il modo di
porre rimedio a questo problema, senza creare un ulteriore vuoto normativo.
29 Giovannini, Il diritto tributario per principi, cit., 126 ss.
30 Magari priva di disposizione, come suggerisce Russo, Manuale
di diritto tributario, Parte generale, Milano, 2007, 228.
31 Cfr. Andrioli, Prova in genere (diritto civile), in N. dig. it., X,
Torino, 1939, 823 e 824; Punzi, Jura novit curia, Milano, 1965, 19
ss.; Verde, Prova (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988,
623 ss.; Id., Diritto processuale civile, I, Bologna, 2009, 95; Pizzorusso, Iura novi curia, in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, 1; Capone, Iura novit curia, già cit., 15 ss.
32 La previsione espressa della nullità avrebbe evitato il riprodursi
del dibattito nato intorno all’accertamento sintetico del reddito delle
persone fisiche, per il quale l’omissione del contraddittorio anticipato
non trova una espressa sanzione nell’art. 38 del DPR n. 600 del 1973.
33 Cass. SS.UU., sentt. 18 dicembre 2009, nn. 26635, 26636,
26637, 26638, in “il fisco” n. 2/2010, pag. 236.
34 Su questo aspetto e per ulteriori considerazioni, mi permetto
di rinviare a Giovannini, Note controcorrente su accertamento sintetico, indici ISTAT e diritto alla riservatezza, in Il fisco, 2014, 1319 ss.
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DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Società di comodo e CFC - Modelli a confronto
e proposte di modifica legislativa
di Alberto Maria Gaffuri
L’ordinamento fiscale italiano è incline ad adottare
fondamentalmente due tecniche per scoraggiare/ostacolare l’utilizzo incongruo dello strumento societario, adoperato non per svolgere un’effettiva attività commerciale, con la combinazione di vari fattori produttivi e il
connesso rischio d’impresa, ma per schermare solamente, dal punto di vista giuridico, la titolarità di alcuni beni, attribuiti formalmente in proprietà all’ente collettivo, ma che vengono singolarmente e “nel loro stato naturale” messi a disposizione dei soci o di terzi, che ne
fruiscono a titolo oneroso o gratuito: in alcuni casi, viene fatto obbligo alla società di dichiarare un reddito minimo, proporzionato al valore dei beni facenti parte del
suo patrimonio; in altri, il reddito (effettivamente) prodotto dalla società è imputato per trasparenza ai soci,
con il superamento del velo societario.
Al primo modello è riconducibile la disciplina apprestata dall’art. 30 della l. n. 724/1994, riguardante le c.d.
società di comodo “interne”; al secondo è invece improntata la normativa volta a contrastare l’uso di società di puro godimento costituite all’estero, segnatamente in stati a
bassa fiscalità (artt. 167 e 168 del d.p.r. n. 917/1986).
Si tratta, in entrambi i casi, di regimi fiscali accomunati
dalla stessa finalità punitiva o dissuasiva e da taluni tratti disciplinari comuni, seppur, nel complesso, assai differenti.
SOGGETTI INTERESSATI
L’art. 30 delle l. n. 724/1994 concerne esclusivamente le società di capitale e di persone (tranne quella semplice) residenti in Italia e gli enti di ogni tipo non residenti, purché aventi una stabile organizzazione (quindi
esercenti attività d’impresa) in Italia.
Le regole dettate dagli artt. 167 e 168 del Tuir sulle c.d.
CFC riguardano imprese, società ed enti di ogni tipo1
aventi sede o localizzati in stati a bassa fiscalità (individuati da decreti ministeriali), controllati (così prevede l’art.
1 Devono essere soggetti collettivi che, se fossero costituiti in
Italia, si considererebbero, alla stregua della nostra legge fiscale, esercenti attività commerciale, o per la particolare forma organizzativa
che rivestono (ad esempio, società di capitali) o per il tipo di occupazione cui attendono. Invero, l’art. 167 prescrive che il reddito
delle entità partecipate estere deve essere determinato applicando le
regole stabilite dal Testo unico a proposito dei proventi d’impresa.
167) o partecipati (con il diritto ad una percentuale degli
utili non inferiore al 20%, ai sensi dell’art. 168) da soggetti (persone fisiche o enti morali, commerciali o non commerciali) residenti in Italia.
Dal lato soggettivo, la sfera attuativa dei due apparati
di precetti di contrasto all’abuso dello schema societario
appare immediatamente, quindi, del tutto differente.
Ciascuna disciplina specifica espressamente e in modo
analitico quali sono i destinatari delle sue regole, tra i
quali non vi è alcuna sovrapponibilità o coincidenza.
Nella definizione dell’ambito personale di efficacia dei
due sistemi normativi non si trovano punti di contatto.
Per tale ragione, non è condivisibile la tesi espressa
insistentemente dall’Agenzia (nella circ. n. 331/E del
2007 e nella circ. n. 23/E del 2011), ad avviso della quale, quando il reddito conseguito dal soggetto controllato
estero, determinato secondo le regole ordinarie del reddito d’impresa previste dal Tuir, è imputato al socio di riferimento residente, è possibile e doveroso il suo “raffronto con quello minimo presunto di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994”2.
È ben vero che la costituzione di una società di puro
artificio in un paradiso fiscale consente di godere di un
duplice vantaggio: frapporre tra il fisco e il vero titolare
del reddito uno schermo societario e convogliare verso
lidi fiscali più vantaggiosi i proventi derivanti dallo
sfruttamento di certi cespiti mobiliari o immobiliari. Le
disposizioni sulle società di comodo accrescerebbero e
renderebbero più incisiva la reazione di contrasto dell’ordinamento ai due indebiti benefici, rendendo omogenea la disciplina delle società prive di reale consistenza
imprenditoriale residenti e non residenti. Se non si cumulassero le disposizioni sugli enti di comodo a quelle
sulle Cfc, tutto sommato, potrebbe apparire più conveniente installare i soggetti collettivi di carattere artificiale
all’estero (tassati sui redditi effettivamente conseguiti)
piuttosto che in Italia (dove sarebbero colpiti da imposta
su proventi ipotetici), con una discriminazione a contra2 Tanto è vero che, come riferiscono ROMITA-SANDOLI, Società di comodo e controllate estere: incrocio da evitare, in Sole24Ore,
25 agosto 2014, 21, a partire dal modello Unico 2012 è stata inclusa
nel quadro FC una sezione III dedicata alla verifica dell’operatività
di una CFC.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
rio. Sotto il profilo sistematico, si potrebbe ritenere che
vi sia un rapporto di complementarietà tra le disposizioni sulle Cfc e le disposizioni sulle società di comodo. Le
seconde integrano la risposta della legge fiscale all’uso
abusivo della forma giuridica societaria.
Tuttavia, occorre considerare che il fisco italiano già
si “appropria”, assoggettandolo ad imposta per effetto
delle regole Cfc, di un reddito appartenente ad una società non residente e priva di legami sostanziali con il
territorio domestico, sul quale non avrebbe pertanto alcun diritto di avanzare pretese. A questa prima penalizzazione, che subisce il socio della società non residente,
cui viene imputato per trasparenza il reddito della Cfc,
laddove trovassero attuazione pure le norme sugli enti di
comodo, si aggiungerebbe la tassazione del socio medesimo su di un reddito meramente virtuale. Vi sarebbe
pertanto un cumulo di misure fiscali sfavorevoli non voluto da legislatore, stando al tenore letterale dei precetti
normativi, tranne nel caso particolare descritto nell’art.
168 del Tuir, che è norma specifica, non estendibile ad
altre fattispecie ivi non contemplate.
La legge reagisce all’uso di un velo societario estero
imponendo la sua rimozione, con l’attribuzione ai soci
dei redditi effettivamente prodotti (determinati secondo
i canoni domestici). La legge richiede soltanto di ricalcolare il risultato reddituale conseguito dell’ente straniero
con le regole italiane, non vuole una parificazione completa di trattamento fiscale tra società non realmente
operative straniere e domestiche, perché sono fondamentalmente diversi l’approccio al problema delle une e delle
altre e le misure di tutela fiscale adottate per contrastare i
due fenomeni. L’idea manifestata dall’Amministrazione
circa una possibile sovrapposizione di effetti penalizzanti
non trova alcun appiglio (spiraglio) normativo.
Dunque sembra cogliere nel segno quella corrente
interpretativa3 che critica la posizione espressa dall’Amministrazione finanziaria, ritenuta carente di qualunque
supporto testuale. Anzi, come mettono in evidenza i sostenitori della posizione esegetica qui condivisa, le stesse
norme sulle CFC restringono esplicitamente il novero
delle regole utilizzabili per la liquidazione del reddito
delle CFC ai soli precetti contenuti nel d.p.r. n.
917/1986, con esclusione di qualsiasi disposizione estranea a quel testo legislativo4.
3 ROMITA-SANDOLI, Società di comodo e controllate estere: incrocio da evitare, cit., 21; Id., Il coordinamento tra disciplina sulle società di comodo e normativa CFC, in Corr. trib., n. 4/2012, 302; Giaconia M.,- A. Pregagilia, Società CFC “white list”: tax rate virtuale domestico ed estero a confronto, in Fiscalità e comm. int., n. 7/2011, 6.
4 Anche il fisco nella circ. 12/E del 2014 ha dichiarato non estensibile alle CFC la normativa sul c.d. ACE (aiuto alla crescita economica),
DOTTRINA
PRESUPPOSTI ED EFFETTI APPLICATIVI
La presunzione di non operatività sancita dall’art. 30
della l. n. 724 spiega effetti: (I) quando i ricavi le rimanenze e i proventi (esclusi quelli straordinari5) non superano è inferiore alla somma degli importi che risultano
dall’applicazione di talune percentuali al valore dei cespiti della società (partecipazioni, obbligazioni, strumenti
finanziari, immobili, navi e imbarcazioni). Si tiene conto
dell’ammontare medio dei ricavi e del valore medio degli
elementi patrimoniali nell’ultimo triennio; (II) ex art. 2
d.l. n. 138/2011 c. 36 decies, hanno natura artificiosa
anche le società che, nell’arco di un triennio, presentano
sempre dichiarazioni in perdita o risultano fiscalmente
in perdita per due anni (anche non consecutivi6) e nel
terzo dichiarano un reddito inferiore al minimo previsto dal test di vitalità di cui al sopra citato art. 307.
Le conseguenze del carattere non operativo sono, in
breve: l’obbligo di dichiarare un reddito minimo, determinato induttivamente applicando certi coefficienti
percentuali al valore dei cespiti patrimoniali8; tale reddito minimo costituisce anche il valore della produzione
assoggettabile ad Irap; sul predetto reddito forfettariamente stabilito l’aliquota Ires sale al 38%9; l’impossibilità di riporto delle perdite, che non possono essere compoiché tale normativa è collocata al di fuori del Tuir, le disposizioni
del quale sono le uniche a poter essere utilizzate nel processo di calcolo del reddito delle CFC. Rilevano ROMITA-SANDOLI, Società
di comodo e controllate estere: incrocio da evitare, cit., 21, che il principio sostenuto dall’Agenzia nell’atto interpretativo del 2014 smentisce proprio la tesi posta alla base delle circolari che ritengono possibile applicare le norme sulle società di comodo alle CFC, nonostante siano esterne al Testo unico.
5 Ovvero quelli che non derivano dall’attività caratteristica e che
quindi non hanno carattere costante e ripetitivo.
6 Ad esempio, il primo e il terzo anno del triennio considerato.
7 Al fine di stabilire se in un certo anno una società sia assoggettabile al regime in esame occorre dunque verificare cosa è successo
nei tre esercizi precedenti. Se una società è in perdita fiscale per tre
anni, è ragionevole pensare che l’assoggettamento alla disciplina in
esame non divenga permanente, ma sia limitata al quarto anno
(POGGIOLI, Gli interventi normativi sulla disciplina delle «società
non operative» tra esigenze di gettito e rispetto dei principi costituzionali, in Riv. dir. trib., 2012, …
8 Sotto questo aspetto, la tassazione delle società non operative
rischia di declinare in una surrettizia tassazione del patrimonio (in
tal senso: BEGHIN, Gli enti collettivi di ogni tipo «non operativi», in
FALSITTA, Manuale di diritto tributario, par. spec., Padova, 2014,
715). Sul pericolo, nella società di comodo, di passare dall’imposizione del reddito a quella del patrimonio: LUPI, Modifiche alle società di comodo: norma antievasione o patrimoniale camuffata?, in Dialoghi dir. trib., 2006, 1431 ss..
9 Con l’intento, forse, di avvicinare in tal modo il carico fiscale
gravante sulla società a quello che avrebbero scontato i soci persone
fisiche (STEVANATO, Società «di comodo»: un capro espiatorio
buono per ogni occasione, in Corr. trib., 2011, 3889 ss.).
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DOTTRINA
pensate con il reddito minimo; l’eventuale credito Iva
non può essere chiesto a rimborso né compensato con i
debiti relativi ad altri tributi (compensazione orizzontale); qualora per tre periodi d’imposta la società abbia un
volume di affari inferiore all’importo dei ricavi che funge da parametro per verificare la vitalità dell’ente, ai sensi del primo comma dell’art. 30 più volte citato, non è
nemmeno possibile riportate a nuovo il credito (compensazione verticale).
L’art. 167 del Tuir, invece, dispone che se un soggetto
residente in Italia detiene il controllo diretto o indiretto
di imprese ubicate in Stati o territori dotati di regimi fiscali più vantaggiosi di quello italiano, i redditi (realmente) conseguiti dal soggetto estero partecipato sono
imputati al soggetto controllante in proporzione alla sua
quota di partecipazione agli utili. I redditi dell’impresa
partecipata sono assoggettati a tassazione separata. Ad
essi si applica l’aliquota media del soggetto residente,
non inferiore comunque al 27%. Gli utili distribuiti, in
qualsiasi forma, dai soggetti partecipati non concorrono
alla formazione del reddito dei soggetti residenti fino all’ammontare del reddito colpito dal prelievo per effetto
dell’imputazione automatica. Il d.lgs. n. 344/2003 ha
esteso, peraltro, con una disposizione innovativa, le regole previste in origine solo per le società controllate anche alle fattispecie in cui tra il soggetto residente e quello
collocato nel paradiso fiscale corre un legame partecipativo che può essere insufficiente a garantire un’influenza
dominante. Nell’art. 168 del Tuir, il legislatore si accontenta di una partecipazione non inferiore al 20% o al
10%, a seconda dei casi, agli utili dell’impresa sedente
nel paradiso fiscale. In questo caso – e solo in questo caso – il socio italiano deve dichiarare il maggiore tra i seguenti importi: l’utile prima delle imposte risultante dal
bilancio redatto dalla partecipata straniera; un reddito
induttivamente determinato sulla base di coefficienti riferiti alle categorie di beni che compongono l’attivo patrimoniale della medesima partecipata estera.
ASPETTI PROCEDURALI
Se la società, pur ricadendo nella definizione di ente
non operativo, omette di dichiarare il reddito obbligatoriamente stabilito nell’art. 30, l’ufficio può eseguire un
controllo e formulare un accertamento, recuperando a
tassazione l’importo dei proventi normativamente predeterminati, nel quale motiverà la ripresa fiscale adducendo
(e dimostrando) soltanto la natura di comodo della società. Sarà la contribuente (ammesso che possa difendersi in
giudizio, come si vedrà, in assenza della richiesta d’interpello) che dovrà dimostrare le ragioni per le quali non è
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
riuscita a conseguire un reddito di valore almeno uguale
alle aspettative minime stabilite nell’art. 30.
Ugualmente, nel caso delle CFC, se un residente in
Italia, pur controllando un ente localizzato in un paradiso fiscale o pur possedendo una partecipazione non inferiore al 20% degli utili prodotti da quello, non provvede
a sommare al proprio reddito la quota di pertinenza di
quello conseguita dal soggetto collettivo estero, l’ufficio
potrà provvedere, con apposito atto impositivo, ad imputare al socio italiano la porzione di sua spettanza del
risultato reddituale ottenuto dalla partecipata estera.
In entrambe le discipline è prevista una sorta di contraddittorio preventivo; tuttavia, diversamente da quanto accade in materia di redditometro o studi di settore,
in ambedue le situazioni delineate nelle norme in commento, non è l’ufficio che è tenuto ad instaurare o a
tentare di instaurare un dialogo collaborativo con il
contribuente, ma è costui che ha l’onere di avviare lo
scambio preliminare di informazioni e di opinioni con
l’amministrazione, al fine di ottenere la disapplicazione
delle prescrizioni fiscalmente penalizzanti di cui si discorre (a parte i casi di disattivazione automatica per la
disciplina delle società di comodo), tramite interpello.
Differente è tuttavia la regolamentazione del procedimento partecipativo nei due regimi di sfavore10. L’art.
167 del Tuir, relativamente alle CFC, stabilisce che, al
fine di evitare l’imputazione del reddito prodotto dalla
società estera, il socio residente deve preventivamente
interpellare l’amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 11 della l. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente). Ne consegue che la risposta del fisco (l’organo incaricato è il direttore regionale delle entrate) è vincolante solo per quest’ultimo (nel senso che non si può
emettere un accertamento in contrasto con le indicazioni fornite in sede di interpello11. Il contribuente rimane
invece libero di fare quello che ritiene più opportuno;
se però non si adegua al parere ricevuto dall’ufficio, subirà, con ogni probabilità, l’esercizio dell’azione accertativa); nel caso in cui l’ufficio ometta di formulare
espressamente il suo punto di vista, il silenzio equivale
all’accoglimento della tesi circa l’inesistenza dei presupposti per l’assoggettamento alle regole sulle CFC certamente enunciata dal contribuente nella sua istanza di
chiarimento.
10 Del resto le forme di interazione tra fisco e contribuenti che
vengono designate come interpelli sono ben lontane dal costituire
un istituto unitario (PISTOLESI, Gli interpelli tributari, Milano,
2007, 1 ss.; RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari,
Torino, 2009, 117).
11 Si veda RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, cit., 130 ss..
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Viceversa, quando si tratta di società di comodo interne, l’interpello disapplicativo va presentato in forza dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600/1973. Il d.m. n. 259/1998 il quale reca le norme applicative delle disposizioni generali contenute nell’art. 37 bis - sancisce che la risposta
del direttore regionale delle entrate deve essere resa entro
novanta giorni dalla presentazione dell’istanza. Peraltro,
i precetti regolamentari nulla precisano in ordine al valore del documento emanato dell’ufficio e a che cosa succeda se l’organo adito rimane inerte. Escluso in quest’ultimo caso che sia analogicamente richiamabile l’art. 20
della l. n. 241/1990 (posto che le osservazioni dell’ufficio non hanno natura provvedimentale, ma il carattere
di una mera esternazione di pensiero, che l’istante è libero di recepire o disattendere), mi sembra che, tanto se
l’organo preposto risponde quanto se rimane in silenzio,
sia applicabile l’art. 10, secondo comma, dello Statuto,
a mente del quale non sono irrogate sanzioni o interessi
moratori al contribuente che si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione o qualora il
suo comportamento (in concreto, l’omessa denuncia del
reddito minimo fissato nell’art. 30) risulti posto in essere
a seguito di un’omissione (del parere richiesto, nel caso
specifico) di cui si sia resa responsabile l’amministrazione medesima.
Nell’interpello di cui all’art. 30, la società deve illustrare le ragioni economiche oggettive che hanno reso
impossibile ottenere l’ammontare dei ricavi, delle rimanenze e dei proventi minimi stabiliti ai fini del test di
operatività o del reddito minimo determinato in forza
dei coefficienti indicati nel terzo comma del medesimo
art. 30 o, ancora e infine, che hanno generato le perdite
dichiarate. Le motivazioni obbiettive possono consistere
anche in fatti e circostanze che dipendono dalle scelte
gestionali12 (ad esempio, un investimento che, contrariamente alle aspettative, ha avuto un esito infausto).
È discutibile se la società possa addirittura ammettere
di essere di puro godimento e spiegare le ragioni fattuali,
connesse proprio a quella sua specifica funzione, per le
quali non è riuscita a raggiungere l’obiettivo di guadagno basilare fissato nella norma (a titolo esemplificativo,
12 In tal senso: TOSI, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV, Le società di comodo, a cura di TOSI,
Padova, 2008, 12; BEGHIN, Gli enti collettivi di ogni tipo «non operativi», cit., 735. Anche la recente sentenza n. 757/6/14 della Comm.
trib. prov. di Cagliari (citata da MIELE, Società di comodo in cinque
anni, in Il Sole24ore, 15 agosto 2014, 27), accogliendo il ricorso
contro il diniego di disapplicazione della disciplina sulla società di
comodo, ha affermato che i risultati negativi dovuti a scelte aziendali
errate non possono costituire il fondamento di accertamenti che
ipotizzano l’inoperatività dell’ente.
perché concede in tutto o in parte i beni in uso gratuito
ai soci). Da un canto, consentire una simile argomentazione difensiva indebolirebbe la finalità disincentivante
e “punitiva” della disciplina in esame, volta a scoraggiare
il ricorso allo strumento societario solo per schermare la
titolarità di alcuni beni. Dall’altra, anche l’attribuzione
di beni societari in uso senza corrispettivo o per un compenso inferiore al prezzo di mercato13 o il riconoscimento di altri vantaggi ai soci o ai terzi che, per le loro caratteristiche, minano la capacità reddituale dell’ente, sono
dati concreti, suscettibili di rientrare nel concetto di situazione oggettivamente verificabile che giustifica lo
scarso livello di guadagni della società e la presentazione
dell’interpello. Inoltre, ciò che importa, nel sistema delineato dal legislatore, dovrebbe essere lo svelamento delle
vere dinamiche societarie, indipendentemente da quali
esse siano: di fronte alla franca denuncia di eventi reali,
di qualunque genere, che impediscono all’ente di conseguire proventi adeguati, il prelievo fiscale sul reddito induttivamente liquidato si dovrebbe arrestare, pena il pagamento dell’imposta su di un ricchezza figurativa di cui
si appalesa l’inesistenza, con la chiara ed intollerabile
violazione dei principi costituzionali.
Nelle società di comodo a ristretta base partecipativa,
il reddito presuntivamente calcolato ai sensi dell’art. 30
non può essere imputato ai soci; è troppo lontana la sua
corrispondenza con la realtà per ipotizzare la sua distribuzione.
Per le CFC, il socio residente, interpellando l’amministrazione, può evitare l’imputazione dei redditi prodotti dalla società estera partecipata dimostrando, alternativamente, o che quella svolge un’attività economica
effettiva (nello stato in cui ha sede, caratterizzato da un
regime tributario particolarmente favorevole) o che i
proventi da essa conseguiti sono già sottoposti ad imposizione in uno stato a fiscalità ordinaria, mediante l’attribuzione o la distribuzione ad una società interposta.
Non è, tuttavia, ammesso addurre la prova che la società
straniera è dedita a concreti compiti operativi, qualora
almeno la metà dei suoi proventi deriva dalla detenzione
e gestione di titolo partecipativi, beni immateriali o dall’erogazione di servizi ad altre società del gruppo14.
Rammento che, ai sensi dell’art. 67, primo comma, lett. h ter,
del Tuir, costituisce reddito diverso la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni
dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore.
14 Lascia certamente perplessi l’impossibilità di invocare l’esimente riguardante l’effettiva capacità operativa quando la società estera presta servizi agli altri membri del gruppo. In tal caso, è fuor di
dubbio che l’ente sia munito di un concreto apparato strumentale,
attraverso il quale compie reali operazioni imprenditoriali. Impedire
13
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22
DOTTRINA
RIFLESSI PROCESSUALI
Occorre domandarsi che cosa accada se una società
non promuove l’interpello CFC o quello stabilito per gli
enti di comodo.
Secondo l’amministrazione finanziaria fin (circ. n. 5
del 2.2.2007), l’ente che omette di richiedere il parere
dell’Agenzia delle entrate perderebbe la facoltà di agire
in giudizio per opporsi all’eventuale, successivo avviso di
accertamento. La tesi non appare fondata: tramite la risposta all’interpello si comunica una semplice opinione
interpretativa, come ammette la stessa amministrazione
(circ. n. 7 del 2009)15, non suscettibile di esplicare effetti
giuridici preclusivi verso il contribuente che propone
l’istanza. La procedura di consultazione e il suo esito
non sono pertanto in grado di compromettere o menomare il diritto di adire l’autorità giudiziaria del socio della CFC o della società di comodo16. Del resto, le norme
che si stanno esaminando non comminano alcuna decadenza a carico del soggetto che non esperisce l’istanza di
interpello; esse riservano al contribuente la mera facoltà
di promuovere detta istanza17. La tesi circa la mancanza
di conseguenze penalizzanti provocate dall’omessa presentazione dell’interpello è avvalorata, a contrario, dall’opinione sostenuta dalla Cassazione a proposito dell’accertamento con adesione (ord. n. 21769/2012,
SS.UU. sent. n. 3676/2010), laddove la Corte ha sostenuto che la mancata convocazione del contribuente, in
caso di richiesta di accertamento con adesione, non
comporta la nullità del provvedimento impositivo, perché una simile sanzione non è prevista dalla legge.
Recentemente, la Cassazione (sent. n. 16183/2014)
ha statuito che l’instaurazione della procedura d’interpello di cui all’art. 37 bis costituisce per il contribuente
una libera scelta e non una via obbligata, Conseguentemente, al contribuente è sempre consentito fornire in
aprioristicamente, in tal caso, di sfuggire alle severe regole sulle CFC
significa negare in radice la libertà dell’imprenditore di organizzare
nel modo che ritiene più conveniente l’esercizio della sua attività, in
violazione delle norme interne, comunitarie e internazionali.
15 La funzione prioritaria degli interpelli è interpretativa anche
ad avviso della dottrina (DEL FEDERICO, Autorità e consenso nella
disciplina degli interpelli fiscali, in AA.VV., Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di LA ROSA, Milano, 2008,
162; NUSSI, P
16 Nello stesso senso: PISTOLESI, L’interpello per la disapplicazione del regime delle società di comodo, in Corr. trib., 2007, 2995
ss.; SCHIAVOLIN, Considerazioni di ordine sistematico sul regime
delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo, a cura di
TOSI, Padova, 2008, 72; BEGHIN, Gli enti collettivi di ogni tipo
«non operativi», cit., 738.
17 Sulla non obbligatorietà del’interpello: TOSI, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, cit., 10-11.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
giudizio la prova delle condizioni che consentono di superare la presunzione posta a carico dello stesso (nello
stesso senso: Cass., n. 17010/2012; Comm. trib. reg. di
Milano, n. 170 del 5.12.2011; Comm. trib. prov. di
Sondrio, n. 3/03/2011; contra: Comm. trib. prov. di
Pisa, n. 437/1/1418).
La conseguenza del mancato esperimento dell’interpello sarà dunque la notificazione di un accertamento
nel quale l’ufficio dovrà illustrare le ragioni per le quali
ritiene che la società italiana o straniera sia una costruzione puramente artificiosa, evidenziando inoltre o che
la società residente si è discostata dalle soglie quantitative minime sancite dalla legge o che il socio italiano ha
omesso di dichiarare pro quota il reddito della partecipata straniera, senza addurre alcuna spiegazione plausibile.
Un ulteriore profilo problematico è rappresentato
dalla impugnabilità del responso sfavorevole al contribuente fornito dall’amministrazione.
Personalmente propendo per la soluzione negativa,
considerata, come già detto, la natura di semplice parare
delle esternazioni dell’ufficio destinatario della domanda di interpello. L’atto proveniente dall’amministrazione, essendo emesso per soddisfare una richiesta di chiarimento esegetico, lungi dal formulare una pretesa fiscale
precisa e già completa di tutti gli elementi essenziali, è
esclusivamente una manifestazione di pensiero. Del resto, un simile atto non è compreso nel catalogo dei provvedimenti autonomamente impugnabili recato dall’art.
19 del d.lgs. n. 546/199219.
La Cassazione, dal canto suo, ha cambiato al riguardo più volte idea, oscillando tra interpretazioni divergenti, che coprono sostanzialmente tutto l’arco dei possibili orientamenti esegetici20. In alcune pronunce (n.
8663/2011 e ord. n. 20394/2012), essa ha ritenuto sussistente l’obbligo di impugnare la risposta negativa - che
18 Tutte decisioni citate da COMMITTERI, Società di comodo:
difesa in giudizio anche senza l’interpello preventivo, in Il fisco, 2014,
3191 ss.
19 Sulla non impugnabilità della risposta negativa: TESAURO,
Gli atti impugnabili ed i limiti della giurisdizione tributaria, in Giust.
trib., 2007, 14-15; PISTOLESI, Gli interpelli tributari, cit., 40 ss.;
STEVANATO, Il diniego di disapplicazione delle norme antielusive:
assenza di «efficacia preclusiva» e superfluità di una tutela giurisdizionale, in Dialoghi di dir. trib., 2005, 29 ss.; DEL FEDERICO,
Autorità e consenso nella disciplina degli interpelli fiscali, cit., 171, per
il quale una ipotesi di interesse diretto ed attuale all’impugnativa
sembrerebbe però configurabile in caso di declaratoria di inammissibilità o di improcedibilità, giacché in tal caso non sarebbe concepibile alcuna tutela differita.
20 Per una breve panoramica sulla giurisprudenza della Cassazione e di merito relativa all’interpello sulle società di comodo, si
veda la tabella riportata in calce all’articolo di GAVELLI, Non operative, ricorso opportuno, in Il Sole24Ore, 29 agosto 2014, 32.
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
avrebbe i connotati di un diniego di agevolazioni - con la
conseguente decadenza dell’istante, che non abbia fatto
tempestivamente opposizione contro quella risposta, dal
diritto di contestare davanti all’autorità giudiziaria il
susseguente accertamento. In altre (n. 17010/2012 e la
recente n. 11929/2014), più correttamente, la Suprema
Corte ha stabilito che il contribuente può scegliere discrezionalmente se proporre subito ricorso contro le indicazioni (non allineate con la tesi prospettata nella
domanda) rese dall’ufficio interpellato, conservando
intatta la facoltà, se opta per l’attesa, di censurare in giudizio il successivo avviso di accertamento. In una decisione (n. 20526/2013, riferita all’interpello c.d. ordinario, ex art. 11 della l. n. 212/2000), essa ha affermato invece l’impossibilità di sottoporre al vaglio del giudice
tributario la correttezza delle affermazioni compiute
dall’organo amministrativo adito, risolvendosi queste in
un pronunciamento privo di vincolatività, reso in conseguenza di una richiesta meramente consultiva21.
PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA DISCIPLINA
RIGUARDANTE LE SOCIETÀ
DI MERO GODIMENTO
Le regole dirette a contrastare il fenomeno delle società “senza impresa” necessitano di una profonda rivisitazione, anzi di una radicale riforma.
Esse appaiono eccessivamente sbilanciate in favore
degli interessi del fisco, se non addirittura irragionevolmente punitive per i contribuenti.
La determinazione del reddito delle società di comodo interne poggia apparentemente su criteri aleatori,
che, a quanto consta, non sono sintesi di regole d’esperienza ricavate da analisi della realtà fattuale e di elaborazioni statistiche medio/normali applicate a concreti dati
21 L’Agenzia sostiene che l’istanza, per essere valida, dovrebbe essere presentata almeno novanta giorni prima della dichiarazione dei
redditi. Giustamente la giurisprudenza di merito esclude che il mancato rispetto di questo lasso di tempo minimo pregiudichi l’efficacia
della richiesta (Comm. trib. prov. di Milano, sez. XVI, 7 maggio
2012, n. 181; Comm. trib. prov. di Milano, sez. XLIII, 29 maggio
2013, n. 213).
Si discute poi se il ricorso contro la risposta dell’ufficio debba essere
indirizzato alla commissione provinciale nella cui circoscrizione si trova la direzione regionale che fornisce detta risposta (in tal senso, condivisibilmente: Comm. trib. prov. di Vicenza, sez. VI, 3 maggio 2013,
n. 81; Comm. trib. prov. di Milano, sez. XLVI, 14 novembre 2013, n.
413; Comm. trib. prov. di Torino, sez. XX, 16 gennaio 2012, n. 4) o
alla commissione nella cui circoscrizione si trova la sede dalla direzione
provinciale alla quale spettano le attribuzioni sul tributo controverso
(così: Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. IV, 13 luglio 2012, n.
96; Comm. trib. reg. di Bari, sez. XXII, 16 gennaio 2012, n. 1).
settoriali. Il meccanismo di calcolo del reddito delle società in questione muove dal presupposto, tutt’altro che
scontato, che vi sia un rapporto diretto tra valore del
patrimonio e ammontare del reddito22. La tassazione di
quest’ultimo nasconde in realtà una forma surrettizia di
imposizione patrimoniale, che si cumula, soltanto per i
soggetti in questione, al prelievo sul patrimonio attuato
con i tributi locali. Eccessivo appare anche l’innalzamento al 38% dell’aliquota sull’imponibile presunto.
Occorre dunque approfittare dell’occasione offerta
dall’art. 12 della l. n. 23/2014, che conferisce al Governo la delega per la riforma del sistema fiscale, al fine di
rivedere, innovandone per molti aspetti il contenuto, le
disposizioni in questione.
La norma da ultimo citata prescrive “la revisione della disciplina impositiva riguardante le operazioni transfrontaliere, con particolare riferimento …. al regime di
imputazione per trasparenza delle società estere e di
quelle controllate”, nonché la “revisione, razionalizzazione e coordinamento della disciplina della società di
comodo”.
A mio avviso, sarebbe auspicabile cambiare le regole
vigenti in materia di società non operative uniformando
la relativa disciplina, con l’adozione per tutte indistintamente del modello delle CFC controllate.
Di conseguenza, quando una società, ubicata in Italia
o all’estero, è costituita solo per nascondere l’identità dei
veri possessori di certi beni e/o per interporsi nella percezione dei compensi derivanti dalla semplice concessione in uso ai terzi di alcuni cespiti patrimoniali, il reddito
da quella effettivamente conseguito può essere imputato
per trasparenza ai soci, indipendente dalla distribuzione.
Razionalizzando le loro regole di funzionamento, è
ammissibile mantenere in vita meccanismi di determinazione induttiva del risultato reddituale, legati al valore
delle componenti patrimoniali o al reddito generato ordinariamente (in Italia o all’estero) da società con caratteristiche similari, soltanto laddove non si riesca a risalire
ai guadagni concretamente ottenuti dall’ente (si immagini una società sedente in un paradiso fiscale, che non
scambia alcuna informazione con il fisco italiano).
Riprendendo il contenuto del precetto recato dall’attuale art. 167 del Tuir, si potrebbe stabilire che una società si considera di puro godimento se i suoi proventi
derivano prevalentemente dalla mera detenzione dei cespiti patrimoniali, che l’ente titolare si limita a gestire
SCHIAVOLIN, Considerazioni di ordine sistematico sul regime
delle società di comodo, cit., 61 scrive che il punto dolente della disciplina sulla società di comodo è che questa disciplina è priva di un
convincente fondamento logico generale.
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DOTTRINA
mettendoli a disposizione dei soci o di soggetti estranei
alla compagine societaria, quando in questa prestazione
elementare si esaurisce ogni attività sociale. Al tale proposito, andrebbe invece cancellata la disposizione ora in
vigore, secondo la quale una società estera che fornisce
servizi agli altri membri del gruppo (qualora questi servizi non si appiattiscano ovviamente nell’attribuzione alle consociate delle utilità dei beni che compongono la
dotazione patrimoniale) si considera non operativa, poiché l’erogazione di prestazioni ai terzi, con lo sfruttamento di un’apposita struttura produttiva, dimostra che
la natura dell’ente è esattamente opposta a quella irragionevolmente supposta dalla legge.
Ancora, a tale riguardo, occorrerebbe modificare la
disposizione che ravvisa la natura di ente di mera facciata nella società il cui reddito è formato, in misura superiore al 50%, da proventi conseguiti con la detenzione e
lo sfruttamento passivo di cespiti patrimoniali. Sarebbe
opportuno un innalzamento della soglia del 50% dei
guadagni. Una società che ottiene invero quasi la metà
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
del suo reddito con lo svolgimento di reali operazioni
commerciali non può essere considerata di mero godimento. Il dato numerico che consente di ipotizzare la
fittizietà di un ente commerciale andrebbe innalzato almeno al 70 o 80%.
Bisogna poi consentire al contribuente di dimostrare
lo svolgimento di una reale attività economica, persino
nel caso in cui i proventi derivino prevalentemente, in
uno o più esercizi, dalla conclusione di contratti d’uso di
beni societari. La predominanza dei guadagni in questione potrebbe invero dipendere da situazioni contingenti.
Infine, dovrebbe essere abrogata la norma sulla natura inattiva delle società in perdita sistematica. Tuttavia,
se si volesse mantenere in vita a tutti i costi questa disposizione eccessivamente penalizzante, sarebbe auspicabile
prevedere almeno sia un prolungamento del periodo di
tempo minimo trascorso il quale si rendono applicabili
le norme sulle società di comodo23, sia un’introduzione
graduale del regime di imputazione all’ente di un reddito figurativo.
23 MIELE, Società di comodo in cinque anni, cit., 27 e DEOTTO, Società di comodo con più vie d’uscita, in Il Sole24Ore, 6 settembre 2014, 14, ricordano che il parere della Commissione Finanze
della Camera allo schema di decreto legislativo di attuazione delle
delega fiscale sulle semplificazioni suggerisce di ampliare a cinque
periodi d’imposta, chiusi con un risultato passivo, l’arco temporale
di attesa prima di dar corso all’assoggettamento alle norme sulle società di comodo.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
DOTTRINA
I lineamenti della nuova imposta sul reddito
imprenditoriale (IRI) nella legge delega per la revisione
dell’ordinamento tributario*
di Mauro Beghin
1. Tra le novità che accompagnano la legge delega n.
23/2014 è senz’altro da annoverare l’annunciata introduzione nel nostro sistema fiscale di una nuova imposta. Si
tratta dell’imposta sul reddito imprenditoriale (IRI), la
cui disciplina, configurata nell’art. 11, lettera a) della citata legge n. 23, prevede essenzialmente uno sviluppo
lungo due importanti direttrici. La prima è quella della
uguaglianza tributaria, perchè, come tra poco diremo, su
tutti i redditi d’impresa si applicherà l’aliquota del
27,5%, come previsto per l’IRES. La seconda direttrice,
invece, è quella della riaffermazione del principio di progressività, perchè i prelevamenti effettuati in azienda dagli imprenditori individuali e di soci delle società di persone saranno assoggettati all’imposta personale (IRPEF).
Vediamo il come e il perché.
2. È anzitutto stabilito, in funzione della revisione del
vigente sistema impositivo, che il nuovo tributo si applichi, in sostanza, agli imprenditori oggi esclusi dal comparto dell’IRES e con assimilazione, come poc’anzi rilevato, alla stessa IRES, la quale diviene, così, il punto di
riferimento quanto alla tassazione dei redditi prodotti
dagli imprenditori commerciali.
Su di un aspetto è necessario far subito chiarezza.
Tale assimilazione non va confusa con la sussunzione: non stiamo dicendo, infatti, che gli imprenditori oggi esclusi dal campo di applicazione dell’IRES diventeranno, domani, soggetti passivi di quest’ultimo tributo.
Si tratta, invece, di mero e parziale riferimento a quella
disciplina, dato che gli imprenditori oggi esclusi dall’IRES ricadranno nel novero dei soggetti passivi della
nuova imposta sul reddito imprenditoriale “con aliquota
* L’articolo riproduce, con qualche adattamento, lo schema utilizzato dall’autore per la relazione svolta nell’ambito del convegno di
studi organizzato dall’ANTI, sezione Friuli Venezia Giulia, sul tema
de “La legge delega per la revisione dell’ordinamento tributario, più
che per la riforma del sistema fiscale. Il convegno si è svolto in data
14 novembre 2104 ad Udine, presso il Salone del Parlamento.
proporzionale allineata a quella dell’IRES”. Si tratta, dunque, di una assimilazione limitata all’aliquota e non certo estesa alle regole di determinazione dell’imponibile.
In futuro, dunque, non avrà alcun peso il fatto che la
ricchezza sia stata generata mediante l’utilizzo di una
struttura societaria oppure attraverso un’ impresa individuale. Nemmeno assumerà rilevanza, rimanendo sul
terreno degli enti, il fatto che il suddetto reddito sia
ascrivibile ad una società di capitali piuttosto che ad una
società di persone.
Sarà per contro reputato dirimente il fatto che quel
reddito sia scaturito da una fattispecie qualificabile, appunto, come “impresa”, con la conseguenza che, qualora
tale presupposto possa dirsi realizzato, l’imposta dovrà
abbattersi su quell’arricchimento con una sola aliquota,
uguale per tutti e – come è a questo punto evidente –
lontana dagli schemi della progressività. L’art. 11 cit. stabilisce in effetti, con evidente intento rafforzativo del
concetto qui sopra espresso, che l’aliquota allineata a
quella dell’IRES debba essere “proporzionale”. E la proporzionalità – non v’è dubbio – espunge la progressività.
La nuova imposta sul reddito imprenditoriale mira
pertanto ad evitare disparità di trattamento tra redditi
d’impresa prodotti da soggetti ricadenti nel comparto
dell’IRES e redditi d’impresa generati da soggetti che da
quest’ultimo comparto siano rimasti esclusi.
In termini più semplici, il citato reddito assume consistenza tributaria non già perché prodotto da questa o
da quella società oppure da questa o da quella persona fisica. Al contrario, esso diviene rilevante su di un piano
puramente obbiettivo, in quanto generato attraverso lo
svolgimento dell’attività economica. Siamo di fronte – a
noi sembra – ad un procedimento di “oggettivazione
dell’indicatore di forza economica”, nel quale rileva in
primis l’esistenza di un arricchimento, non già la persona cui tale arricchimento sia ascrivibile.
Per conseguenza, la previsione secondo la quale il reddito d’impresa dovrebbe essere assoggettato ad un’aliquota
«allineata a quella dell’IRES» dovrebbe costituire uno sbarramento rispetto alle operazioni di arbitraggio sulla scelta
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DOTTRINA
della struttura imprenditoriale, rendendo in concreto indifferente l’opzione per l’una o per l’altra forma societaria.
Il messaggio che il legislatore vuole trasmettere potrebbe essere sintetizzato nei termini seguenti: “la tassazione del reddito d’impresa non dipende dal soggetto
che ha esercitato l’attività economica, bensì – e più semplicemente – dal mero svolgimento di quella attività”.
Conseguentemente, non v’è alcuna differenza tra la produzione del reddito d’impresa da parte di una spa e la
produzione di reddito di egual natura da parte di una società in nome collettivo o di una persona fisica. Ciò che
conta, in conclusione, è il risultato raggiunto (sotto forma di reddito d’impresa, appunto), non il soggetto cui
tale risultato si riferisca.
Ribadiamo che, per procedere in questa direzione,
non era affatto necessario intervenire sulle disposizioni in
punto di soggettività passiva dell’IRES. In astratto, il delegante avrebbe potuto stabilire che i soggetti produttori
di reddito d’impresa fossero assoggettati tout court all’IRES. In concreto, tuttavia, la scelta è stata diversa, vale
a dire nel senso dell’assoggettamento al nuovo tributo
(IRI) con aliquota allineata a quella dell’IRES. Per questo
motivo, in vista dell’applicazione della oramai celebre aliquota del 27,5%, l’art. 11 cit. si limita ad affermare che il
reddito d’impresa sarà assoggettato ad una nuova imposta sul reddito imprenditoriale <<con aliquota proporzionale allineata a quella dell’IRES>>. In breve: una sorta di
tassazione separata della ricchezza generata mediante
l’esercizio di attività economica. Per conseguenza, l’imprenditore individuale Tizio, il quale sia titolare anche di
redditi rientranti in altre categorie, sarà tenuto ad esporre
nella propria dichiarazione sia il reddito complessivo IRPEF, da tassare secondo le regole della progressività, sia il
reddito rilevante ai fini dell’IRI, da colpire con imposta
proporzionale del 27,5%. Si è poi previsto che le somme
prelevate dall’imprenditore e dai soci concorrano alla formazione del reddito complessivo imponibile ai fini IRPEF dello stesso imprenditore e dei citati soci.
A noi sembra che, nel procedere in questa direzione,
l’uguaglianza ricercata in punto di tassazione del reddito imprenditoriale si traduca, su di un piano di valutazione più ampia, in una discriminazione qualitativa della ricchezza.
Lo schema di ragionamento sotteso a questa parte
della legge delega ci sembra chiaro. Altro è la ricchezza
prodotta mediante l’esercizio dell’attività economica, altro la ricchezza che, generatasi attraverso lo svolgimento
di quella attività, finisca in un secondo momento nella
disponibilità dell’imprenditore individuale e dei soci. La
prima ricchezza ricade nell’area dell’imposizione pro-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
porzionale. La seconda, invece, è attratta nell’area dell’imposizione progressiva.
Non si tratta di maquillage giuridico.
Si noti, infatti, che, nel testo dell’art. 11 cit., l’assimilazione al regime d’imposta dell’IRES è limitata al reddito d’impresa, mentre sul fronte dell’imposizione personale non v’è alcuna assimilazione al regime dei dividendi. Ciò significa che i prelevamenti dell’imprenditore e
dei soci confluiranno nel sistema di tassazione progressiva del reddito complessivo e resteranno estranei sia ai
meccanismi fiscali incentrati sulla exemption (previsti,
questi ultimi, per le partecipazioni qualificate), sia a
quelli incentrati sull’imposta sostitutiva (per le partecipazioni non qualificate). Essi sono per contro accompagnati dalla deduzione dei prelevamenti in sede di determinazione della base imponibile dell’IRI.
In considerazione del fatto che la nuova imposta dovrebbe applicarsi anche ai redditi d’impresa prodotti in
forma associata, riteniamo che dovrebbe essere inapplicabile, per i soggetti IRI, il regime della trasparenza fiscale.
Fino ad oggi, quest’ultimo regime di trasparenza ha
consentito di evitare il problema della doppia imposizione nel rapporto tra società e socio. Nell’ambito di quest’ultima disciplina, in effetti, la società si configura quale soggetto passivo d’accertamento, ma non quale soggetto passivo d’imposizione. In altri termini, la società,
obbligata alla tenuta delle scritture contabili e alla redazione del bilancio, determina il reddito d’impresa, senza
tuttavia provvedere alla liquidazione dell’imposta e al
conseguente versamento del tributo. Tale liquidazione
avviene infatti in capo ai soci, dopo che ad essi sia stato
imputato, per trasparenza appunto, il reddito d’impresa.
Orbene, tale meccanismo impositivo dovrebbe essere
definitivamente soppiantato dalla delega, perché il riferimento ai redditi d’impresa “compresi quelli prodotti in
forma associata” non lascia spazio a dubbi di sorta: le società oggi trasparenti, le quali producano reddito d’impresa, diverranno soggetti passivi “pieni” dell’IRI (vogliamo dire soggetti passivi d’accertamento e soggetti
passivi d’imposizione). Ma se così è, non si potrà pretendere di far rientrare nello spettro di applicazione del tributo anche i soci, se non – come detto – a fronte dei prelevamenti che questi abbiano effettuato.
3. Siamo così arrivati al clou del nostro ragionamento.
L’art. 11 cit. stabilisce che le somme prelevate dall’imprenditore individuale o dai soci delle società assoggettate
all’IRI costituiscano, in capo agli stessi imprenditori e agli
stessi soci, componenti del reddito complessivo IRPEF. Si
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
tratta, pertanto, di ricchezze che dovranno inesorabilmente entrare nel circuito della tassazione progressiva.
Per evitare il cumulo di tributi (IRI ed IRPEF) sulla
medesima ricchezza, lo stesso art. 11 prevede che le somme prelevate (e rilevanti, come detto, per la tassazione
nel comparto dell’IRPEF) “siano deducibili dalla base
imponibile della predetta imposta”.
Fissiamo l’attenzione, in primo luogo, sulla tassazione dei “prelevamenti”.
Tassare il prelevamento significa abbandonare l’idea
di imposizione sul reddito d’impresa così come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi e passare, per contro, a quella della imposizione fiscale di entità “liquide”, vale a dire
di pure entità monetarie.
In questo momento, l’imprenditore individuale non
sottopone a tassazione il reddito “prelevato” dalla propria azienda. Dichiara, invece, il reddito d’impresa determinato sulla base di regole generali connotate, tra l’altro, dall’applicazione del principio della competenza.
Attraverso la previsione dell’art. 11 cit., questo schema subirà significative modifiche, perché il baricentro
della tassazione personale, analogamente a quanto accade per i dividendi, sarà individuato nell’incasso del denaro (le “somme prelevate”, appunto), non nella produzione di ricchezza.
Poiché tutti sanno che l’oggetto dei prelevamenti,
analogamente a quanto accade nelle società di capitali,
non è il reddito d’impresa ma l’utile di esercizio (anche se
accantonato a riserva), ne discende che, tendenzialmente, potrà non esserci una sovrapposizione tra quanto prodotto dall’impresa e quanto prelevato dall’imprenditore
(o dai soci). Potranno così darsi casi di prelevamenti che
non trovano affatto la loro contropartita negli utili, bensì
nell’indebitamento aziendale o nell’impiego di riserve di
patrimonio. Per conseguenza, potranno presentarsi casi
nei quali, fatto pari a 100 il reddito d’impresa, si assiste a
prelevamenti per 40, 60 oppure 80: importi, questi, “inferiori” al suddetto reddito. Ma potranno altresì darsi casi
nei quali, fatto pari ancora a 100 il reddito d’impresa, il
prelevamento si attesti su di importo superiore, semplicemente perché superiore è l’utile di esercizio.
Non è chiaro se i prelevamenti rilevanti ai fini dell’imposizione personale siano “tutti” i prelevamenti effettuati dall’imprenditore o dai soci oppure solamente
alcuni prelevamenti, i quali possano manifestare un collegamento con la ricchezza prodotta mediante lo svolgimento dell’attività economica. Qui il legislatore dovrebbe riflettere un po’ di più, tenendo a mente quanto succede nel comparto delle società di capitali (cui, tra le altre cose, s’è ispirato quando si è trattato di condurre il ra-
DOTTRINA
gionamento sull’aliquota IRES). In quest’ultimo comparto, esistono prelevamenti che sono alimentati da utili
e che, per conseguenza, rappresentano la remunerazione
del capitale investito. Rappresentano, in breve, puro
reddito. Ma esistono altresì prelevamenti che non presuppongono l’esistenza di utili e che esprimono, invece,
mere restituzioni del patrimonio. Qui il reddito non esiste. E con riferimento agli imprenditori individuali e alle
società di persone, vanno considerate anche le fattispecie
nelle quali i prelevamenti personali dell’imprenditore e
dei soci sono sorretti da indebitamenti contratti per esigenze imprenditoriali.
A queste differenze di ordine quantitativo possono
poi associarsi anche differenze sul piano cronologico, il
cui impatto sul cumulo delle imposte potrebbe essere,
tuttavia, evidente.
Ciò che vogliamo dire è che, dal momento in cui si
afferma che il reddito s’incardina nella acquisizione di
denaro da parte dell’imprenditore o da parte dei soci, si
deve accettare la conseguenza secondo la quale quel reddito emerge, sul fronte giuridico, attraverso il citato incasso, non già attraverso la mera maturazione. Nulla impedisce, pertanto, che i prelevamenti di una annualità si
riferiscano, anche in parte, a redditi d’impresa prodotti
in altre annualità.
A questo punto, per evitare gli effetti di cumulo sopra descritti, il decreto legislativo dovrebbe operare una
forzatura dell’art. 11. Quest’ultimo articolo stabilisce
che i prelevamenti siano deducibili dall’imponibile.
“Dedurre dall’imponibile” significa che, una volta esaurita tale entità (l’imponibile, appunto), ci si ferma. Non
scaturiscono, dunque, perdite rilevanti ai fini dell’IRI.
Noi crediamo che la deduzione non dovrebbe riguardare
non la base imponibile, ma innestarsi nel procedimento
di determinazione del nuovo tributo, con possibilità
che, a fronte di prelevamenti eccedenti il reddito d’impresa, si generino perdite. A queste ultime, per ragioni
evidenti, dovrebbe essere quanto meno applicata la disciplina di riporto in avanti.
4. Tra i problemi che accompagnano l’art. 11 cit. v’è sicuramente quello della esaustiva individuazione dei suddetti prelevamenti, da sottoporre a tassazione progressiva.
Si dovrà tener conto di essi nelle scritture contabili
dell’impresa, fatte salve, ovviamente, le semplificazioni
che saranno previste per i contribuenti minori sulla base
della lettera b) dello stesso articolo 11? Il legislatore si è
reso conto del fatto che, in un consistente numero di situazioni, i prelevamenti avvengono in tempi ravvicinati,
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a volte di settimana in settimana, attraverso un elevato
numero di operazioni di importo non eccessivamente
elevato? E come regolarsi poi nei casi in cui, in luogo del
prelevamento dell’imprenditore e dei soci, si assista al
sostenimento di spese da parte dell’impresa o della società a vantaggio del citato imprenditore o dei citati soci?
La nostra impressione (si tratta, tuttavia, di una “prima” impressione) è che il sistema di tassazione dei redditi personali delineato dall’art. 11 della legge delega possa
essere foriero di notevoli complicazioni sul piano dei
controlli: esso impone, infatti, anche l’individuazione di
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
operazioni di prelevamento che, in ragione delle dimensioni dei soggetti coinvolti, possono essere con facilità
occultate o mimetizzate nelle pieghe della contabilità.
Più che pensare ad una millimetrica misurazione della capacità contributiva oggettiva (reddito d’impresa rilevante ai fini IRI) e soggettiva (reddito personale dell’imprenditore e dei soci), si sarebbe potuto puntare sulla semplificazione del sistema di tassazione di soggetti
che, nonostante la loro modesta dimensione, sono oggi
gravati da adempimenti contabili e dichiarativi del tutto
analoghi a quelli previsti per le grandi società di capitali.
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Il ‘reddito liquido’ come attuale indice di effettiva
capacità contributiva*
di Marco Versiglioni
Ringrazio il Prof. Marongiu per avermi concesso la
parola e porgo i miei saluti a Tutti i presenti. Ringrazio,
inoltre, gli Organizzatori del convegno per avermi invitato ad intervenire.
Nel mio animo, oltre all’onore di far parte di un panel di relatori così autorevole, c’è tuttavia anche il timore
di dover affrontare quella difficile sfida che l’alba di ogni
nuovo diritto porta sempre con sé.
In effetti, è esperienza vissuta che normalmente
l’umana debolezza rende molto difficile comprendere ex
ante l’obiettiva opportunità di cambiamenti del diritto
vivente che l’umana speranza invita a prefigurare.
Qui, però, ciò che induce a cercare nuove soluzioni
giuridiche non è tanto la naturale propensione al miglioramento quanto, invece, la straordinarietà del contesto
in cui viviamo; mai, come in questi ultimi anni, il modo
nel quale vanno le cose ha incoraggiato lo studioso del
diritto a cimentarsi in un cambio di rotta.
Proprio il cambio che, anch’io, pur con tutte le riserve del caso, mi accingo a fare tentando di far mio lo spirito di un incontro di studio volto ad una complessiva
revisione del sistema del fiscale (e non già ad un mero ritocco della normativa vigente).
Alla luce di quanto previsto nella Legge delega n. 23
e, in particolare, ai sensi di quanto previsto nell’art. 12
(che invita il Governo ad introdurre “norme per ridurre
le incertezze nella determinazione del reddito e della
produzione netta”), vorrei riproporre, in forma appena
più strutturata, un’idea che mi limitai ad accennare nel
corso di due incontri organizzati dall’ANTI nel 2008 a
Torino e a Milano.
In tali occasioni, terminavo il discorso osservando
che il principio di trasparenza di cui all’art. 5 del t.u.i.r.
implicherebbe un’illogica estensione del principio di
competenza a soggetti che dovrebbero essere invece razionalmente tassati secondo il principio di cassa; più in
generale, esprimevo molte perplessità nei confronti della
logica legislativa che, al fine di meglio conseguire il con* Testo della relazione svolta nell’ambito del Convegno organizzato dall’A.N.T.I. a Riva del Garda il 12 settembre 2014 sul tema de “La
revisione del sistema fiscale – La legge delega 11 marzo 2014, n. 23”.
senso, predilige temi ‘etici’1 (tra i quali va annoverata la
competenza) rispetto a temi ‘scientifici’ (tra i quali va,
invece, annoverata la cassa) e segnalavo che la progressiva estensione di temi etici innesca un forte incremento
dei casi di attuazione incerta della norma tributaria e,
Del concetto sotteso all’aggettivo ‘etico’ (che uso per specificare
numerosi concetti tipologici - fatto, norma, prova, interpretazione,
logica… – o per segnalare il carattere identificativo di concetti tipici capacità contributiva, uguaglianza, solidarietà… –) è opportuno precisare i contenuti. Infatti, occorre distinguere questo significato da
qualunque altro dei moltissimi significati (storici, filosofici, religiosi,
letterari, etc.) che da sempre si attribuiscono al termine «etico», sia
quando è usato come aggettivo, sia quando è speso come sostantivo.
Nella sua base più antica, il significato di ‘etico’ qui adottato è quello
sotteso all’id quod plerumque accidit eticamente inteso, cioè come
normale comportamento collettivo non univoco che trova i suoi antecedenti logici nei concetti espressi dalle koinai 4nnoiai (di Ermagora) o dalla perspectio in communem animi conceptionem (di S. Agostino, limitata alle questioni civili) o dalla opinio posita in communi
omnium intellectu (di Quintiliano) o dalle communes notiones (di Cicerone), tutti esaminati e spiegati da A. GIULIANI, Il concetto di prova,
Milano (1961) rist. 1971, 48 ss. e 67 ss. Negli sviluppi successivi il
concetto in discorso è confinato, per distinguere ciò che è congettura
da ciò che non lo è, dal c.d. «senso comune», ossia l’insieme organico
delle certezze di fatto e di principio comuni ad ogni uomo e precedenti ogni riflessioni critica, cioè di quanto tutti spontaneamente
sanno e pensano riguardo a quanto tutti hanno in comune come persone umane, e a quanto tutti sentono come vero, buone e giusto, anche se non se ne rendono conto formalmente o, pur rendendosene
conto, non lo sanno giustificare razionalmente, dovendosi attribuire
tale compito specifico alla scienza. I riferimenti sono quelli di L. Valla
e G.B. Vico le cui filosofie possono essere approfondite, da questo
punto di vista, in A. LIVI, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Milano, 1990; ID., Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, Roma, 1997; G. MODICA, La filosofia del senso
comune in Giambattista Vico, Caltanissetta – Roma, 1983; C. GINZBURG, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Bologna, 2000, 40 ss.
. Alla luce di tale significato generale, il significato particolare che si
intende qui attribuire all’aggettivo ‘etico’ è quello riferibile ai testi
giuridici i cui significati e la cui portata mutano con il mutare del
contesto, sociale e/o economico, nel quale sono osservati e attuati.
Ciò in contrapposizione ai testi giuridici ‘scientifici’, i cui significati
sono invece tendenzialmente stabili nel tempo e dunque meno sensibili ai mutamenti dei contesti di riferimento perché consegnati dalla
natura o dalle scienze o da convenzioni comunque accettate. Per un
eventuale approfondimento, si veda, eventualmente, M. VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007, passim.; ID., ‘Logiche’, ‘regole’
e ‘principi’ del ‘ragionamento giuridico tributario’ (tra «autorità» e «consenso»), in AA. VV., Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di
S. La Rosa, Milano, 2007, 117-149.
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così, produce un inopportuno calo della fiducia di investitori e di imprenditori. Perciò, mi sembrava auspicabile un’inversione ad “u” che desse vita ad una progressiva
riduzione di norme etiche e ad un corrispondente incremento di norme scientifiche. In questa prospettiva, auspicavo di veder realizzato, nell’ambito del reddito di
impresa, sia un ampliamento dell’area di operatività del
principio di “cassa”, in un’inedita configurazione incentrata sui flussi finanziari e sui loro saldi, sia una corrispondente riduzione dell’area di operatività del principio di competenza economica.
In realtà, in questi sei anni, il sistema sembra essersi
mosso solo in parte nel senso auspicato (vedi, ad es., la
disciplina dei contribuenti minimi ma, in senso opposto, si pensi all’apertura fatta agli IAS).
V’è da dire, tuttavia, che in questi stessi anni sono accaduti rivolgimenti economici e finanziari che nel 2008
non erano immaginabili e che inducono a ripensare
quell’ipotesi di studio al fine di meglio comprendere se
le conseguenze della crisi suggeriscano o no di continuare a coltivarla.
Disponendo di pochi minuti, vorrei subito esporre il
nocciolo del discorso.
In estrema sintesi, l’idea, che mantiene ferma e neppure sfiora la disciplina civilistica del bilancio di esercizio, sarebbe di determinare a fini fiscali il reddito di impresa in base al principio di cassa, qualunque sia la dimensione o il tipo di attività svolta da società, enti, o imprese individuali.
Non si tratterebbe però necessariamente di una mera
modificazione del criterio temporale di imputazione a
periodo2.
In effetti, se osservata in termini concettuali più ampi, la tassazione qui ipotizzata potrebbe persino avere ad
oggetto il ‘reddito liquido’, ossia una distinta tipologia di
reddito da collocare accanto, o in subordine, alle altre tre
note tipologie: reddito-prodotto, reddito-entrata, reddito-consumato. Seguendo la stessa logica potrebbe essere
pure elaborato, mutatis mutandis, il concetto di ‘valore
aggiunto liquido’ (sebbene qualche difficoltà aggiuntiva,
apparentemente non insuperabile, potrebbe scorgersi
nelle direttive UE).
Non essendo supportato da un’analisi di fattibilità
quantitativa basata su dati nazionali che il Ministero o la
Banca d’Italia possiedono, l’approccio presenta tutti i liSe poi tale disciplina venisse estesa, come è dato auspicare, anche alle limitate componenti del reddito di lavoro autonomo oggi
concorrenti ad esso per competenza, allora si darebbe vita ad un sistema unitario, prevedibilmente ancor più efficiente.
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LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
miti propri del pensare in astratto, ossia del ragionare a
prescindere da contingenze che, se tenute in considerazione, potrebbero condizionare il giudizio di opportunità e/o di fattibilità pratica di ciò che si pensa. Entro questi esiziali confini, mi accingo ad inoltrarmi nell’attuale
vaghezza dell’ipotesi cercando di focalizzare almeno alcuni elementi, strutturali, funzionali e teleologici.
La nozione del reddito di impresa liquido
Il reddito liquido, che originerebbe dal susseguirsi
delle entrate e delle uscite finanziarie comprese in un dato periodo di imposta, coinciderebbe, al termine di esso,
con una differenza liquida positiva pari al risultato del
confronto algebrico delle disponibilità liquide alla fine
del periodo di imposta (t1) con le disponibilità liquide
all’inizio del periodo di imposta (t0). La differenza liquida negativa sarebbe riportabile a nuovo (come oggi lo è
la perdita). La mera modificazione qualitativa delle disponibilità sarebbe ovviamente neutra.
Pur implicando una modificazione dell’attuale unità
dell’indice di capacità contributiva che, con l’identificazione del soggetto passivo, è idonea a dar vita all’obbligazione delle imposte sui redditi, il reddito liquido non
sembrerebbe suscitare problemi sul piano della coerenza
costituzionale con il principio di capacità contributiva.
Anzi, esso forse recupererebbe, almeno in parte, la distorsione indotta dall’etica attuale che vede i clienti non
far fronte (o non poter far fronte) ai debiti contratti con
le imprese fornitrici di beni e/o servizi e al contempo e
osserva le banche come entità fortemente restìe a concedere credito (etica, questa, che, purtroppo, è causa di
una parte assai rilevante del contenzioso civile pendente). Infatti, mentre in un’economia che “gira” la competenza può essere indice di una capacità contributiva effettiva, in tempo di crisi, invece, non può più esserlo in
alcun modo, potendo quel presidio di costituzionalità
essere assicurato solo e soltanto dal principio di cassa
(ovviamente se si muove dalla premessa, dalla quale
sembra doversi muovere, che anche una ideale disciplina
delle perdite su crediti sarebbe sempre e comunque, almeno in parte, anelastica). In definitiva, l’art. 109 del
t.u.i.r. parrebbe affetto da un’illegittimità costituzionale
eticamente sopravvenuta (simile a quelle già rilevate in
altre precedenti occasioni dal Giudice delle Leggi).
Anche sul piano del presupposto di imposta non parrebbero ravvisabili ostacoli insuperabili. In effetti, si tratterebbe in ogni caso del possesso di un reddito di impresa,
ancorché specificato in via esclusivamente finanziaria.
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Sul versante della determinazione della base imponibile, a differenza di quanto avviene oggi, il reddito di impresa liquido non dipenderebbe in alcun modo dal risultato
del conto economico (civilisticamente inteso). Inoltre, a
differenza di quanto avviene a fini contabili, per la determinazione del reddito di impresa liquido non sarebbe necessaria neppure l’individuazione analitica delle singole
voci afferenti alle tre principali categorie nelle quali si classificano, secondo gli attuali standard, le componenti del
rendiconto finanziario (quelle economico-reddituali,
quelle di investimento e quelle di finanziamento, proprio
o di terzi). Continuerebbe a rilevare, invece, il principio di
inerenza che muterebbe solo il suo oggetto (le uscite, finanziariamente intese, in luogo delle spese o dei costi).
In definitiva, il concetto di reddito liquido presenterebbe un’estrema adattabilità, apparendo esso astrattamente in grado di funzionare in modo puntuale (non
controvertibile) per tutte le imprese. In quanto concetto
scientifico, il reddito liquido sarebbe facilmente provabile sia per le grandi imprese, perché tenute al rendiconto finanziario, sia per le altre imprese, o in contabilità ordinaria, perché tenute alle schede contabili delle disponibilità, o in contabilità semplificata, perché aventi a
portata di mano l’estratto del conto corrente bancario
(del resto, questo è quanto sta già in parte avvenendo per
i contribuenti-minimi).
Il principio di trasparenza diventerebbe tendenzialmente superfluo. La tassazione consolidata, invece, rimarrebbe possibile; anzi, essa sembrerebbe più facilmente applicabile.
Il reddito liquido, adottati i dovuti aggiustamenti
tecnici, sembrerebbe poi compatibile con qualunque sistema di tassazione dei dividendi il legislatore intendesse
adottare (esenzione, parziale o totale, credito di imposta,
deduzione etcc..).
Infine, ferma la probabile necessità di apportare alcuni emendamenti alle convenzioni internazionali in essere, non parrebbero tuttavia ipotizzabili, almeno a prima
vista, problemi decisivi; infatti, trattandosi in ogni caso
di reddito, non verrebbe stravolta la natura delle imposte indicate nei trattati correnti.
La determinazione del reddito di impresa liquido.
Indirizzando la tassazione sui fatti scientifici dell’entrata e dell’uscita, perderebbero rilevanza i componenti
costituiti da fatti etici quali sono le valutazioni; ciò modificando, come meglio dirò tra poco, l’approccio ai metodi di accertamento.
In estrema sintesi, in punto di determinazione della
base imponibile, le spese, ovviamente se inerenti, diverrebbero deducibili solo al momento del pagamento e i
ricavi diverrebbero tassabili solo al momento dell’incasso. La logica dell’imposizio-ne sui redditi di impresa diverrebbe ‘chi paga deduce, chi incassa versa’.
Ponendo in disparte i flussi correlati alla gestione delle
spese, dei ricavi, delle plusvalenze e delle sopravvenienze,
per i quali, nell’economia di questo intervento, non pare
necessario alcun ulteriore indugio, sembra invece opportuno svolgere qualche ulteriore precisazione sui flussi legati agli investimenti e sui flussi legati ai finanziamenti.
In caso di investimento il costo sarebbe interamente
deducibile al momento del pagamento (rectius: al momento dell’uscita) e gli ammortamenti (parimenti agli
accontamenti) scomparirebbero dalla determinazione
del reddito di impresa. In caso di finanziamento, l’entrata
di capitale di terzi concorrerebbe ad incrementare il reddito di impresa liquido e la sua uscita a ridurlo; l’entrata
di capitale proprio, invece, non genererebbe alcun incremento del reddito di impresa liquido, fermo restando che
l’uscita contribuirebbe a ridurlo, salvo che si trattasse di
rimborso ai soci o di “fuoriuscita” dai beni relativi all’impresa della persona fisica o dell’ente non commerciale.
Aliquota IRI
Non disponendo di dati quantitativi nazionali, non è
possibile prefigurare gli effetti, in termini di gettito, della modificazione ipotizzata. Tuttavia, un sistema del genere, che sembra più efficiente di quello attuale, per un
verso, sarebbe ben conciliabile con la proporzionalità
della futura imposta sul reddito di impresa (IRI) e, per
altro verso, potrebbe consentire una riduzione dell’aliquota oggi vigente, anche in considerazione della sua attitudine a divenire contesto fertile per dar vita ad una sostituzione di imposta generalizzata.
La ritenuta IRI
In effetti, la focalizzazione dell’elemento puntuale
(scientifico) del pagamento consentirebbe di generalizzare l’obbligo di sostituzione di imposta sui componenti del
reddito di impresa liquido. Le banche e gli intermediari
finanziari abilitati al trasferimento di denaro applicherebbero su ogni flusso connesso al reddito di impresa liquido
una ritenuta di imposta. Si potrebbe pensare ad una ritenuta d’acconto (di importo minimo) se il ricevente fosse
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DOTTRINA
soggetto tassabile sul reddito di impresa liquido residente
in Italia o ad una ritenuta a titolo di imposta (di maggior
entità) se il ricevente fosse soggetto non residente. Ovviamente, rimarrebbero ferme le altre forme di sostituzione
oggi vigenti e compatibili con la ritenuta IRI.
Il passaggio dal reddito di impresa determinato per
competenza al reddito liquido
Un mutamento così radicale implicherebbe dover
mettere in conto i molteplici problemi di diritto transitorio legati all’abbandono, al tempo t0, del principio di
competenza e alla determinazione dello stock di disponibilità esistenti allo stesso tempo t0. Ovviamente non è
possibile svolgere in questa sede un loro esame. Tuttavia,
le difficoltà che appaiono prefigurabili non sembrano
insuperabili. Infatti, se al tempo t0 il patrimonio netto
fiscalmente riconosciuto fosse positivo, allora esso dovrebbe forse essere considerato come prima entrata, per
conferimento di capitale proprio e, dunque, con valore
zero; se, invece, il patrimonio fosse negativo, allora esso
andrebbe probabilmente assunto in misura pari alla sua
entità con segno negativo.
Reddito liquido, controllo e accertamento
La semplicità del criterio di determinazione del reddito liquido implicherebbe una rimodulazione del sistema dei controlli e dell’accertamento. In effetti, i controlli liquidatori e/o informatizzati – in specie quelli concernenti i flussi trans-frontalieri – avrebbero maggior rilievo rispetto agli accertamenti. Le logiche congetturali
delle presunzioni diverrebbero recessive rispetto alle mere conoscenze fornite dai computers che consegnerebbero dati a bassa o nulla controvertibilità. Il sistema porterebbe con sé la tendenziale inefficienza (ultroneità) dell’accertamento redditometrico, di quello extracontabile
e degli studi di settore. Semmai, dovrebbe essere forse
controllato, ed eventualmente ancor più limitato, l’uso
del contante; anche prevedendo l’incentivo di una particolare riduzione di aliquota in favore di quanti si impegnassero a non farne uso o a farne uso entro un limite
massimo predeterminato.
D’altro canto, perdendo rilevanza le valutazioni, il
passaggio al reddito liquido darebbe vita ad un implicito
ed automatico effetto di “regolarizzazione fiscale” delle
divergenze eventualmente esistenti tra valori fiscalmente
riconosciuti e valori effettivi esistenti al tempo t0.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Conclusioni
La crisi economica e finanziaria sembra aver modificato in modo rilevante la conformazione etica dei principi costituzionali di capacità contributiva, di solidarietà e di parità di trattamento, in specie nelle loro più intime espressioni del carattere che essi presentano, ossia
l’effettività.
Infatti, pare venuto meno il senso comune eticamente
proprio degli anni cinquanta che vedeva nell’imprenditore un soggetto in grado di dominare il fattore capitale (oltre che il fattore lavoro) e, come tale, in grado di superare
le forche caudine della liquidità (o meglio della cassa).
In questa logica si spiegava e si giustificava la legittimità costituzionale di una tassazione basata sul criterio
di competenza (economica).
Ma quella logica non sembra più eticamente attuale.
Appare evidente, infatti, che l’effettività della capacità
contributiva si appunti oggi sulla liquidità (liquidabilità)
di ciò che si ha o di ciò che si organizza e non sia più correlabile, come in passato, ad un generico ed ampio potere di
organizzare i fattori produttivi, ivi compreso il capitale.
Oggi, il senso comune sembra rovesciato: l’imprenditore (almeno quello italiano) incorre normalmente nel
problema della liquidità e normalmente non lo domina;
anzi, lo subisce. Persino il pagamento delle imposte è
sentito come problema finanziario e non più, soltanto,
come onere economico; tanto che, pure nella fisiologia,
il problema finanziario contribuisce a generare evasione.
Inoltre, il problema della liquidità (liquidabilità) è
anche il portato sia di una bassa propensione al consumo
(negativamente influenzata anche dal timore dell’accertamento redditometrico), sia di una bassa propensione
al pagamento (correlata pure alla strumentalizzazione
della lunghezza dei processi civili).
In questo quadro complessivo, l’ipotesi di una tassazione avente ad oggetto il reddito liquido, potrebbe forse contribuire a superare alcuni di questi ostacoli (in specie se fosse accompagnata da un riforma della giustizia
civile che introducesse una ‘conciliazione fiscalmente assistita’ finalizzata a ridurre drasticamente il numero delle
cause civili pendenti).
La scientificità della nozione (ossia la sua bassa o nulla
controvertibilità e, dunque, la maggior capacità di attrarre investimenti esteri, come noto dipendenti anche dal
grado di certezza del diritto), la semplicità della determinazione (idonea a costituire base più chiara e stabile ai fini
dell’applicazione della disciplina sanzionatoria, amministrativa e penale), la peculiarità dei componenti (la cui
natura, finanziaria, è invece spesso, e non opportuna-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
mente, trascurata dalla stragrande maggioranza delle imprese italiane), la generalizzabilità a tutte le imprese (e al
lavoro autonomo, entro un sistema unitario), la possibilità di una liquidazione con cadenza mensile o trimestrale,
la facilità del controllo (almeno di quello interno), la tendenziale superabilità dell’accertamento redditometrico e
degli studi di settore (e dei connessi negativi effetti sui
consumi, sugli investimenti e sull’occupazione), l’incentivo all’investimento, l’incentivo al conferimento di mezzi
propri e l’incentivo ad eseguire il pagamento paiono infatti buone ragioni di sostenibilità di un cambio di rotta.
Se, poi, a tutto ciò si aggiunge l’efficacia ex ante e la
funzionalità del reddito liquido ad una estensione generalizzata della sostituzione di imposta, forse può scorgersi la prospettiva di poter finanziare una riduzione dell’aliquota IRI.
Cosa c’è per contro?
DOTTRINA
Non tanto l’esperienza non corroborante della vigente disciplina sul reddito di lavoro autonomo, che è altra
cosa, quanto, invece, l’ampiezza dell’ignorato.
Infatti, si tratta di una rotta, se non volta ad un mondo nuovo, tuttavia a dir poco inusuale rispetto a quella
comunemente seguita dai paesi che condividono con il
nostro le logiche di base della tassazione delle imprese.
Ma la peculiarità del caso italiano, fatto di milioni di
partite iva, se osservata alla luce della conoscenza del dato nazionale dei flussi finanziari potrebbe essere il primo
elemento per impostare una rotta iniziale di emergenza
e di indifferenza, quale sarebbe quella che passasse per
aliquote delle predette ritenute IRI idonee a conseguire
un gettito di imposta almeno pari a quello attuale e
dunque, forse, in grado di vincere la paura che, per fortuna, il nuovo diritto (rectius: il diritto futuribile) porta
sempre con sé.
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DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Il processo tributario nella legge delega n. 23
del 2014. Brevi considerazioni in merito alla disciplina
dell’utilizzo della PEC e delle spese di giudizio
di Alessandro Turchi
1. Premessa
2. L’utilizzo della PEC
L’art. 10, L. 11 marzo 2014, n. 23 delega il Governo
a rivedere la disciplina del contenzioso tributario e della
riscossione degli enti locali. I princìpi e criteri direttivi
previsti interessano 5 aree distinte:
a) il “rafforzamento” e la razionalizzazione della conciliazione giudiziale e il suo coordinamento con la fase
del contraddittorio amministrativo;
b) l’incremento della “funzionalità della giurisdizione
tributaria”;
c) il riordino della disciplina della riscossione delle entrate degli enti locali;
d) il monitoraggio e l’analisi statistica dell’esito delle liti;
e) il contemperamento delle esigenze di riscossione con
i diritti del contribuente.
Come si nota, solo le prime due aree riguardano in
senso proprio il processo (non già “contenzioso”) tributario, mentre le altre attengono ad aspetti diversi, correlati
in modo più o meno diretto alla disciplina processuale.
Inoltre, anche la disciplina della conciliazione rientra
in quella del processo, e la sua revisione avrebbe quindi
potuto essere ricompresa fra gli interventi afferenti alla
“funzionalità della giurisdizione tributaria”, con riguardo ai quali la delega individua 12 ambiti di intervento,
che possono essere così ripartiti:
– 5 riguardano la composizione e il funzionamento
delle commissioni (distribuzione territoriale dei
componenti; giudice monocratico; attribuzione e
durata degli incarichi direttivi; trattamento economico dei giudici; loro qualificazione professionale);
– 5 interessano altrettanti istituti processuali (assistenza tecnica; utilizzo della PEC; tutela cautelare; esecutorietà delle sentenze; spese di giudizio);
– 2 attengono a profili estranei all’esercizio della giurisdizione tributaria (elezione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria; relazione ministeriale
sull’attività delle commissioni).
L’art. 10, lett. b), n. 4 della legge delega impegna il
Governo a prevedere “il massimo ampliamento dell’utilizzazione della posta elettronica certificata per le comunicazioni e le notificazioni”. Il tema non è nuovo, dal momento che la PEC viene già utilizzata nel nostro processo, e già esistono norme che ne prevedono e permettono
un impiego generalizzato.
Per un verso, infatti, l’art. 16, comma 1-bis, D.Lgs.
31 dicembre 1992, n. 546 stabilisce che “le comunicazioni sono effettuate anche mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata, ai sensi del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82,
e successive modificazioni. Tra le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 2, comma 2, D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82,
le comunicazioni possono essere effettuate ai sensi dell’articolo 76 del medesimo decreto legislativo. L’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore o delle parti è indicato nel ricorso o nel primo atto difensivo; nei procedimenti
nei quali la parte sta in giudizio personalmente e il relativo
indirizzo di posta elettronica certificata non risulta dai
pubblici elenchi la stessa può indicare l’indirizzo di posta al
quale vuol ricevere le comunicazioni”.
Per altro verso, numerose disposizioni estranee al
D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 regolano l’utilizzo della PEC nel nostro processo.
2.1. Il comma 1-bis è stato inserito nell’art. 16 dall’art.
39, comma 8, lett. a), n. 2), D.L. 6 luglio 2011, n. 98,
convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n.
111. Le regole tecniche per l’utilizzo della PEC sono poi
state stabilite dal D.M. del 26.4.2012 e da tre successivi
decreti, che hanno reso operativa la disciplina primaria
su tutto il territorio nazionale.
La PEC consiste in una modalità di comunicazione e
notificazione alternativa a quelle tradizionali previste dal
comma 1 (consegna o spedizione postale alle parti, o trasmissione di elenco in duplice esemplare alla parte pubblica), che interessa numerosi atti del processo (decreti,
ordinanze e sentenze pronunciate dalla commissione tributaria; avvisi di trattazione; ricorsi e altri atti di parte).
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Oltre a ciò, le Agenzie fiscali possono comunicare
con altri enti pubblici mediante il sistema pubblico di
connettività. Questa regola, espressa dallo stesso comma
1-bis, è utile a dissipare eventuali dubbi interpretativi in
materia, ma, a ben vedere, poco conferente nel contesto
dell’art. 16, che disciplina le comunicazioni alle (o fra le)
parti del processo tributario, non quelle fra le pubbliche
amministrazioni.
L’indirizzo PEC del difensore o delle parti dev’essere
indicato nel ricorso o nel primo atto difensivo; per effetto della modifica introdotta dall’art. 49, comma 1, lett.
a), D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, anche la parte
che sta in giudizio personalmente può avvalersi del nuovo istituto.
2.2. Il D.M. n. 163/13 ha adottato il regolamento sull’uso di strumenti informatici e telematici nel processo
tributario, compresa appunto la disciplina delle comunicazioni e notificazioni tramite PEC. Sono stati introdotti
nuovi termini (documento informatico, copia per immagine su supporto informatico, fascicolo informatico, firma elettronica qualificata, firma digitale, soggetto abilitato) e nuove sigle (S.I.Gi.T., Pec, INI-PEC), e sono state
riconosciute ai soggetti interessati specifiche facoltà:
– quella di formare gli atti e i provvedimenti del processo tributario e del procedimento di reclamo “come documenti informatici sottoscritti con firma elettronica qualificata o firma digitale”, e
– quella di trasmettere, comunicare, notificare e depositare tali atti e documenti con modalità informatiche.
Il decreto non esaurisce però la disciplina dell’istituto, perché prevede che, ove non diversamente stabilito,
si applichino le norme del codice dell’amministrazione
digitale, e rinvia a successivi provvedimenti per l’individuazione delle regole tecniche necessarie per l’archiviazione e la conservazione dei documenti informatici e per
la regolamentazione di altre operazioni, fra cui la costituzione in giudizio delle parti mediante deposito, la
consultazione e il rilascio di copie del fascicolo informatico, l’assegnazione dei ricorsi e il deposito dei provvedimenti del giudice.
2.3. Già prima dell’adozione del regolamento contenuto
nel D.M. n. 163/13 la PEC poteva essere utilizzata anche ai fini delle notifiche degli atti processuali da parte
degli avvocati. Questa facoltà è stata prevista dalla L. 14
settembre 2011, n. 148 e dalla L. 24 dicembre 2012, n.
228, che ha inserito l’art. 3-bis nella L. 21 gennaio 1994,
n. 53, e individuato i pubblici elenchi degli indirizzi
PEC presso cui poter notificare.
Ai sensi dell’art. 3-bis, L. 21 gennaio 1994, n. 53, gli
avvocati possono notificare con modalità telematica a
mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante dai pubblici elenchi, nel rispetto della normativa
concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene
generata la ricevuta di accettazione e, per il destinatario,
nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna. La relata di notifica va redatta su un documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale e allegato al messaggio di posta elettronica certificata. Per le notificazioni effettuate in corso di procedimento dev’essere indicato anche l’ufficio giudiziario, la sezione, il numero e l’anno di ruolo.
Le regole tecniche per l’utilizzo della PEC da parte
degli avvocati sono contenute nel D.M. n. 44/11 e nel
D.M. n. 48/13.
2.4. Al di là delle iniziali e comprensibili difficoltà connesse all’impiego di strumenti informatici ai quali non
tutti i contribuenti e i difensori sono adusi, appaiono evidenti i vantaggi offerti dalla PEC in termini di rapidità,
efficienza e sicurezza delle comunicazioni telematiche. In
questo senso, la scelta della legge delega va salutata con favore. Va comunque osservato che già in base alla normativa in vigore il nuovo istituto può essere, ed è di fatto, utilizzato dai contribuenti e dai loro difensori, dagli enti impositori e dalle segreterie delle commissioni. Spetta al Governo prevederne un ulteriore, “massimo ampliamento”,
nella prospettiva di un prossimo completo abbandono del
supporto cartaceo di atti e documenti processuali.
3. Le spese di giudizio
L’art. 10, lett. b), n. 11 della legge delega impegna il
Governo a individuare “criteri di maggior rigore nell’applicazione del principio della soccombenza ai fini del carico
delle spese del giudizio, con conseguente limitazione del potere discrezionale del giudice di disporre la compensazione
delle spese in casi diversi dalla soccombenza reciproca”.
3.1. La delega interviene in un contesto normativo che,
in realtà, è già indirizzato in tal senso, perché già impone
al giudice di applicare con particolare rigore il criterio
della soccombenza. È noto infatti che, ai sensi dell’art.
92, comma 2, c.p.c. (modificato dall’art. 45, L. 18 giugno 2009, n. 69 ed espressamente richiamato per il nostro processo dall’art. 15, comma 1, D.Lgs. n. 546/92),
il giudice può compensare in tutto o in parte le spese di
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DOTTRINA
giudizio solo se “vi è soccombenza reciproca o concorrono
altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicati
nella motivazione”. La norma era già stata modificata nel
2005, sempre al fine di limitare le ipotesi di compensazione al di fuori dei casi di soccombenza reciproca. Si ricordi infatti che:
– nel testo originario, la compensazione era prevista in
presenza di “giusti motivi”: non si richiedeva alcuna
specifica motivazione al riguardo;
– per effetto dell’art. 2, comma 1, L. 28 dicembre 2005,
n. 263, essa fu ammessa solo in presenza di “altri giusti
motivi, esplicitamente indicati nella motivazione”.
Dopo il restyling del 2009, la disciplina si è ulteriormente inasprita, perché il giudice è tenuto a indicare in
maniera esplicita quali siano le ragioni gravi ed eccezionali (non già i giusti motivi) che lo inducono a compensare le spese. Ciò significa – o dovrebbe significare – che
la parte vittoriosa ha quasi sempre diritto alla liquidazione giudiziale delle spese di lite.
La Corte di cassazione si è pronunciata più volte in
argomento, affermando ad esempio che:
– la sussistenza delle gravi ed eccezionali ragioni per la
compensazione delle spese di giudizio va valutata ex
ante e, dunque, con riferimento alla situazione giurisprudenziale esistente all’epoca di proposizione della
domanda (Cass., 10.2.2014, n. 2883, in una fattispecie relativa alla ritenuta corretta compensazione
delle spese disposta in un giudizio avente ad oggetto
un’opposizione a fermo amministrativo ex art. 615
c.p.c., motivata sulla circostanza che la questione dell’opponibilità del fermo era ancora dibattuta in giurisprudenza e costituiva perciò giusto motivo per derogare al principio della soccombenza);
– le “gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate
nella motivazione” non possono essere ravvisate nell’oggettiva opinabilità della soluzione accolta, in
quanto la precisa individuazione del significato di un
testo normativo in relazione alla fattispecie concreta
a cui deve essere applicato costituisce il nucleo della
funzione giudiziaria (Cass., 9.1.2014, n. 319);
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
– né possono essere tratte dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato o dalle particolari disposizioni processuali che lo regolano, ma devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa (Cass., 30.7.2013, n. 18251).
3.2. Di fatto, però, le cose vanno diversamente, e la
regola risulta ancora essere quella della compensazione
non motivata (o sommariamente motivata) delle spese
anche al di fuori dei casi di soccombenza reciproca. Capita spesso di leggere sentenze tributarie che, più della
norma in esame, fanno applicazione di un criterio fondato sul principio non scritto di tutela dell’interesse fiscale, compensando le spese quando accolgono il ricorso
e condannando il contribuente alla rifusione quando il
ricorso viene respinto: individuando insomma le “gravi
ed eccezionali ragioni” della compensazione nell’esigenza
di … non gravare oltre modo sulle casse dello Stato.
3.3. Si può allora affermare che la previsione della delega
appare superflua, e forse rischiosa, sul piano del diritto
positivo, perché le commissioni tributarie sono già tenute a liquidare con rigore le spese di giudizio, e l’introduzione di criteri di ancora “maggior rigore” (fra l’altro non
facilmente individuabili) potrebbe finire per pregiudicare anche de iure i contribuenti. A meno di non voler stabilire che, al di fuori delle ipotesi di soccombenza reciproca, la compensazione non sia mai ammessa, e la parte
vittoriosa debba sempre veder liquidate le spese a proprio favore.
Più della legge delega, servirebbe in questo settore una
maggiore attenzione da parte della giurisprudenza tributaria di merito, e forse anche una più diffusa iniziativa da
parte dei contribuenti che, pur vincendo il ricorso, vedono compensate le spese senza motivazione (o con motivazione inadeguata). È raro in effetti leggere appelli – principali o incidentali – sul relativo capo di sentenza: mentre
anche questo strumento potrebbe contribuire alla formazione di un nuovo corso giurisprudenziale.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
DOTTRINA
Gli effetti del riconoscimento della giurisdizione
esclusiva in materia tributaria*
di Salvo Muscarà
1. Premessa ricostruttiva: giurisdizione esclusiva in
materia di provvedimenti impositivi
Giurisdizione esclusiva nel periodo anteriore1 alla riforma del processo tributario del 20012 limitata all’impugnazione dei provvedimenti impositivi in senso lato
(provvedimenti di diversa matrice funzionale attribuiti
alle concorrenti giurisdizioni dell’AGO o dei TAR a seconda delle ordinarie coordinate di ripartizione della
giurisdizione, ossia titolarità di posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo).
Giurisdizione piena giacché proponibili azioni di annullamento del provvedimento impugnato, di accertamento del rapporto e di condanna in dipendenza del tipo di vizi (di pura legittimità ovvero di merito) e, correlativamente, del tipo di motivi fatti valere dal ricorrente.
Effetti diversi delle sentenze di annullamento o di accertamento (rinnovazione del potere impositivo - definizione del regime giuridico della fattispecie).
2. Giurisdizione esclusiva estesa all’intera materia
tributaria
Originale e complesso scenario sottoposto, successivamente alla riforma del 2001, all’esame della Corte:
a) nuovi modelli impositivi in vigore nelle materie in
precedenza escluse dalla giurisdizione delle Commissioni (quali il settore delle dogane, i contributi obbligatori dei Consorzi, la TIA, ecc. ...);
b) negli schemi attuativi delle imposte dirette e dell’IVA
è stato generalmente introdotto il principio del contraddittorio. Conseguente determinazione ancora in
fieri, dunque precoce ed anticipata, della pretesa comunicata al contribuente anteriormente all’emissione del provvedimento impositivo istituzionalmente
contemplato dalla legge;
* Traccia dell’intervento al Convegno La revisione del sistema fiscale.
La legge delega 11 marzo 2014, n. 23, organizzato dall’ANTI a Riva del
Garda il 12 settembre 2014,
1 A partire, peraltro, dalla riforma del processo attuata con il
D.P.R. n. 636/72.
2 Legge 28 dicembre 2001, n. 448.
c) originali istituti, principalmente in materia di riscossione dei tributi, volti ad assicurare, in periodi di
stringente recessione economica, entrate più sicure
giacché spalmate nel tempo.
3. Superamento (non senza incertezze e contrasti)
della struttura necessariamente impugnatoria
del processo tributario
Le sezioni unite, di fronte all’alternativa tra ribadire
la struttura del processo siccome necessariamente impugnatoria di provvedimenti ovvero consentire l’accesso immediato alla giurisdizione allorché l’amministrazione esprima compiutamente la pretesa, allo scopo di
far accertare se e in che misura detta pretesa sussista3, si
indirizzano, decisamente su quest’ultima opzione sistematica.
In questi casi il criterio discriminatore ai fini dell’accesso alla giurisdizione si fonda sul principio dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.
4. Ampliamento dell’oggetto del processo
L’oggetto del giudizio, conformandosi alla complessa
articolazione delle funzioni amministrative in materia
tributaria, concerne a volte valutazioni decisionali estranee all’istituzionale funzione di accertamento in ordine
all’an e/o quantum debeatur:
a) le Commissioni decidono con sentenza circa la sussistenza del “fondato timore di perdere la garanzia del
proprio credito” 4 da parte dell’Agenzia delle entrate
(unica ipotesi nella quale l’Agenzia promuove l’azio-
3 Casistica esemplificativa: l’emissione di bollette - fatture da
parte degli ATO, normalmente inviate per posta semplice; gli inviti
di pagamento spediti da numerosi enti quali Comuni, Consorzi, enti parapubblici; gli avvisi bonari comunicati in sede di liquidazione
delle imposte dirette e dell’IVA; i preavvisi di fermo e le iscrizioni di
ipoteca non notificati delle quali il contribuente spesso acquisiva conoscenza aliunde; gli estratti di ruolo; i dinieghi di disapplicazione
di norme antielusive; etc. ...).
4 Art. 22, D. Lgs. n. 472/97.
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ne al fine di ottenere l’autorizzazione a iscrivere ipoteca o procedere al sequestro conservativo dei beni
del contribuente);
b) accertano se sussista il “fondato pericolo per la riscossione” che legittima la riscossione dell’intera imposta accertata.
In entrambi i casi sono sottoposte al vaglio delle Commissioni, in definitiva, richieste o provvedimenti atipici
che esprimono “allarme” sul versante della riscossione
(contigui alla funzione dei provvedimenti di garanzia) rispetto ai quali la valutazione decisionale del Giudice tributario concerne elementi di per sé non strettamente attinenti al merito del rapporto d’imposta nel contesto di
un oggetto del processo peculiare.
c) accertamento giudiziale in ordine all’avvenuta prescrizione o decadenza del diritto di credito e alla sussistenza di “cause di inesigibilità del credito sotteso alle
entrate riscosse a mezzo ruolo” 5; in tali circostanze il
contribuente attiva un procedimento i cui eventuali
esiti negativi appaiono sindacabili, in relazione ai
profili fatti valere nella c.d. dichiarazione, presso il
giudice tributario;
d) “richiesta” della concessione di un piano straordinario
di rateazione delle somme iscritte6 sulla base della
“comprovata e grave situazione di difficoltà indipendente dalla responsabilità del debitore e legata alla congiuntura economica”. Provvedimenti di rigetto della richiesta non concernono il debito erariale quanto la valutazione dell’agente della riscossione circa la sussistenza
di tali presupposti e il relativo giudizio trascende le valutazioni giuridiche sul “rapporto d’imposta”;
e) controversie in tema di liquidazione del contributo unificato che possono sottendere materie le più disparate;
f ) provvedimento dell’Agenzia Regionale delle Entrate
di riconoscimento dello status di ONLUS (secondo
una normativa di settore di carattere squisitamente
amministrativo).
In definitiva gli ambiti della materia si sono evoluti
nel tempo sicché lo stesso oggetto del giudizio acquista
connotati del tutto originali che impegnano il giudice
tributario in valutazioni non solo complesse ma anche
tipologicamente articolate e diverse dalla mera analisi
giuridica del rapporto d’imposta.
5 Art. 1, comma 537, della legge di stabilità 2013, n. 228/2012
(c.d. sospensione automatica o legale).
6 Art. 3, decreto 06/11/2013 del Ministero dell’economia e delle
finanze (secondo le previsioni dell’art. 52, comma 3, del D.L. n.
69/2013, convertito, con modificazioni, in Legge n. 98/2013).
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
4.1. Cenni al fenomeno dell’implementazione delle
azioni proponibili nel nuovo contesto processuale
Ipotesi di accesso al processo sussumibili in entrambi
i tipi di azione (di annullamento e di accertamento del
rapporto). Segnatamente:
1) le ipotesi nelle quali il contribuente propone azioni di
mero annullamento di provvedimenti risultano sensibilmente incrementate atteso che nell’ambito della
giurisdizione esclusiva è consentita l’impugnazione di
tutti i provvedimenti di natura discrezionale;
2) rilevante potenziamento impresso all’azione di accertamento del rapporto in virtù, principalmente,
della congerie di ipotesi nelle quali alle Commissioni è sottoposta direttamente la valutazione della pretesa (piuttosto che l’impugnazione di un provvedimento). Si allude:
2a) è stato riconosciuto dalla Corte cost. il potere di sospensione della riscossione anche nei gradi successivi al primo da parte della Commissione Tributaria
Regionale7 (nella doppia veste di giudice dell’appello ovvero di giudice la cui sentenza è stata oggetto di
ricorso in Cassazione).
La Corte costituzionale, in tal modo, ha spostato l’asse del processo dal provvedimento impugnato al processo di accertamento del rapporto dal momento che la sospensione nei gradi ulteriori investe l’esecutorietà della
sentenza (e non del provvedimento);
2b) parimenti la giurisprudenza che esalta, da ultimo, la
funzione sostitutiva della sentenza risulta fondamentalmente coerente, addirittura applicativa, con
la ricostruzione del processo in termini di accertamento del rapporto8;
7
Corte cost., 17 giugno 2010, n. 217; Id., 26 aprile 2012, n. 109.
8 “La rideterminazione del reddito è non solo consentita ma anzi im-
posta al giudice tributario dalla natura di impugnazione-merito del relativo giudizio, che assegna alla sentenza funzione sostitutiva, sia della
dichiarazione del contribuente, sia dell’atto di accertamento dell’Ufficio,
con conseguente possibilità di rideterminazione dell’imponibile nella misura considerata corretta dal giudice alla quale determinazione l’Agenzia
deve conformarsi” (Cass., sez. trib., 28 agosto 2013, n. 19710; Id., sez.
trib., 6 agosto 2008, n. 21184). E, parimenti, il provvedimento viene
automaticamente meno con l’annullamento da parte del giudice di
primo grado e non può, pertanto, pregiudicare sotto nessun profilo la
situazione patrimoniale del contribuente (fattispecie in tema di fermo amministrativo che non può sopravvivere all’annullamento del
provvedimento impositivo: così, Cass., sez. trib., 22 settembre 2006,
n. 20526). La questione, però, è stata demandata, da ultimo, alle Sezioni unite mediante ordinanza depositata il 30 giugno 2014, n.
14849, che, nelle illustrate premesse, dovrebbe essere risolta nel senso
dell’effettività della tutela.
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
2c) lo stesso meccanismo processuale previsto dal terzo
comma dell’art. 19 D.Lgs. n. 546/92 risulta del tutto
coerente con la struttura del processo in termini di
accertamento del rapporto giacché volto essenzialmente a determinare il dovuto rinunziando ad avvalersi del vizio di omessa notifica del provvedimento
impositivo;
2d) processo in termini di accertamento del rapporto allorché il contribuente esercita la facoltà di richiedere
la determinazione del dovuto sulla base di meri atti
endoprocedimentali di per sé solo propedeutici all’emanazione del provvedimento impositivo (secondo la nozione, impropria, di atto facoltativamente
impugnabile, atteso che in tali fattispecie il contribuente non impugna, tecnicamente, un provvedimento ma richiede al giudice di statuire direttamente in ordine alla pretesa9 siccome enunciata dall’amministrazione);
2e) l’azione di accertamento circa l’effettiva sussistenza
di un credito d’imposta, a fronte di dichiarazione
negativa dell’ente impositore, terzo pignorato, resa
dinanzi al giudice dell’esecuzione (art. 548 c.p.c.),
deve essere necessariamente incardinata presso il
giudice speciale tributario in litisconsorzio necessario tra creditore procedente, contribuente esecutato
e amministrazione presso la quale si procede mediante pignoramento presso terzi10;
f ) in tema di c.d. abuso del diritto (nozione di pura
matrice giurisprudenziale), si configura in termini
di giudizio di accertamento del rapporto la determinazione dell’imposta ad opera dello stesso giudice il quale, applica, in tal modo, uno schema ricostruttivo del dovuto diverso da quello formulato
dall’Agenzia.
Questi sintetici cenni ricostruttivi intendono dar
conto dell’attuale ricchezza ed articolazione della giurisdizione tributaria, il suo recente estendersi a materie
nient’affatto omogenee, la proponibilità dell’intera
gamma delle azioni contemplate negli ordinamenti processuali comuni e la corrispondente articolazione della
tipologia di sentenze in relazione alle domande proposte
dal contribuente.
9 Di impugnazione facoltativa, ovviamente, non può discutersi
per atti successivi all’emanazione del provvedimento impositivo il
quale, di per sé, elimina in radice la possibilità di accertare il dovuto
siccome di già formalmente costituito.
10 Cass., sez. un., n. 3773/2014, in Riv. giur. trib., 2014, 465 ss.,
ed ivi G. Tabet, La lunga metamorfosi della giurisdizione tributaria.
Considerazioni conclusive. Spunti ricostruttivi in
ordine alla nuova disciplina del processo tributario
Dall’indagine sono fondamentalmente emersi due significativi profili:
a) le azioni combinate del legislatore e della Corte Suprema hanno esteso ai massimi limiti i confini della
giurisdizione delle Commissioni tributarie, dilatando lo stesso oggetto del giudizio in considerazione
dell’accentuata articolazione delle forme del prelievo
mediante modelli impositivi proceduralmente più
elastici; il giudice tributario, da parte sua, ha preso atto del fenomeno adottando un sostanziale “allineamento” della tutela del contribuente, privilegiando il
principio di immediatezza (artt. 24 e 113 Cost.)
piuttosto che il differimento della stessa in attesa della notifica del provvedimento impositivo.
Con tali interventi (assecondati, se non addirittura
indirizzati, anche dalla Corte costituzionale) traspare nitidamente l’obiettivo di fornire al contribuente una tutela effettiva ed in linea (quantomeno tendenzialmente)
con i canoni del giusto processo.
b) tali positive intenzioni scontano, però, l’evidente limite di una normativa processuale chiaramente lacunosa giacché riferita ad un diverso contesto sistematico: l’attuale telaio del processo è concepito in funzione, specificamente, del controllo giurisdizionale dell’attività impositiva, laddove, attualmente, nell’ampio spettro del processo rientrano multiformi funzioni amministrative esercitate nell’ambito dell’intera
materia tributaria, in particolare anche quelle frutto
di attività discrezionale, la conoscenza di settori dell’agire erariale prima esclusi e, infine, originali istituti
di recente conio, come è inevitabile in una materia in
tumultuosa e perenne evoluzione.
In particolare la normativa processuale risulta spesso
incoerente come è testimoniato anche dai perduranti
contrasti interpretativi in merito alla nozione di atto facoltativamente impugnabile e circa gli effetti della pendenza del relativo processo sull’ulteriore attività impositiva dell’ufficio.
Giova rilevare, a tal proposito, che l’ampliamento della giurisdizione si è sviluppato in due distinte direzioni:
a) diretto ed immediato accesso al processo a fronte di
atti relativi a procedimenti impositivi in itinere nel
cui ambito l’Agenzia determina provvisoriamente il
11 Cass., sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7344.
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dovuto sulla base degli elementi in suo possesso (si allude, ad esempio, agli avvisi bonari, agli inviti di pagamento, ecc. ...). Nella ricostruzione della Corte,
però, “l’emissione della cartella di pagamento integra
una pretesa tributaria nuova con la conseguente carenza di interesse delle parti nel giudizio avente a oggetto il relativo rapporto sostanziale”11.
Effetto singolare, quello delineato dalla Corte, giacché
prospetta una sorta di impugnazione condizionata ad un
evento (l’iscrizione a ruolo) che l’Agenzia ha, peraltro,
l’obbligo di effettuare, con la concreta prospettiva di frustrare del tutto l’iniziativa processuale del contribuente.
Si dovrebbe tenere conto , piuttosto, dell’effetto “accertamento giudiziale della pretesa” che si produce nel
giudizio promosso sulla base dell’atto facoltativamente
impugnabile. Ciò esclude che la sopravvenienza dell’atto
impositivo possa rimettere in campo (ne bis in idem) lo
stesso oggetto del giudizio già instaurato.
b) Il provvedimento impositivo è stato di già confezionato dall’amministrazione e il contribuente può acquisirne prova documentale sebbene l’atto non sia efficace giacché non ancora notificato (si pensi agli
estratti di ruolo).
È rispetto a quest’ultima vicenda che è esploso il dissidio interpretativo tra la sezione VI (c.d. sezione filtro)
e la sezione quinta tributaria. La prima reputa che
l’estratto di ruolo esprima compiutamente la pretesa
vantata dall’amministrazione e tanto basta a fondare
l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.12; secondo la quinta
sezione tributaria13, di contro, il contribuente non può
far valere, in tal caso, alcun interesse ad agire fintantoché
la relativa cartella non sia stata notificata e il provvedimento impositivo, in quanto atto recettizio, non sia
dunque efficace.
Al riguardo, però, le sezioni unite hanno definitivamente superato il tabù dell’impugnazione del provvedimento costitutivo della pretesa con l’obiettivo di anticipare la tutela ogniqualvolta la pretesa sia manifestata in
maniera compiuta.
In tale contesto l’interesse ad agire non discende, in
verità, dalla notifica del provvedimento (la quale, semmai, in quanto atto recettizio, solo lo perfeziona) ma
dall’”esistenza” (giuridica) della pretesa della quale è interesse del contribuente disconoscerne immediatamente
la fondatezza (e/o la consistenza).
12 Cass., sez. VI, 3 febbraio 2014, n. 2248.
13 Cass., sez. V, 19 marzo 2014, n. 6395.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Non si deve trascurare, inoltre, che sullo sfondo della
vicenda circa l’impugnabilità dell’estratto di ruolo urge
una imprescindibile esigenza: accade in materia tributaria (e per effetto della nuova disciplina sul c.d. accertamento esecutivo accadrà ancora più sovente) che l’agente della riscossione proceda, sulla base di atti non notificati o irritualmente notificati, al blocco, a fini di garanzia, del patrimonio del contribuente (fermo amministrativo dei beni mobili registrati e iscrizione di ipoteca sugli
immobili) o, addirittura, pignoramento e successiva fissazione di vendita all’incanto di beni mobili o immobili,
evenienze che fanno fortemente dubitare circa il rispetto, in materia tributaria, dei canoni del giusto processo
(art. 111 Cost.) e che il contribuente non può efficacemente contrastare per i noti (ed ingiustificati) limiti alla
tutela in sede di esecuzione forzata. Tale deprecabile situazione può essere arginata solo mediante l’impugnazione presso il giudice tributario degli atti irritualmente
notificati (o, addirittura, non notificati) che fungono da
titolo sostanziale della procedura esecutiva. In siffatto
contesto l’impugnabilità immediata a fronte di tali atti,
operanti sul piano esecutivo ancorché nulli, è imprescindibile onde assicurare, quantomeno, una tutela attenuata in materia tributaria.
È tempo, allora, che il legislatore fornisca più stringenti indicazioni sistematiche.
L’occasione propizia è fornita proprio dalla revisione
del sistema fiscale oggetto della legge delega 11 marzo
2014, n. 23.
Sulla base dei contenuti della delega (peraltro generica e suscettibile di essere attuata secondo diverse opzioni
sistematiche), è stato di già proposto un codice del processo tributario che certamente rappresenta un compiuto sforzo di sistematizzazione della materia processuale
tributaria volto a riaffermare, contrastando de plano i riferiti orientamenti della Corte, la giurisdizione di puro
annullamento di provvedimenti impositivi.
Sono convinto, peraltro, che risulti più utile assecondare gli spunti ricostruttivi della Cassazione e della Corte costituzionale nel senso di miscelare sapientemente gli
effetti del giudizio di annullamento e quello di accertamento con l’obiettivo di una più efficace tutela del contribuente. A tal proposito:
a) il richiamo al c.p.c. dovrebbe essere applicato a tutto
campo considerando che nel nuovo contesto l’azione
di accertamento può avere ad oggetto direttamente la
pretesa (ovvero gli atti di garanzia del credito erariale
che rientravano nella giurisdizione dell’AGO) sicché
i poteri decisori delle Commissioni, modulati origi-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
nariamente solo in funzione dell’annullamento di
provvedimenti (ad es. art. 47, D. Lgs. n. 546/92), andrebbero estesi a questa nuova realtà (ad es. applicando l’art. 700 c.p.c. quale potere del giudice di emanare provvedimenti innominati che si adattino elasticamente alla concreta fattispecie: si pensi all’attività
istruttoria – in atto sostanzialmente sottoposta a tutela differita –; alla immediata cancellazione di fermi
e ipoteche per effetto di sospensione giudiziale);
b) di contro, dal momento che le Commissioni conoscono anche dell’attività discrezionale dell’amministrazione, attuali pesanti vuoti di tutela potrebbero
essere colmati attribuendo al giudice le prerogative
DOTTRINA
decisionali della giurisdizione estesa al merito del
TAR, al quale il giudice tributario è subentrato, assolutamente incisive in numerosi settori dell’agire amministrativo (si pensi all’autotutela, alla rimodulazione delle rateizzazioni e delle numerose determinazioni amministrative discrezionalmente assunte in materia tributaria).
È evidente, da ultimo, che le attuali (e, a fortiori, le
future) incombenze dei giudici tributari, chiamati a dirimere controversie complesse ed impegnative, non possono che essere affidate a giudici di carriera e a tempo
pieno, come si addice ad una giurisdizione fondamentale nel contesto dell’ordinamento processuale.
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DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Inconvenienti e necessità di superamento
del “doppio binario”
di Andrea Perini e Giovanni Maria Soldi
1. Il quadro normativo
La disciplina dei rapporti tra procedimento penale, da
un lato, e contenzioso tributario, dall’altro, è stata dominata per svariati decenni dal principio della c.d. “pregiudiziale tributaria”, rinvenibile all’art. 21, co. 3, L. 7 gennaio
1929, n. 4, a mente del quale “per i reati previsti dalle leggi
sui tributi diretti, l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa sovrimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti la materia”1.
Le ragioni a fondamento di tale scelta legislativa venivano ravvisate nell’esigenza di tutelare la natura speciale dei
tributi diretti e, più in generale, la fisiologica complessità
tecnica della materia tributaria, giacché l’accertamento dell’evasione doveva essere demandato ad organi specializzati,
e non già al giudice penale, privo di specifiche competenze
in materia.
Con la riforma tributaria degli anni settanta, in particolare gli artt. 56, co. 6, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 in
materia di imposte dirette e 58, co. 5, D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 633 per quanto riguarda l’IVA, la situazione dei
rapporti tra procedimento penale e contenzioso tributario
non mutò, pur essendo al tempo già noti ed evidenti gli inconvenienti connessi alla pregiudiziale tributaria, quali il
ponderoso rallentamento del processo penale e la conseguente perdita di efficacia della sanzione penale.
Solo con la L. 7 agosto 1982, n. 516, il legislatore ha
introdotto il principio del c.d. “doppio binario” in sostituzione di quello della “pregiudiziale tributaria”, sia pur con
il correttivo, nel senso di un’attenuazione in favore del
processo penale, di cui all’art. 12, comma 1, in forza del
quale “la sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento pronunciata in seguito a giudizio relativa a reati previsti in materia di imposte sui redditi e di imposta sul valore
aggiunto ha autorità di cosa giudicata nel processo tributario
per quanto concerne i fatti materiali che sono stati oggetto del
giudizio penale”.
Attraverso la riforma del 1982 si è quindi optato per la
separazione dei procedimenti, affermando la prevalenza
dell’accertamento penale su quello tributario nel caso si
1 Cfr. anche, sull’argomento, ARDITO, Giudicato penale e giudizio tributario, Rassegna Tributaria, 2010, 3, 893 ss.
fosse formato per primo il giudicato penale, situazione
questa che suscitava perplessità nella ricostruzione dei rapporti tra i due procedimenti: l’art. 12 non prevedeva infatti
espressi limiti di natura soggettiva e, inoltre, non figurava
nella norma alcun limite connesso all’eventuale difformità
dei regimi probatori, per cui la pronuncia penale irrevocabile aveva efficacia vincolante anche laddove l’accertamento si fosse fondato su mezzi di prova preclusi al giudice
tributario. I maggiori dubbi, però, erano connessi alla circostanza che l’operatività dell’art. 12 era ancorata al mero
fattore casuale della maggiore o minore celerità del processo penale rispetto a quello tributario.
Il quadro normativo sopra delineato subì un ulteriore
mutamento con l’abrogazione dell’art. 12 della L. n. 516
del 1982 ad opera della riforma del 2000, in particolare
con l’art. 20 del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, rubricato
appunto “Rapporti tra procedimento penale e processo tributario”, secondo cui “il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possono essere sospesi
per la pendenza del procedimento penale avente per oggetto i
medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende
la relativa definizione”.
La norma, rispetto al previgente art. 12, comma 1, si
differenzia per l’aver esteso il divieto di sospensione al procedimento amministrativo di accertamento tributario, al
fine di sgombrare il campo da ogni possibile dubbio sulla
permanente autonomia dei procedimenti accertativi, ancorché al giudice penale sia demandato il compito di determinare l’imposta evasa.
Quanto, invece, al rapporto di autonomia del procedimento penale da quello tributario, esso si ricava dalle regole generali del codice di rito penale, poiché, a mente dell’art. 2 c.p.p., il processo penale non può essere sospeso per
dar corso ad un procedimento civile o amministrativo in
cui si decida una questione ad essa pregiudiziale; ed ancora,
gli artt. 3 e 479 c.p.p. prevedono, rispettivamente, che il
giudice penale possa sospendere il processo per questioni
pregiudiziali inerenti lo stato di famiglia o di cittadinanza
ovvero, in pendenza di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, soltanto “se la legge non
pone limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa” che, pertanto, non è applicabile al processo tributario che prevede invece rigidi limiti probatori, come im-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
posto dall’art. 7, comma 4, del D. Lgs. 31 dicembre 1992,
n. 546, secondo cui nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”.
Ad oggi, pertanto, l’ordinamento processuale tributario
è caratterizzato dal principio del cosiddetto “doppio binario”, secondo il quale qualora una condotta abbia rilevanza
sia sul piano amministrativo che su quello penale, il procedimento di accertamento e il processo tributario, da un lato, e
il procedimento penale, dall’altro, procedono parallelamente e autonomamente, senza che l’uno interferisca sull’altro.
Una volta riconosciuta l’autonomia tra procedimento
penale e tributario, l’eventuale valenza del giudicato penale
nei giudizi extrapenali viene ad essere disciplinata dall’art.
654 c.p.p. a mente del quale “nei confronti dell’imputato,
della parte civile e del responsabile civile […] la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione ha efficacia di
giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in
questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli
stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale,
purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”.
Ne consegue che quanto acquisito ed accertato in sede
penale non può essere “traslato” con pari efficacia in sede
amministrativa, atteso che il giudice tributario non può avvalersi degli stessi mezzi di prova dei quali dispone il giudice
penale; nessuna autorità di cosa giudicata può quindi attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale
irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale
siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha
promosso l’accertamento nei confronti del contribuente2.
2. Gli inconvenienti del “doppio binario”
La pratica quotidianamente vissuta in questi anni nelle
aule dei Tribunali penali, come delle Commissioni Tributarie, ha però fatto emergere un elevato numero di criticità
nella concreta attuazione del principio del “doppio binario”, tali da minarne seriamente la credibilità3.
La migliore dimostrazione rispetto a tale osservazione
sta nell’esame della portata applicativa di alcuni strumenti
istruttori che, proprio in ragione della loro utilità in ambe2 Cfr. GUIDI, I rapporti tra processo penale e processo tributario ad
oltre dieci anni di distanza dal d. lgs. n. 74 del 2000, Diritto Penale e
Processo, 2012, 11, 1384 ss.
3 Sull’argomento, cfr. GOLINO – LO GIUDICE, Principio del
doppio binario: interferenze tra contenzioso tributario e procedimento
penale, Il Fisco, 2013, 18, 2729 ss.
DOTTRINA
due i procedimenti, penale e tributario, fanno oggettivamente dubitare che il principio del c.d. doppio binario
possa continuare ad avere una efficacia reale.
Preliminarmente, è comunque utile rilevare in via generale che le prove acquisite in sede penale, sebbene non possano essere recepite come tali nel processo tributario, possono comunque essere valutate dal giudice tributario in base al principio della valutazione delle prove per la formazione del proprio libero convincimento. Il giudice tributario,
quindi, pur potendo fondare le proprie decisioni su elementi di prova acquisiti in sede penale, non ne può recepire in maniera pedissequa il contenuto (cfr. art. 116 c.p.c).
Ciò premesso, uno degli strumenti istruttori cardine, a
torto o a ragione, del procedimento penale, è costituito
dalle intercettazioni telefoniche eseguite in sede di indagini preliminari; quale può esserne l’utilizzo nell’ambito del
processo tributario?
La Corte di Cassazione ha recentemente riconosciuto
legittima nel procedimento amministrativo di accertamento e nel conseguente processo tributario, per le connesse
violazioni di natura amministrativa, l’acquisizione delle
prove – sotto forma di valutazione come elementi indiziari
da parte del giudice – avvenuta a mezzo delle intercettazioni telefoniche eseguite in sede di indagini preliminari di
polizia giudiziaria, così confermando quell’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il giudice tributario, nella
formazione del suo libero convincimento, può valutare il
materiale probatorio acquisito in un procedimento penale
avente per oggetto gli stessi fatti perseguiti anche in sede
amministrativa (Cass., sez. Trib., n. 2916 del 7 febbraio
2013, Il Fisco, n. 8/2013, fascicolo n. 1, pag. 1174).
Orbene, senza voler compiutamente esaminare in questa sede le complesse argomentazioni sviluppate dai giudici
di legittimità, è comunque doveroso prendere atto – a partire proprio dalle intercettazioni telefoniche – delle sempre
più evidenti ed acclarate interconnessioni esistenti fra procedimento penale e processo tributario, tali da far sorgere
più di qualche dubbio in ordine all’effettiva valenza del
principio di stretta separazione fra i due procedimenti ad
oggi normativamente sancito.
Un altro evidente caso nel quale si possono utilizzare,
sia in ambito processuale penale che tributario, elementi di
prova acquisiti in uno dei due procedimenti, sono le cosiddette “dichiarazioni di terzi”, nonché le “sommarie informazioni testimoniali di polizia giudiziaria”.
Le prime si raccolgono a verbale in una fase ante procedimentale, durante i controlli di natura amministrativa
eseguiti dalla polizia tributaria nei confronti di un determinato contribuente, su fatti la cui conoscenza da parte dei
verificatori può contribuire a far luce su determinati aspetti
rilevanti ai fini della definizione e della qualificazione della
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DOTTRINA
pretesa tributaria; le seconde, invece, sono così definite
perché, pur trattandosi sostanzialmente di deposizioni testimoniali, non sono assunte secondo le procedure e le garanzie previste per queste ultime, compreso il giuramento.
Trattandosi di atti investigativi compiuti al di fuori del
processo tributario da funzionari della Amministrazione finanziaria, senza l’osservanza di particolari garanzie difensive, emerge con evidenza il problema della loro utilizzabilità, anche e soprattutto in relazione a quanto disposto dalla
norma di cui all’art. 7, comma 4, del D. Lgs. 31 dicembre
1992, n. 546, secondo la quale nel processo tributario
“Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”.
Per quanto attiene la utilizzabilità nel processo tributario delle dichiarazioni rese da “soggetti terzi” in sede di verifica o, comunque, di accertamenti preliminari, la Corte
di Cassazione ha espresso parere favorevole, osservando che
il divieto di cui al citato art. 7 del D. Lgs. n. 546/1992, sostanzialmente, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo e “non implica, pertanto, l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da “terzi”, e cioè
da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente-parte e
l’Erario” (v. Cass. Sez. Trib., n. 5746 del 10 marzo 2010).
Tali dichiarazioni costituiscono quindi elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e
concordanza, possono dare luogo a presunzioni di cui all’art. 2729 c.c, ammissibili nel processo tributario: in sostanza, secondo la Cassazione, nel caso in esame il divieto
della prova testimoniale non equivale alla inammissibilità
della prova per presunzioni.
Emerge ancora una volta, quindi, il problema posto
dall’ormai desueto divieto della prova testimoniale nel processo tributario; da un lato, le dichiarazioni di terzi rese nel
corso delle operazioni di verifica possono essere utilizzate
sia nel processo tributario che nel procedimento penale e,
dall’altro, gli elementi sottoposti al vaglio dei giudici
avranno il valore di meri indizi… rappresentando così un
ulteriore esempio delle interferenze esistenti fra i due procedimenti, che si pongono in contrasto con il principio
della loro netta separazione, sancito dall’art. 20 del D. Lgs.
10 marzo 2000, n. 74.
Per quanto concerne, invece, le sommarie informazioni
testimoniali, è noto come esse siano rappresentate da dichiarazioni raccolte a verbale dalla polizia giudiziaria nei
confronti di persone informate sui fatti nel corso delle indagini preliminari avviate su una ipotesi di reato, sotto il
controllo e la direzione della Procura della Repubblica;
senza voler entrare nei dettagli tecnici, si tratta di adempimenti atti ad assicurare le fonti di prova, che potranno diventare vera e propria prova nella fase dibattimentale,
quando le “persone informate sui fatti” deporranno davan-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
ti al giudice in qualità di “testimoni”, previo giuramento e
secondo le modalità previste dal codice di rito per l’assunzione della prova testimoniale.
Ebbene, ancora una volta, la giurisprudenza ormai consolidata ritiene che nel procedimento di accertamento e nel
processo tributario anche le sommarie informazioni testimoniali di polizia giudiziaria possono essere acquisite quali
elementi indiziari e valutate nell’ambito del complessivo
quadro probatorio, concorrendo a supportare la pretesa
dell’Amministrazione finanziaria.
Altro e diverso argomento che necessariamente deve essere valutato, con riferimento alle interferenze tra procedimento penale e processo tributario, è quello delle c.d. “presunzioni”.
La normativa penal-tributaria, infatti, prevede come è
noto che taluni comportamenti antigiuridici diretti a sottrarre base imponibile al Fisco con la conseguente evasione
dell’imposta corrispondente, in materia di imposte dirette
e di Iva, siano soggetti a sanzione penale unicamente se v’è
il superamento di determinate soglie di punibilità, fissate
sia in termini di base imponibile non dichiarata, sia in termini di imposta evasa o non versata.
In questi casi, si tratta di stabilire se l’entità della base
imponibile non dichiarata e l’entità della conseguente imposta evasa superano le soglie quantitative previste dalla
legge per ogni fattispecie di reato. In particolare, per quanto riguarda l’imposta evasa, bisognerà raffrontare l’imposta
dichiarata dal contribuente con “l’imposta effettivamente
dovuta”, secondo la nozione definita dal legislatore penale
all’art. 1, lett. f ) del citato D. Lgs. n. 74/2000 la quale, tuttavia, non si identifica necessariamente con quella contestata dal fisco nell’avviso di accertamento, essendo la sua
determinazione nel processo penale del tutto autonoma rispetto alla nozione fiscale.
Ebbene, è chiaro che il giudice, per stabilire se la condotta tenuta dal contribuente assuma rilevanza penale, dovrà
fare necessariamente riferimento alla normativa tributaria
per quanto riguarda le modalità di determinazione del
quantum debeatur, senza tuttavia recepire acriticamente ed
in modo automatico quanto accertato in sede amministrativa dagli uffici del Fisco, quando il maggior debito d’imposta contestato è il risultato di procedimenti presuntivi previsti dalla legislazione tributaria o quando ostano limitazioni
in tema di prova, e ciò a maggior ragione qualora l’imposta
evasa contestata dall’Ufficio sia determinata, invece che mediante rettifiche apportate ai singoli componenti della base
imponibile, con i metodi dell’accertamento analitico induttivo, sintetico, giacchè – proprio per la particolare complessità nella determinazione della imposta evasa insita in tali
procedure – il giudice penale non potrà infatti non tener
conto di tali presuntive modalità di accertamento, pur ri-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
manendo fermo ed incontestato l’onere di verificare i presupposti di legittimità del risultato che dalle stesse scaturisce, accertando “l’imposta effettivamente dovuta”.
In sostanza, la mancanza di un automatico trasferimento delle presunzioni tributarie in campo penale non significa, tuttavia, che esse non rivestano alcuna rilevanza, poiché
sebbene non valgano come prova, possono tuttavia costituire degli indizi, come tali valutabili dal giudice penale alla stregua dei criteri dettati dall’art. 192, co. 2, c.p.p.
La giurisprudenza, infatti, secondo un ormai consolidato
orientamento, ha chiarito, con specifico riferimento alla presunzione di maggiori ricavi fondata su accertamenti bancari,
che la disciplina della repressione dei reati tributari comporta l’obbligo del giudice di valutare autonomamente le circostanze ed i fatti costitutivi della fattispecie incriminatrice, all’uopo anche discostandosi dalle risultanze e conclusioni dell’accertamento prettamente tributario, dovendosi dare prevalenza al dato fattuale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario, precisando altresì che il giudice, ai fini della determinazione del
reddito imponibile, deve in ogni caso tener conto dei costi
d’esercizio fiscalmente detraibili sostenuti dall’azienda.
V’è poi un altro macrotema dal quale emerge, una volta
di più, la interferenza sempre più invasiva tra procedimento penale e processo tributario, ed è quello relativo all’istituto dell’accertamento con adesione e alla conseguente
(ri)determinazione delle relative soglie di punibilità.
Recentemente, infatti, la Corte di Cassazione ha riaffermato che, qualora in pendenza di un procedimento penale
innescato da una informativa di polizia giudiziaria relativa
ad un reato tributario commesso mediante il superamento
delle soglie di punibilità fissate dal legislatore per quella
specifica fattispecie, intervenga un accertamento con adesione, a seguito del quale l’originaria pretesa per effetto del
successivo accertamento dell’Ufficio finanziario viene ridimensionata in misura inferiore alla soglia di punibilità, il
giudice penale dovrà prenderne atto e dichiarare il non doversi procedere per insussistenza del reato, giacchè “il giudice penale non è vincolato all’imposta “accertata”, ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento
con adesione o dal concordato fiscale, per tener conto, invece,
dell’iniziale pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità, occorre
che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta” (Cass., n. 5640 del 14 febbraio 2012).
In sostanza, viene affermato il primato dell’organo amministrativo, quale soggetto specificamente deputato alla
individuazione degli elementi strutturali dell’illecito, anche sotto il profilo penale, così elevando a fondamentale
importanza l’istituto dell’accertamento con adesione, pe-
DOTTRINA
raltro assurto a dignità ancora maggiore anche a seguito del
D.L. n. 138/2011, in conseguenza del quale le soglie di punibilità dei reati tributari, ove previste, sono state notevolmente abbassate con un inevitabile, conseguente, incremento esponenziale delle condotte penalmente rilevanti, e
del relativo accesso agli strumenti conciliativi previsti dall’ordinamento tributario.
Sebbene il perfezionamento di taluna delle suddette
procedure determini, ai fini tributari, la soddisfazione delle
ragioni dell’Erario, con la rinuncia a far valere ogni ulteriore pretesa nei confronti del contribuente ovvero, se già avviato un contenzioso, con la cessazione della materia del
contendere, va infatti ricordato che l’estinzione del debito
tributario di per sé non costituisce causa né di esclusione
della punibilità, né di estinzione degli eventuali reati tributari ravvisati nei fatti oggetto dell’accertamento.
L’unico effetto ai fini penali del ricorso alle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento sopra
amenzionate è costituito dalla concedibilità della speciale
circostanza attenuante ad effetto speciale prevista dall’art.
13 del D. Lgs. n. 74/2000, che comporta la diminuzione
della pena fino ad un terzo e la non applicazione delle pene
accessorie indicate nell’art. 12 del medesimo decreto, a
condizione, però, che prima della dichiarazione di apertura
del dibattimento di primo grado i debiti tributari relativi ai
fatti costitutivi del reato contestato, comprensivi delle sanzioni amministrative, siano estinti mediante pagamento
integrale di quanto concordato con l’Ufficio.
Una volta esaminata la procedura di “transazione” con
l’Agenzia delle Entrate ed il conseguente effetto di tale accordo sul procedimento penale, è d’obbligo altresì analizzare quello che, nel procedimento penale, ben può assimilarsi
ad un accordo transattivo tra le parti, per appurare l’effetto
di tale decisione nel parallelo procedimento tributario.
Quali sono dunque i riflessi nel processo tributario
della sentenza di c.d. “patteggiamento” ex art. 444 c.p.p.
emessa nell’ambito del procedimento penale?
Ebbene, come si è visto esaminando l’art. 654 c.p.p.,
non avendo la sentenza di condanna efficacia di giudicato
nel processo tributario, a maggior ragione si dovrebbe
escludere che la sentenza di applicazione della pena pronunciata nel procedimento penale possa fare stato nel processo tributario.
La Cassazione, sezione Civile, tuttavia, considera ormai
jus receptum che la sentenza penale di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. costituisca indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale,
ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione, per cui tale ri-
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DOTTRINA
conoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben potrà essere utilizzato
come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità.
Da ultimo, merita certamente considerazione, quale ulteriore dimostrazione della crisi concreta che vive il sistema
del doppio binario, l’introduzione nell’art. 43, co. 3,
D.P.R. n. 600/1973 – operata dall’art. 37, co. 24, D.L. 4
luglio 2006, n. 223 – della disposizione che prevede che, in
caso di violazione comportante obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per taluno dei reati previsti dal D.
Lgs. n. 74/2000, i termini per l’accertamento relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione sono raddoppiati.
Tale norma si pone infatti in netto contrasto con l’asserita autonomia dei procedimenti penale e tributario, consentendo un anomalo e del tutto ingiustificato ampliamento dei
poteri accertatori degli uffici finanziari per il solo fatto della
astratta ravvisabilità di una violazione penalmente rilevante.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
3. Considerazioni conclusive
L’esperienza concreta di più di un decennio di applicazione del D. Lgs. n. 74 del 2000, dunque, ha dimostrato
numerosi profili critici rispetto al sistema del c.d. “doppio
binario” tra processo penale e tributario, evidenziando – a
dispetto della teorizzata autonomia tra i procedimenti –
una mole sempre crescente di collegamenti ed interconnessioni, a volte ideati dallo stesso Legislatore, tanto da far dubitare della concreta e attuale utilità di conservare nel vigente dettato normativo il principio del “doppio binario”.
Una parte della dottrina, con la quale concordiamo, già
auspica, piuttosto, che anche nel processo tributario siano
introdotti i principi del giusto processo sanciti dall’art. 111
della Costituzione già vigenti per quanto concerne il procedimento penale e, più in particolare, il diritto alla parità
degli strumenti con cui garantire l’effettivo esercizio del diritto di difesa in sede processuale.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
DOTTRINA
Il sistema penale tributario - situazione attuale
e modifiche necessarie
di Ivo Caraccioli
Il sistema penale tributario introdotto con il D.Lgs.
10/3/2000 n. 74, nel dichiarato intento di sanzionare
a livello penalistico solo le infrazioni fiscali di maggiore
importanza (tutti delitti di danno ed a dolo specifico) a differenza di quanto previsto dalla precedente L.
7/8/1982 n. 516, rivelatasi non valida a causa della
pratica moltiplicazione di procedimenti per reati di
minore importanza e non incidenti sulla repressione
dell’evasione fiscale – necessita, a distanza di oltre un
decennio dalla sua entrata in vigore, di una profonda
revisione, sia per quanto attiene al profilo sostanziale
che per quanto riguarda il profilo processuale.
In ordine al primo punto va sottolineato che, con
un’improvvida riforma del 2005-2006 (c.d. ”Legge
Bersani-Visco”), sono state reintrodotte delle fattispecie
criminose svincolate dal “fine di evadere” ed aventi ad
oggetto comportamenti meramente omissivi attinenti
al versamento di ritenute d’acconto e di IVA (artt. 10bis e 10-ter, oltre all’art. 10-quater che prevede ipotesi
di “indebita compensazione”). Parimenti nel 2011 (art.
11 L. 22/12/2011 n. 214) è stato previsto un reato di
false dichiarazioni nel corso delle verifiche, che sta creando tanti problemi quanto al suo effettivo ambito di
applicazione, e che preoccupa anche i professionisti.
Assai preoccupanti sono altresì le conseguenze in
materia di segnalazioni “antiriciclaggio” da parte dei
professionisti, tenuto conto che la conoscenza di qualsiasi reato fiscale obbliga gli stessi alla segnalazione di
“operazioni sospette”.
Il quadro generale che risulta in materia di diritto
penale tributario italiano è, dunque, di particolare severità, discostandosi esso dalle caratteristiche generali
degli altri sistemi legislativi dei Paesi dell’Unione Europea, nei quali vengono elevati al rango di fattispecie
penali soltanto comportamenti di vera e propria frode
od utilizzazione di documenti falsi. Per le condotte di
minore gravità si ritiene, infatti, sufficiente, in quegli
ordinamenti, la sanzione amministrativa. Onde appare necessaria una revisione del sistema sanzionatorio
tributario, nel suo complesso, che restringa la sfera
delle sanzioni penali in materia fiscale.
Al riguardo occorre, dunque, mettere mano al
principio generale – peraltro già correttamente individuato dal disegno di legge delega per la riforma del sistema tributario, presentato nella precedente Legislatura e poi decaduto a causa dello scioglimento anticipato del Parlamento – della riduzione della sfera delle
sanzioni penali a vantaggio di quelle tributarie, sulla
base di criteri generali che possano essere ritenuti corretti ed adeguatamente perfezionati.
Un altro punto dolente del sistema penale tributario vigente, quale introdotto nel 2000, è quello derivante dall’applicazione del c.d. ”doppio binario” di
cui all’art. 20 D.Lgs. 74/2000, in forza del quale non
è possibile tener conto in sede penale delle risultanze
degli accertamenti e dei giudizi tributari, e viceversa.
Tale impostazione, introdotta a seguito della dichiarata volontà legislativa di conferire al solo giudice penale, con i poteri propri del processo penale, l’accertamento dell’esistenza o meno dei reati tributari, si è
poi, infatti, nel prosieguo degli anni, rivelata foriera di
inconvenienti pratici e sistematici. Onde, anche sotto
il profilo strettamente processuale, appare necessario
mettere mano alla riforma, tenendo conto dei molteplici interventi giurisprudenziali intervenuti, tutti tesi, per così dire, a “mitigare” le asprezze e gli inconvenienti di un sistema che si è rivelato insoddisfacente.
È importante, poi, che il Legislatore italiano, sulla
base anche delle osservazioni e delle proposte contenute nel d.d.l. per la Delega al Governo di predisposizione di importanti innovazioni al sistema fiscale italiano -poi decaduto a seguito della fine anticipata della Legislatura e di imminente riesame da parte del
nuovo Governo e del nuovo Parlamento- svolga delle
riflessioni generali relativamente ai rapporti tra il diritto (ed, in particolare, le sanzioni) tributario ed il diritto penal-tributario, nel dichiarato proposito (vivamente sollecitato da enti istituzionali e da associazioni
di categoria, nell’attuale momento di grave crisi economica e nell’auspicio di un sistema fiscale meno oppressivo) di chiarire definitivamente i confini tra i due
settori dell’ordinamento.
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DOTTRINA
In particolare, appare essenziale che si chiariscano i
limiti della (oggi) possibile contestazione dell’istituto
dell’”abuso del diritto” (non normativizzato ma di
esclusiva creazione giurisprudenziale), che dando luogo ad infinite incertezze in sede giurisprudenziale relativamente, oltretutto, a comportamenti che all’epoca
non erano ipotizzabili come suscettibili di censura in
sede penale.
Istituto, questo, dell’“abuso del diritto” che si affianca a quello della c.d. “antieconomicità” di date
operazioni imprenditoriali e commerciali, costituente
oggetto di censura da parte dell’Amministrazione finanziaria in relazione a comportamenti non specificamente riconducibili alle “operazioni elusive” tassativamente disciplinate dall’art. 37-bis D.P.R. 600/1973;
censura, anch’essa, caratterizzata da mancanza assoluta
dei requisiti di tassatività e previsione espressa che sono
caratteristici delle ipotesi penalmente sanzionabili.
Le due situazioni da ultimo menzionate appaiono,
dunque, tali da mettere in discussione, ove non intervenga una loro specifica disciplina legislativa, i fondamenti stessi del diritto penale in materia tributaria.
Non va, poi, da ultimo, dimenticata la preoccupazione al momento attuale derivante dagli istituti della
“confisca per equivalente” e del “sequestro preventivo
finalizzato alla confisca per equivalente” estesi alla materia dei reati tributari a far data da quelli commessi
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
nell’annualità 2008; e soprattutto in conseguenza dell’applicazione indiscriminata che si sta operando, con
provvedimenti dei pubblici ministeri, su richiesta dell’Amministrazione finanziaria, in relazione ai sequestri di ingenti beni, se non addirittura, di interi patrimoni, in maniera del tutto sproporzionata rispetto al
vero e proprio danno erariale, il quale invece verrà valutato solo poi nella sentenza definitiva di condanna;
ed, in tanti casi, scavalcando le regole generali in materia di personalità societaria.
Detto ultimo fenomeno si sta rivelando, nell’attuale momento storico, come quello maggiormente temuto dai contribuenti - anche in ipotesi discutibili dal
punto di vista della correttezza delle contestazioni penalistiche – a fronte della possibilità di rendere meno
gravose le stesse affermazioni di responsabilità penale
per mezzo di istituti quali il patteggiamento, la sospensione condizionale della pena, la conversione della pena detentiva in sanzione pecuniaria, ed altro.
Com’è stato, infatti, esattamente osservato da attenti commentatori, quello che dovrebbe avere la natura sostanziale di “sequestro conservativo”, è diventato l’istituto praticamente più temuto, capace di mettere in crisi anche importanti aziende, assai più temuto delle pene restrittive della libertà personale; e tutto
questo con sostanziale stravolgimento delle priorità in
materia di repressione penale dell’evasione fiscale.
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Illecito amministrativo e reato:
dal principio di specialità al ne bis in idem
di Gaetano Ragucci
1. Oggetto dell’intervento
L’interrogativo dal quale vorrei partire è in che misura
abbia ancora senso parlare dell’art. 19 d.lgs. n. 74/2000
dopo le due sentenze Aklagaren e Grande Stevens, con le
quali la Corte di Giustizia e la Corte EDU hanno esteso il
divieto di bis in idem sostanziale alle condotte punite a titolo di reato e di illecito solo nominalmente amministrativo, perché compreso nella “materia penale”.
Faccio mia l’indicazione di Alessandro Giovannini
che, in un suo recente intervento, ci ha segnalato che la
giurisprudenza delle due Corti può “rovesciare molti dei
piani di ragionamento formalistici ai quali si era finora
prestato ossequio, e impone di ripensare alcuni modelli”
coi quali si intendeva disciplinare i rapporti tra i due illeciti, per graduare la reazione punitiva dello Stato a
fronte di condotte lesive dell’interesse erariale alla percezione dei tributi.
E accolgo anche l’osservazione per la quale il principio di specialità enunciato dall’art. 19 citato non può essere censurato in base al divieto di doppia sanzione, e
che anzi possa essere assunto come una sua prima sia pure imperfetta declinazione.1 Infatti, per le fattispecie di
illecito in concorso apparente un problema di bis in
idem non si pone, proprio grazie all’art. 19. Resta perciò
da stabilire come il divieto vada applicato nel caso che
uno stesso fatto sia punito da norme tra le quali non sia
ravvisabile un rapporto di specialità.
L’ipotesi da cui muovo è che la soluzione vada cercata
nel superamento dei criteri logico formali con cui la disciplina del concorso apparente di illeciti è stata sin qui
interpretata.2
* Testo dell’intervento al Convegno La revisione del sistema fiscale. La legge delega 11 marzo 2014, n. 23, organizzato dall’ANTI a Riva del Garda il 12 settembre 2014, con note aggiunte.
1 GIOVANNINI-MURCIANO, Il principio del “ne bis in idem”
sostanziale impedisce la doppia sanzione per la medesima condotta, in
Corr. trib. 2014, 1548 ss..
2 Un percorso alternativo sarebbe l’adattamento della giurisprudenza sul concetto di “stesso fatto giudicato” ricorrente nell’art. 649
c.p.p., su cui: Corte di Cassazione – Ufficio del ruolo e del massimario, Settore penale, Considerazioni sul principio del ne bis in idem nella recente giurisprudenza europea: la sentenza 4 marzo 2014, Grande
Per rispondere all’interrogativo mi limiterò al piano
sostanziale del tema del concorso apparente di illeciti,3
che svolgerò molto brevemente in quattro punti: a) i
precedenti dell’art. 19 d.lgs. n. 74 del 2000; b) i valori
costituzionali di cui è l’espressione; c) il suo ambito di
applicazione; d) le conseguenze delle sentenze delle due
Corti europee.
2. I precedenti
Se si percorrono le tappe che dalla Legge n. 4 del
1929 conducono ai decreti n. 472 del 1997, e n. 74 del
2000, e alle integrazioni che li hanno seguiti, ci si imbatte nel continuo avvicendarsi, che definire anomalo è dir
poco, delle regole dell’alternatività e del cumulo di sanzioni amministrative e penali previste per lo stesso fatto.
L’impressione è di una disciplina resa instabile anche da
una non diffusa condivisione dei principi sottostanti.
La L. n. 4 del 1929 aveva introdotto una pena pecuniaria, concepita come misura alternativa alla sanzione
penale, in ossequio alla regola espressa dall’art. 3 (che affidava alla legge finanziaria il compito di stabilire quando una violazione delle disposizioni in esse contenute,
che non fosse già prevista come reato, fosse punibile con
una pena pecuniaria). Si riteneva, perciò, che vigesse un
principio di alternatività, anche se non era previsto alcun dispositivo capace di risolvere eventuali situazioni di
concorso apparente.
Con la riforma del 1972 ha fatto ingresso la regola
del cumulo. Pur in assenza di indicazioni nella legge delega n. 825 del 1971, gli interpreti la ricavavano, dall’art.
56 d.p.r. n. 600 del 1973,4 in particolare dal terzo comStevens e altri contro Italia, Rel. n. 35/2014, 8 maggio 2014, par.
3.3.a.. Per un cenno, riferito al pendant dell’art. 669 c.p.p.: GIOVANNINI-MURCIANO, Il principio del “ne bis in idem” sostanziale
impedisce la doppia sanzione per la medesima condotta, cit. 1555.
3 Accantonerò quindi il problema del raccordo tra procedimenti, che non potrebbe essere esaurientemente trattato in questa sede.
4 Il riferimento era al terzo comma della citata disposizione, che
nell’introdurre le figure di reato ivi previste, recava l’inciso “ferme restando le altre sanzioni eventualmente applicabili”. Contra: DEL FEDERICO, Violazioni e sanzioni amministrative nel diritto tributario,
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ma, che nell’introdurre le figure di reato ivi previste, recava l’inciso “ferme restando le altre sanzioni eventualmente applicabili”. Non mancavano dissensi fondati sulla prevalenza della regola generale espressa dalla L. n. 4
del 1929, rispetto alla quale la disciplina delle sanzioni
amministrative tributarie stava tuttavia acquistando
un’autonomia sempre più marcata.
Con l’introduzione della regola dell’alternanza, sancita dall’art. 9 L. n. 689 del 1981 per le sanzioni amministrative depenalizzate, per le sanzioni amministrative
tributarie la situazione non cambia. Il regime delle sanzioni tributarie conserva il proprio carattere derogatorio
anche sotto la vigenza di questa legge di riforma; carattere che sopravvive anche alla L. n. 516 del 1982 la quale
nulla dispone a riguardo, e persino al Decreto di riforma
del sistema sanzionatorio tributario n. 472 del 1972, anch’esso silente.
Finalmente viene introdotto l’art. 19 c. 1 d.lgs. n. 74
del 2000: quando uno stesso fatto è punito da una delle
fattispecie contenute nel decreto n. 74 del 2000 e da una
disposizione che prevede una sanzione amministrativa si
applica la legge speciale. La regola riproduce con lievi modifiche – vi si parla di identità di “fatto”, non di “materia”
– l’art. 15 c.p.,5 di cui condivide la matrice garantista.
3. I valori costituzionali
Come l’art. 15 c.p., anche l’art. 19 è espressione di
una riserva di legge (contenuta nell’art. 23, non nell’art.
25 Cost.). La sua funzione è di presidio del principio di
certezza del diritto, nella misura in cui sottrae a valutazioni incontrollabili del giudice l’applicazione di una
piuttosto che dell’altra fattispecie concorrenti, anche se
sufficientemente determinate.6
in www.corsomagistratitributari.unimi.it, 390, testo e n. 3, il quale
ricorda che la Cassazione penale aveva ritenuto operante il principio
di specialità anche in materia di Imposte dirette e di Iva, purché al di
fuori delle fattispecie per le quali l’art. 10 L. n. 516 del 1982 aveva
previsto il cumulo.
5 Oltre a realizzare una riduzione delle fattispecie punibili a titolo di reato, il D. lgs. n. 74 del 2000 ha perseguito l’adeguamento
della relativa disciplina al diritto penale comune. Il primo passo in
questa direzione era già stato compiuto con l’abrogazione della ultrattività dell’illecito (D.lgs. n. 507 del 1999). In favore della disciplina della successione delle leggi penali nel tempo dettata dall’art. 2
c.p. (LANZI-ALDOVRANDI, Diritto penale tributario, Padova
2014, 56). Su questa linea si pone anche il recupero della regola dell’alternatività tra illeciti amministrativo e penale espressa dall’art. 19
del Decreto, se se ne riconosce la derivazione dall’art. 15 c.p. in materia di concorso apparente di illeciti.
6 Corte Cass. SS. UU. pen. n. 1235/2011.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
A differenza, però, dall’omologa disciplina penale, si
applica anche a illeciti nominalmente diversi; ha cioè
una portata interdisciplinare. L’individuazione degli altri valori costituzionali sottostanti alla regola si ricava
quindi da una complessa indagine comparata di reato e
illecito amministrativo. Provo a sintetizzarne i lineamenti principali.
L’art. 19 presuppone la punizione per uno dei reati
previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, integrati da condotte
lesive del valore costituzionale della solidarietà (art. 2
Cost.), che possono essere di tipo omissivo (omessa dichiarazione; omessi versamenti), e anche commissivo
(indebita compensazione; dichiarazione infedele e fraudolenta).
Nell’ottica della definizione della figura del reato dal
punto di vista sostanziale – il riferimento è all’insegnamento del Bricola –7 il vincolo posto dalla Costituzione
quanto alla scelta del bene protetto (l’interesse patrimoniale alla percezione dei tributi, ma se ne potrebbero anche dare altre definizioni), ha però carattere negativo,
perché se da un lato impedisce al legislatore di adottare
la sanzione penale per fatti che non ledano direttamente
tale interesse, dall’altro gli consente di punirli attraverso
una sanzione amministrativa.8
In questo contesto, l’art. 19 produce effetti sul piano
del sistema punitivo, sotto forma di criterio di coordinamento tra sotto-apparati sanzionatori complementari
(ma non concorrenti).
Le aree di intervento dei due apparati repressivi penale e amministrativo non sono però coincidenti, perché
in dipendenza del principio di lesività necessaria del fatto di reato nell’attuale stato della legislazione l’art. 19
presuppone la punizione di reati di danno (o anche di
pericolo astratto). Mentre è dubbio che la sanzione penale possa essere applicata a illeciti di pericolo presunto,
o formali, che in via amministrativa possono invece essere liberamente sanzionati.9
La possibilità di strutturare l’illecito amministrativo
in una di queste forme consente l’anticipazione della tutela rispetto alle fattispecie di danno e di pericolo astratto. Il che sposta l’oggetto della tutela dal bene primario
già protetto dalla legge penale all’interesse secondario all’efficiente esercizio dei poteri pubblici di accertamento
e di riscossione (altrimenti detto, per l’illecito amministrativo l’offensività può incidere non solo su beni della
vita, ma anche su funzioni pubbliche).
BRICOLA, Teoria generale del reato, (voce) in Noviss. Dig. It.,
XIX, Torino 1973, 8 ss..
8 BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., 18.
9 BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., 68.
7
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Ciò dipende dall’incidenza solo indiretta del principio di lesività necessaria sulla disciplina dell’illecito amministrativo. Nella teoria generale del reato, questo è ricavato dalla funzione rieducativa della pena garantita dal
secondo comma dell’art. 27 Cost., e da argomenti di ordine sistematico che investono la legge penale, non
esportabili ad altri settori dell’ordinamento.
Invece, per l’illecito amministrativo il principio trova
un isolato punto di emersione a livello delle fonti primarie, nell’art. 10 c. 3 L. n. 212 del 2000 (Statuto dei diritti
del contribuente), ove è disposto che le sanzioni non siano irrogate quando la violazione “si traduce in una mera
violazione formale, senza alcun debito di imposta”. La limitatissima applicazione di questo precetto alla materia
delle sanzioni tributarie (non ne conosco applicazioni
nella giurisprudenza di legittimità), e l’incerto radicamento nelle garanzie costituzionali attuate dalla L. n.
212 del 2000, non hanno sin qui consentito che concorresse alla definizione del sistema.
Se perciò l’illecito amministrativo può coprire
un’area di violazioni più ampia di quella presidiata dalla
sanzione penale, l’art. 19 d.lgs. n. 74 trova applicazione
nei ristretti ambiti in cui il legislatore può indifferentemente scegliere per la punizione di un reato o di un illecito amministrativo.
In concreto, esso presiede al coordinamento della risposta punitiva agli illeciti in materia di dichiarazione e
versamento delle principali imposte erariali, in quanto
astrattamente sanzionabili sul piano tanto penale – con
misure di tipo detentivo e con pene accessorie, secondo
la disciplina del d.lgs. n. 74 del 2000 – che amministrativo, con la sanzione pecuniaria e le sanzioni accessorie
previste dai dd.lgs. n. 471 e n. 472 del 1997. Mentre
non viene in gioco per le numerosissime fattispecie punite solo in sede amministrativa.
4. Ambito di applicazione
Già riferita al ristretto numero di illeciti appena indicati, la regola espressa dal primo comma dell’art. 19 d.lgs.
n. 74 del 2000 è soggetta a ulteriori limiti applicativi.
I limiti sono di due tipi, ed emergono in dipendenza
(a) di ragioni relative alla struttura della fattispecie del
concorso apparente, o (b) della disciplina di raccordo tra
procedimenti.
In primo luogo la regola della specialità è destinata a
operare solo per la persona fisica che sia l’autore materiale dell’illecito (principio di personalità), ma non per i
soggetti che, pur senza esserlo, siano parte di fattispecie
collaterali o anche autonome che li rendano responsabili
del pagamento della sanzione amministrativa.
DOTTRINA
L’art. 11 c. 1 d.lgs. n. 472/1997 prevede alcune ipotesi di responsabilità solidale (p. es. del soggetto rappresentato nel cui interesse l’illecito sia stato consumato) per
fatto altrui (autore materiale). Il secondo comma dell’art.
19 d.lgs. n. 74 del 2000 stabilisce poi che la responsabilità solidale del coobbligato persona fisica, che non sia anche concorrente nel reato, permane in ogni caso.
Inoltre, l’art. 11, c. 1 d.lgs. n. 472/1997 non è applicabile alle società dotate di personalità giuridica, che
perciò rispondono dell’imposta evasa e delle sanzioni.10
In questo caso un’identità del fatto punibile con sanzione amministrativa e penale non è ravvisabile, perché
l’autore dell’illecito e il debitore della sanzione non coincidono; di conseguenza l’art. 19 d.lgs. n. 74 del 2000
non si applica.
La disciplina del raccordo tra procedimenti introduce un secondo ordine di limitazioni all’applicabilità dell’art. 19 d.lgs. n. 74 del 2000.
Infatti, la regola della specialità è completata da una
disciplina incentrata sull’ineseguibilità della sanzione
amministrativa irrogata sino alla definizione del giudizio
penale, che in certi casi consente un cumulo di sanzioni
pure in dipendenza di illeciti in rapporto di specialità.
Per esempio, per l’art. 13 cc. 1 e 2 d.lgs. n. 74 del
2000 l’imputato può definire il giudizio con patteggiamento solo se ha definito il debito di imposta attraverso
speciali procedura conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle leggi tributarie. In questo caso, le
sanzioni amministrative sono dovute, pur nella misura
ridotta, anche se non applicabili anche se secondo il disposto dell’art. 19 c. 1 d.lgs. n. 74 del 2000.11
Si tratta, come dirò subito, di limiti applicativi che
non reggono alla prova della giurisprudenza europea sul
divieto di bis in idem sostanziale, ma su questo profilo,
con cui mi avvio alla conclusione, conviene procedere
con ordine, partendo dai principi, per poi passare al diritto positivo e alla sua possibile evoluzione.
6. Le conseguenze delle sentenze delle due Corti
europee
Nella giurisprudenza delle Corti europee l’art. 4 del
Protocollo n. 7 della Convenzione EDU impedisce l’applicazione di una sanzione penale e, con essa, anche di
una sanzione afflittiva, anche se qualificata come ammi10 Art. 7 D.L. n. 229/2003, conv. in L. n. 326/2003.
11 PIERRO, L’uso premiale delle sanzioni e la crisi del principio di
specialità, in corso di pubblicazione sulla Rivista Trimestrale di Diritto
Tributario.
51
52
DOTTRINA
nistrativa dall’ordinamento nazionale, a carico dello
stesso soggetto e per una condotta sostanzialmente identica (ne bis in idem sostanziale).
Dal punto di vista dei principi emerge una piena
concordanza con le regola espressa dall’art. 19 d.lgs. n.
74 del 2000, per il comune presupposto di una concezione unitaria del fenomeno sanzionatorio. Unitarietà
che, a fronte di illeciti distinti per la diversità delle funzioni che portano all’applicazione della sanzione, e in
parte anche degli interessi protetti dalle norme violate, si
apprezza sotto il profilo dello scopo perseguito, di prevenzione generale e speciale, proprio di reato e illecito
amministrativo.12
Il tutto si riflette sulla costruzione teorica della figura
dell’illecito, sulla linea già tracciata dai principi di personalità della responsabilità, di colpevolezza, e della finalità della sanzione, con conseguenze che non è questa la
sede per chiarire.
Sul piano del diritto positivo, il divieto del bis in
idem investe le eccezioni alla regola della specialità
espressa dall’art. 19 d.lgs. n. 74 del 2000. Non però
quelle che dipendono dalla struttura della fattispecie del
concorso apparente, perché vi si oppongono ragioni di
tipo logico forse insuperabili. Investe, invece, le eccezioni collegate alla disciplina di raccordo tra procedimenti
tributario e penale, in quanto dettate da una libera scelta
del legislatore incompatibile con il divieto.
Lo si potrà verificare promuovendo un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sul cumulo consentito dall’art. 13 c. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 tra la sanzione amministrativa ridotta in adesione e la pena definita mediante
patteggiamento, a cui la disposizione mi sembra (ma è
profezia sin troppo facile) naturale candidata.
Resta il problema del divieto di cumulo per le condotte punite da una norma penale e una norma amministrativa non avvinte da un nesso di specialità, che in attesa di un intervento ad hoc, che potrà trovare spazio anche nell’intervento di revisione programmato nella L. n.
23 del 2014, va gestito per via interpretativa.
Occorre prendere atto che nella giurisprudenza europea si esprime già una manifesta volontà normativa di
valutare in termini di unitarietà condotte materiali tra
loro omogenee. E che per conformarvisi non è sufficiente ampliare la portata del principio di specialità attraverso i normali criteri di interpretazione che toccano
la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inserimento
sistematico.
12 PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa, Milano 1988,
151 ss..
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
La spinta che ne viene si presta invece a essere governata in una logica di deroga e in prospettiva anche di graduale superamento del principio espresso dall’art. 19 cit..
Credo perciò che si possa giungere a risultati prossimi a una coerente applicazione del divieto di bis in idem
sostanziale riconoscendo maggiore spazio al c.d. principio di consunzione o di assorbimento, di modo che anche
dell’art. 19 d.lgs. n. 74 del 2000 (come già per l’art. 15
c.p. da cui deriva) si ammetta che lascia spazio a deroghe
del criterio di specialità in favore della norma che prevede l’illecito più grave.13
In forza di questo principio, se due norme perseguono scopi omogenei, lo scopo della norma che prevede l’illecito minore è assorbito da quello relativo ad un reato
più grave, il quale esaurisce (come si dice) l’intero disvalore del fatto e assorbe l’interesse tutelato dall’altro. In
queste condizioni, una duplicità di tutela e di sanzione si
rivela inammissibile in relazione al principio di proporzione tra illecito e punizione.
Applicato al rapporto tra illecito amministrativo e
reato, l’illecito più grave sarebbe da individuare nel secondo, in considerazione del rango primario attribuito
dalla Costituzione al bene della libertà, su cui la sanzione che lo caratterizza incide limitandola.
Con questi criteri si potrebbe sottoporre a verifica la
giurisprudenza della Corte di Cassazione sul rapporto
tra gli illeciti amministrativi e i corrispondenti delitti
previsti per le omissioni di versamento di ritenute certificate e di iva, e valutare la possibilità di giungere a risultati diversi da quelli consacrati nelle sentenze che ne
hanno ammesso il cumulo in quanto legate da un vincolo non di specialità, ma di progressione.14
Sarebbe un primo passo sulla via del rispetto dei diritti del contribuente, che le Corti europee ci additano
con tanta chiarezza nelle loro sentenze.
13 Corte Cass. SS. UU. pen., n. 23427/2001; Corte Cass. pen
SS. UU.., n. 22902/2001. In alternativa si potrebbe ricorrere alla
perimetrazione del concetto di “stesso fatto giudicato” contenuto nell’art. 669 c.p.p., a opera del supremo Collegio che lo intende come
“idem factum” e non come “idem legale”: Corte Cass. Sez. II pen., n.
18376/2013, con richiamo, tra le altre, a Corte Cass. pen. SS. UU.
n. 34655/2005. Ma questo nell’ottica di superamento del criterio di
specialità.
14 Corte Cass. SS. UU. pen., nn. 37424 e 37425/2013.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
DOTTRINA
Crisi aziendale e reati di omesso versamento di tributi,
tra contrasti giurisprudenziali ed esigenze di riforma*
di Paolo Aldrovandi
1. L’inserimento nel d.lgs. 10.3.2000 n. 74 degli
artt. 10-bis e 10-ter
Com’è noto, il legislatore del 2000, nelle rimodellare
ab imis il sistema dei reati tributari, aveva consapevolmente scelto di escludere dalla sfera della rilevanza penale
l’omesso versamento delle ritenute d’acconto, e quindi
l’unica ipotesi di fattispecie sostanzialmente incentrata
sull’omesso versamento di tributi contemplata dalla l.
516/82: scelta che appariva del tutto coerente all’impianto complessivo del nuovo apparato sanzionatorio, che trova il proprio nucleo caratterizzante nelle fattispecie in materia di dichiarazione, incentrate – come si legge nella Relazione governativa di accompagnamento al d.lgs.
74/2000 – sulla “violazione dell’obbligo di veritiera ostensione della situazione reddituale e delle basi imponibili”;
in tale prospettiva, il legislatore non aveva ritenuto di potere assegnare alcuna rilevanza all’omesso versamento delle ritenute d’acconto, trattandosi di condotta che non si
connotava per un sufficiente coefficiente di insidiosità.
Già con la l. 30.12.2004, n. 311 (“Finanziaria 2005”)
– e, quindi a soli quattro anni dalla riforma operata con
il d.lgs. 74/2000 –, con l’introduzione dell’art. 10-bis, in
materia di omesso versamento di ritenute certificate, si
opera però un ripensamento delle scelte iniziali: ripensamento che appare il frutto di scelte meramente contingenti, dettate da esigenze “di cassa”, in assenza di una più
ampia strategia politico-criminale in materia di contrasto all’evasione fiscale, come emerge chiaramente dalla
stessa Relazione accompagnatoria alla “Finanziaria
2005”, nella quale è dato leggere che “la constatata frequenza del fenomeno ed il danno che da tali comportamenti deriva all’erario rendono necessario assicurare tutela penale all’interesse protetto della corretta e puntuale
percezione dei tributi, ancor di più quando il comportamento dell’omesso versamento è posto in essere da soggetti quali i sostituti d’imposta che trattengono per riversare all’erario tributi di altri soggetti che con essi hanno rapporti: i sostituiti”.
* Il presente scritto riproduce parti di un più ampio lavoro che
verrà pubblicato nella rivista L’indice penale.
Il percorso iniziato con la Finanziaria del 2005 è successivamente proseguito con l’introduzione, ad opera
del d.l. 4.7.2006, n. 233, convertito nella l. 4.8.2006, n.
248, dell’art. 10-ter, in materia di omesso versamento di
IVA, che, con discutibile tecnica redazionale, ricalca la
struttura dell’art. 10-bis, al quale rinvia per la delineazione di gran parte del contenuto della fattispecie.
In entrambi i delitti, ad essere sanzionata è la mera
omissione del versamento di tributi.
Il dato appare particolarmente evidente per il reato di
omesso versamento dell’IVA, che si limita a punire il soggetto che non versi “l’imposta sul valore aggiunto, dovuta
in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il
versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta
successivo” e, cioè, attualmente, entro il 27 dicembre
successivo alla presentazione della dichiarazione relativa
all’anno a cui si riferisce l’imposta non versata.
È infatti evidente che, nel caso di specie, il legislatore
si è limitato ad assoggettare a sanzione l’omesso versamento delle somme dovute in base alla stessa dichiarazione presentata dal contribuente: in altri termini, si è introdotta una sanzione penale per la mera violazione degli
obblighi fiscali di versamento, con la precisazione che tale sanzione presuppone (per effetto del rinvio operato
dall’art. 10-ter al disposto dell’art. 10-bis) il superamento
della soglia di punibilità di euro 50.000,00, e che il momento di consumazione coincide, non con la scadenza fiscale (a seconda dei casi, mensile o trimestrale) nella quale sia integrato l’omesso versamento della somma in parola, sibbene con un termine autonomamente individuato dalla disciplina penale, attraverso il richiamo della disciplina in materia di versamento dell’acconto IVA.
La medesima conclusione si impone per il reato di
omesso versamento di ritenute, anche se, ad una prima
lettura, sembrerebbe di trovarsi in presenza di una fattispecie maggiormente articolata, connotata anche da una
nota di fraudolenza, laddove richiede che le ritenute non
versate risultino dalla “certificazione rilasciata ai sostituiti”. L’impressione svanisce però rapidamente, non appena si ponga mente al funzionamento del meccanismo
della sostituzione d’imposta: la certificazione è diretta
non al Fisco (soggetto passivo del reato), bensì al sostituito, al fine di mettere lo stesso nelle condizioni di por-
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DOTTRINA
tare in detrazione le imposte già trattenute ab origine,
come prescritto dalla disciplina normativa, dal sostituto.
Il rilascio della certificazione non vale quindi ad integrare alcun artificio ingannatorio: rappresenta semplicemente adempimento di un dovere del sostituto, volto ad
evitare il rischio che il sostituito si trovi a subire una duplicazione in sede di versamento di tributi.
In entrambi i delitti, quindi, ad essere sanzionato è il
mero inadempimento di un’obbligazione pecuniaria –
pur se a favore del Fisco –, ciò che costituisce una marcata eccezione ai principi generali, ove si consideri che nel
nostro ordinamento la lesione di interessi patrimoniali a
seguito di inadempimento di un’obbligazione non viene
mai sottoposto a sanzione, ove non si accompagni a
comportamenti fraudolenti, che apportino un significativo contenuto di disvalore d’azione alle fattispecie.
Tale situazione non trova peraltro alcun correttivo
neppure sul piano del coefficiente soggettivo: le nuove fattispecie si differenziano, infatti, rispetto al nucleo originario dei reati contemplati dal d.lgs. 74/2000 anche sotto
tale profilo, giacché non richiedono che le condotte tipiche siano sostenute dal fine di evadere le imposte; fine che
vale a connotare i reati che lo prevedono come a dolo specifico o intenzionale, escludendo, quindi, la rilevanza del
mero dolo eventuale. Nessun dubbio, quindi, che i delitti
in materia di omesso versamento di tributi siano reati a
dolo generico, nei quali tale coefficiente può declinarsi in
tutte le forme possibili, e, quindi, anche quale dolo eventuale, allorché il soggetto attivo tenga la condotta tipica
semplicemente rappresentandosi la possibilità ed accettando il rischio dell’omesso versamento dei tributi.
2. Reati di omesso versamento dei tributi e crisi
aziendale nelle applicazioni giurisprudenziali, tra
rigore della Suprema Corte e ricerca di “giustizia
sostanziale” del Giudice di merito
Il quadro normativo sopra delineato non poteva
mancare di creare problemi in sede applicativa.
La struttura delle nuove fattispecie, incentrate, come
sopra rilevato, sul mero inadempimento dell’obbligazione di versamento di tributi, assegna infatti alle stesse una
amplissima sfera applicativa, tale da permettere di sanzionare anche condotte prive di un significativo disvalore, determinando comprensibili “resistenze applicative”,
in particolare da parte della giurisprudenza di merito:
ciò soprattutto allorché il contribuente sia un’impresa
che versi in situazione di “crisi di liquidità”, per far fronte alla quale si sia omesso di provvedere la versamento di
IVA o di ritenute d’acconto.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Si è così venuto sviluppando, nell’ambito della giurisprudenza di merito, un “diritto pretorio” volto, in sostanza, a perseguire quella che – sulla base della percezione sociale, della quale si fa interprete lo stesso giudicante
– appare essere la “giustizia del caso concreto”.
Le pronunzie in parola, per raggiungere tale obiettivo, utilizzano strumenti dogmatici differenti, tutti peraltro sostanzialmente riconducibili all’alveo della carenza di colpevolezza: la varietà degli strumenti impiegati è
peraltro già di per sé un indice della tensione che presentano le “soluzioni” offerte dai giudicanti rispetto alle
previsioni normative, di talché si ha la forte impressione
che il giudice arrivi alla conclusione assolutoria sul piano
dell’equità, trovando poi difficoltà nel momento in cui
si tratta di offrire una motivazione che appaia coerente
alle indicazioni normative.
Tra le pronunzie più recenti, si può considerare paradigmatica dell’orientamento giurisprudenziale in esame
Trib. Padova, 7.1.2014 (dep. 11.1.2014), concernente
un fattispecie di omesso versamento di ritenute, riconducibile, come si legge in motivazione, ad “una grave situazione di illiquidità della società”; situazione alla quale i
soci avevano cercato di far fronte attraverso prestiti personali, che, però, non erano stati sufficienti, sicché “al fine di mantenere in essere l’attività produttiva,” erano stati pagati “i creditori «più impellenti», tralasciando le poste erariali con l’intesa di farvi fronte in un secondo momento, seppur con l’addebito di penali ed interessi”, così
come, del resto, stava ancora avvenendo al momento della pronuncia della sentenza, sulla base di “una rateizzazione concordata con l’Amministrazione Finanziaria”.
Alla luce di tale situazione, il Giudice perviene a una
pronunzia di assoluzione, sulla base del seguente sviluppo argomentativo:
– “la società nell’anno in esame ed anche in tempi anteriori pativa per l’incaglio di rilevanti crediti in relazione alla totalità degli affari, avendo così costantemente un saldo negativo dei conti correnti, addebito
con Istituti di Credito ed utilizzo al limite dei fidi”;
– avendo “la società i propri conti «in rosso», il suo
amministratore si” era “trovato di fronte alla scelta di
ridurre il personale e l’attività, fatto questo sicuramente di difficile esecuzione, oppure postergare agli
anni successivi, mediante idonea rateizzazione, il debito erariale”;
– avendo optato per la seconda soluzione si doveva ritenere che “la condotta non” fosse “stata posta in essere volutamente, ma frutto solo di una contingenza
temporale”;
– a sostegno della propria decisione, il Giudice concludeva osservando che, nel “panorama giurisprudenziale”,
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
si stavano moltiplicando “sentenze di assoluzione per
carenza di dolo, con ormai svariate pronunce da parte
della giurisprudenza di merito sempre in tal senso”,
fondate sul fatto che “il processo penale, a differenza di
quello tributario, impone di valutare e di provare la volontarietà dell’omissione”, che nel caso di specie non
si poteva “ritenere sussistente, al di là di ogni ragionevole dubbio, a causa della crisi finanziaria in cui si”
era “venuto a trovare l’amministratore” della società.
Come rileva lo stesso giudicante nei passi sopra riportati, la sentenza si inserisce in effetti in un ormai consistente filone giurisprudenziale, che, in sostanza, esclude la responsabilità del contribuente nel caso in cui l’inadempimento agli obblighi di versamento dipenda una
situazione di crisi d’impresa che “non sia imputabile” allo stesso e che “non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad
idonee misure da valutarsi in concreto”1.
Di segno opposto l’orientamento largamente prevalente – ma non senza eccezioni – della giurisprudenza di
legittimità, fatto proprio, in due sentenze “gemelle, anche
dalle Sezioni Unite (Cass. pen., sez. unite, 28.3.2013, n.
37424, e n. 37425, concernenti, rispettivamente il delitto
di omesso versamento di IVA e quello di omesso versamento di ritenute certificate), che fondano la propria conclusione sulle seguenti argomentazioni:
– i reati in parola sono puniti “a titolo di dolo generico”. Per la commissione dei reati di cui agli artt. 10bis e 10-ter basta quindi, rispettivamente, la coscienza e volontà di “non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato” e l’IVA riscossa: coscienza e volontà – si precisa nelle sentenze in esame
– che “deve investire anche al soglia di Euro cinquantamila, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore”;
– “la prova del dolo è insita”: a) per il reato di cui all’art.
10-bis, “nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (Mod. 770), che riporta le trattenute effettuate, la loro data ed ammontare, nonché i versamenti relativi. Il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute è collegato
con quello alla erogazione degli emolumenti ai collaboratori. Ogni qualvolta il sostituto effettua tali erogazioni, insorge quindi a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando
le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria”; b) per il delitto di cui al-
1 Così Trib. Roma, 12.6.2013 (dep. 10.7.2013).
DOTTRINA
l’art. 10-ter, “nella presentazione della dichiarazione
annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo
d’imposta, e che deve, quindi, essere saldato, o almeno contenuto non oltre la soglia di Euro cinquantamila, entro il termine lungo previsto. Ogniqualvolta il
soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote
già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario,
organizzando le risorse disponibili in modo da poter
adempiere all’obbligazione tributaria”.
In relazione ad entrambi i delitti in esame – sostiene
la Corte di Cassazione – “l’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine
per la propria applicazione, estende evidentemente la
detta esigenza di organizzazione su scala annuale. Non
può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento
della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri
che la stessa non dipenda dalla scelta (….) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta”.
Tale conclusione, espressa dalla Suprema Corte nel
consesso più autorevole, esprime il pensiero largamente
dominante della giurisprudenza di legittimità2, anche se
non si può omettere di rilevare che, in tempi recentissi2 Cfr. Cass. pen., sez. III, 8.1.2014, n. 15416; Cass. pen., sez.
III, 25.2.2014, n. 14953; Cass. pen., sez. III, 6.11.2013, n. 2614;
Cass. pen., sez. III, 1.12.2012, n. 10120; Cass. pen., sez. III,
5.12.2013, n. 5467; Cass. pen., sez. III, 27.11.2013, n. 3124; Cass.
pen., sez. III, 9.10.2013, n. 5905. Nella giurisprudenza di merito, in
senso analogo, cfr. Trib. La Spezia, 17.4.2014, n. 436, in De Iure.
Occorre peraltro precisare che anche tale rigoroso orientamento non
esclude in assoluto la possibilità per il contribuente di dimostrare la
carenza del dolo: tale dimostrazione, però, appare subordinata a
condizioni tali da rendere sostanzialmente impossibile l’assolvimento dell’onere probatorio incombente al contribuente. Esemplificativa appare Cass. pen., sez. III, 8.4.2014, n. 20266, la quale in motivazione, dopo avere riconosciuto la possibilità che sussistano casi nei
quali può “invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di
adempiere l’obbligazione tributaria”, precisa che gli “oneri di allegazione” che il contribuente dovrà assolvere attengono alla “lamentata
crisi di liquidità” e “dovranno investire non solo l’aspetto della non
imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica
che ha investito l’azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale
crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da
parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto”.
Alla prova dei fatti, però – precisa la sentenza in parola – “gli spazi
per ritenere l’assenza dell’elemento soggettivo o la sussistenza della
scriminate della forza maggiore quale conseguenza di una improvvisa e imprevista situazione di illiquidità appaiono, all’evidenza, oggettivamente ristretti”, non valendo, in particolare, ad assumere rilevanza esimente “l’aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare dei licenziamenti”, o “l’aver
dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società”, e
così neppure “la mancata riscossione di crediti vantati e documentati”, anche se “nei confronti dello Stato.
55
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DOTTRINA
mi, non sono mancate alcune pronunzie di legittimità
che sembrerebbero offrire conforto al sopra esposto filone della giurisprudenza di merito incline a riconoscere la
rilevanza esimente della crisi d’impresa3.
3. La necessità di un intervento di riforma
Evidente l’incertezza che oggi caratterizza i “rapporti”
tra crisi d’impresa e reati di omesso versamento di tributi.
Ad un orientamento della giurisprudenza di merito
che tenta di trovare vie per escludere la responsabilità penale del contribuente che ometta versamenti di tributi per
far fonte ad una situazione di crisi di liquidità, si contrappone un rigoroso orientamento, del tutto prevalente nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, che esclude
qualsiasi rilevanza esimente di tale situazione di crisi.
Verosimilmente, in una prospettiva dogmatica,
l’orientamento della Suprema Corte appare preferibile,
in quanto maggiormente rispettoso dei “principi generali” che caratterizzano il settore penale.
Premesso che si è in presenza di fattispecie il cui disvalore si incentra sul momento omissivo del mancato
versamento dei tributi nel termine penalmente rilevante, che non coincide con i termini fiscali, sembra evidente che, allorché si tratti di accertare la sussistenza di una
situazione di forza maggiore, così come nel momento in
cui si debba verificare la presenza del necessario coefficiente soggettivo doloso, si dovrà fare riferimento al momento in cui il soggetto ha determinato la situazione che
ha reso impossibile l’adempimento dell’obbligo, secondo lo schema dell’actio libera in causa 4.
Con riferimento ai reati di omesso versamento, ciò
comporta che il momento rispetto al quale operare la verifica circa la ricorrenza di una situazione di forza maggiore e del necessario coefficiente soggettivo doloso
coinciderà con la scadenza del termine tributario.
Se è vero, infatti, che il contribuente che ometta di effettuare il versamento del tributo (si tratti di ritenute
d’acconto o di IVA) nel termine tributario realizza
un’omissione solo nella prospettiva fiscale, va però tenuto
presente che tale condotta assume una rilevanza centrale
al fine del prodursi dell’omissione penalmente rilevante,
allo scadere dei termini contemplati dagli artt. 10-bis e
Cfr. Cass. pen., sez. III, 6.2.2014, n. 9264; Cass. pen., sez. III,
6.2.2014, n. 15176; Cass. pen., sez. III, 6.3.2014, n. 20777. Si tratta di sentenze che confermano le pronunzie assolutorie di merito,
escludendo, in sostanza, il dolo, per “inesigibilità” di una diversa
condotta.
4 Cfr. A. CADOPPI, Il reato omissivo proprio, II, Padova, 1988, p.
817, che parla di “omissio libera in causa”
3
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
10-ter, giacché è solo alla scadenza del termine fiscale
che, in considerazione della peculiare struttura dei debiti
tributari che vengono in considerazione, è assicurata la
disponibilità delle risorse per far fronte agli stessi5. Non
rispettare la scadenza fiscale significa, quindi, porre in essere una condotta “centrale” nella prospettiva del successivo (eventuale) inadempimento penalmente rilevante:
per tale ragione, non può che guardarsi al termine tributario per verificare la sussistenza del coefficiente soggettivo richiesto per l’integrazione dei reati in parola.
Orbene, una volta che si convenga circa la necessità di
prendere in considerazione la condotta omissiva del contribuente al momento della scadenza del termine fiscale,
pare innanzitutto impossibile sostenere che essa sia stata
determina da “forza maggiore”, cioè da una forza tale per
cui l’uomo non agit sed agitur: nel caso di omessi versamenti di tributi, al contrario, non manca mai la possibilità materiale di effettuare il versamento: in linea generale
(e fatte salve situazioni eccezionali), il contribuente, pur
se in situazione di crisi di liquidità, che renda allo stesso
impossibile far fronte a tutti i propri debiti, opera comunque una scelta, e, quindi… agit; ciò è quanto basta
per escludere gli estremi della forza maggiore.
La conclusione appare invece meno radicale sotto il
profilo del coefficiente soggettivo doloso: è infatti possibile che il contribuente non rispetti i termini fiscali al fine di
utilizzare i tributi per fronteggiare una crisi temporanea di
liquidità, con l’intento di adempiere comunque ai propri
obblighi tributari – quanto meno in misura tale da ridurre
l’inadempimento al di sotto della soglia di euro cinquantamila – nel termine penalmente rilevante: una tale situazione varrebbe indubbiamente ad escludere il dolo.
Ove si faccia coerente applicazione delle categorie
dogmatiche usualmente utilizzate in materia di dolo, tale possibilità, però, appare più teorica che reale.
Com’è noto, il problema è dato dal fatto che, con riferimento ai reati di omesso versamento, il legislatore
non ha ritenuto di seguire, quanto al profilo relativo al
coefficiente soggettivo, l’impostazione originaria del
d.lgs. 74/2000, nel quale, come già sopra rilevato, tutti i
reati, prima delle riforme che hanno introdotto gli artt.
10-bis, 10-ter e 10-quater, erano configurati come a dolo
specifico/intenzionale.
5 Con riferimento alle ritenute d’acconto, si tratta, infatti, di
somme “trattenute” dai compensi corrisposti a terzi, di talché, il
contribuente, può sempre tenere conto della somma da versare come ritenuta nel momento in cui effettua i pagamenti ai terzi; per
l’Iva, il contribuente riceve dai terzi, a titolo di rivalsa, la somma da
versare. È quindi l’inadempimento nel termine fiscalmente rilevante
che pone la premessa fondamentale per l’inadempimento nel termine penalmente rilevante.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Ciò comporta che i reati di omesso versamento possono essere sostenuti anche dal mero dolo eventuale, e,
quindi, dalla mera accettazione del rischio di omesso
versamento della somma di euro cinquantamila alla scadenza del termine penalmente rilevante: nella generalità
delle ipotesi apparirà difficile sostenere che la condotta
del contribuente, che versi in una situazione di crisi di liquidità, e che alla scadenza del termine fiscale scelga di
omettere il versamento, non sia assistita quanto meno da
un dolo eventuale: sarà cioè difficile potere ritenere che
il contribuente abbia agito nella ragionevole convinzione – che, evidentemente, sul piano processuale dovrà
trovare conforto in dati oggettivi – della transitorietà
della situazione di difetto di liquidità. La conclusione
potrà essere diversa allorché nel periodo intercorrente
tra l’inadempimento fiscale e la scadenza del termine penalmente rilevante siano intervenuti fattori eccezionali,
che abbiano aggravato la situazione di crisi e che l’agente
non aveva previsto.
Le conclusioni cui si è pervenuti non possono mancare di destare preoccupazione.
Come si è rilevato, l’introduzione delle fattispecie in
materia di omesso versamento di tributi si è tradotta nel
ritorno dell’arcaico “carcere per debiti”: ricadono, infatti, nello spettro applicativo di tali fattispecie condotte di
mero inadempimento, che, pur se relative a debiti fiscali, appare difficile considerare, secondo la percezione
della generalità dei consociati, meritevoli di una sanzione criminale, soprattutto in un periodo, come l’attuale,
di pesante crisi economica, e con riferimento a condotte
di soggetti che omettano di provvedere al pagamento dei
debiti tributari per tentare di assicurare soddisfacimento
ad interessi che lo stesso ordinamento sembra valutare
come prioritari, e talora prevalenti rispetto a quelli fiscali
(si pensi all’interesse alla percezione delle retribuzioni da
parte dei lavoratori, che gode di un grado di privilegio
anteriore rispetto a quello riconosciuto ai tributi erariaiali: v. artt. 2777 e 2778 c.c.).
Si aggiunga che le fattispecie in esame rischiano di
produrre conseguenze del tutto incongrue anche sotto il
profilo della individuazione dei soggetti sui quali finisce
per gravare il peso dell’onere tributario.
Laddove a venire in considerazione siano obblighi tributari relativi al rapporto fiscale di una persona giuridica,
la disciplina penale, alla prova dei fatti, può comportare
la traslazione dell’onere economico corrispondente al debito tributario sull’amministratore, chiamato a rispondere dei reati in materia di omesso versamento, e ciò per effetto dell’operatività del meccanismo della confisca per
equivalente del profitto del reato, esteso ai reati tributari
dall’art. 1, comma 143, della l. 24.12.2007, n. 296: è in-
DOTTRINA
fatti del tutto pacifico che oggetto di tale misura siano i
beni nella disponibilità del reo, senza che occorra che lo
stesso abbia tratto personalmente profitto dal reato.
Ben si comprende, quindi, il sostanziale spaesamento
della giurisprudenza, che, abdicando alla coerenza dogmatica, si divide tra ricerca di soluzioni “ragionevoli”,
che, anche forzando i principi generali (in particolare, in
materia di elemento soggettivo), permettano in concreto
di salvaguardare dalla sanzione penale il contribuente
che, sulla base di un senso di giustizia sostanziale di cui
lo stesso giudice si fa interprete, non appaia rimproverabile, e pronunzie che, per converso, si limitano a ribadire
la priorità dell’interesse erariale alla percezione dei tributi, pervenendo, come si è visto, ad incentrare il disvalore
dei reati in esame sulla violazione di un “dovere di accantonamento”, in realtà del tutto estraneo alle fattispecie
incriminatrici.
Occorre, quindi, interrogarsi su quali siano le strade
che sia possibile percorrere per uscire da tale situazione.
Verosimilmente, la via maestra da seguire – eventualmente in sede di attuazione della delega legislativa di cui
all’art. 8 l. 11.3.2014, n. 23, in materia di “delega al governo recante disposizioni per un sistema fiscale più
equo, trasparente e orientato alla crescita”6 - è rappresentata semplicemente dall’abrogazione delle nuove figure
di reato in materia di omessi versamenti, che, come sopra rilevato, rappresentano una deviazione sia rispetto ai
principi ispiratori del d.lgs. 74/2000, sia rispetto ai principi generali che caratterizzano l’ambito penale, nel quale il semplice inadempimento di un’obbligazione non
vale ad integrare un illecito penale.
Ove peraltro il legislatore non intenda percorrere la
via dell’abrogazione, l’obiettivo “minimale” da perseguire sarà quello del riconoscimento di una efficacia, in
qualche modo, “esimente” alla carenza di liquidità: effi6 L’estrema genericità dell’art. 8, relativo alla “revisione del sistema sanzionatorio” (la cui laconicità è tale, peraltro, da fare dubitare
della legittimità costituzionale della delega legislativa), sembra autorizzare il legislatore ad una depenalizzazione delle fattispecie in questa sede in esame, attesa l’indicazione di “ridurre le sanzioni per le
fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità”. Se è vero
che l’indicazione relativa alla depenalizzazione sembra diretta essenzialmente alla valorizzazione della tecnica delle soglie di punibilità,
sembra possibile ritenere che la formulazione lasci spazio anche per
una lettura più ampia, che permetta l’impiego della sanzione amministrativa per tutte le “fattispecie meno gravi”, e quindi anche, ma
non solo, per quelle in cui risulti esiguo il danno all’interesse alla percezione dei tributi. E del resto, il tenore complessivo della delega in
materia di sistema sanzionatorio rivela la volontà del legislatore di
un recupero di centralità (coerente con l’originario spirito del d.lgs.
74/2000) dei comportamenti frodatori, dai quali devono ovviamente escludersi le mere omissioni di versamento.
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DOTTRINA
cacia, che, però, deve necessariamente passare per la ricerca di una via “dogmatica”, che permetta di superare
l’attuale frammentarietà e disorganicità del quadro giurisprudenziale, foriera di incertezza, chiaramente incompatibile con le istanze sottese al principio di legalità.
Orbene, in tale prospettiva, sembra che l’alternativa
che si pone sia fra un intervento del legislatore, che incida
sul disposto delle fattispecie incriminatrici, introducendo
nelle stesse la previsione di un dolo intenzionale di evasione, e una valorizzazione del ruolo, sostanzialmente creativo, seppur in bonam partem, della giurisprudenza, attraverso la valorizzazione della categoria della “inesigibilità”7:
categoria che, mentre è sempre rimasta confinata nel limbo dell’elaborazione teorica, con valenza tutt’al più classificatoria di situazioni normativamente tipizzate, sembra
ora rappresentare la vera ratio – seppur perlopiù inconfessata - delle sentenze che assegnano valenza esimente alla
situazione di crisi aziendale, e che, invero si è già affacciata
nelle pronunzie della giurisprudenza di legittimità più
sensibile alle esigenze di “giustizia sostanziale”8.
Chi scrive ritiene che la corretta strada da seguire non
possa essere che la prima: ad una accentuazione del ruolo,
7 Con la quale si fa riferimento all’“impossibilità di pretendere, in
presenza delle circostanze concrete in cui l’agente si è trovato ad operare, un comportamento diverso da quello tenuto”: così G. FIANDACA, E.
MUSCO, Diritto penale. Parte generale, VI ed., Bologna, 2010, p. 408.
8 V. retro, nt. 3.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
si potrebbe dire, “autonomamente creativo” del giudice,
attraverso il recupero e la valorizzazione (in chiave non
più meramente classificatoria), da parte della stessa giurisprudenza, del concetto di “inesigibilità”, sembra infatti
preferibile un intervento legislativo, che, anche rispetto
alla tematica degli omessi versamenti in presenza di crisi
di liquidità, operi le fondamentali scelte di politica criminale, delimitando l’apporto creativo del giudice, senza
per questo irrigidire eccessivamente le previsioni normative, ciò che renderebbe impossibile l’adattamento, nel
rispetto del principio di legalità, delle previsioni incriminatrici alle molteplici sfaccettature della vita reale.
La previsione del dolo intenzionale varrebbe infatti a
legittimare le aperture della giurisprudenza di merito (e,
invero, di alcune recenti sentenze di legittimità) alla rilevanza esimente della crisi d’impresa, attribuendo coerente veste dogmatica all’esclusione della responsabilità
del soggetto che, alle scadenze fiscalmente rilevanti, abbia omesso di provvedere ai versamenti, senza avere come scopo quello di sottrarsi definitivamente (e, quindi
anche alla scadenza penalmente rilevante) al pagamento
del debito tributario.
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Inconvenienti dell’attuale disciplina
della dichiarazione infedele
di Mario Garavoglia
Il delitto di dichiarazione infedele, punito dall’art. 4
d.lg. 74/2000, si colloca nel sistema penale tributario introdotto con la riforma del 2000 quale norma incriminatrice residuale rispetto alle fattispecie “qualificate” di
cui agli artt. 2 e 3. Queste ultime, in linea con le principali finalità della legge delega, puniscono dichiarazioni
connotate da rilevanti elementi di fraudolenza (utilizzo
di fatture per operazioni inesistenti, false rappresentazioni contabili tali da ostacolare l’accertamento), mentre
la prima è posta “a chiusura” delle previsioni di reato in
materia di dichiarazioni, quale baluardo penale a fronte
di infedeltà dichiarative prive di tali elementi, ma anch’esse “connotate da rilevante offensività per gli interessi
dell’Erario e dal fine di evasione”1, riferibili a tutta la platea di contribuenti.
La descrizione della condotta incriminata, preceduta
dalla clausola di riserva (“fuori dai casi previsti dagli articoli 2 e 3”), risponde al duplice scopo di ricomprendervi, da un lato, non solo i redditi d’impresa e quelli di lavoro autonomo, ma, indistintamente, tutte le altre categorie di reddito, ben potendo un’infedeltà rilevante riguardare anche quelli di capitale, di lavoro dipendente,
fondiari e i c.d. redditi diversi di cui all’art. 67 TUIR,
non esclusi i compensi in natura; dall’altro lato, le evasioni di imposta commesse dai soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, non connotate dagli “speciali coefficienti di insidiosità”2 indicati negli artt. 2 e 3.
Finalità condivisibili, ancorché l’esistenza nel sistema di
una simile fattispecie di reato, sconosciuta nell’ordinamento di altri Paesi europei, comporti, in astratto, il rischio di incriminare condotte illecite di modesta gravità, forse non meritevoli di sanzione penale. Rischio
fronteggiato dal legislatore del 2000 con l’individuazione di una condotta tipica caratterizzata da una duplice
infedeltà: la prima investe il momento dichiarativo in
quanto l’autore del reato deve aver indicato nella dichiarazione annuale “elementi attivi per un ammontare
inferiore a quello effettivo” o “elementi passivi fittizi”. La
seconda riguarda il versamento dell’imposta, dal mo-
1 Così l’art. 9, co. 2° lett. a) L. 205/1999
2 Così la relazione Governativa al d.lg. 74/2000
mento che l’omissione deve aver superato entrambe le
soglie quantitative specificamente previste. Non è cioè
sufficiente l’inveritiera esposizione delle componenti
che concorrono alla determinazione del reddito o alla
formazione della base imponibile se l’ammontare dell’imposta evasa non supera le predette soglie e, per converso, è irrilevante l’omesso versamento dell’imposta3
in assenza delle infedeltà dichiarative.
Si è pertanto dato vita ad una fattispecie di reato a
consumazione istantanea, realizzabile da tutti i contribuenti tenuti alla presentazione della dichiarazione annuale (non rilevano altri tipi di dichiarazione) che vi
provvedano, mossi da finalità di evasione fiscale, nascondendo materia imponibile e al tempo stesso omettendo di versare importi “economicamente significativi”4.
Una figura di delitto che inevitabilmente assume un
ruolo centrale nella legislazione penal-tributaria e che, in
teoria, non avrebbe dovuto provocare incertezze applicative. Così non è stato, anzi è proprio l’ipotesi della “dichiarazione infedele” ad aver generato ad oggi, come si
vedrà, le maggiori ed irrisolte difficoltà interpretative.
Un primo rilievo critico può essere mosso con riguardo
all’entità delle soglie di cui alle lettere a) e b), fissate in
origine, la prima, in lire 200 milioni, poi convertiti senza arrotondamenti in euro 103.291,38, ed attualmente
(dal 17 settembre 2011, ex d.l. 138/2011) ridotti a euro
50.000; la seconda – quella “assoluta” riguardante l’ammontare degli elementi sottratti all’imposizione – in lire
4 miliardi, anch’essa convertita nel corrispondente valore in euro ed ora “arrotondata” per difetto a euro 2 milioni. Se all’epoca dell’entrata in vigore della legge non
mancava chi – non senza ragione – aveva rilevato l’esiguità di queste soglie, soprattutto rispetto ai grandi contribuenti, oggi il loro ridimensionamento suscita ancor
più fondate perplessità se raffrontato con i principi dell’offesa “rilevante” e della “significatività” economica voluti dal legislatore delegante.
3 Per quanto riguarda l’IVA, tuttavia, l’omesso versamento, oltre
euro 50.000, dell’imposta risultante dalla dichiarazione, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta
successivo, è punito ai sensi dell’art. 10 ter.
4 Così l’art. 9, cit. della legge delega, al comma 2 lett. b).
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DOTTRINA
Occorre purtroppo, ancora una volta, prendere atto
dell’incapacità del nostro legislatore di dar vita, ad onta
delle migliori intenzioni, a norme penal-tributarie adeguate a sanzionare, come il diritto penale richiede, solo
le condotte più gravemente lesive dell’interesse collettivo (la corretta percezione delle imposte sui redditi e sul
valore aggiunto) che è doveroso tutelare, prevedendo pene proporzionate alla gravità del danno arrecato alle finanze dello Stato e capaci di produrre un concreto effetto deterrente.
Pare che nemmeno l’esperienza negativa che aveva
portato all’abrogazione del d.l. 429/82, convertito nella
legge 516, nota con l’appellativo “manette agli evasori”
(rimaste virtuali), sia stata sufficiente a sradicare l’atavico
vizio di cedere a pulsioni “panpenalistiche”, allargando
l’ambito di applicazione della norma penale, salvo mantenere l’entità delle pene a livelli modesti e, dunque, poco
dissuasivi. Come sempre, gli effetti di una simile miope
politica legislativa finiscono per non rispondere agli scopi: se alle conseguenze della diminuzione della soglia di
punibilità si aggiungono quelle dei limiti al patteggiamento (nuovo comma 2 bis dell’art. 13) e del ridimensionamento della portata della circostanza attenuante consistente nel pagamento del debito tributario (modifica all’art. 13 co. 1°), è facile prevedere nei prossimi anni un significativo aumento dei procedimenti penali aventi ad
oggetto le evasioni d’imposta minori, destinati con molta
più frequenza rispetto al passato a percorrere i lenti binari
del rito ordinario, sino ad arenarsi nelle secche dei tribunali e delle corti d’appello, cronicamente intasati dalle innumerevoli pendenze che li affliggono. Se, per altro verso, si considera che la pena edittale minima (un anno di
reclusione) è, nei casi di minore gravità, accompagnati
dal pagamento del debito tributario, riducibile a otto
mesi per effetto delle circostanze attenuanti generiche,
quindi a sei o poco meno ex art. 444 c.p.p. e quindi suscettibile di conversione nella multa (senza nemmeno ricorrere all’attenuante speciale dell’art. 13, inutilizzabile
ai fini della sostituzione della pena, ex art. 13 co. 3°), paiono evidenti le ragioni di una multipla inadeguatezza
dell’attuale previsione di “dichiarazione infedele”. E, sia
detto qui per inciso, appaiono allo stesso modo per nulla
condivisibili gli interventi di modifica apportati al d.lg.
74/2000 con la c.d. manovra finanziaria dell’estate 2011
(d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in l. 14 settembre
2011, n. 148), mediante i quali, oltre alla riduzione delle
soglie di punibilità, sono state introdotte deroghe agli
istituti del patteggiamento, della sospensione condizionale della pena e della prescrizione, nonché abrogate le
ipotesi di reato attenuato dagli artt. 2 e 8 ultimo comma
e ridimensionata la portata dell’attenuante dell’interve-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
nuto pagamento del debito tributario. Talune di queste
inopinate modifiche si pongono in contrasto con l’impianto del d.lg. 74/2000, altre giustificano sospetti di illegittimità costituzionale, tanto che, ad avviso di chi scrive, occorrerebbe il coraggio di abrogarle tutte ed intervenire, eventualmente, sulla determinazione della pena,
onde dotarla di una maggiore efficacia dissuasiva5. Un
adeguamento di pena potrebbe essere disposto per i più
gravi delitti di dichiarazione fraudolenta, previa indispensabile reintroduzione delle ipotesi attenuate (punite
in modo equilibrato – a differenza di quanto avviene ora
– con la sanzione originaria), mentre l’attuale livello di
pena degli artt. 2, 3 e 8 potrebbe essere previsto per la dichiarazione infedele, riconfigurata quale illecito gravemente lesivo del bene penalmente tutelato. L’entità dell’imposta evasa potrebbe indicativamente individuarsi,
quanto meno, nel doppio di quella attuale. In conclusione, la mini-riforma del 2011, condivisibilmente definita
“pedaggio ideologico alla propaganda antievasione”6, non
giova certo alla chiarezza e all’efficacia del diritto penaletributario, che non è uno strumento anti-evasione e non
può essere impropriamente utilizzato in tale prospettiva7.
E’ lecito quindi attendersi l’intervento di un legislatore
più maturo sul tema, che configuri come criminose poche e ben delineate condotte tra le quali potrebbe permanere l’ipotesi di dichiarazione infedele, purché essa comporti un’imponente lesione del diritto dello Stato alla
percezione dei tributi e garantisca, nel contempo, una
pena adeguata ed effettiva.
Ma vi è di più: la permanenza nel sistema di questo
reato non può prescindere da un intervento chiarificatore della sua esatta sfera applicativa. I maggiori problemi
posti dall’art. 4 d.lg. 74/2000 sono, infatti, altri rispetto
a quanto sin qui osservato ed attengono alla descrizione
della condotta tipica.
L’infedeltà dichiarativa ha per oggetto elementi attivi
per un ammontare inferiore a quello “effettivo” ed elementi passivi “fittizi”. I due aggettivi non sono contemplati nella definizione data dall’art. 1 lett. b) del decreto
e la lacuna è tanto censurabile quanto lo è l’inopportuna
scelta linguistica di affidare il compito di qualificare la
condotta incriminata a termini il cui significato si connota di evidente ambiguità nel momento in cui vengano
utilizzati in un contesto concernente le componenti di
una dichiarazione fiscale.
5 Esemplificando, i delitti di bancarotta fraudolenta sono da sempre puniti con la reclusione da tre a dieci anni, altri delitti non più
gravi delle più rilevanti frodi fiscali con quella da due a otto anni.
6 Così Mapelli, in “I nuovi reati tributari”, Euroconference, Verona, 2012, pag. 23.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
“Effettivo” richiama, nell’accezione comune, ciò che
è reale e, dunque, per esempio, gli importi in concreto
percepiti e non anche quelli rideterminati sulla base di
speciali normative tributarie. “Fittizio” significa, alla
lettera, falso, inesistente, non reale, simulato e, dunque,
quanto alle componenti negative di un reddito, non ciò
che viene ritenuto indeducibile in base alle regole di determinazione dell’imponibile contenute nella legislazione speciale, perché, per esempio, supera determinati limiti o deriva da operazioni con società aventi sede in
paesi a fiscalità privilegiata, o, ancora, supera il c.d. valore normale. Ma noti argomenti di carattere sistematico,
tra cui i richiami alle disposizioni degli artt. 7 e 16, hanno indotto una parte degli interpreti a privilegiare la tesi
estensiva, sostanzialmente recepita dalla giurisprudenza
di legittimità nella motivazione della sentenza 22 novembre 2011 – 28 febbraio 2012, n. 77398, con la quale
la Suprema Corte si è pronunciata a favore della rilevanza penale delle ipotesi di elusione che corrispondano ad
una specifica ipotesi prevista dalla legge tributaria.
Sembrerebbe quindi da abbandonare l’interpretazione restrittiva seguita dalla dottrina e dalla giurisprudenza
di merito sinora prevalenti9, dovendosi valutare gli “elementi attivi” e quelli “passivi fittizi” alla stregua della
normativa tributaria e ricomprendere tra i primi anche
quelli derivanti da operazioni elusive vietate da tale normativa. Senonché la presa di posizione della Suprema
Corte, se ha avuto il pregio di intervenire compiutamente sulla questione, non ha risolto tuttavia i dubbi sulla
sfera applicativa dell’art. 4, non consentendo di superare
– quanto meno – la critica in ordine al difetto di tipicità
che l’art. 4, così interpretato, non può non manifestare:
le disposizioni antielusive richiamate dalla Corte (art. 37
bis d.P.R. 600/73) elencano solo per categorie varie operazioni societarie lecite, denotando un deficit di tassatività incompatibile con i requisiti costituzionali che legittimano la sanzione penale. Non solo: tali operazioni vengono poste in essere in modo trasparente e rese note all’Agenzia delle Entrate, cosicché pare arduo collocarle
all’interno di una fattispecie criminosa, a condotta vin-
7 La riduzione delle soglie di punibilità sortisce l’effetto di estendere i casi in cui gli accertamenti fiscali possono essere notificati nel
termine “raddoppiato” ex artt. 43, co. 3°, d.P.R. 600/73 e 57, co. 3°
d.P.R. 633/72, la cui interpretazione ha dato luogo a vivace dibattito
e a serrate critiche, non sopiti dalla discussa sentenza n. 247/2011
della Corte Costituzionale.
8 In Diritto Penale e Processo 7/2012, 858 con nota Veneziani.
Cfr. anche il commento critico di Troyer in Le Società 6/2012, 690.
9 Innumerevoli i commenti sul tema, dal 2000 ad oggi, per i quali
si veda il Commentario breve alle leggi tributarie, Padova, 2011, Tomo
II, pag. 558 commento all’art. 4 d.lg. 74/2000, a cura di R. Pisano.
DOTTRINA
colata, che letteralmente riconduce l’infedeltà dichiarativa, da un lato a divergenze tra quanto esposto in dichiarazione e quanto effettivamente conseguito a titolo
di componente positiva e, dall’altro, alla fittizietà delle
componenti negative.
Concludendo, in un contesto di tal genere chi scrive
non intende prendere posizione a favore o contro una
determinata soluzione, più o meno estensiva, dell’ambito di applicazione del reato di dichiarazione infedele.
Ciò che si continua a sostenere con fermezza è l’esigenza
imprescindibile di pervenire ad una formulazione definitiva, priva di ambiguità lessicali, della norma penale
con la quale si vuole punire la dichiarazione infedele.
Non erano ancora sopiti gli echi dell’imbarazzante querelle di fine anni ’80 tra la Cassazione e la Corte Costituzionale sull’interpretazione del “vecchio” art. 4, n. 7 d.l.
429/82, per il quale i componenti positivi del reddito
dovevano, per l’integrazione del reato, essere “dissimulati” e quelli negativi essere “simulati”10, allorché il legislatore del 2000 perseverò nel creare ambiguità utilizzando, per qualificare l’infedeltà, gli attuali aggettivi “effettivo” e “fittizi”. Non sono stati sufficienti trent’anni ed il
superamento del previgente modello sanzionatorio per
introdurre una fattispecie delittuosa in materia di infedele dichiarazione formulata nel rispetto dei canoni di
chiarezza e determinatezza del precetto penale. In molte
occasioni abbiamo sottolineato l’importanza e l’urgenza
di una riforma della norma volta ad evitare il rischio che
il reato ex art. 4 venga applicato nel diritto vivente secondo un’interpretazione che via via lo allontani dalla tipicità propria delle norme penali e la Corte costituzionale debba paradossalmente reintervenire, come oltre
vent’anni or sono, a riaffermare la violazione dell’art. 25
Cost. essendosi il legislatore astenuto “dall’operare la
scelta relativa a gran parte del tipo di disvalore di un illecito, rimettendo tale scelta al Giudice, che diviene, in tal modo, libero di scegliere significati tipici”11.
Ora, dell’insostenibile incertezza legata alle vicende
interpretative dell’art. 4 il legislatore aveva timidamente
mostrato di rendersi conto con il disegno di legge delega
di riforma fiscale (formulato dal Governo nel Consiglio
dei Ministri del 16 aprile 2012), il cui art. 6 lett. d) prevedeva di “escludere la rilevanza penale dei comportamenti
10 La Corte costituzionale, con sentenza 247/1989, interpretativa di rigetto, dichiarò non fondata la questione di costituzionalità
dell’art. 4, co. 1°, n. 7 d.l. 429/82, ma la Cassazione disattese l’interpretazione proposta dalla Consulta (cfr. Cass. Sez. Un. 6 luglio – 23
ottobre 1990 e 23 novembre – 20 dicembre 1990), la quale, presone
atto, con una successiva pronuncia (sent. 35/1991) dichiarò illegittima la norma.
11 Così Corte costituzionale, sentenza n. 35/1991.
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DOTTRINA
ascrivibili a fattispecie abusive”, in seguito modificato
con il disegno di legge del 15 giugno 2012, il cui art. 8,
co. 1°, prevedeva, invece, “l’individuazione dei confini
tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle
relative conseguenze sanzionatorie”. Le successive vicende
politiche avevano però interrotto la prosecuzione del dibattito parlamentare, con il risultato che i progetti di riforma sembrarono accantonati, sino a che è intervenuta
la L. 11.3.2014 n. 23, contenente (art. 8) la delega al
Governo a procedere “alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione
e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti”, prevedendo, tra l’altro, “la revisione del regime della
dichiarazione infedele”.
E lo schema di decreto legislativo, ormai di prossima
approvazione, risponde, in generale, alle aspettative di chi
attende da tempo una miglior disciplina della travagliata
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
materia. Tuttavia, quanto alla “dichiarazione infedele”, esso sembra superare solo in parte le criticità dell’attuale fattispecie incriminatrice: ferma restando la misura della pena prevista, le soglie di punibilità di cui alla lettera a) sono
triplicate e quelle della lettera b) aumentate di un terzo,
ma la descrizione della condotta resta immutata, anche se
il nuovo comma 1 bis precisa che “non si tiene conto della
non corretta classificazione dell’inerenza o della non deducibilità di elementi passivi reali”. Se a ciò si aggiunge che,
nell’ambito della nuova disciplina dell’abuso del diritto,
“le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai
sensi delle leggi penali tributarie”, non si può non riconoscere l’apprezzabile risultato di aver restituito significativi
margini di chiarezza alla norma. La contestuale riscrittura
dell’art. 3 legittima peraltro il dubbio sull’utilità di mantenere nel sistema la duplice figura di reato dichiarativo,
oltre a quella fraudolenta dell’art. 2.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
DOTTRINA
Inconvenienti della repressione dei reati in materia di
riscossione di imposte e di sottrazione al pagamento
di Lorenzo Imperato
L’inconveniente che, per primo, ciascuno individua
è, al tempo stesso, banale e significativo: i procedimenti penali per i reati, almeno, in materia di riscossione
sono troppi.
Le cause di questa situazione, fra le tante, possono essere fondamentalmente ricondotte a due: si commettono troppi reati in materia; oppure le norme incriminatrici non colgono un obiettivo di tutela sufficientemente
qualificato.
La relazione governativa all’art. 35 del decreto legge
n. 223 del 2006 – che ha introdotto nel decreto legislativo n. 74 del 2000 gli artt. 10-ter e 10-quater – così si
esprimeva: «Al comma 7, al fine di contrastare con maggiore efficacia i fenomeni di evasione da riscossione, sono introdotte due nuove fattispecie delittuose riferite al: – mancato
versamento dell’IVA dovuta a seguito di dichiarazione, in
analogia con quanto già contemplato dalla legge n. 311 del
2004 per le ipotesi di mancato versamento delle ritenute; –
mancato versamento di somme complessivamente dovute,
utilizzando, mediante il sistema della compensazione di
cui all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n.
241, crediti indebiti o inesistenti».
L’obiettivo del Governo era quello di conferire maggior efficacia nel contrasto della cosiddetta evasione da
riscossione, che si realizza successivamente all’autoliquidazione delle imposte dovute.
Il proliferare dei procedimenti penali, allora, dovrebbe
dimostrare che questo obiettivo non è stato raggiunto.
Infatti, i reati in materia di riscossione – omesso versamento di ritenute certificate ed omesso versamento di
iva – non si perfezionano al momento della scadenza
del termine fiscale per il versamento, ma entro un termine successivo: per le ritenute, il termine previsto per
la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto
di imposta; per l’iva, il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Di
fatto, il termine penalmente rilevante per la commissione del reato, che individua il suo momento consumativo, scade l’anno successivo rispetto al periodo di imposta considerato.
Ciò significa che le denunce per i reati in commento
pervengono alle Procure della Repubblica – ovviamente
– a reato già consumato, e senza che sia intervenuto il
versamento delle imposte entro un anno, circa, dal momento previsto dalle leggi tributarie.
Le norme incriminatrici, a nostro avviso, non possono strutturalmente imprimere maggior efficacia nel
contrasto dei fenomeni di evasione da riscossione ma, al
più, in quanto norme penali, sanzionare fenomeni evasivi già realizzati, esercitando semplicemente – e non è poco, lo si ammette – un effetto dissuasivo.
Se l’obiettivo doveva essere quello di contenere il fenomeno dell’evasione da riscossione, questo non è stato
raggiunto, almeno sulla base del vigente quadro normativo e sulla scorta della quotidiana esperienza giudiziaria.
Un primo dato di riflessione, allora, impone di considerare che, attualmente, il “termine di grazia” – vale a dire l’anno durante il quale, scaduto il termine fiscale il
contribuente può provvedere al versamento delle imposte dovute, almeno entro il limite della soglia di punibilità, per evitare di commettere il reato – non è sufficiente
se non ad impedire, quanto meno a limitare l’evasione.
Non solo.
La norma, così come è attualmente congegnata, non
consente di riconoscere valore giustificante né ai motivi
della condotta, né alla particolare condizione di difficoltà del contribuente, né alla situazione di dubbio nella
quale, eventualmente, egli versi in merito all’importo
delle imposte da versare.
Ad oggi, la norma di cui all’art. 10-bis d. lgs. n. 74 del
2000 richiede il dolo generico, ossia la rappresentazione
di aver rilasciato la certificazione ai sostituiti e la consapevolezza di non aver versato le ritenute entro il termine
previsto dalla norma penale.
È irrilevante, stando alla interpretazione che della
fattispecie incriminatrice viene data dalla giurisprudenza della Suprema Corte, il fine specifico di evasione –
che, infatti, non viene richiesto dalla norma, ritenendosi
che esso sia connaturato al compimento della condotta –
ovvero la situazione di difficoltà o di illiquidità nella
quale versi il contribuente, così come che il contribuente
sia consapevole o meno di non aver versato un importo
di ritenute superiore ad euro 50.000.
Quest’ultima constatazione deriva dagli ultimi approdi della giurisprudenza, secondo la quale la soglia di punibilità non appartiene alla fattispecie, e non deve essere
quindi oggetto di dolo, ancorché generico, ma rappresenta una condizione obiettiva di punibilità (art. 44 c.p.),
vale a dire un avvenimento futuro che non dipende né
dalla condotta, né dalla volizione del soggetto agente.
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DOTTRINA
Lo stesso vale per il delitto di cui all’art. 10-ter d. lgs.
n. 74 del 2000.
È sufficiente, per realizzare il reato, che il soggetto
agente abbia dichiarato il debito iva nella dichiarazione
annuale e che, entro il termine penalmente rilevante,
non abbia provveduto al versamento per un importo superiore ad euro 50.000.
Quanto al delitto di cui all’art. 10-quater d. lgs. n.
74 del 2000, invece, si possono porre problemi interpretativi di diversa natura, che derivano dalla sua formulazione.
Ci riferiamo in particolare al rinvio all’art. 17 d. lgs.
n. 241 del 1997 ed alla locuzione «crediti non spettanti».
Quanto al primo, il problema si pone, in quanto la
norma prevede la compensazione anche rispetto a debiti
tributari diversi dalle imposte sui redditi e sul valore aggiunto e non chiarisce se la norma si riferisca alla compensazione sia verticale, sia orizzontale, ovvero soltanto
a quest’ultima; quanto al secondo, in quanto la menzione dei «crediti non spettanti» coinvolge delicate problematiche di natura esclusivamente tributaria – si pensi al
limite massimo per le compensazioni, ovvero agli adempimenti procedurali, talvolta meramente burocratici,
che possono rendere un credito non spettante, e quindi
anche rilevante penalmente – che mal si conciliano con
il vero oggetto della norma, che dovrebbe avere riguardo
soltanto ai «crediti inesistenti».
Si possono proporre, allora, due ulteriori riflessioni:
l’una incide sulla struttura del reato, l’altra sugli strumenti, diversi dalla modifica della formulazione della
norma, che possano rendere effettiva l’incidenza sul fenomeno dell’evasione da riscossione.
Anzitutto, si può intervenire sulla soglia di punibilità, aumentandola, magari sino all’importo di euro
100.000: in questo modo, si selezionerebbero per legge
le ipotesi di reato significative e realmente offensive del
bene protetto, senza dover affidare alle prassi applicative
di ogni singola Procura della Repubblica la scelta di perseguire in modo differenziato i fatti di reato a seconda
dell’ammontare dell’evasione.
Si potrebbe obiettare che si tratti di un intervento in
controtendenza rispetto alle modifiche da ultimo apportate al sistema penale tributario dal d.l. n. 138 del 2011,
che ha abbassato le soglie di punibilità assolute per i reati
dichiarativi.
In realtà, non si tratta di termini di paragone comparabili: ci pare evidente che l’infedeltà e la fraudolenza
in dichiarazione rappresentino fenomeni illeciti dotati
di maggior carica aggressiva e lesiva del bene protetto,
non solo sotto il profilo della percezione del tributo, ma
anche della trasparenza e della collaborazione fra contribuente ed Erario.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Nei reati in materia di riscossione, invece, l’illecito
penale interviene rispetto ad un debito di imposta che
non viene messo in discussione dagli organi accertatori,
in quanto liquidato e dichiarato dallo stesso contribuente, sicché non si realizza l’ulteriore lesione del bene protetto sotto il profilo segnalato.
In secondo luogo, se si intende attribuire rilevanza all’atteggiamento soggettivo del contribuente, ovvero anche a particolari situazioni nelle quali sia coinvolto (crisi
di liquidità, omessi pagamenti da parte dei propri debitori, magari pubblici, fatturazione alla quale non sia seguito l’incasso eccetera), si può modificare il profilo soggettivo della fattispecie, inserendo l’avverbio «intenzionalmente» nella fattispecie.
Non si tratterebbe di una novità, in quanto analogo
intervento è stato adottato nel 1997 nel delitto di abuso
d’ufficio di cui all’art. 323 c.p., al fine di scongiurare
prassi applicative eccessivamente penalizzanti.
Si otterrebbe l’effetto di richiedere il dolo intenzionale per la realizzazione del delitto, imponendo, così, all’Accusa di fornire la prova che l’omesso versamento delle imposte ha rappresentato l’unico obiettivo cui era volta la condotta del contribuente.
Quanto, in particolare, all’art. 10-quater d. lgs. n. 74
del 2000, invece, la norma potrebbe essere modificata
specificando che essa trova applicazione soltanto con riguardo alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto – per
ragioni di equilibrio sistematico – ed alla sola compensazione orizzontale (mentre la compensazione verticale, tipica dell’iva, riceve una sua specifica disciplina e non appare – nonostante contrarie indicazioni giurisprudenziali
– coerente con il quadro della norma incriminatrice) ed
eliminando il riferimento ai crediti non spettanti.
Sul versante degli strumenti applicativi idonei a migliorare l’efficacia della norma, si può pensare ad adottare, anche in ambito penale tributario, e per questi reati,
il sistema della prescrizione, già utilizzato nell’ambito
delle contravvenzioni in materia di sicurezza ed igiene
sul lavoro.
In particolare, si potrebbe cogliere dal sistema già noto
e ben sperimentato – che presenta particolarità collegate
alla materia regolata: prima fra tutte il rivolgersi a contravvenzioni, invece che, come nel nostro caso, a delitti – il
profilo che attiene alla gestione della notizia di reato ed alla conseguente sospensione del procedimento penale.
In breve: constatata, da parte dell’Agenzia delle Entrate, la commissione dei tratti oggettivi del reato, dovrebbe,
da un lato, essere inviata la denuncia alla Procura della Repubblica e, dall’altro lato e contestualmente, la prescrizione al contribuente, con intimazione ad adempiere entro
un congruo termine, eventualmente prorogabile a fronte
di specifiche e motivate esigenze.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Il procedimento penale resterebbe sospeso sino alla
verifica del comportamento fattivo del contribuente: riscontrato il pagamento del debito, il reato si dovrebbe
estinguere, ed il procedimento penale archiviato.
In caso contrario, esaurito il termine concesso con la
prescrizione, il procedimento penale riprenderebbe il
suo corso, per giungere al suo naturale epilogo.
La disciplina potrebbe essere variamente articolata:
potrebbero essere introdotti meccanismi di dilazione garantiti da fideiussione del contribuente, permanendo la
sospensione del procedimento penale; potrebbero essere
introdotte forme ulteriori di sospensione o coordinamento fra procedure, nel caso in cui il contribuente sia
dichiarato insolvente, ovvero acceda ad una procedura
alternativa al fallimento.
Un discorso a parte merita l’art. 11, comma 1, d. lgs.
n. 74 del 2000 (il secondo comma della disposizione ha
introdotto – nel 2010 – una nuova figura di reato di
stampo dichiarativo, di tutela della transazione fiscale di
cui all’art. 182-ter legge fallimentare: quindi, un reato
incoerente rispetto a quelli che stiamo esaminando).
Un primo aspetto qualificante sul quale interrogarsi
concerne il tratto peculiare della fattispecie, in rapporto
al suo immediato antecedente storico, l’art. 97 d.p.r. n.
602 del 1973.
La norma attualmente vigente non contiene, come
invece nella norma abrogata – che, soprattutto per questo motivo, non era quasi applicata - alcun riferimento
ad attività di verifica, di accertamento o di riscossione in
atto. Il reato può essere realizzato a prescindere dal fatto
che l’Agenzia delle Entrate ovvero l’agente per la riscossione stiano agendo, per quantificare o per riscuotere il
debito tributario.
Ciò implica un problema di delimitazione dell’area
della condotta punibile, ora affidata esclusivamente alla
verifica, demandata al Giudice, della idoneità del comportamento tenuto allo sviamento della procedura di riscossione coattiva.
Il primo quesito, quindi, concerne l’opportunità di
reintrodurre una limitazione, se non affidata alla menzione delle attività di verifica o di accertamento, almeno
a quelle di riscossione.
Un secondo aspetto sul quale meditare riguarda la
definizione della condotta, in particolare per quel che
concerne la nozione di «altri atti fraudolenti»: al riguardo, ci si deve interrogare sull’opportunità di meglio precisare la relativa nozione, magari con una formulazione del tipo: «altri comportamenti attivi oggettivamente fraudolenti», forse ridondante, ma più precisa
ed accurata, onde eliminare il rischio che la nota di
fraudolenza venga affidata all’atteggiamento soggettivo dell’agente, ovvero che per atto fraudolento si in-
DOTTRINA
tenda anche l’atto omissivo, ovvero anche soltanto il
mero atto materiale.
Si deve infatti considerare che, dopo le modifiche apportate alla norma dal d.l. n. 78 del 2010, è stata eliminata la clausola di riserva «salvo che il fatto costituisca più
grave reato», divenendo, ora, possibile il concorso fra il
reato in esame e fattispecie più gravi, prima fra tutte la
bancarotta fraudolenta patrimoniale, che potrebbe intervenire per reprimere le condotte più insidiose e, al
tempo stesso, eliminando il timore di vuoti di tutela.
Anche per questa fattispecie delittuosa, si potrebbero
introdurre una causa di non punibilità strutturata sul
modello della desistenza volontaria, unita al sistema della prescrizione, con la concessione di un congruo termine per consentire al soggetto agente di ripristinare lo status quo ante e, così, andare esente da pena.
In conclusione, l’effetto sarebbe quello di un sistema
normativo composito, con qualche stravolgimento dell’attuale assetto.
Di regola, infatti, il pagamento del tributo, ai sensi
dell’art. 13 d. lgs. n. 74 del 2000, non comporta la non
punibilità, ma soltanto l’applicazione di una circostanza
attenuante speciale.
L’art. 20 d. lgs. n. 74 del 2000, poi, impone la separatezza fra il procedimento ed il processo tributario ed il
procedimento penale, mentre, nella proposta che si è
formulata, il principio verrebbe stravolto.
Si tratta però di effettuare delle scelte, e non di arrestarsi di fronte all’osservanza di dogmi aprioristici.
Se l’obiettivo vuol essere quello dell’efficacia e della riduzione dell’evasione da riscossione, si dovrebbe cercare, a
nostro modesto avviso, di individuare strumenti operativi
che consentano, allo stesso tempo, di perseguire l’obiettivo – indurre al versamento delle imposte; ridurre il carico
enorme di procedimenti penali a questo titolo – e di introdurre moderazione nell’apparato sanzionatorio.
Non si dimentichi, infatti, che, di per sé, al momento
dell’inutile decorso del termine fiscale, si rende applicabile la sanzione tributaria amministrativa, unitamente
agli strumenti coattivi di recupero del credito erariale,
che non verrebbero intaccati od indeboliti dalle modifiche che sono state illustrate.
Il sistema tributario nel suo complesso, quindi, ci pare già troppo “carico” di sanzioni – si pensi, su questa linea, alle ipotesi di inserire i reati tributari fra i reati presupposto della responsabilità amministrativa di cui al
decreto legislativo n. 231 del 2001 - che, il più delle volte intervengono in modo del tutto simbolico, senza un
adeguato riferimento né ad effettive esigenze di tutela
del bene protetto, né al criterio della proporzionalità rispetto alla effettiva responsabilità del soggetto, imposta
dall’art. 27 della Costituzione.
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LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
La c.d. voluntary disclosure. Prime indicazioni
di Luca Lunelli
Riferimenti normativi: Artt. da 5-quater a 5-septies,
D.L. 167/1990
(Introdotti dalla Legge 15.12.2014, n. 186, in G.U.
n. 292 del 17.12.2014, in vigore dal 1.1.2015)
La Legge 15.12.2014, n. 186 ha inserito, nell’ambito del D.L. 167/1990, quattro nuovi articoli (da 5-quater a 5-septies) volti a disciplinare l’istituto della voluntary disclosure che consente al contribuente di regolarizzare le violazioni - commesse fino al 30 settembre 2014 degli obblighi di dichiarazione degli investimenti e delle
attività costituite o detenute all’estero.
A tal fine, il contribuente deve, entro il 30 settembre
2015, presentare all’Agenzia delle Entrate una istanza di
definizione contenente la indicazione di tutti gli investimenti e le attività detenute in violazione degli obblighi
di monitoraggio, relativamente a tutti i periodi di imposta ancora accertabili; versare le relative imposte, interessi e sanzioni tributarie ridotte e provvedere al rimpatrio
fisico o giuridico dei predetti investimenti e attività.
La conclusione della procedura comporta la esclusione della punibilità per alcuni delitti tributari, nonché
per i delitti di riciclaggio e autoriciclaggio1 aventi ad oggetto gli investimenti e le attività oggetto di emersione.
La procedura può essere utilizzata anche da soggetti
diversi dai destinatari degli obblighi di monitoraggio per
sanare le violazioni degli obblighi di dichiarazione ai fini
delle imposte sui redditi, Irap, Iva, e della dichiarazioni
dei sostituti di imposta commesse fino al 30 settembre
2014 (c.d. voluntary disclosure interna o domestica).
1. Voluntary disclosure estera
1.1. Ambito soggettivo
La istanza di collaborazione può essere formulata dalle persone fisiche, dagli enti non commerciali e dalle
società semplici ed equiparate ai sensi dell’art. 5 del
T.U.II.RR. (compresi i c.d. “titolari effettivi”), residenti
nel territorio dello Stato, soggetti all’obbligo di dichiarazione degli investimenti e delle attività detenute al1 Di cui all’art. 648-ter.1, c.p., introdotto dall’art. 3 della (stessa)
L. 15.12.2014, n. 186.
l’estero (obblighi di monitoraggio – compilazione quadro RW), relativamente alle violazioni commesse fino
al 30 settembre 2014.
Ai soli fini della presente procedura, nel caso di più
titolari degli investimenti e delle attività detenute all’estero, la relativa disponibilità si considera, salvo prova
contraria, ripartita in parti uguali tra tutti i soggetti.
1.2. Ambito oggettivo
Oggetto della emersione devono essere tutti gli investimenti e le attività finanziarie detenute (anche indirettamente o per interposta persona) all’estero in violazione
degli obblighi di monitoraggio, relativi a tutti i periodi
di imposta ancora accertabili. Si tratta, ad esempio, dei
conti correnti, delle polizze assicurative, delle partecipazioni, degli immobili, delle imbarcazioni, dei beni mobili iscritti in pubblici registri, etc..
1.3. Cause ostative e preclusioni
Il contribuente (o il soggetto solidalmente responsabile o il concorrente nel reato) non può valersi di questo
istituto qualora abbia avuto formale conoscenza di accessi ispezioni o verifiche, o dell’inizio di altre attività
amministrative di accertamento o di procedimenti penali, relativi all’ambito applicativo della disposizione.
La procedura non può essere attivata più di una volta.
1.4 Sintesi della procedura
Per usufruire dell’istituto, il contribuente, con la (necessaria) collaborazione di un professionista, deve presentare – entro il 30 settembre 2015 – una istanza all’Agenzia delle Entrate (una bozza, aggiornata al
9.12.2014, è già presente sul sito dell’A.E.), contenente
la indicazione di tutti gli investimenti e le attività costituiti o detenuti all’estero, relativamente a tutti i periodi
ancora accertabili, corredata dei documenti e delle informazioni necessari per la ricostruzione degli eventuali
maggiori imponibili da essi derivanti ai fini delle imposte sui redditi, IRAP, IVA e contributi previdenziali (art.
5-quater). Da tenere presente che l’istanza e la documentazione da presentare devono essere corredati da una relazione illustrativa da parte del professionista incaricato,
DOTTRINA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
volta anche a “spiegare” la “storia” delle attività estere a
partire dalla loro data di costituzione.
La documentazione e le informazioni devono essere
completi e veritieri e risultare da apposita dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà che il contribuente è tenuto a rilasciare al professionista incaricato dell’espletamento della procedura. La presentazione di documentazione o informazioni, in tutto o in parte, falsi o non rispondenti al vero comporta la sanzione penale della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni (art. 5-septies).
Una volta ricevuta la istanza, l’Agenzia delle Entrate:
• può anche richiedere ulteriori informazioni o documenti integrativi di quelli già presentati; dopodichè
• invia al contribuente un invito a comparire, art. 51
bis, contenente il calcolo delle imposte, sanzioni e interessi dovuti;
• irroga le sanzioni per la violazione del quadro RW, indicando la possibilità di definizione in via agevolata.
Le imposte sono dovute in misura integrale mentre
le sanzioni relative alla violazione del quadro RW sono
determinate in misura ridotta variabile.
Se la media delle attività detenute all’estero non eccede il valore di 2 milioni di euro, il contribuente può
chiedere all’Ufficio di calcolare i rendimenti – invece
che analiticamente – nella misura forfettaria del 5% della consistenza degli investimenti alla fine di ciascun anno: in questo caso, la determinazione della relativa imposta è effettuata con l’aliquota del 27%.
Ricevuto l’invito, il contribuente può
• prestarvi adesione integrale, 15 giorni prima della data
di comparizione ex art. 5, co. 1-bis, D.Lgs. 218/1997,
oppure
• incardinare l’”ordinaria” procedura di accertamento
con adesione.
Le modalità di presentazione e pagamento saranno
disciplinate con Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate da emanarsi entro il 31 gennaio 2015.
1.5. Perfezionamento
La collaborazione volontaria si perfeziona con il pagamento delle somme dovute in base all’invito al contraddittorio o all’atto di accertamento e all’atto di contestazione o di irrogazione delle sanzioni.
Il contribuente può effettuare il versamento delle
somme dovute in un’unica soluzione o in tre rate mensili di pari importo, senza potersi valere della compensazione di cui all’art. 17, D.Lgs. 241/1997.
Il versamento dell’intero o della prima rata deve essere
effettuato:
nel termine perentorio di 15 giorni antecedenti la data di comparizione, se si aderisce integralmente all’invito (ex art. 5, co. 1-bis, D.Lgs. 218/1997);
➤ nel termine di 20 giorni dalla redazione dell’atto di
adesione, se si instaura il procedimento di accertamento con adesione “ordinario”;
➤ nel termine di proposizione del ricorso, quanto alle
sanzioni per la violazione degli obblighi di indicazione nel quadro RW.
Entro 30 giorni dal versamento, l’Agenzia delle Entrate
comunica alla Procura della Repubblica la conclusione
della procedura ai fini della non punibilità di alcuni reati.
Se il contribuente non versa le somme dovute entro
i termini previsti la procedura non si perfeziona e
l’Agenzia delle Entrate, anche in deroga ai termini di accertamento, notifica un nuovo atto – di accertamento
delle pretese impositive e di contestaz. delle sanzioni –
entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello della
procedura non conclusa (art. 5-quinquies, co. 10).
N.B.: il sistema varato dal Legislatore è una pericolosa
commistione tra istituti deflativi ex D.Lgs. 218/1997 e
regole sul condono per mancato versamento: infatti, le
modalità “ordinarie” di perfezionamento della definizione
con il pagamento della prima rata - previste per la maggior parte degli istituti deflativi - non valgono per la voluntary disclosure, per la quale l’omesso versamento di una
rata qualsiasi fa “saltare” l’intera procedura; allo stesso modo, la rateizzazione non è quella “classica” degli istituti deflativi (8-12 rate), ma è limitata solo a tre rate, per di più
mensili e non trimestrali: tre mesi anziché tre anni.
➤
1.6. Effetti
La positiva conclusione della procedura comporta
benefici in termini sia di riduzione delle sanzioni amministrative tributarie, sia – soprattutto – di esclusione
della punibilità di alcuni reati.
Le sanzioni amministrative irrogabili per violazione
degli obblighi di monitoraggio sono:
➤ Paesi white list: la sanzione minima edittale (pari al 3%)
• è ridotta alla metà (e, quindi, pari a 1,5%), a condizione che
– le attività vengano trasferite in Italia, o in Stati della UE o aderenti all’Accordo sullo SEE, che consentono un effettivo scambio di informazioni2;
2 Tenere presente, ad esempio, che il Lussemburgo non fa più
parte della black list, in quando il MEF - con D.M. del 16.12.2014 lo ha “espunto” dal D.M. 21.11.2001: è, dunque, uno Stato white
list a tutti gli effetti e con tutte le conseguenze che ne derivano (come
pure San Marino, vd. pag. 21, nota 19).
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– le attività trasferite in Italia o nei predetti Stati
risultino ivi detenute;
– l’autore delle violazioni rilasci all’intermediario
finanziario estero l’autorizzazione all’invio di
tutte le informazioni oggetto della collaborazione volontaria; e copia della predetta autorizzazione, controfirmata dall’intermediario, venga allegata alla richiesta di collaborazione volontaria;
• nei casi diversi dai precedenti, la sanzione è ridotta di 1/4 cioè a tre quarti (art. 5-quinquies, co. 4) e
quindi passa al 2,25%;
➤ Paesi black list: la sanzione minima edittale (pari al 6%)
• è fissata, ai soli fini della procedura, al 3% dell’ammontare degli importi non dichiarati:
– nelle tre ipotesi sopra richiamate;
– nel caso in cui le attività erano o sono detenute
in Stati che stipulano con l’Italia, entro 60 gg.
dall’entrata in vigore della L. 186/2014, accordi che consentano un effettivo scambio di informazioni3 (art. 5-quinquies, co. 7);
• negli altri casi, la sanzione è ridotta di 1/4 (e quindi al 4,5%).
Le sanzioni irrogate possono essere definite ai sensi
dell’art. 16, D.Lgs. 472/1997, con ulteriore riduzione
ad 1/3 (art. 5-quinquies, co. 6).
Le sanzioni relative alle violazioni in materia di imposte sui redditi, Irap, Iva e ritenute sono irrogate nella
misura minima edittale ridotta di un quarto (art. 5quinquies, co. 4) e (ulteriormente) ad un sesto in caso di
adesione all’invito al contraddittorio.
Sul piano del c.d. “raddoppio dei termini” per gli investimenti detenuti in Paesi a fiscalità privilegiata, l’art.
5-quater, co. 4, prevede che, ai soli fini della procedura
di collaborazione volontaria, per la determinazione dei
periodi di imposta per i quali non sono scaduti i termini
di accertamento, non si applica il raddoppio dei termini di accertamento delle imposte sui redditi di cui all’art. 12, comma 2-bis, del D.L. 78/2009: a condizione
che ricorrano congiuntamente le condizioni previste
dall’art. 5-quinquies, co. 4, primo periodo, lett. c), co. 5
(autorizzazioni all’invio informazioni) e co. 7 (stipulazione da parte dello Stato estero con l’Italia di un accordo finalizzato all’effettivo scambio di informazioni).
3 È notizia di queste ore che l’accordo Italia-Svizzera è in dirittura di arrivo: probabilmente il 15.01.2015 (cfr., tweet 5.01.2015, Presidente Consiglio Nazionale Svizzero Sommaruga).
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
N.B.: l’art. 12, del D.L. 78/2009 ha anche un comma
2-ter – non richiamato dall’art. 5-quater, comma 4 (!!!) –
il quale prevede il raddoppio dei termini anche per l’irrogazione delle sanzioni correlate all’omesso adempimento degli obblighi di monitoraggio fiscale … quindi
potrebbe crearsi un “doppio binario” in ordine all’accertabilità dei periodi di imposta, con disapplicazione
espressa del raddoppio ai fini delle II.RR., ma possibilità
di contestare violazioni “più vecchie” con riferimento alle sanzioni da monitoraggio fiscale.
Sul piano penal-tributario, la collaborazione volontaria comporta la esclusione della punibilità relativa a
tutti i c.d. “reati dichiarativi” e all’omesso versamento
di ritenute certificate e dell’IVA, previste dal D.Lgs.
74/2000; in particolare:
art. 2 - Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti;
art. 3 - Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici;
art. 4 - Dichiarazione infedele;
art. 5 - Omessa dichiarazione;
art. 10-bis - Omesso versamento di ritenute certificate;
art. 10-ter - Omesso versamento di IVA.
Non beneficiano, invece, della copertura penale i reati
di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8),
occultamento e distruzione di documenti contabili (art.
10), indebita compensazione (art. 10-quater), sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11).
Sono, infine, esclusi dalla punibilità i reati di riciclaggio (art. 648-bis, c.p.), di impiego di denaro, beni
o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.) e autoriciclaggio (art. 648-ter1, c.p.).
2. Voluntary disclosure c.d. domestica o “interna”
Soggetti interessati: sono, oltre ai soggetti già indicati
che non abbiano violato gli obblighi di monitoraggio,
tutti gli altri contribuenti – persone fisiche o giuridiche
– residenti o non residenti, che intendano sanare tutte le
violazioni degli obblighi di dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi, Irap, Iva, e della dichiarazioni dei sostituti di imposta commesse fino al 30 settembre 2014.
La procedura
• è inibita in presenza delle medesime cause ostative
sopra indicate;
• si svolge con analoghe modalità, per cui il contribuente dovrà presentare una istanza con i documenti
e le informazioni necessarie per la determinazione dei
redditi imponibili relativi a tutti i periodi di imposta
ancora accertabili e, poi, effettuare il versamento di
quanto dovuto;
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
• comporta (come la voluntary estera) l’applicazione
delle sanzioni relative alle violazioni in materia di imposte sui redditi, Irap, Iva e ritenute nella misura minima edittale ridotta di un quarto (art. 5-quinquies,
co. 4) e, nel caso in cui si presti adesione all’invito al
contraddittorio, l’abbattimento a un sesto delle sanzioni (già precedentemente ridotte);
• fornisce la stessa copertura sul piano penale. Da tenere presente che se il contribuente usufruisse del
ravvedimento operoso, gli effetti penali non sarebbero gli stessi, dal momento che lo stesso – allo stato
attuale – non prevede l’esclusione dalla punibilità
ma solo l’attenuante ex art. 13 del D.Lgs. 74/2000
(riduzione delle sanzioni penali di un terzo se i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti sono totalmente estinti mediante pagamento prima
della dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado).
N.B.: Tenere presente che entrambe le procedure di voluntary (estera e interna), sebbene attinenti a fattispecie
di regolarizzazione diverse, sono cumulabili e, di conseguenza, attivabili.
3. Profili problematici e nodi “da sciogliere”
La voluntary disclosure è stata varata “in tutta fretta”
con la L. 186/2014 dopo un iter travagliatissimo (ne parlavamo già nel precedente incontro del gennaio 2014).
Restano non pochi profili problematici, tant’è che
erano state ventilate modifiche normative già in sede di
Legge di Stabilità e, comunque, non è escluso che non ce
ne siano in un futuro prossimo (o che vengano introdotte – con forzatura spesso utilizzata – tramite una circolare dell’A.E. che, di fatto, modifica il dettato normativo);
questi “solo alcuni” dei primi “nodi” da sciogliere:
a. l’asimmetria (già segnalata) sul raddoppio dei termini escluso ai soli fini delle II.RR. e non per il monitoraggio;
b. sempre in tema di raddoppio dei termini, lo stesso
scatta, ai fini delle II.RR., in presenza di obbligo di
denuncia per reati tributari (ai sensi dell’art. 43,
comma 3, D.P.R. n. 600/1973): da chiarire se i reati
del D. Lgs. 74/2000 (la maggior parte) per cui opera
la causa di non punibilità rappresentata dalla voluntary, facciano comunque scattare il raddoppio dei
termini di accertamento, perché la voluntary esclude
in modo esplicito la punibilità penale, ma non anche
la rilevanza “amministrativa” (dal punto di vista del
raddoppio dei termini) del reato;
DOTTRINA
c. sempre in tema di raddoppio, lo stesso è condizionato, fra l’altro, alla stipulazione – entro 60 gg. dall’entrata in vigore della L. 186/2014 (quindi ai primi di
marzo!) – di accordi finalizzati allo scambio di informazioni con gli Stati esteri …
d. sotto il profilo della determinazione delle imposte,
dovrà essere precisato se l’eventuale credito di imposta per le imposte pagate all’estero possa o meno essere scomputato, dal momento che l’art. 165, co. 8,
del T.U.II.RR., ne preclude la fruizione in caso di
omessa dichiarazione del relativo reddito … È anche
vero che non dovrebbe essere violato il divieto di
doppia imposizione (cfr., art. 163 T.U.II.RR. e art.
67/600) dal momento che il reddito estero, seppur
tardivamente e nell’ambito di una procedura di regolarizzazione, viene di fatto “dichiarato” dal contribuente al Fisco italiano... però è meglio se la questione viene chiarita;
e. non è stata affrontata la questione dell’euroritenuta,
vale a dire della particolare ritenuta maggiorata (dal
2011 pari al 35%) che alcuni Paesi (es. Svizzera, Lussemburgo, Austria) hanno applicato sui redditi finanziari transfrontalieri a fronte dell’“anonimato”
del cliente nel suo Paese di residenza, conseguente al
mancato scambio di informazioni. La ritenuta così
applicata nel Paese estero è stata in parte (nella misura del 75%) “girata” all’Italia che dunque ha già riscosso (quanto meno in parte) le relative imposte
dovute dal contribuente su quei redditi. Parrebbe
opportuno (!), pertanto, che nell’ambito della voluntary vi sia il riconoscimento dell’euroritenuta: quantomeno nel caso di determinazione analitica dei redditi (se non anche in caso di opzione per il metodo
forfettario);
f. quid juris in caso di attività finanziarie su cui vi era
un soggetto delegato al prelievo? Le sanzioni da RW
sono ascrivibili sia all’intestatario che al delegato oppure possono essere irrogate una sola volta o comunque evitando la “duplicazione” delle sanzioni sulla
medesima attività regolarizzata? Infatti, ex art. 1, co.
9, della L. 186/2014, la disponibilità delle attività finanziarie e patrimoniali oggetto di emersione si considera, salvo prova contraria, ripartita in quote
uguali tra tutti coloro che al termine di ciascun periodo di imposta ne avevano la disponibilità. Tale disposizione, se è “pacifica” con riferimento ai casi di cointestazione degli assets, è meno chiara se applicata con
riferimento al caso dei delegati al prelievo che potrebbero essere indicati come soggetti che avevano la “disponibilità” delle attività (con conseguente ripartizione proporzionale delle sanzioni da RW fra intesta-
69
70
DOTTRINA
tari e delegati), ma non necessariamente anche il possesso dei relativi redditi (per le cui imposte e sanzioni
dovrebbero rispondere in linea di principio gli intestatari delle attività);
g. non è stato chiarito se il soggetto chiamato ad assistere
il contribuente – venuto a conoscenza di operazioni
sospette di riciclaggio (secondo l’ampia nozione dell’art. 2 del D.Lgs. 231/2007), sia tenuto all’obbligo di
segnalazione alla UIF ex art. 41, co. 1, del D.Lgs.
231/2007. Da un lato, c’è chi invoca l’esenzione prevista dall’art. 12, co. 2, del D.Lgs. 231/2007, per cui
l’obbligo in questione non si applica ai professionisti
per le informazioni che essi ricevono da un loro cliente nel corso dell’esame della posizione giuridica del loro cliente; dall’altro, il Direttore dell’UIF nell’audizione al Senato del 25.11.2014 ha dichiarato che
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
“senza entrare nel merito delle scelte di politica legislativa, si giudica favorevolmente l’esclusione della punibilità
per un più limitato novero di reati rispetto a quanto previsto in occasione di passati interventi di regolarizzazione fiscale; sono state correttamente escluse deroghe agli
obblighi antiriciclaggio e, in particolare, a quelli di segnalazione di operazioni sospette. La collaborazione volontaria non ha impatto, e non deve averlo, sui presidi di
prevenzione previsti dal d.lgs. 231/2007”.
Per concludere: l’istituto - nonostante i lunghi tempi
di “maturazione” - è ancora “acerbo”; per cui va considerato con la massima prudenza: in attesa di eventuali interventi legislativi migliorativi e delle indicazioni operative (si spera dettagliate ed esaustive) della prassi amministrativa.
LEGISLAZIONE
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Legge delega 11 marzo 2014, n. 23
Legge 11 marzo 2014, n. 23 [1].
Delega al Governo recante disposizioni
per un sistema fiscale più equo, trasparente
e orientato alla crescita.
Art. 1. Delega al Governo per la revisione del sistema
fiscale e procedura [2]
In vigore dal 26 marzo 2015
1. Il Governo è delegato ad adottare, entro quindici
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, decreti legislativi recanti la revisione del sistema fiscale. I decreti legislativi sono adottati, nel rispetto dei princìpi costituzionali, in particolare di quelli di cui agli articoli 3 e 53
della Costituzione, nonché del diritto dell’Unione europea, e di quelli dello statuto dei diritti del contribuente di
cui alla legge 27 luglio 2000, n. 212, con particolare riferimento al rispetto del vincolo di irretroattività delle norme
tributarie di sfavore, in coerenza con quanto stabilito dalla
legge 5 maggio 2009, n. 42, in materia di federalismo fiscale, secondo gli specifici princìpi e criteri direttivi indicati negli articoli da 2 a 16 della presente legge, nonché secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi generali: [3]
a) tendenziale uniformità della disciplina riguardante le
obbligazioni tributarie, con particolare riferimento ai
profili della solidarietà, della sostituzione e della responsabilità;
b) coordinamento e semplificazione delle discipline
concernenti gli obblighi contabili e dichiarativi dei
contribuenti, al fine di agevolare la comunicazione
con l’amministrazione finanziaria in un quadro di reciproca e leale collaborazione, anche attraverso la
previsione di forme di contraddittorio propedeutiche
all’adozione degli atti di accertamento dei tributi;
c) coerenza e tendenziale uniformità dei poteri in materia tributaria e delle forme e modalità del loro esercizio, anche attraverso la definizione di una disciplina
unitaria della struttura, efficacia ed invalidità degli
atti dell’amministrazione finanziaria e dei contribuenti, escludendo comunque la possibilità di sanatoria per la carenza di motivazione e di integrazione o
di modifica della stessa nel corso del giudizio;
d) tendenziale generalizzazione del meccanismo della
compensazione tra crediti d’imposta spettanti al contribuente e debiti tributari a suo carico.
2. I decreti legislativi tengono altresì conto dell’esigenza di assicurare la responsabilizzazione dei diversi livelli di governo, integrando o modificando la disciplina
dei tributi in modo che sia definito e chiaramente individuabile, per ciascun tributo, il livello di governo che
beneficia delle relative entrate, con una relazione fra tributo e livello di governo determinata, ove possibile, in
funzione dell’attinenza del presupposto d’imposta e, comunque, garantendo l’esigenza di salvaguardare i princìpi di coesione e di solidarietà nazionale.
3. Almeno uno degli schemi dei decreti legislativi di
cui al comma 1 dovrà essere deliberato in via preliminare
dal Consiglio dei ministri entro quattro mesi dalla data
di entrata in vigore della presente legge.
4. A decorrere dalla data di entrata in vigore della
presente legge il Governo riferisce ogni quattro mesi alle
Commissioni parlamentari competenti per materia in
ordine all’attuazione della delega. In sede di prima applicazione il Governo riferisce alle Commissioni entro due
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
Entro lo stesso termine, il Governo, effettuando un apposito monitoraggio in ordine allo stato di attuazione
dell’incorporazione dell’Agenzia del territorio nell’Agenzia delle entrate e dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato nell’Agenzia delle dogane, disposta dall’articolo 23-quater del decreto-legge 6 luglio
2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7
agosto 2012, n. 135, e successive modificazioni, riferisce
alle Commissioni parlamentari competenti per materia
anche in relazione ad eventuali modifiche normative.
5. Gli schemi dei decreti legislativi di cui al comma 1,
corredati di relazione tecnica, sono trasmessi alle Camere
ai fini dell’espressione dei pareri da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili
finanziari, che sono resi entro trenta giorni dalla data di
trasmissione. Le Commissioni possono chiedere al Presidente della rispettiva Camera di prorogare di venti giorni
il termine per l’espressione del parere, qualora ciò si renda necessario per la complessità della materia o per il numero dei decreti legislativi. Decorso il termine previsto
per l’espressione del parere o quello eventualmente prorogato, il decreto può essere comunque adottato. [4]
6. Le relazioni tecniche allegate agli schemi di decreto legislativo adottati ai sensi della delega di cui alla presente legge indicano, per ogni ipotesi di intervento, l’impatto sul gettito, gli effetti distributivi sui contribuenti,
71
72
LEGISLAZIONE
le implicazioni in termini di finanza locale e gli aspetti
amministrativi e gestionali per il contribuente e per
l’amministrazione.
7. Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni, con eventuali modificazioni,
corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. I pareri definitivi delle Commissioni
competenti per materia sono espressi entro il termine di
dieci giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso
tale termine, i decreti possono essere comunque adottati.
7-bis. Qualora i termini per l’espressione dei pareri
parlamentari di cui ai commi 5 e 7 scadano nei trenta
giorni che precedono la scadenza dei termini di delega
previsti dai commi 1 e 8, ovvero successivamente, questi
ultimi sono prorogati di novanta giorni. [5]
8. Il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti
legislativi contenenti disposizioni correttive e integrative
dei decreti legislativi di cui alla presente legge, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi medesimi, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi previsti dalla presente legge e con le modalità di cui
al presente articolo.
9. Nei decreti legislativi di cui al comma 1, il Governo provvede all’introduzione delle nuove norme mediante la modifica o l’integrazione dei testi unici e delle
disposizioni organiche che regolano le relative materie,
provvedendo ad abrogare espressamente le norme incompatibili.
10. Il Governo è delegato ad adottare, entro il termine di cui al comma 1, nel rispetto dei princìpi e criteri
direttivi previsti dalla presente legge e secondo la procedura di cui al presente articolo, uno o più decreti legislativi recanti le norme eventualmente occorrenti per il coordinamento formale e sostanziale tra i decreti legislativi
emanati ai sensi della presente legge e le altre leggi dello
Stato e per l’abrogazione delle norme incompatibili.
11. Le disposizioni della presente legge e quelle dei
decreti legislativi emanati in attuazione della stessa si applicano nei confronti delle regioni a statuto speciale e
delle province autonome di Trento e di Bolzano, nel rispetto dei loro statuti e delle relative norme di attuazione, e secondo quanto previsto dall’articolo 27 della legge
5 maggio 2009, n. 42, e successive modificazioni.
Note:
[1] Pubblicata nella Gazz. Uff. 12 marzo 2014, n. 59.
[2] In attuazione della delega prevista dal presente articolo vedi il D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175.
[3] Alinea così modificato dall’ art. 1, comma 2, lett. a),
L. 24 marzo 2015, n. 34.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
[4] Comma così modificato dall’ art. 1, comma 2, lett.
b), L. 24 marzo 2015, n. 34.
[5] Comma inserito dall’ art. 1, comma 2, lett. c), L. 24
marzo 2015, n. 34.
Art. 2. Revisione del catasto dei fabbricati
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad attuare, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, una revisione della disciplina
relativa al sistema estimativo del catasto dei fabbricati in
tutto il territorio nazionale, attribuendo a ciascuna unità
immobiliare il relativo valore patrimoniale e la rendita,
applicando, in particolare, per le unità immobiliari urbane censite nel catasto dei fabbricati i seguenti princìpi
e criteri direttivi:
a) assicurare, ai sensi della legislazione vigente, il coinvolgimento dei comuni ovvero delle unioni o delle
associazioni di comuni, per lo svolgimento di funzioni associate, nel cui territorio sono collocati gli
immobili, anche al fine di assoggettare a tassazione
gli immobili ancora non censiti, assicurando il coordinamento con il processo di attivazione delle funzioni catastali decentrate, ai sensi della legislazione
vigente in materia, nonché con quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e successive modificazioni, e dall’articolo 14, comma 27, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive
modificazioni;
b) prevedere strumenti, da porre a disposizione dei comuni e dell’Agenzia delle entrate, atti a facilitare l’individuazione e, eventualmente, il corretto classamento degli immobili non censiti o che non rispettano la
reale consistenza di fatto, la relativa destinazione
d’uso ovvero la categoria catastale attribuita, dei terreni edificabili accatastati come agricoli, nonché degli immobili abusivi, individuando a tal fine specifici
incentivi e forme di trasparenza e valorizzazione delle
attività di accertamento svolte dai comuni in quest’ambito, nonché definendo moduli organizzativi
che facilitino la condivisione dei dati e dei documenti, in via telematica, tra l’Agenzia delle entrate e i
competenti uffici dei comuni e la loro coerenza ai fini
dell’accatastamento delle unità immobiliari;
c) incentivare ulteriori sistemi di restituzione grafica
delle mappe catastali basati sulla sovrapposizione del
rilievo areofotogrammetrico all’elaborato catastale e
renderne possibile l’accesso al pubblico;
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
d) definire gli ambiti territoriali del mercato immobiliare di riferimento;
e) valorizzare e stabilizzare le esperienze di decentramento catastale comunale già avviate in via sperimentale, affinché possano costituire modelli gestionali flessibili e adattabili alle specificità dei diversi
territori, nonché semplificare le procedure di esercizio delle funzioni catastali decentrate, ivi comprese le
procedure di regolarizzazione degli immobili di proprietà pubblica, e le procedure di incasso e riversamento dei diritti e dei tributi speciali catastali;
f ) operare con riferimento ai rispettivi valori normali,
approssimati dai valori medi ordinari, espressi dal
mercato nel triennio antecedente l’anno di entrata in
vigore del decreto legislativo;
g) rideterminare le definizioni delle destinazioni d’uso
catastali, distinguendole in ordinarie e speciali, tenendo conto delle mutate condizioni economiche e
sociali e delle conseguenti diverse utilizzazioni degli
immobili;
h) determinare il valore patrimoniale medio ordinario
secondo i seguenti parametri:
1) per le unità immobiliari a destinazione catastale
ordinaria, mediante un processo estimativo che:
1.1) utilizza il metro quadrato come unità di consistenza, specificando i criteri di calcolo della superficie dell’unità immobiliare;
1.2) utilizza funzioni statistiche atte ad esprimere
la relazione tra il valore di mercato, la localizzazione e le caratteristiche edilizie dei beni per ciascuna
destinazione catastale e per ciascun ambito territoriale anche all’interno di uno stesso comune;
1.3) qualora i valori non possano essere determinati sulla base delle funzioni statistiche di cui al
presente numero, applica la metodologia di cui al
numero 2);
2) per le unità immobiliari a destinazione catastale
speciale, mediante un processo estimativo che:
2.1) opera sulla base di procedimenti di stima diretta con l’applicazione di metodi standardizzati e
di parametri di consistenza specifici per ciascuna
destinazione catastale speciale;
2.2) qualora non sia possibile fare riferimento diretto ai valori di mercato, utilizza il criterio del costo, per gli immobili a carattere prevalentemente
strumentale, o il criterio reddituale, per gli immobili per i quali la redditività costituisce l’aspetto
prevalente;
i) determinare la rendita media ordinaria per le unità
immobiliari mediante un processo estimativo che,
con riferimento alle medesime unità di consistenza
LEGISLAZIONE
previste per la determinazione del valore patrimoniale medio ordinario di cui alla lettera h):
1) utilizza funzioni statistiche atte ad esprimere la relazione tra i redditi da locazione medi, la localizzazione e le caratteristiche edilizie dei beni per ciascuna destinazione catastale e per ciascun ambito
territoriale, qualora sussistano dati consolidati nel
mercato delle locazioni;
2) qualora non vi sia un consolidato mercato delle
locazioni, applica ai valori patrimoniali specifici
saggi di redditività desumibili dal mercato, nel
triennio antecedente l’anno di entrata in vigore
del decreto legislativo;
l) prevedere meccanismi di adeguamento periodico dei
valori patrimoniali e delle rendite delle unità immobiliari urbane, in relazione alla modificazione delle
condizioni del mercato di riferimento e comunque
non al di sopra del valore di mercato;
m) prevedere, per le unità immobiliari riconosciute di
interesse storico o artistico, come individuate ai sensi
dell’articolo 10 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004,
n. 42, e successive modificazioni, adeguate riduzioni
del valore patrimoniale medio ordinario di cui alla
lettera h) e della rendita media ordinaria di cui alla
lettera i) del presente comma, che tengano conto dei
particolari e più gravosi oneri di manutenzione e
conservazione nonché del complesso dei vincoli legislativi alla destinazione, all’utilizzo, alla circolazione
giuridica e al restauro.
2. Le funzioni statistiche di cui al comma 1, lettera
h), numero 1.2), e lettera i), numero 1), tengono conto
della complessità delle variabili determinanti i fenomeni
analizzati, utilizzando metodologie statistiche riconosciute a livello scientifico.
3. Il Governo è delegato, altresì, ad emanare, con i
decreti legislativi di cui al comma 1, norme dirette a:
a) ridefinire le competenze e il funzionamento delle
commissioni censuarie provinciali e della commissione censuaria centrale, anche includendovi la validazione delle funzioni statistiche di cui al comma 1 e
introducendo procedure deflative del contenzioso,
nonché modificare la loro composizione, anche in
funzione delle nuove competenze attribuite, assicurando la presenza in esse di rappresentanti dell’Agenzia delle entrate, di rappresentanti degli enti locali, i
cui criteri di nomina sono fissati d’intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, di professionisti, di tecnici e di docenti qualificati in materia di
economia e di estimo urbano e rurale, di esperti di
statistica e di econometria anche indicati dalle asso-
73
74
LEGISLAZIONE
b)
c)
d)
e)
f)
g)
ciazioni di categoria del settore immobiliare, di magistrati appartenenti rispettivamente alla giurisdizione
ordinaria e a quella amministrativa, nonché, per le
commissioni censuarie provinciali di Trento e di Bolzano, di rappresentanti delle province autonome di
Trento e di Bolzano; [6]
assicurare la cooperazione tra l’Agenzia delle entrate e
i comuni, con particolare riferimento alla raccolta e
allo scambio delle informazioni necessarie all’elaborazione dei valori patrimoniali e delle rendite, introducendo piani operativi, concordati tra comuni o
gruppi di comuni e l’Agenzia, che prevedano anche
modalità e tempi certi di attuazione dei piani medesimi nonché al fine di potenziare e semplificare la possibilità di accesso da parte dei comuni, dei professionisti e dei cittadini ai dati catastali e della pubblicità
immobiliare, attraverso l’integrazione dei dati immobiliari e l’interoperabilità dei sistemi informativi
pubblici locali, regionali e centrali in materia catastale e territoriale; in assenza dei piani di cui alla presente lettera l’Agenzia delle entrate provvederà a determinare, in via provvisoria, valori e rendite che esplicheranno efficacia sino all’attribuzione definitiva, da
parte della stessa Agenzia, con oneri da definire e
suddividere adeguatamente;
prevedere per l’Agenzia delle entrate la possibilità di
impiegare, mediante apposite convenzioni senza
nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato, ai
fini delle rilevazioni, tecnici indicati dagli ordini e dai
collegi professionali, nonché di utilizzare i dati e le
informazioni sugli immobili posseduti, forniti direttamente dai contribuenti;
garantire, a livello nazionale da parte dell’Agenzia
delle entrate, l’uniformità e la qualità dei processi e il
loro coordinamento e monitoraggio, nonché la coerenza dei valori e dei redditi rispetto ai dati di mercato nei rispettivi ambiti territoriali;
definire soluzioni sostenibili in materia di ripartizione delle dotazioni di risorse umane, materiali e finanziarie dei soggetti che esercitano le funzioni catastali,
in coerenza con l’attuazione del nuovo catasto;
utilizzare, in deroga alle disposizioni dell’articolo 74
della legge 21 novembre 2000, n. 342, nel quadro
della cooperazione tra i comuni e l’Agenzia delle entrate, adeguati strumenti di comunicazione, anche
collettiva, compresi quelli telematici, per portare a
conoscenza degli intestatari catastali le nuove rendite, in aggiunta alla notifica mediante affissione all’albo pretorio;
prevedere, al fine di garantire la massima trasparenza
del processo di revisione del sistema estimativo, la
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
pubblicazione delle funzioni statistiche di cui al comma 1, lettera h), numero 1.2), e di cui al comma 1,
lettera i), numero 1), e delle relative note metodologiche ed esplicative;
h) procedere alla ricognizione, al riordino, alla variazione e all’abrogazione delle norme vigenti che regolano
il sistema catastale dei fabbricati, nonché alla revisione delle sanzioni tributarie previste per la violazione
di norme catastali;
i) individuare, a conclusione del complessivo processo
di revisione catastale, il periodo d’imposta dal quale
sono applicati le nuove rendite e i nuovi valori patrimoniali;
l) garantire l’invarianza del gettito delle singole imposte
il cui presupposto e la cui base imponibile sono influenzati dalle stime di valori patrimoniali e rendite,
a tal fine prevedendo, contestualmente all’efficacia
impositiva dei nuovi valori, la modifica delle relative
aliquote impositive, delle eventuali deduzioni, detrazioni o franchigie, finalizzate ad evitare un aggravio
del carico fiscale, con particolare riferimento alle imposte sui trasferimenti e all’imposta municipale propria (IMU), prevedendo anche la tutela dell’unico
immobile non di lusso e tenendo conto, nel caso delle detrazioni relative all’IMU, delle condizioni socioeconomiche e dell’ampiezza e della composizione del
nucleo familiare, come rappresentate nell’indicatore
della situazione economica equivalente (ISEE), anche alla luce dell’evoluzione cui sarà soggetto il sistema tributario locale fino alla piena attuazione della
revisione prevista dal presente articolo;
m) prevedere un meccanismo di monitoraggio, attraverso
una relazione del Governo da trasmettere alle Camere
entro sei mesi dall’attribuzione dei nuovi valori catastali, nonché attraverso successive relazioni, in merito
agli effetti, articolati a livello comunale, del processo di
revisione di cui al presente articolo, al fine di verificare
l’invarianza del gettito e la necessaria gradualità, anche
mediante successivi interventi correttivi;
n) prevedere, in aggiunta alle necessarie forme di tutela
giurisdizionale, particolari e appropriate misure di
tutela anticipata del contribuente in relazione all’attribuzione delle nuove rendite, anche nella forma
dell’autotutela amministrativa, con obbligo di risposta entro sessanta giorni dalla presentazione della relativa istanza;
o) prevedere, contestualmente all’efficacia dei nuovi valori ai fini impositivi, l’aggiornamento delle modalità
di distribuzione dei trasferimenti perequativi attraverso i fondi di riequilibrio e i fondi perequativi della
finanza comunale;
LEGISLAZIONE
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
p) prevedere un regime fiscale agevolato che incentivi la
realizzazione di opere di adeguamento degli immobili alla normativa in materia di sicurezza e di riqualificazione energetica e architettonica;
q) per le unità immobiliari colpite da eventi sismici o da
altri eventi calamitosi, prevedere riduzioni del carico
fiscale che tengano conto delle condizioni di inagibilità o inutilizzabilità determinate da tali eventi;
r) prevedere che le funzioni amministrative di cui al
comma 1 del presente articolo e al presente comma
siano esercitate dalle province autonome di Trento e
di Bolzano, ai sensi e per gli effetti del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 280, e dalla regione autonoma e dagli enti locali della Valle d’Aosta, ai sensi e per gli effetti del decreto legislativo 3 agosto
2007, n. 142;
s) riformare, d’intesa con la regione autonoma FriuliVenezia Giulia, la disciplina della notificazione degli
atti tavolari.
4. Dall’attuazione dei commi 1 e 3 del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. A tal fine, per le attività previste dai medesimi commi 1 e 3 devono prioritariamente
essere utilizzate le strutture e le professionalità esistenti
nell’ambito delle amministrazioni pubbliche.
c)
d)
Note:
[6] In attuazione della delega prevista dalla presente lettera vedi il D.Lgs. 17 dicembre 2014, n. 198.
Art. 3. Stima e monitoraggio dell’evasione fiscale
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1 e con particolare osservanza dei princìpi e criteri generali di delega indicati nelle
lettere a), b) e c) del comma 1 del medesimo articolo 1,
in funzione del raggiungimento degli obiettivi di semplificazione e riduzione degli adempimenti, di certezza
del diritto nonché di uniformità e chiarezza nella definizione delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive dei contribuenti e delle funzioni e dei procedimenti
amministrativi, norme dirette a:
a) attuare una complessiva razionalizzazione e sistematizzazione della disciplina dell’attuazione e dell’accertamento relativa alla generalità dei tributi;
b) definire una metodologia di rilevazione dell’evasione
fiscale, riferita a tutti i principali tributi, basata sul
confronto tra i dati della contabilità nazionale e quelli acquisiti dall’anagrafe tributaria, utilizzando, a tal
e)
f)
fine, criteri trasparenti e stabili nel tempo, dei quali
deve essere garantita un’adeguata pubblicizzazione;
prevedere che i risultati della rilevazione siano calcolati e pubblicati con cadenza annuale;
istituire presso il Ministero dell’economia e delle finanze una commissione, senza diritto a compensi,
emolumenti, indennità o rimborsi di spese, composta
da un numero massimo di quindici esperti indicati dal
Ministero dell’economia e delle finanze, dall’Istituto
nazionale di statistica (ISTAT), dalla Banca d’Italia e
dalle altre amministrazioni interessate; la commissione, che si avvale del contributo delle associazioni di categoria, degli ordini professionali, delle organizzazioni
sindacali più rappresentative a livello nazionale, delle
associazioni familiari e delle autonomie locali, redige
un rapporto annuale sull’economia non osservata e
sull’evasione fiscale e contributiva, al fine di:
1) diffondere le misurazioni sull’economia non osservata, assicurando la massima disaggregazione
possibile dei dati a livello territoriale, settoriale e
dimensionale;
2) valutare l’ampiezza e la diffusione dell’evasione fiscale e contributiva, effettuando una stima ufficiale dell’ammontare delle risorse sottratte al bilancio pubblico dall’evasione fiscale e contributiva e assicurando la massima disaggregazione possibile dei dati a livello territoriale, settoriale e dimensionale;
3) illustrare le strategie e gli interventi definiti e attuati
dall’amministrazione pubblica per contrastare il fenomeno dell’evasione fiscale e contributiva;
4) evidenziare i risultati ottenuti dall’attività di contrasto dell’evasione fiscale e contributiva;
5) individuare le linee di intervento e di prevenzione
contro la diffusione del fenomeno dell’evasione fiscale e contributiva, nonché quelle volte a stimolare
l’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali;
definire le linee di intervento per favorire l’emersione
di base imponibile, anche attraverso l’emanazione di
disposizioni per l’attuazione di misure finalizzate al
contrasto d’interessi fra contribuenti, selettivo e con
particolare riguardo alle aree maggiormente esposte
al mancato rispetto dell’obbligo tributario, definendo attraverso i decreti legislativi le più opportune fasi
applicative e le eventuali misure di copertura finanziaria nelle fasi di attuazione;
prevedere che il Governo rediga annualmente, anche
con il contributo delle regioni in relazione ai loro tributi e a quelli degli enti locali del proprio territorio, un
rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di
contrasto dell’evasione fiscale e contributiva, da presen-
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tare alle Camere contestualmente alla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, distinguendo tra imposte accertate e riscosse nonché tra
le diverse tipologie di avvio delle procedure di accertamento, in particolare evidenziando i risultati del recupero di somme dichiarate e non versate e della correzione di errori nella liquidazione sulla base delle dichiarazioni; prevedere che il Governo indichi, altresì, le strategie per il contrasto dell’evasione fiscale e contributiva,
e che esso aggiorni e confronti i risultati con gli obiettivi, evidenziando, ove possibile, il recupero di gettito fiscale e contributivo attribuibile alla maggiore propensione all’adempimento da parte dei contribuenti.
Art. 4. Monitoraggio e riordino delle disposizioni in
materia di erosione fiscale
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 3,
comma 1, lettera f ), il Governo è altresì delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, norme che prevedano, coordinandola con le procedure di bilancio di cui alla legge 31 dicembre 2009, n. 196, la redazione, da parte del Governo medesimo, di un rapporto
annuale, allegato al disegno di legge di bilancio, sulle spese fiscali, intendendosi per spesa fiscale qualunque forma
di esenzione, esclusione, riduzione dell’imponibile o dell’imposta ovvero regime di favore, sulla base di metodi e
di criteri stabili nel tempo, che consentano anche un
confronto con i programmi di spesa e la realizzazione di
valutazioni sull’efficacia di singole misure agevolative,
eventualmente prevedendo l’istituzione, con decreto del
Ministro dell’economia e delle finanze, di una commissione composta da un numero massimo di quindici
esperti indicati dal Ministero dell’economia e delle finanze e dalle altre amministrazioni interessate, senza diritto a
compensi, emolumenti, indennità o rimborsi di spese, la
quale potrà avvalersi del contributo delle associazioni di
categoria, degli ordini professionali, delle organizzazioni
sindacali più rappresentative a livello nazionale, delle associazioni familiari e delle autonomie locali.
2. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1, norme dirette a ridurre, eliminare o riformare le spese fiscali che appaiono, in tutto
o in parte, ingiustificate o superate alla luce delle mutate
esigenze sociali o economiche ovvero che costituiscono
una duplicazione, ferma restando la priorità della tutela
dei redditi di lavoro dipendente e autonomo, dei redditi
di imprese minori e dei redditi di pensione, della famiglia, della salute, delle persone economicamente o social-
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
mente svantaggiate, del patrimonio artistico e culturale,
della ricerca e dell’istruzione, nonché dell’ambiente e dell’innovazione tecnologica. Il Governo assicura, con gli
stessi decreti legislativi, in funzione delle maggiori entrate ovvero delle minori spese realizzate anche con l’attuazione del comma 1 del presente articolo e del presente
comma, la razionalizzazione e la stabilizzazione dell’istituto della destinazione del 5 per mille dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche in base alle scelte espresse dai
contribuenti. Il Governo assicura, con gli stessi decreti legislativi di cui all’articolo 1, la razionalizzazione e la riforma dell’istituto della destinazione dell’8 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.
3. Le maggiori entrate rivenienti dal contrasto dell’evasione fiscale, al netto di quelle necessarie al mantenimento dell’equilibrio di bilancio e alla riduzione del
rapporto tra il debito e il prodotto interno lordo, e dalla
progressiva limitazione dell’erosione fiscale devono essere attribuite esclusivamente al Fondo per la riduzione
strutturale della pressione fiscale, di cui all’articolo 2,
comma 36, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre
2011, n. 148, e successive modificazioni. Al Fondo sono
interamente attribuiti anche i risparmi di spesa derivanti
da riduzione di contributi o incentivi alle imprese, che
devono essere destinati alla riduzione dell’imposizione
fiscale gravante sulle imprese. Per le finalità di cui al primo e al secondo periodo del presente comma, il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di
cui all’articolo 1, norme dirette a coordinare le norme
adottate in attuazione dei criteri di delega di cui all’articolo 3, comma 1, e di cui al comma 2 del presente articolo e le vigenti procedure di bilancio, definendo in particolare le regole di alimentazione del predetto Fondo
per la riduzione strutturale della pressione fiscale, le cui
dotazioni possono essere destinate soltanto ai fini indicati dalla normativa istitutiva del Fondo medesimo.
Art. 5. Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione
fiscale
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad attuare, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, in applicazione
dei seguenti princìpi e criteri direttivi, coordinandoli
con quelli contenuti nella raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva
n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012:
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
a) definire la condotta abusiva come uso distorto di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione;
b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale e, a tal fine:
1) considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva;
2) escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali; stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche
quelle che non producono necessariamente una
redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente;
c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici
di cui alla lettera a) all’amministrazione finanziaria e
il conseguente potere della stessa di disconoscere il
relativo risparmio di imposta;
d) disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il
disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a
una normale logica di mercato, prevedendo, invece,
che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza
di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti
che giustifichino il ricorso a tali strumenti;
e) prevedere una formale e puntuale individuazione della
condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento
fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso;
f) prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni
fase del procedimento di accertamento tributario.
Art. 6. Gestione del rischio fiscale, governance aziendale, tutoraggio, rateizzazione dei debiti tributari e
revisione della disciplina degli interpelli
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1, norme che prevedano forme di comunicazione e di cooperazione rafforzata, anche in termini preventivi rispetto alle scadenze fiscali, tra
le imprese e l’amministrazione finanziaria, nonché, per i
soggetti di maggiori dimensioni, la previsione di sistemi
LEGISLAZIONE
aziendali strutturati di gestione e di controllo del rischio
fiscale, con una chiara attribuzione di responsabilità nel
quadro del complessivo sistema dei controlli interni,
prevedendo a tali fini l’organizzazione di adeguate strutture dell’amministrazione finanziaria dedicate alle predette attività di comunicazione e cooperazione, facendo
ricorso alle strutture e alle professionalità già esistenti
nell’ambito delle amministrazioni pubbliche.
2. Il Governo è altresì delegato a prevedere, nell’introduzione delle norme di cui al comma 1, incentivi sotto forma di minori adempimenti per i contribuenti e di
riduzioni delle eventuali sanzioni, anche in relazione alla disciplina da introdurre ai sensi dell’articolo 8 e ai criteri di limitazione e di esclusione della responsabilità
previsti dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231,
nonché forme specifiche di interpello preventivo con
procedura abbreviata.
3. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1, disposizioni per revisionare
e per ampliare il sistema di tutoraggio al fine di garantire
una migliore assistenza ai contribuenti, in particolare a
quelli di minori dimensioni e operanti come persone fisiche, per l’assolvimento degli adempimenti, per la predisposizione delle dichiarazioni e per il calcolo delle imposte, prevedendo a tal fine anche la possibilità di invio ai
contribuenti e di restituzione da parte di questi ultimi di
modelli precompilati, nonché al fine di assisterli nel processo di consolidamento della capacità fiscale correlato
alla crescita e alle caratteristiche strutturali delle imprese.
4. Nell’introduzione delle norme di cui al comma 3 il
Governo prevede l’istituzione di forme premiali, consistenti in una riduzione degli adempimenti, in favore dei
contribuenti che aderiscano ai sistemi di tutoraggio.
5. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1, disposizioni volte ad ampliare l’ambito applicativo dell’istituto della rateizzazione dei debiti tributari, in coerenza con la finalità della
lotta all’evasione fiscale e contributiva e con quella di garantire la certezza, l’efficienza e l’efficacia dell’attività di
riscossione, in particolare:
a) semplificando gli adempimenti amministrativi e patrimoniali a carico dei contribuenti che intendono
avvalersi del predetto istituto;
b) consentendo al contribuente, anche ove la riscossione del debito sia concentrata nell’atto di accertamento, di attivare meccanismi automatici previsti dalla
legge per la concessione della dilazione del pagamento prima dell’affidamento in carico all’agente della riscossione, ove ricorrano specifiche evidenze che dimostrino una temporanea situazione di obiettiva difficoltà, eliminando le differenze tra la rateizzazione
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conseguente all’utilizzo di istituti deflativi del contenzioso, ivi inclusa la conciliazione giudiziale, e la
rateizzazione delle somme richieste in conseguenza
di comunicazioni di irregolarità inviate ai contribuenti a seguito della liquidazione delle dichiarazioni
o dei controlli formali;
c) procedendo ad una complessiva armonizzazione e
omogeneizzazione delle norme in materia di rateizzazione dei debiti tributari, a tal fine anche riducendo il
divario, comunque a favore del contribuente, tra il
numero delle rate concesse a seguito di riscossione
sui carichi di ruolo e numero delle rate previste nel
caso di altre forme di rateizzazione;
d) procedendo ad una revisione della disciplina sanzionatoria, a tal fine prevedendo che ritardi di breve durata
nel pagamento di una rata, ovvero errori di limitata
entità nel versamento delle rate, non comportino l’automatica decadenza dal beneficio della rateizzazione;
e) monitorando, ai fini di una sua migliore armonizzazione, il regime di accesso alla rateizzazione dei debiti
fiscali, anche in relazione ai risultati conseguiti in termini di effettiva riscossione, con procedure che garantiscano la massima trasparenza e oggettività.
6. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1, disposizioni per la revisione generale della disciplina degli interpelli, allo scopo di
garantirne una maggiore omogeneità, anche ai fini della
tutela giurisdizionale e di una maggiore tempestività
nella redazione dei pareri, procedendo in tale contesto
all’eliminazione delle forme di interpello obbligatorio
nei casi in cui non producano benefìci ma solo aggravi
per i contribuenti e per l’amministrazione.
Art. 7. Semplificazione [7]
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato a provvedere, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1:
a) alla revisione sistematica dei regimi fiscali e al loro
riordino, al fine di eliminare complessità superflue;
b) alla revisione degli adempimenti, con particolare riferimento a quelli superflui o che diano luogo, in tutto o in parte, a duplicazioni anche in riferimento alla
struttura delle addizionali regionali e comunali, ovvero a quelli che risultino di scarsa utilità per l’amministrazione finanziaria ai fini dell’attività di controllo
e di accertamento o comunque non conformi al
principio di proporzionalità;
c) alla revisione, a fini di semplificazione, delle funzioni
dei sostituti d’imposta e di dichiarazione, dei centri
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
di assistenza fiscale, i quali devono fornire adeguate
garanzie di idoneità tecnico-organizzativa, e degli intermediari fiscali, con potenziamento dell’utilizzo
dei sistemi informatici, avendo anche riguardo ai termini dei versamenti delle addizionali comunali e regionali all’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Note:
[7] Vedi, anche, il D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175.
Art. 8. Revisione del sistema sanzionatorio
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato a procedere, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1 alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, prevedendo: la punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di
sei anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di
punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e
all’utilizzo di documentazione falsa, per i quali non possono comunque essere ridotte le pene minime previste
dalla legislazione vigente alla data di entrata in vigore del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con
modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148;
l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e
quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie; l’efficacia attenuante o esimente dell’adesione
alle forme di comunicazione e di cooperazione rafforzata
di cui all’articolo 6, comma 1; la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del
principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti; la possibilità di ridurre le sanzioni
per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto di adeguate soglie di punibilità; l’estensione della possibilità,
per l’autorità giudiziaria, di affidare in custodia giudiziale
i beni sequestrati nell’ambito di procedimenti penali relativi a delitti tributari agli organi dell’amministrazione finanziaria che ne facciano richiesta al fine di utilizzarli direttamente per le proprie esigenze operative.
2. Il Governo è delegato altresì a definire, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1, la portata applicativa della
disciplina del raddoppio dei termini, prevedendo che tale
raddoppio si verifichi soltanto in presenza di effettivo invio della denuncia, ai sensi dell’articolo 331 del codice di
procedura penale, effettuato entro un termine correlato
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
allo scadere del termine ordinario di decadenza, fatti comunque salvi gli effetti degli atti di controllo già notificati alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi.
Art. 9. Rafforzamento dell’attività conoscitiva e di
controllo
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, norme per il rafforzamento
dei controlli, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) rafforzare i controlli mirati da parte dell’amministrazione finanziaria, utilizzando in modo appropriato e
completo gli elementi contenuti nelle banche di dati
e prevedendo, ove possibile, sinergie con altre autorità pubbliche nazionali, europee e internazionali, al fine di migliorare l’efficacia delle metodologie di controllo, con particolare rafforzamento del contrasto
delle frodi carosello, degli abusi nelle attività di incasso e trasferimento di fondi (money transfer) e di trasferimento di immobili, dei fenomeni di alterazione
delle basi imponibili attraverso un uso distorto del
transfer pricing e di delocalizzazione fittizia di impresa, nonché delle fattispecie di elusione fiscale;
b) prevedere l’obbligo di garantire l’assoluta riservatezza
nell’attività conoscitiva e di controllo fino alla completa definizione dell’accertamento; prevedere l’effettiva osservanza, nel corso dell’attività di controllo,
del principio di ridurre al minimo gli ostacoli al normale svolgimento dell’attività economica del contribuente, garantendo in ogni caso il rispetto del principio di proporzionalità; rafforzare il contraddittorio
nella fase di indagine e la subordinazione dei successivi atti di accertamento e di liquidazione all’esaurimento del contraddittorio procedimentale;
c) potenziare e razionalizzare i sistemi di tracciabilità
dei pagamenti, prevedendo espressamente i metodi
di pagamento sottoposti a tracciabilità e promuovendo adeguate forme di coordinamento con gli Stati
esteri, in particolare con gli Stati membri dell’Unione europea, nonché favorendo una corrispondente
riduzione dei relativi oneri bancari;
d) incentivare, mediante una riduzione degli adempimenti amministrativi e contabili a carico dei contribuenti, l’utilizzo della fatturazione elettronica e la
trasmissione telematica dei corrispettivi, nonché di
adeguati meccanismi di riscontro tra la documentazione in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA)
e le transazioni effettuate, potenziando i relativi sistemi di tracciabilità dei pagamenti;
LEGISLAZIONE
e) verificare la possibilità di introdurre meccanismi atti
a contrastare l’evasione dell’IVA dovuta sui beni e
servizi intermedi, facendo in particolare ricorso al
meccanismo dell’inversione contabile (reverse charge), nonché di introdurre il meccanismo della deduzione base da base per alcuni settori;
f ) rafforzare la tracciabilità dei mezzi di pagamento per
il riconoscimento, ai fini fiscali, di costi, oneri e spese
sostenuti, e prevedere disincentivi all’utilizzo del
contante, nonché incentivi all’utilizzo della moneta
elettronica;
g) prevedere specifici strumenti di controllo relativamente alle cessioni di beni effettuate attraverso distributori automatici;
h) procedere alla revisione della disciplina dell’organizzazione delle agenzie fiscali, in funzione delle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di potenziamento dell’efficienza dell’azione amministrativa,
nonché ai fini di una più razionale ripartizione delle
funzioni tra le diverse agenzie;
i) prevedere l’introduzione, in linea con le raccomandazioni degli organismi internazionali e con le eventuali decisioni in sede europea, tenendo anche conto
delle esperienze internazionali, di sistemi di tassazione delle attività transnazionali, ivi comprese quelle
connesse alla raccolta pubblicitaria, basati su adeguati meccanismi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale;
l) rafforzare il controllo e gli indirizzi strategico-programmatici del Ministero dell’economia e delle finanze sulla società Equitalia.
Art. 10. Revisione del contenzioso tributario e della
riscossione degli enti locali
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, norme per il rafforzamento
della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando
la terzietà dell’organo giudicante, nonché per l’accrescimento dell’efficienza nell’esercizio dei poteri di riscossione
delle entrate, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) rafforzamento e razionalizzazione dell’istituto della
conciliazione nel processo tributario, anche a fini di
deflazione del contenzioso e di coordinamento con la
disciplina del contraddittorio fra il contribuente e
l’amministrazione nelle fasi amministrative di accertamento del tributo, con particolare riguardo ai contribuenti nei confronti dei quali sono configurate
violazioni di minore entità;
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LEGISLAZIONE
b) incremento della funzionalità della giurisdizione tributaria, in particolare attraverso interventi riguardanti:
1) la distribuzione territoriale dei componenti delle
commissioni tributarie;
2) l’eventuale composizione monocratica dell’organo
giudicante in relazione a controversie di modica
entità e comunque non attinenti a fattispecie connotate da particolari complessità o rilevanza economico-sociale, con conseguente regolazione, secondo i criteri propri del processo civile, delle ipotesi di
inosservanza dei criteri di attribuzione delle controversie alla cognizione degli organi giudicanti
monocratici o collegiali, con connessa disciplina
dei requisiti di professionalità necessari per l’esercizio della giurisdizione in forma monocratica;
3) la revisione delle soglie in relazione alle quali il
contribuente può stare in giudizio anche personalmente e l’eventuale ampliamento dei soggetti
abilitati a rappresentare i contribuenti dinanzi alle
commissioni tributarie;
4) il massimo ampliamento dell’utilizzazione della
posta elettronica certificata per le comunicazioni
e le notificazioni;
5) l’attribuzione e la durata, anche temporanea e rinnovabile, degli incarichi direttivi;
6) i criteri di determinazione del trattamento economico spettante ai componenti delle commissioni
tributarie;
7) la semplificazione e razionalizzazione della disciplina relativa al meccanismo di elezione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, in particolare attraverso la concentrazione delle relative
competenze e funzioni direttamente in capo al
Consiglio medesimo e la previsione di forme e
modalità procedimentali idonee ad assicurare l’ordinato e tempestivo svolgimento delle elezioni;
8) il rafforzamento della qualificazione professionale
dei componenti delle commissioni tributarie, al
fine di assicurarne l’adeguata preparazione specialistica;
9) l’uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario;
10) la previsione dell’immediata esecutorietà, estesa
a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie;
11) l’individuazione di criteri di maggior rigore nell’applicazione del principio della soccombenza ai
fini del carico delle spese del giudizio, con conseguente limitazione del potere discrezionale del
giudice di disporre la compensazione delle spese
in casi diversi dalla soccombenza reciproca;
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
12) il rafforzamento del contenuto informativo della
relazione ministeriale sull’attività delle commissioni tributarie;
c) riordino della disciplina della riscossione delle entrate degli enti locali, nel rispetto della loro autonomia,
al fine di:
1) assicurare certezza, efficienza ed efficacia nell’esercizio dei poteri di riscossione, rivedendo la normativa vigente e coordinandola in un testo unico
di riferimento che recepisca, attraverso la revisione della disciplina dell’ingiunzione di pagamento
prevista dal testo unico di cui al regio decreto 14
aprile 1910, n. 639, le procedure e gli istituti previsti per la gestione dei ruoli di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 29 settembre 1973,
n. 602, adattandoli alle peculiarità della riscossione locale;
2) prevedere gli adattamenti e le innovazioni normative e procedurali più idonei ad assicurare la semplificazione delle procedure di recupero dei crediti di modesta entità, nonché dispositivi, adottabili
facoltativamente dagli enti locali, di definizione
agevolata dei crediti già avviati alla riscossione coattiva, con particolare riguardo ai crediti di minore entità unitaria;
3) assicurare competitività, certezza e trasparenza nei
casi di esternalizzazione delle funzioni in materia
di accertamento e di riscossione, nonché adeguati
strumenti di garanzia dell’effettività e della tempestività dell’acquisizione diretta da parte degli
enti locali delle entrate riscosse, attraverso la revisione dei requisiti per l’iscrizione all’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre
1997, n. 446, e successive modificazioni, l’emanazione di linee guida per la redazione di capitolati di gara e per la formulazione dei contratti di affidamento o di servizio, l’introduzione di adeguati strumenti di controllo, anche ispettivo, la pubblicizzazione, anche on-line, dei contratti stipulati e l’allineamento degli oneri e dei costi in una
misura massima stabilita con riferimento all’articolo 17 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n.
112, e successive modificazioni, o con riferimento
ad altro congruo parametro;
4) prevedere l’affidamento dei predetti servizi nel rispetto della normativa europea, nonché l’adeguata valorizzazione e messa a disposizione delle autonomie locali delle competenze tecniche, organizzative e specialistiche in materia di entrate degli enti locali accumulate presso le società iscritte
all’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, nonché presso le aziende del gruppo Equitalia, anche attraverso un riassetto organizzativo
del gruppo stesso che tenda ad una razionale riallocazione delle risorse umane a disposizione;
5) definire, anche con il coinvolgimento dei comuni
e delle regioni, un quadro di iniziative volto a rafforzare, in termini organizzativi, all’interno degli
enti locali, le strutture e le competenze specialistiche utili ad accrescere le capacità complessive di
gestione dei propri tributi, nonché di accertamento e recupero delle somme evase; individuare, nel
rispetto dei vincoli di finanza pubblica, idonee
iniziative per rafforzare all’interno degli enti locali
le strutture e le competenze specialistiche necessarie per la gestione diretta della riscossione, ovvero
per il controllo delle strutture esterne affidatarie,
anche definendo le modalità e i tempi per la gestione associata di tali funzioni; riordinare la disciplina delle aziende pubbliche locali preposte alla riscossione e alla gestione delle entrate in regime di affidamento diretto;
6) assoggettare le attività di riscossione coattiva a regole pubblicistiche, a garanzia dei contribuenti,
prevedendo, in particolare, che gli enti locali possano riscuotere i tributi e le altre entrate con lo
strumento del ruolo in forma diretta o con società
interamente partecipate ovvero avvalendosi, in
via transitoria e nelle more della riorganizzazione
interna degli enti stessi, delle società del gruppo
Equitalia, subordinatamente alla trasmissione a
queste ultime di informazioni idonee all’identificazione della natura e delle ragioni del credito,
con la relativa documentazione;
7) prevedere un codice deontologico dei soggetti affidatari dei servizi di riscossione e degli ufficiali
della riscossione, da adottare con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze;
8) prevedere specifiche cause di incompatibilità per i
rappresentanti legali, amministratori o componenti degli organi di controllo interni dei soggetti
affidatari dei servizi;
d) rafforzamento, costante aggiornamento, piena informatizzazione e condivisione tra gli uffici competenti
dei meccanismi di monitoraggio e analisi statistica
circa l’andamento, in pendenza di giudizio, e circa gli
esiti del contenzioso tributario, al fine di assicurare la
tempestività, l’omogeneità e l’efficacia delle scelte
dell’amministrazione finanziaria in merito alla gestione delle controversie, nonché al fine di verificare
la necessità di eventuali revisioni degli orientamenti
LEGISLAZIONE
interpretativi dell’amministrazione stessa, ovvero di
interventi di modifica della normativa tributaria vigente;
e) contemperamento delle esigenze di efficacia della riscossione con i diritti del contribuente, in particolare
per i profili attinenti alla tutela dell’abitazione, allo
svolgimento dell’attività professionale e imprenditoriale, alla salvaguardia del contribuente in situazioni
di grave difficoltà economica, con particolare riferimento alla disciplina della pignorabilità dei beni e
della rateizzazione del debito.
Art. 11. Revisione dell’imposizione sui redditi di impresa e di lavoro autonomo e sui redditi soggetti a tassazione separata; previsione di regimi forfetari per contribuenti di minori dimensioni
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1, norme per la ridefinizione
dell’imposizione sui redditi, secondo i seguenti princìpi
e criteri direttivi:
a) assimilazione al regime dell’imposta sul reddito delle
società (IRES) dell’imposizione sui redditi di impresa, compresi quelli prodotti in forma associata dai
soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche (IRPEF), assoggettandoli a un’imposta sul
reddito imprenditoriale, con aliquota proporzionale
allineata a quella dell’IRES, e prevedendo che siano
deducibili dalla base imponibile della predetta imposta le somme prelevate dall’imprenditore e dai soci e
che le predette somme concorrano alla formazione
del reddito complessivo imponibile ai fini dell’IRPEF dell’imprenditore e dei soci;
b) istituzione di regimi semplificati per i contribuenti di
minori dimensioni, nonché, per i contribuenti di dimensioni minime, di regimi che prevedano il pagamento forfetario di un’unica imposta in sostituzione
di quelle dovute, purché con invarianza dell’importo
complessivo dovuto, prevedendo eventuali differenziazioni in funzione del settore economico e del tipo
di attività svolta, con eventuale premialità per le nuove
attività produttive, comprese eventuali agevolazioni in
favore dei soggetti che sostengono costi od oneri per il
ricorso a mezzi di pagamento tracciabili, coordinandoli con analoghi regimi vigenti e con i regimi della
premialità e della trasparenza previsti dall’articolo 10
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011,
n. 214, e successive modificazioni; coordinamento e
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adeguamento della disciplina dei minimi contributivi
con i regimi fiscali di cui alla presente lettera;
c) previsione di possibili forme di opzionalità;
d) semplificazione delle modalità di imposizione delle indennità e somme, comunque denominate, percepite
in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro,
nonché di altre somme soggette a tassazione separata.
2. Nell’ambito dell’esercizio della delega di cui al
comma 1, il Governo chiarisce la definizione di autonoma organizzazione, anche mediante la definizione di criteri oggettivi, adeguandola ai più consolidati princìpi
desumibili dalla fonte giurisprudenziale, ai fini della
non assoggettabilità dei professionisti, degli artisti e dei
piccoli imprenditori all’imposta regionale sulle attività
produttive (IRAP).
Art. 12. Razionalizzazione della determinazione del
reddito di impresa e della produzione netta
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, norme per ridurre le incertezze nella determinazione del reddito e della produzione
netta e per favorire l’internazionalizzazione dei soggetti
economici operanti in Italia, in applicazione delle raccomandazioni degli organismi internazionali e dell’Unione
europea, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) introduzione di criteri chiari e coerenti con la disciplina di redazione del bilancio, in particolare per determinare il momento del realizzo delle perdite su crediti, ed estensione del regime fiscale previsto per le procedure concorsuali anche ai nuovi istituti introdotti
dalla riforma del diritto fallimentare e dalla normativa
sul sovraindebitamento, nonché alle procedure similari previste negli ordinamenti di altri Stati;
b) revisione della disciplina impositiva riguardante le
operazioni transfrontaliere, con particolare riferimento all’individuazione della residenza fiscale, al regime di imputazione per trasparenza delle società
controllate estere e di quelle collegate, al regime di
rimpatrio dei dividendi provenienti dagli Stati con
regime fiscale privilegiato, al regime di deducibilità
dei costi di transazione commerciale dei soggetti insediati in tali Stati, al regime di applicazione delle ritenute transfrontaliere, al regime dei lavoratori all’estero e dei lavoratori transfrontalieri, al regime di
tassazione delle stabili organizzazioni all’estero e di
quelle di soggetti non residenti insediate in Italia,
nonché al regime di rilevanza delle perdite di società
del gruppo residenti all’estero;
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
c) revisione dei regimi di deducibilità degli ammortamenti, delle spese generali, degli interessi passivi e di
particolari categorie di costi, salvaguardando e specificando il concetto di inerenza e limitando le differenziazioni tra settori economici;
d) revisione, razionalizzazione e coordinamento della
disciplina delle società di comodo e del regime dei
beni assegnati ai soci o ai loro familiari, nonché delle
norme che regolano il trattamento dei cespiti in occasione dei trasferimenti di proprietà, con l’obiettivo,
da un lato, di evitare vantaggi fiscali dall’uso di schermi societari per utilizzo personale di beni aziendali o
di società di comodo e, dall’altro, di dare continuità
all’attività produttiva in caso di trasferimento della
proprietà, anche tra familiari;
e) armonizzazione del regime di tassazione degli incrementi di valore emergenti in sede di trasferimento
d’azienda a titolo oneroso, allineandolo, ove possibile, a quello previsto per i conferimenti.
Art. 13. Razionalizzazione dell’imposta sul valore aggiunto e di altre imposte indirette [8]
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti
legislativi di cui all’articolo 1, norme per il recepimento della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28
novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta
sul valore aggiunto, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) razionalizzazione, ai fini della semplificazione, dei sistemi speciali in funzione della particolarità dei settori interessati;
b) attuazione del regime del gruppo ai fini dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), previsto
dall’articolo 11 della direttiva 2006/112/CE.
2. Il Governo è delegato, altresì, ad introdurre, con i
decreti legislativi di cui all’articolo 1, norme per la revisione delle imposte sulla produzione e sui consumi, di
cui al testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative, di cui al decreto
legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, delle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e delle altre imposte di trascrizione e di trasferimento, nonché delle imposte sulle concessioni governative, sulle assicurazioni
e sugli intrattenimenti, secondo i seguenti princìpi e
criteri direttivi:
a) semplificazione degli adempimenti e razionalizzazione
delle aliquote;
LEGISLAZIONE
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
b) accorpamento o soppressione di fattispecie particolari;
c) coordinamento con le disposizioni attuative della
legge 5 maggio 2009, n. 42.
Note:
[8] In attuazione di quanto disposto dal presente articolo vedi: per la tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonché dei fiammiferi, il D.Lgs. 15 dicembre 2014, n. 188.
e)
Art. 14. Giochi pubblici
In vigore dal 27 marzo 2014
1. Il Governo è delegato ad attuare, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, il riordino delle disposizioni
vigenti in materia di giochi pubblici, riordinando tutte
le norme in vigore in un codice delle disposizioni sui
giochi, fermo restando il modello organizzativo fondato
sul regime concessorio e autorizzatorio, in quanto indispensabile per la tutela della fede, dell’ordine e della sicurezza pubblici, per il contemperamento degli interessi
erariali con quelli locali e con quelli generali in materia
di salute pubblica, per la prevenzione del riciclaggio dei
proventi di attività criminose, nonché per garantire il regolare afflusso del prelievo tributario gravante sui giochi.
2. Il riordino di cui al comma 1 è effettuato nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) raccolta sistematica e organica delle disposizioni vigenti in funzione della loro portata generale ovvero
della loro disciplina settoriale, anche di singoli giochi, e loro adeguamento ai più recenti princìpi, anche di fonte giurisprudenziale, stabiliti al livello dell’Unione europea, nonché all’esigenza di prevenire i
fenomeni di ludopatia ovvero di gioco d’azzardo patologico e di gioco minorile, con abrogazione espressa delle disposizioni incompatibili ovvero non più attuali, fatte salve, comunque, le previsioni in materia
di cui agli articoli 5 e 7 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189;
b) riserva alla legge ordinaria o agli atti aventi forza di
legge ordinaria, nel rispetto dell’articolo 23 della Costituzione, delle materie riguardanti le fattispecie imponibili, i soggetti passivi e la misura dell’imposta;
c) disciplina specifica dei singoli giochi, definizione
delle condizioni generali di gioco e delle relative regole tecniche, anche d’infrastruttura, con provvedimenti direttoriali generali;
d) riordino delle disposizioni vigenti in materia di disciplina del prelievo erariale sui singoli giochi, al fine di
f)
g)
h)
assicurare il riequilibrio del relativo prelievo fiscale, distinguendo espressamente quello di natura tributaria
in funzione delle diverse tipologie di gioco pubblico, e
al fine di armonizzare le percentuali di aggio o compenso riconosciute ai concessionari, ai gestori e agli
esercenti e le percentuali destinate a vincita (payout),
nonché riordino delle disposizioni vigenti in materia
di disciplina degli obblighi di rendicontazione;
introdurre e garantire l’applicazione di regole trasparenti e uniformi nell’intero territorio nazionale in
materia di titoli abilitativi all’esercizio dell’offerta di
gioco, di autorizzazioni e di controlli, garantendo
forme vincolanti di partecipazione dei comuni competenti per territorio al procedimento di autorizzazione e di pianificazione, che tenga conto di parametri di distanza da luoghi sensibili validi per l’intero
territorio nazionale, della dislocazione locale di sale
da gioco e di punti di vendita in cui si esercita come
attività principale l’offerta di scommesse su eventi
sportivi e non sportivi, nonché in materia di installazione degli apparecchi idonei per il gioco lecito di cui
all’articolo 110, comma 6, lettere a) e b), del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, comunque con riserva allo Stato della definizione delle regole necessarie per esigenze di ordine e
sicurezza pubblica, assicurando la salvaguardia delle
discipline regolatorie nel frattempo emanate a livello
locale che risultino coerenti con i princìpi delle norme di attuazione della presente lettera;
introduzione, anche graduale, del titolo abilitativo
unico all’esercizio di offerta di gioco e statuizione del
divieto di rilascio di tale titolo abilitativo, e, correlativamente, della nullità assoluta di tali titoli, qualora rilasciati, in ambiti territoriali diversi da quelli pianificati, ai sensi della lettera e), per la dislocazione locale
di sale da gioco e di punti di vendita di gioco, nonché
per l’installazione degli apparecchi di cui all’articolo
110, comma 6, lettere a) e b), del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni;
revisione degli aggi e compensi spettanti ai concessionari e agli altri operatori secondo un criterio di progressività legata ai volumi di raccolta delle giocate;
anche al fine di contrastare più efficacemente il gioco
illegale e le infiltrazioni delle organizzazioni criminali
nell’esercizio dei giochi pubblici, riordino e rafforzamento della disciplina in materia di trasparenza e di
requisiti soggettivi e di onorabilità dei soggetti che,
direttamente o indirettamente, controllino o partecipino al capitale delle società concessionarie dei giochi
83
84
LEGISLAZIONE
pubblici, nonché degli esponenti aziendali, prevedendo altresì specifiche cause di decadenza dalle concessioni o cause di esclusione dalle gare per il rilascio
delle concessioni, anche per società fiduciarie, fondi
di investimento e trust che detengano, anche indirettamente, partecipazioni al capitale o al patrimonio di
società concessionarie di giochi pubblici e che risultino non aver rispettato l’obbligo di dichiarare l’identità del soggetto indirettamente partecipante;
i) estensione della disciplina in materia di trasparenza e
di requisiti soggettivi e di onorabilità di cui alla lettera h) a tutti i soggetti, costituiti in qualsiasi forma organizzativa, anche societaria, che partecipano alle filiere dell’offerta attivate dalle società concessionarie
dei giochi pubblici, integrando, ove necessario, le discipline settoriali esistenti;
l) introduzione di un regime generale di gestione dei
casi di crisi irreversibile del rapporto concessorio,
specialmente in conseguenza di provvedimenti di revoca o di decadenza, in modo da assicurare, senza
pregiudizio per gli interessi di tutela dei giocatori e di
salvaguardia delle entrate erariali, la continuità dell’erogazione dei servizi di gioco;
m) verifica, con riferimento alle concessioni sui giochi,
dell’efficacia della normativa vigente in materia di
conflitti di interessi;
n) riordino e integrazione delle disposizioni vigenti relative ai controlli e all’accertamento dei tributi gravanti
sui giochi, al fine di rafforzare l’efficacia preventiva e
repressiva nei confronti dell’evasione e delle altre violazioni in materia, ivi comprese quelle concernenti il
rapporto concessorio;
o) riordino e integrazione del vigente sistema sanzionatorio, penale e amministrativo, al fine di aumentarne
l’efficacia dissuasiva e l’effettività, prevedendo sanzioni aggravate per le violazioni concernenti il gioco
on-line;
p) revisione, secondo criteri di maggiore rigore, specificità e trasparenza, tenuto conto dell’eventuale normativa dell’Unione europea di settore, della disciplina in materia di qualificazione degli organismi di certificazione degli apparecchi da intrattenimento e divertimento, nonché della disciplina riguardante le responsabilità di tali organismi e quelle dei concessionari per i casi di certificazioni non veritiere, ovvero di
utilizzo di apparecchi non conformi ai modelli certificati; revisione della disciplina degli obblighi, delle
responsabilità e delle garanzie, in particolare patrimoniali, proprie dei produttori o distributori di programmi informatici per la gestione delle attività di
gioco e della relativa raccolta;
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
q) razionalizzazione territoriale della rete di raccolta del
gioco, anche in funzione della pianificazione della dislocazione locale di cui alla lettera e) del presente
comma, a partire da quello praticato mediante gli apparecchi di cui all’articolo 110, comma 6, lettere a) e
b)del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di
cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, comunque improntata al criterio
della riduzione e della progressiva concentrazione della raccolta di gioco in ambienti sicuri e controllati,
con relativa responsabilità del concessionario ovvero
del titolare dell’esercizio; individuazione dei criteri di
riordino e sviluppo della dislocazione territoriale della
rete di raccolta del gioco, anche sulla base di una revisione del limite massimo degli apparecchi da gioco
presenti in ogni esercizio, della previsione di una superficie minima per gli esercizi che li ospitano e della
separazione graduale degli spazi nei quali vengono installati; revisione della disciplina delle licenze di pubblica sicurezza, di cui al predetto testo unico, idonea a
garantire, previa definizione delle situazioni controverse, controlli più efficaci ed efficienti in ordine all’effettiva titolarità di provvedimenti unitari che abilitano in via esclusiva alla raccolta lecita del gioco;
r) nel rispetto dei limiti di compatibilità con l’ordinamento dell’Unione europea, allineamento, anche
tendenziale, della durata delle diverse concessioni di
gestione e raccolta del gioco, previo versamento da
parte del concessionario, per la durata della proroga
finalizzata ad assicurare l’allineamento, di una somma commisurata a quella originariamente dovuta per
il conseguimento della concessione;
s) coordinamento delle disposizioni in materia di giochi con quelle di portata generale in materia di emersione di attività economiche e finanziarie detenute in
Stati aventi regimi fiscali privilegiati;
t) deflazione, anche agevolata e accelerata, del contenzioso in materia di giochi pubblici o con lo stesso comunque connesso, al fine di favorire il tempestivo
conseguimento degli obiettivi di cui alle lettere q) e r);
u) attuazione di un piano straordinario di controlli volto a
contrastare la pratica del gioco, in qualunque sua forma,
svolto con modalità non conformi all’assetto regolatorio stabilito dallo Stato per la pratica del gioco lecito;
v) definizione di un concorso statale, a partire dall’esercizio finanziario in corso alla data di entrata in vigore
del decreto legislativo recante la disciplina di cui alla
presente lettera, a valere su quota parte delle risorse
erariali derivanti dai giochi pubblici, mediante istituzione di un apposito fondo, la cui dotazione è stabilita annualmente con la legge di stabilità, finalizzato
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
prioritariamente al contrasto del gioco d’azzardo patologico, anche in concorso con la finanza regionale e
locale, finanziato attraverso modifiche mirate alla disciplina fiscale dei giochi pubblici idonee ad incrementare le risorse erariali;
z) rafforzamento del monitoraggio, controllo e verifica
circa il rispetto e l’efficacia delle disposizioni vigenti in
materia di divieto di pubblicità per i giochi con vincita
in denaro, soprattutto per quelli on-line, anche ai fini
della revisione della disciplina in materia, con particolare riguardo all’obiettivo della tutela dei minori;
aa) introduzione del divieto di pubblicità nelle trasmissioni radiofoniche e televisive nel rispetto dei princìpi sanciti in sede europea relativi alla tutela dei minori per i giochi con vincita in denaro che inducono
comportamenti compulsivi;
bb) previsione di una limitazione massima della pubblicità riguardante il gioco on-line, in particolare di
quella realizzata da soggetti che non conseguono
concessione statale di gioco;
cc) introduzione di un meccanismo di autoesclusione
dal gioco, anche basato su un registro nazionale al
quale possono iscriversi i soggetti che chiedono di
essere esclusi dalla partecipazione in qualsiasi forma
ai giochi con vincita in denaro;
dd) introduzione di modalità di pubblico riconoscimento agli esercizi commerciali che si impegnano,
per un determinato numero di anni, a rimuovere o a
non installare apparecchiature per giochi con vincita in denaro;
ee) previsione di maggiori forme di controllo, anche per
via telematica, nel rispetto del diritto alla riservatezza e tenendo conto di adeguate soglie, sul rapporto
tra giocate, identità del giocatore e vincite;
ff) anche a fini di rilancio, in particolare, del settore ippico:
1) promozione dell’istituzione della Lega ippica italiana, associazione senza fine di lucro, soggetta alla
vigilanza del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, cui si iscrivono gli allevatori, i
proprietari di cavalli e le società di gestione degli
ippodromi che soddisfano i requisiti minimi prestabiliti; previsione che la disciplina degli organi di
governo della Lega ippica italiana sia improntata a
criteri di equa e ragionevole rappresentanza delle
diverse categorie di soci e che la struttura organizzativa fondamentale preveda organismi tecnici nei
quali sia assicurata la partecipazione degli allenatori, dei guidatori, dei fantini, dei gentlemen e degli
altri soggetti della filiera ippica; il concorso statale
finalizzato all’istituzione e al funzionamento della
Lega ippica italiana è definito in modo tale da assi-
LEGISLAZIONE
curare la neutralità finanziaria del medesimo decreto legislativo attuativo, a valere su quota parte
delle risorse del fondo di cui al numero 2);
2) previsione di un fondo annuale di dotazione per
lo sviluppo e la promozione del settore ippico, alimentato mediante quote versate dagli iscritti alla
Lega ippica italiana nonché mediante quote della
raccolta delle scommesse ippiche, del gettito derivante da scommesse su eventi ippici virtuali e da
giochi pubblici raccolti all’interno degli ippodromi, attraverso la cessione dei diritti televisivi sugli
eventi ippici, nonché da eventuali contributi erariali straordinari decrescenti fino all’anno 2017;
3) attribuzione al Ministero delle politiche agricole
alimentari e forestali di funzioni di regolazione e
controllo di secondo livello delle corse ippiche,
nonché alla Lega ippica italiana, anche in collaborazione con l’amministrazione finanziaria, di funzioni, fra l’altro, di organizzazione degli eventi ippici,
di controllo di primo livello sulla regolarità delle
corse, di ripartizione e di rendicontazione del fondo
per lo sviluppo e la promozione del settore ippico;
4) nell’ambito del riordino della disciplina sulle
scommesse ippiche, previsione della percentuale
della raccolta totale, compresa tra il 74 e il 76 per
cento, da destinare al pagamento delle vincite;
gg) previsione di una relazione alle Camere sul settore
del gioco pubblico, presentata dal Ministro dell’economia e delle finanze entro il 31 dicembre di ogni
anno, contenente i dati sullo stato delle concessioni,
sui volumi della raccolta, sui risultati economici della gestione e sui progressi in materia di tutela dei
consumatori di giochi e della legalità.
3. I decreti legislativi di attuazione del comma 2, lettera ff ), sono adottati su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle
politiche agricole alimentari e forestali. Sui relativi schemi, nel rispetto della procedura di cui all’articolo 1, è acquisito il parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari.
Art. 15. Fiscalità energetica e ambientale
In vigore dal 27 marzo 2014
1. In considerazione delle politiche e delle misure
adottate dall’Unione europea per lo sviluppo sostenibile
e per la green economy, il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, nuove
forme di fiscalità, in raccordo con la tassazione già vigente a livello regionale e locale e nel rispetto del princi-
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LEGISLAZIONE
pio della neutralità fiscale, finalizzate a orientare il mercato verso modi di consumo e produzione sostenibili, e a
rivedere la disciplina delle accise sui prodotti energetici e
sull’energia elettrica, anche in funzione del contenuto di
carbonio e delle emissioni di ossido di azoto e di zolfo, in
conformità con i princìpi che verranno adottati con l’approvazione della proposta di modifica della direttiva
2003/96/CE di cui alla comunicazione COM (2011)
169 della Commissione, del 13 aprile 2011, prevedendo, nel perseguimento della finalità del doppio dividendo, che il maggior gettito sia destinato prioritariamente
alla riduzione della tassazione sui redditi, in particolare
sul lavoro generato dalla green economy, alla diffusione
e innovazione delle tecnologie e dei prodotti a basso
contenuto di carbonio e al finanziamento di modelli di
produzione e consumo sostenibili, nonché alla revisione
del finanziamento dei sussidi alla produzione di energia
da fonti rinnovabili. La decorrenza degli effetti delle disposizioni contenute nei decreti legislativi adottati in attuazione del presente articolo è coordinata con la data di
recepimento della disciplina armonizzata stabilita dalla
citata proposta di direttiva negli Stati membri dell’Unione europea.
Art. 16. Disposizioni finanziarie
In vigore dal 24 giugno 2014
1. Dall’attuazione della delega di cui all’articolo 1 non
devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, né un aumento della pressione fiscale
complessiva a carico dei contribuenti. In considerazione
della complessità della materia trattata e dell’impossibilità di procedere alla determinazione degli eventuali effetti
finanziari, per ciascuno schema di decreto legislativo la
relazione tecnica di cui all’articolo 1 comma 6, evidenzia
i suoi effetti sui saldi di finanza pubblica. Qualora uno o
più decreti legislativi determinino nuovi o maggiori oneri, che non trovino compensazione nel proprio ambito, si
provvede ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge n.
196 del 2009 ovvero mediante compensazione con le risorse finanziarie recate dai decreti legislativi adottati ai
sensi della presente legge, presentati prima o contestualmente a quelli che comportano i nuovi o maggiori oneri.
A tal fine le maggiori entrate confluiscono in un apposito
fondo istituito nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze. [9]
1-bis. I decreti legislativi di cui al comma 1 che recano maggiori oneri entrano in vigore contestualmente o
successivamente a quelli che recano la necessaria copertura finanziaria. [10]
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
2. La revisione del sistema fiscale di cui alla presente
legge persegue l’obiettivo della riduzione della pressione
tributaria sui contribuenti, anche attraverso la crescita
economica, nel rispetto del principio di equità, compatibilmente con il rispetto dell’articolo 81 della Costituzione nonché degli obiettivi di equilibrio di bilancio e di riduzione del rapporto tra debito e prodotto interno lordo
stabiliti a livello europeo.
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà
inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della
Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di
osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Note:
[9] Comma così sostituito dall’art. 1, comma 11, L. 23
giugno 2014, n. 89, che ha sostituito l’originario comma 1 con gli attuali commi 1 e 1-bis, a decorrere dal 24
giugno 2014.
[10] Comma inserito dall’art. 1, comma 11, L. 23 giugno 2014, n. 89, che ha sostituito l’originario comma 1
con gli attuali commi 1 e 1-bis, a decorrere dal 24 giugno 2014
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
GIURISPRUDENZA
Rassegna di Giurisprudenza*
a cura di Roberto Lunelli
1. STATUTO DEI DIRITTI DEL CONTRIBUENTE
Conoscenza degli atti e semplificazione (art. 6)
Corte di Cassazione O.N., 20/05/2014, n. 11000
“In tema di riscossione delle imposte, l’art. 1, comma
412, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, obbliga l’Agenzia delle Entrate, in esecuzione di quanto sancito dall’art.
6, comma 5, della legge 27 luglio 2000, n. 212, a comunicare al contribuente l’esito dell’attività di liquidazione, effettuata ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 600, relativamente ai redditi soggetti a tassazione
separata, sicché la omissione di tale comunicazione determina la nullità del provvedimento di iscrizione a ruolo, indipendentemente dalla ricorrenza, o meno, di incertezze su
aspetti rilevanti della dichiarazione”.
Corte di Cassazione O.N., 04/07/2014, n.15311
“Qualora la cartella di pagamento non sia preceduta dalla comunicazione al contribuente dei motivi che hanno determinato la rettifica degli imponibili, ex art. 36-ter, comma 4,
del D.P.R. n. 600 del 1973, si determina la invalidità dell’atto conclusivo del procedimento, benché tale sanzione non
sia espressamente prevista dalla norma citata. Tale sanzione
deriva dal sistema ordinamentale, comunitario e nazionale,
in cui la norma de qua opera ed, in particolare, dal rilievo
che il vizio del procedimento si traduce in una divergenza dal
modello normativo non certo innocua o di lieve entità, tenuto
conto della rilevanza della funzione cui la stessa norma assolve, ossia la instaurazione di un contraddittorio anteriore all’iscrizione a ruolo, e della forza impediente, rispetto al pieno
svolgimento di siffatta funzione, che assume il fatto viziante”.
Corte di Cassazione O.N., 18/09/2014, n.19667
Anche nel regime antecedente l’entrata in vigore del comma 2-bis dell’art. 77, D.P.R., introdotto con D.L. n. 70 del
2011, l’Amministrazione prima di iscrivere ipoteca ai sensi
dell’art. 77, D.P.R. n. 602 del 1973, deve comunicare al
contribuente che procederà alla predetta iscrizione sui suoi
Alcune sentenze di questa rassegna contengono diverse affermazioni di principio, per cui è possibile che siano richiamate all’interno di
più di una “sottosezione”.
La sigla O.N. sta per “Orientamento nuovo”.
La sigla O.D. sta per “Orientamento difforme”.
*
beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine - che,
per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorni - perché
egli possa esercitare Il proprio diritto di difesa, presentando
opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto. La iscrizione di ipoteca non preceduta dalla comunicazione al contribuente è nulla, in ragione della violazione
dell’obbligo che incombe all’Amministrazione di attivare il
“contraddittorio endoprocedimentale, mediante la preventiva comunicazione al contribuente della prevista adozione
di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e
sugli interessi del contribuente medesimo. Tuttavia dalla
natura reale della ipoteca, la iscrizione eseguita in violazione del predetto obbligo conserva la propria efficacia fino a
quando il giudice non ne abbia ordinato la cancellazione,
accertandone l’illegittimità.
Corte di Cassazione, 03/12/2014, n.25561
“È nulla la iscrizione di ipoteca quando Equitalia notifica la intimazione di pagamento entro cinque giorni. La
omissione, nonostante sia trascorso un anno dalla ricezione
della cartella esattoriale, vìola il principio del contraddittorio fra Amministrazione e contribuente. Ciò vale anche nel
regime precedente al D.L. 70 del 2011, che ha introdotto
un obbligo formale in questo senso”.
Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a
verifiche fiscali (art. 12)
Corte di Cassazione O.N., 05/02/2014, n. 2587
“Quando l’Amministrazione finanziaria fa una ispezione presso un contribuente più volte accusato di evasione
fiscale può emettere l’avviso di accertamento prima del termine di sessanta giorni dalla consegna del verbale da parte
della Guardia di finanza; perché le reiterate violazioni
penali tributarie sono un valido motivo d’urgenza”.
Corte di Cassazione O.N., 07/03/2014, n. 5367
“Non vi sono ragioni, al di là del mero dato testuale
della norma, per non estendere all’avviso di recupero di
credito di imposta, anch’esso accertativo della pretesa tributaria ed impositivo, la particolare disciplina procedimentale fissata dal Legislatore dello Statuto del contri-
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GIURISPRUDENZA
buente all’art. 12, comma 7, la quale (…) introduce nell’ordinamento la particolare e concreta forma di collaborazione tra Amministrazione e contribuente (data dalla previsione del termine dilatorio) destinata a favorire tra le
parti quel contraddittorio procedimentale che ha assunto
nella materia tributaria un valore sempre maggiore, quale
strumento diretto non solo a garantire il contribuente ma
anche ad assicurare il miglior esercizio della potestà impositiva..con evidente riflessi positivi anche in termini di deflazione del contenzioso”.
Corte di Cassazione O.N., 04/04/2014, n. 7960
In tema di accertamento standardizzato mediante parametri e studi di settore, il termine previsto dall’art. 12,
comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, che deve necessariamente intercorrere tra il rilascio al contribuente del
verbale di chiusura delle operazioni (accessi, ispezioni o verifiche eseguite nei locali destinati all’esercizio dell’attività)
e la emanazione del relativo avviso di accertamento, non è
applicabile, essendo già prevista, a pena di nullità, una fase necessaria di contraddittorio procedimentale, che garantisce pienamente la partecipazione e la interlocuzione del
contribuente prima della emissione dell’accertamento.
La disciplina dell’accertamento con adesione non è sovrapponibile con le garanzie dettate dallo Statuto del contribuente in tema di spatium deliberandi al termine del
procedimento di accesso, ispezione o verifica condotto dagli
uffici fiscali”.
Corte di Cassazione O.N., 13/06/2014, n. 13588
“L’Amministrazione finanziaria può emettere l’accertamento anche prima del termine di sessanta giorni se l’atto
impositivo scaturisce da controlli a tavolino dell’ufficio, in
questo caso sul questionario, e non da una vera e propria
ispezione nella sede del contribuente”.
2. ACCERTAMENTO
Corte di Cassazione O.N., 24/04/2014, n. 9243
“L’invito a produrre documenti è un mero atto istruttorio (del tutto facoltativo, così come previsto dal D.P.R. n.
633 del 1972, art. 51), sicché esso non si inserisce nella serie procedimentale in cui si articola la rettifica che si conclude con la emissione dell’avviso di accertamento. Quest’ultimo, perciò, non può patire vizi incidenti sulla sua legittimità strutturale per il fatto dell’omesso o inidoneo invio
dell’invito, salva la possibilità che il giudice ha di farne valorizzazione ai fini di giudicare della completezza degli accertamenti istruttori esperiti”.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Corte di Cassazione O.N., 07/05/2014, n. 9796
“È illegittimo l’accertamento fiscale parziale a carico
della società basato esclusivamente sui movimenti sospetti
sul conto dell’amministratore unico. Infatti, in caso di
mancata presentazione della dichiarazione dei redditi
l’Amministrazione finanziaria è tenuta a valutare la situazione complessiva dell’azienda”.
Corte di Cassazione O.N., 11/06/2014, n.13138
“In tema di accertamento delle imposte, l’invio telematico della dichiarazione dei redditi, ai sensi dell’art. 3 del
D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, richiede il conferimento da
parte del contribuente di uno specifico incarico all’intermediario, trattandosi di adempimento distinto da quello di tenuta della contabilità e di consulenza fiscale in generale,
con conseguente necessità di accertamento della sussistenza
di tale incarico in caso di contestazione”.
Corte di Cassazione O.N., 17/09/2014, n.19559
“È legittimo l’accertamento anche se la ispezione fiscale
viene estesa dalla società al suo consulente con una semplice
telefonata al Comandante”.
Corte di Cassazione O.N., 19/09/2014, n.19755
“Le scritture contabili devono essere tenute secondo le
norme di un’ordinata contabilità, senza spazi in bianco,
senza interlinee e senza trasporti in margine. Non vi si possono fare abrasioni e, se è necessaria qualche cancellazione,
questa deve eseguirsi in modo che le parole cancellate siano
leggibili. La correzione operata scrivendo sull’originario errato importo un diverso importo corretto determina la
inattendibilità della scrittura, atteso che il criterio della
leggibilità previsto dalla legge non può essere liberamene derogato se, in caso di sovrascrittura, l’importo sottoscritto non
sia leggibile”.
Corte di Cassazione O.N., 01/10/2014, n.20709
“In tema di accertamento, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente
inattendibile, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del
comportamento del contribuente. In tali casi, pertanto, è
consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o
minori costi, ad esempio determinando il reddito del contribuente utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente medesimo. E tuttavia, proprio in quanto, per presu-
GIURISPRUDENZA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
mere la esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati
ed assoggettati ad imposta, non bastano semplici indizi, ma
occorrono circostanze gravi, precise e concordanti, non è legittima la presunzione di ricavi, maggiori di quelli denunciati, fondata sul raffronto tra prezzi di acquisto e di
rivendita operato su alcuni articoli, anziché su un inventario generale delle merci da porre a base dell’accertamento.
E neppure si rende legittimo il ricorso al sistema della media
semplice, anziché a quello della media ponderata, quando
tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio”.
B. Studi di settore
Corte di Cassazione O.N., 12/03/2014, n. 5675
“L’accertamento mediante parametri costituisce un sistema di presunzioni semplici, come tali suscettibili di prova
contraria, e il contribuente, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio, ha la più ampia facoltà di offrire la
controprova, anche facendo ricorso a presunzioni semplici”.
Corte di Cassazione O.N., 15/04/2014, n. 8706
“La presunzione derivante dagli studi di settore può essere vinta offrendo prova di fatti (la nascita di un figlio,
l’infarto del marito) idonei a giustificare lo scostamento del
proprio reddito dalle risultanze di tali studi”.
A. Accertamento sintetico e redditometro
Corte di Cassazione O.N., 29/01/2014, n. 2015
“L’accertamento sintetico, con metodo induttivo, consentito all’Amministrazione finanziaria dalle norme contenute nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 4 e 5, consiste nell’applicazione di presunzioni semplici, in virtù delle quali l’Ufficio finanziario è legittimato a
risalire da un fatto noto a quello ignorato. (…) La suddetta
presunzione semplice genera, peraltro, la inversione dell’onere della prova, trasferendo al contribuente l’impegno di
dimostrare che il dato di fatto sul quale essa si fonda non
corrisponde alla realtà”.
Corte di Cassazione O.D., 19/03/2014, n. 6396
“L’art. 38, co. 6, nel testo vigente all’epoca [dei fatti]
non impone affatto la dimostrazione dettagliata dell’impiego della somma per la produzione degli acquisti o per le
spese di incremento, semmai richiedendo al contribuente di
vincere la presunzione – semplice o legale che sia – che il
reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli
acquisti e gli incrementi. Il che significa che nessun’altra
prova deve dare la parte contribuente circa la effettiva destinazione del reddito esente o sottoposto a tassazione separata agli incrementi patrimoniali se non la dimostrazione
della esistenza di tali redditi.
Né dalla disciplina normativa anzidetta pare potersi
evincere un onere di dimostrazione, aggiuntivo, circa la provenienza oltre che la effettiva disponibilità finanziaria delle
somme occorrenti per gli acquisti operati dal contribuente”.
Corte di Cassazione O.N., 04/06/2014, n. 12470
“La mera intestazione di due autovetture assai risalenti
nel tempo e di modesto valore, non può costituire indice certo (tale da disattendere le scritture contabili regolarmente
tenute) di una maggiore capacità contributiva”.
Corte di Cassazione O.N., 06/05/2014, n. 9712
“La motivazione dell’atto di accertamento non può
esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto
dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono
state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente”.
Corte di Cassazione O.N., 11/06/2014, n. 13141
“Gli studi di settore possono essere disapplicati nel caso
in cui gli amministratori dell’azienda percepiscono un compenso così alto da incidere sul reddito d’impresa giustificando così lo scostamento dalle medie.
L’ufficio, prima di emettere l’accertamento deve anche
considerare la minore resa di macchinari obsoleti”.
Corte di Cassazione O.N., 18/07/2014, n. 16452
“L’accertamento ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. 600/1973
può essere fondato anche sulla incongruenza tra i ricavi,
compensi e corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dagli
studi di settore, purché si tratti di gravi incongruenze, mentre nella specie lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli
desumibili dagli studi di settore è minino”.
Corte di Cassazione O.N., 26/11/2014, n. 25099
“L’art. 62-bis D.L. n. 331/1993 (…) e l’art. 10 L. n.
146/1998 (…) costituiscono le norme primarie alla base
dell’esercizio del potere di normazione secondaria estrinsecato dal Ministro delle Finanze con il D.M. 20.3.2001,
dando quest’ultimo logicità e completezza regolativa al
nuovo istituto ed in particolare non impingendo in alcuna
preclusione volta a limitare la possibilità di circoscrivere,
per un periodo dato e categorie appositamente individuate,
un approccio progressivo dell’utilizzo dei risultati del ricalcolo così effettuato, come avvenuto per gli studi di settore di
cui agli artt. 1 e 2 del D.M. 20.3.2001. (…)
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GIURISPRUDENZA
Rispetto alla modalità ordinaria di applicazione degli
studi di settore nei confronti della generalità dei contribuenti,
quelli concernenti le professioni, anche non contabili, si caratterizzarono per essere sperimentali, secondo una scelta apparsa plausibile tenuto conto delle difficoltà intrinseche nel
giungere alla determinazione di una soglia di compensi congrua per le peculiarità proprie dell’attività professionale”.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
La causa concreta di tale patto consente di disvelare la
finalità di elusione fiscale, deponendo per la conseguente relativa nullità.
In considerazione dello scopo pratico dalle parti (e, in
particolare, di una di esse, il locatore) perseguito con tale
stipulazione, e della relativa causa concreta, essa si rivela
come imprescindibilmente connotata dalla vietata finalità
di elusione fiscale, e, pertanto, conseguentemente affetta da
invalidità”.
C. Indagini finanziarie
Corte di Cassazione O.N., 08/05/2014, n. 10043
“Una volta dimostrata la pertinenza all’impresa dei
rapporti bancari intestati alle persone fisiche con essa collegate, l’Amministrazione finanziaria non è tenuta a provare
che tutte le movimentazioni che risultano da quei rapporti
rispecchino operazioni aziendali, ma è onere dell’impresa
contribuente dimostrare la estraneità di ciascuna di quelle
operazioni alla propria attività di impresa” (principio applicato, nella specie, ad un lavoratore autonomo).
Corte Costituzionale, 06/10/2014, n. 228
“Nei confronti dei lavoratori autonomi, la presunzione prelevamenti uguale ricavi è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo
arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività
professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un
reddito. Per questi motivi la Corte Costituzionale dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero
2), secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600
(…), come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a),
numero 1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (…), limitatamente alle parole “o compensi””.
D. Elusione e abuso del diritto tributario
Corte di Cassazione O.N., 03/01/2014, n. 37
“Con la novella del 1998 il Legislatore ha inteso contrastare il cd. mercato sommerso degli affitti e il fenomeno della evasione ed elusione fiscale, perseguendo l’emersione del
fenomeno delle locazioni “in nero”.
In considerazione della segnalata “finalità fiscale” della
normativa in argomento, deve aversi riguardo alla sostanza
della operazione posta in essere dalle parti, diversa dal contratto scritto e già registrato.
Tale patto costituisce lo strumento piegato dal locatore al
conseguimento dello specifico risultato vietato dalla norma,e cioè il risparmio d’imposta.
Corte di Cassazione O.N., 22/01/2014, n. 1233
“L’Agenzia delle Entrate non può contestare la elusione
fiscale [nel caso di specie, in relazione a indebita deduzione dall’imponibile della quota di ammortamento annuale relativa al disavanzo di fusione] in assenza di prove
decisive.
Nella specie, il materiale probatorio è privo del carattere
della decisività, perché inidoneo a provare la dedotta elusione dell’art. 123 del TUIR, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel regime previgente al 1°
gennaio 1995, data di entrata in vigore della legge n. 724
del 1994, il cui art. 27 ha introdotto il principio di neutralità fiscale delle fusioni, qui rilevante ratione temporis, il
menzionato art. 123 del D.P.R. n. 917 del 1986 consentiva la iscrizione in bilancio, alla voce avviamento, del disavanzo di fusione per incorporazione da parte di una società
che già possedeva l’intero capitale sociale della incorporata”
Corte di Cassazione O.N., 26/02/2014, n. 4618
“Tenuto conto della qualità di terzo dell’Amministrazione finanziaria, la prova della simulazione, sulla stessa
gravante, può essere offerta con qualsiasi mezzo, e, quindi,
anche mediante presunzioni, purché idonee a dimostrare,
oltre alla portata oggettiva dell’accordo simulatorio, anche i
profili negoziali di carattere soggettivo della operazione posta in essere dai contraenti”.
Corte di Cassazione, Sez. III Penale O.N., 11/03/2014,
n. 11538
“La rilevanza penale delle condotte elusive ai fini fiscali che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di elusione espressamente previste dalla legge, ovverossia quelle di
cui agli artt. 37, comma terzo, e 37-bis del D.P.R. n. 600
del 1973, è stata più volte già affermata dalla Corte”.
Corte di Cassazione O.N., 04/04/2014, n. 7961
“Il Giudice tributario ha illegittimamente mutato la
stessa motivazione degli avvisi di accertamento fondandoli
su una diversa norma di legge la cui applicabilità, peraltro,
per la sua natura, anche, procedimentale, non è rilevabile
ex officio”.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione O.N., 16/04/2014, n. 8847
“La pratica del cost sharin agreement - che si fonda
sulla ripartizione proporzionale dei costi dell’attività posta
in essere da una delle società del gruppo, relativa ad assistenza tecnica, ricerca ed altro, tra tutte le altre società che,
a vario titolo, beneficiano dei servizi connessi a tali funzioni - è ammissibile e non in contrasto con la normativa fiscale italiana.
Né la determinazione del corrispettivo del servizio di
consulenza, stabilito in una percentuale dei ricavi annualmente conseguiti potrebbe, di per sé, essere considerata improntata a finalità elusive e, del resto, la descrizione e documentazione analitica delle prestazioni di consulenza sarebbe impossibile e inutile”.
Corte di Cassazione O.N., 21/05/2014, n. 11139
“Nel caso in cui la iscrizione a ruolo scaturisca da accertamento con adesione ex legge n. 656/1994, vale a dire da
uno speciale procedimento di determinazione della pretesa
tributaria, su accordo dell’Amministrazione finanziaria e
contribuente, specificamente indicato in cartella e rispetto
al quale il contribuente non ha sollevato alcuna contestazione né allegato difficoltà di comprensione, la mera mancata indicazione delle aliquote applicate non appare idonea
a legittimare la sanzione di nullità dell’atto impositivo”.
Corte di Cassazione O.D., 08/05/2014, n. 10041
“In caso di contestazione di operazioni antieconomiche,
l’Amministrazione non può rettificare l’Iva detratta sugli
acquisti, a meno che si tratti di operazioni inesistenti, di sovrafatturazioni o di un più ampio contesto di abuso del diritto. Ciò perché la regola sull’antieconomicità è propria
della imposizione diretta e può estendersi anche all’Iva solo nella osservanza di tutti i principi enunciati in materia
dalla Corte di Giustizia”.
Comunicazioni e notificazioni (artt. 16 e 17)
Corte di Cassazione O.N., 22/10/2014, n. 22364
“Può essere annullato l’accertamento a carico del socio e
basato sulla elusione e sulla evasione fiscale dell’impresa
quando l’imprenditore, stando al bilancio finale di liquidazione, non ha incassato il guadagno della frode fiscale”.
Corte di Cassazione O.D., 05/12/2014, n. 25774
“In tema di elusione fiscale l’Ufficio non può negare i
benefici e le detrazioni quando reputa che la spesa fatta dalla società sia antieconomica. Sono infatti deducibili i costi
sostenuti per l’assistenza legale, in virtù di un contratto, e
quelli per l’acquisto di beni, anche se non sembrano convenienti all’Ufficio delle Entrate”.
4. CONTENZIOSO TRIBUTARIO
Corte di Cassazione O.N., 30/01/2014, n. 2035
“➤ È da escludere che, ai fini della decorrenza del termine per proporre impugnazione, possa considerarsi come facente fede l’attestazione della data di consegna da parte dell’incaricato di posta privata.
➤ In tema di contenzioso tributario, nel caso di notificazioni fatte direttamente a mezzo del servizio postale, laddove
consentito dalla legge, mediante spedizione dell’atto in plico
con raccomandata con avviso di ricevimento, quest’ultimo
costituisce atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 cod. civ. e,
pertanto, le attestazioni in esso contenute godono della stessa
fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita tramite l’ufficiale giudiziario.
Non può dirsi la stessa cosa per ciò che concerne le notifiche
effettuate da un servizio di posta privato (un corriere, per
esempio). Gli agenti postali di tale servizio non rivestono infatti la qualifica di pubblici ufficiali quindi gli atti dai medesimi redatti non godono di nessuna presunzione di veridicità fino a querela di falso con la conseguenza che le attestazioni relative alla data di consegna dei plichi non sono idonee a far decorrere il termine iniziale per le impugnazioni”.
Reclamo e mediazione (art. 17-bis)
3. ISTITUTI DEFLATIVI DEL CONTENZOSIO
TRIBUTARIO
Corte di Cassazione O.N., 09/04/2014, n. 8296
“Dev’essere escluso che il ravvedimento operoso possa essere applicato alle ipotesi di versamento del tributo in ritardo,
non solo perché non espressamente previsto ma anche perché il
versamento tardivo, quando effettuato nel rispetto delle norme, è proprio una modalità di ravvedimento operoso”.
Corte Costituzionale, 16/04/2014, n. 98
“➤ È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con
l’art. 24 Cost., l’art. 17-bis, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (nel testo originario anteriore alla sostituzione operata dalla legge n. 147 del 2013), che, relativamente alle controversie concernenti atti emessi dall’Agenzia
delle entrate e di valore non superiore a ventimila euro, sanziona la omessa previa presentazione del reclamo amministrativo ivi disciplinato con la inammissibilità, rilevabile
91
92
GIURISPRUDENZA
d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, del ricorso alla
giurisdizione tributaria. La giurisprudenza costituzionale
ha costantemente subordinato la legittimità di forme di accesso alla giurisdizione condizionate al previo adempimento
di oneri finalizzati al perseguimento di interessi generali al
triplice requisito che il Legislatore non renda la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa, contenga l’onere nella
misura meno gravosa possibile e operi un congruo bilanciamento tra la esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell’accesso alla stessa intende
perseguire. La censurata previsione, discostandosi dalle riferite indicazioni giurisprudenziali, comporta la perdita del
diritto di agire in giudizio e, quindi, la esclusione della tutela giurisdizionale. Pertanto, con riguardo ai rapporti non
esauriti ai quali sarebbe ancora applicabile la disposizione
in esame, l’eventuale omissione della previa presentazione
del reclamo rimane priva di conseguenze giuridiche.
➤ Infondate sono le censure basate sul rilievo che il differimento della tutela giurisdizionale è imposto solo ai contribuenti che sono parti di controversie che rientrano nell’ambito di applicazione dell’impugnata disposizione e
non, quindi, a tutti gli altri contribuenti (in particolare, a
quelli che sono parti di controversie relative ad atti emessi
da enti impositori diversi dall’Agenzia delle entrate o di
controversie relative ad atti emessi da tale Agenzia ma di
valore superiore a ventimila euro).
➤ Non é fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17-bis del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (nel
testo originario anteriore alle modificazioni apportate dalla
legge n. 147 del 2013), impugnato, in riferimento agli artt.
3, 24 e 25 Cost., nella parte in cui non prevede, per le controversie concernenti atti emessi dall’Agenzia delle entrate e di
valore non superiore a ventimila euro, che la mediazione tributaria sia svolta da un soggetto terzo rispetto alle parti.
➤ Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17-bis del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546
(nel testo originario anteriore alle modificazioni apportate
dalla legge n. 147 del 2013), impugnato, in riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui, relativamente alle controversie concernenti atti emessi dall’Agenzia delle entrate e di
valore non superiore a ventimila euro, impone al contribuente di indicare nel reclamo le proprie prospettazioni
difensive e non gli consente di modificarle nell’eventuale
successivo giudizio tributario”.
Corte Costituzionale, 13/06/2014, n. 176
“È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17-bis del decreto legislativo 31 dicembre
1992, n. 546, nel testo anteriore alla sostituzione dello stesso ad opera dell’art. 1, comma 611, lettera a), numero 1),
della legge 27 dicembre 2013, n. 147 “in relazione all’art.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
14” dello stesso decreto legislativo, sollevata, in riferimento
agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. (…)
La giurisprudenza di legittimità afferma la necessità del
litisconsorzio tra (tutti) i soci e la società nel caso in cui venga impugnato l’accertamento del reddito delle società di
persone di cui all’art. 5 o del reddito da partecipazione dei
soci delle stesse, mentre ha escluso detta necessità del consorzio di lite nel caso in cui venga impugnato l’accertamento
del reddito delle società di capitali”.
Termini di impugnazione (art. 51)
Corte di Cassazione O.N., 05/11/2014, n. 23526
“La novella del secondo comma dell’art. 133 c.p.c., di cui
all’art. 45, co. 1, lett. b), del D.L. 24 giugno 2014, n. 90,
convertito con modificazioni in legge 11 agosto 2014, n.
114, secondo cui la comunicazione, da parte della cancelleria, del testo integrale del provvedimento depositato non è
idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui
all’art. 325 c.p.c., è finalizzata a neutralizzare gli effetti della generalizzazione della modalità telematica della comunicazione, se integrale, di qualunque tipo di provvedimento, ai
fini della normale decorrenza del termine breve per le impugnazioni solo in caso di atto di impulso di controparte; la novella stessa non incide peraltro, lasciandole in vigore, sulle
norme processuali, derogatorie e speciali (come l’art. 348ter, comma terzo, c.p.c., nella parte in cui fa decorrere il termine ordinario per proporre il ricorso per cassazione avverso
il provvedimento di primo grado dalla comunicazione dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’appello ai
sensi dell’art. 348-bis c.p.c.), che ancorino la decorrenza del
termine breve di impugnazione alla mera comunicazione di
un provvedimento da parte della cancelleria, restando irrilevante che la comunicazione sia integrale o meno”.
Appello (art. 53)
Corte di Cassazione O.N., 29/07/2014, n. 17243
“Deve ritenersi inammissibile l’appello dell’Amministrazione finanziaria avverso la sentenza della Commissione tributaria laddove l’Agenzia delle Entrate in grado di appello
non ha prodotto la ricevuta di ritorno della raccomandata
con cui è stata proposta la impugnazione né ha fornito prova
di essersi attivata per ottenere una adeguata certificazione
della amministrazione postale, depositando unicamente l’esito della consultazione del sito internet delle Poste, elemento
insufficiente a fornire la prova legale della percezione della
raccomandata e semmai poteva costituire lo spunto per sollecitare una opportuna indagine da parte delle Poste”.
GIURISPRUDENZA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Ricorso in Cassazione (art. 62)
Corte di Cassazione O.N., 07/04/2014, n. 8053
“Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne
l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario,
la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le
parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato
avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per
sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato
conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente
dovrà indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso,
il dato, testuale o extratestuale, da cui ne risulti la esistenza, il come e il quanto (nel quadro processuale) tale fatto
sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la decisività
del fatto stesso”.
Corte di Cassazione O.N., 09/06/2014, n. 12928
“L’intervento di modifica del n. 5 dell’articolo 360
c.p.c. comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito
di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto. Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai
giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità
soltanto ove la motivazione al riguardo sia viziata da vizi
giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed
immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure
obiettivamente incomprensibili”.
Corte di Cassazione O.N., 27/11/2014, n. 25215
“La notificazione del controricorso può essere validamente effettuata presso la cancelleria della Corte di cassazione se manca la elezione del domicilio in Roma da parte
del ricorrente e se questi non ha indicato l’indirizzo di posta
elettronica certificata. La domiciliazione ex lege presso la
cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in
corso il giudizio consegue solo ove il difensore non abbia indicato l’indirizzo suddetto. Mentre, se tale indicazione sussiste la notificazione del controricorso deve essere effettuata
nella forma telematica”.
Corte di Cassazione O.N., 01/12/2014, n. 25395
“Il ricorso per cassazione avverso le sentenze delle Commissioni tributarie va notificato nelle forme del codice di
procedura civile. La diretta consegna di tale ricorso, ad opera del ricorrente o del suo difensore, all’impiegato addetto
all’ufficio esula completamente dal paradigma normativo
della notifica contemplata dal codice di rito, che postula
l’intervento dell’ufficiale giudiziario e, pertanto, deve considerarsi inesistente; dal che discende la inammissibilità del
ricorso per omessa notifica”.
5. RISCOSSIONE
Corte di Cassazione O.N., 28/02/2014, n. 4826
“L’obbligo di motivazione va graduato in rapporto alla
natura del provvedimento impositivo in cui l’Amministrazione finanziaria ha trasfuso la propria pretesa. La motivazione dovrà, quindi, essere ampia se riferita a un atto di accertamento, di rettifica e, in determinati casi, ad un avviso
di liquidazione, ai fini della esigenza di tutela del contribuente al fine dell’esercizio del diritto di difesa, mentre
l’obbligo della motivazione è mitigato in rapporto a una
cartella di pagamento preceduta da ben cinque avvisi di liquidazione e che reca la indicazione dell’atto di conferimento da cui ha tratto origine la pretesa tributaria contenuta della cartella stessa”.
Corte di Cassazione, 30/06/2014, n. 14849
“Si trasmettono gli atti al Primo Presidente per la eventuale assegnazione alle Sezioni Unite sulla questione riguardante la possibilità, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di adottare misure cautelari relativamente al
credito tributario la cui illegittimità sia stata accertata con
sentenza non ancora passata in giudicato”.
Corte di Cassazione, 18/09/2014, n. 19667
“La iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77 del D.P.R.
n. 602 del 1973 non può essere considerata un atto della
espropriazione forzata, bensì un atto riferito ad una procedura alternativa alla esecuzione forzata vera e propria.
Conseguentemente tale ipoteca può essere iscritta senza
necessità di procedere alla notifica della intimazione ad
adempiere di cui all’art. 50, co. 2, del citato D.P.R., prescritta per il caso che la espropriazione forzata non sia
iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento”.
Corte di Cassazione , 15/10/2014, n.21734
“In tema di imposte sui redditi, qualora il contribuente
evidenzi nella dichiarazione, secondo le modalità stabilite
dalla legge, un credito d’imposta, non occorre da parte sua
alcun altro adempimento ai fini di ottenerne il rimborso,
in quanto tale condotta costituisce già istanza di rimborso,
che tiene luogo, a tutti gli effetti, di quella di cui all’art. 38
del D.P.R. n. 602/1973, essendo l’Amministrazione -
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GIURISPRUDENZA
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
edotta, con la dichiarazione, dei conteggi effettuati dal
contribuente - posta in condizione di conoscere la pretesa
creditoria: da quel momento, quindi, impedita ovviamente la decadenza, decorre, secondo i principi generali, l’ordinario termine di prescrizione decennale per l’esercizio della
relativa azione dinanzi al giudice tributario (art. 21,
comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992). Il diritto del contribuente alla restituzione può essere esercitato a partire dall’inutile decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione della istanza (contenuta nella dichiarazione),
il quale determina il formarsi del silenzio-rifiuto, impugnabile ex art. 19, comma 1, lett. g), del D.Lgs. n.
546/1992. Ne consegue che può essere proposto ricorso avverso il rifiuto, espresso o tacito, alla istanza di sollecito di
pagamento proposta dalla ricorrente dopo avere indicato il
credito di imposta in dichiarazione, sia che la si intenda
come mero sollecito di pagamento in relazione alla istanza
originariamente proposta in dichiarazione, sia come reiterazione di quella”.
ratteristiche oggettive o per le concrete modalità di impiego
del bene/servizio questo possa ritenersi direttamente strumentale al ciclo produttivo, ovvero funzionale alla struttura organizzativa, o necessario alla attuazione di scelte strategiche di penetrazione sul mercato o ampliamento dei settori di attività, ecc. …”.
Corte di Cassazione O.N., 29/10/2014, n. 22928
“La cartella esattoriale notificata al coniuge del contribuente è valida ancorché lo stesso non abbia provveduto, a
causa della “conflittualità coniugale”, alla consegna al destinatario della stessa. A tal fine è sufficiente che la notifica
sia stata effettuata presso la residenza”.
Corte di Cassazione, 18/07/2014, n. 16480
“È legittima la prassi amministrativa che fondatamente
subordina la deducibilità dei costi derivanti da accordi
contrattuali sui servizi prestati dalla controllante (cost
sharing agreements) alla effettività e alla inerenza della
spesa all’attività d’impresa esercitata dalla controllata e al
reale vantaggio che deriva a quest’ultima, senza che rilevino
in proposito quelle esigenze di controllo della capogruppo,
peculiari della sua funzione di shareholder. In questa prospettiva non è sufficiente la esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi fornite dalla controllante alle
controllate e la fatturazione dei corrispettivi, dovendo
emergere specificamente quegli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio”.
Corte di Cassazione, 05/11/2014, n. 23529
“Si sottopone al Primo Presidente per la eventuale rimessione alle Sezioni Unite della questione relativa ai termini di decadenza del diniego, da parte dell’Amministrazione finanziaria, del credito d’imposta esposto in dichiarazione e derivante da agevolazione tributaria”.
6. REDDITO DI IMPRESA
Corte di Cassazione O.N., 14/02/2014, n. 3452
“La inerenza all’esercizio della attività di impresa, arte
o professione, dei beni o servizi scambiati sul mercato dagli
operatori economici risulta oggettivamente evidente nel caso in cui il bene prodotto od il servizio prestato dalla società
e da questa offerto sul mercato corrisponda o sia comunque
ricompreso nell’oggetto sociale; diversamente, per i beni o
servizi “acquistati” dalla società tale univoca corrispondenza non è direttamente ed oggettivamente apprezzabile, occorrendo verificare in relazione al caso concreto quale sia la
effettiva destinazione impressa al bene/servizio acquistato,
dovendo ravvisarsi la inerenza alla attività produttiva o
commerciale della impresa soltanto nel caso in cui per le ca-
Corte di Cassazione O.N., 07/05/2014, n. 9804
“➤ Un accordo commerciale è insufficiente per la deduzione dei costi da parte dell’impresa. È infatti necessaria la
corrispondenza temporale fra la cifra indicata nel contratto
e quella della fattura”.
➤ In tema di determinazione del reddito d’impresa, per
la deducibilità delle maggiori quote di ammortamento
“accelerato” del costo dei beni strumentali, ai sensi dell’art.
67, comma 3, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è richiesta la prova, a carico del contribuente, della loro più intensa utilizzazione rispetto a quella normale del settore al
quale essi appartengono, e non la loro mera obsolescenza”
Corte di Cassazione, Sez. III Penale O.N., 17/01/2014,
n. 1811
“La disciplina di diritto interno in merito alla identificazione della residenza fiscale delle società deve coniugarsi con i
principi e le libertà fondamentali del Trattato UE come interpretate dalla giurisprudenza comunitaria. Lo stabilimento di una sede sociale in uno Stato membro in virtù della circostanza di una legislazione maggiormente favorevole non
costituisce abuso della libertà di stabilimento laddove non si
tratti di costruzione artificiosa priva di effettività economica.
Non è sufficiente a superare il dato geografico della sede la
circostanza che il soggetto economico fruisca di una concessione amministrativa e la operatività sia da riferirsi al territorio
nazionale in quanto il provvedimento amministrativo è semplicemente strumentale all’esercizio dell’attività economica”.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
7. IVA
Corte di Cassazione O.N., 14/02/2014, n. 3452
“➤ La inerenza della spesa sostenuta dall’impresa commerciale all’oggetto sociale non fa scattare automaticamente il
diritto alla detrazione Iva. Infatti, il beneficio non può essere
concesso all’azienda che dipende organizzativamente e finanziariamente dalla controllante. Al di là della formale costituzione dell’impresa come commerciale, sono due, i requisiti che
l’ufficio deve verificare ai fini della detrazione: se la società
contribuente abbia effettivamente esercitato stabilmente
un’attività economica rilevante ai fini Iva e, in caso positivo,
se l’operazione passiva di acquisto dell’immobile debba ritenersi o meno strumentale all’esercizio di tale attività.
➤ Ai fini dell’applicazione dell’IVA e del riconoscimento della soggettività passiva, non rileva la mera qualità soggettiva di società commerciale del contribuente, laddove
l’operazione passiva, per le modalità con le quali è compiuta e per le condizioni soggettive ed oggettive che caratterizzano l’atto di acquisto, non possa ricondursi allo svolgimento dell’attività d’impresa della stessa società, o perché non
strumentale alla realizzazione delle operazioni attive contemplate dall’oggetto sociale, o perché non riferibile all’attività d’impresa in quanto difettano, nel caso concreto, i requisiti di riconoscibilità dell’effettivo svolgimento di una
siffatta attività economica”.
Corte di Cassazione O.N., 21/05/2014, n. 11168
➤“ La omessa annotazione delle fatture passive nel
registro degli acquisti non preclude l’esercizio della detrazione purché il contribuente sia in grado di dimostrare la
sussistenza delle condizioni sostanziali alle quali è ricollegato tale diritto.
➤ Il difetto (omessa redazione, nel termine di legge, su
supporto cartaceo del registro degli acquisti) dei presupposti
conformativi del “diritto alla detrazione” D.P.R. n. 633 del
1972, ex art. 19, non priva il contribuente del diritto alla
restituzione (o al rimborso) della eccedenza d’imposta versata all’Erario, atteso che il meccanismo di rivalsa dell’IVA
non può essere disatteso laddove sia possibile al contribuente
fornire “aliunde“ (e dunque con mezzi diversi dalle scritture contabili) la prova della sussistenza dei presupposti di diritto sostanziale che legittimano il soggetto passivo al recupero di quanto versato in eccedenza, tenuto conto che la disciplina IVA consente l’attuazione del “principio della neutralità d’imposta” attraverso distinte situazioni giuridiche
di diritto soggettivo (il diritto alla detrazione ed il diritto al
rimborso) facenti capo al medesimo contribuente, che trovano entrambe titolo nel versamento di imposta in eccedenza, ma le cui vicende attinenti alle modalità di esercizio rimangono del tutto autonome ed indipendenti”.
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, 25/06/2014, n. 14405
“Nelle triangolazioni all’esportazione, il regime di
non imponibilità Iva previsto, per la cessione interna, dall’art. 8, comma 1, lettera a), del D.P.R. n. 633/1972, si applica anche quando il trasporto all’estero dei beni non sia
avvenuto a cura o in nome del primo cedente, se l’operazione e stata concepita come una cessione nazionale in vista
della destinazione della merce al di fuori della UE”.
Corte di Cassazione, 02/07/2014, n. 15059
“➤ In tema di IVA, l’art. 2, comma 2, della legge 18 febbraio 1997 n. 28, nel prevedere la possibilità di effettuare
acquisti ed importazioni con esonero dell’imposta, in ciascun
anno, nel limite dell’ammontare complessivo delle cessioni e
prestazioni di cui agli artt. 8, comma 1, lett. a) e b), 8 bis e 9
del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e succ. mod., delle cessioni intracomunitarie e delle prestazioni di servizi nei confronti di soggetti passivi di altro Stato membro, non soggette
ad imposta, che siano registrate a norma dell’art. 23 del
D.P.R. n. 633 cit. per l’anno solare precedente, non comporta il superamento del principio di effettività della cessione e
prestazione di servizi. Ne consegue che l’onere di annotazione delle fatture in apposito registro integra, al fine di fruire
della esenzione, solo un requisito necessario ma non sufficiente a fronte della mancanza di effettività dell’operazione.
➤ L’esercizio del diritto alla detrazione IVA conseguente
alla emissione di note di credito relative a operazioni attive,
che in anni precedenti avevano concorso alla formazione del
“plafond“, non è soggetto a condizioni, e, quindi, non può
essere compromesso dall’obbligo di regolarizzazione che conseguirebbe alla riduzione dell’ammontare del “plafond“. Alle
condizioni previste dall’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972, può
quindi essere esercitato il diritto di computare in detrazione
l’imposta corrispondente alla variazione, senza che questo intacchi il “plafond“ formatosi nell’anno precedente”.
Corte di Cassazione, 11/07/2014, n. 16053
“Si sottopone al Primo Presidente la opportunità di devolvere alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il problema della detraibilità di eccedenza di Iva, debitamente
registrata nelle liquidazioni periodiche, in ipotesi di omissione della dichiarazione annuale relativa al periodo di
maturazione di dette eccedenze”.
Corte di Cassazione, 18/07/2014, n. 16450
“In tema di IVA, laddove ricorrano i presupposti di cui
all’art. 15 della Sesta Direttiva del Consiglio CEE del 15
maggio 1977, n. 77/388/CEE (come interpretato dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia) e, cioè, in presenza
di una cessione di beni trasportati o spediti, dal venditore o
per suo conto, fuori da dall’Unione Europea, il diritto del
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GIURISPRUDENZA
contribuente alla esenzione dall’imposta sussiste anche qualora la esportazione risulti illecita e “a fortiori“ formalmente irregolare secondo il diritto nazionale, che va disapplicato se in contrasto con il principio comunitario di neutralità
fiscale, diretto ad equiparare le esenzioni nazionali degli
Stati membri.
[In applicazione di tale principio, la S.C. ha riconosciuto il diritto alla esenzione da IVA in presenza di una
cessione all’esportazione effettuata nella Repubblica di
San Marino, pur non avendo la società contribuente
provveduto, come richiesto dall’art. 4, comma 1, lett.
b), del D.M. 24 dicembre 1993, alla “presa nota a margine” nel registro IVA delle fatture di vendita]”.
Corte di Cassazione, 29/07/2014, n. 17254
“Ai fini del riconoscimento della non imponibilità ai fini IVA delle cessioni intracomunitarie, la procedura di attribuzione del codice identificativo del cessionario, pur rimanendo centrale ai fini della sussumibilità della operazione nell’ambito di quelle regolate dagli artt. 41 e 50 del
D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427, non può determinare, se mancante, il
venir meno della possibilità di inquadrare la cessione nell’ambito di quelle intracomunitarie, allorché l’operatore
provi in modo rigoroso tutti i requisiti sostanziali della normativa di settore, sulla base degli elementi ritualmente prodotti nel corso del procedimento”.
Corte di Cassazione, 29/07/2014, n. 17254
“Si sottopone al Primo Presidente la opportunità di devolvere alle Sezioni Unite la soluzione della questione della imponibilità Iva dei compensi per prestazioni professionali percepiti dopo la cessazione dell’attività e la dismissione della partita Iva”.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione dello stesso da parte della
Regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi.
La inapplicabilità del criterio fondato sul valore catastale
dell’immobile impone, peraltro, di tener conto, nella determinazione della base imponibile, della maggiore o minore
attualità delle sue potenzialità edificatorie e, pertanto, la
presenza di vincoli o destinazioni urbanistiche che condizionino, in concreto, la edificabilità del suolo, pur non sottraendo l’area su cui insistono al regime fiscale proprio dei
suoli edificabili, incide sulla valutazione del relativo valore
venale e, conseguentemente, sulla base imponibile”.
Corte di Cassazione O.N., 26/03/2014, n. 7069
“La proprietà di un immobile in comproprietà col coniuge da cui, poi, ci si separa, fa comunque venir meno il
beneficio fiscale prima casa”.
Corte di Cassazione O.N., 28/05/2014, n. 11967
“È nullo l’accertamento con il quale il Fisco rettifica il
valore dell’immobile se la stima dell’Ute, su cui si fonda
l’atto impositivo, è basata su atti notarili non riportati”.
Corte di Cassazione O.N., 29/07/2014, n. 17151
“In tema di agevolazioni tributarie per l’acquisto della
prima casa, il contribuente che abbia venduto l’immobile
entro cinque anni dall’acquisto, per evitare la decadenza
dal beneficio, é tenuto a comprare, entro un anno dall’alienazione, altro immobile da adibire a propria abitazione
principale, non potendosi considerare sufficiente la stipula
di un contratto preliminare, che ha effetti solo obbligatori,
atteso che per “acquisto”, ai sensi dell’art. 1, nota II bis,
quarto comma, della Tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile
1986, n. 131, si deve intendere l’acquisizione del diritto di
proprietà e non la mera insorgenza del diritto di concludere
un contratto di compravendita”.
8. ALTRE IMPOSTE INDIRETTE
Corte di Cassazione O.N., 05/03/2014, n. 5161
“In tema di ICI, a seguito della entrata in vigore dell’art. 11- quaterdecies, comma 16, del D.L. 30 settembre
2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2
dicembre 2005, n. 248, e dell’art. 36, comma 2, del D.L. 4
luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla
legge 4 agosto 2006, n. 248, che hanno fornito la interpretazione autentica dell’art. 2, comma 1, lettera b), del
D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, la edificabilità di
un’area, ai fini dell’applicabilità del criterio di determinazione della base imponibile fondato sul valore venale, deve
essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita nel
9. IRAP
Corte di Cassazione O.N., 05/02/2014, n. 2520
“Non è soggetto al pagamento dell’Irap il commercialista che a studio si avvale dell’aiuto di praticanti e non di
lavoratori dipendenti”.
Corte di Cassazione O.N., 26/03/2014, n. 7153
“In tema di Irap dei piccoli professionisti non tutte le
spese, ad esempio quelle sostenute a fronte di trasferte di lavoro o per i domiciliatari, concorrono a formare l’autonoma organizzazione”.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
Corte di Cassazione O.N., 09/05/2014, n. 10173
“Né il vasto parco clienti né la presenza di un lavoratore
dipendente con mansioni esecutive condannano il contribuente al pagamento dell’Irap”.
10. DIRITTO SOCIETARIO
Corte di Cassazione, 15/01/2014, n. 665
“La cancellazione volontaria dal registro delle imprese
di una società, a partire dal momento in cui si verifica la
estinzione della società medesima, impedisce che essa possa
ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se la
estinzione della società cancellata dal registro intervenga in
pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli
artt. 299 c.p.c. e segg., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o
nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia
stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi
non sarebbe più stato possibile, la impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o
essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei
confronti dei soci succeduti alla società estinta”.
Corte di Cassazione, 14/11/2014, n. 24322
“Essendo il debito del socio il medesimo della s.n.c., è legittimo l’assoggettamento del primo alla esazione del debito fiscale accertato nei confronti del secondo, alle ordinarie
condizioni poste dall’art. 2304 del codice civile, senza che
sia necessario notificargli l’atto impositivo originario e/o gli
atti amministrativi conseguenti. Non occorre avviso bonario, intesa la sufficienza delle diciture nella cartella (notificata al socio) “omesso o carente versamento”, “sanzione pecuniaria per omesso o carente versamento”, “interessi per
omesso o carente versamento””.
Corte di Cassazione, 22/12/2014, n. 27189
“In tema di riscossione coattiva, l’Amministrazione finanziaria può notificare direttamente al socio, ancorché
receduto, l’avviso di mora per una obbligazione tributaria
della società in nome collettivo, insorta anteriormente al
suo recesso, di cui egli risponde solidalmente e illimitatamente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2290 e
2291 cod. civ. a nulla rilevando che sia rimasto estraneo
agli atti di accertamento ed impositivi finalizzati alla formazione del ruolo, atteso che il suo diritto di difesa è garantito dalla possibilità di contestare la pretesa originaria, impugnando insieme all’atto notificato anche quelli presupposti, la cui notificazione sia stata omessa o risulti irregolare”.
GIURISPRUDENZA
11. SANZIONI E RESPONSABILITÀ
Corte di Cassazione O.N., 19/02/2014, n. 3874
“Deve risarcire la clientela il consulente fiscale che non
fa ricorso alla CTP, pur avendo ricevuto un mandato per la
difesa tecnica, perché non si è aggiornato sulle riforme legislative che, con buona probabilità, gli avrebbero fatto vincere la causa”.
Corte di Cassazione O.D., 21/03/2014, n. 6663
“L’Erario, tenuto ad osservare i principi di ragionevolezza, capacità contributiva ed imparzialità della Pubblica
amministrazione, deve accertare il tributo effettivamente
dovuto ed ha, quindi, l’obbligo di procedere a compensazione tra il maggior reddito accertato e la perdita fiscale non
utilizzata, nei limiti consentiti, potendovi altrimenti provvedere il giudice tributario di merito in caso di omissione.
Nella ipotesi in cui il maggior reddito d’impresa accertato alla società non avrebbe portato ad alcun recupero impositivo per effetto del riconoscimento delle perdite pregresse
si applica la sanzione per infedele dichiarazione, di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 471/1997”.
Corte di Cassazione O.N., 17/04/2014, n. 8935
“In tema di incertezza normativa nell’ambito del procedimento tributario, non paga le sanzioni il contribuente che
presenta in ritardo la dichiarazione dei redditi a causa dei comunicati stampa dell’Amministrazione finanziaria sibillini
e poco chiari circa la scadenza o proroga dell’adempimento”.
Corte di Cassazione, 17/12/2014, n. 26475
“Quale indiretto riflesso del principio di legalità, il concetto di sanzione racchiude in sé anche il connotato della
certezza. Spetta alla legge delineare esattamente i connotati
identificativi della condotta che vìola il precetto ed indicare
esattamente la sanzione applicabile in quel caso. Ciò è
quanto si osserva anche nel campo delle sanzioni c.d. improprie dove, di regola, la situazione di svantaggio, che si
determina in capo al contribuente quale effetto riflesso della
inosservanza di un obbligo o, più generalmente, della violazione di un precetto, è puntualmente prevista dalla legge e si
applica de plano quale diretta ed immediata conseguenza
di una condotta inadempiente. È perciò evidente, già solo
per questo aspetto, la distanza che separa l’assoggettamento
del contribuente inattendibile ad accertamento induttivo
dal campo delle sanzioni c.d. improprie. Risulta, pertanto,
inapplicabile il principio del “favor rei“ nel caso di abrogazione della violazione di un obbligo che, all’epoca della sua
vigenza, aveva creato il presupposto del ricorso all’accertamento induttivo”.
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GIURISPRUDENZA
12. DIRITTO PENALE
Corte di Cassazione, Sez. II Penale O.N., 11/03/2014,
n. 11777
“In caso di maxi evasione Iva e riciclaggio di denaro
sporco, è legittima la confisca per la frode fiscale anche
quando l’imprenditore ha già saldato il debito con l’Erario”.
Corte di Cassazione, Sez. III Penale O.D., 26/06/2014,
n. 27676
“Non è punibile per il mancato versamento dell’Iva
l’imprenditore che prova la crisi finanziaria con dichiarazioni dei redditi e richieste di rateizzazioni”.
Corte di Cassazione, SS.UU. Penali O.N., 29/07/2014,
n. 33451
“Ai fini della confisca di cui all’art. 2-ter della legge n.
575 del 1965 (attualmente articolo 24 D.Lgs. 6 settembre
2011, n. 159), per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto,
deve tenersi conto anche dei proventi dell’evasione fiscale”.
Corte di Cassazione, Sez. III Penale O.N., 03/12/2014,
n. 50628
“Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, è norma che incrimina la falsità ideologica e non quella materiale della fattura
e punisce, con espressione inequivoca, chi “emette o rilascia”
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. La condotta vietata (emettere o rilasciare), dunque, va riferita al
documento “fattura” come qualificato dal D.P.R. n. 633 del
1972, art. 21, o agli “altri documenti” cui si riferisce la
norma in esame.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
La realizzazione del reato presuppone che l’agente tenga
una condotta di tipo commissivo, che può consistere dunque nella emissione o, più genericamente, nel rilascio di fatture o altri documenti idonei ad attestare il sostenimento di
costi relativi ad operazioni inesistenti. La condotta si perfeziona mediante la consegna - o la spedizione - ad un terzo,
potenziale utilizzatore, della documentazione predetta.
Non è sufficiente, invece, per determinare la punibilità
della condotta, la mera predisposizione di fatture ideologicamente false che non sia seguita dalla consegna ai soggetti che potrebbero beneficiarne.
Per la integrazione del delitto è sufficiente anche una
sola fattura, non essendo previsto come necessario il raggiungimento di alcuna soglia di punibilità, rilevando
eventualmente i bassi importi riportati in fatture quale
circostanza attenuante secondo la previsione di cui all’art.
8, comma 3”.
LA REVISIONE DEL SISTEMA FISCALE E CONSIDERAZIONI PENALI TRIBUTARIE
CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI
A.N.T.I.
Tra i convegni organizzati o sponsorizzati dall’ANTI
ed in programmazione in questi primi mesi del 2015 che come tradizione sono tutti pubblicati sul nostro sito
web www.associazionetributaristi.it nella sezione “Eventi” - segnaliamo:
– il convegno organizzato a Torreano di Martignacco
(UD) il 12 gennaio 2015 dalla Sezione Friuli Venezia
Giulia sul tema: “NOVITA’ TRIBUTARIE 2015. Dai primi Decreti di attuazione della cd. Riforma dell’ordinamento tributario 2014 alla Legge di stabilità 2015 e oltre”. Coordinatore: Dott. Roberto Lunelli. Relatori: Dott.ssa Silvia Pelizzo, Dott. Luca Lunelli e Rag. Giovanni Sgura;
– il convegno organizzato a Torino il 29 gennaio
2015 dalla Sezione Piemonte e Valle D’Aosta sul tema:
“Artt. 2446-2447 c.c. doveri per amministratori, sindaci,
professionisti”. Relatori: Prof. Roberto Weigmann e Avv.
Marco Locati;
– il convegno organizzato a Torino il 12 marzo 2015
dalla Sezione Piemonte e Valle D’Aosta sul tema: “Convenzione Italia-Svizzera e voluntary disclosure internazionale e nazionale”. Relatore: Dott. Gianluca Odetto;
– il convegno organizzato a Torino il 26 marzo 2015
dalla Sezione Piemonte e Valle D’Aosta sul tema: “I nuovi
principi contabili OIC: novità salienti ed impatto sul bilancio 2014”. Relatori: Dott. Alessandro Ruina, Dott.ssa Sonia Bianchi, Dott.ssa Sabrina Rigo e Dott. Tiziano Sesana;
– il convegno organizzato a Milano il 16 aprile 2015
dalla Sezione Lombardia sul tema: “L’evoluzione in atto
della giurisprudenza costituzionale: una maggiore sensibilità per le ragioni del contribuente”. Presentazione: Prof.
Avv. Gianfranco Gaffuri. Relatori: Prof.ssa Barbara
Randazzo, Prof. Avv. Francesco Tesauro e Prof. Avv.
Giuseppe Zizzo;
– il convegno organizzato a Torino il 16 aprile 2015
dalla Sezione Piemonte e Valle D’Aosta sul tema: “Il
nuovo falso in bilancio”. Moderatore: Prof. Avv. Ivo Caraccioli. Relatori: Prof. Dott. Andrea Perini e Avv. Lorenzo Imperato;
– il seminario organizzato a Monselice (PD) il 17
aprile 2015 dalla Sezione Veneto sul tema: “Riscossione
delle imposte tra efficacia e garanzie”. Presidente: Dott.
Arturo Toppan. Presentazione ed indirizzo di saluto:
Prof. Francesco Moschetti. Relatori: Prof. Massimo Basilavecchia, Profili costituzionali della riscossione; Prof.
Giuseppe Carraro, Il Soggetto Equitalia; Dott. Vincenzo
Busa, La voce di Equitalia; Prof. Sebastiano Maurizio
Messina, Riscossione e società estinte; Prof. Salvatore Muleo, Fallimento e riscossione; Prof. Marco De Cristofaro,
Esecuzione forzata e garanzia del contribuente; Prof. Loris
Tosi, Sottrazione fraudolenta alla riscossione. Conclusioni:
Prof. Francesco Moschetti e Prof. Loris Tosi.
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L’A.N.T.I. Associazione Nazionale Tributaristi Italiani è stata costituita
il 13 giugno 1949 e, nella sua lunghissima storia, ha avuto illustri Presidenti
quali: Giovanni Battista Adonnino, Ernesto D’Albergo, Epicarmo Corbino,
Ignazio Manzoni, Victor Uckmar, Giuseppe De Angelis e Mario Boidi.
Attualmente è presieduta dal Prof. Gianni Marongiu. L’Associazione,
che ha sezioni in tutta Italia, si propone, attraverso incontri di studio,
convegni e pubblicazioni, di approfondire le tematiche fiscali, sotto il
profilo scientifico, ma attenta anche alle applicazioni professionali. Essa
tiene, altresì, contatti con Governo e Parlamento collaborando quando
richiesto allo studio e alla formazione delle leggi. L’A.N.T.I. è socia della
Confédération Fiscale Européenne, l’unico raggruppamento Europeo di
consulenti tributari che opera a livello Comunitario e nell’anno 2004 è
stato presieduto dal Prof. Mario Boidi.
SEDE LEGALE
Viale delle Milizie, 14 • 00192 Roma • Tel. 06.3215084 • Fax 06.32507485
Sito Internet: www.associazionetributaristi.it
PRESIDENZA
Via Roma, 11/5 • 16121 Genova • Tel 010.29117911 • Fax 010.29117912
E-mail: [email protected]
SEGRETERIA NAZIONALE E TESORERIA NAZIONALE
Viale delle Milizie, 14 • 00192 Roma • Tel. 06.3215084 • Fax 06.32507485
E-mail: [email protected][email protected]