Quaderni regionali - numero 3 anno 2008

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Quaderni regionali - numero 3 anno 2008
FRONTE_Quad_Reg3 26-01-2009 16:20 Pagina 1
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Anno XXVII
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Settembre-Dicembre 2008
CY CMY
K
Numero 3
Rivista quadrimestrale di studi e documentazione
fondata da Fausto Cuocolo
• Regioni e diritto del lavoro
Sistema formazione: Stato e regioni
Responsabilità nelle pubbliche amministrazioni
Diritto del lavoro nella Costituzione
Rapporto di lavoro regionale
Servizi per l’impiego: produttività
• Dibattiti e attualità
Sanità: regionalizzazione e aziendalizzazione
“Norme cedevoli” nella Costituzione
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Pericu, Giovanni Persico, Anna Maria Poggi,
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Hanno collaborato a questo numero
Balduzzi Renato, Professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università del Piemonte Orientale
Candido Alessandro, Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano
Caruso Bruno, Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di
Catania
Ciriello Antonella, Magistrato
Comandè Daniela, Dottoranda di ricerca in Diritto del lavoro europeo nell’Università
degli Studi di Catania
Durante Emanuela, Collaboratrice presso il Dipartimento di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Genova
Gatto Alessia, Assistente di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Genova
Ichino Pietro, Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di
Milano
Moro Gabriele, Dottore di ricerca in Diritto del lavoro e Relazioni industriali nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano
Paris Davide, Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale nell’Università degli Studi
di Milano
Russo Giovanni, Magistrato
Sartori Alessandra, Dottoranda di ricerca in Scienze del lavoro nell’Università statale
di Milano
Vipiana Patrizia, Ricercatore confermato di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università
di Genova
Zilli Anna, Dottore di ricerca in Diritto del lavoro, Professore a contratto nell’Università degli Studi di Udine
La rivista è curata dal Consiglio Regionale della Liguria. La Direzione e la Redazione della Rivista
sono presso il Consiglio Regionale della Liguria in Genova (16121), Via Fieschi, 15 - Tel. 010/54851
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Note per gli autori - La collaborazione è aperta a tutti gli studiosi. I testi di saggi e dibattiti non dovranno di norma superare le venti cartelle dattiloscritte – pari a circa cinquantamila battute. Oltre al
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Proprietà letteraria riservata. Non si restituiscono i dattiloscritti inviati anche se non pubblicati.
Gli articoli firmati e quelli redazionali esprimono le opinioni dei singoli autori e non impegnano
comunque le valutazioni del Consiglio regionale della Liguria.
SOMMARIO
ARTICOLI
Regioni e diritto del lavoro
Bruno Caruso - Daniela Comandè, Modelli di regolazione giuridica,
fonti e sistema delle competenze sulla formazione ............................ Antonella Ciriello, Riflessioni sul contratto a tempo determinato
nel pubblico impiego.......................................................................... Emanuela Durante, Il nuovo testo unico in materia di tutela della
salute e della sicurezza sul lavoro..................................................... Alessia Gatto, La responsabilità di risultato dei dirigenti pubblici.
Pietro Ichino, Superare l’irresponsabilità diffusa nelle amministrazioni pubbliche. Concorrenza e controllo.......................................... Gabriele Moro, La riforma del Titolo V Cost.: quale collocazione
per il diritto del lavoro? Un’analisi dottrinale e giurisprudenziale.... Giovanni Russo, La costituzione del rapporto di lavoro con la Regione................................................................................................... Alessandra Sartori, Le esperienze di misurazione e di valutazione
della produttività dei servizi per l’impiego: riflessioni sul quadro
comparato.......................................................................................... Anna Zilli, Il lavoro pubblico locale tra Stato e Regioni................. DIBATTITI E ATTUALITÀ
Renato Balduzzi, Sul rapporto tra regionalizzazione e aziendalizzazione in campo sanitario................................................................ Alessandro Candido, Norme cedevoli e poteri sostitutivi legislativi
nel nuovo assetto costituzionale......................................................... Davide Paris, Riflessioni di diritto costituzionale sull’obiezione di
coscienza all’interruzione volontaria della gravidanza a 30 anni
dalla legge n. 194 del 1978................................................................ » 737
» 781
» 805
» 817
» 835
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» 1029
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE DI INTERESSE REGIONALE
(a cura di Patrizia Vipiana)
Corte Costituzionale, Sentenza (14) 18 aprile 2008, n. 104 .......... » 1105
Id., Sentenza (5) 14 maggio 2008, n. 131 ......................................... » 1111
Id., Sentenza (7) 16 maggio 2008, n. 142 ......................................... » 1118
Id., Sentenza (7) 16 maggio 2008, n. 145 ......................................... » 1122
Id., Sentenza (7) 20 maggio 2008, n. 159 ......................................... » 1130
Id., Sentenza (19) 23 maggio 2008, n. 166 ....................................... » 1143
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Id., Sentenza (19) 23 maggio 2008, n. 168 ....................................... Id., Sentenza (19) 30 maggio 2008, n. 179 ....................................... Id., Sentenza (19) 30 maggio 2008, n. 180 ....................................... Id., Sentenza (21 maggio) 6 giugno 2008, n. 190 ............................. Id., Sentenza (9) 13 giugno 2008, n. 200 .......................................... Id., Sentenza (9) 13 giugno 2008, n. 201 .......................................... Id., Sentenza (9) 18 giugno 2008, n. 213 .......................................... Id., Sentenza (9) 18 giugno 2008, n. 214 .......................................... Id., Sentenza (23) 27 giugno 2008, n. 232 ........................................ Id., Sentenza (25 giugno) 4 luglio 2008, n. 250 . .............................. Id., Sentenza (7) 11 luglio 2008, n. 271 ............................................ Id., Sentenza (9) 16 luglio 2008, n. 277 ............................................ Id., Sentenza (9) 18 luglio 2008, n. 285 ............................................ » 1150
» 1165
» 1167
» 1171
» 1178
» 1184
» 1188
» 1193
» 1197
» 1201
» 1203
» 1210
» 1215
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA . .................................................... (a cura di Patrizia Vipiana)
» 1223
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ARTICOLI
Bruno Caruso
Professore ordinario di Diritto del lavoro
nell’Università degli Studi di Catania
Daniela Comandè
Dottoranda di ricerca in Diritto del lavoro europeo
nell’Università degli Studi di Catania
Modelli di regolazione giuridica, fonti e
sistema delle competenze sulla formazione *
Sommario: 1. Una chiave di lettura del “sistema formazione”. – 2. Le competenze e la variabilità di fonti: una impossibile quadratura del cerchio. – 3. Il riparto delle competenze
in materia di formazione. – 3.1. La posizione della Corte Costituzionale: contratti formativi e finanziamento della formazione. Le sentenze nn. 50 e 51/2005. – 3.2. Alcuni rilievi critici: meglio la sussidiarietà che la “materia”. – 4. La “rincorsa” delle fonti nel nuovo apprendistato: concorrenza caotica o modello esemplificativo? – 4.1. La regolamentazione dell’apprendistato nel dettaglio: il riparto delle competenze e delle “funzioni” regolative tra Stato e Regioni. – 4.2. Segue: e il nuovo canale ‘esclusivo’ delle parti sociali. –
4.3. La differenziazione territoriale dei modelli. – 4.4. Apprendistato al plurale? – 5. Tendenze e problemi aperti della regolazione sociale oltre la formazione: il profilo del rapporto tra le fonti. – 6. Verso un diritto della regolazione.
1. Una chiave di lettura del “sistema formazione”
Nella letteratura corrente è ormai quasi un luogo comune il riconoscimento del fatto che il sapere, e a monte la formazione che ne costituisce l’istituto di riferimento essenziale, sia diventato un fattore strategico
nella pianificazione aziendale – oltre che elemento strutturale del modo
di creare valore e di produrre – che si incorpora nelle merci e nei prodotti, ma determina pure il modo in cui si organizza il lavoro e come la persona si relaziona con la macchina. Tutto ciò non può non aver ricadute su
una disciplina, il diritto del lavoro, che nella relazione storica, giuridica
e sociale della persona con il lavoro (nel nostro ordinamento costituzionale alla base del suo patto fondativo di legittimazione: art. 1) trae il proprio paradigma scientifico. Il ritorno alla ribalta, nella riflessione dei giuslavoristi, di un istituto come la formazione professionale – che del sapere è uno dei tradizionali veicoli nonostante sia passato in secondo piano
nello spettro variegato degli istituti riconducibili al diritto del lavoro – ha
* Il presente scritto è interamente frutto di una comune riflessione; tuttavia i §§ 1, 2, 3,
3.1, 3.2, 4, 5, 6 sono da attribuire a Bruno Caruso; i §§ 4.1, 4.2, 4.3, 4.4 a Daniela Comandè.
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comportato delle ripercussioni rilevanti nell’attività di regolazione del lavoro degli attori pubblici e privati. In questo senso assume rilievo centrale uno studio articolato sul sistema delle fonti che entrano in gioco nel
pianeta formazione, ove si consideri la estrema variabilità di competenze
territoriali e tipologie di fonti che vi insistono. Se si osservano, infatti, sia
i livelli territoriali di regolazione e il riparto delle competenze, sia la tipologia di fonti, ci si avvede come il catalogo per entrambi i profili – livelli territoriali e tipologie – sia pressoché completo. E ciò sia in ragione
del fatto che la formazione si presta, per la sua intrinseca funzione economico-sociale, ad una regolazione decentrata e territorialmente differenziata come effetto di esigenze, di cui gli attori sono più o meno consapevoli, che stanno a monte del suo modello organizzativo 1; sia in ragione del fatto che essa risulta tanto più efficace rispetto ai suoi diversi scopi
2
, quanto più si adatta e risponde ai bisogni dei territori, dei mercati del lavoro locali, ma anche ai programmi di libertà delle persone situate.
La ricostruzione della struttura e della dinamica delle fonti giuridiche di regolazione del sistema formativo, oggetto dell’analisi che segue,
presuppone come impianto teorico quello che altrove 3 abbiamo definito
approccio delle capability, in relazione al quale appare coerente sviluppare modelli di governo, di policy, ma pure di regolazione giuridica, che
assumono la vicinanza ai territori e alle persone come elemento consequenziale. Ne discende il recupero del principio di sussidiarietà in guisa
di strumento tecnico di regolazione delle competenze, ma pure di fattore
di valorizzazione e concreta canalizzazione dell’approccio delle capability. Tutto ciò suggerisce una lettura, coerente a questo assunto, dei dati
giuridici positivi che riguardano il sistema delle competenze territoriali e
della giurisprudenza della Corte Costituzionale su formazione e contrat1
La formazione è un campo di sperimentazione ideale del partenariato istituzionale, in
cui sono coinvolti una pletora di soggetti istituzionali, sociali, privati, di livello centrale e decentrato. Si sta rafforzando – in piena sintonia con le esigenze di governo di un’economia sempre più diffusa e intrecciata con il territorio – una new governance dei sistemi di formazione,
che ha come obiettivo, per il profilo dei soggetti, un incremento del livello di trasparenza e di
consenso sulle politiche della formazione e di disseminazione delle responsabilità nella sua
gestione, con un coinvolgimento degli attori locali e dei cittadini interessati attraverso forme
di consultazione delle rappresentanze sociali; ma ha anche l’obiettivo di aumentare l’efficienza e l’efficacia “personalistica” del sistema: la formazione può essere gestita in forma flessibile e individualizzata solo se la sua governance è diffusa sul territorio in modo da avvicinare la
sua gestione ai destinatari del servizio. Per riflessioni di più ampio respiro sul punto v. B. Caruso, Occupabilità, formazione e «capability» nei modelli giuridici di regolazione dei mercati del lavoro, in «DLRI», 2007, n. 1, spec. p. 48 ss.
2
Cfr. B. Caruso, Occupabilità, formazione e «capability», op. ult. cit., p. 34 ss.
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Cfr. B. Caruso, Occupabilità, formazione e «capability», op. ult. cit., p. 4 ss.
ti formativi, del rapporto tra fonti eteronome di diverso livello e fonti autonome, e delle loro reciproche interferenze, con particolare riguardo
all’assetto del contratto formativo per eccellenza: l’apprendistato. Più in
generale, si suggerirà una chiave di lettura delle tendenze in atto del sistema delle fonti di regolazione della disciplina in generale.
2. Le competenze e la variabilità di fonti: una impossibile quadratura del
cerchio
Sulla formazione si irradiano, in primo luogo, incisive politiche comunitarie indotte da fonti primarie e secondarie dell’ordinamento europeo, ma pure da importanti disposizioni costituzionali dello stesso, in generale, sintoniche con la Costituzione nazionale, che attribuisce fondamentali competenze sia allo Stato, sia alle regioni; il risultato è un problematico equilibrio che ha richiesto importanti interventi di vero e proprio
arbitrato politico da parte della Corte Costituzionale 4, aventi ad oggetto
sia l’assetto istituzionale della formazione, sia i contratti formativi.
Un equilibrio problematico non solo in ragione della discutibile soluzione tecnica assunta dalla riforma costituzionale del 2001 – il nuovo art.
117 Cost. –, in cui sembra dominare l’illusione che le competenze siano
attribuibili allo Stato e alle regioni sulla base dell’astratta ripartizione per
macroaggregati di materie – e facendo, al contempo, salve le competenze
trasversali dello Stato che attraversano quelle stesse materie –, con il risultato di un’impossibile quadratura del cerchio; ma anche perché appare
ineliminabile, nella formazione 5, la sovrapposizione di competenze esclu4
Il riferimento è principalmente alla nota sentenza n. 50 del 2005 commentata ampiamente dalla dottrina. Tra i tanti si veda E. Malfatti, La Corte Costituzionale al cospetto delle
deleghe in materia di lavoro: quando la decisione (e la relativa massimazione) diventa difficile (nota a C. Cost. 28 gennaio 2005, n. 50), in «FI», 2006, n. 2, I, p. 368 ss.; P. Albi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neo-regionalismo, in «RIDL», 2005, n. 3, II, p. 530 ss.;
A. Garilli, La riforma del mercato del lavoro al vaglio della Corte Costituzionale, in «RGL»,
2005, n. 3, II, p. 440 ss.; S. Scagliarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in
tema di regolazione del mercato del lavoro, in «DRI», 2006, n. 1, p. 183 ss.; Id., Principi fondamentali in materia di potestà concorrente e delegazione legislativa: una conferma dalla
Consulta, in «GC», 2005, n. 1, p. 486 ss.; V. Filì, La “Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata. Appunti dopo il decreto correttivo ed il vaglio costituzionale, in «LG», 2005, n. 5, p.
405 ss.; E.M. Barberi, Il diritto del lavoro fra competenze statali e competenze regionali secondo la Corte Costituzionale, in «MGL», 2005, n. 4, p. 288 ss.
5
Ma ancor più nell’istruzione, A. Poggi, Istruzione, formazione professionale e Titolo V:
alla ricerca di un (indispensabile) equilibrio tra cittadinanza sociale, decentramento regionale e autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche, in «Le Regioni», 2002, n. 4, p. 771 ss.
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sive di Stato 6 e regioni 7 e di competenze concorrenti 8. Onde una concorrenza di competenze che insistono tutte, e legittimamente, su “pezzi” di
un sistema complesso ma unitario. Di ciò la Corte Costituzionale, nella
sentenza n. 50/2005, ha dovuto ragionevolmente prendere atto 9.
Peraltro, a prescindere dalla discutibile soluzione tecnica di riparto
per materie incorporata nelle norme costituzionali 10, l’intreccio e l’equilibrio delle competenze risulta, di per sé, complicato nella misura in cui
esso riflette e risente della intrinseca complessità del sistema istituzionale di governance che, sulla materia, si è, di fatto, realizzato, non solo in
Italia. In altre parole, l’articolata e a volte sovrapposta convergenza di
fonti di struttura e livello diversi, è causa, ma pure inevitabile effetto del
modello di governance realizzato.
La complessa intelaiatura alla base del sistema di competenze trova
un suo corrispondente immediato nella multiforme realtà delle tipologie
di fonti che insistono sulla formazione, in relazione alle quali il catalogo
può considerarsi completo.
A livello comunitario, infatti, è ampio il ricorso al metodo di soft law
per indurre buone prassi e stimolare la convergenza delle politiche della
formazione degli Stati membri; ciò sia all’interno della Strategia europea
per l’occupazione, sia come iniziativa autonoma connessa ad una competenza condivisa sulla materia, tra Stati e Unione 11.
Nell’ordinamento interno si “inseguono”, come si diceva, – in mancanza di un impossibile principio unitario d’ordine sistematico 12 – leggi
6
Ordinamento civile, livelli essenziali delle prestazioni, tutela della concorrenza e
libera circolazione, ex art. 120 Cost.
Formazione e istruzione professionale.
Nella formula attuale del comma 3 dell’art. 117 tutela e sicurezza del lavoro.
9
Per riflessioni sul percorso argomentativo seguito dalla Consulta iniziato con la sentenza 50 e proseguito con le sentenze “figlie” n. 406 e n. 425 del 2006 e n. 21 e n. 24 del 2007, v.
il contributo di B. Caruso, A. Alaimo, Il Conflitto tra Stato e Regioni in tema di lavoro e la mediazione della Corte Costituzionale: la recente giurisprudenza tra continuità e innovazione, in
«RIDL», 2007, n. 3, p. 569 ss.
10
Si tratta di questioni irrisolte che, a cascata, dalla norma costituzionale ridondano sulla legislazione ordinaria: la riforma continua dell’apprendistato.
11
Cfr. B. Caruso, Occupabilità, formazione e «capability», op. cit., p. 34 ss.; C. Cantarella, S. Santangelo, Regolazione pubblica della formazione. Area europea, in Formazione e
politiche per l’occupazione, Dossier a cura del C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, www. lex.
unict.it/ eurolabor/ ricerca/ dossier.htm; C. Massimiani, La formazione nella Seo, in Formazione e politiche per l’occupazione, cit.
12
Si veda, comunque, la condivisibile sistemazione di L. Zoppoli, Il lavoro di Aracne:
formazione e politiche attive dell’impiego nelle recenti dinamiche istituzionali, in «DLM», n.
1, p. 85 ss., secondo il quale spetta alle regioni la programmazione degli interventi formativi,
7
8
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nazionali e regionali; ciò malgrado il pacifico e formale riconoscimento
che assegna alle regioni una competenza residuale esclusiva; con la conseguenza che la Corte Costituzionale è stata chiamata più volte ad arbitrare su conflitti di competenze sollevati soprattutto dalle regioni.
Le stesse regioni non lesinano interventi regolativi anche de-legificati e legittimati da un’inedita prassi di concertazione regionale, intensificatisi di recente in ragione della necessità di intervenire, come prevede
la legge nazionale 13, sui profili formativi del nuovo apprendistato; in ciò
indotte da una legislazione nazionale di rinvio che, per quanto costituzionalmente discutibile, data l’acclarata competenza esclusiva delle regioni
in materia 14, ha, tuttavia, ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale
(sent. n. 50/2005).
A livello regionale incomincia, anche se timidamente, a far capolino
una sorta di soft law domestica. In qualche provvedimento regionale, ad
esempio, si fa riferimento a strumenti come le buone pratiche 15. Si tratta
di riferimenti che lasciano intravedere come anche le politiche del lavoro “interne” possano costituire terreno elettivo per la sperimentazione di
strumenti più formalizzati di soft law per il coordinamento delle politiche
regionali intorno alle migliori prassi, anche in materia di formazione e
mercato del lavoro 16.
La formazione, poi, è materia privilegiata dalla regolazione autonola decisione sulle modalità di erogazione e di gestione dei servizi formativi, l’accreditamento
delle agenzie formative, l’apprestamento di un’anagrafe delle agenzie formative e dei lavoratori coinvolti; spetta, invece, all’attività di raccordo istituzionale tra Stato, Unione e regioni il
disegno del sistema formativo e il coordinamento delle politiche; spetta, infine, allo Stato la
predisposizione di criteri unitari di certificazione dei percorsi formativi e la fissazione e la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni, oltre alla predisposizione di strumenti unitari di
monitoraggio e valutazione statistica.
13
Cfr. artt. 48-50, d.lgs. n. 276/2003.
M. Novella, M.L. Vallauri, Apprendistato professionalizzante: alcune questioni aperte, in «DPL», 2005, n. 46, p. 2526 ss.
14
Si vedano, per esempio, l’art. 25, comma 1, lett. c), sulla cooperazione pubblico-privato della l. reg. Friuli Venezia Giulia n. 18/2005, e la disposizione, di tenore analogo, dell’art.
13 della l. reg. Marche n. 2/2005.
16
Sul punto B. Caruso, Il diritto del lavoro tra hard law e soft law: nuove funzioni e nuove tecniche normative, in M. Barbera (a cura di), Nuove forme di regolazione: il metodo aperto di coordinamento, Milano, Giuffrè, 2006, p. 77 ss. Per quanto riguarda più specificamente
l’apprendistato e l’utilizzo da parte delle autonomie regionali di una regolazione soft a contenuto hard v. D. Comandè, Il diritto del lavoro al “plurale” (Regioni e modelli regolativi differenziati dell’apprendistato professionalizzante), in «DRI», 2008, n. 4 (di prossima pubblicazione), in cui sono attenzionati una serie di provvedimenti paradigmatici dell’alta densità normativa che si può misurare anche in atti regionali non appartenenti al rango della legge, e pertanto riconducibili ad un secondo livello di normazione.
15
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ma delle parti sociali: tradizionalmente la contrattazione collettiva a vari
livelli, soprattutto quello nazionale di categoria ma anche quello territoriale decentrato e con un discreto sviluppo, di recente, anche del livello
europeo 17.
Si è trattato di una contrattazione collettiva che, sulla formazione e
sui contratti formativi, ha svolto, più che in altre materie, una funzione
privatistico-normativa – di regolazione del rapporto – ma pure di co-gestione pubblicistica del sistema, rinviando e utilizzando il terminale operativo degli enti bilaterali e l’attività parapubblica che ne segue 18.
Sul sistema formativo si assiste – in virtù del nuovo assetto costituzionale regionalistico e dell’assetto delle fonti stabilito dalle disposizioni sull’apprendistato 19 – alla sperimentazione di una concertazione a geometria, territoriale e istituzionale, variabile, che si andrà probabilmente
rafforzando e diffondendo negli anni a venire.
Si tratta di meccanismi sia di concertazione nazionale di rilievo regionale con la partecipazione di Stato, regione e parti sociali 20, sia di
concertazione di puro livello regionale con la partecipazione di regioni e
parti sociali; una concertazione, per altro, che si pone accanto, ma con
funzioni regolative diverse, alla collaborazione istituzionale – tra Stato e
regioni – che, su formazione e istruzione, ha giocato tradizionalmente un
ruolo importante.
Il sistema di regolazione che si viene a realizzare non è affatto statico, né nasce in virtù di un disegno ordinatore pre-orientato e organizzato. Le sue cifre salienti sono la dinamicità, la fluidità, la sperimentazione
e la differenziazione.
Ciò produce interazioni e collegamenti inediti tra fonti diverse 21 che
G. Urso, Dialogo sociale, in Formazione e politiche per l’occupazione, cit.
Questa commistione appare interessante nel caso paradigmatico dell’apprendistato, e
della tipologia professionalizzante in particolare, su cui vedi infra §§ 4 ss.
19
Cfr. artt. 47 ss., d.lgs. n. 276/2003.
20
Si vedano i primi accordi per l’apprendistato per l’alta formazione in Lombardia, Veneto, Toscana, Liguria Piemonte ed Emilia Romagna in D. Comandè, Una lettura sistematica dei contratti formativi dopo il d.lgs. 276/2003, in Formazione e politiche per l’occupazione, cit.
21
Politiche e soft law europee, legislazione primaria e regolamentazione secondaria nazionale, legislazione primaria e regolazione secondaria regionale, concertazione nazionale e
regionale, contrattazione collettiva di diverso livello e regolazione parapubblica degli enti bilaterali, embrioni di soft law interna. Si rinvia a B. Caruso, La contaminazione tra linguaggio
della politica e linguaggio dei diritti nel «Metodo aperto di coordinamento», Paper presentato al convegno «Governare il lavoro e il welfare attraverso la democrazia deliberativa», Roma, CNEL, 9-10 ottobre 2006, dattiloscritto; C. Kilpatrick, New EU Employment Governance and Constitutionalism, in J. Zeitlin, D. Trubek (eds.), Governing Work and Welfare in a
17
18
742
mettono sicuramente in discussione i moduli relazionali e relativamente
semplificati – alla luce dell’odierna complessità – del rapporto binario
tra fonti cui i giuslavoristi sono stati più adusi: legge nazionale e contratto collettivo 22.
Il che non deve destare meraviglia se si pensa che la formazione si
presenta come un vero e proprio sub-sistema autonomo di regolazione, in
cui moduli di regolazione pubblici, privati-collettivi e parapubblici si
confondono e si ibridano, dando luogo ad un modello nuovo: il diritto
della regolazione.
Come rilevato, il fatto che la formazione costituisca un sistema unitario e complesso (un sub-sistema sociale) è all’origine dell’impossibile
quadratura del cerchio del problema del riparto delle competenze, qualora si assuma l’approccio della “materia”.
La formazione è, dunque, un “sistema” su cui convergono una
pluralità di attori e una differenziata gamma di strumenti di regolazione, e non una materia. Per tale ragione, i tentativi di ricondurre ad una
chiara ed ordinata ripartizione, tra competenza esclusiva o ripartita,
dei suoi diversi segmenti, finisce per costituire un defatigante gioco –
cui è stata costretta, suo malgrado, anche la Corte Costituzionale –,
fatto di mosse e contromosse da parte di Stato e regioni 23. Ciò, tuttavia, non giustifica un analogo approccio della giurisprudenza scientifica cui spettano compiti, invero più ardui, di sistemazione complessiva 24.
New Economy: European and American Experiments, Oxford, Oxford University Press,
2003.
22
Per una disamina sempre attuale, F. Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in «DLRI», 1998, n. 2, p. 191 ss.; v. pure B. Caruso, Sistemi contrattuali e regolazione legislativa in
Europa, in «DLRI», 2006, n. 4, p. 581 ss.
23
Molti dei motivi di ricorso di alcune regioni, che hanno poi dato luogo alla sentenza
fiume della Corte Cost. n. 50/2005, sono stati fondati più sul tentativo politico di delegittimare l’impianto complessivo della riforma del mercato del lavoro del 2003, che su legittime rivendicazioni di competenze. Ciò ha probabilmente finito per orientare la risposta, esageratamente di chiusura alle istanze regionalistiche, da parte della Corte Costituzionale, a volte più
preoccupata di salvare l’impianto della riforma, che di vagliare la correttezza delle attribuzioni che la legge riserva allo Stato: condivisibilmente E. Barbieri, Il diritto del lavoro fra competenze statali e competenze regionali secondo la Corte Costituzionale, cit.
24
Sempre attuale, in tal senso, il monito di M. D’Antona, L’anomalia post-positivista
del diritto del lavoro e la questione del metodo, in «RCDP», 1990, ora in B. Caruso, S. Sciarra (a cura di), Opere, Giuffrè, Milano, 2000, vol. I, p. 53 ss.
743
3. Il riparto delle competenze in materia di formazione
Come e più di altri sub-sistemi del diritto sociale europeo, il riparto
delle competenze che insistono sulla formazione è regolato dal principio
dinamico di sussidiarietà, che implica un gioco regolativo cooperativo tra
attori e fonti. Tale gioco cooperativo, di natura essenzialmente politica, è
giuridicamente formalizzato nel principio di “leale collaborazione istituzionale” 25, più in sintonia con il sistema di governance diffusa e di regolazione multilivello che si va realizzando in Europa.
Da un lato, dunque, la sussidiarietà, da intendere non come criterio
di riparto delle competenze ma come principio di regolazione delle stesse, che privilegia la fonte più vicina alla situazione regolata e agli interessi e/o alle persone su cui la regolazione esplica i propri effetti e fatto salvo il giudizio, caso per caso, di maggiore adeguatezza della fonte superiore; dall’altro, il principio di leale collaborazione istituzionale come ricerca continua del compromesso e della soluzione migliore – predisposta
da una regolazione con carattere cooperativo e non competitivo – tra più
attori a pari titolo coinvolti.
Tali principi costituiscono la condensazione giuridica di quel che si
va realizzando in Europa per quel che concerne il più generale assetto
politico istituzionale e che da quell’ordinamento si irradia sul livello nazionale, condizionandone anche i rapporti con il livello territoriale sub
nazionale.
Questa presa d’atto non sembra soddisfare l’ansia di soluzioni semplici e razionali dei giuristi 26 che si sentono chiamati al compito di suggerire programmi di decisione, in caso di specifici conflitti di competenza interna, anche al giudice delle leggi.
Da qui il dibattito defatigante, che appare inutile ripercorrere, sul destino del diritto del lavoro nel riparto delle competenze definito dall’attuale art. 117 Cost.
La soluzione che, si dice, sia uscita prevalente da tale dibattito 27 – e
25
Si rinvia a B. Caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali nella governance multilivello), in «ADL», 2004 n. 3, p. 801 ss.; v. pure F. Carinci, Il principio di sussidiarietà verticale nel sistema delle fonti, in «ADL», 2006, n. 6, p.
1496 ss.
26
M. Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie. Valori e tecniche nel diritto del lavoro, Padova, Cedam, 2006.
27
La c.d. dottrina maggioritaria si è attestata intorno alla posizione assunta da F. Carinci
in vari interventi, per tutti F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in «ADL»,
2003, n. 1, p. 17ss. Ad essa fa riferimento, per esempio, ripetutamente e con assoluta sicurezza, V. Filì, La “Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata…, op. cit., p. 406. Che esista una
744
che, si afferma, avrebbe avuto l’autorevole avallo dalla Corte Costituzionale con due sentenze le nn. 50 e 51 28 – è quella che intende “stipare”
l’esuberanza regolativa del diritto del lavoro dentro lo stretto ripostiglio
dell’ordinamento civile.
Le risposte che ha dato la Corte – in questo come in altri conflitti
sollevati dalle regioni 29 – si ispirano sostanzialmente ad una medesima
Weltanshauung e ad una pretesa razionalizzazione nel segno di una sistemazione, che potrebbe apparire neocentralistica, delle competenze in
materia di lavoro, così come prefigurato dalla c.d. dottrina maggioritaria.
Tale dottrina – come del resto la Corte – notoriamente continua a cullare
il mito della centralità regolativa dello Stato nel diritto del lavoro, quale
salvaguardia dei valori di uguaglianza e solidarietà nel rapporto e nel
mercato del lavoro.
3.1. La posizione della Corte Costituzionale: contratti formativi e finanziamento della formazione. Le sentenze nn. 50 e 51/2005
Con la sentenza fiume n. 50/2005 30 la Corte, per quel che riguarda i
contratti formativi, ha fissato alcuni principi:
posizione dominante è in effetti difficile da affermare, tante e tali solo le distinzioni e i distinguo, a volte anche sottili, su cui la dottrina si è esercitata.
28
La prima sentenza, che si confronta con l’intero impianto della riforma del 2003, tratta pure la formazione, ma soprattutto affronta il problema della regolazione dei contratti formativi; la seconda è più concentrata sull’assetto istituzionale del sistema formativo con riferimento, in particolare, ai meccanismi di finanziamento.
29
Dall’analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale del 2005, a cura di M.
Bellocci e P. Passaglia, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2005, in occasione
della Conferenza stampa del Presidente Annibale Marini, Palazzo della Consulta, 9 febbraio
2006, Corte Costituzionale, dattiloscritto, emerge il superamento del dato simbolico del numero di 100 di sentenze rese in via principale (p. XXIV); tuttavia il trend – che vede prevalere, a
partire dalla riforma del 2001, le sentenze rese in via principale su conflitti di competenza, rispetto alle sentenze rese in via incidentale su diritti – sembra in fase di stabilizzazione; il che
potrebbe preludere ad una inversione di tendenza (relazione p. XIV). Questo dato potrebbe essere letto come una progressiva metabolizzazione della riforma da parte degli attori istituzionali, soprattutto le regioni, ma anche il governo; attori che si sono contesi, in questi anni, le incerte competenze fissate dalla riforma costituzionale, a colpi di ricorsi principali, spesso di significato più politico simbolico che tecnico. Per un giudizio complessivo sulla giurisprudenza
della Corte Costituzionale in materia di rapporti di lavoro, si rinvia a R. De Luca Tamajo, Giurisprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, in Aa.Vv., Lavoro. La giurisprudenza costituzionale, Vol. IX. Saggi, CNEL – Corte Costituzionale – Alto Patronato del Presidente della Repubblica (a cura di), Roma, 2006, p. 39 ss.
30
La sentenza, talmente lunga da rendere persino difficoltosa la massimazione, è sta-
745
a) Nella misura in cui i contratti formativi – e in particolare il prototipo tendenzialmente assorbente, costituito dal contratto di apprendistato
nelle sue tre varianti – sono compresi nella categoria generale dei contratti di lavoro, anche se a causa mista, diventa irresistibile la loro attrazione nella competenza esclusiva dello Stato, in quanto riferibili all’ordinamento civile; tale competenza esclusiva è considerata baluardo dell’indivisibilità dei valori della dignità, dell’uguaglianza e della solidarietà
sociale che non tollerano adattamenti localistici 31.
b) La Corte, tuttavia, nella medesima sentenza, non può non riconoscere che la materia presenta pure profili che attengono alla formazione
e all’istruzione professionale che appartengono alla competenza esclusiva delle regioni, o meglio ai processi di codecisione con le parti sociali
da realizzarsi a livello regionale. In tal caso, ove sia possibile spezzettare e distinguere, il riparto segue la strada canonica: la formazione impartita privatamente dalle imprese, riconducibile al sinallagma contrattuale,
fa scattare la competenza esclusiva dello Stato, che ha di recente optato
per una devoluzione alla contrattazione 32; quella gestita dalle regioni,
nell’ambito del sistema pubblico di istruzione e formazione professionale, appartiene, invece, alla competenza esclusiva delle stesse 33. Mentre la
norma sui limiti quantitativi massimi di apprendisti, impedendo “strumentalizzazioni per fini impropri” dell’istituto, rientra nella tutela del lavoro, quindi, nella competenza concorrente 34.
c) La Corte, poi, approfondendo i punti sollevati dai ricorsi, ammette pure che alcuni aspetti della regolazione dell’apprendistato presentano
interconnessioni e ibridazioni tra profili formativi e regolazione del contratto, tra sistema pubblico nazionale dell’istruzione generale e sistema
regionale dell’istruzione professionale 35, tali da rendere impossibile
qualsiasi tentativo, anche sottile, di distinguo, sulla base del criterio della materia. In tal caso, ricorrendo l’ipotesi di concorrenza di competenze,
deve soccorrere il criterio della leale collaborazione tra Stato e regione,
inteso quale strumento elettivo di composizione delle interferenze.
ta redatta con una tecnica approssimativa, che non ha evitato anche evidenti errori tecnici:
una puntale analisi, in tal senso, in E. Malfatti, La Corte Costituzionale al cospetto delle
deleghe in materia di lavoro: quando la decisione (e la relativa massimazione) diventa difficile, op. cit.
31
P. Albi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neo-regionalismo, op. cit.
32
Sul punto vedi infra § 4.1.
33
Punti 14 e 15 e 16 della motivazione.
34
Punti 14 in fine e 16 della motivazione.
35
In particolare l’art. 48 del d.lgs. n. 276/2003, apprendistato per l’acquisizione del diploma.
746
Quest’ultimo, per la sua elasticità, consente di aver riguardo alle peculiarità delle singole situazioni. Al principio di leale collaborazione deve, però, accompagnarsi anche il criterio della “prevalenza” a favore dello Stato – la Corte richiama la sentenza n. 370/2003 – qualora appaia evidente,
come nel caso, l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso
normativo ad una materia piuttosto che ad altre; con ciò svuotando, almeno nel caso dell’apprendistato, il riferimento al principio di leale collaborazione che finisce per essere alquanto formale e di maniera.
Con la sentenza n. 51/2005 la Corte si confronta, invece, con l’assetto istituzionale della formazione, in particolare con il problema del suo
finanziamento, anche attraverso il sistema dei fondi 36. Si tratta di disposizioni legislative relativamente marginali – riguardanti il finanziamento
anche dell’apprendistato – rispetto a quelle “core” considerate nella sentenza n. 50/2005. Data la minore responsabilità politica in gioco, la motivazione appare più solida e esaustiva rispetto alla precedente.
Nella sentenza n. 51/2005 le indicazioni della precedente, anche se
riprese, sono meglio scandite. La Corte, innanzitutto, riconosce che il finanziamento diretto dello Stato alla formazione – ancorché erogata a
soggetti privati – finirebbe per condizionare e interferire con le politiche
Il problema era già stato, sin troppo sbrigativamente, affrontato nella sentenza n.
50/2005 (punto 9) a proposito del sistema del finanziamento della formazione nel lavoro somministrato, al punto da commettere un evidente errore tecnico riferendo anche il comma 2,
dell’art. 12, del d.lgs. n. 276/2003, ai lavoratori somministrati con contratto a tempo “determinato” mentre la disposizione notoriamente si riferisce ai lavoratori con contratto a tempo “indeterminato”. Nella sentenza n. 50/2005 si afferma, apoditticamente, l’afferenza del finanziamento, ivi previsto, a scopi sostanzialmente previdenziali: l’integrazione del reddito dei lavoratori somministrati; onde la riconosciuta competenza esclusiva dello Stato. Si trascura, in tal
modo, che quella è una soltanto e neppure la principale destinazione – se si guarda diacronicamente all’istituto – del finanziamento obbligatorio, essendo evidente, invece, la sua finalizzazione a politiche del lavoro più complessive: tra cui la formazione per fini diversi. Anche in
questo caso si è, infatti, di fronte ad una di quelle ibridazioni di funzioni della formazione non
suscettibile di essere affrontata con il criterio dell’incasellamento della materia: il finanziamento obbligatorio imposto alle agenzie per la formazione è finalizzato alla stabilizzazione
presso l’agenzia e quindi lato sensu al contratto di lavoro, ma pure ad un migliore collocamento dei lavoratori nell’interesse dell’utilizzatore e dell’agenzia e alla elevazione professionale
dei lavoratori, e quindi alla loro sicurezza nel mercato. Dovrebbero essere questi i chiarimenti preliminari per far scattare il gioco dell’afferenza per materia. Di fronte a questa inestricabile concorrenza di funzioni della formazione nel lavoro somministrato, la Corte evita di confrontarsi per evitare di dover prendere atto della inconsistenza del criterio di riparto per materia; preferisce saltare il problema con una rilevazione che lascia, invero, perplessi: la prevalente finalizzazione previdenziale del finanziamento.
36
747
delle regioni, con conseguente invasione, da parte della legge statale, delle competenze esclusive delle regioni 37.
Ma la sentenza si fa meglio apprezzare rispetto alla precedente perché specifica – quasi a rimediare al frettoloso e formale richiamo nella
sentenza n. 50/2005 – che il principio di leale collaborazione è il criterio
di soluzione principale nel caso in cui si configurino situazioni di ibridazione regolativa che non consentono una chiara distinzione tra profili privatistici e pubblicisti. Non solo: si afferma che il principio di leale collaborazione “deve essere preso sul serio”, nella misura in cui deve essere,
in concreto, scrupolosamente osservato, pur non arrivando ad imporre la
forma “più pregnante dell’intesa” 38. Laddove si accerti, infatti, che la
collaborazione non si è in concreto verificata la Corte non esita a dichiarare l’illegittimità della disposizione 39.
3.2. Alcuni rilievi critici: meglio la sussidiarietà che la “materia”
Cosa dire a commento di questo tentativo di sistemazione operato
dalla Consulta sul riparto delle competenze interne in materia di formazione?
È evidente, sul piano dei valori, il significato del riferimento all’ordinamento civile come polo di attrazione della competenza esclusiva dello Stato nei rapporti privati e, quindi, nei contratti formativi: esso è inteso come una sorta di difesa estrema dell’indivisibilità territoriale dei valori personalistici contro il rischio di derive di differenziazione localista.
Tale concezione, in sostanziale linea di continuità con la giurisprudenza
precedente alla riforma del 2001 40, appare oggi, più che mai, datata.
Lungi da indulgere a facili entusiasmi, la c.d. dottrina giuslavoristiPertanto dichiara illegittima la norma della legge finanziaria che dispone in tal senso
(art. 47, comma 1, legge n. 289/2002): “questa Corte ha ripetutamente chiarito che il tipo di ripartizione delle materie fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost., «vieta comunque che in
una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo
Stato potestà legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle
rispettive competenze» (sentenze n. 320, n. 423 e n. 424 del 2004)”.
38 a
3 massima riferita all’art. 47, comma 2, della legge n. 289/2002.
39
4a massima riferita all’art. 48 della legge n. 289/2002. La massima pubblicata in
«DRI», 2005, n. 3, p. 821 con equilibrato e condivisibile commento di S. Scagliarini, La formazione professionale tra Stato e Regioni: alcuni importanti chiarimenti (nota a C. Cost. sentenza 28 gennaio 2005 n. 51), in «DRI», 2005, n. 3, p. 822 ss.
40
B. Caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà…, op. cit.; E. Lamarque,
Regioni e ordinamento civile, Padova, Cedam, 2005.
37
748
ca maggioritaria dovrebbe, invece, chiedersi se non sfugga, al pervicace
atteggiamento della Corte, la percezione che il modello di governance
diffusa e multilivello che va diffondendosi in Europa – anche in Stati a
tradizionale forma centralistica – piuttosto che causare il depotenziamento o la disintegrazione del polo (statuale) privilegiato della regolazione uniforme nel segno dell’uguaglianza, non rappresenti – per il gioco sempre imprevisto e imprevedibile della dialettica – proprio il suo
contrario: l’affermazione di un modello ispirato alla sussidiarietà, con la
regolazione che si adatta ai territori e si colloca più vicina ai soggetti individuali e collettivi che vi operano. Un modo, cioè, per realizzare un più
avanzato livello di libertà e uguaglianza.
Se, infatti, il processo di decentramento, coordinato dal centro, è stato storicamente considerato una tappa dell’evoluzione verso una regolazione più partecipata e vicina agli interessi del lavoratore in carne e ossa,
con riguardo ad una fonte di natura privata quale il contratto collettivo,
non si spiega perché tale evoluzione debba essere negata, in via di principio, sul piano dei rapporti tra poteri normativi pubblici.
Oltretutto, affidare ampie competenze sociali ai soggetti decentrati
non dovrebbe sortire ataviche preoccupazioni, soprattutto, in presenza,
nell’ordinamento formale, di una valvola di regolazione centrale delle
competenze quale quella costituita dalla competenza statale sulla garanzia dei livelli essenziali dei servizi sociali 41. La formula dei livelli essenziali dei servizi appare, infatti, molto più appropriata dell’ordinamento
civile per la funzione di coordinamento centrale e per riservare allo Stato quel ruolo di “unificatore flessibile”, nelle c.d. materie trasversali, garantito con dispositivi diversi in altri ordinamenti federali: la Supremacy
clause negli USA; la Konkurrierende Gesetzgebung in Germania.
Nella formazione non opera una competenza concorrente Stato-regioni, ma una competenza residuale esclusiva delle regioni che fa, di tale livello, il centro di regolazione di un sistema polivalente. Su tale sistema insistono, però, pure competenze proprie dello Stato, che le condivide con l’Unione europea.
Questo non implica che sia legittimo pensare alla formazione come
una materia scindibile e scomponibile da cui estrapolare, come un pezzo
a sé stante, i contratti formativi; essa si presenta, al contrario, come un sistema unitario dentro il quale si collocano anche i contratti formativi. Per
tale ragione sembra inadeguato il riferimento all’ordinamento civile come criterio ordinatorio delle competenze in materia di contratti formati41
In attesa magari di una calibratura dell’assetto istituzionale della rappresentanza politica: la Camera delle regioni.
749
vi, proprio perché quel criterio presuppone la possibilità – ed anzi la necessità – di scomporre in vari segmenti – i contratti, l’assetto, il finanziamento, le tipologie, le funzioni della formazione, ecc. – ciò che invece è
inestricabilmente connesso.
Di tutto questo la Corte – specie nella seconda sentenza – è pienamente consapevole: il richiamo al principio di leale collaborazione nella
formazione e nei contratti formativi implica, infatti, la presa d’atto che il
criterio della competenza per materia non è sufficiente ad individuare
l’esatta linea di distinzione tra interventi riservati allo Stato e interventi
riservati alla regione 42. Da cui l’affermazione che Stato e Regioni devono concertare la regolazione, collaborando lealmente 43.
Il riferimento all’ordinamento civile come limite alla competenza
regionale in materia di contratti formativi, appare, tuttavia, inappropriato
anche per ragioni concettuali diverse da quelle sinora evocate.
La Corte anche nella più recente sentenza n. 406/2006 postula la discutibile distinzione, nel contratto di apprendistato, tra formazione privata delle aziende che attiene alla causa
del contratto e formazione pubblica che attiene alle competenze delle regioni. Sorge, allora, il
legittimo dubbio: quid iuris nel caso in cui, come nel nuovo sistema, la distinzione tra formazione esterna e interna tende a sfumare e l’impresa formatrice privata può erogare formazione
obbligatoria, ma può farlo solo nella sua dimensione non privata ma di soggetto pubblico accreditato sulla base della esistenza di certi requisiti, come tende a stabilire la legislazione regionale sui profili formativi dell’apprendistato professionalizzante? Si veda, ad esempio, l’art.
62. comma 1, lett. b) legge reg. Friuli Venezia Giulia n. 18/2005 e l’art. 51 ter, comma 1, della legge reg. Toscana n. 22/2005. Come si fa, poi, a distinguere con precisione, nel caso di formazione interna, i profili formativi di competenza delle regioni dal contenuto del contratto riferibile all’ordinamento civile? La discussa legge reg. Puglia n. 11/2005, che regola in maniera incisiva e pervasiva aspetti essenziali quali la struttura e i contenuti della formazione (art. 3),
il piano formativo individuale (art. 4), gli obblighi di certificazione della formazione a carico
del datore di lavoro (art. 5), l’incentivazione alla trasformazione dell’apprendistato a tempo indeterminato (art. 10), non opera, di fatto, una regolazione profonda del rapporto di lavoro
dell’apprendista, anche se non si spinge sino al limite di regolare gli istituti che incidono sulla
struttura del contratto o sullo schema qualificatorio tipico? O come non vedere che l’art. 41,
comma 1, della legge reg. Toscana n. 922/2005, dove testualmente si prevede “che il piano formativo individuale (…) è parte integrante del contratto di apprendistato”, non è altro che una
palese regolazione del contenuto del contratto, imponendo per legge una cooperazione del creditore?
43
Con riguardo al principio di leale collaborazione, più volte richiamato, la Corte approda, in taluni passaggi, ad una concezione formale (per esempio nella sentenza n. 50/2005, ma
anche nella sentenza n. 406/2006, laddove, grazie ad un’interpretazione sistematica, la Corte
“salva” la regolamentazione toscana, in sintonia con il principio in questione); ma è pure criticabile l’assunzione di una concezione ascensionale della lealtà e della stessa sussidiarietà
(come nella sentenza n. 303/2003): condivisibilmente T. Groppi, Titolo V, aumentano i ricorsi
alla Consulta. Conflitto Stato-Regioni ai massimi storici, in «Diritto e Giustizia», 2005, n. 6,
p. 98 ss.
42
750
Tale criterio, richiama partizioni già incerte – la differenza tra diritto pubblico e diritto privato – ma oggi sicuramente inattuali; esso è un
concetto opaco perché tende a oscurare l’ibridazione, nella regolazione,
di moduli giuridici differenziati ma interconnessi, la cui simmetria con
gli interessi regolati è, per altro, definitivamente saltata: sempre più il
contratto è utilizzato per governare interessi pubblici (i patti locali), sempre più la legge e la regolazione amministrativa si indirizzano su interessi meramente privati o individualizzati.
Il processo di differenziazione e di adeguamento territoriale della regolazione, attraverso moduli non appartenenti né al diritto pubblico, né
al diritto privato, può essere sistemicamente governato secondo una logica policentrica e coordinata che abbia come bussola precisi valori: perché no, anche quelli incorporati nelle disposizioni di principio di molti
statuti regionali che specificano e confermano le disposizioni della Costituzione nazionale e europea.
Altrimenti, non resta che ripiegare sull’alternativa tra l’affidare tutto
al mercato o ad una concezione competitiva del federalismo, ovvero riproporre, in un’ottica neopositivista, il primato dello Stato e della legge
nazionale. Ma non pare questa l’evoluzione della regolazione, in generale, e di quella riguardante la formazione in particolare.
La formazione si presenta, come e più di altri, come un sistema in
cui rilevano interessi pubblici, privati, sociali e collettivi, ove, inestricabilmente, si connettono moduli di regolazione diversificati, né completamente di diritto pubblico, né di diritto privato, né di diritto collettivo.
Ciò vale anche per i contratti formativi. Con riferimento a questi ultimi ogni tentativo di vivisezione concettuale della loro causa vuoi per dimostrarne la prevalenza degli elementi lavoristici, ovvero di quelli formativi 44, allo scopo di determinarne in astratto le competenze dello Stato o delle Regioni o delle parti sociali, appare fatica di Sisifo.
Non è senza significato che le regioni più consapevoli o le province
autonome, con più rodata e affidabile esperienza autonomistica, presentano iniziative legislative nel segno di una maggiore consapevolezza fe-
44
P. Bellocchi, Apprendistato, in M. Pedrazzoli (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro, Bologna, Zanichelli, p. 537 ss.; G. Orlandini, Contratti formativi e competenze normative
delle regioni, in R. De Luca Tamajo, M. Rusciano, L. Zoppoli (a cura di), Mercato del lavoro.
Riforma e vincoli di sistema. Dalla legge 14 febbraio 2003 n. 30 al decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276, Napoli, Editoriale Scientifica, 2004, p. 515 ss.; M. D’Onghia, I contratti
a contenuto formativo: apprendistato e contratto d’inserimento, in P. Curzio (a cura di), Lavoro e diritti a tre anni dalla legge 30/2003, Bari, Cacucci, 2006, p. 381 ss.
751
deralistica, che potrebbero diventare paradigmatiche per il futuro assetto
delle fonti nel sistema federale in formazione 45.
In considerazione di tutto ciò, pare possibile prospettare un quesito
che non vuole essere retorico, ma dietro il quale si cela un dubbio reale.
Se le esperienze di avanzata regolazione normativa dei contratti formativi per opera delle regioni dovessero essere, stavolta su iniziativa del
governo, sottoposte al controllo di legittimità della Corte, perché eccedenti le competenze per materia delle regioni, la Corte si sentirebbe di dichiarare incostituzionali questi interessanti e differenziati modelli di regolazione autonoma dei contratti formativi?
Alcune regioni hanno individuato propri modelli di contratti formativi come nel caso
dell’esperienza campana dell’AIFA, (accordo di inserimento formativo per l’assunzione) che
costituisce una regolazione autonoma, per via atto deliberativo di giunta, di un vero e proprio
modello giuridico di contratto formativo, con la peculiarità di collocare fuori e prima del rapporto di lavoro il processo formativo. Il modello è stato regolato in via amministrativa, con
l’intenzione di operarne una legificazione successivamente; almeno così pareva dal documento Occupare conviene (Assessorato all’istruzione, formazione e lavoro della regione Campania, 2006). Tale intenzione non sembra aver avuto seguito stante il tenore dell’articolato del
d.d.l. 16.9.2006, “T.u. della normativa della Regione Campania in materia di Lavoro e Formazione professionale per la promozione della Qualità del lavoro”; nella relazione introduttiva
(p. 4) si afferma che il d.d.l. “tiene in massimo conto l’esperienza amministrativa e gestionale fatta dalla stessa Regione Campania negli anni scorsi grazie ad istituti importanti ed innovativi come l’accordo di inserimento formativo per l’assunzione”: dove e in che misura questo
avvenga, in effetti, non è dato capire scorrendo l’ampio articolato. Scrutando le intenzioni è
come se all’esperienza amministrativa dell’AIFA – che può continuare ad operare a prescindere dalla regolazione regionale primaria – il legislatore campano intenda dare valore di soft law,
di cui potrà tener conto nel regolare in futuro aspetti connessi ai contratti formativi, anche con
strumenti diversi dalla legge regionale (regolamenti, atti di concertazione regionale, ecc.). Altro esempio da richiamare, è la legge della provincia autonoma di Bolzano (n. 2 del 20 marzo
2006), il cui regime di autonomia speciale (art. 116 Cost.) non giustificherebbe in sé poteri
speciali rispetto a quelli previsti dall’art. 49 del d. lgs. n. 276/2003; la Provincia di Bolzano ha,
infatti, in virtù degli articoli 8, numero 29, e 9, numero 4, dello Statuto di autonomia di cui al
d.P.R. n. 670/1972, competenza primaria in materia di addestramento e formazione professionale e competenza secondaria in materia di apprendistato e qualifiche dei lavoratori: si rinvia
in generale a S. Vergari (a cura di), Mercati e diritto del lavoro nelle province autonome di
Trento e Bolzano, Padova, Cedam, 2004. Orbene, la provincia autonoma ha regolamentato minuziosamente il contratto di apprendistato in linea con il modello duale austriaco non limitandosi ai profili formativi: art. 2 rapporto e contratto di apprendistato, art. 3 doveri del datore di
lavoro e della datrice di lavoro, art. 4 doveri dell’apprendista e così via per ben 29 articoli, in
cui la regolamentazione dell’apprendistato è pressoché compiuta. Lo stesso discorso vale pure per la legge provinciale 10 ottobre 2006, n. 6 della Provincia autonoma di Trento. Si rinvia
a D. Comandè, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit., per una lettura per modelli regolativi
delle varie fonti regionali.
45
752
4. La “rincorsa” delle fonti nel nuovo apprendistato: concorrenza caotica o modello esemplificativo?
La regolazione dell’apprendistato sta vivendo, forse al di là della intenzione del legislatore delegato, uno strano destino. È diventata campo
di sperimentazione di un nuovo modello di regolazione di cui si stenta a
prendere atto.
La dottrina che si è occupata di apprendistato, a ridosso dell’entrata
in vigore delle nuove disposizioni, ha prontamente sollevato il problema
della caotica regolazione e dei non chiari rinvii alla fonte regionale e alla contrattazione collettiva.
Il caos regolativo è stato la cifra saliente e unificante di una critica
dettata anche da intenti di politica del diritto: si è stigmatizzato un intervento all’insegna di una ri-regolazione tecnicamente malfatta per fini di
allentamento delle tutele.
Questo atteggiamento critico è discutibile non in sé, essendo del tutto legittimo che la dottrina si schieri a supporto, ovvero si opponga a determinate politiche del diritto. È, per altro, suo compito elettivo individuare “facezie tecniche” o “illogicità manifeste” del legislatore.
Questo atteggiamento diviene, invece, criticabile, se e in quanto sintomo di opportunismo metodologico.
Nella specie, sono due gli atteggiamenti diffusi, riconducibili a questo approccio: essi riguardano in generale la riforma del mercato del lavoro nella legislatura ormai trascorsa e non sono limitati alle norme
sull’apprendistato.
Il primo atteggiamento si manifesta nell’assunzione, più o meno
consapevole, di posizioni incoerenti che seguono in parallelo, ponendosi
in posizione simmetricamente contraria, le contraddittorie ed incerte evoluzioni del legislatore delegato che, per conto suo, ha fatto un uso anche
improvvido di strumenti regolativi 46.
46
Il riferimento è alla dottrina che si è mostrata favorevole o contraria al federalismo e al
suo rapporto con il diritto del lavoro a seconda delle diverse scelte del parlamento e del governo della passata legislatura: centralista contro le scelte di decentramento, e regionalista contro
le scelte di accentramento. Per riferimenti espliciti si veda B. Caruso, Il diritto del lavoro nel
tempo della sussidiarietà…, op. cit. Un atteggiamento simile è riscontrabile, a proposito
dell’apprendistato, in A. Loffredo, I contratti a finalità formativa: tra un passato incerto ed
un futuro difficile, in R. De Luca Tamajo, M. Rusciano, L. Zoppoli (a cura di), Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema…, op. cit., p. 489 ss.; G. Orlandini, Contratti formativi e
competenze normative delle regioni, in R. De Luca Tamajo, M. Rusciano, L. Zoppoli (a cura
di), Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema…, op. cit., p. 515 ss.; Id., Un dialogo pluriordinamentale: regioni e parti sociali tra sperimentazioni e «messa a regime» dell’appren-
753
Il secondo, riguarda un dialogo sin troppo ravvicinato con le singole disposizioni con effetti rifrangenti, se non di vera presbiopia; ciò nella
misura in cui si è tentato di osservare i dettagli perdendo a volte di vista
i processi complessivi, che necessitano invece di essere osservati con un
po’ più di distacco.
È quello che è avvenuto e sta avvenendo anche a proposito della regolazione dei profili formativi del contratto di apprendistato professionalizzate, in cui la concorrenza e la successione di fonti e di fasi (sperimentali e a regime) sembra uscita dai binari della razionalità per deragliare
nel caos, nonostante le volenterose letture razionalizzanti di alcuni interpreti 47.
Come si deve porre, allora, la giurisprudenza scientifica di fronte a
questi processi che sembrano rappresentare simbolicamente veri e propri
ingorghi della complessità regolativa e che fanno guardare, magari con
nostalgia, ai bei tempi in cui le fonti erano numericamente limitate e il
problema era, al più, di mettere a punto le relazioni di deroga/integrazione del contratto collettivo rispetto alla legge con riguardo a funzioni diverse, ma complementari?
Il giurista può limitarsi a prendere atto del caos, magari addebitandolo ad un legislatore “dilettante allo sbaraglio” che maneggia, con mani inesperte, delicate ed esplosive questioni di rapporti tra fonti. Può aggiungervi, sadicamente, confusione interpretativa anche a bella a posta –
con perizia argomentativa al limite del sofisma – per rilevarne ancor più
contraddizioni e debolezze tecniche, che sono pure “politiche” 48; o può
cercare di individuare, ancorché invano, criteri ordinatori e costruttivi di
distato professionalizzante, in M. Rusciano, C. Zoli, L. Zoppoli (a cura di), Istituzioni e regole del lavoro flessibile, Napoli, Editoriale Scientifica, p. 153 ss.
47
Il caos è individuabile nella distinzione, per forza di cose ambigua, tra regolazione dei
profili formativi e del contratto; nella pretesa di una regolazione di un istituto a tutto tondo che
presuppone però l’attivazione di altre fonti e di altri attori che non è detto condividano l’assunzione di responsabilità, vuoi per ragioni politiche ma anche di semplice inerzia. In questa discrasia di tempi e volontà si è innestato il vero e proprio ingorgo tra fase a regime e fase transitoria con comportamenti territorialmente asimmetrici e temporalmente sfasati degli attori sociali nazionali e istituzionali regionali chiamati a contribuire alla regolazione dell’istituto. Per
i dettagli, si rinvia a G. Orlandini, Contratti formativi e competenze normative delle regioni,
op. cit.; M. Novella, M.L. Vallauri, Apprendistato professionalizzante…, op. cit.; si v. pure
L. Zoppoli, Stato, Regioni e parti sociali nella regolazione dell’apprendistato: i recenti sviluppi (o viluppi?), in «DLM», 2006, n. 1, p. 193 ss.; M. Roccella, La disciplina dell’apprendistato professionalizzante nella legislazione regionale, in «LD», 2007, n. 1, p. 178 ss.; D. Comandè, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit.
48
G. Orlandini, Contratti formativi e competenze normative delle regioni, op. ult. cit.
754
lettura, che è il lavoro più consono per il giurista 49. Sono atteggiamenti
tutti legittimi ma che rimangono propedeutici alla funzione specifica della giurisprudenza scientifica nella fase attuale: non tanto quella di intravedere un ordine sistematico dietro l’apparente caos, che nella complessità regolativa può essere solo illusorio; quanto cercare di cogliere la tendenza di processi profondi e non soltanto effimeri o contingenti 50.
4.1. La regolamentazione dell’apprendistato nel dettaglio: il riparto delle competenze e delle “funzioni” regolative tra Stato e regioni
Nell’analisi dell’applicazione dell’istituto dell’apprendistato riformato 51 emerge innanzitutto un dato: le nuove competenze regionali incominciano a produrre regolamentazioni differenziate sia con riguardo ai
modelli giuridici, sia al contenuto regolativo, a partire da un quadro di
competenze normative tra Stato e regioni – disegnato per l’apprendistato
professionalizzante con il decreto 276/2003 52 – in base al quale, come
già rilevato, al primo spetta la regolazione degli aspetti privatistici del
contratto e alle seconde quella dei profili formativi, da esercitarsi alla luce di una serie di criteri indicati dal legislatore e secondo l’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale.
Bisogna, a questo punto, soffermarsi sul dato normativo per vedere
le opzioni legislative volte a definire i successivi rapporti interistituzionali, nel solco della strada maestra indicata dalla Consulta. L’articolo 49
del decreto legislativo n. 276/2003 pone dei “paletti”, di specifica rilevanza contrattuale, nei confronti della regolamentazione regionale, alcuM. Novella, M.L. Vallauri, Apprendistato professionalizzante…, op. ult. cit.; D. CoIl diritto del lavoro al “plurale”, op. ult. cit.
50
P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in «FI», V, c. 151 ss.
51
Soprattutto la seconda tipologia, l’apprendistato professionalizzante, che più interessa
le imprese e che più ampia risonanza ha avuto nella legislazione regionale e contrattuale collettiva.
52
Sulla questione delle competenze tra Stato e Regioni in materia di apprendistato v. D.
Garofalo, L’apprendistato tra sussidiarietà verticale e orizzontale, in Working paper Adapt,
2005, n. 14; L. Zoppoli, Stato, Regioni e parti sociali nella regolazione dell’apprendistato: i
recenti sviluppi (o viluppi?), in «DLM», 2006, n. 1, p. 193 ss.; M. D’Onghia, I contratti a contenuto formativo: apprendistato e contratto d’inserimento, in P. Curzio (a cura di), Lavoro e
diritti a tre anni dalla legge 30/2003, Cacucci, Bari, 2006, p. 381 ss.; G. Orlandini, Contratti
formativi e competenze normative delle regioni, op. cit., p. 515 ss.; da ultimo i contributi di M.
Roccella, La disciplina dell’apprendistato professionalizzante nella legislazione regionale,
op. cit., p. 178 ss.; L. Zoppoli, Apprendistato e multilevel regulation, in «DRI», 2007, n. 1, p.
98 ss.; e D. Comandè, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit.
49
mandè,
755
ni dei quali elaborati, in maniera del tutto innovativa, sottoforma di principi. Infatti, il contratto di apprendistato, se presenta un assetto contrattuale tendenzialmente immutabile quanto ai limiti minimi e massimi di
età 53 e solo massimi di durata 54, oltre che alla forma del contratto, di
converso è soggetto a regimi differenziati in relazione ai piani formativi,
alle qualifiche, al tipo di formazione e ai profili formativi, al quantum e
alle modalità di erogazione della formazione e alla certificazione della
stessa. È in questa seconda tranche di aspetti della fattispecie che entrano in gioco a pieno titolo le regioni, da un lato, e le parti sociali, dall’altro, sebbene anche la regolazione della durata contrattuale, non sia esente dalla co-operazione di una pluralità di attori.
Proprio in merito alla durata contrattuale, la scelta politica del legislatore è protesa all’ampliamento della durata massima consentita 55, che,
se assume un rilievo incentivante nei confronti dell’impresa che investe
in formazione 56, sotto il profilo delle competenze potrebbe porre un problema di coordinamento. Infatti, il limite massimo è riferito al contratto
53
È riservato a soggetti di età compresa tra i 18 ed i 29 anni, salvo il caso di titolari di
una qualifica professionale conseguita ai sensi della legge n. 53/2003 per i quali l’età minima
è abbassata di un anno, mentre per il limite massimo la circ. Min. lav. del 15 luglio 2005, n. 30,
precisa che l’assunzione può essere effettuata fino al giorno antecedente al compimento del
trentesimo anno di età, come ribadito dalla Risposta ad istanza di interpello del 24 marzo 2006,
avanzata dalla Confederazione Italiana della Piccola e Media Industria, in www.fmb.unimore.
it/on-line/Home/IndiceA-Z/articolo3609.html.
54
Il decreto legge n. 112/2008, convertito con legge n. 133/2008, ha modificato la disciplina sulla durata del contratto, eliminando dall’art. 49, comma 3, il riferimento alla durata minima del contratto che nella precedente formulazione era di due anni. Il venire meno del limite minimo di durata del contratto ha costituito l’occasione di un chiarimento sul punto da parte del Ministero del lavoro, che con circ. Min. lav. del 10 novembre 2008, n. 27 ha interpretato la modifica del legislatore come funzionalizzata alla “piena valorizzazione della capacità di
autoregolamentazione della contrattazione collettiva”, fermo restando il limite massimo di sei
anni. Una forma di deregolazione in favore delle parti sociali che, secondo il legislatore, consentirebbe di rispondere all’esigenza di utilizzare la fattispecie contrattuale anche per lavoratori che altrimenti ne sarebbero rimasti esclusi, come gli stagionali.
55
Che si basa sulla possibilità di prolungare nel tempo i benefici economici e normativi
previsti per i datori di lavoro, in una logica di emersione del lavoro irregolare, oltre che di incentivo pubblico ad investire in formazione.
56
“L’impresa che investe [deve avere] sufficienti garanzie di poter almeno recuperare i
costi di formazione sostenuti”, così G. Brunello, A. Topo, Il nuovo apprendistato professionalizzante: dalla formazione apparente alla formazione effettiva, in «RIDL», 2005, n. 1, I, p. 38.
Se il momento formativo del lavoratore è visto come semplice voce di “spesa” per il datore di
lavoro, rimane ancorato ad esigenze di costo/opportunità e quindi valutato in termini di mera
convenienza economica, cosa che non avviene se, viceversa, è considerato come occasione
(fornita dall’ordinamento) di accrescimento delle competenze dell’organico aziendale.
756
e non al periodo di tirocinio, come sottolineato da attenta dottrina 57, pertanto se, da un lato, la competenza sulla durata contrattuale, essendo materia rientrante nell’ordinamento civile, spetta al legislatore nazionale,
dall’altro lato, lo stesso legislatore devolve alla contrattazione collettiva,
di livello nazionale o regionale, il compito di ponderare il tempo di formazione in relazione alla qualifica da conseguire. In questo esercizio
congiunto di competenze tra Stato e parti sociali, alle autonomie regionali spetta la gestione della fase di recepimento, cioè le regioni, tramite atti amministrativi, acquisiscono i profili formativi e i connessi tempi di
formazione stabiliti dalle parti sociali, rendendoli efficaci erga omnes.
Pertanto, l’iter e il riparto di competenze che si evince dal disegno del legislatore nazionale instaura, un rapporto immodificabile tra durata contrattuale e periodo di maturazione della qualifica e non lascia aperta la
possibilità di stipulare legittimamente contratti di apprendistato per un
arco di tempo differente da quello necessario per ottenere il risultato formativo. Corollario di questa procedura è il rafforzamento di efficacia degli atti dei contraenti collettivi, anche di livello regionale (articolo 49,
comma 5), che sostanzialmente da soli definiscono il rapporto tra durata
del contratto e qualifica da conseguire.
Attraverso tale riparto di competenze, la durata contrattuale, nonostante sia materia rientrante nell’ordinamento civile, esce dal campo di
esclusività della competenza statale per collocarsi concretamente nelle
realtà locali. Qui, le stesse autonomie regionali e le parti sociali sono
chiamate ad ‘adattare’ una disciplina nazionale ad un determinato contesto imprenditoriale, per mezzo di un esercizio “illuminato” e dinamico
delle rispettive competenze 58. In questa maniera le parti sociali, di livello nazionale o regionale, insieme alle regioni concorrono in maniera decisiva a regolare un elemento essenziale del contratto di apprendistato,
quale è la sua durata, che si dimostra essere, nonostante le apparenti rigidità, materia estremamente duttile.
Passando all’esame della disciplina per principi 59, l’art. 49 stabilisce
G. Brunello, A. Topo, op. cit., p. 48.
La regolazione di questo aspetto della fattispecie dovrebbe pertanto rispondere al principio di sussidiarietà, sia in senso verticale, cioè tra Stato e regioni, sia in senso orizzontale,
ovvero tra Stato e regioni, da un lato, e Oo.Ss., dall’altro.
59
Riassumendoli: il monte ore di formazione, con la novità della fungibilità tra quella
esterna e quella interna all’azienda, stabilito in almeno 120 per anno per l’acquisizione di
competenze di base e tecnico-professionali (art. 49, comma 5, lett. a)); le modalità di erogazione della formazione, stabilite dalla contrattazione collettiva di livello nazionale, territoriale o aziendale dalle organizzazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più
rappresentative (art. 49, comma 5, lett. b)); il riconoscimento della qualifica professionale ai
57
58
757
di demandare alle regioni ed alle province autonome 60 la regolamentazione dei profili formativi e alle parti sociali la determinazione della durata, delle modalità di erogazione e dell’articolazione della formazione
professionale sia interna sia esterna (commi 3 e 5). Il ruolo delle parti sociali entra in gioco, in via diretta, laddove nei criteri e principi direttivi
dettati dal decreto legislativo n. 276/2003 si chiede loro specificamente di
stabilire le modalità di erogazione e l’articolazione della formazione 61: in
altre parole, i contratti collettivi sono chiamati principalmente a scegliere il quantum di formazione da internalizzare nel riparto tra quella interna e quella esterna all’azienda. Il rinvio è operato nei confronti di qualsiasi livello contrattuale (nazionale, territoriale o aziendale) 62 e senza
fini contrattuali, in base ai risultati conseguiti nell’ambito del percorso di formazione esterna
o interna all’impresa (art. 49, comma 5, lett. c)); la registrazione della formazione, effettuata
nel libretto formativo (art. 49, comma 5, lett. d)); deve essere nominato un tutor aziendale con
formazione e competenze adeguate (art. 49, comma 5, lett. e)). Su questa metodologia di normazione è stato sostenuto come si tratti di una «tipologia di normazione per principi davvero
singolare, che [...] non ha precedenti nell’ordinamento giuridico», G. Orlandini, Contratti
formativi e competenze normative delle regioni, op. cit., p. 525. In verità, guardando un po’
oltre sia in termini di tempo (nei prossimi anni) sia di spazio (oltre i confini nazionali), non si
può sottacere come la normazione per principi sia il volano del nuovo diritto della regolazione. «Per la nostra tradizione giuridica, sarebbe stato sino a ieri impensabile che un testo normativo assumesse la forma di una compiuta dichiarazione d’intenti» (M. Roccella, Le fonti
e l’interpretazione del diritto del lavoro: l’incidenza del diritto comunitario, in «DLM»,
2006, n. 1, p. 3), ma de iure condendo non si può non prendere atto di un processo di trasformazione culturale, che riserva un certo «orientamento di favore dei decisori politici nazionali nei confronti del soft law in generale». E se il livello nazionale si mostra disponibile in questa direzione nei confronti dell’ordinamento europeo, non si vede come non debba esservi
una medesima linea di attuazione, all’interno di quello nazionale, nei confronti del livello regionale.
60
D’intesa con le associazioni datoriali e dei lavoratori più rappresentative sul piano regionale.
61
In questa voce rientrerebbe anche la «valutazione della capacità formativa delle aziende», in considerazione della circostanza, stabilita dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.
50/2005, che la formazione aziendale inerisce al rapporto contrattuale, di competenza della legislazione statale e della contrattazione collettiva. Così argomenta il Ministero del lavoro nella Risposta ad istanza di interpello del 24 marzo 2006, avanzata dal Consiglio Provinciale
dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Bergamo, in www.fmb.unimore.it/on-line/Home/IndiceA-Z/articolo3609.html.
62
Per dovere di precisione occorre distinguere differenti rinvii del legislatore nazionale.
In presenza di regolamentazione regionale si distinguono due casi: per le modalità e l’articolazione della formazione, «è possibile una implementazione da parte dei contratti collettivi di
lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale»; mentre per l’individuazione delle
qualifiche e della effettiva durata contrattuale il rinvio è limitato ai contratti collettivi stipulati
da associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o regionale, con
l’esclusione di altri livelli; in assenza di regolamentazione regionale dei profili formativi la di-
758
specificazione del livello di determinazione della rappresentatività, nel
segno di un assetto regionalistico a geometria variabile delle relazioni
industriali.
4.2. Segue: e il nuovo canale ‘esclusivo’ delle parti sociali
Che quello rivestito dalle parti sociali nella configurazione in concreto della fattispecie contratto di apprendistato sia un ruolo di primo
piano è confermato dal c.d. canale parallelo 63 introdotto di recente dal legislatore con l’art. 23 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 64. La
nuova disciplina affianca e non sostituisce il quadro preesistente appena
tratteggiato, e riguarda specificamente il caso in cui la formazione sia
esclusivamente aziendale. In tale circostanza, alle parti sociali con lo
strumento negoziale, o agli enti bilaterali, viene devoluto, dal legislatore
nazionale, il compito/potere di definizione di tutti i contenuti della formazione da erogare nel contratto di apprendistato: dalla stessa definizione di “formazione esclusivamente aziendale”, fino alla sua durata, anche
in deroga alle 120 ore previste dallo stesso decreto 276, dalle modalità di
erogazione, sino alla qualifica da conseguire. In sostanza il legislatore,
con la recente modifica, ha inteso 65, in un certo senso, mettere in concorrenza gli attori decentrati 66, sociali e istituzionali, che nel modello precedente sono chiamati, invece, a collaborare.
sciplina si evince solo dai contratti collettivi nazionali (Risposta ad istanza di interpello del 21
giugno 2006, avanzata da Apindustria, (Piacenza), in www.fmb.unimore.it/on-line/Home/IndiceA-Z/articolo3609.html).
63
Così definito dalla circ. Min. lav. del 10 novembre 2008, n. 27, cit.
64
Decreto convertito dalla legge 133/2008, che aggiunge un nuovo comma 5-ter all’art.
49 del decreto legislativo n. 276/2003; la disposizione recita: “In caso di formazione esclusivamente aziendale non opera quanto previsto dal comma 5. In questa ipotesi i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di
lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero agli enti bilaterali. I contratti collettivi e gli enti bilaterali definiscono la nozione di formazione aziendale
e determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalità di erogazione della formazione, le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la
registrazione nel libretto formativo”.
65
La recente circ. Min. lav. del 10 novembre 2008, n. 27, cit., sembra confermare questa
intenzione del legislatore; secondo la stessa, le previsioni introdotte sul punto pongono “le premesse, senza modificare l’impianto normativo preesistente (…), per la costruzione di un «canale parallelo» affidato integralmente alla contrattazione collettiva”.
66
Da un lato, la via pubblicistica di regolazione della formazione definita dalle regioni,
759
Il legislatore, facendo aggio sulla circostanza – rilevata dalla Corte
nella sentenza n. 50/2005 – per cui “la formazione aziendale rientra (…)
nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile”, ha creato un secondo e più agevole canale,
di natura privato/collettiva, abilitato a disciplinare la formazione dell’apprendista. La novità legislativa, se da un lato pare rispondere adeguatamente all’attivismo manifestato, fin da subito, dalle parti sociali nel regolare l’apprendistato, dall’altro prospetta nuovi possibili conflitti di competenza tra le regioni e le parti sociali, queste ultime che agiscono sulla
base di un potere devoluto dallo Stato.
Al di là di valutazioni sul piano funzionale (chi regola meglio cosa),
la recente modifica normativa suggerisce riflessioni di carattere più generale sul sistema di competenze normative e istituzionali in materia di
apprendistato, come risulta dal quadro legislativo ripetutamente mutato
in questi anni. Con l’ultimo intervento, in effetti, è come se il legislatore
avesse preso atto, e trascritto in norma, quel che si è verificato a livello di
regolamentazione regionale.
A tale livello, la competenza sull’apprendistato è stata esercitata tramite rinvio a, e/o recepimento di, atti dell’autonomia collettiva; ciò probabilmente ha indotto il legislatore nazionale a cristallizzare questa prassi intervenendo sul piano della ripartizione formale delle competenze. È
come se il legislatore avesse avvertito un suggerimento, ma in uno stucchevole eccesso di zelo, si fosse spinto oltre ciò che la stessa prassi suggeriva.
Da qui la scelta di devolvere, con una norma generale sulla competenza, la formazione esclusivamente aziendale ai contratti collettivi, senza passare più per le leggi regionali.
La soluzione adottata presenta delle indicazioni e delle controindicazioni.
Tra le prime indubbiamente è da annoverarsi la conferma al contratto collettivo di piena dignità di fonte che assume una funzione sostitutiva, e non più solo complementare, rispetto alla legislazione regionale. A
ciò si aggiunga una maggiore responsabilizzazione delle parti contrattuali: il datore di lavoro, nel momento stesso in cui stipula l’accordo, rinuncia ad avvalersi dei finanziamenti pubblici stanziati dalle regioni per
l’erogazione della formazione e si fa carico integralmente degli oneri formativi degli apprendisti; d’altro canto, le organizzazioni sindacali si vein coordinamento con le parti sociali (art. 49, comma 5); dall’altro, la via privatistica, accessibile solo nel caso di formazione aziendale e determinata esclusivamente dalle parti sociali o
dagli enti bilaterali (art. 49 comma 5-ter).
760
dono impegnate a che i contenuti formativi previsti dal contratto collettivo siano stringenti 67 e rispondenti non solo alle esigenze formative della
parte datoriale, ma anche funzionali alle esigenze dei lavoratori apprendisti, sia in relazione all’effettività della formazione, sia in funzione della successiva spendibilità della qualifica acquisita.
Quanto alle controindicazioni, non si può sottacere come la delega
di funzioni alla contrattazione di qualsiasi livello, relativamente alla regolamentazione della formazione aziendale, senza la contestuale previsione di alcun criterio direttivo, possa generare sul piano sostanziale vistose difformità; ciò anche in ragione del fatto che le aziende, sul piano
territoriale ma non solo, notoriamente posseggono differenziate capacità
e potenzialità formative: il problema in altre parole è che manca un criterio idoneo non solo a distinguere quali aziende siano realmente dotate di
capacità formativa e quali no, ma anche ad individuare a quali principi si
debba informare un tipo di formazione che, seppure aziendale, rimane
mirata all’acquisizione di una determinata qualifica 68. Per non parlare
del fatto che non è chiara la ricaduta della nuova disposizione sulle regioni che hanno optato per una piena fungibilità tra formazione esterna e interna 69.
Per ciò che concerne più propriamente i conflitti di competenza, poi,
difficile registrarne una riduzione, anzi: basti pensare agli otto ricorsi
pendenti davanti alla Corte Costituzionale, che sollevano dubbi in relazione alla problematica costituzionalità della disposizione appena intro-
67
Basti pensare che la modalità di formazione on the job – che in molte discipline contrattuali collettive è considerata formazione formale, mentre in sede europea è esclusivamente
formazione non formale – non dovrebbe, a nostro avviso, essere l’unica tipologia di formazione prevista dai contratti, in considerazione del fatto che il legislatore ha previsto una formazione articolata in competenze di base e tecnico-professionali.
68
Precisa, infatti, la circ. Min lav. del 10 novembre 2008, n. 27, cit., che l’apprendistato
“resta in ogni caso finalizzato alla acquisizione di una qualificazione, e cioè di una qualifica
professionale «ai fini contrattuali» e che la durata del monte ore di formazione deve essere coerente con l’obiettivo della acquisizione di specifiche «competenze di base e tecnico-professionali»”, per cui “la durata e le modalità della formazione aziendale, disciplinate dai contratti collettivi anche a livello territoriale o aziendale, dovranno (…) essere coerenti con le declaratorie e le qualifiche contrattuali contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro a cui
l’apprendistato professionalizzante è finalizzato”.
69
Bisogna chiedersi cosa avvenga nel caso in cui una legge regionale opti per la piena
fungibilità tra formazione esterna e interna e quindi consenta una totale internalizzazione della formazione: si applicano esclusivamente i contratti collettivi sulla base del neo-introdotto
comma 5-ter oppure si deve tenere conto anche di quei requisiti eventualmente stabiliti dalla
legge regionale?
761
dotta (comma 5-ter) 70. Senza addentrarsi in questioni di competenza –
che anche la Corte, in fondo, ha lasciato gestire agli attori sulla base del
noto principio di leale collaborazione e sulle quali la stessa Corte si trova costretta a ritornare –, è sufficiente qui rilevare come sia complicato
distinguere esattamente, attribuendoli ora ad uno ora all’altro attore, più
aspetti di un medesimo universo formativo che sono inscindibilmente
connessi: in realtà più che distinte e differenti le competenze paiono ancora una volta essere intrecciate, proprio in virtù della circostanza che
l’inserimento del comma 5-ter puntualizza la ripartizione di competenze
in capo alle regioni o alle parti sociali in funzione del tipo di formazione
interna o esterna. La circostanza assume, però, dei contorni più problematici in ragione del fatto che il legislatore, devolvendo la regolamentazione dell’apprendistato a qualsiasi livello di contrattazione 71, consentirebbe una differenziazione di disciplina non solo territoriale ma addirittura aziendale: differenziazione eccessiva in un momento storico in cui,
sebbene sia aperto il tavolo delle trattative, ancora non si è giunti ad un
accordo di concertazione sostitutivo del Protocollo Ciampi del 1993, che
ridisegni il nostro assetto di relazioni industriali definendo ex novo le
funzioni dei diversi livelli di contrattazione collettiva.
È ancora presto per dare delle risposte a questioni così complesse,
ma certamente è da rilevare come tra i soggetti di regolazione in materia
di apprendistato debbano essere ascritte le Organizzazioni sindacali,
coinvolte insieme alle regioni a sciogliere i nodi irrisolti e a specificare le
norme aperte, contenute nella fonte legislativa nazionale. Questa però
non è una novità, è una sorta di déjà vu 72.
Le disposizioni esaminate lasciano pochi dubbi in merito alla circostanza che sia davvero difficile una scomposizione dei singoli segmenti
che compongono l’istituto dell’apprendistato, da attribuire alla compe-
70
Occorre segnalare che sette delle otto regioni (Basilicata, Emilia Romagna, Lazio,
Marche, Toscana, Piemonte, Liguria e Veneto) che hanno proposto i nuovi ricorsi, sono amministrate da una maggioranza non filogovernativa.
71
È interessante notare come il legislatore, nell’individuazione dei contratti collettivi
abilitati ad assorbire integralmente le competenze regionali, pur prescindendo dal livello di stipula – nazionale, territoriale o aziendale –, presti attenzione alla rappresentatività comparativa
degli attori sul piano nazionale, secondo una formula già utilizzata nel decreto n. 276/2003.
72
Un déjà vu del periodo storico antecedente la prima legge in materia di apprendistato,
ovvero la legge n. 25 del 1955, e anche successivo, quando la contrattazione collettiva ha fatto la parte del leone nell’ambito della cornice legislativa nazionale. Cfr. D. Comandè, Evoluzione storica dei contratti formativi, in C.S.D.L.E. Massimo D’Antona (a cura di), Formazione e politiche per l’occupazione, sez. Formazione e contratti, Dossier, 2006, n. 8, in www.lex.
unict.it/eurolabor/ricerca/dossier.htm.
762
tenza regolativa, ora dello Stato, ora delle Regioni, ora delle parti sociali, ai diversi livelli. Ciononostante un’operazione di questo tipo è stata
già realizzata nel lavoro certosino della Consulta, in merito al rapporto
tra Stato e regioni, e difficilmente potrebbe trovare soluzioni accettabili
nel rapporto triangolare tra le due istituzioni e le parti sociali, dal momento che non è stabilito ex ante quale sia il livello contrattuale chiamato ad intervenire, ma lo stesso viene stabilito di volta in volta e parametrato sulla singola realtà regionale. Una simile difficoltà se da un lato può
apparire superficialmente come una mancanza di chiarezza del legislatore sui rapporti tra gli attori coinvolti a regolamentare l’apprendistato,
dall’altro potrebbe essere letta come la presa d’atto della necessità di realizzare un sistema di competenze governato realmente da una leale collaborazione e cooperazione tra questi attori. Per suffragare tale necessità
di sinergia tra i protagonisti – unico rimedio alle inevitabili interferenze
di un sistema di riparto di competenze complesso – appare non secondario l’ammonimento della Corte Costituzionale alla regione Puglia, formulato morbidamente in termini di necessarietà del “concorso di tutti i
soggetti” indicati dal 276 per la definizione dei profili formativi. La Corte, nella recente sentenza n. 24 del 2007 73, ha, infatti, censurato l’articolo 2, comma 2, della legge pugliese, nella parte in cui attribuiva alla Giunta regionale un potere di determinazione unilaterale dei profili formativi,
in caso di assenza di intesa (entro 60 gg. dall’entrata in vigore della legge) tra regione e parti sociali. Il motivo di tale illegittimità è stato ricondotto alla incompatibilità di un simile procedimento «con il regime della
paritaria codeterminazione dell’atto». La via di fuga, in caso di stallo regolativo, suggerita dalla Corte al legislatore regionale consiste nello stabilire un necessario sistema di comportamenti mirati allo scambio di informazioni e alla manifestazione della volontà di ciascuna delle parti e,
in ultima ipotesi, in previsioni che assicurino il raggiungimento del risultato «seriamente concertato», senza la «prevalenza di una parte sull’altra». In altre parole non si tratterebbe per la regione solamente di un obbligo a trattare con le parti sociali per definire i profili formativi, quanto
più ampiamente di ricercare una generale e costante collaborazione, così
da evitare che le istituzioni regionali dominino autonomamente il proces-
73
Per un commento alla sentenza in questione v. B. Caruso, A. Alaimo, Il Conflitto tra
Stato e Regioni in tema di lavoro e la mediazione della Corte Costituzionale, op. cit., dove si
sottolinea l’atteggiamento “consulenziale” della Corte, che rilegge la concertazione sociale
«come un obbligo a contrarre e non solo negoziare in buona fede», in nome di un’applicazione estensiva del principio di leale collaborazione.
763
so di regolazione. Se di obbligo a contrarre in senso tecnico non si tratta,
la Corte si ferma proprio un passo prima.
Pertanto, con il recente intervento della Corte e a seguito della modifica legislativa da ultimo intervenuta, si è avuta una ulteriore conferma
della impossibilità di declassare le parti sociali ad organi meramente consultivi 74, perché anzi le stesse sono certamente protagoniste – insieme allo Stato e alle regioni – del processo di codecisione o anche di sola decisione – che deve governare il sistema complesso di riparto di competenze, disegnato dal legislatore del 276. Dall’altro lato, questa constatazione consente la consacrazione del principio di sussidiarietà – dinamicamente operante anche in senso orizzontale – come valvola di regolazione
dei rapporti tra fori regolativi differenti 75.
4.3. La differenziazione territoriale dei modelli
L’intreccio di fonti multilivello, generato dal coinvolgimento istituzionale di attori territoriali e soggetti sociali territorialmente decentrati,
producono modelli regolativi dell’apprendistato a struttura differenziata
74
Condivisibile la lettura di A. Trojsi, La potestà regionale in materia di lavoro, in
«RGL», 2007, n. 3, p. 671, dove l’autrice dopo avere configurato la leale collaborazione come
un dovere costituzionale, la riferisce «non solo al rapporto tra livelli di governo (Stato, Regioni, Enti locali), ma parimenti anche al rapporto tra i vari attori che operano in uno stesso territorio o contesto, con una valorizzazione della dimensione “orizzontale” – accanto, e parallelamente, a quella “verticale” – della sussidiarietà, aderendo così all’accezione più estesa di governance. E, conseguentemente, è possibile conferire riconoscimento e dignità costituzionale
anche alla “concertazione sociale”, oltre che a quella “interistituzionale”, come possibile forma di attuazione del «principio dell’intesa» – e dunque manifestazione di multilevel/corporate governance –, rinvenendone il fondamento nell’ultimo comma dell’art. 118 Cost., che sancisce appunto il principio di “sussidiarietà orizzontale”».
75
In relazione al coinvolgimento delle parti sociali, e in particolare alla circostanza specifica della necessarietà dell’intesa affermata dalla Corte nel caso pugliese, vi è chi sostiene
che l’ampio spazio concesso ai corpi intermedi debba essere governato attraverso il recupero,
in via analogica, dell’articolo 43, comma 3, d.lgs. n. 165/2001. Pertanto, nel caso di specie, secondo l’autore non sarebbe necessario raggiungere un’intesa confortata dal supporto di ogni
sindacato comparativamente più rappresentativo sul piano regionale, ma sarebbe sufficiente la
sola maggioranza (M. Delfino, Rapporti di lavoro, finalità formative e legislazione regionale,
in «LD», 2007, n. 3, p. 495 ss.). Il metodo dell’argomentazione sembra condivisibile, ma suscita qualche perplessità il merito, laddove si paventa il rischio che «gli organi regionali possano essere spogliati del potere di iniziativa legislativa in una materia in cui, per giunta, la regione ha competenza esclusiva». Infatti, la soluzione prospettata sembra ancorata ad un’ottica
concorrenziale e non cooperativa tra organi regionali e parti sociali, in contrasto rispetto alla
«paritaria codeterminazione dell’atto» auspicata dalla Corte.
764
per quanto riguarda i profili procedurali. E ciò sia in relazione alle regioni che ancora operano nella c.d. fase di sperimentazione, sia per quelle
proceduralmente allineate, ovvero transitate nella fase c.d. a regime.
Il tratto comune e caratterizzante di tutte le regioni in fase sperimentale 76 è dato dall’avere coinvolto in maniera determinante le parti sociali, lasciando che queste diventassero il motore propulsivo delle regole del
gioco, e anticipando in qualche modo, la volontà in tal senso manifestata sia nel Protocollo 23 luglio 2007 sia, di recente, nel decreto legge n.
112/2008, convertito con la legge n.133/2008. Infatti, anche considerando il periodo di produzione normativa regionale ante maggio 2005, momento in cui il legislatore non aveva ancora previsto l’obbligo di emanazione della legge in capo alle autonomie regionali, le stesse avevano, per
così dire, temporeggiato nel breve periodo rinviando in toto alla contrattazione collettiva la regolamentazione dei profili formativi, al fine di trarre spunto dalle sperimentazioni per una successiva legge regionale 77. Il
76
La fase di sperimentazione è quella che si colloca antecedentemente al riassetto centrale delle competenze sui profili formativi introdotta con il comma 5-bis dell’art. 49 e che può
continuare secondo le linee ivi indicate e specificate dalla circ. Min. lav. 15 luglio 2005, n. 30.
All’interno di questo primo modello (fase sperimentale-transitoria) di autonomie regionali si
possono individuare tre insiemi, distinguibili in relazione allo stadio attuale di regolazione: (i)
il primo racchiude quelle che, non avendo ancora adottato una legge regionale, hanno regolamentato l’istituto tramite altri strumenti regolativi (Abruzzo, Valle D’Aosta, Veneto); (ii) il secondo, quelle che procedono tuttora con le sperimentazioni, ma stanno discutendo su specifici disegni di legge (Campania); (iii) il terzo, infine, quelle che hanno adoperato lo strumento
della legge regionale in maniera impropria rispetto a quanto previsto dalla disciplina nazionale, ovvero per avviare (Sicilia) o prorogare (Liguria) la fase transitoria.
77
Sul punto, per la precisione, vanno distinte due diverse situazioni: una precedente il
maggio 2005, cioè prima che fosse inserito il comma 5-bis nell’art. 49, e l’altra successiva al
maggio 2005. Se ci si fermasse alla prima formulazione, che non prevedeva l’indispensabilità
dell’adozione di una legge regionale al fine di attuare l’apprendistato professionalizzante, allora il testo indicava alla regione un obbligatorio rinvio ai contratti collettivi in merito alle modalità di erogazione e articolazione della formazione, mentre prevedeva soltanto un’intesa sui
profili formativi; con l’inserimento del comma 5-bis e la circ. Min. lav. 15 luglio 2005, n. 30,
la fase transitoria è stata direttamente devoluta ai contratti collettivi nazionali di categoria. La
maggior parte delle regioni (sia tra quelle che ancora sono in fase sperimentale sia tra le altre
passate in quella a regime) che hanno adottato regolamentazioni regionali prima della metà del
2005, senza che il legislatore nazionale lo avesse affermato, hanno considerato fase transitoria
quella tramite delibere di giunta, utilizzando espressioni del tipo «la presente disciplina perderà efficacia con l’entrata in vigore della legislazione regionale che dovrà dettare i profili formativi del nuovo apprendistato» oppure «è necessaria, al fine di procedere alla definizione delle regole attinenti i profili formativi all’interno del contratto di apprendistato professionalizzante, una fase sperimentale», e per queste vie si sono sottratte nell’immediatezza al compito
di dettare specifici profili formativi, rinviando, pro-tempore, l’esercizio della loro competenza
alla contrattazione collettiva, per esempio la Liguria (d.G.r. n. 196/2004), l’Abruzzo (d.G.r. n.
765
ruolo dominante rivestito dalle parti collettive, se da un lato è stato incentivato dal legislatore nazionale così come dalle circolari ministeriali,
dall’altro può leggersi come sintomo della situazione di incertezza che
investe la governance dell’apprendistato: nella scelta tra disciplina regionale e contrattuale-collettiva, talvolta alternative e in altri casi integrative, si potrebbe dare luogo ad un susseguirsi di fonti regolative, in cui ad
un periodo di vigenza della delibera regionale, ne segua uno della contrattazione collettiva, e infine un ulteriore periodo di vigenza della legislazione regionale 78. Ovviamente dietro questa situazione di temporanea
e apparente incertezza, tipica delle fasi intermedie e transitorie, sarebbe
auspicabile intravedere quella leale collaborazione tra attori istituzionali
e non, idonea a realizzare l’obiettivo di sperimentare, appunto, il nuovo
apprendistato.
In via di prima generalizzazione si può affermare, pertanto, che la
fase c.d. di sperimentazione, nonostante la sua transitorietà, ha visto lo
sviluppo di un modello di regolazione circolare e riflessivo in cui la concertazione regionale rinvia alla fonte eteronoma sia pure di rango secondario che rinvia, a sua volta, alla fonte autonoma: la regolazione della
materia per via di atti di concertazione regionali recepiti e resi erga omnes attraverso atti amministrativi regionali con o senza rinvio ad altra
fonte, contratti collettivi e produzione regolativa di enti bilaterali. Un
modello che, con le dovute differenze, richiama, su scala regionale, il
modello della contrattazione collettiva europea: la concertazione europea
che diventa atto comunitario, recepito dagli Stati con una regolazione erga omnes, che può rinviare nuovamente alla negoziazione delle parti sociali. Con un mix di auto e eteroregolazione in cui ciò che conta è il risultato.
Ma anche la fase a regime – che si adegua al nuovo assetto centrale
delle fonti – presenta elementi di novità sotto il profilo della regolazione
e dei contenuti.
In tal caso, le regioni non si sono spinte – ma niente avrebbe loro impedito di farlo – fino al punto di ribadire il medesimo modello circolare
e riflessivo della fase c.d. sperimentale: non hanno regolato i profili formativi delle tipologie di apprendistato recependo ed estendendo erga
91/2005), la Puglia (d.G.r. n. 184/2005), il Lazio (d.G.r. n. 350/2005), la Lombardia (d.G.r. n.
VII-19432/2004), le Marche (d.G.r. n. 1372/2004).
78
Il rilievo appare più evidente in alcune regioni come l’Abruzzo e il Veneto, solo per
fare alcuni esempi. Per una ricognizione dell’operato delle parti sociali v. G. Lella, Il nuovo contratto di apprendistato nella contrattazione collettiva, in «Inserto DPL», 2007, n. 48,
p. III ss.
766
omnes i prodotti della concertazione bilaterale 79. Le regioni si sono mostrate, invece, più caute limitandosi ad esercitare le attribuzioni previste
dalla legge nazionale 80.
Eppure, si evidenziano interessanti elementi di differenziazione regolativa tra i vari modelli regionali di messa a regime dell’istituto: per
esempio, riguardo al fatto che alcune hanno regolato specificamente
l’istituto dell’apprendistato, mentre altre hanno preferito inserire tale regolamentazione in leggi più ambiziose e generali, riferite all’intero mercato del lavoro 81; oppure alle modalità successive di messa a regime
dell’istituto, ovvero alla tipologia di atti cui si demanda l’attuazione.
Quanto al primo aspetto, la classificazione che si può desumere dal
quadro normativo pare rispondente a una gradazione di intensità regolativa discendente: considerando un ideale continuum tra un livello alto e
un livello basso di intensità regolativa, si collocano verso l’alto quegli interventi di regolazione che assumono come oggetto specifico e diretto
79
L’art. 39 Cost., II parte non potrebbe essere considerato ostativo a questa ipotesi, se si
ammette che esso riguarda il sistema di contrattazione collettiva nazionale, (il contratto collettivo di categoria) e non la contrattazione europea ovvero, oggi, quella regionale (M. D’Antona, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in «DLRI», 1998, n. 4, p. 665 ss.).
Problemi si potrebbero in astratto porre – sotto il profilo del principio di attribuzione – se le
Regioni recepissero accordi collettivi non limitati a profili formativi dell’apprendistato ma anche di regolazione normativa dell’istituto. In tal caso la regione esorbiterebbe dalle sue attribuzioni formalmente; ma sostanzialmente si limiterebbe a rendere erga omnes la regolazione
dell’autonomia collettiva che sulla materia esercita sicuramente una sua giurisdizione. Non si
ha alcuna difficoltà a considerare legittima questa eventualità, per ora soltanto teorica, ma che
potrebbe divenire concreta e ovviamente estesa ad altri istituti in una più razionale regolazione della struttura contrattuale che tenesse conto dei nuovi poteri regolativi delle regioni, (B.
Caruso, Sistemi contrattuali e regolazione legislativa in Europe, in «DLRI», 2006, n. 4, p. 581
ss.; R. Del Punta, La struttura della contrattazione collettiva: quale riforma? Un dibattito tra
i giuslavoristi. Una riforma impossibile, in “RIDL», n. 3 I, p. 259 ss.).
80
In particolare, il nuovo comma 5-bis dell’art. 49 d.lgs. 276/2003 che lascia meno spazio alla creatività delle regioni imponendo la fonte legale regionale come strumento esclusivo
di regolazione, anche se transitoriamente surrogabile solo dal contratto collettivo nazionale,
fissandosi in tal modo una poco chiarita equivalenza funzionale tra due prodotti di livello territoriale diverso: la legge regionale e il contratto nazionale di categoria. Verrebbe da chiedersi:
ciò perché non c’è altra fonte transitoriamente in grado di surrogare la legge regionale in tale
funzione regolativa, ovvero perché sul piano sistematico, dell’assetto delle fonti, esse si ritengono strutturalmente e funzionalmente equipollenti? Anche alla luce della ultima riforma (decreto legge n. 112/2008, convertito con legge n. 133/2008) e del chiarimento interpretativo fornito dal Ministero del lavoro (circ. Min. lav. del 10 novembre 2008, n. 27) pare ormai evidente la scelta del legislatore di considerare il contratto collettivo come fonte strutturalmente e
funzionalmente equipollente alla legge regionale.
81
In merito a tale tipo di classificazione v. M. Roccella, La disciplina dell’apprendistato professionalizzante nella legislazione regionale, cit., spec. p. 183 ss.
767
l’apprendistato professionalizzante 82; verso il basso, invece, quegli interventi ad oggetto più lato (il mercato del lavoro) dove l’apprendistato è
considerato limitatamente a pochi e stringati principi guida.
Il secondo aspetto ci porta dentro la questione della reale applicabilità a livello regionale della fonte deputata, che costituisce un aspetto di
differenziazione “forte” che riguarda la regolamentazione dei profili formativi dell’apprendistato professionalizzante: (i) alcune regioni, ovvero
la Puglia, la provincia di Bolzano e la Basilicata, hanno approvato una
legge specifica sull’apprendistato seguita da delibere di giunta (i1), o accompagnata da regolamenti regionali (i2) nei casi Lazio, provincia di
Trento, Piemonte e di recente anche Umbria; (ii) altre, come le Marche e
l’Emilia Romagna, hanno adottato una legge regionale sul mercato del
lavoro in generale, seguita da sole delibere di giunta (ii1), o da regolamenti attuativi e delibere di giunta o decreti, nel caso della Toscana, Friuli Venezia Giulia (ii2), o infine da decreti dirigenziali e delibere di giunta (ii3) (Sardegna, Lombardia).
Emblematico il caso della Puglia 83, che per il tramite della regolamentazione dettagliata con legge regionale ha inteso dare rilievo ad un
contenuto caratterizzante: il ricorso “pesante” alla formazione esterna.
Un altro significativo elemento – che si evidenzia accanto a primi
processi di differenziazione regolativa tra le regioni di istituti e non solo
di politiche del lavoro – è il fenomeno, che si può definire, della specializzazione funzionale della regolazione. Tale fenomeno ha ricadute rilevanti sull’assetto delle fonti che meritano di essere accennate, a prescindere dalla valutazione, ancora prematura, se si tratti o meno di una tendenza generale o consolidata.
Al momento si può semplicemente registrare un dato: laddove la regolazione riguardi veri e propri sub-sistemi omogenei, sia il rapporto tra
le fonti eteronome di ambito territoriale diverso, sia la comunicazione e
interferenza tra fonti strutturalmente diverse – in quanto provenienti da
attori sociali e non istituzionali – sono organizzate secondo moduli e logiche proprie di quel particolare sub-sistema.
Vuol dirsi che non è detto che il modello di distribuzione delle com-
82
Tra le leggi a medio-alta intensità spicca certamente quella della Regione Puglia (legge regionale 22 novembre 2005, n. 13), seguita dalla Provincia autonoma di Bolzano (legge
provinciale 20 marzo 2006, n. 2) e dal Piemonte (legge regionale 26 gennaio 2007, n. 2), dal
Lazio (legge regionale 10 agosto 2006, n. 9) e dalla Basilicata (legge regionale 13 novembre
2006, n. 28), dalla Provincia autonoma di Trento (legge provinciale 10 ottobre 2006, n. 6) e
dall’Umbria (legge regionale 30 maggio 2007, n. 18.
83
Nella medesima direzione le scelte delle regioni Marche, Sardegna e Lazio.
768
petenze verticali e orizzontali e le reciproche interferenze tra fonti autonome e eteronome, ma anche di natura soft e hard, valevoli per la formazione e i contratti formativi, debba essere identico o rispondente agli
stessi principi, per esempio, di quelli in materia di orario, ovvero di salute e sicurezza, ovvero, ancora, di contratti di lavoro non standard; ciò in
ragione, appunto, di un criterio di differenziazione connesso alla specializzazione funzionale di ogni micro sistema.
Le modalità di regolazione evidenziate, per certi versi asimmetriche,
differenziate se non addirittura contraddittorie, lasciano intravedere una
certa dose di empirismo dei legislatori regionali che fa da pendant alla
mancata chiarezza del disegno del legislatore nazionale.
Ed è evidente come il quadro regolativo che ne viene fuori, frammentato e discontinuo, impedisca una ricostruzione lineare e geometrica, del
sistema delle fonti “viventi” dell’apprendistato, che faccia magari riferimento ad una chiara e predefinita organizzazione delle stesse secondo un
qualsivoglia principio ordinatore interno (competenza, gerarchia, ecc.).
Se non ci si vuole fermare di fronte alla constatazione di un quid di
irrazionalità nel sistema delle fonti di regolazione dell’apprendistato, prodotto dal concorrere disorganizzato di fori regolativi diversi, l’unica lettura in positivo, potrebbe essere – scontata la difficoltà di ricostruzione sistematica del quadro – quella di individuare solo dei criteri di lettura, dei
modelli, dei binari consapevolmente o inconsapevolmente tracciati dagli
attori istituzionali, indirizzati a fornire uno scorcio del processo di trasformazione in atto nel sistema delle fonti, il cui esito non è ancora scontato
né del tutto leggibile. D’altra parte è inevitabile constatare come le regolamentazioni territoriali differenziate si collochino nel contesto di un nucleo di disciplina centrale al servizio di un’idea fondamentale della sussidiarietà, che è promozione delle diversità, ma entro un contesto unitario.
Se una prognosi può azzardarsi è che il cambiamento in atto, ancora
lontano da un definitivo assestamento, tende tuttavia verso un bilanciamento tra unitarietà nazionale della regolazione dell’istituto e un’attenzione – più evidente nel caso dell’apprendistato rispetto ad altri istituti –
alla peculiarità dei diversi mercati del lavoro regionali che promuove regole differenziate.
4.4. Apprendistato al plurale?
La differenziazione dei modelli regolativi evidenziati 84 rievoca una
84
Per una analisi più dettagliata della riforma dell’istituto e delle attuazioni regionali che
ne sono seguite si rinvia a D. Comandé, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit.
769
questione centrale nella fase corrente del diritto del lavoro, ovvero quanto e come gli attori istituzionali siano riusciti ad adattarsi al nuovo sistema delle fonti ispirato al principio di sussidiarietà, con riguardo al tema
specifico del contratto di apprendistato. Il punto di partenza della analisi
che precede è stato la presa d’atto di un processo di differenziazione del
diritto del lavoro, innescato dall’alto – ovvero dai processi in corso nel
panorama comunitario –, e riverberatosi, in basso – sino all’assetto regionalistico del sistema delle fonti –, dove ha trovato un campo di sperimentazione elettivo nell’apprendistato, in ragione del fatto che su tale istituto concorrono competenze diverse e tutte legittimate dall’attuale sistema
delle fonti.
Il nuovo orizzonte multilivello che si delinea, se per un verso potrebbe prestare il fianco alle critiche tradizionali che vi ravvisano una rottura
dell’unitarietà del sistema delle fonti, con la conseguente prevalenza del
criterio di competenza su quello di gerarchia, per altro verso è l’unico
che consente all’ordinamento «di adeguarsi alle esigenze tipiche e diversificate proprie di ciascuno dei settori di volta in volta coinvolti» 85.
E proprio il campo della formazione si presta particolarmente ad essere regolato tramite “l’adozione di atti a contenuto direttivo, piuttosto
che immediatamente normativo e prescrittivo” 86, presentandosi come un
vero e proprio sub-sistema autonomo di regolazione, in cui i moduli di
regolazione pubblici, privati-collettivi e parapubblici si confondono e si
ibridano dando luogo ad un modello nuovo: il diritto della regolazione.
In questo senso la moltitudine di norme e discipline regionali – lungi dal
dovere essere considerata conseguenza negativa di un labirinto regolativo, una sorta di lacciuolo da rimuovere 87 – potrebbe invece essere consi85
F. Pizzetti, La tutela dei diritti nei livelli substatuali, in P. Bilancia, E. De Marco, La
tutela multilivello dei diritti, Giuffrè, Milano, 2004, p. 201
86
F. Pizzetti, La tutela dei diritti nei livelli sub statuali, op. ult. cit., p. 203.
87
Così si esprime M. Tiraboschi, Il peso della regolazione, in «Boll. Adapt», 2 ottobre
2007, n. 32, (Id., in «Il Sole 24 Ore», 2 ottobre 2007), p. 2, in cui si cita il nuovo apprendistato come fattispecie irrigidita “da una moltitudine di norme regionali invasive che impongono,
a ogni piè sospinto, adempimenti burocratici e oneri procedurali a scapito della effettiva costruzione di percorsi formativi di qualità”. Se è vero che in alcune regioni gli “adempimenti
burocratici e oneri procedurali” hanno forse reso difficoltosa l’entrata a regime dell’istituto, è
altrettanto vero che a monte la causa più rilevante dei rallentamenti (che peraltro sono circoscritti ad un numero limitato di autonomie regionali) è probabilmente da riscontrare nella mancanza di volontà politica delle stesse ad intervenire con decisione in una materia oggetto certo
di concertazione ma in cui l’impulso regolativo è previsto come decisivo. Una carenza di intervento, dunque, più che un difetto della qualità dello stesso. E a questo forse l’ultimo legislatore ha cercato di porre rimedio bypassando le autonomie regionali in favore delle più attive
parti sociali, almeno nel caso di formazione esclusivamente aziendale.
770
derata un tentativo di attuazione di percorsi formativi di qualità adattabili al territorio e alla specialità del rapporto.
Il policentrismo normativo e istituzionale attuato grazie a tecniche di
produzione legislativa, che pongono al centro dell’arena deliberativa il
rapporto di cooperazione virtuosa tra le istituzioni territoriali e le organizzazioni sindacali, regionalmente più rappresentative, accentua di certo i connotati di elasticità del diritto del lavoro, che appaiono in tutta la
loro pienezza in una fattispecie a formazione complessa come l’apprendistato. Sia il livello della regolazione regionale, sia il livello della regolazione sovranazionale costituiscono così input convergenti per sostituire, tendenzialmente, ai tradizionali e statici criteri di unificazione e coordinamento delle fonti, basati “più sulla geometria degli atti che sull’algebra dei processi normativi” 88, una cooperazione istituzionale funzionalizzata per obiettivi.
Come a suo tempo aveva già intuito Massimo D’Antona – e la regolazione multilivello dell’apprendistato conferma – “la differenziazione in
sistemi paralleli o interferenti non consente [...] interpretazioni logiciste
e strettamente inferenziali: il rapporto di derivazione gerarchica dalla
norma più generale a quella più particolare non esaurisce le possibili
connessioni tra norme dell’ordinamento plurisistemico” 89, che necessita
l’uso di argomentazioni più sofisticate.
Il modello di regolazione a rete 90 – che è quello che sembra delinearsi in materia di apprendistato – emerge dall’indagine sotto due punti di
vista differenti ma combinati: dal punto di vista procedurale, si traduce in
una pluralità di fonti interconnesse e accomunate dall’oggetto e dallo
scopo della regolazione; dal punto di vista sostanziale, costituisce il tramite per avvicinare la fonte al territorio consentendo una maggiore sintonia tra norma stabilita e finalità perseguite.
Il profilo procedurale rileva anche come inveramento del principio
di sussidiarietà sia di tipo verticale, la cui naturale funzione è di creare un
coordinamento armonico tra fori regolativi situati a quote differenti nella piramide istituzionale; sia di tipo orizzontale, nella misura in cui il
protagonismo delle formazioni sociali appare centrale per la realizzazione dei traguardi auspicati. Entrambi, operanti in sinergia, producono co88
B. Caruso, Diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà, op. cit., p. 807. A cui si rinvia per uno studio attento ai rapporti del sistema di fonti comunitario, nazionale e regionale.
89
Indimenticabili e attualissime, tanto da essere premonitrici, le pagine di M. D’Antona,
L’anomalia post-positivista del diritto del lavoro e la questione del metodo, op. cit., p. 60.
90
M. D’Antona, L’anomalia post-positivista del diritto del lavoro e la questione del metodo, op. ult. cit. e M. Napoli, Le fonti del diritto del lavoro e il principio di sussidiarietà, in
Aa.Vv., Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro, Milano, Giuffrè, 2002, p. 493.
771
me effetto “certificato” la messa in crisi del sistema di fonti tradizionale
e dei principi ordinatori ad esso collegati.
Un altro profilo, quello sostanziale 91, mette in luce i primi embrioni
di politiche programmate di sviluppo territoriale attente al sostrato economico e sociale di riferimento: basti pensare alle scelte operate in relazione alla tipologia di formazione accolta dai modelli regionali, che rispecchiano indirettamente le efficienze o inefficienze delle imprese nel
campo della formazione 92. La varietà dei modelli porta come corollario
la crisi del principio di eguaglianza formale 93: il pianeta formazione apre
alla sfida delle differenze, che chiedono, anche, nel diritto del lavoro di
essere ammesse e rispettate, anziché tacitate in nome di un interesse generale selezionato chissà dove e perché 94.
Il grado di efficacia del sistema di competenze e dei suoi prodotti
normativi andrà misurato nel tempo, ma pare per il momento depotenziata la visione accentratrice e uniformante di un diritto del lavoro monolitico. Il diritto del lavoro sembra doversi, pertanto, declinare al plurale,
non solo per la sua attitudine eterodossa nell’impiego di strumentazioni
giuridiche e di schemi teorici poliedrici, ma anche per il suo carattere di
frontiera aperta a disciplinare i rapporti di lavoro attraverso più paradigmi giuridici.
5. Tendenze e problemi aperti della regolazione sociale oltre la formazione: il profilo del rapporto tra le fonti
Il cantiere della regolazione sociale decentrata e differenziata, come
91
Per una sua analisi più approfondita si rinvia a D. Comandé, Il diritto del lavoro al
“plurale”, op. cit.
92
O anche ai costi correlati che in generale riflettono la differenziazione delle economie
locali, v. L. Zoppoli, Apprendistato e multilevel regulation, op. cit., che in proposito intravede
«una dicotomia Nord/Sud, espressione di due diverse filosofie, chiaramente frutto di diversità
strutturali, avendo l’uno un’economia basata su imprese private più forti e autonome e l’altra
un’economia che ancora gravita intorno alla spesa pubblica».
93
Per smentire l’assunto in base al quale la regolazione competitiva, scaturente dal modello federalista, produce automaticamente corse al ribasso si rinvia alle efficaci argomentazioni di B. Caruso, Diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà, op. cit., spec. p. 840 ss. Il
valore aggiunto che discende dall’esercizio delle competenze multilivello è una ricchezza che
non può e non deve essere trascurata in nome di una uniformità normativa pregiudiziale.
94
M. D’Antona, L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, in «DLRI»,
1991, n. 2, p. 463, ora in B. Caruso, S. Sciarra (a cura di), Opere, op. cit., p. 152, che però la
ricollega all’esigenza di forme di rappresentanza sindacale attente più al singolo lavoratore che
al lavoratore astratto e massificato.
772
si vede, è aperto e probabilmente riserverà più sorprese di quel che ci si
possa ragionevolmente aspettare. La prospettiva che si dischiude è di
grande interesse e attende di essere adeguatamente sistemata dalla giurisprudenza scientifica.
Alcune prime e provvisorie acquisizioni possono essere solo enunciate. Esse assumono le sembianze di problemi aperti. Sono riflessioni
che di proposito abbandonano il tema della formazione e affrontano questioni più generali.
1. Pare acclarato, nel diritto del lavoro, il ricorso sempre più intenso
a fonti eteronome appartenenti a livelli territoriali diversi: sovranazionale, nazionale e infranazionale. Il livello nazionale non è, pertanto, più
egemonico; non gode, in ogni caso, della precedente e tradizionale centralità. Il sistema si configura, ormai come policentrico.
2. La sistemazione dell’assetto delle fonti eteronome, che agiscono
in concorrenza a livello di diverso, non si coagula più intorno ai principi/
criteri ordinatori tipici dello Stato nazione: il principio di gerarchia e il
primato della legge statale, il principio di competenza, il principio cronologico. Ne occorrono altri e più adeguati: per esempio, il principio di attribuzione governato dal principio di sussidiarietà verticale che è “regolatore” dinamico di competenze attribuite. Il riferimento al principio di
sussidiarietà assume, però, pure un significato di rango costituzionale: in
tal senso, se implica tecnicamente e politicamente la necessità di un coordinamento istituzionale tra più attori diversamente dislocati sul territorio, implica pure “il valore” della centralità della dignità della persona e
di maggiore attenzione agli interessi situati da parte della regolazione sociale eteronoma.
3. Sussidiarietà verticale e cooperazione istituzionale si basano pure
sul principio giuridico della leale collaborazione tra gli attori destinatari
delle attribuzioni. Quest’ultimo, infatti, non è soltanto un principio politico che informa di sé l’assetto istituzionale del federalismo cooperativo;
è anche un principio giuridico che consente alle alti Corti di arbitrare sul
corretto uso di poteri e attribuzioni condivise o ripartite: esternamente
nel caso della Corte di giustizia europea, internamente nel caso della
Corte Costituzionale.
4. La regolazione sociale evidenzia, pure, una connessione, sempre
più stretta, tra regolazione autonoma e eteronoma ai vari livelli territoriali
e, cosa che rende più complicato il sistema, nell’intersecazione tra vari livelli. È questa la cifra saliente del modello istituzionale e sociale europeo,
ove addirittura la rilevata connessione è costituzionalizzata. Sul versante
interno, gli innumerevoli rinvii – il caso dell’apprendistato ne è esempio
paradigmatico – sia alla fonte eteronoma regionale, sia alla contrattazione
773
collettiva ai vari livelli territoriali, contenuti nella legge nazionale, costituiscono una conferma di tale connessione, divenuta ormai sistemica e non
solo funzionale a limitati e separati obiettivi. Questa interferenza circolare
tra fonti autonome e eteronome collocate a vari livelli territoriali, presenta
specifici problemi tecnici riferiti sia ai moduli di reciproco rinvio, sia ai
potenziali problemi di concorrenza/conflitto. Essa è colta bene dal riferimento concettuale alla teoria del diritto riflessivo e della regolazione riflessiva, ora adoperata per spiegare dinamiche dell’ordinamento europeo,
ma già ampiamente utilizzata in Italia alla fine degli anni ’80 per cogliere
alcune tendenze dell’ordinamento interno. Anche in tal caso, come con riguardo al rapporto tra fonti eteronome, soccorre un principio giuridico che
consente la non riduzione della questione a mera tecnica di razionalizzazione efficientistica del sistema delle fonti: il principio di sussidiarietà
orizzontale che attende ancora di essere concettualmente utilizzato in tutte le sue potenzialità euristiche nel diritto del lavoro 95.
5. Sul piano della teoria delle fonti in senso stretto, la rilevata connessione pone sull’agenda dei giuristi del lavoro problemi di vasta portata: l’equivalenza funzionale tra atti normativi e contratti collettivi a vari
livelli territoriali, impone di considerarne definitivamente l’equipollenza
strutturale? Ritorna circolarmente la stessa domanda che ha arrovellato
la dottrina a partire dagli anni ’70 ma oggi con ulteriori complicazioni
derivanti dal policentrismo ordinamentale e dalla rilevata interferenza di
livelli e di prodotti sempre più differenziati al loro interno. Pur dovendo
tralasciare, a costo di un’evidente rottura dell’unità del quadro, il livello
sovranazionale e l’analisi di nuovi strumenti di regolazione come il soft
law, è sufficiente considerare la dimensione interna e il rapporto classico
tra legge e contratto. Nuovi elementi che rilevano sono:
95
M. Napoli, Le fonti del diritto del lavoro e il principio di sussidiarietà, op. cit.; Id., (a
cura di), Principio di sussidiarietà. Europa, stato sociale, Milano, Vita e Pensiero, 2003. Questa – sempre più stretta – interferenza tra fonti autonome e eteronome pone problemi noti e
ampiamente discussi, ormai non solo in Italia ma anche in ambito europeo, di legittimazione
democratica degli attori e di loro intrinseca rappresentatività; problemi che non possono neppure essere sfiorati in questa sede. A titolo puramente esemplificativo può porsi la questione se
esista una necessaria correlazione tra livello territoriale di regolazione e regole della rappresentanza e della rappresentatività, per cui queste possono essere adattate e quindi differenziate in ambiti territoriali, per esempio, contraddistinti dalla presenza di minoranze etniche. O se
tali regole siano, invece, tecnicamente “neutre” rispetto ai livelli territoriali non tollerando,
quindi, differenziazione alcuna sul territorio infranazionale. Che il problema non sia solo teorico ma anche pratico è dimostrato dalla recente e importante sent. della Cass. n. 10848/06, su
cui l’interessante e puntuale contributo di G. Fontana, Giurisprudenza per principi e casi «difficili». La riserva indiana dei sindacati maggiormente rappresentativi, in «RIDL», 2007, n. 2,
p. 322 ss.
774
a) L’emersione di dati normativi salienti, inseriti, con la nota tecnica
quasi casuale e incidentale 96, in una disposizione processuale (la riforma
dell’art. 360 c.p.c.) 97. In tale disposizione si equipara il contratto collettivo di diritto comune alla legge allo scopo del ricorso in cassazione per
vizio di “violazione” o “falsa applicazione” delle rispettive disposizioni.
Le implicazioni sono evidenti anche se tutte da sviscerare.
Ma non meno rilevante è:
b) il rinvio pervasivo della legge al contratto, per funzioni differenziate, operato nel d.lgs. n. 276/2003 98. Sintomo chiaro, anche questo,
della rilevata equipollenza funzionale. Viene da chiedersi, allora, se
un’equipollenza per certi versi frammentata e non organica, ma così estesa per gli istituti interessati, non preluda ad una definitiva presa d’atto di
una equipollenza strutturale tra le due fonti non necessariamente effetto,
come tralaticiamente sostenuto, da un intervento organico sulla struttura
del contratto collettivo con conseguente riforma dell’art. 39, II parte, della Cost. 99.
6. Sul piano dell’interferenza reciproca fra fonti eteronome e fonti
autonome di diverso livello territoriale, l’esempio dell’apprendistato professionalizzante, descritto nei paragrafi precedenti, dimostra, infine, come il nuovo policentrismo interno, se mal governato, possa pure produrre caos e patologia regolativa, con fenomeni di concorrenza disordinata e
conseguente grave incertezza per gli attori sociali a vari livelli chiamati a
96
Tale riforma richiama la vicenda della modifica dell’art. 2113 c.c. avente ad oggetto
principale il regime delle rinunzie e transazioni ma che, con il riferimento al contratto collettivo, condusse alla teorizzazione dell’efficacia inderogabile del contratto collettivo di diritto comune, vera è propria quadratura del cerchio: sul punto le indimenticabili pagine di G. Giugni,
Commento all’art. 39 della Costituzione, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, Zanichelli, 1979; L. Mengoni, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, in «JUS», 1979, p. 167 ss. ora in Id., Diritto e valori, Bologna, il Mulino, 1985; G.
Vardaro, Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, Milano, Franco Angeli, 1985.
97
Cfr. art. 64 d.lgs. n. 165/2004.
98
Nel discusso testo si evidenziano frequenti discrasie tra tecnica di rinvio e la struttura
contrattuale ancora formalmente vigente e non ancora modificata dalla parti sociali; si evidenziano pure opportunismi politici nei dispositivi di rinvio agli attori negoziali: F. Carinci, Regioni e sindacato nel d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, in «LG», 2004, n. 3, p. 209 ss.; L. Bellardi, La struttura della contrattazione collettiva e d.lgs. n. 276 del 2003, in AA.VV., Diritto
del lavoro i nuovi problemi: l’omaggio dell’Accademia a Mattia Persiani, Padova, Cedam,
2005, p. 339 ss.; C. La Macchia, L’esercizio della rappresentanza sindacale nella riforma del
mercato del lavoro del 2003, in «RGL», 2004, n. 1, I, p. 159 ss.; B. Caruso, L. Zappalà, The
Evolving Strutture of Collective Bargaining in Italy (1990-2004), in WP CSDLE Massimo
D’Antona.INT, n. 38/2005.
99
Già G. Ferraro, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela,
Padova, CEDAM, 1981.
775
dettare regole concorrenti. Ma offre pure importanti indicazioni di segno
opposto: e cioè che gli attori coinvolti sono in grado di trovare un proprio
equilibrio fisiologico, anche senza, e addirittura nonostante, l’intervento
del “legislatore di rinvio”. L’assetto in via di faticosa sistemazione pone,
comunque, problemi ancora aperti, anche perché non affrontati e non affrontabili, almeno in ricorsi diretti, dalla Corte Costituzionale: e cioè i
criteri di soluzione dell’eventuale concorso/conflitto 100, tra contrattazione collettiva nazionale e potestà normative primarie e secondarie delle
regioni.
A tale proposito si aprono due questioni concettualmente distinte:
a) Quale debba essere il principio giuridico di regolazione della concorrenza di competenze non solo tra fonti eteronome di diverso livello
territoriale ma anche tra fonti autonome e eteronome, dello stesso o di diverso livello, che concorrono, entrambe legittimamente, alla regolazione
di un sub sistema, sulla base di rispettive attribuzioni. In altre parole, se
esista, o debba esistere, anche in questo caso un principio preventivo di
organizzazione delle attribuzioni.
b) Quale debba essere il principio di soluzione nel caso di accertato
conflitto (prevale, per esempio, la legge regionale o il contratto collettivo
nazionale o regionale?).
Per il primo problema non si può che rinviare a quanto detto prima:
gli attori istituzionali e sociali hanno una naturale propensione al gioco
cooperativo e non competitivo; il principio di leale collaborazione affermato dalla Corte Costituzionale per regolare le relazioni tra Stato e regioni, può valere anche come principio in grado di organizzare razionalmente e cooperativamente, la concorrenza tra regolazione eteronoma decentrata e regolazione autonoma, considerando che il principio di sussidiarietà orizzontale meglio del principio della prevalenza sempre e comunque dell’autonomia collettiva, si presta, in questo caso a fungere da regolatore dinamico della concorrenza tra fonti di regolazione eteronome e
autonome sub nazionali.
Un’eventuale autoriforma della struttura contrattuale con il riconoscimento della piena legittimità del livello regionale di contrattazione,
anche allo scopo limitato della rilevata specializzazione funzionale della
regolazione, per sistema o per settore, potrebbe sicuramente agevolare un
assetto più armonico tra attribuzioni legislative delle regioni e attribuzioni dell’autonomia collettiva.
Per quel che concerne il secondo problema – il conflitto, poco even100
Più acceso in materia di contratti formativi e formazione, ma che si è esteso a tutta la
gamma degli istituti che le regioni ritengono di far rientrare nelle loro attribuzioni concorrenti.
776
tuale in verità, tra disposizioni contrattuali e fonti eteronome decentrate
– il criterio solutorio non può che essere quello basato sul principio di attribuzione e non altri, quali ad esempio quello gerarchico o di successione cronologica.
In tal senso, non appare sbagliato, almeno in astratto, il modo in cui
ha deciso di operare il legislatore del 2003 che, sull’apprendistato, ha inteso, almeno nelle intenzioni, ripartire razionalmente le attribuzioni a regioni e parti sociali (altro poi il risultato in concreto).
La vicenda dell’apprendistato è, dunque, sintomatica del tentativo di
ricorrere al principio di attribuzione come criterio non solo solutorio
dell’eventuale conflitto ma anche come criterio di anticipazione dello
stesso. La strada imboccata era quella giusta, la soluzione apprestata sicuramente meno.
Per tornare al tema specifico della regolazione dell’apprendistato restano tuttavia almeno due dubbi: uno che riguarda specificamente l’istituto, l’altro di tenore generale.
Il primo: è possibile pensare, in concreto, a interventi legislativi nazionali che pretendano di organizzare l’interscambio tra regolazione legislativa decentrata e regolazione autonoma scindendo gli aspetti dei
profili formativi da quelli di regolazione del rapporto di apprendistato?
Il secondo: può il legislatore nazionale decidere sulle attribuzioni
delle regioni e dell’autonomia collettiva relativamente a sistemi su cui insistono competenze primarie delle regioni e naturali e non circoscrivibili attribuzioni dell’autonomia collettiva, con interventi privi del supporto, a monte, della concertazione e della collaborazione istituzionale? O
deve operare con un più fruttuoso self restraint, magari lasciando a quelle sedi le più appropriate soluzioni di regolazione dinamica delle reciproche competenze e limitandosi a vigilare sulle proprie competenze di sistema e trasversali, per esempio, sul rispetto dei livelli essenziali?
6. Verso un diritto della regolazione
Si è rilevato più volte come la formazione e i contratti formativi costituiscano un vero e proprio laboratorio di sperimentazione di una regolazione trasversale in cui moduli privatistici, pubblicistici, parapubblici e
privati si intersecano in maniera a volte inestricabile. Su tale regolazione
converge l’azione combinata, coordinata ed organizzata di più attori, anche in tal caso pubblici, semipubblici, privati: quel che si è definito governance diffusa.
Rispetto a questi fenomeni l’interprete può limitarsi a prendere atto
777
del fatto che ogni sforzo di inquadramento del diritto del lavoro nella più
ampia famiglia del diritto privato o del diritto pubblico può “avere soltanto valore indicativo o tendenziale e va sottoposto a continua verifica
storica” 101. Ma con tale risposta relativistica, si finisce per arrendersi alla sfida di un riposizionamento concettuale della materia; ci si arrende
nella misura in cui tale posizione si limita alla registrazione, mera, della
dialettica pubblico/privato nel diritto del lavoro.
Si può cercare, invece, di far qualche passo in avanti utilizzando le
acquisizioni della dottrina che si misura con la complessità regolativa
della nuova governance diffusa, tentando di sviscerarne i nodi e mettendone in luce la intersecata attività di regolatori privati e pubblici 102, i relativi strumenti impiegati 103, l’oggetto della regolazione 104, intesi tutti
come un unico sistema ma strutturato a rete.
È proprio quello che si è inteso fare con il tema della formazione e
dell’apprendistato in particolare, evidenziando le rilevate ibridazioni di
soggetti, strumenti e oggetto, oltre che i relativi fenomeni di co-amministrazione e coordinamento tra livelli territoriali, incluso quello europeo.
La domanda che questa prospettiva si pone, in via generale, è se sia
possibile ricomporre la frammentazione delle discipline regolative settoriali intorno ad un diritto unitario della regolazione che abbia delle infrastrutture concettuali comuni. Il che implica non la semplice ricognizione
e presa d’atto dell’esistente, ma anche un contributo della giurisprudenza scientifica alla continua definizione dei ruoli dei regolatori e degli
strumenti – privati, collettivi, pubblici, e parapubblici – e degli stessi
contenuti della regolazione.
101
Magari prestando attenzione “alla genesi, alle finalità e alle specificità di ciascun istituto, di ciascuna legge, di ciascuna norma all’uopo ricorrendo alle categorie giuridiche più appropriate – siano esse privatistiche o pubblicistiche – per consentire la realizzazione degli
obiettivi di volta in volta perseguiti”, così M. Rusciano, Il diritto del lavoro tra diritto pubblico e diritto privato, in Aa.Vv., Le ragioni del diritto: scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, Giuffrè, 1995, Vol. II, p. 1233.
102
Con tutti i relativi problemi giuridici della rappresentanza nelle strutture di governo
della regolazione privata, di conflitto di interessi ed eventuali responsabilità: F. Cafaggi, Un
diritto privato europeo della regolazione? Coordinamento tra pubblico e privato nei nuovi
modelli regolativi, in «PD», 2004, n. 2, p. 206; Id., Crisi della statualità, pluralismo e modelli di autoregolamentazione, in «PD», 2001, n. 4, p. 543 ss.
103
Ridefinendo i confini tra strumenti riconducibili al diritto pubblico e strumenti associati al diritto privato, Cafaggi, Un diritto privato europeo della regolazione?..., op. cit.
104
In particolare, se si è di fronte ad oggetti su cui insiste un diritto misto pubblico-privato e rilevandone le caratteristiche, Cafaggi, Un diritto privato europeo della regolazione?...,
op. cit.
778
Questa forma di integrazione e ibridazione di soggetti, strumenti e
contenuti, può, dunque, contribuire “ad un ripensamento delle categorie
classiche nella direzione di una concezione unitaria di forme di regolazione che impiegano strumenti diversi” 105.
“Un nuovo diritto della regolazione è necessario: esso non presuppone la cancellazione delle distinzioni tra diritto pubblico e privato ma certo esige il coordinamento ed una più
forte consapevolezza degli effetti di reciproca influenza degli strumenti che la cooperazione
impone. Il tema diviene centrale ma ancora più complesso se, dalla prospettiva dei regimi degli Stati nazionali, si guarda alle strategie europee di regolazione dove, forse inconsapevolmente, un diritto della regolazione è già operante ma le sue caratteristiche sono embrionali e
ancora troppo poco definite”: così F. Cafaggi, Un diritto privato europeo della regolazione?...,
op. cit., p. 238; da ultimo M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel
mondo globale, Bari, Laterza, 1996, p. 28 ss.
105
779
Antonella Ciriello
Magistrato
Riflessioni sul contratto
a tempo determinato nel pubblico impiego
Sommario: 1. Premessa. – 2. L’art. 36 nel tenore iniziale e le numerose deroghe. – Segue:
la dirompente riforma della legge 244/2007: una vita breve, ma intensa. – 3. Le innovazioni (definitive?) a opera del decreto legge 112/2008. – 4. Le stabilizzazioni e i problemi che le stesse pongono (cenni). – 5. Il divieto di conversione ed il risarcimento del danno: il senso del diverso regime nella disciplina costituzionale ed europea. – Segue: l’interpretazione della norma nella giurisprudenza interna, il significato della sanzione risarcitoria. – 6. Conclusioni.
1. Premessa
Sul terreno del contratto a tempo determinato, più che altrove, si gioca il futuro del diritto del lavoro, o se si preferisce, la partita tra la flessibilità, che, nell’accezione evoluta i giuristi moderni amano definire flexicurity, e l’inderogabilità delle norme a tutela dei lavoratori, in definitiva
tra la tutela del mercato e la tutela del lavoro 1.
Nella storia più recente, questa tipologia contrattuale, inizialmente
guardata con sfavore nell’ordinamento italiano, in chiave di conservazione e tutela della tipologia legale a tempo indeterminato, prospettiva
propria di un periodo precedente alla maturazione delle logiche europee
sul mercato del lavoro (legge 230/1962, fortemente limitativa) ha subito una notevole attenzione dal legislatore, attratto dal esigenza di flessibilità, imposta dal mercato, ed è stato oggetto di tendenze ambivalenti,
1
Recentissima dottrina (G. Fontana, Dall’inderogabilità alla ragionevolezza, Giappichelli, 2008, p. 69 e ss., pone in evidenza come nel libro bianco si tenta di attuare uno scambio virtuoso tra occupazione e flessibilità rendendo per un verso primaria la competenza del
contratto collettivo rispetto alla legge (rovesciamento della gerarchia delle fonti, rectius delegificazione, già cominciato, nel settore de quo, negli anni ’80, si pensi alla legge 57/1987) e,
per altro verso, consentire al singolo contraente la libera derogabilità delle stesse norme collettive e generali, così da restituire al contratto individuale il ruolo di baricentro della regolazione dei rapporti di lavoro, con restrizione degli spazi dedicati alla mediazione sindacale, con
lo scopo di consentire di incidere sui rapporti individuali in funzione di obiettivi di efficienza
nel mercato del lavoro.
781
e non univoche, registrabili tanto nella legislazione nazionale 2 che nelle indicazioni europee 3.
In un momento storico di forti frizioni per il diritto del lavoro in generale, e il contratto a tempo determinato in particolare 4 (è dello scorso
21 agosto una norma, contenuta nella legge n. 133/2008, di conversione
del decreto legge n. 112/2008, che modifica l’esito di migliaia di ricorsi
con una tecnica legislativa a forte sospetto di incostituzionalità 5-6) si as2
A fronte di parte della dottrina che ne voleva sostenere la concreta liberalizzazione
(Bianchi D’Urso, Vidiri, Il nuovo contratto a termine nella stagione della flessibilità, in
“MGL”, 2002, p. 118 ss. Afferma che il contratto a termine si pone non più come una eccezione ma “a latere, in posizione secondaria” Sandulli, Spunti sull’interrogativo primario del nuovo contratto a termine: l’intrinseca temporaneità del presupposto, in «ADL», 2002, p. 66, V,
anche G. Ferraro, Il contratto a termine rivisitato, in «ADL», 2008), risulta imposto dal legislatore il carattere eccezionale, speciale, del contratto a tempo determinato, attraverso un apposito inciso introdotto dalla legge 244/2007, nel d.lgs. 348/2001, che afferma come il contratto
di lavoro è, di regola a tempo determinato, ribadendo dunque la necessità dell’oggettività delle
causali giustificatrici il contratto a termine, verificabili al fine di statuirne la valida stipula.
3
Cfr. Zoppoli, Il contratto a termine e le trappole della precarietà, atti del Convegno “Il
contratto a termine nella prospettiva europea”, organizzato a Napoli, l’11 giugno 2008, da Magistratura Democratica e dal Master in Diritto europeo e comparato del lavoro della Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II che richiama l’atteggiamento ambivalente,
espresso dalla Commissione europea, in relazione alla tipologia contrattuale in discorso, allorché, nel libero verde, del novembre del 2006, per un verso se ne affermano i possibili effetti negativi, produttivi di fasce di precariato, per altro verso si sottolinea come determinati soggetti,
che per le loro caratteristiche soggettive possono avere difficoltà a trovare un’occupazione, attraverso gli strumenti contrattuali diversificati possono sfruttare un c.d. effetto “trampolino”.
4
Le cui sorti, in un regime di bipolarismo politico, sono differenti in relazione alla maggioranza al governo come dimostrano i numerosi emendamenti alla disciplina del d.lgs.
368/2001, in sensi via via diversi, fino al recentissimo, precedente al cambio di governo, teso
ad affermare, con un comma specifico, la specialità dell’apposizione del termine e la natura di
tipo legale del contratto a tempo determinato, in tendenza praticamente opposta allo stesso spirito della norma, attuativa di una direttiva comunitaria, la 99/70, già super attuata, in chiave di
tutela, nel nostro paese, dalla legge 230/1962, e quindi concretamente non necessaria.
5
Tale intervento normativo si potrebbe leggere come la trasformazione, in itinere, ad
opera del legislatore, del contratto a termine in un contratto acausale, come osserva la dottrina
(Zoppoli, Il contratto a termine e le trappole della precarietà, atti del Convegno “Il contratto
a termine nella prospettiva europea”, organizzato a Napoli, l’11 giugno 2008, da Magistratura
Democratica e dal Master in Diritto europeo e comparato del lavoro della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II), anche con riferimento al discusso intervento legislativo nel 2005 (l. n. 266 del 23 dicembre) a correzione dell’art. 2 del d.lgs. 368/2001 (con
l’introduzione di un oscuro comma 1-bis), che consente ad alcune imprese (concessionarie di
servizi nei settori delle poste) di assumere anche senza causa per periodi di sei/quattro mesi e
nel limite del 15% dell’organico aziendale.
6
Risultano già sollevate numerose questioni di costituzionalità da uffici giudiziari dislocati in tutta Italia (App. Bari, ordinanza del 22 settembre 2008, est. Castellaneta; Trib. Roma,
26 settembre 2008, est. Conte; App. Genova, est. Ravera, 26 settembre 2008; Trib. Ascoli Pi-
782
siste, nella materia dell’impiego pubblico contrattualizzato, alla sopravvivenza di un regime speciale, ove la specialità, storicamente, non è a tutela del lavoratore, ma del bene pubblico, il che pone problematicamente la questione della affermata o esclusa compatibilità tra i moduli organizzativi del lavoro pubblico e la stessa idea di flessibilità.
E, cionondimeno, a fronte della c.d. privatizzazione, taluni profili di
specialità sono apparsi eccessivi, ultronei, ingenerando opinioni dottrinali e giurisprudenziali fortemente tese ad affermare la completa equiparazione del regime di nullità della clausola limitativa della durata del
contratto, al regime privato 7.
Si cerca, si è cercato, nel quadro di tali opinioni un aggancio costituzionale o comunitario, per affermare una piena omogeneità tra il regime
pubblico e quello privato, per i casi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, ma tali tentativi, come si vedrà in seguito, non
hanno prodotto i risultati sperati, come emerge dalla sentenza della Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 8.
Di contro, l’esigenza, affermata legislativamente, dettata preminentemente dal bisogno di contenere la spesa pubblica, il vero oggetto di tutela che sta a cuore del legislatore, più che l’organizzazione e il funzionamento della compagine pubblicistica, di cui alla tutela costituzionale
dell’art. 97, di escludere con recisione e decisione, da parte di un testo
normativo particolare (la legge finanziaria, da ultimo, 244/2007) la possibilità, salvo casi particolarissimi, di assumere a termine per le pubbliche amministrazioni.
Ispirata agli stessi principi, la politica del blocco delle assunzioni, da
anni ha determinato situazioni di difficoltà, nella gestione quotidiana della cosa pubblica, da parte delle amministrazioni soprattutto periferiche e
territoriali, alimentando, attraverso un utilizzo distorto e deteriore di quel-
ceno, est. Boeri, 30 settembre 2008; Trib. Trieste, Multari, 15 ottobre 2008) mentre il Tribunale di Trani, est., La Notte Chirone, con sentenza del 16 maggio 2007 ha ritenuto di disapplicare la norma invocata, in materia di somministrazione, per contrasto con i principi comunitari,
sulla base della prevalenza del diritto comunitario su quello interno.
7
In tali sensi cfr., Perrino, in nota a sentenza Marrosu e Sardino, Corte di Giustizia Ce,
sezione II del 7 settembre 2006, n. causa c-53/04 in «Foro it.», cit.; v. altresì F. Buffa, in nota
a Tribunale di Lecce 16 giugno 2006, in «Corti pugliesi».
8
V. infra sub paragrafo 5, con riferimento alle sentenze di C. Cost. 89/03; e alle sentenze della Corte di Giustizia Adeneler (4 luglio 2006, Grande Sezione, Adeneler, causa C –
212/04), Vassallo, 7 settembre 2006, Vassallo, causa C – 180/04 e Marrosu e Sardino, 7 settembre 2006, c-53/04.
783
la flessibilità, come si vedrà, variamente nel tempo, ed entro certi limiti
consentita alle p.a., un fenomeno grave e spropositato, il precariato.
Anche in relazione a tale fenomeno, altra faccia della stessa medaglia, si è cercata una soluzione legislativa, con le c.d. stabilizzazioni, che
tentano di regolare la situazione di uno spropositato numero di precari.
Attualmente, dunque, affrontare la tematica del lavoro pubblico, con
riferimento al contratto a tempo determinato, significa ripercorrere le
tappe di una disciplina altalenante, a tratti scellerata negli effetti, che ha
comportato la caduta in quella “trappola” del precariato, come conseguenza del ricorso, oltre i limiti, a queste forme contrattuali, finendo per
incanalarsi negli imbuti delle c.d. stabilizzazioni, i cui incerti contorni
destano perplessità nelle applicazioni giurisprudenziali e si espongono a
forti critiche.
In questo breve contributo si tenterà di ricostruire criticamente i profili di specialità della disciplina del contratto a termine nel pubblico impiego, nell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria, e di
esaminare i recenti arresti normativi, sul file rouge, se esiste, dei principi
comunitari.
2. L’art. 36 nel tenore iniziale e le numerose deroghe
Nella sua originaria formulazione, l’art. 36, comma 4 del d.lgs. n.
29/1993 stabiliva il divieto per le pubbliche amministrazioni di fare ricorso per periodi superiori a tre mesi ad assunzioni a termine 9.
La norma, espressione di un atteggiamento di sfavore verso l’uso di
ogni tipologia flessibile ritenuta contrastante con gli schemi organizzativi l’accesso alla p.a., limitava l’utilizzo dei contratti flessibili con il chiaro scopo di evitare l’uso distorto e clientelare contratto a termine testimoniato dal passato, neppure tanto recente. In varie occasioni, infatti, la libertà della stipula aveva dato luogo a situazioni di precariato successivamente sanate con delle immissioni nei ruoli per legge del personale a termine, e con la conseguente elusione dell’osservanza dell’obbligo delle
procedure concorsuali 10. Di qui la previsione della possibilità di stipula
In realtà, nell’originaria formulazione del decreto 29/1993, non era presente la suddetta limitazione ma era ribadita la precedente normativa regolante il rapporto di lavoro a tempo
determinato con la p.a. (d.P.C.M. 127/1989); la normativa citata nel testo fu introdotta, dall’art.
17 del decreto 546 dello stesso 1993.
10
Osserva Zoppoli, op. cit., che “il tema del lavoro flessibile e precario nelle amministrazioni pubbliche è tutt’altro che nuovo. A risalire molto indietro nel tempo, nel decennio
9
784
di soli contratti trimestrali, escludendo dall’applicazione interi comparti
come quello della scuola e dell’università 11.
Con la nuova formulazione ad opera del d.lgs. n. 80/1998 si assiste ad
una vera e propria liberalizzazione, per la p.a. delle assunzioni a termine,
con il passaggio da un atteggiamento di sospetto e rifiuto ad un atteggiamento di favore 12 verso forme flessibili di assunzione del personale e di
impiego della risorsa lavoro: “le pubbliche amministrazioni si avvalgono
delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale
previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell’impresa” 13, al fine di rispondere alle maggiori esigenze di flessibilità
nell’utilizzo della forza lavoro emergenti nel pubblico impiego.
La dottrina occupatasi della materia ha posto in risalto il notevole
ruolo che la normativa attribuisce all’autonomia collettiva nella regolamentazione delle tipologie contrattuali flessibili, tanto da riconoscere
nella contrattazione una fonte normativa, seppur non esclusiva, comunque integrativa della disciplina legale, in simbiosi con la contemporanea
delegificazione cui si assisteva in favore del contratto collettivo, nel settore privato (si pensi alla disciplina della legge n. 56/1987) 14.
1930-1940 ci fu grande utilizzazione di lavoro precario: prima per supplire alle carenze di
ruolo nei nuovi ministeri, poi per superare le eccessive rigidità dei medesimi ruoli. Pure da
non dimenticare è che nel periodo 1975/1990 il 60% di statali furono assunti senza concorso,
quindi quasi sempre passando per rapporti a termine. Infine, venendo ai nostri giorni, si è rilevato che nel triennio 2002-2004 i precari sono aumentati di oltre il 10% all’anno, passando
dall’8% complessivo del 2001 al 9,5% del 2004 (comprendendo però anche i dati del settore
scuola, che ha la particolarità delle supplenze infrannuali)”.
11
Per una ricostruzione storica dell’evoluzione normativa del lavoro a termine nel pubblico impiego si vedano, inoltre, De Margheriti, Il contratto a termine nel pubblico impiego,
in «QDLRI», 2000, 124; Rusciano, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978;
Tampieri, Il contratto a termine nelle pubbliche amministrazioni, in «LG», 1995, 10, 903.
12
D’Orta, Introduzione ad un ragionamento sulla flessibilità del lavoro nelle pubbliche
amministrazioni, in questa Rivista, 2000, 515.
13
Sin dall’inizio, tuttavia la dottrina espresse preoccupazioni circa il pericolo, rivelatosi
fondato nel lungo periodo, “che le amministrazioni sopperiscano con assunzioni a termine a
carenze di organico dovute ad una inefficace programmazione del fabbisogno del personale o
ad una inefficace politica di reperimento di risorse umane” (in tali termini Voltattorni, La riforma del contratto a termine nel pubblico impiego, «Lav. nelle p.a.» 2002, 02, 365).
14
Cfr. Delfino, Commento all’art. 36, commi 7 e 8, del d.lgs. n. 29 del 1993, in Corpaci,
Rusciano e Zoppoli (a cura di), Commentario al d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29. La riforma
dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in
«NLCC», 1999, 1279 e ss.; Salomone, Contratto a termine e lavoro pubblico, in Biagi (a cura
di), Il nuovo lavoro a termine, Milano, Giuffrè, 2002, 271; Santucci, Contrattazione collettiva
e lavori flessibili nelle pubbliche amministrazioni, in «DRI», 2003, 111; De Angelis, Il contratto a termine con le pubbliche amministrazioni: aspetti peculiari, in «D&L», 2002, 46 e ss.
785
Fu osservato che la liberalizzazione corrispondeva ad una gestione
più dinamica della pubblica amministrazione con «l’abbandono della
coppia “pianta carichi” a beneficio della diversa coppia “dotazione e programmazione” 15.
E senz’altro, i numeri lo dimostrano, in quegli anni, le pubbliche
amministrazioni fecero ampio ricorso alla tipologia del contratto a tempo determinato, come liberalizzato, nonostante i tentativi, vani, di limitarne l’utilizzo tramite i controlli amministrativi e i limiti di spesa.
Già nel rapporto Aran sugli istituti di lavoro flessibile nella pubblica
amministrazione e nelle autonomie locali relativamente al biennio 20002001 si dava conto di un incremento notevole nella stipula dei contratti a
tempo determinato, pari al 20% dal 2000 al 2001, rinvenendone le cause
nella presenza dei vincoli, reiterati nelle leggi finanziarie degli ultimi anni, che hanno «bloccato» o fortemente limitato le assunzioni nella pubblica amministrazione, obbligando gli enti a percorrere la strada dei rapporti a tempo indeterminato» 16.
In particolare i comparti università, enti territoriali e sanità sono
quelli in cui più si è fatto ricorso a contratti a termine.
Le ricerche Aran 17 riferiscono che nel 2001 dei complessivi 80.241
contratti a termine circa 65.000 erano stati stipulati in questi tre comparti,
di cui 33.000 in Regioni ed enti locali, di cui circa 27.000 nei Comuni.
È del resto, frutto della riforma appena descritta, la previsione di un
regime sanzionatorio particolare, per il pubblico impiego, traducentesi
nella esplicita previsione che, “in ogni caso, la violazione delle norme
imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte
delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.
Lo “step” successivo nella disciplina del contratto a termine, e cioè
la sua riforma sostanziale ad opera del decreto legislativo n. 368/2001
pone il problema dell’applicabilità all’impiego pubblico, risolto in senso
favorevole 18, nonostante la mancanza di una disposizione espressa nel
testo normativo 19; nessuna influenza sul regime del contratto a termine
15
Viscomi, Il dilemma delle dotazioni organiche tra flessibilità organizzativa e rigidità
finanziarie, in «Il lavoro nelle p.a.», 2000, 585.
16
V., per le notazioni citate nel testo, gli atti da www.aranagenzia.it.
17
Di Cocco (2004), Intervento, in P. Pascucci (a cura di), Riforme del mercato del lavoro pubblico e privato, Quaderni Flaminia, Fano, p. 53 ss.
18
V, sul punto, Santucci, Contrattazione collettiva e lavori flessibili nelle p.a. in «DRI»
2003, 110 e ss. argomentando dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001.
19
A differenza della normativa regolante il part-time, art. 10 d.lgs. 61/2000, che statuisce esplicitamente circa l’applicabilità all’impiego pubblico.
786
nelle pubbliche amministrazioni spiega invece, com’è noto, la riforma
del mercato del lavoro adottata con d.lgs. 276/2003, espressamente dichiarato non applicabile al settore pubblico tranne i casi di contratti di
somministrazione in cui il rapporto di lavoro non si costituisce con la p.a.
dei contratti di inserimento e dei contratti di formazione e lavoro.
Risale proprio a questi anni la genesi di quell’ampio bacino di precariato, che la legislazione successiva ha provveduto a stabilizzare, peraltro appartenenti a fasce professionalmente non qualificate (si pensi,
nel settore giudiziario, all’ampio utilizzo dei lavoratori c.d. trimestrali,
nel passaggio al sistema fondato sul “giudice unico”, dopo l’abolizione
dell’ufficio del Pretore).
L’inversione di tendenza rispetto alla suesposta liberalizzazione
emerge nella legge nella l. 9 marzo 2006, n. 80, di conversione del d.l. n.
4/2006, il cui art. 4, intitolato «Monitoraggio sui contratti a tempo determinato e la somministrazione a tempo determinato nelle pubbliche amministrazioni», modifica gli artt. 35 e 36 del d.lgs. n. 165/2001, inserendo, in particolare, nell’art. 36, un comma 1-bis che stabilisce che le amministrazioni possano stipulare contratti flessibili solo in presenza di
“esigenze temporanee ed eccezionali”; e che tali forme di assunzioni
debbano essere precedute da procedure di assegnazione anche temporanea di personale e da una valutazione sull’opportunità di dar corso a contratti di somministrazione, ad esternalizzazioni o ad appalti di servizi; infine, si precisa che tali disposizioni costituiscono norme di principio per
gli enti locali.
La normativa, chiaramente ispirata ad una ratio opposta a quella che
animava la legge 80/2006, appone un vero e proprio limite sostanziale,
osserva la dottrina, all’utilizzo del contratto a tempo determinato nelle
pubbliche amministrazioni, da ravvisarsi nel carattere temporaneo ed eccezionale delle esigenze, dunque con una restrizione delle ipotesi di stipula non solo rispetto al modello del decreto legislativo 368, valevole come norma generale (che non richiedeva esplicitamente il requisito della
temporaneità 20 e certamente non quello della eccezionalità), ma anche
Ritiene implicito, tale requisito, per il decreto legislativo 368/2001 la giurisprudenza
prevalente e parte della dottrina.
Si veda, per la prima, App. Firenze 30 maggio 2005, App. Bari 20 luglio 2005, App. Milano 29 aprile 2004, ancora Trib. Bolzano 20 aprile 2006 e Trib. Napoli 16 marzo 2007, inedite, per la seconda, Speziale, La riforma del contratto a tempo determinato, in «DRI», 2003; v.
altresì dello stesso autore, La riforma del contratto a termine dopo la legge 247 del 2007, in
«RIDL», 2008, in senso contrario, cfr. per tutti Bianchi D’urso, Vidiri, op. cit, p. 120 ss.; ancora, in giurisprudenza, Trib. Nola n. 410/2004, giud. Galante; Trib. Pavia 12 aprile 2005, cit.,
ove si afferma che “con l’entrata in vigore del d.lgs. 368 del 2001 il termine è apponibile al
20
787
rispetto alla vecchia severa normativa di cui alla legge 230/1962; inoltre,
sotto il profilo procedurale, si subordina esplicitamente il ricorso al modello contrattuale in parola solo successivamente, e subordinatamente,
alla verifica dell’impossibilità di far fronte alle sopravvenute esigenze attraverso forme di mobilità interna 21.
Senz’altro, ad ispirare la inversione di rotta, la presa d’atto del lento
e inesorabile scivolamento del lavoro pubblico nella c.d. “trappola del
precariato”, che spiega i diversi interventi di c.d. stabilizzazione mediante le leggi finanziarie di cui si dirà, che mostrano una maggiore preoccupazione per il contenimento della spesa pubblica (obiettivo di breve periodo) che non di assicurare l’efficienza e la gestione dinamica delle pubbliche amministrazioni 22.
La norma, si è osservato, riveste una particolare ampiezza, applicandosi a tutte le amministrazione anche non statali, sul piano soggettivo, e
oggettivamente, riguardando tutte le forme di contratti flessibili.
Segue: La dirompente riforma della legge 244/2007: una vita breve, ma
intensa
Ulteriore tappa della tormentata vicenda, la legge 244/2007 opera
contratto di lavoro anche in presenza di attività non meramente temporanee o non eccezionali
né straordinarie ed imprevedibili purché sia sorretto da ragioni oggettive verificabili in concreto…”, nonché App. Napoli 13 settembre 2005, inedita.
21
Sul punto, osserva Ranieri, Vecchie e nuove peculiarità del contratto a termine nel
pubblico impiego, «Lav. nelle p.a.» 2007, 3-4, 653, che osserva come “l’intervento normativo
introduce limiti di varia natura all’utilizzo delle forme contrattuali flessibili nel settore pubblico; più precisamente è possibile distinguere: un limite sostanziale (rappresentato dalla delimitazione delle esigenze che giustificano l’utilizzo di forme contrattuali flessibili); un limite procedurale forte (ovvero il preventivo “esperimento di procedure” inerenti assegnazione di personale anche temporanea); infine, un ulteriore onere procedurale qualificabile, però, come debole (la preventiva valutazione circa l’opportunità di attivazione di contratti con le agenzie di
cui all’art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, per la somministrazione
a tempo determinato di personale, ovvero di esternalizzazione e appalto dei servizi”).
22
Pantano, La c.d. «stabilizzazione» dei lavoratori non a termine nella Finanziaria
2007 ed il «buon andamento» della pubblica amministrazione, «Lav. nelle p.a.» 2007, 3-4,
635 osserva che “Se la «protezione del buon andamento e dell’imparzialità dell’attività pubblica» richiama la «prevedibilità» ed il «contenimento dei flussi di spesa» non è altrettanto ragionevole impedire a priori ed in maniera indiscriminata l’assunzione di nuova forza lavoro, in
corrispondenza di effettive esigenze organizzative legate anche ad un fisiologico mutamento
strutturale delle funzioni esercitate dall’amministrazione pubblica e della natura dei servizi da
essa erogati.
788
una completa riscrittura degli artt. 36 e 7, d.lgs. n. 165/2001, che dura però, solo pochi mesi.
L’art. 3, comma 79, l. 244/2007 (legge finanziaria) stabilisce, perentoriamente che “le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente
con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono
avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile...se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi” (comma 1) e “in nessun caso è ammesso il rinnovo del contratto o l’utilizzo del medesimo lavoratore con altra tipologia contrattuale” (comma 2). Le pubbliche amministrazioni, per fare fronte ad esigenze transitorie ed eccezionali, devono ricorrere all’“assegnazione temporanea di personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a sei mesi, non rinnovabile”
(comma 3).
Non era ammessa deroga alle rigide statuizioni sopra riportate, come
statuiva esplicitamente il comma 4, neppure ad opera della contrattazione collettiva.
Restavano fuori dai limiti dei primi commi ipotesi specifiche, dettate dalla normativa 23.
La dottrina si è divisa sull’interpretazione di questa normativa, considerata favorevolmente da taluni 24, ed aspramente criticata da altri autori 25 che l’hanno considerata una scelta piuttosto miope, che contrasta con
l’esigenza di risolvere i problemi organizzativi della pubblica amministrazione, tanto più in una prospettiva comunitaria che valorizza anche
per il lavoro pubblico l’applicabilità degli strumenti di flexicurity (in tale
prospettiva la norma viene addirittura ritenuta contrastante con i principi
comunitari espressi nella normativa cardine, la direttiva 99/1970) 26.
23
Si trattava dei casi di ipotesi di sostituzioni per maternità nelle autonomie territoriali
con l’indicazione della persona da sostituire; di sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, ma solo per gli enti locali non sottoposti al patto di stabilità interno e con un organico inferiore alle 15 unità; sostituzione di lavoratori assenti o cessati dal servizio degli enti del servizio sanitario nazionale, in relazione al personale medico (con esclusivo riferimento alle figure infungibili) ed infermieristico; di utilizzo dei lavori socialmente utili, con l’obbligo di comunicare alla Presidenza del Consiglio le convenzioni concernenti questa fattispecie lavorativa; di uffici di diretta collaborazione con il Ministro o alla diretta dipendenza del sindaco, del Presidente della Provincia, della giunta o degli assessori; di incarichi dirigenziali (in quanto rimane in vigore la disciplina ad hoc).
24
Stancanelli, La stabilizzazione dei precari nella p.a.: le contraddizioni del legislatore, 21.4.2008, in nelMerito.com e in Astrid-online...
25
Zoppoli, op. cit.; Pantano, La c.d. «stabilizzazione» dei lavoratori non a termine nella Finanziaria 2007 ed il «buon andamento» della pubblica amministrazione, in «Lav. nelle
p.a.» 2007, 3-4, 635.
26
Osserva, in particolare, sul punto Zoppoli, op. cit., che una disciplina come quella del-
789
In particolare, in chiave critica, si è posta in rilievo l’incongruenza
della normativa sotto profili tecnici 27, anche con riguardo alla disciplina
delle assunzioni a termine per sostituzioni dovute ad assenze per maternità; come pure è parso eccessivo il divieto “illimitato” nel tempo, di utilizzare il lavoratore con altra tipologia contrattuale, e l’impossibilità di
ricorrere al contratto a termine neppure per esigenze temporanee ed eccezionali, che dovranno essere soddisfate solo con assegnazioni temporanee di personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore
a sei mesi non rinnovabile (art. 36, comma 3).
Un altro punto che aveva destato forti perplessità negli interpreti, atteneva all’esplicita previsione dell’inderogabilità delle disposizioni ad
opera della contrattazione collettiva, sotto il profilo sistematico, in quanto determinante un regime di inderogabilità parziale (stando all’interpretazione letterale) dell’art. 36, rendendo difficile distinguere quali parti
fossero derogabili da quali non lo fossero.
Ma il punto decisamente più criticabile della superata disciplina riguardava i meccanismi sanzionatori.
Prescindendo, per un momento, dalla sanzione del risarcimento del
danno, di cui si dirà infra, atteso che si tratta di un profilo invariato della
disciplina, appariva davvero rigorosa ed autolesionistica, la sanzione, per
il caso di violazione della normativa, comminata non agli amministratori ma alle amministrazioni in senso stretto. Infatti l’ultima parte del comma sei della disposizione innovata dalla legge 244 prevedeva:
“Le amministrazioni pubbliche che operano in violazione delle disposizioni di cui al presente articolo non possono effettuare assunzioni
ad alcun titolo per il triennio successivo alla suddetta violazione”.
In altre parole, si era predisposta una vera e propria “punizione” per
l’amministrazione in quanto tale, ferma restando la responsabilità dell’amministratore per dolo o colpa grave, impedendo ogni assunzione per il
triennio, con una disposizione che non brillava certo per rispetto delle esigenze della cosa pubblica, e tutela dei principi di organizzazione e funzionamento della p.a., facendo praticamente ricadere sulla collettività il prezzo dei malfunzionamenti dovuti a scelte degli amministratori.
la l. 244/2007, elusiva sulla causale e restrittiva sulla durata dei contratti a termine con le
pp.aa., ingenera vari di dubbi di conformità in rapporto sia alla direttiva 99/70 sia ai principi
comuni di flexicurity.
27
In particolare si è rilevato che la nozione di stagionalità specificata nel privato con riferimento al d.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525 non pare affatto adeguata per il lavoro pubblico, per
il quale esistono particolari discipline, come l’art. 92 del d.lgs. 267/2000 per i comuni con elevati flussi turistici.
790
La disposizione eludeva completamente un profilo fondamentale per
la pubblica amministrazione attinente, come si vedrà, alle stesse ragioni
per le quali si giustifica la mancata conversione del contratto stipulato illegittimamente dal pubblico amministratore a tempo determinato; si tratta del profilo della dissociazione legale del datore di lavoro pubbico. In
altre parole, nel sistema che distingue gli organi di indirizzo politico, che
determinano anche le piante organiche e i fabbisogni, da quelli gestionali, i dirigenti, che possono operare solo entro certi limiti rigidamente prefissati, sullo schema della rappresentanza, non è possibile far ricadere sul
rappresentato i comportamenti adottati sine titulo dal rappresentante; costituisce questo, principio fondamentale che pareva travolto, discutibilmente, dalla normativa sopraesposta (cfr., sul punto, par. 5).
Ci sarebbe stato da domandarsi, qualora la norma non fosse stata
abrogata, come si vedrà, quali conseguenze avrebbe prodotto la violazione del divieto posto a sanzione della violazione di altro divieto.
3. Le innovazioni (definitive?) a opera del decreto legge 112 /2008
La breve esistenza dell’art. 36, nella versione testè descritta, ha avuto
fine, pochi mesi dopo la nascita, con il nuovo testo, dettato dall’art. 49 del
d.l. 25 giugno 2008, n. 112, che controriforma la disciplina previgente in
molti punti salienti, dando l’impressione che il legislatore abbia ascoltato
e, in parte, fatte proprie le molteplici critiche dottrinali sopraesposte.
In primo luogo, si stabilisce, dopo aver ribadito che l’assunzione a
tempo indeterminato rimane la regola per il fabbisogno ordinario di forza lavoro, che “per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le
amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali
flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti”.
In altre parole il divieto viene abrogato e le circostanze legittimanti
l’assunzione temporanea di personale ritornano ad essere i presupposti
per le assunzioni con tipologia flessibile, rendendo, in linea con le critiche dottrinali avanzate alla normativa più rigorosa, la regola più conforme all’orientamento comunitario.
In particolare, la disciplina, sul punto, appare più liberale rispetto alla disciplina del 2006, sopra descritta, non subordinando il ricorso alla
flessibilità al vincolo procedurale del previo utilizzo della mobilità interna, ma comunque si presenta più rigida rispetto alla totale liberalizzazione del 1998.
791
Particolare importanza riveste la riattribuzione di una funzione normativa integrativa alla contrattazione collettiva che, come si è visto, di tale ruolo era stata completamente spogliata, con opinabile scelta, nel
2007. Al riguardo infatti, la norma stabilisce:
Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla
individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali
provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro, in applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, dall’articolo 3 del
decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall’articolo 16 del decreto-legge 16
maggio 1994, n. 299, convertito con modificazioni, dalla legge 19 luglio
1994, n. 451, dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 per quanto riguarda la somministrazione di lavoro, nonché da ogni successiva
modificazione o integrazione della relativa disciplina con riferimento alla individuazione dei contingenti di personale utilizzabile. Non è possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l’esercizio di funzioni direttive e dirigenziali 28.
Risulta modificata anche la norma assai criticata che vietava l’utilizzo del lavoratore con altra tipologia contrattuale, stabilendosi con fine
chiaro che, “Al fine di evitare abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, le
amministrazioni, nell’ambito delle rispettive procedure, rispettano principi di imparzialità e trasparenza e non possono ricorrere all’utilizzo del
medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio”, anche se la
norma non appare molto chiara. Infatti, letteralmente, sembrerebbe vieTrae argomentazioni dalla valorizzazione della contrattazione collettiva, Caruso, in
Flessibilità (ma non solo) del lavoro pubblico nella l. 133/2008 (quando le oscillazioni del
pendolo si fanno frenetiche), in Working Papers, C.S.D.L.E., Massimo D’Antona.it – 79/2008,
affermando che dal rinvio generalizzato si potrebbe arguire il potere dei contratti di derogare,
così come nel privato contrattualmente (a livello nazionale) alla durata massima triennale purché comparativamente più rappresentativi; osserva l’autore come ci sarebbe da discutere se ciò
è possibile nel settore pubblico in virtù del rinvio generalizzato alla contrattazione collettiva
nazionale di cui al comma 2 del nuovo art. 36 del Tupi.
Nel lavoro pubblico, in effetti, si impone solo il limite di utilizzo triennale (cumulato) nel
quinquennio. Non si specifica, per altro, se il limite dei 36 mesi valga solo per le mansioni
equivalenti come, invece, nel lavoro privato.
Per questo ultimo profilo, è da aggiungere che nel lavoro privato ora è concessa la possibilità di deroga contrattuale (a livello nazionale) alla durata massima triennale da parte dei
sindacati comparativamente più rappresentativi.
28
792
tato il ricorso a diverse tipologie contrattuali, il che dovrebbe indurre a ritenere possibile il ricorso alla stessa tipologia contrattuale.
Più comprensibile sarebbe stata invece, la norma, ove riferita alla ripetizione del medesimo contratto più volte nel triennio, in linea con i
principi comunitari (com’è noto, il principio cardine che si ricava dalla
direttiva comunitaria 99/70 in tema di contratto a termine sanziona l’abusiva ripetizione del contratto).
Ribadita la solita regola risarcitoria, per il caso di violazioni, risulta
eliminata la norma punitiva per l’amministrazione, sopra criticata, per
stabilirsi una precisa responsabilità amministrativa dei dirigenti, che, se
“operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell’articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di valutazione dell’operato del dirigente ai
sensi dell’art. 5 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286” 29.
Si cerca, in altre parole, di fornire di sanzione la norma relativa alla
responsabilità dirigenziale, lasciando comunque ambito discrezionale
all’amministrazione nella valutazione delle conseguenze, e in certo senso privando di grossa efficacia deterrente la sanzione.
È appena il caso di rilevare, tuttavia, che anche se non prevista esplicitamente la sanzione più grave è quella generale della responsabilità
contabile che si accompagna ad ogni scelta amministrativa che comporti
spese e obblighi risarcitori per la p.a., a carico dell’erario (anche se temperata fortemente dalla necessità di uno specifico atteggiarsi dell’elemento psicologico, nei termini di dolo o colpa grave) 30.
Alla luce della disciplina suddetta, non si può più ritenere, come già
affermato sotto il vigore della 80/2006, che il contratto a termine sia divenuto una extra ratio per la p.a. 31.
29
Anche sotto tale profilo, la norma era stata criticata, nella versione precedente, per il
contenuto generico della responsabilità dirigenziale (si veda Zoppoli, op. cit.).
30
Secondo Caruso, in flessibilità (ma non solo) del lavoro pubblico nella l. 133/2008
(quando le oscillazioni del pendolo si fanno frenetiche), cit., alla luce della scarsità delle risorse devolute alla valutazione delle prestazioni e tenuto conto del giudizio diffuso in ineffettività complessiva del sistema di valutazione della dirigenza, si dovrebbe affermare che la nuova
disposizione sanzionatoria possa avere, nei confronti di comportamenti mirati alla stipula irregolare di contratti flessibili, la medesima efficacia dissuasiva del ruggito del topo. È probabile
allora che il nuovo legislatore, per l’efficacia di questa nuova sanzione, confidi nell’entrata in
vigore delle annunciate modifiche in materia di valutazione della dirigenza.
31
In tale senso v. G. Sottile, (2006), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego, in «DLM», p. 648.
793
4. Le stabilizzazioni e i problemi che le stesse pongono (cenni)
Molteplici sono i problemi sollevati dalle c.d. stabilizzazioni previste dalle finanziarie 2007 e 2008, con le quali si è inteso sanare il fenomeno del precariato e le sue dimensioni imbarazzanti.
In particolare (ma il fenomeno era già previsto da norme precedenti) la l. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) prevede disposizioni volte a «stabilizzare» i rapporti di impiego cc.dd. «precari» alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Essa definisce le procedure (ed i relativi stanziamenti finanziari) per la costituzione di rapporti a
tempo indeterminato con soggetti già assunti a tempo determinato o con
contratti di formazione e lavoro ovvero di contratti a tempo determinato
con soggetti già assunti tramite collaborazioni coordinate e continuative;
l’ultima finanziaria, art. 3, comma 90, amplia la possibilità di ammettere
lavoratori alle procedure di stabilizzazione.
Senza entrare nel merito delle scelte legislative 32, giacché ogni sanatoria trova un suo fondamento più sociologico e politico che giuridico,
resta il dato giurisprudenziale che, anche tale fenomeno conciliativo ha
dato luogo a numerose controversie, poste all’attenzione della giurisprudenza di merito.
Il dato comune dei casi assai diversi esaminati dai giudici del lavoro
può essere individuato nel notevole rigore delle interpretazioni, ispirato
forse dall’esigenza di contenere entro limiti precisi e ristretti un provvedimento dirompente come l’assunzione in massa di una serie di lavoratori precari, a fronte di un’opposta esigenza e prospettazione, ovviamente,
delle parti.
Risulta, nei vari casi generalmente negato un diritto del dipendente
alla stabilizzazione, sulla base di una interpretazione letterale della norma (legge n. 244/2007) che attribuisca all’amministrazione un potere discrezionale di procedere all’assunzione (così Tribunale di Santa Maria
C.V. ord. coll., 1° marzo 2008, est. Ciriello).
In altre sentenze (Tribunale di Viterbo 14 luglio 2008, est. Ianigro)
si sono esclusi dalla procedura di stabilizzazione i rapporti istituiti con
contratti di collaborazione coordinata e continuativa (così anche Tribunale di Roma, 22 luglio 2008, est. Delle Donne).
Con riferimento alla stabilizzazione della precedente legge Finanziaria, il Tribunale di Brindisi, con ordinanza del 15 luglio 2008, est.
32
Zoppoli, op. cit., osserva che le stabilizzazioni creeranno nuove aspettative e nuove tortuose ipotesi di rapporti a termine, fino ad una nuova prevedibile apertura, più generalizzata,
per il precariato.
794
Sterzi Barolo, ha giudicato un caso in cui si discuteva del requisito di anzianità richiesto dalla delibera della Giunta, in attuazione di quanto previsto dalla legge 296/2006 cit., (anzianità di servizio pari a 36 mesi o assunzione con un contratto a termine che le avrebbe consentito, alla scadenza del medesimo, di maturare detta anzianità nel quadriennio 20072010) per ritenere l’infondatezza della tesi sostenuta dalla ricorrente in
ordine alla sussistenza di un diritto alla proroga del proprio contratto a
termine, in quanto cessato nella vigenza della sopra citata delibera; la ricorrente azienda pretendeva la proroga dei contratti a termine, scaduti
nella vigenza della delibera, nei confronti di tutti coloro che, proprio in
virtù della proroga concessa nel corso della procedura di stabilizzazione,
potrebbero maturare l’anzianità triennale nel quadriennio 2007-2010,
sulla base di una propria interpretazione della normativa. L’interpretazione proposta dal giudice, invece, in senso letterale e rigoroso, correttamente afferma in ragione “dello spirito che ha animato la disposizione
della legge finanziaria in materia di stabilizzazione prima, e la legge regionale della Regione Puglia poi” che “l’inciso sopra richiamato si riferisce esplicitamente al “personale destinatario della stabilizzazione”
con ciò rivolgendosi non a tutti coloro che hanno fatto richiesta di stabilizzazione bensì a coloro che, all’esito della procedura, sono stati individuati quali vincitori: non a caso viene dato per scontato che con i medesimi l’Azienda stipulerà un contratto a tempo indeterminato, evento questo che evidentemente non può ritenersi accada con riferimento a tutti gli
aspiranti. Nei confronti, e solo nei confronti di costoro, l’Azienda è tenuta alla proroga del contratto a termine fino al momento in cui l’ente stipulerà il contratto a tempo indeterminato”.
In altro caso, relativo lo stesso tribunale precisa che, in termini generali, può sussistere il diritto del ricorrente che si trovi nel possesso dei requisiti di legge “a partecipare alle procedure di stabilizzazione come determinate dalla Regione e dalla Asl”, ma, “ciò non vuol dire che la ricorrente vanti alcun diritto soggettivo alla copertura a tempo indeterminato di un posto specifico perché ciò dipenderà dal punteggio conseguito,
dalla individuazione della dotazione organica formulata nel rispetto dei
vincoli di spesa e della definizione delle procedure selettive nel rispetto
dei tempi e dei modi previsti dal Piano di stabilizzazione” 33.
33
Ord. Trib. Brindisi, 9 giugno 2008, est. Brocca, a quanto risulta, inedita come le altre
sentenze citate nel testo.
795
5. Il divieto di conversione ed il risarcimento del danno: il senso del diverso regime nella disciplina costituzionale ed europea
Nonostante le numerose modifiche subite dall’art. 36, d.lgs. n.
165/2001, la ratio posta a base della norma non è nel tempo mutata; si
tratta dell’esigenza sentita dal legislatore italiano, di disciplinare in maniera diversa e speciale, i contratti flessibili nel pubblico impiego.
Le ragioni della diversità hanno subito il vaglio sia presso la giurisprudenza costituzionale che comunitaria, mostrando una tenuta sia
nell’uno che nell’altro ambito, sia pure con logiche e motivazioni diverse,
in rapporto ai principi espressi dall’ordinamento interno e comunitario.
La questione fu portata, in un primo tempo, all’attenzione della Corte Costituzionale, per la valutazione della legittimità della norma suddetta, ritenuta dalla Consulta (C. Cost. 89/2003) 34 argomentando sulla specialità dell’accesso al lavoro pubblico, disciplinato dal concorso, ai sensi dell’art. 97 Cost. La Corte Costituzionale, in particolare, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 2, t.u. 165/2001, prospettatale in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (ed
in relazione ad una fattispecie a cui era applicabile, ratione temporis, la
l. 230/1962), argomentò dal “solo profilo genetico del rapporto”, osservando che il principio dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art.
97, comma 1, Cost. per l’impiego pubblico, è del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato e che tale principio “rende palese la non omogeneità – sotto l’aspetto considerato – delle situazioni poste a confronto
dal remittente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto)
a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati”: la rilevata non
omogeneità “delle situazioni poste a confronto”, in definitiva, esclude
che possa ritenersi violato, dalla norma in questione, il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. La stessa sentenza n. 89/2003 della Corte
Cost., peraltro, rileva che “seppure lo stesso art. 97, comma 3, Cost.,
contempla la possibilità di derogare per legge, a miglior tutela dell’interesse pubblico, al principio del concorso, è tuttavia rimessa alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della non manifesta irragionevolezza,
l’individuazione di siffatti casi eccezionali, senza che alcun vincolo possa ravvisarsi in una pretesa esigenza di uniformità di trattamento rispet-
34
796
In «FI», 2003, I, c. 2258.
to alla disciplina dell’impiego privato”. La Consulta, in altre parole, nel
valutare la scelta legislativa, non la ritiene una scelta costituzionalmente
necessitata, atteso che la stessa regola costituzionale dell’accesso agli
impieghi pubblici mediante concorso può essere derogata dal legislatore,
con scelte rimesse alla sua discrezionalità, “nei limiti della non manifesta irragionevolezza”.
Ha osservato sul punto parte della dottrina 35 che, in realtà, il richiamo alla regola costituzionale di cui all’art. 97, comma 3 Cost. non appare risolutivo, poiché, alla stregua della disciplina dettata dal t.u. 165/2001
(art. 36, comma 1), anche le assunzioni a tempo determinato devono essere effettuate osservando le regole generali sul reclutamento del personale: se, quindi, lo strumento concorsuale è necessario per assicurare la
selezione dei “migliori”, tale obiettivo è, comunque, assicurato anche
nell’individuazione del personale che viene assunto a termine.
In quest’ottica, si ritiene, invece, che la disciplina speciale di cui
all’art. 36, t.u. 165/2001 vada fondata sulla differenza “strutturale” tra il
datore di lavoro privato e la p.a.-datore di lavoro.
Infatti presso il datore di lavoro pubblico si rinviene quella che è stata descritta in dottrina come “dissociazione legale” della figura, unitaria
nel privato, del datore di lavoro: nella pubblica amministrazione, infatti,
il dirigente, rappresentante ex lege del datore di lavoro, vede delimitati i
suoi poteri di rappresentanza dalle scelte adottate in sede di indirizzo politico-amministrativo circa il dimensionamento e la tipizzazione della
dotazione organica della pubblica amministrazione in cui opera e la sua
attività non può in alcun modo incidere, modificandole, su tali scelte, che
devono ritenersi da tutti conosciute e opponibili nei confronti di tutti,
compresi gli stessi lavoratori coinvolti in contratti a tempo determinato
eventualmente stipulati dai dirigenti esorbitando i limiti dei loro poteri di
rappresentanza.
Così, il sistema organizzativo descritto, produce una sorta di “inderogabilità bilaterale” tesa a tutelare le scelte operate dalla pubblica amministrazione, nei suoi organi di indirizzo politico-amministrativo, per
perseguire le finalità di efficienza, razionalizzazione della spesa e migliore utilizzazione delle risorse umane poste a fondamento dell’intera
riforma dell’impiego pubblico (cfr. artt. 97, comma 1, Cost. e 1, comma
1, t.u. 165/2001), il che non consente la conversione del rapporto 36.
Così Buffa, L’inconvertibilità dei rapporti reiterati a termine alle dipendenze della
pubblica amministrazione, in nota a Tribunale di Lecce, sez. lav., 16 giugno 2006, in «Corti
pugliesi» 2006, n. 4, I, 372 ss.
36
Dunque il divieto di conversione costituisce la logica conseguenza dei limiti legali ai
35
797
Tuttavia si è posto in evidenza come la conversione potrebbe essere
pronunciata in relazione a quelle fattispecie in cui l’accesso è garantito
da forme selettive diverse 37.
Che le ragioni sistematiche della deroga siano valide o meno, la stessa, come visto dalla descrizione della normativa sopra ampiamente svolta, è stata mantenuta dal legislatore ed ha mostrato una eccezionale tenuta non solo nella giurisprudenza costituzionale, ma anche sul versante
europeo.
La Corte di giustizia si è occupata della questione con la sentenza
c.d. Adeneler (4 luglio 2006, Grande Sezione, Adeneler, causa C –
212/04), sopra citata, con la quale, sembrava, avesse aperto la via ad una
equiparazione tra lavoro pubblico e privato poiché aveva affermato il
principio che “qualora l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato non preveda nel settore considerato altra misura effettiva
per evitare e, se del caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti
a tempo determinati successivi, il detto accordo quadro osta all’applicazione di una normativa nazionale che vieta in maniera assoluta, nel solo
settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato, che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare ‘fabbisogni permanenti e durevoli’
del datore di lavoro e devono essere considerati abusivi”.
Tuttavia tale prospettiva risulta abbandonata nella successiva sentenza Vassallo, 7 settembre 2006, Vassallo, causa C – 180/2004 38. In essa, con specifico riferimento alla normativa italiana (e cioè proprio all’art.
36, d.lgs. 165/2001) la Corte afferma che la sanzione risarcitoria, dalla
suddetta normativa prevista per l’illegittima stipulazione di contratto a
termine nel settore del lavoro pubblico, non possa ritenersi, a priori, uno
strumento inadeguato, al fine di perseguire gli scopi della direttiva, tesa,
come è noto, a sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo depoteri di rappresentanza degli organi preposti alla gestione dei rapporti di lavoro, a loro volta
tecnicamente riconducibili, nello schema della rappresentanza, alla non imputabilità al rappresentato dell’attività negoziale compiuta dal rappresentante oltre il mandato conferitogli (ex
artt. 1387 e ss. c.c.; cfr. Cass. 1° ottobre 1997, n. 9594).
37
Così Buffa, op. cit., osserva che, oltre all’ipotesi citata nel testo si dovrebbe ritenere la
convertibilità anche “nei casi in cui siano comunque negativi gli esiti del giudizio circa la efficacia e la portata dissuasiva delle sanzioni applicabili alle pubbliche amministrazioni che abusino dello strumento contrattuale temporaneo”. In giurisprudenza, esclude l’applicabilità
dell’art. 36 cit. alle società di gestioni di servizi pubblici, nate ex lege dai consorzi di enti pubblici indicati nell’art. 2, d.lgs. 165/2001, facendo prevalere un criterio formale su quello sostanzialitico, Trib. S. Maria Capua Vetere 27 marzo 2007 (ord.), est. Alfano.
38
In pari data la C. Giust. ha reso la citata analoga sentenza Marrosu e Sardino, 7 settembre 2006, c-53/04.
798
terminato stipulati in successione. In sostanza, afferma la Corte, l’art. 36
non sembra in contrasto con la direttiva; tuttavia spetta al giudice nazionale italiano valutare se esso è “uno strumento adeguato a prevenire e, se
del caso, sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato” 39.
Segue: l’interpretazione della norma nella giurisprudenza interna, il significato della sanzione risarcitoria
Dunque la Corte di Giustizia, con un vero e proprio self-restraint 40
teso a non oscurare le scelte dei governi e dei parlamenti nazionali, rimette al giudice del lavoro la valutazione “sull’effettiva equivalenza in
concreto tra il risarcimento monetario e la misura sufficiente effettiva e
dissuasiva per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro, alla luce della stessa giurisprudenza comunitaria secondo la quale le misure per prevenire gli abusi e per reprimerli
devono comunque essere adeguate all’obiettivo dell’uso ingiustificato
dei contratti a termine e cancellare le conseguenze della violazione del
diritto comunitario” 41.
E, il giudice italiano, come si vedrà, solo in pochi casi ha operato
con chiarezza, allo stato, valutazioni di inadeguatezza, in astratto, concentrandosi le sentenze esaminate, principalmente, sul problema pratico
della determinazione concreta del quantum dovuto, in caso di illegittima
stipula, al lavoratore, a titolo di risarcimento.
Sul piano della giurisprudenza di legittimità, invece, non risultano prese di posizione sul punto specifico, con riguardo al profilo comunitario.
39
In senso fortemente critico V. Speziale, Relazione all’incontro di Studio “Tempo e Lavoro”, p. 25, Roma, 16-18 ottobre 2006, in www.csm.it, che osserva come “ritenere che il mero risarcimento del danno costituisca una “sanzione di pari efficacia” a quella della conversione dei contratti (in coerenza con quanto previsto dalla sentenza Adeneler) sia del tutto scorretto, in considerazione della profonda differenza tra una tutela solo pecuniaria (limitata, oltretutto, alla perdita di “chance” e senza un ristoro di tutto il pregiudizio subito) e quella prevista nel
settore privato, che garantisce la stabilità dell’occupazione”; si veda, ancora C. Cost. n.
89/2003.
40
In tali termini Sciarra, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Un tassello nella ‘modernizzazione’ del diritto del lavoro, in WP
C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .INT – 52/2007.
41
Dagli atti del Convegno svolto all’Università di Napoli l’11 giugno 2008 nell’ambito
del master in Diritto europeo e comparato del lavoro, Intervento di Antonella Di Florio, leggibile sul sito Magistraturademocratica.it.
799
Alcun riferimento, invero, neppure come obiter, a tale profilo, né alla problematica dell’adeguatezza della sanzione, si rinvengono nella sentenza più recente, relativa proprio a questa fattispecie, della Suprema
Corte, 11161/2008 del 7 maggio 2008 42 (anche perché non costituivano
motivo esplicito di ricorso, nel caso portato all’esame del collegio).
In essa il collegio di legittimità si limita a richiamare tralaticiamente i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale affermando
che… il giudice delle leggi ha rilevato che i principio dell’assunzione dei
pubblici dipendenti mediante concorso, posto a presidio delle esigenze di
imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, rende di per sé palese la non omogeneità delle situazioni poste a confronto e giustifica la
scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte della p.a. conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione in rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati.
D’altro canto la scelta operata dal legislatore non contrasta con il canone
della ragionevolezza, poiché la stessa norma costituzionale individua appunto nel concorso lo strumento di selezione del personale in linea di
principio più idoneo a garantire l’imparzialità e l’efficienza della p.a. A
ciò si aggiunga che, mirando il concorso a selezionare tra i concorrenti
quelli che possiedono in misura maggiore i requisiti attitudinali e professionali richiesti, non è irragionevole la norma che tuteli i vincitori in modo diverso dai concorrenti che, pur non essendone privi, tuttavia non hanno dimostrato di possedere un uguale grado di preparazione.
In dottrina si invoca prevalentemente, al fine di qualificare la fattispecie in oggetto, con specifico riferimento all’incidenza sul regime contrattuale, l’art. 2126 c.c., la cui disposizione è derogata, quanto alla possibilità di conversione, dal quinto comma dell’art. 36 del d.lgs. 165/2001.
In altre parole la dottrina 43 è portata a ritenere che, nascendo anche il
rapporto di lavoro pubblico da contratto, la violazione di quelle norme imperative, riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle
pubbliche amministrazioni, di cui all’art. 36 comma 5, dovrebbe condurre
alla nullità del contratto, per intero, con la conseguenza importante, rispetto al precetto dell’art. 2126 c.c., della mancata conversione.
In giurisprudenza, invece, non ci si pronuncia tanto sulla validità o invalidità del contratto, affermando direttamente il diritto al risarcimento 44.
In «Giust. civ. mass.», 2008, 5.
V. De Margheriti, Il lavoro a termine nel pubblico impiego, 135; Zoli, Prestazione di
fatto e rapporto di lavoro pubblico, in «ADL», 2001, 474.
44
Forse perché tutte le fattispecie esaminate dai giudici il termine era già spirato e la pre42
43
800
A ben vedere tale ricostruzione, se può avere un pregio teorico, ben
poca rilevanza assume sul piano pratico, una volta che la prestazione sia
stata già svolta (ed invero se non fosse svolta e si affermasse la nullità
parziale il prestatore di lavoro potrebbe pretendere di eseguire la prestazione lavorativa durante il tempo fino ad decorso del termine).
Ed infatti avrebbe rilievo solo qualora l’iniziativa giudiziaria fosse
intrapresa in corso di rapporto dalla p.a., che facendo valere la nullità rifiutasse di ricevere la prestazione sino al termine.
Appare, a chi scrive, un’ipotesi più teorica che pratica il caso che sia
la p.a. ad agire, e c’è la p.a. a far valere la nullità del contratto, con la conseguenza dell’interruzione della prestazione lavorativa, così che, per il
periodo lavorato al prestatore spetteranno le retribuzioni e la contribuzione dipendenti dall’applicazione dell’art. 2126 c.c., mentre ulteriori danni
potranno essere fatti valere dal lavoratore ai sensi dell’art. 36, comma 5,
del d.lgs. 165/2001 45.
In ogni caso, infatti, ci si dovrebbe interrogare sulle conseguenze risarcitorie, ferma restando, per norma cogente, l’impossibilità di conversione o di conservazione del contratto senza la clausola nulla.
Esaminando in particolare, le statuizioni dei giudici di merito, emerge una certa varietà delle soluzioni e delle conseguenze dell’illegittima
stipula del contratto a termine nel lavoro pubblico 46-47.
Il problema risulta sostanzialmente aperto, anche se la giurisprudenza di merito sembra unanime nell’escludere la possibilità di pronunciare
la conversione del contratto, con rare eccezioni.
In particolare, in un caso piuttosto isolato, si è ravvisato 48 un contrasto insanabile tra l’art. 36, d.lgs. 165/2001, e la normativa comunitaria,
giungendo a disapplicare la norma interna, giudicata illegittima, e quindi
a dichiarare la conversione dei contratti illegittimamente prorogati con
l’ente pubblico (nel caso di specie l’Inail) in contratti a tempo indeterminato.
stazione eseguita, di talché non avrebbe avuto senso parlare della validità o invalidità del contratto, concentrandosi, i giudici, pravalentemente sulle conseguenze risarcitorie.
In dottrina, nello stesso senso, vedasi Bellocchi, Il contratto individuale di lavoro, in
Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, vol. V, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, a cura di F. Carinci e L. Zoppoli, Torino, 2004, p. 542. L’autrice ritiene che dall’art.
36, comma 2, derivi non la nullità del contratto atipico, ma solo la mancata conversione del
rapporto (p. 543).
45
In questo senso v. Gragnoli, Forme e nullità del contratto di lavoro con le p.a., p. 709.
46
Sul punto, da ultimo, Perrino, op. cit.; v. altresì Buffa, op. cit.
47
Si veda, per la giurisprudenza, Trib. Trapani 30 gennaio 2007 (inedita).
48
Trib. Reggio Emilia 18 aprile 2007, est. Strozzi.
801
Le altre sentenze di merito esaminate, invece, sembrano concordemente escludere, proprio sulla base dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 e della giurisprudenza comunitaria sopra riportata, la possibilità di ammettere
sanzione diversa da quella risarcitoria. Si legge così 49, sul punto, che la
norma dell’art. 36 cit. “è assolutamente chiara intanto nell’ampiezza del
suo ambito applicativo, investendo ogni ipotesi di assunzione o impiego
di manodopera contra legem”.
La stessa, per la sua collocazione nel contesto di disposizioni imperative speciali regolative del pubblico impiego, imposte dai principi di
imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. e di assunzione tramite concorso, rende impossibile al giudice la pronuncia costitutiva di un
rapporto di pubblico impiego 50. “Dunque, anche a volere ammettere che
la convenuta abbia impiegato la prestazione lavorativa del ricorrente in
via di fatto in violazione di eventuali norme imperative regolative del tipo contrattuale da utilizzare, nessun rimedio accertativo o costitutivo del
rapporto può essere adottato dal giudice (...). Al lavoratore, in casi di tal
fatta, compete in ipotesi un ristoro (solo) pecuniario connesso all’avvenuto espletamento in via di mero fatto di prestazione di lavoro dipendente senza il rispetto da parte datoriale delle disposizioni inderogabili di
legge. Secondo la norma citata, l’eventuale condanna a carico dell’amministrazione poi dovrebbe essere seguita dall’azione di rivalsa nei confronti dei dirigenti che si sono resi in concreto responsabili della costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in dispregio delle norme imperative vigenti”.
Per quanto attiene il profilo dell’adeguatezza, nonché sotto il profilo
della qualificazione e quantificazione del danno si diversificano significativamente le opinioni dei giudici. Infatti mentre taluni applicano come
meccanismo risarcitorio l’art. 18 della l. 20 maggio 1970, n. 300 51, altri
affermano la riconducibilità del danno alle comuni categorie civilistiche
con specifici obblighi assertivi, allegativi e probatori dei danni concretamente riportati, giungendo al rigetto in mancanza del tempestivo adempimento a tali oneri 52.
In particolare, fanno esplicito riferimento all’invito rivolto dalla
Corte europea la sentenza del Tribunale di Genova 53 (che aveva rimesso
Trib. Napoli 24 gennaio 2007.
Così Trib. Napoli, ult. cit.
51
Così, ancora Trib. Genova, 14 dicembre 2006, cit.
52
Così Trib. Napoli, ult. cit.
53
Così Trib. Genova 14 dicembre 2006, est. Basilico, in «Giur. mer.», 2007, con nt. di
Sottile, Sanzioni per il contratto a termine nel lavoro pubblico e Corte di Giustizia europea,
49
50
802
la questione alla Corte) ove statuisce che “la misura dell’adeguatezza e
dell’effettività è data non soltanto dalla idoneità dello strumento a riparare il danno sofferto, ma anche dalla forza dissuasiva che è propria dei
meccanismi sanzionatori”.
Ancora, prende posizione al riguardo, il Tribunale di Rossano Calabro 54, e dopo aver ampiamente dissertato in ordine alla possibilità della
sanzione risarcitoria di assicurare adeguatamente gli scopi della direttiva,
secondo le indicazioni della Corte di Giustizia giunge a qualificare il tipo di responsabilità come contrattuale. In particolare si osserva 55 che anche verso la p.a. il contratto illegittimamente stipulato, o illegittimamente prorogato, debba considerarsi a tempo indeterminato. Tuttavia si risolverebbe automaticamente per effetto del divieto legislativo, espresso
dall’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, con la conseguenza che la relativa responsabilità rivestirebbe natura contrattuale. In tale prospettiva, si osserva che
“il danno di cui all’art. 36: – viene ad avere sufficiente efficacia dissuasiva, perché determina un reale diritto al risarcimento del danno; – non
ha conseguenze di minor favore rispetto al settore privato (principio di
equivalenza), perché aggancia il diritto del dipendente della p.a. alle retribuzioni cui avrebbe diritto in ipotesi di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come avviene per il dipendente privato che viene a percepire le stesse; – non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario, ovvero ottenere tutela a fronte di una illegittima apposizione del
termine, perché il diritto ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato viene ad avere una reale tutela risarcitoria, ancorata alle retribuzioni
che si verrebbero ad avere in ipotesi di rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.
Di diverso avviso, invece, altro Tribunale 56: “il danno risarcibile ex
art. 36, d.lgs. n. 165/2001, se non merita la definizione di danno da inadempimento – per l’ovvia considerazione che non scaturisce dalla violazione di clausole pattizie pienamente vincolanti in quanto valide ed efficaci – nemmeno può esaurire la propria giuridica rilevanza nella sola fase delle trattative contrattuali, ma viene ricollegato all’abusivo utilizzo
p. 131. Allo stato risulta sub iudice la questione in relazione alla quale, su eccezione del tribunale di Genova, fu rimessa la questione alla CGCE, nel caso Marrosu Sardinu; la Corte d’Appello di Genova, con ordinanza del 22.4.2008, est. Ghinoy, ha ritenuto di sospenderne l’esecutività.
54
Tribunale Rossano 13 giugno 2007, «D.L. Riv. critica dir. lav.», 2008, 2, 736 (s.m.)
(nota di: Martini).
55
Trib. Rossano 4 giugno 2007, est. Coppola.
56
Trib. Foggia 6 novembre 2006, est. Quitadamo.
803
da parte della p.a. di una prestazione lavorativa, oltre i modi ed i tempi
consentiti dalle norme imperative, rientrando a pieno titolo nella categoria dei danni da illecito aquiliano, fonte di pregiudizio risarcibile nei limiti del danno emergente e del lucro cessante (c.d. interesse positivo)”.
Altra pronuncia individua il risarcimento sulla scorta della retribuzione non percepita affermando che 57 “Posto che nel lavoro pubblico
contrattuale l’illegittima successione di contratti a termine non può comportare la conversione in contratto a tempo indeterminato, spetta al ricorrente il risarcimento dei danni subiti ragguagliato al trattamento retributivo contrattuale non erogato nei periodi d’intervallo fra i contratti
a termine intercorsi fra le parti”.
6. Conclusioni
Se la flessibilità è il terreno più delicato su cui si gioca la partita tra
regola e deroga nel diritto del lavoro, ancor più delicato è il terrreno del
lavoro pubblico, ove si scontrano carenze organizzative, discrasie di funzionamento portate da procedure farraginose, e ove, più che mai, ciò che
appare flessibile può rappresentare, per anni ha rappresentato, un ingresso di servizio al lavoro pubblico stabile, prestandosi ad abusi più o meno
programmati, ma certamente prevedibili.
Se la sanzione, prevista dalla norma o generale insita nella responsabilità contabile, può costituire un deterrente contro i comportamenti dolosi, è pur vero che le pubbliche amministrazioni, per funzionare necessitano di uomini e mezzi, adeguati alle circostanze e alle esigenze, per
cui la flessibilità deve essere entro certi limiti consentita, a favore dell’organizzazione e della rispondenza del servizio pubblico all’interesse della collettività.
57
804
Tribunale Catania, 19 gennaio 2007, in «Foro it.» 2008, 1, 350.
Emanuela Durante
Collaboratrice presso il Dipartimento di Diritto del lavoro
nell’Università degli Studi di Genova
IL NUOVO TESTO UNICO IN MATERIA DI TUTELA
DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA SUL LAVORO
Il Consiglio dei Ministri il 1º aprile 2008, sulla base dell’articolo 1
della legge delega n. 123/2007, ha approvato in via definitiva il d.lgs. n.
81/2008, impropriamente detto “testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro”, infatti giuridicamente non può essere
qualificato come tale, data la non inclusione di alcune materie (ad esempio la legislazione aerea e marittima, quella sulle industrie estrattive e a
cielo aperto e quelle sulla radioprotezione); questa definizione di “testo
unico” costituisce, quindi, una semplificazione semantica derivante
dall’uso comune.
Si tratta, quindi, di un intervento legislativo difficile da collocare in
una precisa fonte di cognizione prevista nel nostro ordinamento: la nuova
disciplina non rappresenta un mero testo compilativo, a riprova di ciò si
consideri che la semplice compilazione avrebbe prodotto 800 articoli e
1391 sanzioni mentre il testo appare formato da 306 articoli e circa 400
sanzioni; esso però non è nemmeno un provvedimento di sola razionalizzazione e semplificazione, come le cifre anzidette potrebbero far pensare.
In ogni caso il decreto legislativo approvato rappresenta oggettivamente la fonte primaria della normativa sulla prevenzione alla quale fare
riferimento per tutte le attività riguardanti la sicurezza sul lavoro: il decreto, a presidio di un bene di rango costituzionale come la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, affronta il tema della sicurezza del lavoro con l’obiettivo di migliorare il funzionamento dei tre sistemi della prevenzione (sistema istituzionale, sistema delle imprese e sistema delle relazioni tra parti sociali) che hanno dato prova nel corso degli
ultimi anni di diminuire il tasso infortunistico ma, certamente, non con la
rapidità auspicata.
Da una lettura complessiva del provvedimento in esame emerge
l’idea che il legislatore abbia voluto intervenire per rispondere all’opinione pubblica sempre più infastidita dalle numerose e tragiche morti sul
lavoro: la parola d’ordine è lotta al lavoro sommerso, per sconfiggere le
morti bianche e prevenire gli infortuni sul lavoro. Si è perseguito questo
obiettivo, sostanzialmente, attraverso un inasprimento del sistema sanzionatorio con uno sproporzionato (e non rispondente ai criteri di coeren805
za, proporzionalità e rischiosità indicati dalla delega) aumento delle sanzioni.
È innegabile il nesso esistente fra immigrazione clandestina e lavoro sommerso, ma è del tutto evidente che se non si governa il flusso dei
lavoratori extracomunitari, ma ci si limita a successive sanatorie intervenendo, a valle, con un’attività ispettiva e sanzionatrice, pur intensificata
ed inasprita, non si possono ottenere risultati pienamente soddisfacenti.
Non sono state introdotte, quindi, logiche innovative di prevenzione:
la previsione di migliori e maggiori controlli aiuterebbe sicuramente a
raggiungere con più efficacia l’obiettivo prevenzionale piuttosto che la
previsione di forti penalità; invece il profilo degli aspetti sanzionatori risulta fortemente sbilanciato in favore di un’impostazione fortemente repressiva, che enfatizza gli illeciti penali rispetto agli illeciti amministrativi e ai profili promozionali e prevenzionistici.
I limiti del presente testo normativo non sono, però, solo a livello di
incompatibilità tra obiettivi proposti dal legislatore ed efficacia dei mezzi adottati per il loro perseguimento; un’attenta lettura delle disposizioni
rivela incoerenze e, in alcuni casi, assoluta impossibilità di applicazione
efficace alla fattispecie concreta, quasi come se si trattasse di un mero testo compilativo, somma di vecchie norme sovrapposte e accorpate acriticamente.
Nonostante questi limiti applicativi, se giudicato nel suo insieme, il
nuovo testo unico in materia di sicurezza sul lavoro si può definire come
un provvedimento avanzato, complessivamente innovativo e positivo,
che in buona misura migliora e unifica la normativa vigente consentendo, in astratto, ovvero se rettamente ed effettivamente applicato, significativi miglioramenti delle condizioni di lavoro e di esposizione al rischio
lavorativo, partendo dal principio che la sicurezza non è negoziabile e
viene prima della produzione. Ma è proprio quest’ultimo punto che fa
sorgere la critica più significativa all’intervento del legislatore: in alcuni
casi appare assai difficoltoso, se non addirittura impossibile, applicare in
concreto ciò che astrattamente è stato prescritto; sovente l’obiettivo di
semplificazione ha completamente assorbito ed annullato una delle caratteristiche ontologiche della norma giuridica, ovvero la sua adattabilità
al caso concreto cui la fattispecie astratta del dettato normativo fa riferimento. A rafforzare questa situazione di grande difficoltà interpretativa
ed applicativa del testo in questione vi è il dato che la materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, come è bene precisato nell’articolo di
apertura del decreto legislativo n. 81 del 2008, a seguito della riforma del
Titolo V della Costituzione, rientra nella potestà legislativa concorrente
Stato-Regioni (art. 117, comma 3, Cost.). Come regola generale, rispetto
806
alle materie di legislazione concorrente, la determinazione dei principi
fondamentali entro i quali deve esplicarsi la potestà legislativa concorrente delle Regioni viene riservata alla legislazione dello Stato, tuttavia
nell’articolo 1 del d.lgs. n. 81/2008 attraverso il richiamo ai “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, il legislatore dimostra di voler garantire l’assenza di diversificazioni di disciplina e
assicurare, quindi, l’uniformità della disciplina legale in materia di sicurezza sul lavoro sull’intero territorio nazionale attraverso l’attribuzione
allo Stato della legislazione sui “minimi di tutela” lasciando alle Regioni
il compito di operare unicamente tramite deroghe migliorative.
Innanzitutto è opportuno sottolineare come il d.lgs. n. 81/2008 trovi
applicazione generale sia nel settore privato che in tutta la pubblica amministrazione nonostante sia stato costruito tenendo presente essenzialmente le caratteristiche dei rapporti di lavoro del primo tipo; è importante sottolineare come il legislatore definisca il “lavoratore” in maniera
svincolata dalla tipologia contrattuale e dall’elemento della retribuzione,
e agganciata funzionalmente all’organizzazione di un datore di lavoro
pubblico o privato.
Un sistema prevenzionistico particolare, per quanto riguarda la pubblica amministrazione, è fissato dal legislatore all’ articolo 3, commi 2 e
3, solo per alcuni settori (si tratta di un insieme di amministrazioni pubbliche tra loro eterogenee ovvero «le forze armate e di polizia, del dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile,
dei servizi di protezione civile, nonché nell’ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie, di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica,
delle università, degli istituti di istruzione universitaria, delle istituzioni
dell’alta formazione artistica e coreutica, degli istituti di istruzione ed
educazione di ogni ordine e grado»). Non si tratta di settori esclusi
dall’applicazione della norma, bensì di enti che perseguono particolari
funzioni pubbliche per cui le disposizioni del d.lgs. n. 81/2008 sono « applicate tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative»; tuttavia, nonostante questa previsione il legislatore non dà una specifica regolamentazione ma
rinvia (entro il termine di dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto
legislativo n. 81 del 2008) all’emanazione di vari regolamenti, nella forma di decreti interministeriali, da parte dei Ministri competenti di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, con il Ministro
della salute e con il Ministro delle riforme ed innovazioni nella pubblica
amministrazione. Particolarmente sconcertante risulta la previsione (articolo 3, comma 3) per cui se i Ministri competenti a provvedere superino
807
il termine di legge la conseguenza è che anche per i settori pubblici in
esame troverà piena applicazione il decreto in questione, senza tenere
conto delle difficoltà applicative che ne possono conseguire.
Occorre, però, tenere presente che la particolarità dell’attività svolta
dalla pubblica amministrazione non è solo per i settori considerati all’art.
3, commi 2 e 3, ma è propria di ogni rapporto di lavoro che veda la pubblica amministrazione stessa sul versante datoriale, ciò fa comprendere
la difficoltà nel dover applicare a questo settore una normativa come
quella della tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro risultante dal decreto legislativo n. 81 del 2008.
Il datore di lavoro nel sistema di sicurezza presente nel nostro ordinamento giuridico a partire dal d.lgs. n. 626 /1994 ha un ruolo essenziale di tipo prevenzionistico ai fini di una efficace tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori; questa funzione è anche in capo al datore di
lavoro nelle amministrazioni pubbliche e a tale proposito la definizione
di questo soggetto attore della sicurezza sui luoghi di lavoro resta invariata nel d.lgs. n. 81/2008 poiché nell’art. 2, comma 1, lett. b) è riprodotta tale quale era la formulazione presente all’art. 2, comma 1, lett. b), secondo periodo, del d.lgs. n. 626 /1994. Questa definizione di datore di lavoro prevenzionistico nella pubblica amministrazione è legislativamente
modulata sul potere di gestione, al quale, sul versante soggettivo, si aggiunge il requisito della qualifica dirigenziale, ovvero dello svolgimento
di mansioni direttive. Ai dirigenti pubblici è riconosciuta, per diretta attribuzione di legge, la titolarità degli stessi poteri di autonomia decisionale e di spesa propri dei datori di lavoro del settore privato; questi dunque non sono per niente equiparabili ai “dirigenti” del settore privato ma
si caratterizzano come datori di lavoro e come tali sono intesi anche nel
d.lgs. n. 81/2008. Questa caratterizzazione del datore di lavoro pubblico
prevenzionistico può così determinare, con riguardo a realtà di lavoro
complesse, una pluralità di datori di lavoro ai fini della sicurezza; lo stesso legislatore facendo riferimento all’autonomia gestionale del datore di
lavoro pubblico, implicitamente, fa emergere la tendenziale pluralità delle aree datoriali di lavoro in seno alle amministrazioni pubbliche. In altre
parole si può dire che ad ogni espressione del potere di gestione corrisponde una qualifica dirigenziale convenzionalmente assimilata a quella
di datore di lavoro.
È importante sottolineare che per diretta attribuzione di legge (art. 2,
d.lgs. n. 81/2008) i dirigenti pubblici titolari di poteri gestionali, riconducibili quindi alla figura del datore di lavoro a fini prevenzionali, non hanno vincoli di subordinazione gerarchica e funzionale, né devono sottostare alla decisione di altri organi dell’ente di governo, questo perché il le808
gislatore ha riconosciuto in capo a questi soggetti la titolarità degli stessi
poteri di autonomia decisionale e di spesa propri dei datori di lavoro del
settore privato. Inoltre nel settore pubblico il legislatore ha opportunamente stabilito che, in caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri indicati dal testo unico, il datore di lavoro
coincide con l’organo di vertice.
Nonostante la nuova normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro preveda, quindi, nel suo campo di applicazione
anche i rapporti di lavoro pubblicistico si possono avere molti dubbi a livello applicativo poiché si tratta di una normativa pensata essenzialmente in relazione al rapporto di lavoro privato. Per comprendere la portata
di quest’anomalia basti pensare alla sanzione della “chiusura dell’attività d’impresa” prevista, tra l’altro, dall’art. 14 del d.lgs. n. 81/2008, dunque l’efficacia punitiva, ma anche deterrente, della sanzione di riferimento è chiara nel momento in cui viene applicata ad un datore di lavoro privato ma i problemi iniziano a sorgere se si tratta di pubblico impiego. Se
viene chiusa un’attività pubblicistica è difficile poter affermare che la
sanzione possa rimanere a carico del datore di lavoro, ovvero della pubblica amministrazione; appare più probabile che gli effetti negativi siano
traslati automaticamente in capo ai fruitori del pubblico servizio, ovvero
ai cittadini, perdendo, quindi, ogni funzione propria della sanzione e, soprattutto, andando a creare un indebito disagio ai destinatari dell’attività
oggetto dell’interdizione. Senza contare che si potrebbe anche trattare di
un servizio pubblico essenziale, la cui sospensione non risulta così semplice ed automatica venendo ad essere coinvolti diritti fondamentali meritevoli di tutela proprio come la sicurezza sul lavoro (si pensi alla materia dello sciopero e al fatto che il legislatore sia intervenuto per regolamentarla specificamente nell’ambito dei servizi pubblici essenziali). Si
tratta di un problema applicativo molto forte e davvero difficoltoso, se
non impossibile, da sanare a mero livello interpretativo.
È interessante soffermare l’attenzione sull’art. 14 del d.lgs. 81/2008
(ex art. 5 della l. 123/2007): questa norma, in sostanza, prevede che l’organo di vigilanza competente possa emanare un provvedimento amministrativo di sospensione dell’attività imprenditoriale qualora riscontri determinate violazioni per cui il legislatore ha previsto tale tipo di sanzione; questa disposizione ha la finalità essenziale di contrastare il lavoro irregolare e di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, come è espressamente indicato nella rubrica dello stesso articolo 14. I dubbi applicativi di cui si è già fatto cenno non sono assolutamente trascurabili, innanzitutto alla fine del primo comma l’articolo 14 recita testualmente: “Ai
provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di
809
cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241”, il legislatore, quindi, esclude l’applicazione della normativa sugli atti amministrativi a questo tipo di provvedimento che, tuttavia, è a tutti gli effetti un provvedimento della pubblica amministrazione poiché è emanato da organi pubblici di vigilanza
competenti ex lege. Si tratta di un dubbio interpretativo ricco di forti risvolti pratici poiché la legge del 1990 sul procedimento amministrativo
ha, essenzialmente, la funzione di regolamentare l’attività della pubblica
amministrazione affinché questa rispetti i parametri di efficienza-efficacia-proporzionalità che vanno a guidarne la discrezionalità nel rispetto
generale degli interessi legittimi dei consociati; ora risulta difficile poter
pensare che un provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale quale quello previsto all’art. 14 non debba rispettare la disciplina generale degli atti della pubblica amministrazione, le conseguenze sarebbero illogiche: per esempio un provvedimento di tale portata risulterebbe
privo dell’obbligo di motivazione, allora si potrebbe pensare che si tratti
di un provvedimento per cui non è necessaria la motivazione per ragioni
di urgenza ma questa è solo una delle tante ipotesi interpretative che si
possono formulare perché il legislatore si è limitato ad escludere l’applicazione dell’intero testo normativo.
Inoltre in questo articolo 14 si parla di “organi di vigilanza” del Ministero del lavoro e delle Aziende sanitarie locali, mentre nell’art. 5 della legge delega si parlava di “autorità ispettive”: se questo cambiamento
può trovare una ratio in relazione al Ministero del lavoro che ha più organi di vigilanza rispetto alle autorità ispettive, così non è per le Aziende
sanitarie locali, anzi in questi casi ci si può trovare nella paradossale situazione per cui soggetti (per esempio gli addetti al controllo dell’igiene
degli alimenti) assolutamente incompetenti in relazione alla materia della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, così come disciplinata
dal d.lgs. n. 81/2008, possano emanare provvedimenti di chiusura dell’attività ex articolo 14. Inoltre l’oggetto della sanzione prevista dall’articolo in esame è, testualmente, la “sospensione di un’attività imprenditoriale” ma allora si potrebbe ipotizzare che se si rilevassero irregolarità in
materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in una singola
unità produttiva di una grande azienda di portata nazionale, come potrebbe essere, per esempio, la FIAT, la sanzione potrebbe essere la chiusura
dell’intera impresa, con le disastrose e diffuse ripercussioni economiche
e sociali che si possono facilmente ipotizzare; ma allora ci si chiede perché il legislatore non abbia utilizzato un linguaggio normativo più chiaro, ad esempio facendo riferimento alla singola “unità produttiva” in cui
si è verificata l’irregolarità per l’applicazione della sanzione.
Un’altra norma fondamentale introdotta con il nuovo testo unico in
810
materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro è quella contenuta nell’art. 26 del decreto in esame: si tratta di una disposizione che
mira a tutelare la salute e la sicurezza sul lavoro in caso di contratti di appalto e di subappalto e merita un breve cenno poiché i risvolti pratici, a
livello applicativo, possono essere numerosi, sia nel settore privato che in
quello pubblico. Come già sottolineato, nel dare attuazione alla delega
legislativa, l’art. 304, d.lgs. n. 81/2008 ha esplicitamente abrogato il
d.lgs. n. 626/1994, ma molte delle previgenti disposizioni sono confluite
(in alcuni casi con modifiche) nel nuovo dettato legislativo. Con riferimento ai contratti d’appalto, d’opera o di somministrazione, l’art. 26 del
d.lgs. n. 81/2008 ha sostanzialmente confermato, nei commi da 1 a 5,
l’impianto normativo già previsto dall’art. 7, d.lgs. n. 626/1994, cui sono
state aggiunte ulteriori misure volte a migliorare l’effettività della protezione della salute e sicurezza.
In particolare al primo comma dell’art. 26 il legislatore ha inteso
rendere più stringente, in caso di affidamento di lavori a un’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno dell’azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima, la verifica da parte del datore di lavoro
appaltante dell’idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici
o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto. Il
secondo comma dell’art. 26, inoltre, ha imposto anche ai subappaltatori,
oltre che agli altri datori di lavoro, di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto e di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi
reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze
tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera
complessiva. Il quarto comma rappresenta, invece, la vera novità ed è in
riferimento alla responsabilità solidale in materia di infortuni sul lavoro:
dalla nuova disciplina sembra emergere che i danni oggetto di responsabilità solidale (purché provocati da rischi “non specifici”, ovvero estranei
all’attività tipica dell’appaltatore o del subappaltatore) siano ora i danni
non indennizzati dagli istituti assicurativi obbligatori contro gli infortuni
sul lavoro perché legati ad eventi infortunistici non coperti dalle relative
tutele; i danni riguardanti soggetti non compresi nella tutela; i danni differenziali (biologico, morale ed esistenziale) derivanti da eventi comunque di origine professionale, riconosciuti dalle relative assicurazioni obbligatorie. Alla luce del criterio distintivo posto dalla nuova disciplina,
deve invece ritenersi esclusa la responsabilità solidale in ordine al risarcimento dei medesimi danni se conseguenti ad infortuni derivanti da ri811
schi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. L’azione per far valere la responsabilità solidale continua a non essere soggetta ad alcun termine di decadenza.
Infine, all’ultimo comma dell’art. 26 il legislatore ha inasprito la
normativa previgente stabilendo che nei singoli contratti di subappalto,
di appalto e di somministrazione devono essere espressamente indicati, a
pena di nullità, i costi relativi alla sicurezza sul lavoro con particolare riferimento a quelli propri connessi allo specifico appalto. In sostanza si
può dare una valutazione positiva alla disciplina in materia di responsabilità solidali negli appalti alla luce del quadro giuridico presente a seguito della riforma del 2008: la decisione del legislatore di prevedere la moltiplicazione dei centri di imputazione della responsabilità patrimoniale è
certamente funzionale a garantire l’effettività della tutela per i lavoratori,
quale che sia il punto nella filiera degli appalti in cui si colloca l’impresa
o il datore di lavoro da cui dipende il singolo lavoratore. Si tratta di un
aspetto significativo perché ben l’85% degli infortuni con esito mortale
avviene proprio nell’ambito dei subappalti dove effettivamente non sempre si riesce a risalire alle effettive responsabilità.
Nel testo unico in analisi sono, inoltre, evidenti i passi in avanti riguardo ad un’ulteriore importante tematica: la formazione cui, tuttavia,
non è dedicato un apposito Titolo.
Il nuovo decreto colma, infatti, diverse lacune precedenti e sottolinea l’importanza della formazione nel mondo del lavoro per riuscire a
diffondere una cultura della sicurezza a tutti i livelli lavorativi. Importanza che, ad esempio, è ribadita nel momento in cui, tra le “gravi violazioni” che diventano il presupposto per l’adozione del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale, viene inserita (allegato I del testo
unico) proprio la “mancata formazione e addestramento”.
Per affrontare le novità relative alla tematica della formazione è utile una breve analisi delle definizioni che la riguardano poiché spesso nei
decreti legislativi queste ultime nascondono i veri intenti del legislatore.
Intanto nell’art. 2 (definizioni) non si parla solo di “formazione”, ma
si definisce anche il significato di “informazione” (“complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro”) e di “addestramento”
(“complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso
corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche
di protezione individuale, e le procedure di lavoro”) così da sottolineare
meglio le differenze tra queste attività e meglio chiarire il significato specifico di formazione.
Nel testo unico alla lett. a) del comma 1 dell’art. 2 la “formazione”
812
viene definita come quel “processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda
e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”.
Si parla, in questo caso, di “processo” il che fa pensare ad una pluralità di momenti e ad una sorta di aggiornamento periodico nell’ottica di
una formazione continua. Concetto che è ribadito anche al comma 6
dell’art. 37 dove si ricorda (analogamente a quanto in parte già indicato
nel d.lgs. n. 626/1994): “La formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti deve essere periodicamente ripetuta in relazione all’evoluzione
dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi”.
Nella definizione di “formazione” non si parla solo di lavoratori ma
anche degli “altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale”, estendendo, in modo dichiarato, la necessità della formazione ad
altri attori nell’ambito dell’azienda. Infatti le novità del testo unico riguardano anche l’obbligo formativo e l’aggiornamento di dirigenti e preposti, in maniera tale che a tutti i livelli aziendali venga diffusa una cultura della sicurezza per ottenere un sistema partecipato di prevenzione
degli infortuni sul lavoro.
Come già accennato, la novità più corposa introdotta dal d.lgs. n.
81/2008 riguarda la riformulazione e razionalizzazione dell’apparato
sanzionatorio (amministrativo e penale): si è inasprita notevolmente la
portata delle singole sanzioni ai fini di un rafforzamento della loro efficacia deterrente. La revisione dell’apparato sanzionatorio ha notevolmente semplificato il precedente sistema (il numero delle sanzioni è passato dalle precedenti 1391 a circa 400); nell’intero provvedimento si è
scelto, nella quasi totalità dei casi, di mantenere l’alternativa tra l’arresto
e l’ammenda, le cui misure, come già sottolineato, sono state rispetto al
passato inasprite, talvolta in modo sensibile; ad esempio, l’omessa valutazione del rischio, fino ad oggi punita dall’articolo 89 del decreto legislativo n. 626/1994 con la pena alternativa dell’arresto da tre a sei mesi o
dell’ammenda da 1.549 a 4.131 euro, è, nello schema di decreto, sanzionata con l’arresto da quattro a otto mesi o con l’ammenda da 4.000 a
12.000 euro (art. 55).
La mancata effettuazione del documento di valutazione del rischio
o la sua effettuazione gravemente incompleta comporta l’arresto (non
più alternativo rispetto all’ammenda) da sei a diciotto mesi (art. 55,
comma 2) per i datori di lavoro di aziende che svolgano attività con elevata pericolosità (aziende a rischio incidente rilevante o nelle quali vi
siano rischi biologici, cancerogeni o ove si tratti, ove necessario per lo
813
smaltimento, di amianto); tale previsione costituisce la più importante
novità in materia di sanzioni rispetto al passato. In queste ipotesi, è peraltro contemplato nel testo (art. 302) un meccanismo in forza del quale al contravventore è consentito sostituire la pena da irrogare con il pagamento di una somma compresa tra 8.000 e 24.000 euro alla imprescindibile condizione che siano state ripristinate le regolari condizioni
di lavoro.
Si tratta, dunque, di una procedura non utilizzabile per tutte le fattispecie ma solo per quelle che consentono un ripristino delle condizioni
di lavoro inoltre, per espressa previsione di legge (art. 302), non è consentito ricorrere a questo meccanismo neanche in quelle situazioni ove
l’omissione abbia causato un infortunio sul lavoro e nei casi di condanne
definitive per omicidio o lesioni gravi, se commessi con violazione di
norme antinfortunistiche. Infine, si segnala l’introduzione della previsione (articolo 60) di sanzioni (amministrative) anche a carico dei lavoratori autonomi, dei piccoli imprenditori (tra cui gli artigiani) e per i componenti dell’impresa familiare, finora non ricompresi nel novero dei soggetti obbligati e, quindi, nell’apparato sanzionatorio.
Un’ulteriore ed importante novità introdotta dal t.u. in materia di tutela della salute e della sicurezza nel lavoro è data dall’estensione della
responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 alle ipotesi
di omicidio e lesioni colpose connesse alla violazione della normativa di
sicurezza e igiene sul lavoro.
Tale estensione, per la verità, non è una novità del testo unico appena approvato. La predetta responsabilità amministrativa, infatti, era già
stata prevista dalla legge n. 123 del 2007. L’art. 30 del testo unico, tuttavia, completa la normativa citata, introducendo una serie di principi direttivi che, se adottati ed efficacemente attuati nel modello di organizzazione e gestione dell’azienda, avranno efficacia esimente della responsabilità amministrativa della società datrice di lavoro ex d.lgs. n. 231/2001.
Com’è noto, il d.lgs. n. 231/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento il
principio della responsabilità amministrativa delle società per i reati commessi, a loro vantaggio o interesse, da persone che rivestono funzioni di
rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua
unità organizzativa o se il reato è stato commesso da persone soggette alla loro direzione o vigilanza. Le sanzioni applicabili alle società per gli
illeciti amministrativi dipendenti dal reato sono: pecuniarie, interdittive,
la confisca e la pubblicazione della sentenza. Particolarmente temibili
sono le sanzioni interdittive: esse infatti possono arrivare a condizionare
anche la stessa esistenza dell’ente (ad es. interdizione dall’esercizio
dell’attività di impresa). La società, tuttavia, può essere esonerata dalla
814
predetta responsabilità qualora sia in grado di provare l’adozione e l’efficace attuazione di misure di organizzazione, gestione e controllo, ispirate a linee guida elaborate dall’ordinamento internazionale ed idonee a
prevenire la commissione di illeciti della specie di quello verificatosi.
L’adozione del modello è facoltativa. La sua mancata predisposizione, infatti, non è sanzionata. Esso, tuttavia, è condizione necessaria per
ottenere l’esenzione della responsabilità sopra descritta ma ciò può avvenire se, e solo se, quest’ultimo tiene in considerazione tutti gli obiettivi
programmatici previsti dall’art. 30 del d.lgs. n. 80/2008.
In questo senso, quindi, viene recepita la modifica del meccanismo
introdotto dall’art. 9 della legge n. 123 del 2007, per il quale, in ogni caso di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi, se si tratta di fattispecie
connesse alla violazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applicano le disposizioni di cui al decreto legislativo n.
231 del 2001. Infatti, l’art. 300 del provvedimento in commento prevede
una maggiore gradualità nella applicazione delle sanzioni pecuniarie ed
interdittive, atteso che unicamente per l’omicidio colposo con violazione
delle disposizioni in tema di valutazione del rischio si prevede l’applicazione della sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote (dove la singola quota è pari, secondo la previsione originaria del decreto legislativo
n. 231 del 2001, ad un valore compreso tra “500.000 lire” e “tre milioni”;
ne deriva, che le 1.000 quote, parametrate all’euro, equivalgono ad una
somma minima di circa 250.000 euro e massima di oltre 1.500.000 euro),
mentre per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche è prevista l’applicazione della sanzione pecuniaria in misura compresa tra le 250 e le 500 quote e per le lesioni gravi in misura
non superiore alle 250 quote. Di conseguenza, si prevede che anche le
sanzioni interdittive (tra le quali la sospensione dell’attività imprenditoriale) di cui all’articolo 9, comma 2, del citato decreto legislativo n.
231/2001, vengano diversificate quanto alla durata, la quale per l’omicidio colposo è compresa tra tre mesi e l’anno e per le lesioni gravi non può
superare i sei mesi.
È inoltre da tener presente che il documento di valutazione dei rischi
ha natura propedeutica rispetto ad altri adempimenti; in altri termini, proprio tale processo che conduce a determinati risultati e all’adozione di
specifiche misure di prevenzione e protezione costituisce le fondamenta
di un complesso di adempimenti successivi quali, per esempio, l’informazione e la formazione dei lavoratori (artt. 36-37) e la strutturazione di
un idoneo modello di organizzazione e di gestione, al fine di garantirsi
entro certi limiti l’esenzione dalla responsabilità amministrativa prevista
per le persone giuridiche, le società e le associazioni anche prive di per815
sonalità giuridica di cui al d.lgs. n. 231/2001, come novellato dall’art.
300 del d.lgs. n. 81 del 9 aprile 2008.
Da questo quadro generale emerge come il nuovo testo unico in materia di sicurezza sul lavoro sia un provvedimento di cui è possibile dare
giudizi differenti a seconda dell’aspetto che viene esaminato, è praticamente impossibile valutarlo negativamente o positivamente nel suo insieme: da un lato si potrebbero muovere molte critiche, sia sotto il profilo
dei contenuti (tante le normative escluse, molti gli interventi parzialmente efficaci), che della tecnica di redazione delle norme (è lasciato un ruolo determinante all’attività dell’interprete per colmare le innumerevoli
lacune legislative); dall’altro non ci si può assolutamente sottrarre dal riconoscere al provvedimento in esame il merito di aver tentato di razionalizzare la copiosa disciplina in materia, non solo ad un livello meramente formale ma anche sul piano sostanziale, attraverso una serie di interventi volti a dare un’efficace risposta all’opinione pubblica scossa dalle
numerose morti bianche sul lavoro che si sono verificate negli ultimi anni nel nostro paese.
Sicuramente, nonostante i limiti evidenziati nel corso di questa breve trattazione, non possono che essere valutate positivamente le disposizioni che prevedono un meccanismo premiale per le imprese virtuose,
che sapranno ridurre in maniera consistente gli infortuni nelle proprie attività; oppure il coordinamento nella vigilanza e la campagna di informazione e formazione che sono alla base del testo normativo in esame e che
mirano a predisporre una legislazione applicabile e moderna che, insieme ad una nuova cultura della sicurezza, possa creare le condizioni indispensabili per un lavoro regolare e di qualità.
816
ALESSIA GATTO
Assistente di Diritto del lavoro
nell’Università degli Studi di Genova
La responsabilità di risultato
dei dirigenti pubblici
Nel settore pubblico il primo riconoscimento legislativo di una categoria di prestatori di lavoro avente le caratteristiche dei dirigenti, di cui
all’art. 2095 c.c., avvenne con il d.P.R. n. 748/1972, che, pur proponendosi di affievolire il legame gerarchico tra organi di direzione politica e
classe dirigenziale – attraverso l’attribuzione di funzioni proprie agli
esponenti di quest’ultima – non raggiunse lo scopo, a causa della ridotta
autonomia concessa ai responsabili della gestione amministrativa nei
confronti dei vertici politici.
È notorio come l’esigenza di superare il tradizionale rapporto di
stretta subordinazione gerarchica intercorrente fra Ministri e dirigenti
abbia costituito il filo conduttore delle riforme degli anni novanta, unitamente all’urgenza di concepire in maniera del tutto nuova l’agire dell’amministrazione, intesa non più solo come organizzazione finalizzata
all’adozione di atti e provvedimenti di diritto pubblico, ma come imparziale erogatrice di servizi all’utenza. A ciò si ricollegava chiaramente la
finalità di recuperare una produttività ed un’efficienza della pubblica amministrazione almeno pari a quella delle imprese private, il perseguimento della quale sarebbe stato impossibile se il dirigente non fosse stato dotato di ampi ed autonomi poteri organizzativi ed amministrativi e, conseguentemente, sottoposto ad un giudizio sul complessivo risultato della
gestione. Grazie ad una minore attenzione al profilo della legalità e delle
garanzie giuridiche nella realizzazione dei fini pubblici, l’azione della
pubblica amministrazione riuscì, pertanto, a porre in primo piano i principi di economicità, di efficienza e di pubblicità, quest’ultimo assicurato
dalla partecipazione al procedimento amministrativo dei soggetti portatori di interessi giuridicamente rilevanti.
Nonostante le intenzioni che avevano animato il legislatore della privatizzazione – convinto fautore della necessità di distinguere l’indirizzo
politico dalla gestione amministrativa – nella legge n. 145/2002, recante
numerose modifiche al d.lgs. n. 165/2001 soprattutto in materia di dirigenza pubblica, si assiste ad un’inversione di tendenza, ossia ad un ritorno a forme di influenza della politica sulla classe dirigenziale, che si concretizzano in frequenti interferenze tese a limitare la sua indipendenza.
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Le riferite preoccupazioni hanno alimentato un vivace dibattito fra gli
studiosi, che si dividono fra due contrapposti orientamenti; da una parte
vi è chi nega che la legge Frattini comporti una vera e propria alterazione del modello precedente, i cui connotati rimangono sostanzialmente
immutati e ribadisce, a sostegno di tale tesi, che l’intervento legislativo
in esame ha confermato alcune scelte operate dal precedente d.lgs. n.
80/1998, concedendo al dirigente una maggiore autonomia nella gestione della sua amministrazione, nonché il diritto alla conferma dell’incarico – conferitogli temporaneamente – qualora i risultati ottenuti siano positivi. Dall’altra parte si registra la posizione di coloro che rinvengono
nella legge del 2002 un intento controriformatore, volto sia a reintrodurre istituti, figure e moduli procedurali che erano stati abbandonati o modificati dalle leggi di riforma della dirigenza e del lavoro pubblico sopravvenute negli ultimi anni, sia a ricondurre le vicende del rapporto di
lavoro dei dirigenti sotto il controllo degli organi politici. In particolare
si denuncia la ripubblicizzazione della disciplina del rapporto dirigenziale, resa evidente dalle modifiche apportate in tema di incarichi, con la
precisazione che esse non sono derogabili dai contratti o accordi collettivi; basti pensare alla natura di provvedimento dell’atto di conferimento
o, a maggior ragione, al potere unilaterale e libero da vincoli dell’autorità di governo di scegliere i dirigenti attraverso vere e proprie tecniche di
investitura fiduciaria. Quest’ultimo aspetto, insieme alla riduzione della
durata massima degli incarichi dirigenziali, realizza un effetto di sudditanza del dirigente rispetto al potere politico, ponendo in una posizione
di debolezza l’alta funzione pubblica, ben consapevole di dover avere il
gradimento dei diversi Governi se vuole conservare il posto; se, infatti, in
passato la durata congrua dell’incarico consentiva una valutazione, oltre
che delle attitudini del dirigente, anche dei risultati conseguiti, attualmente a causa della menzionata riduzione della durata risulta possibile
soppesare le sole capacità, che vengono reinterpretate in termini di consonanza politica.
A prescindere dall’adesione all’una piuttosto che all’altra tesi, è innegabile il rilievo attribuito negli ultimi anni all’attività di misurazione
della gestione dei dirigenti, in un’ottica di responsabilizzazione del management pubblico, cui ha fatto seguito, come ovvio corollario, l’instaurazione di una rete di controlli volti a verificare la funzionalizzazione
dell’attività dirigenziale al perseguimento dei fini di interesse pubblico
individuati in sede politica. Viene introdotto, pertanto, il concetto di responsabilità dirigenziale (o di risultato), che, potendo essere intesa come
la complessiva idoneità del manager a gestire con capacità il suo ruolo
così da far funzionare in maniera efficace ed efficiente strutture e settori
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di sua competenza, risulta propria tanto dei dirigenti privati quanto di
quelli pubblici. Occorre, tuttavia, precisare che mentre i primi possono
incorrere nella suddetta responsabilità, oltre che in quella penale ordinaria e in quella civile per danni a terzi, per gli organi pubblici di gestione
il quadro si presenta molto più gravoso e complesso: costoro sono infatti soggetti a quattro ulteriori forme di responsabilità, ossia quella penale
speciale in relazione ai c.d. reati propri della pubblica amministrazione,
quella contabile per maneggio di valori, quella amministrativa patrimoniale, nonché quella disciplinare. Tendendo a soddisfare l’esigenza degli
enti pubblici di rimuovere il manager che si è rivelato incapace o inidoneo – a prescindere dalla commissione di specifici atti o dalla produzione di un danno – la responsabilità di risultato si differenzia chiaramente
dall’ultima tipologia menzionata, che al contrario presuppone un comportamento illecito e colposo del soggetto che non rispetta determinate
regole giuridiche poste a tutela della propria attività; ciò nonostante, il
mancato raggiungimento dei risultati si può avvicinare alla responsabilità per inadempimento e, quindi, può – almeno in alcune circostanze –
avere risvolti disciplinari.
Per rimediare alla difficoltà riscontrata in passato nell’istituire adeguati strumenti idonei a verificare e comparare i costi e i rendimenti della gestione, con il d.lgs. n. 286/1999 il legislatore ha dettato i principi e
la procedura relativi all’attività di valutazione dei dirigenti, prevedendo
un quadro organico e razionale delle funzioni di controllo, che si differenziano a seconda delle dimensioni e delle caratteristiche organizzative
delle singole strutture pubbliche. Alla verifica della regolarità amministrativa – contabile e delle strategie impiegate si aggiunge un’attività diretta ad esaminare le prestazioni e le competenze organizzative dei dirigenti, che deve tener conto anche dei risultati del controllo di gestione, in
vista del fine unitario di perseguire il miglior grado di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa; per quanto concerne gli aspetti procedurali, dopo aver sancito la periodicità annuale della valutazione, il decreto menzionato stabilisce che tale attività si svolga in contradditorio attraverso la partecipazione del dirigente sottoposto a verifica, la quale deve essere approvata dall’organo competente o dal valutatore di seconda
istanza, che nell’ambito delle strutture statali si identifica con il dirigente generale o il capo dipartimento, mentre per le altre amministrazioni
viene individuato dagli ordinamenti degli stessi enti.
Nell’eventualità in cui il procedimento di valutazione si concluda
con un giudizio finale negativo in merito all’operato del dirigente l’amministrazione adotta nei suoi confronti – in base alla gravità della fattispecie riscontrata – una delle misure sanzionatorie previste dall’art. 21
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del d.lgs. n. 165/2001; se prima della riforma del 2002 il legislatore distingueva tre livelli crescenti di responsabilità, ai quali collegava tre tipi
di sanzioni, attualmente, con la scomparsa di ogni riferimento ai risultati negativi dell’attività amministrativa, i presupposti di fatto della responsabilità sono ridotti al mancato raggiungimento degli obiettivi e all’inosservanza delle direttive. L’importanza di quest’ultimo parametro è dimostrata dalla prassi consolidata rivolta a considerare anche il semplice scostamento dalle direttive impartite sufficiente a configurare la violazione
dell’obbligo di conformare la propria condotta agli indirizzi ricevuti; nella medesima logica, non è difficile cogliere un paradosso se si osserva
che il mancato rispetto delle linee guida fornite dal potere politico espone a gravi conseguenze anche il dirigente che abbia raggiunto gli obiettivi prefissati, laddove l’osservanza delle direttive può essere causa di giustificazione del fallimento degli stessi.
Le due fattispecie di responsabilità dirigenziale sono ora equiparate
ai fini della sanzione adottabile, che nella misura più lieve consiste
nell’impossibilità di rinnovo dell’incarico di cui il manager è titolare; in
relazione alla gravità dei casi, poi, l’amministrazione ha la possibilità di
procedere alla revoca dello stesso incarico con conseguente collocamento a disposizione dei ruoli di cui all’art. 23 del decreto in esame, ovvero
di recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni dei contratti
collettivi. Alla luce di queste considerazioni, l’apparato sanzionatorio risulta nel complesso meno gravoso ma più discrezionale rispetto alla precedente disciplina, poiché, da una parte, la sanzione minore non è più costituita dalla revoca e, dall’altra, l’alternativa fra questa sanzione intermedia ed il licenziamento è lasciata alla libera scelta dell’amministrazione datrice di lavoro. Se è vero che la massima misura sanzionatoria non
è più intesa dalla legge come extrema ratio applicabile nelle sole ipotesi
più gravi di violazione, tuttavia ancora oggi le differenze riscontrabili rispetto all’ambito del lavoro privato sono notevoli, in quanto mentre il
manager privato che non raggiunge i risultati prefissati si espone al rischio di un atto di recesso intimato dall’imprenditore, nel settore pubblico accade più spesso che il dirigente venga assegnato ad un altro incarico, in conseguenza della revoca di quello precedentemente svolto.
Al termine di questa breve analisi legislativa si rende necessaria una
riflessione. Risulta evidente il ruolo della valutazione dei rendimenti dirigenziali: si tratta di un elemento di sistema da cui dipende il successo e
la coerenza delle politiche in materia di dirigenza pubblica. È chiaro che
nessun sistema normativo che intenda costituire un’amministrazione
davvero efficiente ed un dirigente effettivamente autonomo può permettersi di fare a meno di un apparato funzionante di verifica dei risultati. La
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valutazione della dirigenza, infatti, non è solo in funzione del rendimento dell’amministrazione; è innegabile che attraverso le procedure del
controllo si circostanzi e delimiti la sfera della discrezionalità ministeriale nel conferimento e nella revoca degli incarichi dirigenziali. La misurazione delle performance dirigenziali, pertanto, è – o dovrebbe essere – il
presupposto sia dell’assegnazione dell’incarico sia della revoca, collegata a risultati negativi della gestione.
La situazione attuale è, tuttavia, sconsolante: come è stato da più
parti affermato, l’apparato legale ipotizza “un processo fantasma di cui
non esistono se non sporadicamente sperimentazioni pratiche” e, di fronte a quella che appare quasi una rinuncia delle pubbliche amministrazioni (quantomeno statali) alla valutazione dei suoi massimi dipendenti, viene da pensare se in realtà la stessa politica legislativa contenuta nella legge n. 145/2002, che precarizza ulteriormente i rapporti di lavoro dirigenziale incidendo sulla loro durata, costituisca una reazione e nello stesso
tempo una strategia per ovviare all’ineffettività del sistema della valutazione. Detto diversamente, potrebbe evincersi un’implicita volontà sottesa ad un sistema che, attraverso incarichi brevi che cessano automaticamente, prescinde dalla costituzione di strumenti idonei e funzionanti di
valutazione dei risultati conseguiti dal dirigente. In questo contesto anche le nuove norme introdotte dalla legge Frattini in materia di responsabilità rischiano di rimanere inapplicate, perché l’attuazione di una struttura di valutazione e di controllo della gestione appare particolarmente
complessa e, soprattutto, perché di essa non vi è realmente più bisogno.
Per quanto l’attenzione del legislatore che ha prodotto i testi di riforma del lavoro pubblico si sia rivolta in via diretta ed immediata soltanto
ai dirigenti delle amministrazioni centrali, ciò non impedisce di declinare il termine dirigenza non al singolare, ma al plurale, tenendo conto
dell’esistenza, delle specifiche caratteristiche e della crescente rilevanza
di “corpi” dirigenziali o di soggetti preposti a funzioni di direzione nelle
molteplici realtà amministrative diverse dagli apparati statali.
È indubbiamente interessante soffermarsi sulla situazione normativa
della dirigenza degli enti territoriali, che dimostra una certa timidezza dei
legislatori regionali – con qualche eccezione in favore di un sistema più
“manageriale”, ma nello stesso tempo meno “garantista” – nel disciplinare le proprie dirigenze secondo linee originali rispetto al modello statale. È chiaro che da questa circostanza deriva un’attuazione riduttiva dei
principi contenuti nel nuovo Titolo V della Costituzione, quale risultante
dalla legge costituzionale di riforma n. 3/2001, che, nel ridefinire l’equilibrio costituzionale fra i diversi livelli di normazione e di governo, ha
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auspicato il raggiungimento di una maggiore autonomia del regime della dirigenza regionale rispetto ai vincoli posti dal d.lgs. n. 165/2001.
L’esigenza di una rivisitazione della precedente disciplina di vari
aspetti del rapporto di lavoro del dirigente è stata avvertita più sentitamente a livello contrattuale ed ha costituito la principale, se non l’unica
ed effettiva, ragione alla base dell’atto di indirizzo del Comitato di settore, in sede di rinnovo del contratto collettivo del personale con qualifica
dirigenziale del Comparto Regioni-autonomie locali, per il quadriennio
normativo 2002-2005 e per il biennio economico 2002-2003. Tale richiesta del Comitato di settore era motivata, in primis, dall’oggettivo “invecchiamento” progressivo del previgente quadro regolativo della materia,
ormai divenuto inidoneo, in termini di efficacia, a dare adeguata risposta
alle effettive esigenze gestionali degli enti; secondariamente, si era determinato uno stato di disallineamento fra regolamentazione contrattuale e
disciplina legislativa, in quanto la norma cardine in materia di responsabilità dirigenziale – ossia il già citato art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 – era
stata radicalmente modificata dal sopraggiungere delle prescrizioni della
legge n. 145/2002, soprattutto con riferimento al delicato profilo degli effetti connessi alla valutazione negativa del dirigente.
Nonostante l’urgenza di risolvere i problemi causati dalla situazione
descritta, la sottoscrizione definitiva del CCNL è avvenuta in data 22 febbraio 2006, vale a dire con oltre quattro anni di ritardo rispetto alla naturale scadenza dei precedenti contratti collettivi del Comparto di riferimento. Occorre precisare, tuttavia, che non si tratta certo di una “novità”
e di una caratteristica peculiare della contrattazione di tale specifica area:
anzi, è corretto ritenere che il ritardo – ormai quasi costante – nella successione temporale fra le discipline contrattuali sta assumendo connotati
di evidente patologia all’interno del sistema di relazioni sindacali delineato dal legislatore con il decreto del 2001. Un dato è certo: rispetto al
complessivo arco temporale di cinquanta mesi la trattativa sindacale in
senso stretto ha richiesto un periodo di dieci mesi, pertanto non eccessivamente lungo se si considera la delicatezza di una delle materie oggetto
di confronto, quale il recesso dall’amministrazione e le altre misure sanzionatorie applicabili nelle ipotesi di responsabilità dirigenziale; di conseguenza, si può affermare che il ritardo del rinnovo contrattuale non è
dipeso tanto dalle inevitabili lungaggini determinate dalla necessità del
Comitato di settore di procedere all’aggiustamento dei contenuti dell’originale atto di indirizzo, quanto dagli aspetti connessi alla quantificazione
e definizione delle risorse da destinare al finanziamento del nuovo contratto collettivo.
Per quanto attiene al contenuto di quest’ultimo, una consistente par822
te delle innovazioni in materia di rapporto di lavoro del dirigente si incentra, come già detto, sulla complessa materia della valutazione del medesimo e degli effetti, sul piano sanzionatorio, dell’eventuale giudizio
negativo; è da rilevare in primo luogo che ora, a differenza del passato, il
contratto interviene a regolare direttamente e dettagliatamente il complesso delle sanzioni irrogabili, prevedendone quattro tipologie, sostanzialmente corrispondenti a quelle richiamate, in ordine di afflittività crescente, dal nuovo testo dell’art. 21 più volte citato. Il contratto collettivo
del 10 aprile 1996 si limitava, invece, in una logica di responsabilizzazione e di piena valorizzazione dell’autonomia decisionale degli enti, a demandare agli stessi sia la predisposizione di un proprio sistema permanente di monitoraggio e di misurazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dai dirigenti, sia la regolamentazione di un adeguato apparato sanzionatorio correlato all’accertamento di un’eventuale
responsabilità, del relativo procedimento e degli strumenti di tutela del
manager. Di conseguenza gli enti avevano semplicemente il vincolo di
attenersi ai principi indicati dall’allora vigente art. 21 del d.lgs. n.
29/1993, oltre a quello di privare della relativa retribuzione di posizione
e di risultato il dirigente colpito dalla revoca dell’incarico.
Attualmente, invece, a fronte della piena autonomia riconosciuta alle Regioni e agli enti locali circa la predisposizione della disciplina del
procedimento di accertamento della responsabilità dirigenziale e dei
mezzi di tutela del manager, gli enti medesimi conservano uno spazio di
discrezionalità soltanto in merito all’individuazione delle fattispecie cui
collegare le misure sanzionatorie, in quanto la tipologia delle stesse è
dettagliatamente delineata dal contratto collettivo.
Tale accordo negoziale prevede, in primo luogo, una sanzione non
avente carattere di generalità sotto il profilo applicativo, dal momento
che essa può essere irrogata soltanto nelle ipotesi di conferimento da parte degli enti di incarichi dirigenziali, con contratto a termine, al proprio
personale della categoria D, caratterizzato dal fatto di non aver acquisito
stabilmente la qualifica dirigenziale. Pertanto, nei confronti dei dirigenti
rientranti nella precisa previsione contrattuale, l’ente, in caso di accertamento negativo dei risultati o di mancato raggiungimento degli obiettivi,
potrà dare applicazione – in via esclusiva – alla sola specifica misura della cessazione dell’incarico, con la conseguente riassegnazione del soggetto alle funzioni tipiche della categoria D menzionata, in cui era inquadrato prima del conferimento dell’incarico dirigenziale. Senza dubbio,
può suscitare perplessità la circostanza che, per questi dirigenti, sia stata
prevista dalle parti negoziali l’unica e severa sanzione della revoca
dell’incarico, a prescindere dal grado di responsabilità (e quindi anche se
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non di grave entità); tuttavia, a favore della scelta del CCNL depone la
specialità della condizione che connota tale tipologia di dirigenti. Si tratta, infatti, di lavoratori che – come già detto – non hanno una stabile qualifica dirigenziale, bensì sono stati ritenuti in possesso di requisiti culturali e professionali, tali da giustificare la stipulazione di un contratto a
termine di conferimento dell’incarico. E proprio l’eccezionalità di
quest’assegnazione legittima la misura della revoca, potendo intendere
l’accertamento di risultati negativi o il mancato raggiungimento degli
obiettivi come equivalente al riconoscimento dell’inidoneità dei soggetti
stessi a svolgere ulteriormente incarichi dirigenziali, senza contare, inoltre, che questi particolari dirigenti a termine neppure potrebbero vantare
un diritto al conferimento di un altro incarico, come invece avviene per
la generalità degli altri manager.
Passando ora ad esaminare le ipotesi di responsabilità dei dirigenti
con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la disciplina contrattuale
della dirigenza del Comparto Regioni-autonomie locali ha delineato, in
coerenza con quanto previsto dalla legge n. 145/2002, un complesso di
misure sanzionatorie graduate secondo un ordine di progressiva e crescente entità, nell’ambito del quale l’affidamento al dirigente di un incarico con un valore della retribuzione di posizione più basso, rispetto a
quello connesso alla funzione precedentemente attribuitagli, rappresenta
certamente il livello iniziale. Tale sanzione dovrebbe, perciò, ricollegarsi
ai casi nei quali l’accertamento negativo si fondi su elementi di lieve o,
comunque, non significativa gravità.
Dalla lettura della clausola contrattuale appare evidente che la portata della stessa è simile, ma non identica alla previsione contenuta nel
nuovo testo dell’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001, che fa, invece, riferimento all’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale per il manager nei cui confronti siano stati accertati il mancato raggiungimento
degli obiettivi ovvero l’inosservanza delle direttive. Nella legge, l’espressione “stesso incarico” sembra ipotizzare solo il divieto, in capo alla pubblica amministrazione, di affidare al dirigente il medesimo e specifico incarico già rivestito; ciò induce a pensare che la norma in esame consentirebbe di assegnare, ugualmente, al soggetto incorso in responsabilità un
altro incarico della stessa fascia di retribuzione di posizione di quella
dell’incarico precedente.
Alla luce di queste considerazioni, emerge chiaramente la maggiore
severità della disciplina contrattuale prevista per gli enti territoriali, che,
al duplice fine di rendere la misura più rispondente alle effettive esigenze gestionali degli enti stessi e di evitare ogni possibile contenzioso futuro in una materia così delicata, legittima l’affidamento al dirigente di un
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incarico di livello economico anche significativamente inferiore rispetto
a quello precedente. Occorre, altresì, notare che per quanto una previsione così rigida possa apparire in contrasto con norme imperative di legge,
sotto il profilo del possibile demansionamento del dirigente, in realtà non
si rinviene incompatibilità con il dettato legislativo, non trovando applicazione relativamente alla materia degli incarichi dirigenziali – ai sensi
dell’art. 19, comma 1 del decreto del 2001 – il disposto dell’art. 2103
c.c., che, in generale, tutela la professionalità del lavoratore – sia privato
sia pubblico – contro la dequalificazione posta in essere dal datore di lavoro. A tal proposito è necessaria una precisazione: posto che la Corte di
Cassazione, con la sentenza n. 17095 del 27 agosto 2004, ha avuto modo
di affermare che la suddetta disciplina rientra nel regime generale
dell’inapplicabilità diretta delle previsioni del capo II del d.lgs. n.
165/2001, in materia di dirigenza, alle amministrazioni diverse dallo Stato (per le quali esse si configurano solo come principi), si deve concludere che l’esclusione dell’applicazione della garanzia dell’art. 2103 c.c.
può ritenersi effettivamente possibile solo nel caso in cui gli enti abbiano
recepito nei propri strumenti regolamentari il “principio” in esame.
Resta ancora da evidenziare che il presupposto indispensabile per
l’effettiva applicazione delle nuove regole è rappresentato ovviamente
dalla disponibilità presso l’ente di un incarico dirigenziale con retribuzione di posizione inferiore a quella correlata all’incarico oggetto di accertamento negativo. Nell’eventualità in cui non sussistesse tale disponibilità, si ritiene che l’ente potrebbe, comunque, individuare, e rendere
conseguentemente disponibile l’incarico di livello economico inferiore
da conferire al dirigente, anche attraverso il ricorso ad un riassetto organizzativo, comportante la rotazione degli altri dirigenti.
Nella scala di progressiva gravità delle nuove misure sanzionatorie si
colloca ad un livello intermedio tra quello, di base, dell’affidamento di un
diverso incarico dirigenziale con un più basso valore della retribuzione di
posizione, e quello massimo rappresentato dal recesso dell’amministrazione, la sanzione della sospensione del dirigente da ogni incarico. In
considerazione dell’esigenza di realizzare una concreta corrispondenza
rispetto alla “revoca dell’incarico e conseguente collocamento a disposizione dei ruoli” prevista dal vigente art. 21 citato per le amministrazioni
statali, il Comitato di settore del Comparto Regioni-autonomie locali ha
dovuto procedere all’adeguamento della previsione generale alle caratteristiche degli enti territoriali, nei cui confronti non trova applicazione la
disciplina dei ruoli. A tal fine, nella formulazione della clausola contrattuale la misura intermedia che può colpire il dirigente statale si è tradotta
nella sospensione da ogni incarico dirigenziale, irrogabile a carico del
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manager regionale o locale per una durata massima di due anni, con la
precisazione che, entro tale limite, sarà poi l’ente a doverne determinare
l’effettiva durata, sulla base dei contenuti dell’accertamento negativo e
del relativo giudizio di gravità. Benché durante tutto il periodo di sospensione il dirigente si trovi in una situazione di forzata inattività, non potendo svolgere alcuna prestazione lavorativa, ciò nondimeno ha diritto a percepire lo stipendio tabellare, ma non anche la retribuzione di posizione e
di risultato, in quanto tali voci retributive sono strettamente connesse
all’incarico. Nel medesimo periodo il manager è, inoltre, tenuto ad accettare eventuali incarichi dirigenziali proposti sia dall’ente di appartenenza
sia da altre pubbliche amministrazioni, con il conseguente diritto a percepire nuovamente la retribuzione di posizione e quella di risultato ed è evidente che questa previsione è rivolta a soddisfare, in primis, le esigenze
organizzative dell’ente e, secondariamente, l’interesse del dirigente, che,
attraverso il conferimento di un altro incarico, può evitare gli effetti – derivanti dal periodo di sospensione – pregiudizievoli per la sua posizione
professionale ed economica. Se è corretto evincere dalla formulazione testuale del contratto collettivo un preciso obbligo, in capo al dirigente, di
accettare il nuovo incarico eventualmente propostogli, deve dedursi che la
mancata accettazione non può configurarsi altrimenti se non in termini di
inadempimento contrattuale, come tale sanzionabile anche attraverso la
misura della risoluzione del rapporto di lavoro.
Non è neppure esclusa la possibilità per ciascuna delle parti (ente o
dirigente) di proporre all’altra la risoluzione consensuale del rapporto,
che, al fine di produrre effetti, deve essere poi formalizzata in un preciso
accordo; perseguendo una logica di incentivazione del ricorso a tale strumento, le parti negoziali hanno stabilito che la misura massima di ventiquattro mensilità dell’indennità supplementare eventualmente erogata
dagli enti ai fini della risoluzione – nell’ambito dell’effettiva capacità di
spesa dei relativi bilanci – possa essere ulteriormente elevata fino a trentasei, calcolate con riferimento non solo allo stipendio tabellare, ma anche al valore della retribuzione di posizione in precedenza fruita dal dirigente. Di grande interesse per entrambi i soggetti del rapporto di lavoro
– giusta la sua attitudine a valorizzare gli elementi di flessibilità tipici del
rapporto stesso – l’accordo per la risoluzione anticipata è effettivamente
praticabile solo nel caso in cui la durata della sospensione applicata al dirigente sia stata fissata nel limite massimo di due anni. La ratio di tale
previsione è chiara, se si riflette sulle inevitabili ripercussioni – derivanti da una sospensione così lunga – non solo sull’interesse organizzativo
dell’ente, chiamato a garantire comunque la funzionalità dell’ufficio di
cui era titolare il dirigente, ma anche sulla sfera soggettiva di quest’ulti826
mo, poiché la mancata attribuzione di ogni incarico può essere correttamente intesa come indizio dell’avvio del deteriorarsi del rapporto fiduciario intercorso tra le parti.
Al termine di quest’analisi, è naturale chiedersi che cosa avvenga alla fine del periodo di sospensione e la risposta a tale interrogativo deve essere ricercata nei principi generali in materia di incarichi dirigenziali, in
quanto il contratto collettivo non detta alcuna specifica disposizione. Se –
come sostenuto da più parti – è vero che “l’affidamento dell’incarico costituisce l’oggetto del sinallagma contrattuale in adempimento del quale
il dirigente svolge le funzioni di datore di lavoro ed in relazione all’espletamento del quale verrà valutato”, si deve concludere che l’ente ha un preciso potere-dovere di conferire ad ogni manager in servizio un incarico
tra quelli previsti dall’ordinamento organizzativo dello stesso: che sia di
direzione, ispettivo, di consulenza, di studio oppure di ricerca. Ciò premesso, non si può negare come sia difficilmente compatibile con i principi costituzionali di buon andamento ed economicità la permanenza
nell’amministrazione di dirigenti retribuiti, ma concretamente inerti perché privi di incarico. Per non incorrere in una situazione di questo tipo, è
pertanto assolutamente opportuno che, una volta decorso il periodo di sospensione, l’ente affidi al manager un nuovo incarico dirigenziale, non
necessariamente del medesimo livello e prestigio di quello di cui era titolare prima della sospensione, dato che questa è stata giustificata proprio
ed esclusivamente dalla valutazione negativa del dirigente nell’espletamento del precedente incarico. E ciò costituisce un’ulteriore esemplificazione dell’inapplicabilità, in materia di dirigenza, della generale garanzia,
anche retributiva, stabilita dall’art. 2103 c.c. per il caso di mutamento di
mansioni del lavoratore disposto unilateralmente dalla parte datoriale.
Ma che cosa accade se alla data di cessazione della sospensione non
vi siano incarichi di funzioni dirigenziali disponibili presso l’ente? Nel
caso si verifichi una simile circostanza, si ritiene che l’ente debba individuare l’incarico – anche inferiore – da conferire persino mediante il ricorso ad un riassetto organizzativo, non potendo invece opporre al dirigente la mancanza di incarichi disponibili a tale momento, per sottrarsi al
conferimento allo stesso di nuove funzioni dirigenziali. Il comportamento dell’ente che rifiutasse l’incarico al dirigente potrebbe, infatti, essere
considerato illegittimo in sede di eventuale contenzioso giudiziario, in
quanto ritenuto in contrasto con i principi di correttezza e buona fede
nell’applicazione delle clausole contrattuali; il giudice potrebbe, quindi,
convincersi che il datore di lavoro abbia utilizzato la disciplina della sospensione per una finalità diversa rispetto a quella di semplice sanzione
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di una valutazione negativa, traducendo così la misura in esame in una
sorta di anticamera del licenziamento.
A proposito di questa massima sanzione, è interessante ricostruire
l’evoluzione della disciplina contrattuale in materia per l’area dirigenziale del Comparto Regioni-autonomie locali; una specifica regolamentazione, anche sotto il profilo procedurale, del recesso dell’ente dal rapporto di lavoro con il dirigente fu dapprima introdotta nel CCNL del 10 aprile 1996, che, oltre a prevedere il licenziamento con o senza preavviso come unica misura disciplinare irrogabile in relazione a comportamenti dei
manager integranti forme di inadempimento contrattuale, aveva preso,
altresì, in considerazione l’ipotesi della responsabilità dirigenziale particolarmente grave e reiterata, priva di un rilievo intrinsecamente disciplinare.
Sulla base del generico rinvio al codice civile disposto, nei confronti dei dirigenti, dall’allora vigente art. 20, comma 9 del d.lgs. n. 29/1993,
le parti negoziali avevano ricondotto l’ipotesi suddetta di responsabilità
– accertata nel rispetto delle procedure legali e contrattuali di valutazione – alla fattispecie di licenziamento per giusta causa ai sensi dell’art.
2119 c.c., piuttosto che al recesso ad nutum dell’art. 2118 c.c. Già il decreto che ha dato avvio alla riforma di privatizzazione del pubblico impiego negava, infatti, all’amministrazione la possibilità di procedere al licenziamento del dirigente anche quando costui avesse fallito ripetutamente il raggiungimento degli obiettivi assegnatigli, o, addirittura, avesse violato gravemente le direttive impartitegli. In un simile contesto non
poteva certamente postularsi l’esistenza in capo al datore di lavoro pubblico di un generale potere di recedere liberamente da tali rapporti di lavoro: se la parte datoriale non poteva procedere al licenziamento
nell’eventualità in cui il dirigente si fosse dimostrato ripetutamente incapace o avesse violato le direttive, a maggior ragione non avrebbe potuto
licenziarlo senza alcuna giustificazione. Diversamente opinando, gli interpreti sarebbero stati costretti a concludere in maniera bizzarra che il
dirigente che avesse operato bene avrebbe potuto essere licenziato, mentre quello incorso in ripetute violazioni negative o in inosservanza delle
direttive avrebbe rischiato solamente l’esclusione da nuovi conferimenti
di incarichi per un periodo di tempo limitato.
Per quanto il contratto collettivo del 1996 si fosse mosso sostanzialmente nell’alveo del d.lgs. n. 29/1993, tuttavia aveva inciso sullo stesso,
modificando in qualche modo la configurazione della fattispecie di responsabilità dirigenziale suscettibile di dare luogo al recesso dell’ente da
questo prevista. Se l’art. 20 menzionato parlava di “responsabilità particolarmente grave o reiterata”, dove la congiunzione “o” indicava due di828
verse e distinte ipotesi che, conseguentemente, potevano essere valutate
anche singolarmente e disgiuntamente ai fini dell’eventuale risoluzione
del rapporto di lavoro, al contrario nella disciplina contrattuale la fattispecie legittimante il recesso era stata individuata, come si è visto, nella
“responsabilità particolarmente grave e reiterata”. Ciò stava a significare
che, ai fini del recesso nei confronti del dirigente regionale o locale, si richiedeva che i due aspetti fossero necessariamente presenti nello stesso
momento, escludendo ogni possibilità di una loro valutazione disgiunta;
in sostanza, l’accertamento di una forma di responsabilità dirigenziale,
anche se di eccezionale gravità, da sola non giustificava il licenziamento,
in mancanza dell’ulteriore requisito della reiterazione.
Rimasta praticamente invariata anche dopo l’emanazione dei decreti legislativi attuativi della legge n. 59/1997, la disciplina del recesso
dell’ente connesso all’accertamento della sussistenza di ipotesi di responsabilità dirigenziale ha subito, per effetto del CCNL di area dirigenziale del Comparto di riferimento del 22 febbraio 2006, rilevanti innovazioni, che trovano il loro principale fondamento nel sopraggiunto mutamento del quadro legale e, soprattutto, per l’entrata in vigore della legge
n. 145/2002. Se si considera, infatti, la volontà del legislatore di circoscrivere la responsabilità di risultato a due soli comportamenti perseguibili del dirigente, emerge chiaramente l’interesse ad una piena corrispondenza fra quanto chiesto dall’organo politico e le risposte offerte dalla dirigenza tecnica, mentre passano in secondo piano la gestione e l’attività
concretamente poste in essere dal soggetto. Alla luce di questa premessa,
si può comprendere l’urgenza espressa dal Comitato di settore di rivisitare la precedente disciplina contrattuale in materia di recesso, in modo
tale che la nuova regolamentazione – in linea con le novità apportate al
testo dell’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 – sia maggiormente orientata a
creare una dirigenza davvero capace di fornire un’adeguata soddisfazione in chiave gestionale alle scelte operate a livello strategico. Indubbiamente l’interesse organizzativo e funzionale degli enti è prioritario, ma
deve necessariamente bilanciarsi con le esigenze di tutela della posizione lavorativa del dirigente, al fine di evitare ogni forma di abuso o di utilizzo improprio del recesso per responsabilità dirigenziale; è innegabile
che la sede ideale per realizzare queste mediazioni sia il contratto collettivo, dalla lettura del quale – in sede di rinnovo – rileva un’importante innovazione, rappresentata dal fatto che, ai fini del recesso per giusta causa, richiede solo l’accertamento di una “responsabilità particolarmente
grave”. Sebbene la circostanza del venir meno del precedente requisito
della “reiterazione” determini un evidente arretramento del livello di tutela prima garantito al dirigente regionale o locale, è pur vero che esso
829
viene contemperato nell’ambito delle nuove regole dalla garanzia di una
più precisa e puntuale specificazione del parametro della “gravità” della
responsabilità. La disciplina contrattuale, infatti, fa un esplicito riferimento sia al mancato raggiungimento di obiettivi formalmente assegnati
al dirigente ed individuati nei documenti di programmazione come particolarmente rilevanti per il conseguimento dei fini istituzionali dell’ente,
sia all’inosservanza delle direttive generali per l’attività amministrativa e
la gestione – formalmente comunicate al manager – che siano state
espressamente qualificate di notevole interesse per la struttura stessa.
A fronte dell’ampia discrezionalità riconosciuta al datore di lavoro
pubblico nel precedente assetto sia legale che contrattuale, attualmente
l’ente si trova vincolato a specificare gli obiettivi ed i contenuti delle direttive di rilevante interesse, così da essere in grado di portare a conoscenza del dirigente – in modo completo – i comportamenti che saranno
prioritariamente valutati, per stabilire se ricorra un’ipotesi legittimante il
licenziamento per giusta causa.
Fin qui si è parlato delle diverse sanzioni che possono colpire il dirigente nell’eventualità in cui sia accertata la c.d. responsabilità di risultato. Ma che dire del procedimento che sfocia nell’irrogazione di tali misure? Come recita l’art. 22 del d.lgs. n. 165/2001, esso è caratterizzato
dall’intervento necessario del Comitato dei garanti, che si configura come un organo imparziale ed esterno alle amministrazioni, in origine creato dal legislatore per controllare le decisioni del datore di lavoro pubblico in materia di recesso; l’esigenza era sorta in conseguenza dell’estensione al settore pubblico delle norme sul lavoro contenute nel codice civile e nelle leggi speciali, ed in particolare dell’art. 10 della legge n.
604/1966, che esclude espressamente la categoria dirigenziale dall’applicazione delle restrizioni alla libertà di recesso. È chiaro che il rapporto
lavorativo con il dirigente pubblico avrebbe dovuto perdere la tradizionale stabilità di cui aveva sempre goduto in passato, ma il tentativo di omogeneizzazione al lavoro privato ha trovato un ostacolo nell’art. 21 del decreto del 2001, che non ammette la recedibilità ad nutum, prevedendo
che la valutazione dell’idoneità professionale del manager sia affidata a
criteri e procedure di carattere oggettivo – assistite da un’ampia pubblicità e dalla garanzia del contradditorio – a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso. In seguito alla restrizione di tale potere ai soli casi più gravi di mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati o di inosservanza delle direttive, il ruolo del Comitato dei garanti
avrebbe dovuto logicamente indebolirsi, al contrario la riforma del 2002
ne ha rafforzato l’attività, estendendo la sua valutazione all’adozione di
tutti i possibili provvedimenti sanzionatori.
830
Per ciò che attiene alla modalità di costituzione e di funzionamento
del Comitati, è opportuno ricordare che la disciplina legale non trova diretta ed automatica applicazione presso le amministrazioni non statali. A
livello regionale e locale già la precedente regolamentazione contrattuale, in conformità al principio della piena responsabilizzazione degli enti,
aveva affidato agli stessi il compito di istituire l’organo in esame; spettava, perciò, alle Regioni ed agli enti locali la definizione della composizione e delle modalità di funzionamento del Comitato, assicurando in
ogni modo la partecipazione di un rappresentante dei dirigenti dell’ente,
la cui presenza nell’organo di controllo non riceve – ancora oggi – molti
consensi, in quanto costituisce all’interno del rapporto di lavoro un evidente indebolimento della necessaria distinzione dei ruoli fra ente datoriale pubblico e lavoratore, che la riforma di privatizzazione ha invece inteso affermare.
Non potendosi negare l’eccessivo dispendio dei costi derivanti dalla
costituzione dei Comitati, soprattutto per gli enti nei quali, di fatto, l’organo interviene raramente dato il numero ridotto di dirigenti, la nuova disciplina contrattuale ribadisce la possibilità del ricorso a forme di convenzione tra più enti, in modo tale da agevolarne la creazione. Sotto il
profilo contenutistico, il CCNL del 22 febbraio 2006 risulta pienamente
conforme al dettato legislativo, dato che subordina l’irrogazione della
sanzione ad un previo parere conforme del Comitato, che deve essere reso entro trenta giorni dalla richiesta, con la precisazione che qualora non
sia rispettato il suddetto termine l’ente può prescindere da esso. Ciò nonostante, sono ora individuati esattamente i casi di possibile ricorso
all’organo di controllo, e si identificano con i provvedimenti sanzionatori previsti per la responsabilità dirigenziale, ad eccezione della sola misura della riassegnazione alle funzioni della categoria di provenienza del
personale interno, al quale sia stato eventualmente conferito un incarico
dirigenziale con contratto a termine. La ragione di tale esclusione è piuttosto evidente e – ancora una volta – risiede nella specialità della condizione che caratterizza questa tipologia di dirigenti, non aventi una stabile qualifica dirigenziale.
Un ulteriore elemento di novità, di carattere sostanziale, è rappresentato dal riconoscimento di una nuova forma di tutela per la posizione
del dirigente nell’ambito della complessiva procedura di intervento del
Comitato dei garanti; viene, infatti, stabilito che, qualora il dirigente presenti una espressa e formale richiesta di audizione entro il termine previsto per l’emanazione del parere, l’organo ha il dovere di ascoltarlo, eventualmente anche con l’assistenza di una persona di fiducia. Alla luce di
questa previsione, è evidente che la richiesta dovrà essere formulata con
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sollecitudine, in tempo utile, tenendo conto della circostanza che il termine di trenta giorni è un termine massimo e nulla esclude che il Comitato possa pronunciarsi anche prima della scadenza dello stesso, senza attendere l’eventuale istanza di audizione.
Dal campo di applicazione della responsabilità dirigenziale e, di
conseguenza, dal potere di controllo del Comitato, esulano quelle altre e
diverse forme di recesso dell’amministrazione, che rappresentano le uniche modalità di estrinsecazione del potere disciplinare del datore di lavoro pubblico nei confronti del dirigente. In questa materia, il CCNL di
area dirigenziale del Comparto Regioni-autonomie locali non ha apportato alcuna modifica alla disciplina precedente, che continua, perciò, a
trovare applicazione in tutti i casi di licenziamento del manager per motivi soggettivi, fondati su un notevole inadempimento contrattuale in grado di incidere sul rapporto fiduciario tra le parti. Poiché la contrattazione
collettiva non ha in alcun modo individuato le fattispecie di inadempimento riconducibili all’una o all’altra tipologia di recesso, è il singolo
ente, nell’esercizio dei suoi poteri datoriali, che vanta – in relazione al
singolo comportamento o alla singola situazione – la sussistenza o meno
di un fatto tale da giustificare il recesso e se la gravità dello stesso possa
configurare un licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa.
Sulla premessa per cui, in entrambe le ipotesi, il recesso deve essere
comunque motivato e può essere irrogato solo a seguito della specifica
procedura, con obbligo del contradditorio, si è fondata, senza dubbio, la
recente sentenza n. 7880/2007 delle Sezioni unite di Cassazione, che ha
riconosciuto nel mancato esercizio di un pieno diritto di difesa una lesione della posizione dei dirigenti, talmente grave da compromettere la loro
futura collocazione nel mercato del lavoro.
La Suprema Corte ha, pertanto, affermato che, sia nel caso in cui il
datore di lavoro addebiti al manager una condotta negligente, sia se a base del recesso ponga un comportamento suscettibile di far venir meno la
fiducia, devono applicarsi le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7
stat. lav., a pena dell’illegittimità del licenziamento intimato in violazione di esse. Non vi sono, infatti, valide ragioni per escludere dalla procedura suddetta la classe dirigenziale, data l’indubbia incidenza sulla sfera
morale e professionale di qualsiasi lavoratore di un recesso disposto per
motivi disciplinari.
Del licenziamento del dirigente non rispettoso del previo contradditorio si è a lungo dibattuto in dottrina e in giurisprudenza, focalizzando
l’attenzione soprattutto sul regime sanzionatorio applicabile in conseguenza di esso, a seconda che il recesso in esame avvenga nel settore
pubblico o nell’ambito di un’azienda privata. Di recente la Cassazione
832
con la sentenza n. 2233/2007, ha sciolto l’interrogativo in modo poco coerente con la generale direttrice dell’unificazione normativa tra dirigenza pubblica e privata, sostenendo che la tutela reale ex art. 18 stat. lav. deve applicarsi anche ai dirigenti pubblici, al pari degli impiegati non aventi qualifica dirigenziale del settore privato; si respinge, perciò, l’opposta
tesi, che, muovendo dal presupposto che le conseguenze di carattere reintegratorio operino solo con riguardo ai licenziamenti in violazione della
legge n. 604/1966, esclude dalla tutela prevista dallo Statuto dei lavoratori il recesso dei dirigenti pubblici, in quanto regolato dall’art. 21 del
d.lgs. n. 165/2001. Ed è ancora una volta questa disposizione il nodo cruciale in materia, poiché la previsione di tre diverse e specifiche sanzioni
connesse alla responsabilità dirigenziale pubblica impedisce l’applicabilità del regime di libera recedibilità, peculiare, invece, del lavoro dirigenziale privato.
Ripercorrendo l’iter decisionale dei giudici della Suprema Corte,
emerge con chiarezza la loro convinzione che la disciplina della dirigenza privata non sia sovrapponibile a quella della dirigenza pubblica, sul
presupposto che nel settore delle pubbliche amministrazioni esiste una
scissione – ignota al diritto privato – fra l’acquisto della qualifica di dirigente (con rapporto di lavoro a tempo indeterminato) ed il successivo
conferimento delle funzioni dirigenziali a tempo.
Sebbene in entrambi i contesti (pubblico e privato) il rapporto che
lega il dirigente al vertice – politico o imprenditoriale – sia caratterizzato da un comune connotato fiduciario, tuttavia il licenziamento illegittimo incide in maniera differenziata su una struttura pubblica rispetto ad
un’azienda privata. Nelle amministrazioni pubbliche le disfunzionalità
da esso provocate comportano, senza dubbio, la violazione dei principi
di imparzialità e di buon andamento che circoscrivono la libertà gestionale dell’ente datoriale, nel senso che l’amministrazione si limita a valutare in termini oggettivi l’idoneità tecnica del dirigente, in relazione
all’incarico cui è destinato ed in funzione degli obiettivi, dei programmi
e degli indirizzi determinati dagli organi politici. Questo aspetto, che
impedisce di qualificare il dirigente come un alter ego della struttura
pubblica, costituisce la ragione per cui l’illegittimità del recesso lo rende inidoneo a demolire il rapporto di fiducia, con l’ovvia conseguenza
della reviviscenza di quel rapporto a seguito dell’annullamento del licenziamento.
Al contrario, nelle imprese private si realizza una consonanza soggettiva fra imprenditore e dirigente, giacché il primo, nell’esercizio della
libertà economica ed organizzativa che la Costituzione gli garantisce,
può valutare dal punto di vista soggettivo la persona del dirigente, tenen833
do conto delle esigenze gestionali che egli stesso assegna all’impresa. Da
ciò discende che l’illegittimità del licenziamento comporta l’interruzione del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dirigente, che non riesce
ad essere ripristinato nemmeno dopo l’eventuale annullamento del recesso datoriale.
Nonostante quanto fin qui considerato, la soluzione giurisprudenziale che propende per la reintegrazione nel posto di lavoro del dirigente
pubblico non è affatto scontata e dovrebbe riconoscersi il dovuto peso al
fatto che i contratti collettivi di area dirigenziale, sin dall’inizio, sono stati stipulati sul presupposto che alla dirigenza pubblica in linea di principio non trova applicazione la reintegrazione. In effetti una ricostruzione
abbastanza lineare della riforma, considerata nella sua evoluzione, porta
ad applicare alla dirigenza pubblica la legislazione generale in materia di
dirigenza privata, che non prevede l’applicazione dell’art. 18 stat. lav.,
salvo che non si sia in presenza di un licenziamento discriminatorio. Al riguardo vi è da considerare che l’amministrazione che licenziasse un dirigente non seguendo un procedimento trasparente ed oggettivo, si esporrebbe ad un’azione giudiziaria per licenziamento discriminatorio. Sotto
questo profilo non v’è dubbio che la disciplina di stampo privatistico ha
in sé adeguati anticorpi per l’eventualità che il licenziamento del dirigente venga disposto per ragioni di discriminazione, soprattutto se politiche.
È vero però che, sin dall’inizio, il legislatore non ha mai dichiarato
apertamente e lucidamente la preferenza per questo quadro legislativo;
una tale scelta sarebbe quanto mai opportuna, magari anche accompagnando il chiarimento con una tutela rafforzata del dirigente pubblico licenziato per ragioni discriminatorie soprattutto di tipo politico, che valga ad alleggerire l’onere probatorio e circondare l’ordine di reintegrazione di una particolare cogenza, scoraggiando così ulteriormente l’uso intimidatorio o ultroneo dell’istituto.
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PIETRO ICHINO
Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università
degli Studi di Milano
SUPERARE L’IRRESPONSABILITÀ DIFFUSA
NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE:
CONCORRENZA E CONTROLLO
Sommario: 1. Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni ’90? – 2. L’opzione
exit: introdurre nel rapporto fra utenti e amministrazioni pubbliche meccanismi di mercato, dove questi possono funzionare. – 3. L’opzione voice e il “tesoro nascosto” del civic auditing. – 4. Perché (e come) una authority per la garanzia della trasparenza e della valutabilità delle amministrazioni pubbliche. – 5. Perché il sindacato confederale non
può defilarsi.
1. Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni ’90?
Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni ’90 della nostra
amministrazione pubblica, promosse dai ministri dell’epoca Sabino Cassese e Franco Bassanini?
Quando, nel 1993, si è esteso quasi interamente il diritto del lavoro
privato al rapporto di impiego pubblico, l’idea da cui muoveva il legislatore era che il netto divario di efficienza tra i due settori fosse dovuto, per
un verso, a un difetto di distinzione e separazione tra responsabilità di indirizzo politico e responsabilità di gestione, per altro verso a una disciplina che configurava il rapporto di impiego come rapporto autoritativo, di
natura pubblicistica, sottoposto a controlli ex ante di legittimità formale
degli atti, i quali prevalevano nettamente sui controlli di produttività ex
post. Si è dunque definita meglio la distinzione tra indirizzo politico e responsabilità di gestione e si è sancita la natura contrattuale del rapporto,
attivando l’autonomia negoziale delle parti sul piano collettivo come su
quello individuale, così dando maggiori poteri e discrezionalità alla dirigenza pubblica e alla coalizione sindacale. Si è sancita esplicitamente la
responsabilità dei dirigenti per il raggiungimento degli obbiettivi fissati
dal potere politico, e si è affidato a quest’ultimo il compito di controllare che tali obbiettivi venissero effettivamente conseguiti.
La disciplina del rapporto di lavoro pubblico è stata così parificata
quasi del tutto rispetto a quella vigente nelle aziende private. Non si è,
però, tenuto adeguatamente conto del fatto che nel settore pubblico manca per lo più la “molla” potentissima che muove il dirigente privato a
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esercitare le proprie prerogative: la concorrenza tra operatori diversi, che
fa scattare la dura sanzione del mercato contro l’inefficienza; una “molla” che il potere politico, per sua natura, non è capace di sostituire con
l’esercizio di un controllo rigoroso e imparziale.
Nel mercato l’utente/cliente/consumatore sanziona l’inefficienza rivolgendosi altrove: egli esercita così quella che Albert O. Hirschman
chiama l’opzione exit. Alternativa a questa è la possibilità di farsi sentire, denunciare le inefficienze, interloquire nelle scelte: l’opzione voice
(che nel paradigma hirschmaniano può essere favorita dall’attaccamento
all’istituzione/organizzazione – loyalty – e può consentire a quest’ultima
di individuare più rapidamente ed efficacemente i difetti di funzionamento). Il problema fondamentale della nostra amministrazione pubblica sta
nel fatto che in essa al cittadino non si dà né l’una opzione né l’altra: né
exit, né voice. La voice contro l’inefficienza dovrebbe essere esercitata
dalla cittadinanza attraverso i propri rappresentanti politici; ma questi
tendono a interferire con l’amministrazione per fini del tutto diversi da
quelli del miglioramento della sua efficienza.
Non ci si può stupire, dunque, che ne risulti un gravissimo difetto di
stimoli al miglioramento dell’efficienza dell’amministrazione stessa. Si
sono dati al management pubblico gli stessi poteri, la stessa discrezionalità, di cui dispone il management delle imprese private, ma in un contesto in cui – nella maggior parte dei casi – il cattivo o mancato esercizio
degli stessi non è sanzionato né dal mercato, né dal controllo del cittadino-utente, strutturalmente mal rappresentato in questa funzione dal potere politico.
2. L’opzione exit: introdurre nel rapporto fra utenti e amministrazioni
pubbliche meccanismi di mercato, dove questi possono funzionare
Quando la libertà di scelta dell’utente sia effettiva, cioè siano garantite concorrenza aperta tra operatori e simmetria di informazione, l’opzione exit costituisce una grande garanzia di equità e di benessere per
l’utente medesimo. Dovunque sia possibile offrire al cittadino questa opzione, in un settore dei servizi pubblici, e collegare ad essa il flusso delle risorse, questo consente di attivare uno stimolo assai efficace nei confronti della dirigenza di quel settore (anche se – avverte ancora Hirschman – questo sistema può presentare il difetto di privare il management
della denuncia tempestiva del difetto di funzionamento da parte dell’utente, per il quale l’opzione exit può essere sovente più comoda e vantaggiosa rispetto all’opzione voice; questo può portare al collasso e alla sostitu836
zione della struttura inefficiente, invece che al suo risanamento; torneremo sul punto fra breve).
Una libertà di scelta effettiva oggi è offerta all’utente, in qualche misura, nel settore dell’istruzione e in quello della sanità; ma potrebbe essere offerta anche altrove, e anche in modo assai più esteso e incisivo. Se,
per esempio, il finanziamento pubblico delle scuole e delle università avvenisse interamente attraverso il sistema dei vouchers (previa abolizione
del valore legale dei titoli di studio), gli istituti e gli atenei dove si scelgono male i professori, o comunque dove si insegna poco e male, sarebbero costretti a chiudere; e se, nell’istituire quel sistema, si attribuisse ai
rettori e ai presidi una piena discrezionalità nella selezione e nella gestione delle risorse, allora li vedremmo assai più e meglio mobilitati di quanto non siano oggi per scegliere i professori migliori, per stanare quelli
inerti dalle loro nicchie; li vedremmo attivarsi dove possibile per sanzionare gli assenteisti e allontanare gli incompetenti, per spostare le persone di cui dispongono dove esse sono più utili e non dove fa più comodo
alle persone stesse.
Nel rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini si possono introdurre anche altri meccanismi di mercato che diano agli utenti, almeno
in parte, un’opzione exit: per esempio, si può mettere gli sportelli di uno
stesso servizio (anagrafe comunale, rinnovo della patente di guida, rinnovo del passaporto, ecc.) in concorrenza tra loro, attribuendo un premio
agli addetti allo sportello che riesce ad attirare più utenti o a dimostrarsi
comunque più efficiente: qualche cosa di questo genere è previsto nella
recentissima legge regionale lombarda sui servizi al mercato del lavoro
(n. 22/2006, particolarmente articoli 16-17), emanata con un voto sostanzialmente bi-partisan nel settembre scorso.
3. L’opzione voice e il “tesoro nascosto” del civic auditing
In molti settori dell’amministrazione pubblica, però, i meccanismi
lato sensu “di mercato” del tipo di quelli menzionati nel paragrafo precedente non si possono introdurre. Per esempio, se un corpo municipale di
vigili urbani funziona male, non si può consentire ai cittadini di avvalersi di un altro corpo di vigilanza concorrente, o premiare con un maggiore flusso di risorse un servizio alternativo. Si è anche visto, d’altra parte,
come possa persino sostenersi, almeno in certi casi, la preferibilità dei
meccanismi di voice rispetto ai meccanismi di exit, per la più rapida individuazione dei difetti di funzionamento di un’amministrazione e la prevenzione del suo deterioramento e del suo collasso.
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Dare voce al cittadino-utente presuppone, innanzitutto, che egli sia
compiutamente informato; questo richiede che le amministrazioni stesse siano dotate di organi deputati a raccogliere ed elaborare tutti i dati rilevanti, a valutarli, a farlo in piena indipendenza dal management che
deve esserne valutato; e a farlo in modo trasparente, consentendo la piena accessibilità dei dati per chiunque vi sia interessato. Il panorama internazionale ci offre su questo terreno molte esperienze di grande interesse: ad esempio nel settore scolastico, in quello della formazione professionale, in quello dei servizi nel mercato del lavoro, dove da decenni
ormai vengono sperimentati e affinati metodi e tecniche di rilevazione
degli indici di efficienza ed efficacia dei servizi, ovviamente diversi da
settore a settore.
Un’esperienza di grande interesse, in questo campo, è costituita
dall’Internet-based Reputation System: un sistema di rilevazione ed elaborazione in tempo reale delle valutazioni degli utenti sulla qualità del
servizio ricevuto, con immediata pubblicazione in rete delle valutazioni
stesse, che diventano in questo modo una preziosa fonte di informazione
per i nuovi utenti (e orientamento nella scelta, quando questa è loro consentita), ma anche per i dirigenti del comparto.
Un altro aspetto molto interessante di queste esperienze è la combinazione tra autovalutazione dell’amministrazione, che si esprime solitamente nella pubblicazione di un annual report, e confronto con la valutazione dall’esterno, espressa spontaneamente dalla cittadinanza attraverso i propri osservatori qualificati, secondo il metodo della public review.
Dove le associazioni degli utenti, i giornalisti specializzati, i centri
di ricerca, dispongono dei dati necessari, essi sono capaci di controllare
l’efficienza e produttività delle strutture pubbliche talora persino meglio
di quanto ne siano capaci le strutture stesse. Questa capacità costituisce
una risorsa preziosa, un grande “tesoro nascosto” che può essere attivato
e utilizzato dalle amministrazioni pubbliche a costo zero: basta imporre
il principio della totale accessibilità dei dati. L’introduzione di questo
principio può avere un impatto positivo persino superiore rispetto all’istituzione degli organi interni di valutazione, che pure sono indispensabili.
Di questa pratica del civil auditing non abbiamo soltanto alcuni
esempi importanti nei Paesi del Nord-Europa, ma anche qualche primo
esempio in casa nostra: si pensi, in particolare, all’esperienza che stanno
svolgendo associazioni come Cittadinanzattiva e alcune altre nel settore
sanitario, o in quello scolastico. Proprio alla valorizzazione di questo “tesoro nascosto” mira la legge emanata recentemente negli Usa, il Federal
Funding Accountability and Transparency Act 2006, che obbliga chiun838
que operi con finanziamenti federali a porre in rete, a piena e immediata
disposizione del pubblico, tutti i dati relativi alla propria attività.
Introdurre questo principio anche nel nostro sistema potrebbe avere
un effetto tonificante straordinario. Immaginiamo, per esempio, che in
una grande città – come Milano o Napoli – venga garantita la totale disponibilità, per chiunque vi sia interessato, dei dati analitici sul funzionamento del servizio di vigilanza urbana: le retribuzioni degli agenti, gli orari di
lavoro, le mansioni effettive, le assenze e i motivi che le giustificano,
quanti si occupano del commercio, quanti del traffico, quante contravvenzioni ciascuno di questi ultimi ha verbalizzato, quante e quali sanzioni disciplinari sono state irrogate, per quali mancanze, e così via. Immaginiamo poi che, applicandosi il metodo della public review, una volta all’anno l’organo di controllo comunale sia tenuto a confrontare in un dibattito
pubblico le proprie valutazioni con quelle espresse dalla società civile, attraverso gli osservatori qualificati di cui si è detto sopra. Solo allora si incomincerebbe a scoprire e a misurare con precisione, per esempio, di
quanto l’impegno di alcuni vigili sia maggiore dell’impegno di altri, di
quanto il tasso di assenteismo e quello dei vigili imboscati negli uffici sia
superiore a quelli che si registrano nelle altre città europee, se e quanto le
promozioni siano in rapporto con il merito effettivo, quanto più raro sia
vedere un vigile in un quartiere periferico della città rispetto al centro,
quanto sia difficile ottenere l’intervento di un vigile in piena notte, quanto e quando sia esercitato effettivamente il potere disciplinare, quale sia il
tasso di soddisfazione della cittadinanza per il servizio e tanti altri dati
importanti ancora. E a quel punto anche gli obbiettivi di miglioramento
del servizio, invece che essere negoziati tra potere politico e management
nel chiuso di un ufficio, potrebbero essere discussi pubblicamente e decisi dall’autorità politica sotto il controllo effettivo della cittadinanza.
Oggi i nostri ricercatori possono accedere a tutti i dati relativi alle
amministrazioni della California o della Svezia, ma non a quelli relativi
alle amministrazioni italiane, che si tratti della vigilanza urbana o della
giustizia, di personale sanitario o di professori. Da noi vige di fatto il
principio esattamente contrario a quello della trasparenza; la prassi (giuridicamente infondata) è quella del segreto. Questo viene sovente giustificato con la protezione della privacy degli addetti al servizio; ma il principio della privacy – cioè della protezione della vita privata delle persone – qui non c’entra per nulla: il riserbo con cui si occultano i dati analitici sul funzionamento delle nostre amministrazioni risponde semmai
all’antico principio di inaccessibilità degli arcana imperii, che da sempre
protegge i poteri autoritari, i sovrani assoluti. Oggi da noi esso protegge
le posizioni di rendita diffusamente annidate nelle pieghe del pubblico
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impiego, a cominciare da quelle dei dirigenti negligenti o inetti. In un regime veramente democratico, invece, dell’attività del civil servant, soprattutto dove non operino meccanismi di mercato, deve potersi conoscere tutto.
4. Perché (e come) una authority per la garanzia della trasparenza e della valutabilità delle amministrazioni pubbliche
Attivare la capacità di autovalutazione da parte delle amministrazioni pubbliche, garantire la trasparenza di tale valutazione e stimolare il
pieno coinvolgimento della cittadinanza nel controllo sono i cardini del
progetto di legge per l’istituzione di una Autorità indipendente per il pubblico impiego, che è stato presentato nel dicembre scorso alla Camera e
al Senato da parlamentari di maggioranza e di opposizione (lo si può leggere nel sito www.lavoce.info) ed è stato ripresentato, con alcune notevoli integrazioni, dal Gruppo dei senatori del Pd al Senato nel giugno 2008
(d.d.l. n. 746/2008).
L’istituenda Autorità indipendente, secondo questo progetto, deve
essere molto snella e poco costosa per lo Stato (essendo costituita quasi
interamente con risorse provenienti da altri organismi centrali che vengono contestualmente sciolti): i compiti che il progetto si propone di assegnarle non sono, infatti, di valutazione diretta, “dall’alto” o “dall’esterno”, bensì compiti – per così dire – di secondo grado o di “meta-valutazione”. In particolare, le si chiede di:
– sollecitare e controllare la costituzione, in ogni comparto amministativo e in ogni centro di servizi, dei nuclei di valutazione già
previsti dalla “legge Bassanini” n. 286/1999 (nella maggior parte dei casi a tutt’oggi disapplicata per questo aspetto): questo
per stimolare la capacità di auto-valutazione delle amministrazioni e non, di regola, per sovrapporre una valutazione esterna a
quella che ciascuna amministrazione è in grado di produrre sulla propria performance;
– garantire l’indipendenza dei nuclei di valutazione dal management che deve esserne controllato (è questo un aspetto che nella legge del 1999 è stato trascurato);
– garantire la trasparenza dell’operato dei nuclei di valutazione e
l’accessibilità totale dei dati di cui essi dispongono, anche prima che essi vengano elaborati (garanzia nella quale rientra anche l’arbitrato tra il cittadino che chiede i dati e l’ufficio che oppone il segreto, o fa difficoltà, o li dà in modo reticente);
840
–
garantire il confronto pubblico periodico tra valutazione interna
e valutazioni esterne, secondo il metodo della public review;
– diffondere benchmark, tecniche, esperienze straniere e nuove
metodologie di valutazione;
– solo in via sussidiaria ed eccezionale, intervenire con la propria
valutazione in sovrapposizione rispetto al nucleo di valutazione
interno carente o inefficiente, o a sostegno dello stesso, per rafforzare le misure tese a correggere la disfunzione amministrativa.
Un’Autorità indipendente può diventare il punto di riferimento per
una società civile cui si chiede di attivarsi nell’opera di valutazione parallela e concorrente con quella di autovalutazione svolta dalle singole amministrazioni. “Concorrenza” assai utile, perché è importantissimo che
intelligenze, tecniche e ottiche differenti di valutazione si attivino e si
confrontino apertamente su questo terreno.
Dovunque non sia possibile attivare meccanismi di mercato nell’amministrazione pubblica – e con essi garantire agli utenti l’opzione exit
contro l’amministrazione inefficiente – è essenziale che sia garantita agli
utenti stessi, alla cittadinanza, almeno l’opzione voice. E come è ragionevolmente necessario che un’Autorità indipendente presieda alla garanzia dell’opzione exit, là dove il mercato può effettivamente operare, allo
stesso modo e altrettanto è ragionevolmente necessario che un’Autorità
indipendente presieda alla garanzia della trasparenza e dell’opzione voice, dove il mercato non può operare o si preferisce comunque che esso
non operi.
5. Perché il sindacato confederale non può defilarsi
A questo progetto di riforma qualcuno obietta che nulla sarà possibile, per un miglioramento dell’efficienza delle nostre amministrazioni
pubbliche, finché i sindacati del settore manterranno una posizione di sostanziale resistenza conservatrice. Ma anche su questo terreno vi è qualche motivo per essere ottimisti.
Il memorandum sottoscritto dal Governo con le confederazioni sindacali maggiori il 18 gennaio scorso contiene alcune novità rilevanti, che non
vanno sottovalutate: vi compaiono, per la prima volta in un documento di
questo genere e livello, parole-chiave come “valutazione dell’efficienza”,
“controllo della produttività individuale”, “trasparenza”, “piena accessibilità delle informazioni” per gli osservatori esterni. Certo, una lettura attenta ne rivela alcuni difetti, anche gravi; ma questo non toglie il significato
di svolta che, almeno sul piano dei principi, questo accordo assume.
841
Ora tocca al Parlamento dire la sua. Nella parte migliore del memorandum sono enunciati principi identici rispetto al progetto di legge che
è oggi all’esame del Senato; la differenza sta nelle gambe che questo progetto di legge intende dare a quei principi per consentire loro di camminare, cioè negli strumenti di controllo e valutazione che ci si propone di
attivare, in aggiunta (non in contrapposizione) a quelli previsti nel documento sottoscritto da Governo e sindacati. Il datore di lavoro pubblico
deve essere libero di dotarsi di questi strumenti. Sarebbe comunque inammissibile che il sindacato pretendesse di impedirglielo, sostenendo che il
memorandum esaurisca ogni possibilità di iniziativa ulteriore: questa non
è una materia sulla quale il potere legislativo possa essere limitato, né
tanto meno vincolato, da un accordo sindacale.
Il sindacato, d’altra parte, non può permettersi l’immobilismo. Nel
1980 un evento che solo due o tre anni prima sarebbe stato considerato
impossibile, la marcia dei 40.000 di Torino, segnò una svolta drastica rispetto agli eccessi di egualitarismo delle politiche retributive perseguite
dai sindacati maggiori nel settore privato, nel corso del decennio precedente. Non è dunque impensabile che un’iniziativa politica incisiva, oggi, segni una analoga drastica svolta rispetto all’eccesso evidentissimo di
egualitarismo proprio del regime attuale dell’impiego pubblico, che è
persino più spinto rispetto a quello che dominò nel settore privato negli
anni ’70.
Oggi occorre far leva sulla crescente insofferenza, ben percepibile
all’interno delle amministrazioni pubbliche, da parte di chi tira la carretta lavorando per due, nei confronti di questa grave doppia ingiustizia: essere pagato (poco) esattamente come chi non lavora affatto e al tempo
stesso essere accomunato al nullafacente nel discredito generale che investe l’impiego pubblico. Far leva su questa sacrosanta insofferenza è
possibile proprio attivando i meccanismi di autovalutazione delle strutture e di civic auditing, di cui si è detto sopra.
Un sindacato che ignorasse quel disagio diffuso sarebbe destinato a
un declino forse lento, sicuramente accompagnato dal progressivo abbandono dei lavoratori pubblici migliori. Ma il movimento sindacale italiano oggi dispone delle risorse culturali e morali necessarie per evitare
questo esito; il sindacato può, anche nel settore pubblico, recuperare la
funzione di “intelligenza collettiva” che consente ai lavoratori di valutare la bontà di un progetto e investire su di esso il proprio consenso e il
proprio lavoro.
842
GABRIELE MORO
Dottore di ricerca in Diritto del lavoro e Relazioni industriali
nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano
LA RIFORMA DEL TITOLO V COST.:
QUALE COLLOCAZIONE PER IL DIRITTO DEL LAVORO?
Un’analisi dottrinale e giurisprudenziale
Sommario: 1. Premessa. (Breve) inquadramento sistematico della riforma costituzionale
– 2. Il tema del diritto del lavoro e la sua problematica riconduzione ad aree di competenza differenti in un sistema dualistico di riparto. – 3. La dottrina di fronte alla riforma del
Titolo V: le posizioni dei giuslavoristi. – 4. Ordinamento civile. – 5. Il principio di uguaglianza tra proposte di ricontestualizzazione ed ineludibili esigenze di uniformità normativa. – 6. La competenza concorrente: il nodo della tutela e sicurezza del lavoro. – 7. La
sentenza della Consulta n. 50 del 2005. – 7.1. Le problematiche introduttive, i ricorsi regionali e le questioni preliminari. – 7.2. Ordinamento civile e tutela e sicurezza del lavoro. – 8. Considerazioni conclusive.
1. Premessa. (Breve) inquadramento sistematico della riforma costituzionale
La riforma costituzionale – realizzata con legge cost. n. 3 del 18 ottobre 2001 all’esito di un impegnativo iter 1 – ha, indubbiamente, realizzato una svolta epocale 2. In estrema sintesi, la nuova versione dell’art.
114, comma 1, Cost., determina un mutamento nella stessa fisionomia
dello Stato: con terminologia eloquente, il nuovo dettato costituzionale
stabilisce che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dal-
1
Quattro canoniche letture parlamentari con lo scarto di una manciata di voti, confermata da un referendum a cui ha preso parte solo un terzo dell’elettorato, “fuor di ogni dubbio, un
vulnus rispetto all’ispirazione fondamentale dei nostri Padri costituenti, di una Carta di principi e di regole fondata sul consenso, come tale qualificata nel senso alto e nobile di un compromesso costituzionale”: F. Carinci, Una riforma rimasta orfana, in «Lav. pubbl. amm.», 2002,
suppl. n. 1, 1.
2
Com’è noto, la Commissione D’Alema non portò a compimento l’operazione intrapresa, ma la maggioranza parlamentare insediata nel corso della XIII legislatura valutò meritevole di definizione (almeno) parte del lavoro svolto, vale a dire le modifiche alle competenze legislative e amministrative delle Regioni e delle autonomie locali e delle forme di controllo statuali, materie tutte disciplinate dal titolo V della Costituzione. L’intestazione originaria della
riforma “Ordinamento federale della Repubblica” venne, di necessità, convertita in “Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione”.
843
le Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, e pone, come si evince facilmente dal suo tenore letterale, sullo stesso piano lo Stato e le autonomie in cui è articolata la Repubblica, preludio ad un capovolgimento
della distribuzione di poteri e competenze 3. Ai fini della presente indagine, va rilevato che tramite la legge cost. n. 3 del 2001 si è provveduto a ribaltare, in omaggio ai principi del federalismo, il criterio del riparto delle
competenze (non solo) legislative tra Stato e Regioni 4. L’art. 3 della legge cost. citata, infatti, riscrivendo l’art. 117 della Costituzione, provvede
a disporre sullo stesso piano di dignità la potestà legislativa statale e quella regionale, poiché “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” 5.
Tale dichiarazione di principio rappresenta il prologo ad una vera e
propria rivoluzione metodologica, condotta nei commi successivi. La riforma inverte il precedente criterio di ripartizione delle materie di competenza legislativa statale o regionale, rovesciandolo “come un guanto” 6.
Vengono essenzialmente poste le basi per un nuova definizione dei rapporti tra Stato e Regioni: il primo esercita la potestà legislativa nelle materie espressamente indicate nel comma 2, sulle quali vige un divieto assoluto di intervento da parte del legislatore regionale, mentre a quest’ultimo compete l’area di potestà legislativa concorrente “salvo che per la
determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” 7. Il ribaltamento di prospettive, tuttavia, si coglie ancor più significativamente nel comma 4, ove si afferma che “spetta alle Regioni la
potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” 8. Viene, sostanzialmente, in eviden3
R. Tosi, Il sistema delle fonti regionali, in «Il diritto della Regione», n. 5/2002, 766, sostiene trattarsi di una parità solo relativa, ovverosia limitata al comma 1 della norma che individua gli enti che costituiscono la Repubblica.
4
Cfr. Torchia, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in «Le Regioni», 2002, 343.
5
Formulazione del nuovo art. 117, comma 1, Cost.
6
Roppo, Diritto privato regionale?, in «Pol. dir.», 2002, 555.
7
“Il nuovo testo dell’art. 117, al contrario del vecchio, dà luogo non ad una mera legittimazione delle Regioni all’esercizio di una potestà legislativa, che solo in quanto esercitata pone una sia pure ridotta limitazione al potere legislativo dello Stato (che rimaneva in definitiva
potenzialmente generale), ma ad un vero e proprio riparto di competenze tra Stato e Regioni
nell’esercizio della funzione legislativa di rango ordinario”: Falcon, Modello e transizione nel
nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, in «Le Regioni», 2001, 1249.
8
In tale ambito, la maggioranza dei commentatori non parla, invero, di competenza
esclusiva regionale. Ciò può essere ragionevolmente spiegato considerando che alcune delle
materie di esclusiva competenza statale (ed in primis il riferimento si rivolge alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ex art. 117,
844
za una modalità del riparto dei poteri normativi (ma anche delle funzioni
amministrative) 9 tra autorità centrale e periferiche radicalmente nuovo,
ove la dimensione territoriale regionale sembra acquisire maggiore consistenza 10.
comma 2, lett. m)), mal si conciliano con una loro limitazione d’oggetto essendo potenzialmente in grado di interferire anche con materie non espressamente indicate nei commi 2 e 3,
quindi gravitanti nell’orbita della competenza residuale regionale. Per tali aspetti, in particolare Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa e amministrativa, in «Le Regioni», 2001, 1233.
9
Al riguardo, si supera il cosiddetto principio di parallelismo tra legislazione ed amministrazione: il potere regolamentare spetta allo Stato, ma solo nelle materie in cui gode della
potestà legislativa esclusiva, salva la possibilità di delega alle Regioni, le quali, peraltro, lo
esercitano in ogni altra materia (art. 117, comma 6, Cost.). Le funzioni amministrative sono attribuite in via generale ai Comuni, salvo che la necessità di assicurarne l’esercizio unitario non
ne renda necessario il conferimento a Province, Città metropolitane, Regioni, Stato.
10
Il rovesciamento del criterio di riparto dei poteri legislativi tra Stato e Regioni, nondimeno, non comporta “un vero limite di materia per lo Stato (che espressamente conserva titoli di legittimazione sostanzialmente trasversali alle materie, quale la ‘determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni’ […])”, mentre “per le Regioni vi sono ormai solo delle materie escluse, e
non delle materie assegnate alla potestà legislativa: la quale potrà dunque esercitarsi ovunque
non sia esclusa”, Falcon, Il nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, in «Le Regioni», 2001, 5. La competenza legislativa dello Stato, infatti, sembra andare al di là della mera
elencazione di materie contenute nella nuova formulazione dell’art. 117. V. l’osservazione di
Torchia, La potestà legislativa residuale delle Regioni, op. cit., 363, la quale ha sottolineato come il dibattito dottrinale in merito al rovesciamento del criterio di attribuzione delle competenze normative fra Stato e Regioni si sia prevalentemente preoccupato “più di disegnare confini, limiti e garanzie ultime che di interrogarsi sul merito della differenziazione possibile”, mentre “il
nuovo assetto costituzionale richiede che il fuoco della riflessione si sposti sul grado di differenziazione che il sistema può accogliere, sulle relazioni tra differenziazione e unità, sulle condizioni e strumenti dell’unità a fronte di una forte autonomia politica e amministrativa”. Al suo
interno, invero, si riscontrano voci che non possono costituire ‘materie’ in senso stretto, bensì
individuano, in ragione di principi e valori diversi, ambiti trasversali che legittimano l’intervento statale, seppur in materie esulanti dall’elenco attribuito alla competenza, esclusiva o concorrente che sia, dell’autorità centrale. In altre parole, la potestà legislativa dello Stato mantiene (in
virtù delle cosiddette materie trasversali) una potenzialità tale da influire incisivamente in ogni
ambito su cui la potestà legislativa regionale ha dominio. Esse rappresentano titoli di legittimazione “su cui poggia l’esercizio della potestà normativa del legislatore statale, in alternativa
all’altro titolo di legittimazione – non ‘trasversale’, bensì, per così dire, ‘verticale’ – costituito
dagli oggetti propriamente ‘materiali’ di legislazione, cui alludono altre voci dell’elenco”, e trovano giustificazione nell’opportunità che funzioni e compiti propri dello Stato possano prescindere da una mera elencazione di competenze, dovendosi necessariamente tradurre, piuttosto, in
interventi legislativi su discipline appartenenti alle materie più diverse, anche, eventualmente,
affidate alla potestà normativa, concorrente o residuale, regionale. Per tali aspetti si v. in particolare Falcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, op. cit., 1247 ss. e Luciani, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art.
117, comma 2, lett. m), della Costituzione), in «Pol. dir.», 2002, 354.
845
2. Il tema del diritto del lavoro e la sua problematica riconduzione ad
aree di competenza differenti in un sistema dualistico di riparto di competenze
Il diritto del lavoro, a fronte dell’indiscutibile valorizzazione della
dimensione regionale condotta con la riforma costituzionale, ha dovuto
(e deve) misurare “il rapporto tra una potenziale divaricazione delle regole quale conseguenza del nuovo assetto delle competenze e i principi di
solidarietà e coesione sociale posti alla base del nostro sistema costituzionale” 11. Così, la sua collocazione nel riparto di competenze legislative è stata (ed è) al centro di un dibattito ermeneutico ampio ed approfondito, dovuto all’infelice circostanza che il legislatore costituente sembra
collocare, al contempo, ambiti di disciplina lavoristica in contesti differenti e, quel che più rileva, in regimi di competenza ineguale. Le difficoltà interpretative derivano, in particolare, dalla circostanza che il nuovo
Titolo V contiene un solo espresso riferimento al “lavoro” come oggetto
di competenza legislativa, ove, più precisamente, si attribuisce alla competenza concorrente tra Stato e Regioni la materia “tutela e sicurezza del
lavoro” 12.
L’elevato indice di approssimazione terminologica utilizzato dal legislatore costituzionale ha spinto parte della dottrina a rifiutare un’operazione ermeneutica volta all’individuazione del significato delle voci contenute nell’art. 117 Cost. “condotta per oggetti o materie definitesi nel
tempo ad altri fini”, ricorrendo, invece, ad un “approccio integrato” caratterizzato da un maggior ricorso a criteri funzionali, ritenuti maggiormente idonei ad esprimere “l’intreccio dei rapporti tra mercato e contratto, come pure la complessità della regolazione e dell’intersezione già oggi evidente fra le fonti” 13.
Appare sul punto condivisibile l’invito di chi, al contrario, ha sostenuto la necessità di considerare la metodologia appena richiamata “con
11
Salomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, Padova, 2005, 94.
12
Tale formula risultava già collocata in regime di competenza concorrente Stato-Regioni in progetti di revisione costituzionale precedenti, a partire dal progetto licenziato dalla
Commissione sugli emendamenti, presentato ai sensi del comma 5 dell’art. 2 legge cost. n. 1
del 24.1.1997 (atto Camera n. 3931-A, Atto Senato n. 2583-A del 4 novembre 1997), nonché
dalle successive proposte fino alla sua definitiva collocazione nell’art. 3 legge cost. n. 3 del 18
ottobre 2001. Ne ricostruisce il percorso F. Carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V
della Costituzione, in www.labourlawjournal.it.
13
Treu, Diritto del lavoro e federalismo, in Aa.Vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, in «Quad. riv. trim. dir. proc. civ.», 2003, 44.
846
qualche cautela, dovendosi osservare che tale linea di ragionamento, se
sviluppata fino alle sue estreme conseguenze, porterebbe a ridimensionare quasi del tutto il significato dell’enunciazione costituzionale”14 che,
allo stato e seppur in via tendenziale, continua a proporre un’enumerazione di voci competenziali per materia, e non per funzioni 15, nonostante appaia evidente “l’insoddisfazione per un riparto di materie (e non per
funzioni) e per la mancanza di meccanismi procedurali e politici di raccordo tra potestà legislativa statale e potestà legislativa regionale” 16.
In adesione a tale impostazione, è possibile osservare che, nonostante l’unico esplicito riferimento citato, numerose sono le locuzioni ascrivibili, in maggiore o minore misura, a tematiche attinenti al diritto del lavoro 17. Questa frammentazione, unitamente all’utilizzo di un termine
quanto meno ambiguo come “tutela e sicurezza del lavoro”, rende apparentemente arduo il compito degli interpreti impegnati nella ricerca di un
riscontro, formale e materiale, alla sistemazione del diritto del lavoro rispetto alle competenze legislative delineate nel nuovo Titolo V, così come l’individuazione degli spazi di intervento appannaggio, rispettivamente, del legislatore nazionale e di quello regionale.
Resta, ad ogni modo, che l’unico riferimento esplicito al lavoro si
14
Gianfrancesco, La ripartizione di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela
e sicurezza del lavoro, in «Le Regioni», 2005, 515.
15
Carinci, Rapporti tra Stato e Regioni nella riforma del mercato del lavoro, in La Macchia (a cura di), Riforma del mercato del lavoro e federalismo, Messina, 2005, 18: “nel passaggio dal vecchio al nuovo Titolo V il criterio viene sì rovesciato, tanto da adattarlo al nuovo
spirito federalista, per cui si parte dalla riserva a favore dello Stato e non più da quella a favore delle Regioni; ma mantenuto nella sua essenza, perché per materia era ieri e per materia è
oggi”.
16
Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, valori e tecniche nel diritto del lavoro, Padova, 2006, 58.
17
Tra esse, nel comma 2 dell’art. 117 Cost. (in regime pertanto di competenza esclusiva
del legislatore statale) si riscontrano: l’ordinamento civile (lett. l), la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su
tutto il territorio nazionale (lett. m), l’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (lett. g), la previdenza sociale (lett. o), la tutela della concorrenza e la perequazione delle risorse finanziarie (lett. e) ed anche, seppure in via indiretta,
l’immigrazione (lett. b). Il comma 3 dell’art. 117, in ambito di competenza concorrente tra Stato e Regioni in cui al primo è rimessa, come detto, la determinazione dei soli principi fondamentali, rientrano, oltre alla tutela e sicurezza del lavoro, la previdenza complementare e integrativa, le professioni e l’istruzione. Infine, nell’area di competenza residuale in capo alle Regioni ex art. 117, comma 4, si collocano l’assistenza sociale, l’ordinamento e organizzazione
amministrativa delle Regioni e, soprattutto, la formazione professionale (sulla quale già precedentemente, peraltro, vigeva un regime di competenza concorrente, ed il cui attuale transito
nell’area di potestà residuale non pare legittimamente revocabile in dubbio).
847
collochi nell’area della competenza concorrente. Ciò, se ha suscitato le
critiche per la scarsa considerazione che il legislatore costituzionale ha
manifestato nei confronti del diritto del lavoro 18, è stato ritenuto, al contempo, criterio sufficientemente preciso per avvalorare una ricostruzione
orientata a riconoscere alla competenza regionale in materia di lavoro – a
fronte di una consolidata tradizione giuridica interna nella quale, come
già rilevato, “il diritto del lavoro ha rappresentato, storicamente, un’espressione forte della statualità su base nazionale” 19 – ambiti precedentemente esclusi e quindi non più limitati solo agli aspetti amministrativi e pubblici del rapporto di lavoro ma anche con riguardo ai profili privatistici
della regolazione negoziale tra datore e lavoratore 20: “se qualcuno pensa
(fedele, in qualche modo, a una certa tradizione consolidata) che per evitare i rischi di disgregazione si debba interpretare il 117 confermando in
sostanza le competenze legislative di cui le Regioni oggi già dispongono,
credo abbia sbagliato obiettivo. L’unico punto fermo è che tutte le Regioni hanno comunque rivendicato la necessità di trovare altre e diverse linee
di confine tra la competenza statale e quella regionale” 21.
Valutazione, quest’ultima, suffragata dalla comparsa, ad opera del
governo di centro destra insediatosi nel 2001, del Libro Bianco sul mercato del lavoro, organico documento programmatico ufficiale, che sembrava prospettare il passaggio dell’intero ordinamento del diritto del lavoro alla competenza ripartita regionale (nella specie costituita dall’attribuzione della “tutela e sicurezza del lavoro” alla competenza regionale
concorrente). In tale documento, infatti, si afferma che la “potestà legislativa concorrente alle Regioni in materia di mercato e rapporti di lavoro costituisce un elemento che occorre pienamente valorizzare, respingendo interpretazioni riduttive che la limiterebbero ad una funzione meramente implementativa delle politiche nazionali” 22 (corsivo di chi scriTreu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 37.
Del Punta, Tutela e sicurezza del lavoro, in «Lav. dir.», 2001, 431.
20
“Nulla sarà più come prima”, scrisse Biagi, Una svolta federale per le leggi sul lavoro, in Il Sole 24 Ore del 5.8.2001.
21
Biagi, Intervento, in «Riv. giur. lav.», 2002, I, 186, il quale, tuttavia, prosegue: “se poi
qualcuno in pubblico avanza l’ipotesi sciocca dei venti statuti dei lavoratori o la tesi della possibilità di un’abrogazione dell’art. 18 in alcune Regioni, credo abbia a mente solo la polemica
politica e non un sereno e rigoroso ragionamento scientifico”.
22
Par. I.1.3, il quale prosegue: “sarà il principio di sussidiarietà (nel superamento del criterio di competenza, transitando dalla logica di garanzia a quella di funzionalità) a guidare un
processo di riassetto istituzionale dell’impianto regolatore, così come è avvenuto e sta tuttora
avvenendo nel dialogo tra diritto comunitario e diritto nazionale. Sarà così possibile realizzare differenziazioni regionali che colgano le diversità dei mercati del lavoro locali, superando
una stratificazione dell’ordinamento giuridico inadeguata rispetto ai mutamenti intervenuti
18
19
848
ve). Palese, dalla lettura del Libro Bianco, l’intenzione governativa di
promuovere una frammentazione localistica regionale del diritto del lavoro, tale da consentire al legislatore regionale, nei limiti della competenza concorrente, di scorporare frammenti di disciplina lavoristica
dall’ambito di competenza esclusiva statale. Tale frammentazione sarebbe ipoteticamente temperata, si è osservato, dalla finalità di dettare standard più elevati di quelli oggetto di legislazione statale 23.
La generale preoccupazione suscitata a causa delle proposte contenute
nel Libro Bianco ha sostenuto “un’attività interpretativa frenetica (alimentata dal nostro attivismo e dalla consistenza dei cultori della materia)” 24, sino
a giungere al caustico commento di un autorevole Autore il quale senza
mezzi termini ha biasimato “la stupefacente leggerezza interpretativa” della
proposta governativa, riducendola ad una mera “interpretazione del tutto
improvvisata e persino assurda della controversa riforma costituzionale” 25.
3. La dottrina di fronte alla riforma del Titolo V: le posizioni dei giuslavoristi
La dottrina giuslavorista italiana, ad ogni modo, si è affaticata a lunnell’organizzazione del lavoro. Un’occasione di modernizzazione che non può essere persa,
pure perseguendo, nel contempo, la realizzazione di un più compiuto disegno federalista di carattere generale”.
23
Si v., al riguardo, Zoppoli, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione
del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle?, in
«Lav. pubbl. amm.», 2001, suppl. fasc. 1, 153; ma v. anche Di Stasi, Notazioni sul lavoro tra
diritto europeo, diritto statale e diritto regionale, in «Lav. giur.», 2003, 1108 ss., anch’egli
orientato a riconoscere fondamento ad una visione integrata delle competenze normative fra
Stato e Regioni, in cui a quest’ultime potrebbe essere concesso di derogare, ma esclusivamente in melius, alla disciplina statale, anche per quanto concerne particolari aspetti di natura privatistica.
24
Treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 36.
25
Mariucci, La forza di un pensiero debole, in «Lav. dir.», 2002, 3. Valga, però, sottolineare come alcuni Autori abbiano sminuito la rilevanza dell’intenzione governativa di promuovere una differenziazione territoriale della regolamentazione del contratto di lavoro, essendo “chiaro che essa ha un valore soltanto politico, poiché non spetta ad un Libro Bianco e
nemmeno allo stesso Governo decidere quali siano le conseguenze derivanti dalla modifica costituzionale” (Napoli, Disegno di legge delega e modifiche al Titolo V della Costituzione, in
«Dir. rel. ind.», 2002, 366), mentre altri abbiano rilevato che, al di là di mere enunciazioni di
carattere propagandistico, “il ruolo centrale della legislazione statale nell’impianto del Libro
Bianco appare con chiarezza ancora maggiore se dal terreno dei principi fondamentali si scende nel dettaglio della loro programmata attuazione” (P. Tosi, I nuovi rapporti tra Stato e Regioni: la disciplina del contratto di lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2002, 602).
849
go sulla spinosa questione dell’ammissibilità di un diritto del lavoro differenziato su base regionale.
Alcune voci minoritarie, talune delle quali verosimilmente più per
scongiurare un avvertito pericolo che per autentica e genuina adesione,
valorizzando il dato testuale della norma costituzionale, ravvisano nella
competenza concorrente regionale in materia di tutela e sicurezza del lavoro una deroga alla competenza esclusiva in materia di ordinamento civile attribuita al legislatore nazionale. In tal senso, la competenza regionale si troverebbe in un rapporto di specialità (di species a genus) con la
legge statale con conseguente possibilità per le Regioni di legiferare in
merito ad aspetti privatistici del rapporto di lavoro, seppur nel rispetto dei
principi fondamentali dettati dalla prima parte della Costituzione e dal
legislatore ordinario 26.
L’immediata reazione della maggioranza dei commentatori, tuttavia,
al fine di scongiurare il pericolo di una deriva localistica del diritto del lavoro, si rende complice di un’imponente opera di restrizione del significato di una riforma dagli effetti potenzialmente esplosivi (almeno fino a
quando alle indicazioni del Libro Bianco non è stata data attuazione legislativa che ha manifestato la scelta del legislatore statale di mantenere un
modello di produzione normativa accentrato). La dottrina maggioritaria,
infatti, ha escluso la lettura di cui si è appena detto nel tentativo di allontanare “il più che probabile effetto […] di promuovere una corsa al ribasso degli standard protettivi, alimentando una sorta di competizione distruttiva, micidiale per gli equilibri sociali del paese” 27, posto che i diritti che si realizzano nel rapporto di lavoro “esigono l’assoluta uniformità
dei trattamenti su tutto il territorio nazionale e tale uniformità può essere
garantita soltanto dalla legge statale” 28.
A questa stregua, dal sintagma ‘tutela e sicurezza del lavoro’ vengo-
26
Biagi, Il lavoro nella riforma costituzionale, in «Dir. rel. ind.», 2002, I, 157 ss. Si v.,
tuttavia, la convincente argomentazione di M.G. Garofalo, Pluralismo, federalismo e diritto
del lavoro, in «Riv. giur. lav.», 2002, I, 411: “sarebbe ben strano un rapporto di regola generale a regola speciale tra la competenza esclusiva dello Stato e la competenza concorrente tra
Stato e Regioni, quando la regola posta dal nuovo art. 117 è la competenza legislativa regionale (comma 4) e sia la competenza concorrente che la competenza statale si pongono formalmente come regole speciali”.
27
Roccella, Il lavoro e le sue regole nella prospettiva federalista, in «Lav. dir.», 2001,
504, il quale sottolinea che il problema vero “non è rappresentato dall’alternativa centralismo
vs. decentramento della fonte di produzione delle regole, quanto piuttosto dal fondamento razionale o, se si preferisce, dall’equità sociale del processo di differenziazione normativa”.
28
Pallini, Il sistema delle fonti del diritto del lavoro dopo la modifica del Titolo V della
Costituzione, op. cit., 41.
850
no escluse aree del diritto del lavoro strettamente inteso e più propriamente il diritto del contratto e del rapporto di lavoro, il diritto sindacale,
la previdenza sociale, anche perché, si osserva, la voce “tutela e sicurezza del lavoro” è stata ricompresa dal comma 3 dell’art. 116 Cost. tra le
materie oggetto di possibili ulteriori e peculiari forme di autonomia normativa regionale 29. Quindi, “qualora si adottasse l’interpretazione secondo cui la materia “tutela e sicurezza del lavoro” si estende anche ai relativi aspetti privatistici, si produrrebbe l’irrazionale conseguenza, difficilmente conciliabile con i principi di eguaglianza e ragionevolezza delle
differenziazioni normative affermati dalla prima parte della Costituzione, per cui – ad esempio – mentre la disciplina privatistica dei contratti
agrari […] non potrebbe essere regolata in modo totalmente o parzialmente differenziato da ciascuna Regione, la tutela contrattuale del prestatore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza dell’imprenditore potrebbero essere legittimamente disciplinate dalle varie Regioni con previsioni radicalmente diverse nel caso in cui tale competenza venisse loro attribuita con legge ordinaria così come previsto dall’art. 116 Cost.” 30.
Per quanto concerne la previdenza sociale, l’operazione è agevole: si
è già rilevato, infatti, che la nuova formulazione dell’art. 117 Cost. prevede, alla lett. o) del comma 2, la competenza esclusiva dello Stato in
materia. Assai più difficoltosa appare, invece, la conduzione della medesima operazione per le restanti aree, complice l’assoluta mancanza di
ogni esplicita indicazione in merito nella sua sedes materiae 31. Rifiutan-
29
L’art. 116, comma 3, Cost., infatti, consente l’attribuzione alle Regioni ordinarie di
“ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” con riguardo alle materie di cui all’art.
117, comma 3, vale a dire quelle collocate nella competenza concorrente Stato-Regioni, e ad
alcune materie elencate nell’art. 117, comma 2, di competenza esclusiva dello Stato. Ciò, ad
avviso di alcuni, consentirebbe la sperimentazione di un modello di federalismo asimmetrico
in cui le Regioni possono variare il numero e la portata delle proprie potestà tramite la “predisposizione di un impianto di ripartizione di funzioni-competenze tra Stato centrale e Regioni,
che consente alle stesse di determinare la qualità e quantità della propria azione”: Palermo,
Federalismo asimmetrico e riforma della Costituzione italiana, in «Le Regioni», 1997, 291.
Lo stesso A., Il regionalismo differenziato, in Groppi-Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, 2002, 56, rileva che nel testo
costituzionale riformato sono assenti meccanismi che consentano di accedere ad un modello
di federalismo asimmetrico, nella specie eventualmente costituiti soprattutto da un possibile
regime di finanziamento differenziato che agevoli l’accesso alla maggiore autonomia.
30
Pallini, La modifica del Titolo V della Costituzione: quale federalismo per il diritto
del lavoro?, in «Riv. giur. lav.», 2002, I, 31.
31
Circostanza, infatti, richiamata da Biagi, Il lavoro nella riforma costituzionale, op. cit.,
158, per lo meno per negare la competenza esclusiva statale in materia: “ubi lex voluit dixit,
ubi noluit tacuit: si può dunque argomentare nel senso che il legislatore costituente non è sta-
851
do aprioristicamente di considerare la mancanza citata quale valido motivo per trattare il diritto del lavoro alla stregua di una materia residuale
– cosa che, come si è detto, avrebbe addirittura comportato il suo transito nell’area della competenza regionale, appunto, residuale – si tenta di
individuare nelle materie esplicitamente affidate alla competenza esclusiva statale un adeguato referente normativo, idoneo ad ospitare, al suo
interno, l’area del diritto del lavoro strettamente inteso.
L’operazione viene condotta alla stregua di parametri di carattere
storico-sistematico 32, i quali intendono attingere il significato delle voci
di cui si compone il vigente art. 117 Cost. riferendosi al contesto normativo al momento dell’intervenuta riforma costituzionale, ed all’uopo si
sottolinea come la riconduzione del diritto del lavoro strettamente inteso
alla formula ‘tutela e sicurezza del lavoro’ si collocherebbe in una posizione di sostanziale rottura con un passato in cui il diritto del lavoro era
(ed è) incardinato nel testo costituzionale ed in parte disciplinato dal codice civile, con una vocazione evidentemente nazionale. La prospettiva
governativa contenuta nel Libro Bianco costituirebbe una “svolta radicale rispetto alla storia secolare, alla collocazione costituzionale, all’evoluzione legislativa, collettiva, giurisprudenziale dell’ultimo cinquantennio,
all’esperienza comunitaria, alla lezione comparata degli altri paesi federali o neo-regionalisti” 33. Così, anche alla stregua della valutazione del
panorama ordinamentale su cui insiste la riforma costituzionale 34, si manifesta una forte vocazione unitaria del diritto del lavoro che valorizza il
criterio ermeneutico della “continuità fino ‘a prova contraria’, cioè fino
alla chiara ed esplicita costituzionalizzazione della discontinuità” 35.
to per nulla chiaro utilizzando la formula ‘ordinamento civile’ se essa deve riferirsi anche alla
tematica giuslavoristica”.
32
D’Atena, Materie legislative e tipologie delle competenze, in «Quad. cost.», 2003, 20.
Metodo, peraltro, è stato utilizzato limpidamente dalla sent. n. 1 del 2004 della Corte Costituzionale (in «Giur. cost.», 2004, 6), rigettando il criterio finalistico prospettato dall’Avvocatura
dello Stato.
33
V. F. Carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costituzione, op. cit., in
cui l’A. sottolinea come la formula “tutela e sicurezza del lavoro” paia emergere dal nulla, “cosa che già di per sé mette in guardia da una lettura intesa ad equipararla al diritto del lavoro
tout court, così scorporando tale diritto dall’ordinamento civile”.
34
In merito al criterio storico di interpretazione, si v. quanto affermato in Corte Cost. 10
novembre 1992, n. 429, in «Foro it.», 1993, I, 1774: “l’ermeneutica costituzionale non può in
alcun modo prescindere dall’ispirazione che precedette al processo formativo della norma costituzionale, assumendo in essa particolare rilievo l’essenza storico-politica”.
35
Carinci, Osservazioni sulla riforma del titolo V della Costituzione, in Carinci-Miscione (a cura di), Il diritto del lavoro dal “Libro Bianco” al disegno di legge delega, Milano,
2002, 8; va qui osservato che, sulla base del vecchio testo dell’art. 117 Cost., l’istruzione arti-
852
Inoltre, si ragiona, “l’individuazione delle competenze delle Regioni
in materia di lavoro […] può avvenire soltanto dopo che sia stata effettuata una ricognizione rigorosa delle competenze esclusive dello Stato” 36,
così che il rispetto dei commi di cui si compone il novellato art. 117 Cost.
assurga a vincolante precetto interpretativo 37.
La ricerca di un riferimento per condurre la materia del diritto del lavoro al placido approdo della competenza esclusiva statale si risolve nella sua individuazione nella voce “ordinamento civile” (art. 117, comma 2,
lett. l, Cost.), facendo leva sulla matrice civilistica tanto del rapporto di lavoro individuale quanto del sistema di relazioni industriali e collettive. La
formula, per vero, si rinviene in una disposizione che riserva allo Stato anche le norme del processo civile, penale ed amministrativo. In base all’assunto che l’ordinamento civile debba consistere in qualcosa di differente
giana e professionale era l’unica materia di tipo lavoristico che rientrava nella competenza
concorrente delle Regioni alla stregua della legge-quadro 21.12.1978, n. 845, con la quale lo
Stato aveva fissato i principi fondamentali a cui le Regioni avrebbero dovuto attenersi nell’esercizio di tale potere. In seguito, il d.lgs. 469/1997 – emanato sulla base della delega contenuta
nella l. 15.3.1997, n. 57 – ha conferito alle Regioni funzioni e compiti (di natura amministrativa) in materia di collocamento e di politiche attive del lavoro (con esclusione, tuttavia, delle
funzioni inerenti la vigilanza ed i servizi ispettivi in materia di lavoro, la cui perdurante spettanza in capo allo Stato non era revocabile in dubbio). Potestà legislative in materia di lavoro,
dunque, concorrenti e delegate, ma non esclusive. Argomento ritenuto da Bellavista, Ordinamento civile, diritto del lavoro e regionalismo, in «Dir. merc. lav.», 2003, p. 507, “di pregio: se
il legislatore della riforma avesse voluto spostare in capo alle Regioni ulteriori ambiti di competenza legislativa avrebbe dovuto usare formule molto più chiare rispetto a quelle, alquanto
criptiche, contenute nelle nuove norme del Titolo V della parte seconda della Costituzione”.
36
Napoli, Disegno di legge delega e modifiche al Titolo V della Costituzione, op. cit., 633:
“è vero che la riforma mette sullo stesso piano la legislazione statale e quella regionale, ma ciò
avviene dopo avere sancito quali materie siano riservate allo Stato e quali alla legislazione concorrente”. V., per l’applicazione del medesimo concetto, anche l’opinione di Mangiameli,
Sull’arte di definire le materie dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in «Le Regioni»,
2003, 338, il quale valuta la riserva di una materia alla competenza legislativa esclusiva dello
Stato un ostacolo ad ogni tentativo di comprimerne il contenuto, in quanto “il principio di attribuzione fatto proprio dalla Costituzione […] non potrebbe portare ad un impoverimento della
competenza esclusiva dello Stato, ma semmai di quella concorrente delle Regioni”.
37
Vale a dire, l’ordine di lettura discendente delle competenze (dallo Stato alle Regioni)
proposto ed imposto dalla Costituzione prevede come punto di partenza obbligato l’elenco inserito nel secondo comma, contenente materie e/o voci di competenza esclusiva statale, ed ivi
pertanto andrebbe ricercato, tramite un’esaustiva indagine ricognitiva, il referente idoneo ad
ospitare la materia “diritto del lavoro”. Si v. Corte Cost. 26 giugno 2002, n. 282, in «Foro it.»,
2003, I, 394, ove si puntualizza che l’individuazione della competenza legislativa regionale discende ora non da uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento ma, al
contrario, dall’indagine sull’esistenza, o meno, di riserve esclusive o parziali, alla competenza
statale.
853
dall’ordinamento processuale, esso viene accostato al diritto sostanziale,
riservato alla competenza esclusiva statale. Dall’altro lato, seppur nella
mancanza di qualsivoglia riscontro semantico in tale senso – ciò, per
quanto di utilità, va comunque rilevato – si identifica nel sintagma “tutela
e sicurezza del lavoro”, in una logica di assoluta continuità con il più recente passato, la disciplina del mercato del lavoro, come noto area storicamente oggetto di interventi regionali e delle autonomie locali 38.
Ora, ancor prima di valutare la portata della riconduzione del diritto
del lavoro alla voce ordinamento civile e del mercato del lavoro alla voce tutela e sicurezza del lavoro, preme sottolineare che tale operazione
ermeneutica poggia le propria fondamenta giuridiche sulla giurisprudenza costituzionale pre-riforma, orientata, seppur con uno sviluppo non
sempre ordinato, a negare competenza legislativa regionale in materia di
diritto privato. In particolare, tralasciando per economia pregresse pronunce, solo due giorni prima dell’entrata in vigore della legge cost. n. 3
del 2001 di riforma del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione
la Corte Costituzionale afferma che “l’ordinamento del diritto privato si
pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire nel
territorio nazionale un’uniformità della disciplina dettata per i rapporti
fra privati”. Quindi, esso “identifica un’area riservata alla competenza
esclusiva della legislazione statale e comprendente i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione (…). Si tratta di un limite che attraversa
le competenze legislative regionali, in ragione appunto del rispetto del
fondamentale principio di uguaglianza”.
Tuttavia, i valori costituzionali a presidio dei diritti fondamentali
delle persone non sarebbero posti a repentaglio da una differenziazione
operata dalla legge regionale ove questa risulti “in stretta connessione
con la materia di competenza regionale e risponda al criterio di ragionevolezza, che vale a soddisfare il rispetto del richiamato principio di eguaglianza” 39. Non molto lontano, in definitiva, dall’orientamento precedente volto a sottrarre alla legislazione regionale la possibilità di derogaAssai critico Treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 40, il quale pur ritenendo
condivisibile la necessità di sventare una minaccia alla compatezza “non solo della materia,
ma dello stesso ordinamento nazionale”, sostiene, tuttavia, che tale esigenza “si alimenta anche di un’inerzia istituzionale e culturale che porta a leggere la nuova realtà normativa con le
vecchie categorie e quindi a tradire le innovazioni introdotte, sia pure con formule incerte e discutibili, dalla riforma”.
39
Corte Cost. n. 352 del 2001, cit. V. il commento di Lamarque, Aspettando il nuovo art.
117 della Costituzione: l’ultima pronuncia della Corte Costituzionale sul limite del diritto privato della legislazione regionale, in «Le Regioni», 2002, 584.
38
854
re alle “norme dettate dal codice civile per regolare l’esercizio dell’autonomia negoziale privata, sia che si tratti di norme imperative, sia che si
tratti di norme destinate a regolare direttamente i rapporti tra soggetti in
assenza di diversa volontà negoziale delle parti” 40. La sentenza si segnala, inoltre, per un aspetto assai “curioso”: il limite della legislazione regionale a cui la Corte ha da sempre inteso riferire l’espressione “diritto
privato”, viene qui nominato “dell’ordinamento del diritto privato”, locuzione inevitabilmente accostabile all’“ordinamento civile” che l’art. 117,
comma 2, lett. l), del nuovo testo costituzionale assegna alla potestà legislativa esclusiva dello Stato 41.
Se la giurisprudenza costituzionale precedente aveva legato l’estromissione del legislatore regionale dalla disciplina del diritto privato alla
“esigenza, connessa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati” 42 ed alla necessità “che sia assicurata su tutto il territorio nazionale 1’uniformità di disciplina e di trattamento riguardo ai rapporti intercorrenti tra i soggetti privati, trattandosi di rapporti legati allo svolgimento delle libertà giuridicamente garantite a detti soggetti ed al correlativo requisito costituzionale del godimento di tale libertà in condizioni di formale eguaglianza (artt. 2 e 3 della Costituzione)” 43, la menzionata riforma del Titolo V non ha di certo coinvolto valori costituzionali fondamentali quali l’uguaglianza e la libertà
ampiamente richiamati dalla Consulta per esautorare da ogni competenza in materia di diritto privato il legislatore regionale.
Corte Cost. 25 marzo 1998, n. 82, in «Giust. civ.», 1998, I, 1487.
Nel limitato interesse che tale aspetto può rappresentare nel presente lavoro, la stessa
evoluzione della giurisprudenza costituzionale mostra tratti di evidenti ambiguità ed incoerenze che, probabilmente, sussistono solo in quanto si assuma un’aprioristica definizione di diritto privato. L’aspetto comune dello sviluppo della giurisprudenza costituzionale è costituito
propriamente dall’assoluta intangibilità da parte della legislazione regionale della tipologia e
della disciplina degli istituti dell’autonomia privata, derivandone che il potere normativo regionale non può infrangere il muro dei rapporti interprivati, che di quell’autonomia rappresentano l’espressione tipica. In realtà, una visione pragmatica delle soluzioni concrete fornite dalla Corte consente di accogliere una definizione, seppur in negativo, di diritto privato, “intendendolo come tutto quel diritto che non regola specificamente l’organizzazione o l’attività di
una pubblica amministrazione” (Lamarque, Regioni e ordinamento civile, Padova, 2005, 275)
in quanto il potere legislativo regionale è limitato, tanto nel precedente assetto costituzionale
quanto in quello attuale, alla disciplina di un fenomeno intrinsecamente amministrativo, vale
a dire regolare i rapporti tra i cittadini e i poteri di pubblica amministrazione (Angiolini, Ordinamento civile e competenza regionale, in «Riv. giur. lav.», 2004, II, 27).
42
Corte Cost., ord. 23 giugno 2000, n. 243, in «Riv. giur. edil.», 2000, I, 1019.
43
Corte Cost. 24 luglio 1996, n. 307, in «Foro it.», 1996, I, 3596.
40
41
855
Pertanto, seppur l’ultima giurisprudenza costituzionale sul previgente Titolo V pare riproporre un diritto privato almeno parzialmente derogabile ad opera della legislazione regionale, la portata di tale svolta,
tuttavia, non sembra in realtà inficiare in maniera significativa gli approdi precedentemente raggiunti: le deroghe che la Consulta ritiene meritevoli di ammissione rappresentano pur sempre ipotesi del tutto marginali
(ed oltre tutto riferite ad istituti specifici) 44, senza alterare l’impianto generale 45.
In definitiva, la riserva allo Stato dell’ordinamento civile, in questo
senso, rappresenta l’emersione testuale per la potestà legislativa regionale del vecchio limite del diritto privato, coerentemente volta a superare in
radice tutti i problemi di esatta definizione dei contenuti. La giurisprudenza prodotta dalla Corte nel vigore del testo costituzionale originario
risponde, infatti, ad un disegno unitario non sottoposto ad alcuna modifica od evoluzione negli anni più recenti o immediatamente antecedenti alla riforma costituzionale. È possibile quindi legittimamente escludere
che la diversa terminologia – ordinamento civile in luogo di diritto privato – consenta l’emersione di un differente significato, nel nuovo contesto,
del vecchio limite 46.
4. Ordinamento civile
Il criterio della ragionevolezza, più sopra indicato dalla Corte Costituzionale come ultimo – cronologicamente – grimaldello utilizzabile per
intravedere una deroga alla esclusiva competenza statale in materia di diritto privato, non va considerato come mera clausola di rinvio ad ideali
correnti nella società, in quanto tali mutevoli ed effimeri, ma deve considerarsi espressione, prioritariamente, di un sistema di valori e di principi
Nel caso di specie, alla materia condominiale.
“La porta del diritto privato, dunque, viene solo socchiusa, non spalancata alle Regioni”, Luciani, Regioni e diritto del lavoro. Note preliminari, op. cit., 68.
46
Si v. ancora Lamarque, Regioni e ordinamento civile, op. cit., 276, ad avviso della quale una lettura rigorosamente continuista della formula dell’ordinamento civile si impone quando si consideri la ragione “che in passato aveva originato e sostenuto una simile definizione
giurisprudenziale del diritto privato sottratto alla potestà legislativa delle Regioni: e cioè l’esigenza politico-istituzionale di far sì che tutte le manifestazioni dell’autonomia regionale, compresa quella legislativa, fossero contenute nell’ambito dell’organizzazione e dell’attività della
pubblica amministrazione”.
44
45
856
incorporati in altre norme costituzionali, dalle quali riceve, a sua volta,
fondamento e validità 47.
In questo senso, seppur nella consapevolezza che il testo dell’art.
117 Cost. come riformato dalla novella del 2001 sia un testo oscuro, insuscettibile di essere esaminato “con il sottile bisturi dell’elegante esegesi giuridica” 48, non può prescindersi dal rilevare che, ai sensi della norma citata, lo Stato ha legislazione esclusiva nella materia dell’“ordinamento civile e penale”. La locuzione “ordinamento civile” consente, in
merito al suo significato, il dispiegarsi di un ampio ventaglio di opzioni
interpretative che ne hanno messo in luce l’almeno apparente indeterminatezza 49.
La prima, che si potrebbe definire massimalista, individua nell’ordinamento civile l’elevazione a rango di autonoma e distinta materia del diritto privato, così come prospettato dalla Corte Costituzionale nella sua
precedente elaborazione. La sua natura “ordinamentale”, quindi il suo
essere al tempo stesso sistema di produzione di regole e sistema di regole prodotte ed effettive, non consentirebbe, ponendosi come obiettivo la
salvaguardia dell’eguaglianza formale, deroghe o eccezioni che non siano generate dal sistema stesso 50.
Un’ipotesi minimalista, che si aggancia più o meno esplicitamente
47
Lo sottolinea incisivamente M.G. Garofalo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, op. cit., 407.
48
Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in «Le Regioni», 2001,
620-21.
49
Si v. in particolare Schlesinger, Ordinamento civile, in Aa.Vv., L’ordinamento civile
nel nuovo sistema delle fonti legislative, «Quad. riv. trim. dir. proc. civ.», 2003, 28, ad avviso
del quale “se dovesse convenirsi che per la lett. l) di quel comma tutto il diritto privato va considerato riservato alla legislazione statale, perché mai si sarebbe sentito il bisogno di una disposizione specifica e ulteriore per le opere dell’ingegno? E la medesima osservazione potrebbe ripetersi con riguardo allo Stato civile, alla tutela della concorrenza, ai mercati finanziari, a
mio sommesso avviso tutte materie che fanno parte del diritto privato”, giungendo quindi alla
conclusione che “il nuovo lemma sia stato utilizzato in modo del tutto improprio”. Si v., inoltre, Alpa, L’ordinamento civile nella recente giurisprudenza, in «I Contratti», 2004, 2, 186, il
quale, partendo dalla complessità del sistema, afferma che “la definizione e la nozione stessa
di ordinamento civile nei suoi rapporti con il diritto privato e nella dinamica delle rispettive
competenze statuali e regionali, non può essere tracciata una volta per tutte, ma si espone ad
aggiustamenti, ad affinamenti, a chiarimenti che nascono dal diritto vivente”. L’a. espone in
quella sede almeno 13 possibili significati della formula in discorso, a seconda dei suoi possibili contenuti.
50
Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, in «Arg. dir. lav.», 2002, 79. Presupposto obbligato di tale interpretazione è la valorizzazione (non funzionale ma) “oggettivistica”
del riparto di competenze delineato dall’art. 117 Cost., che, nella sua distribuzione “dualistica” (vale a dire afferente alle rispettive competenze esclusive), non consentirebbe di individua-
857
all’ultima fase della giurisprudenza costituzionale sul previgente Titolo
V e sulle sue aperture, invece, ravvisa in tale formula una competenza
esclusiva statale non sulla disciplina privatistica nella sua interezza, bensì limitatamente al sistema delle fonti delle obbligazioni di diritto civile
ed ai suoi principi fondamentali 51.
La teoria minimalista non contrasta l’attribuzione allo Stato della potestà legislativa esclusiva sulla regolazione dei rapporti di lavoro ma intende ammettere, al contempo, la possibilità di differenziazioni regionali
su taluni aspetti aventi carattere residuale. In altre parole, lo Stato godrebbe di competenza esclusiva per quanto attiene alle “linee ordinamentali”
della disciplina del rapporto di lavoro 52, rendendosi opportuno “ritagliare
nella disciplina del rapporto di lavoro un’area di competenza esclusiva
dello Stato non coestesa con tutti gli aspetti della disciplina del rapporto”,
bensì riferibile ad un’area in cui si collocherebbero “le categorie qualificative, gli schemi contrattuali tipici, gli istituti che incidono sulla struttura del contratto, determinandone le vicende e l’estinzione”, mentre, parallelamente, “altri contenuti di carattere strumentale e accessorio della disciplina privatistica possono differenziarsi secondo le esigenze del territorio senza pregiudicare il valore dell’unità dell’ordinamento” 53.
Svolge una funzione rilevante in simile prospettazione, inoltre, la
considerazione che dal nuovo riparto di competenze dovrebbe necessariamente derivare un ampliamento delle funzioni normative regionali in materie lavoristiche rispetto al precedente assetto costituzionale: l’impossibilità di tracciare una netta linea di confine tra “il rapporto” ed “il mercato” del lavoro 54 determinerebbe dunque che, ferma restando la necessità
re nell’area della materia “ordinamento civile” zone di permeabilità accessibili dal legislatore
regionale.
51
In questo senso, quindi, non potrebbe individuarsi un rapporto di omogeneità tra diritto privato ed ordinamento civile, quanto, piuttosto, un piano geometrico a cerchi concentrici:
il diritto privato ingloberebbe l’ordinamento civile, così che la competenza esclusiva statale
sul secondo non inficierebbe una competenza regionale – seppur contenutisticamente residuale – sul primo.
52
Zoppoli, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle
pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle?, op. cit., 156.
53
Treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 45. Il medesimo Autore aveva, in precedenza, espresso un’opinione assai differente, espresso nella sua attività di coordinamento al
documento Astrid, La legislazione del lavoro tra Stato e Regioni, Roma, 2001, 21: “in altri termini, dell’ordinamento civile fa parte tutto ciò che è definibile in termini di diritti ed obblighi
delle parti e di disciplina degli strumenti negoziali (contratto individuale e contratto collettivo
di lavoro)”.
54
Treu, La riforma dei servizi per l’impiego e le competenze regionali, in Magnani-Varesi (a cura di), Organizzazione del mercato del lavoro e tipologie contrattuali, Torino, 2005, 54.
858
del rispetto dei principi fondamentali, precludere alle Regioni la disciplina di taluni profili di diritto del rapporto di lavoro equivarrebbe a negare,
nella sostanza, la competenza in tema di mercato e politiche attive del lavoro. Una soluzione del genere, ad avviso di tale orientamento, non sarebbe poi coerente con il principio di sussidiarietà verticale che, già presente
ed attivo a livello comunitario, ora lo è anche sul piano interno in quanto
esplicitato nel nuovo Titolo V della Costituzione, e che svolgerebbe pertanto principio ordinatore anche a livello endostatuale 55.
Gli assunti su cui si fonda l’ipotesi interpretativa in esame meritano
di essere analizzati separatamente.
Per quanto concerne la prima argomentazione, pare opportuno sottolineare la difficoltà di individuare aspetti della disciplina del rapporto
di lavoro che possano assumere “carattere strumentale ed accessorio” e
siano quindi suscettibili di una differenziazione regionale. Al contrario,
pare invece lecito sostenere che tutta la disciplina del contratto di lavoro
sia strettamente inscindibile e comunque che incorpori valori fondanti e
inderogabili tali da impedirne una graduazione o un’articolazione territoriale 56.
Il secondo argomento utilizzato valorizza, come detto, l’intentio del
legislatore costituzionale, che ha operato, certamente, una svolta significativa nel cammino verso un assetto istituzionale federalista. La riforma
del 2001 sancisce, infatti, il riconoscimento in capo agli enti territoriali
decentrati di competenze, anche in materia di diritto del lavoro ed in particolare nell’offerta e nell’organizzazione dei servizi di politiche attive,
assai più ampie e significative rispetto al passato. Si trascura di considerare, tuttavia, che tale mutamento pretende di essere apprezzato valutando complessivamente il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni.
Il preteso ampliamento delle competenze regionali (anche) in materia di
rapporto di lavoro si risolverebbe, pertanto, in una mera petizione di principio, essendo priva di sostegno l’argomentazione giuridica posta a suo
fondamento.
Ancor prima dell’intervento della Consulta, tuttavia, la matrice proCiò in quanto “l’approccio più corretto ed in sintonia con i dati di evoluzione ordinamentale, sia nella dimensione sopranazionale sia in quella infranazionale, non sembra […]
quello della determinazione ex ante del ritaglio delle competenze attraverso improbabili ripartizioni per materie, istituti o discipline, ma di valutazione ex post del corretto esercizio della
sussidiarietà come regolatore mobile delle competenze e di riscontro di ragionevolezza intrinseca ed estrinseca, una volta che l’ente territoriale l’abbia esercitata”, così Caruso, Il diritto
del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali nella governance multilivello), in «Arg. dir. lav.», 2004, 852.
56
Bellavista, Ordinamento civile, diritto del lavoro e regionalismo, op. cit., p. 513.
55
859
priamente civilistica del rapporto di lavoro aveva comunque indotto la
maggior parte dei commentatori a ricondurlo nell’area della materia “ordinamento civile”, almeno per la parte del diritto del lavoro costituita dal
suo corpo classico, vale a dire dal diritto sindacale e dal diritto del contratto individuale di lavoro 57.
Il suo contenuto corrisponderebbe alla disciplina dei rapporti giuridici intercorrenti jure privatorum tra cives o persone giuridiche, anche
tenendo conto della concreta dizione utilizzata che pare richiamare la nozione di origine romanistica dello jus civile quale fonte di regolazione di
ogni rapporto intercorrente tra cives e senza alcuna distinzione in ordine
all’oggetto degli interessi perseguiti 58. Conseguentemente, se tale espressione pretende di ricondurre alla competenza statale (per lo meno) la disciplina dei rapporti intercorrenti tra soggetti privati non può che comprendere al suo interno anche la materia dei rapporti di lavoro 59.
Di tutta evidenza, comunque, che il diritto del lavoro sia dotato di
57
Si v. ad esempio, M.G. Garofalo, Federalismo, devolution e politiche dell’occupazione, op. cit., 463, per il quale esistono “pochi dubbi che il significato di questa espressione includa la regolamentazione giuridica dei rapporti tra soggetti privati e, quindi, dei rapporti individuali e collettivi di lavoro”.
58
Critico nei confronti di tale impostazione Alpa, Il limite del diritto privato alla potestà
legislativa regionale, in Aa.Vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative,
«Quad. riv. trim. dir. proc. civ.», 2003, 114, il quale osserva come anche i rapporti tra soggetti
privati ed enti pubblici ben possano essere retti e governati secondo una disciplina di natura
privatistica.
59
Ciò in quanto “il diritto del lavoro è stato sempre considerato un sottosistema del diritto civile. Ciò è particolarmente accentuato nella tradizione italiana. Solo nella fase della maturità il diritto del lavoro ha superato la distinzione classica tra diritto privato e diritto pubblico,
per abbracciare diversi profili di regolazione. Ma sin dalla nascita il diritto del lavoro è stato
sempre vissuto come capitolo del diritto civile. Il peso della tradizione può impedire di dare
all’espressione ordinamento civile il significato ristretto, con l’esclusione dei diritti secondi. In
mancanza d’indicazione all’interno del testo costituzionale, l’interprete deve dare all’espressione ordinamento civile la più ampia latitudine, comprensiva di quella parte del diritto del lavoro attinente alla regolazione giuridica dei rapporti di lavoro, in quanto rapporti interprivati”,
Napoli, Disegno di legge delega e modifica al Titolo V della Costituzione, op. cit., 364, che poco prima afferma: “l’ordinamento civile è il complesso delle norme sostanziali applicate nella
giurisdizione civile e cioè il complesso delle norme concernenti i rapporti tra i privati. L’espressione ordinamento civile è equivalente dell’espressione “diritto civile”, purché non venga intesa in senso stretto, ma sia comprensiva anche dei cosiddetti diritti secondi (diritto commerciale, diritto agrario, diritto del lavoro ecc.). Se l’espressione ordinamento civile significa che
allo Stato è demandata la legislazione concernente i rapporti tra cittadini, dobbiamo necessariamente inserire in essa la materia dei rapporti di lavoro”. Critico nei confronti di tale ricostruzione Caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali nella governance multilivello), op. cit., 848, il quale le addebita di utilizzare la formula in discorso “come barriera, piuttosto che come filtro adeguatamente selettivo nei confronti di ogni in-
860
una specificità che lo differenzia per tratti anche assai rilevanti dal diritto privato e dai modelli classici dell’autonomia privata. Il diritto del lavoro ha dovuto conquistarsi la propria autonomia ed indipendenza, anche
scientifica, dal diritto privato 60, sì che, ad avviso di alcuni, “venuta meno l’unità sistematica del diritto privato, ricondurre discipline dotate ormai di una loro autonoma disciplina, come il diritto del lavoro e il diritto
commerciale, al concetto di ordinamento civile potrebbe essere considerata un’inammissibile forzatura” 61. Ad avviso della maggioranza dei
commentatori, ad ogni modo, tali specificità “non hanno alterato lo schema privatistico del contratto e del rapporto che, del resto, ed è constatazione non secondaria, è ancora parte integrante dei nostri manuali di diritto privato” 62. Infatti, il “diritto del lavoro, pur nella rivendicata specialità, ha sempre voluto preservare il collegamento ombelicale con la matrice civilistica per continuare a possedere coordinate di metodo e di sistema e restare, quindi, diritto”, e pertanto la “contaminazione degli istituti privatistici ad opera di normative inderogabili di stampo pubblicistico non esclude di certo la riconducibilità a quella nozione” 63.
Alla medesima conclusione si giungerebbe anche per la dimensione
tervento che possa riguardare la disciplina del contratto e del rapporto individuale di lavoro,
nonché il diritto sindacale”.
60
Si v., ad esempio, Ballestrero, Differenze e principio di uguaglianza, in «Lav. dir.»,
2001, 424, ad avviso della quale l’espressione ordinamento civile non comprenderebbe l’intero diritto del lavoro, in quanto “una soluzione in questo senso sarebbe certo tranquillizzante,
ma difficile da accettare per lo studioso del diritto del lavoro, che non può dimenticare la storia di una disciplina cresciuta intorno a principi propri, sviluppata grazie alla progressiva separazione dal diritto privato e attraverso una compressione dell’autonomia contrattuale individuale che trova la sua ragion d’essere nella funzione protettiva delle norme lavoristiche. Una
disciplina dei rapporti tra diseguali, anziché, come il diritto privato, una disciplina dei rapporti tra eguali”.
61
Persiani, Devolution e diritto del lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2002, 24.
62
Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, op. cit., 80.
63
Magnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, in «Arg. dir. lav.», 2002, 653. Anche il Cnel ha sottolineato che l’impianto dell’ordinamento giuslavoristico italiano lascia
propendere a favore di “una dimensione nazionale del diritto del lavoro”, ed in particolare per
quanto attiene alla disciplina del contratto e del rapporto di lavoro, in quanto tali rientranti nella nozione di ordinamento civile e quindi rimessi alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.
V. Cnel, Osservazioni e proposte, la riforma del Titolo V della Costituzione, Assemblea del 24
gennaio 2002: “il diritto del lavoro trova nei principi fondamentali e nella prima parte della
Costituzione le sue norme peculiari di giustificazione (artt. 1, 3 e 4), di autotutela e di autonormazione (artt. 39 e 40) e di disciplina dei diritti individuali (artt. 35, 36, 37 e 38)”, norme che
“lasciano propendere a favore di una dimensione nazionale del diritto del lavoro”. Opzione peraltro ribadita dallo stesso autorevole consesso in occasione del Parere sul DDL S-848/2001,
Assemblea 18 febbraio 2002.
861
collettiva della disciplina, vale a dire il diritto sindacale, poiché lo stesso
rilievo attribuito a tali ambiti del diritto del lavoro dalla Carta Costituzionale (artt. 39, comma 1 e 40, letti in connessione con l’art. 3, comma 2),
ne radica l’esclusiva competenza statale, anche con riguardo alla loro natura di strumenti essenziali predisposti dall’ordinamento per il riequilibrio delle condizioni di potere tra i contraenti del rapporto di lavoro,
mentre la ricostruzione del diritto sindacale in chiave di autonomia privato-collettiva, utilizzando categorie civilistiche, non farebbe che confermare tale lettura 64.
La “delicatezza degli equilibri socio-politici cui i rapporti sindacali
corrispondono”, nonché la “rilevanza immediatamente costituzionale degli svolgimenti cui essi si riferiscono” 65, sembrano dunque motivi di inevitabile preclusione alle Regioni circa la possibilità di legiferare in materia sindacale. Tale preclusione comprenderebbe tanto il fronte regolativo
quanto il versante promozionale dell’attività sindacale, quali ad esempio
la selezione degli agenti negoziali, regole di efficacia della contrattazione
collettiva, diritti di informazione, limiti al diritto di sciopero 66.
64
F. Carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costituzione, op. cit.: “comunque si intenda l’espressione “ordinamento civile”, di certo il diritto del lavoro ricade
all’interno della nozione “ordinamento civile”, sia nella sua parte sindacale, tutta ricostruita in
parziale difformità dalla Costituzione formale in chiave di autonomia collettiva-privata, sia
nella sua parte individuale, tutta fondata sul contratto di lavoro”. Di contrario avviso Caruso,
Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali nella governance
multilivello), op. cit., 848, nota 155, ad avviso del quale sia la contrattazione collettiva pubblica (ma anche del settore privato) sia la regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, “evidenziano, invece, la funzionalizzazione del diritto sindacale alla regolazione di
interessi generali e non privatistici, mettendo in tal senso in discussione l’afferenza del diritto
sindacale all’ordinamento civile”. Ed ancora, 850-851, “nessuno si sentirebbe di mettere in discussione il fatto che il diritto di sciopero, sebbene riconosciuto e garantito in tutti gli ordinamenti europei a costituzione rigida, e ora pure nella Costituzione europea, possa essere regolato, quanto a modalità del suo esercizio, in modo differenziato a livello di singoli Stati, senza
che ciò possa incidere sul suo riconoscimento come diritto. Non è, dunque, la differenziazione regolativa dell’esercizio in quanto tale che ne fa presumere la violazione o il conculcamento del diritto. […] perché ritenere ammissibili difformità regolative tra territori statali e non
ammissibili, invece, difformità tra territori infra statuali, posto che Stati e Regioni sono considerati entità istituzionalmente equipollenti come soggetti di regolazione sociale, sia nell’ordinamento comunitario sia, dopo la riforma del 2001, nell’ordinamento costituzionale interno?
Perché ritenere che la governance multilivello debba fermarsi alla “dogana” degli Stati nazionali e il pagar dazio?”.
65
Salomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 130.
66
Treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 47: “l’intero equilibrio fra gli attori collettivi e fra i relativi poteri, quindi l’essenza stessa delle relazioni industriali, è interessato dalla disciplina diretta alla attuazione dei principi costituzionali. Spetta dunque alla comunità na-
862
5. Il principio di uguaglianza tra proposte di ricontestualizzazione ed
ineludibili esigenze di uniformità normativa
Per quanto dotato di indiscutibili argomenti testuali e sistematici – e
di una persuasività che lo rende il più condiviso tra i commentatori –
l’orientamento teso a ricondurre alla voce “ordinamento civile” l’intera
disciplina lavoristica è affiancato da differenti letture della problematica
sottesa, che tuttavia ne condividono gli afflati accentratori e di uniformità. In particolare, pur valutando indiscutibile che la riforma costituzionale abbia comportato una valorizzazione della dimensione territoriale con
conseguente allargamento delle competenze anche normative delle Regioni, altrettanto indubitabilmente, tuttavia, il contesto di principi, di regole, di norme fondamentali costituito dalla prima parte della Costituzione repubblicana non è stato minimamente intaccato dalla revisione, cosicché non i primi si devono adattare a quest’ultima, ma quest’ultima ai
primi. La revisione costituzionale, invero, ha interessato solo una frazione della Carta della Repubblica, vale a dire il Titolo V della sua Parte seconda, rendendosi necessaria un’armonizzazione con l’intero residuo testo, “che non è solo quantitativamente ma anche qualitativamente prevalente, per ricomprendere i Principi fondamentali e tutta la Parte Prima
dettata sui diritti e doveri dei cittadini, cioè la parte che la caratterizza come Costituzione lunga e sociale” 67.
Così, sul presupposto che oggetto della rilevazione è una norma costituzionale (l’art. 117), l’interpretazione di quest’ultima non può prescindere da quelli che sono i principi fondamentali enunciati nella Costituzione stessa, “principi che non solo forniscono il criterio di interpretazione delle altre disposizioni costituzionali, ma costituiscono anche un
limite a quell’interpretazione nel senso che essa non può condurre a risultati che siano in contrasto con quei principi” 68. La necessità di ancorare saldamente la competenza normativa statale sul tema oggetto della
presente indagine acquista ulteriore vigore valutando la rilevanza che
svolge il principio costituzionale di uguaglianza, principio più volte richiamato dalla Consulta, ad avviso della quale esso consiste “nell’esigenza che sia assicurata su tutto il territorio nazionale una uniformità di
disciplina e di trattamento riguardo ai rapporti intercorrenti tra soggetti
privati, i quali attengono allo svolgimento delle libertà giuridicamente
zionale definire, nel contesto storico dato, le modalità di intervento e il mix di promozione/regolazione, relativo alle relazioni collettive e in particolare alle azioni sindacali”.
67
F. Carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costituzione, op. cit.
68
Metodo di indagine prospettato da Persiani, Devolution e diritto del lavoro, op. cit., 26.
863
garantite e sono dunque legati al correlativo requisito costituzionale del
godimento di tali libertà in condizioni di formale eguaglianza, ai senti degli artt. 2 e 3 della Costituzione” 69. Pertanto, pur nella consapevolezza
che un’accurata indagine sulla complessiva valenza del principio in discorso esuli dai temi della presente indagine, è d’uopo richiamare, almeno nei limiti del necessario, il particolare rilievo che esso assume nel diritto del lavoro: quest’ultimo, a differenza del diritto privato, non postula
l’eguale forza contrattuale dei soggetti che danno vita ad un rapporto sinallagmatico bensì, al contrario, partendo dal presupposto della sostanziale debolezza economica e sociale di uno dei contraenti, si pone precipuamente l’obiettivo di riequilibrare l’impari rapporto di forze tra chi offre la propria prestazione lavorativa ai titolari dei mezzi di produzione in
cambio della fornitura dei mezzi necessari a garantire la propria sussistenza. Ora, non possono sussistere dubbi che la valenza del principio di
uguaglianza verrebbe gravemente messa a repentaglio da un impianto federalista delle attribuzioni legislative che condizionasse il livello di garanzia di condizioni di vita e di lavoro alla mera collocazione geografica
dei lavoratori e che, conseguentemente, non ne garantisse un’uniforme
applicazione sull’intero territorio nazionale. Il diritto del lavoro, infatti,
risulta “particolarmente sensibile all’applicazione del principio di uguaglianza e alle sue possibili rotture da parte di un modello federale non abbastanza attento alla garanzia di condizioni di vita e di lavoro uniformi
sul territorio nazionale” 70. Tanto più che, sotto questa angolazione, sarebbe proprio l’applicazione del principio di sussidiarietà a condurre a
tale soluzione: “se in una materia non sono ammissibili differenziazioni
territoriali, l’uniformità di trattamento non può che essere assicurata da
una legislazione nazionale; se così non fosse, dovremmo negare al principio di uguaglianza la natura di principio fondamentale conferitagli (olCorte Cost., 26 ottobre 1995, n. 642, in «Giur. cost.», 1995, 3585. Giudica “incongruo” tale orientamento per escludere l’ammissibilità di un diritto del lavoro regionale, Salomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit, 104, poiché “pur chiamando in causa il c.d. limite del diritto privato, essa non riesce a dimostrare l’assunto principale della tesi che intende propugnare: l’impossibilità per le regole territoriali di entrare nel campo del diritto del lavoro strettamente inteso,
cioè all’interno della disciplina del contratto di lavoro e del diritto sindacale”.
70
Treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 38. Contra, Roppo, Diritto privato regionale?, op. cit., 577, il quale, valutando l’antinomia tra uguaglianza ed autonomia sostiene che
non sia possibile erigere il principio di uguaglianza a limite generale per l’autonomia privata,
poiché sarebbe evidente che fare ciò “significherebbe negare l’autonomia stessa nella sua essenza profonda”. Potrebbe, tuttavia, rilevarsi che qui non è in gioco l’autonomia, anzi la differenziazione è legittima ed auspicabile ove avvenga tramite la contrattazione collettiva: in questa sede si tratta di atti normativi ed il contrasto tra autonomia ed uguaglianza non si pone.
69
864
tre che dalla storia del principio stesso) dalla sua collocazione topografica nel testo costituzionale, ovvero giungere al paradosso che le Regioni
hanno competenza legislativa su una certa materia, ma hanno anche l’obbligo di legiferare tutte nello stesso modo” 71.
Ad avviso di alcuni autori, tuttavia, la pregnanza del principio in discorso non apparirebbe, comunque, preclusiva in assoluto di possibili
differenziazioni su base regionale del diritto del lavoro, dovendo “guardarsi dall’attribuire una rilevanza direttamente normativa al principio di
uguaglianza, che semmai può essere visto come un elemento della ratio
esplicativa del positivo riparto delle competenze, ed in particolare
dell’attribuzione dell’ordinamento civile alla competenza esclusiva dello stato” 72, posto che il federalismo, o comunque una valorizzazione
scevra da pregiudizi delle competenze territoriali decentrate, imporrebbe ciò che è stata definita una “laicizzazione del diritto del lavoro”. Operazione, quest’ultima, che, sul presupposto di poter “distinguere ciò che
è essenziale da ciò che lo è meno […], dovrebbe avere come logico corollario, anche un ripensamento, inteso come ricontestualizzazione, del
principio di uguaglianza” 73.
Il processo di ricontestualizzazione così prospettato, che si pretende
costituire coerente applicazione dei principi di sussidiarietà e di ragionevolezza, si esprime tramite una nuova delimitazione della competenza
normativa tra Stato e Regioni, non più utilmente basata sulla rilevanza o
meno della materia trattata; si afferma, infatti, che, all’interno di ogni
singola materia oggetto di disciplina, occorrerebbe individuare un’area
da ritenersi legata ad una regolamentazione statale in quanto diretta manifestazione di principi di carattere fondamentale ed un’area, al contrario, suscettibile di possibili adattamenti e modifiche di carattere territoriale, senza minare quegli stessi principi. Con l’avvertenza tuttavia che
M.G. Garofalo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, op. cit., 405.
Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, valori e tecniche nel diritto del lavoro, op. cit., 58: “il principio di uguaglianza non è coordinante ma deve essere coordinato da
quello di autonomia”.
73
Citazioni tratte da Del Punta, Tutela e sicurezza del lavoro, op. cit., 433. Ma si v. anche Biagi, Il lavoro nella riforma costituzionale, op. cit., 12 e Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, Padova, 2004, 44: “la riforma in senso federale dello Stato impone di impostare
in termini diversi il giudizio di uguaglianza tra cittadini, non perché il criterio della residenza
geografica diventi un elemento rilevante nel giudizio medesimo, ma perché cambia la stessa
base di comparazione, cioè il trattamento da riservare ad ogni cittadino, indipendentemente
dalla Regione in cui si trova. Fino alla riforma del Titolo V, in altre parole, si poteva certo ritenere contraria all’art. 3 Cost. qualunque differenza di trattamento su base regionale, mentre
oggi il giudizio di eguaglianza riguarda solo il contenuto essenziale dei diritti fondamentali”.
71
72
865
“se in molti casi potrà accadere che ciò che viene individuato come fondamentale rimanga lasciato nelle mani dello Stato, questa sarà una scelta politica legata al mix di nazionalismo e regionalismo che si vuole introdurre; potrà essere fatta, in alcuni casi, una scelta diversa giacché anche le leggi regionali sono vincolate al rispetto delle norme costituzionali” 74. Un’eventuale scelta diversa, in sostanza, riceverebbe copertura costituzionale dall’accentuata valorizzazione delle prerogative territoriali
scaturita dalla riforma del Titolo V, seppur nel contesto dell’assetto costituzionale vigente 75.
Chi ha inteso valorizzare l’acquisizione di maggiori ambiti di intervento del legislatore regionale in materie lavoristiche avrebbe dunque rilevato come “la concezione del diritto del lavoro come diritto statuale
uniforme nel nostro assetto costituzionale è in crisi, in qualche modo, ab
origine, dalla presenza dell’articolo 39 Cost. (e dell’articolo 40 Cost.) e
per l’esistenza della contrattazione collettiva, tutelata a livello costituzionale in tutte le sue forme ed applicazioni” 76 e che, per altro verso, non sarebbe stata ancora dimostrata “l’esistenza di una relazione univoca tra
uniformità regolativa sul territorio nazionale, principio di eguaglianza
formale e livelli (alti) di tutela sostanziale” 77.
Principio di uguaglianza, quindi, che non potrebbe fungere da criterio guida per l’attribuzione di competenze tra i diversi livelli dell’ordinamento, essendo indubitabile che esso “costituisca – a prescindere da quale debba esserne l’effettiva portata – regola generale e fondamentale
dell’intero sistema, senza distinzioni di materie e senza contrapposizioni
tra legislatore statale e regionale” 78. Allora la questione che dovrebbe investire maggiormente il giuslavorista non sarebbe l’inerenza o meno del
principio di uguaglianza alle materie oggetto di differenziazione territoriale, quanto, piuttosto, la giustificabilità delle diversità in ragione della
loro riconducibilità a principi (che si traducono in disciplina di materie o
di porzioni di materia) che non possono sopportare differenziazioni regionali o, viceversa, in materie che invece possono tollerarne in qualche
Del Punta, Tutela e sicurezza del lavoro, op. cit., 433.
Bartole, Bin, Falcon, Tosi, Diritto regionale. Dopo le riforme, Bologna, 2003, 157 ss.
76
Salomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 96-97.
77
Caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali
nella governance multilivello), op. cit, 846, sostiene, anzi, che tramite interpretazioni della riforma del Titolo V in materia giuslavoristica dominate dal principio di eguaglianza l’eguaglianza sostanziale andrebbe a scapito di quella formale.
78
Schlesinger, Ordinamento civile, in Aa.Vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema
delle fonti legislative, op. cit., 29.
74
75
866
misura. In altre parole, “l’attribuzione di un’area alla competenza legislativa statale o regionale trova la sua giustificazione dalla valutazione
delle dimensioni di interessi coinvolti, frutto in larga misura, anche rispetto al lavoro, di una valutazione politica dei soggetti chiamati ad apprezzarla” 79, senza che ciò, tuttavia, possa dipendere da “pregiudizi
aprioristici” 80.
Seppur intesa come ricontestualizzazione in senso dinamico del principio di uguaglianza, tale ricostruzione incontra ostacoli che non possono
essere trascurati. La variabilità geografica dei diritti che ne discenderebbe
pare comunque costituire un vulnus all’espressione dell’uguaglianza, intesa tanto nella sua accezione formale che sostanziale. Sembra infatti corretto affermare che per legittimare una differenziazione territoriale del regime giuridico applicabile al rapporto di lavoro non sia validamente sostenibile richiamare la situazione di disparità economico-sociale nelle differenti aree del Paese, perché le difformità che darebbero origine al trattamento differenziato, in realtà, sarebbero indotte da “diversità che non
hanno direttamente a che fare con la condizione del lavoratore ma semmai
con la collocazione geo-politica dell’impresa” 81.
In questo senso, la funzione di tutela del lavoratore emerge in particolare in un contesto ben preciso del settore giuslavoristico, vale a dire
quello del mercato del lavoro. Le condizioni geo-politiche nelle quali il
lavoratore svolge la propria attività, infatti, variano a seconda del contesto territoriale. Pertanto, tali differenze di condizioni appaiono idonee a
giustificare, in conformità al principio di uguaglianza inteso in termini
sostanziali, la predisposizione da parte delle autorità locali di mezzi e
strumenti differenziati, in modo da poter offrire, nel mercato del lavoro
interessato, un ventaglio specifico e mirato di soluzioni volte alla collocazione o ricollocazione del lavoratore in cerca di occupazione 82. Peraltro, pur nella necessità di ribadire ulteriormente la particolarità del principio di uguaglianza in ambito lavoristico 83 – che coglie “un principio
etico, il principio della personalità del lavoro, il quale fa valere l’imma79
Salomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 101.
80
Schlesinger, Ordinamento civile, in Aa.Vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema
delle fonti legislative, op. cit., 29.
81
Ballestrero, Differenze e principio di uguaglianza, op. cit., 426.
82
In questo senso, è evidente come la disomogeneità territoriale delle tecniche di produzione determini un processo di segmentazione del mercato del lavoro, tale per cui sembra corretto ritenere che il “massimo di giustizia” coincida con il “massimo di diversificazione normativa”: Barbera, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, 27.
83
Che pare tutelare “una parte contro l’altra in palese contrasto con il dogma dell’egua-
867
nenza della persona del lavoratore nel contenuto del rapporto contro la
concezione patrimoniale ed egualitaria del diritto civile, che considera il
rapporto di lavoro alla stregua di un rapporto di scambio tra due proprietari” 84 – e nell’ottica di una complessiva valorizzazione dei principi costituzionali, non può prescindersi, tuttavia, dal rilevare che anche il diritto di iniziativa economica, e quindi il diritto di impresa, sia meritevole di
riconoscimento, apprestato all’uopo dall’art. 41 Cost. 85. Se così non fosse, “dovremmo affermare che la regolamentazione del contratto di lavoro sia esclusivamente diretta alla tutela del lavoro, mentre – evidentemente – è teso a realizzare l’equilibrio (politicamente desiderato) tra i
contrapposti interessi delle parti in causa, e, più in radice, a legittimare il
potere dell’imprenditore sull’organizzazione produttiva” 86.
In altre parole, si può sostenere che “la funzione del diritto del lavoro consiste nella realizzazione del reciproco ed equilibrato contemperamento del valore proprio del lavoro umano e del valore dell’impresa in
quanto la realizzazione di quest’ultimo condiziona necessariamente quella del primo” 87. Chiamato ad assolvere tale funzione, il diritto del lavoro
deve necessariamente misurarsi con una realtà economica e sociale che
non può essere confinata ad una dimensione localistica e particolare ma
deve semmai riferirsi ad un contesto sostanzialmente omogeneo per tutto il territorio nazionale, “in quanto caratterizzat[o] dal conflitto di inte-
glianza dei contraenti”, Gaeta-Zoppoli (a cura di), Il diritto diseguale. La legge sulle azioni positive. Commentario alla legge 10 aprile 1991, n. 125, Torino, 1992, 6.
84
Mengoni, Diritto civile, in L’influenza del diritto del lavoro su diritto civile, diritto
processuale civile, diritto amministrativo, in «Giorn. dir. lav. rel. ind.», 1990, 6.
85
V. D’Antona, L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, in «Giorn. dir.
lav. rel. ind.», 1991, 464: “Autonomia negoziale e fonti eteronome […] fanno parte di un medesimo processo regolativo, internamente complesso ma unitario quanto alla funzione, che è
quella di bilanciare potere e consenso nella sfera della produzione, il potere di chi organizza il
lavoro per il profitto proprio, e il consenso di chi, per quanto determinato dalla necessità, presta lavoro volontariamente”.
86
M.G. Garofalo, Federalismo, devolution e politiche dell’occupazione, op. cit., 463.
Ma v., più diffusamente, del medesimo A., Un profilo ideologico del diritto del lavoro, in Scritti in onore di Gino Giugni, t. I, Bari, 1999, 453.
87
Persiani, Devolution e diritto del lavoro, op. cit., 27: “se la funzione del diritto del lavoro fosse quella di assegnare priorità assoluta alla tutela di chi lavora sarebbe illegittimamente mortificato il valore dell’impresa che finirebbe per essere considerata un luogo di occupazione e non già come è e deve essere un luogo di produzione della ricchezza”. Si v. Santucci,
Parità di trattamento, contratto di lavoro e razionalità organizzative, Torino, 1997, 2, ad avviso del quale il principio di uguaglianza “deve tradursi in regole e vincoli attraverso un percorso argomentativo che rispetti tanto l’autonomia negoziale, quanto la libertà di impresa, anch’esse costituzionalmente protette”.
868
ressi connaturato al sistema di produzione capitalistico” 88, insuscettibile
di adattamento localistico poiché radicato all’interno dei rapporti di produzione, e quindi dell’impresa 89.
L’elemento territoriale, in altre parole, non determinerebbe una variazione dei termini di quello stesso conflitto, la cui tipicità sociale si
esprime proprio nel riferirsi ad interessi costantemente coinvolti nel conflitto industriale, senza essere condizionato né dalla posizione geografica né dalle condizioni socio-economiche dei territori nei quali si svolge.
Una disciplina regionale del diritto del lavoro differenziata per territorio,
pertanto, non potrebbe trovare ragionevole giustificazione sulla base delle peculiarità di carattere socio-economico inevitabilmente legate ad ogni
contesto territoriale, proprio perché sulla base di tali differenze non potrebbe legittimamente sostenersi una diversità di interessi coinvolti
nell’esercizio dell’impresa e nel corrispondente svolgimento di un’attività di lavoro subordinato.
Le stesse differenze, richiamate da chi ha preteso dedurne una necessaria ricontestualizzazione del principio di uguaglianza, dunque, non
costituirebbero né violazioni del principio stesso né strumenti per sostenere la legittimità di discipline differenziate territorialmente. Esse, senza
sottintendere particolarismi locali di interessi a rilevanza nazionale, sono
state ritenute semmai ragionevoli proprio perché giustificabili dalle peculiari caratteristiche degli interessi in conflitto 90 e dagli specifici valori,
anche pubblici, che ad essi sono connessi 91.
Persiani, Devolution e diritto del lavoro, op. cit., 28.
L’impresa, dunque, sarebbe il luogo del conflitto ove le caratteristiche del territorio, nel
quale l’attività imprenditoriale è di fatto esercitata, scoloriscono a condizioni ambientali, senza
pregiudicarne la natura. Ciò, pur nella consapevolezza che, nell’accezione del termine uguaglianza in senso verticale, ossia tra l’imprenditore ed i suoi dipendenti, “se l’impresa è il luogo
di massima rifrazione delle disuguaglianze, al tempo stesso è il luogo in cui è impossibile abolirle. In effetti, si fa presto a dire che gli abitanti del pianeta impresa sono pur sempre cittadini
di una Repubblica democratica e come tali vanno trattati. Poi, bisogna realisticamente riconoscere che lo stesso Lavoro – quello con la elle maiuscola – che conferisce la cittadinanza, riproduce immancabilmente dentro l’impresa le asimmetrie che ne pregiudicano l’essenza paritaria
e il diritto che […] dal lavoro “prende nome e ragione” non ha risolto la contraddizione: ha preferito metabolizzarla”: Romagnoli, Il diritto del lavoro nel prisma del principio di eguaglianza,
in Napoli (a cura di), Costituzione, Lavoro, Pluralismo sociale, Milano, 2001, 22.
90
Persiani, Devolution e diritto del lavoro, 28: “la contrattazione collettiva articolata a
differenza di una eventuale legislazione regionale del lavoro esprime valutazioni che hanno
pur sempre riguardo esclusivo al conflitto industriale e non già ad interessi locali connessi al
territorio. Oltretutto l’eventuale diversità della disciplina prevista dalla contrattazione collettiva articolata rispetto a quella nazionale è espressamente legittimata dal principio costituzionale della libertà sindacale”.
91
È questa, probabilmente, la corretta applicazione del criterio della ragionevolezza, pre88
89
869
Senza trascurare che, come si è già avuto modo di sottolineare più
volte, un’applicazione del diritto del lavoro uniforme sul territorio si rende necessaria considerando il pericolo che il legislatore regionale alteri
l’assetto degli interessi coinvolti nel conflitto industriale dato dalla legislazione nazionale, determinando da un lato ingiustificabili restrizioni
dell’esercizio del diritto al lavoro su tutto il territorio nazionale infrangendo l’unità giuridica ed economica del sistema e, d’altro lato, inevitabili disparità di trattamento per la tutela dei lavoratori o per la libertà di
iniziativa economica 92. In conclusione, consentire la diversificazione territoriale delle regole relative ai contratti ed alle obbligazioni dello stesso
diritto del lavoro appare inaccettabile 93.
6. La competenza concorrente: il nodo della tutela e sicurezza del lavoro
Alla luce delle considerazioni esposte nei paragrafi precedenti appare evidente la premessa metodologica da cui parte l’orientamento espresso dalla dottrina maggioritaria: tra le materie “ordinamento civile” e “tutela e sicurezza del lavoro” il rapporto è di reciproca autonomia. Si procede, pertanto, ad un sostanziale ridimensionamento della formula “tutela e sicurezza del lavoro”, collocata in regime di competenza concorrendicato anche dalla Corte Costituzionale, che si intende positivamente adempiuto “dimostrando che la disparità di trattamento non è arbitraria e anzi è arbitrario disinserirla da un’ottica di
bilanciamento di tutti gli interessi in gioco, per cui i suoi effetti lesivi – per quanto innegabili
– non sono perciò solo censurabili”, Romagnoli, Il diritto del lavoro nel prisma del principio
di eguaglianza, in Napoli (a cura di), Costituzione, Lavoro, Pluralismo sociale, op. cit., 26. Si
v. anche Paladin, Il principio costituzionale d’eguaglianza, Milano, 1965, 213.
92
Come incisivamente sottolineato da Ballestrero, Differenze e principio di uguaglianza, op. cit., 426: “a me pare fuori discussione che, almeno nell’area dei diritti sociali fondamentali ai quali si lega buona parte della legislazione in materia di tutela e sicurezza del lavoro, le ragioni dell’eguaglianza debbano superare le spinte verso una diversificazione”.
93
Anche perché, come autorevole dottrina sottolinea, “sostenere il contrario significherebbe consentire una forte diversificazione di regole e tutele sul territorio nazionale che […]
appare pericolosa e foriera di pesanti conseguenze sul piano dell’unità sociale e politica del
Paese. E ciò non solo perché si svilupperebbero fenomeni di dumping regolativi assai deprecabili dal punto di vista di un equilibrato ed omogeneo sviluppo delle diverse aree regionali, ma
soprattutto perché si rischierebbe di giungere ad una insostenibile differenziazione dei trattamenti normativi (nonché, direttamente o indirettamente, economici) dei lavoratori delle diverse regioni, in barba ad un principio di eguaglianza che, confesso, mi sembra sia sempre più frequentemente percepito, da alcune aree culturali del Paese, solo come una rigidità fastidiosa, da
eliminare, piuttosto che come un ambizioso progetto di sviluppo della società italiana posto
dai Padri della Repubblica a fondamento dell’ordinamento giuridico costituzionale”, Carabelli, Federalismo e diritto del lavoro: brevi riflessioni a margine di un seminario, in Di Stasi (a cura di), Diritto del lavoro e federalismo, Milano, 2004, 12.
870
te e sulla quale, occorre ricordare, incide il limite dei principi fondamentali di matrice statale che fa da cornice agli interventi normativi regionali. Di essa, come ormai ampiamente evidenziato, si esclude categoricamente ogni interferenza con il diritto del lavoro o almeno con il suo corpo classico, vale a dire la disciplina del rapporto di lavoro e del diritto
sindacale. Al tempo stesso, tuttavia, sorge il problema dell’esatta definizione del significato da attribuire alla formula utilizzata dal legislatore
della revisione costituzionale. Formula, infatti, che pare emergere “dal
nulla, senza alcuna storia alle spalle” 94 con una “novità pari solo alla sua
ambiguità” 95 e di cui viene fin da subito lamentato l’insufficiente grado
di univocità, specie a fronte della tradizione giuridica che ha contraddistinto il diritto del lavoro in Italia 96.
I due termini utilizzati non sono mai stati, nell’ordinamento interno,
posti in relazione fra loro né, tanto meno, l’espressione è mai stata utilizzata come endiadi riassuntiva del diritto del lavoro. Nella logica di una
possibile eterogeneità semantica dei due termini, la “tutela” sembrerebbe porsi in termini teleologicamente orientati, potendo evocare le norme
inderogabili poste a presidio della dignità del lavoratore e a limitazione
del potere del datore di lavoro. La cripticità ed ambiguità della nozione,
inoltre, emerge in tutta la sua ampiezza valutando la “tutela del lavoro”
alla stregua di un richiamo all’art. 35 Cost., norma ritenuta per certi versi fondativa dell’intero diritto del lavoro: se, in questo senso, la tutela indica il tutto (comprensivo quindi anche della disciplina dei rapporti di lavoro), quale il significato del termine “sicurezza” che l’accompagna 97?
A sua volta, il termine “sicurezza”, che si presta con maggiore facilità ad una ricostruzione in termini oggettivistici ed a cui pare conseguentemente applicabile il criterio storico-normativo, è suscettibile di un significato comunque variegato, potendo consistere, evidentemente, nella
specifica tutela della salute del lavoratore nell’ambito dell’organizzazione delle condizioni materiali nelle quali si esplica la sua attività lavorativa, e così nell’igiene e sicurezza del lavoro 98, come complesso di prescriF. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, op. cit., 52.
Trojsi, Prime indicazioni su “tutela e sicurezza del lavoro” nella recente giurisprudenza costituzionale, in «Dir. lav. merc.», 2003, 194.
96
In particolare si v. F. Carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costituzione, op. cit., 74.
97
F. Carinci, Osservazioni sulla riforma del Titolo V della Costituzione, in Carinci-Miscione (a cura di), Il diritto del lavoro dal “Libro Bianco” al disegno di legge delega 2002, Milano, 2002, 7; rileva che se si optasse per tale interpretazione il riferimento alla sicurezza sarebbe ridondante anche Magnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, op. cit., 649.
98
Garilli, Diritto del lavoro e nuovo assetto dello Stato, in «Riv. giur. lav.», 2004, I, 350.
94
95
871
zioni normative di origine interna e comunitaria, ed allora il termine stesso potrebbe evocare il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, di cui
l’art. 2087 c.c. rappresenta senza dubbio alcuno l’architrave della disciplina 99. Da sottolineare ulteriormente che la legislazione antinfortunistica è assistita, in caso di violazione, da sanzioni di carattere penale: “non
è dunque ipotizzabile che su di essa si possa intervenire con regolazioni
dissimili su base regionale, in virtù del principio costituzionale (ex art. 25,
comma 2) di riserva di legge statale in materia penale” 100. Evidente, inoltre, un’ulteriore obiezione che può muoversi: se, come rilevato, l’art. 2087
c.c. rappresenta il fulcro delle obbligazioni contrattuali che il datore di lavoro assume in tema di sicurezza intesa come obbligo di predisporre le
migliori garanzie a difese dell’incolumità, fisica e psichica, dei lavoratori, la norma, destinata comunque a regolamentare un aspetto, per quanto
specifico, del rapporto di lavoro, disciplina un rapporto tra privati e sarebbe pertanto riconducibile alla materia ‘ordinamento civile’.
Di fronte a tali obiettive difficoltà ricostruttive, si è privilegiata un’attività interpretativa che abbandona l’ottica di un’analisi separata dei due
termini e che, viceversa, ne valuta il significato tramite un approccio integrato, alla stregua di un’endiadi riassuntiva di un medesimo concetto.
Converge su questa metodica la convinzione pressoché unanime della
99
L’area della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, tuttavia, è quella che meno si
presta ad essere compresa tra le materie di competenza legislativa concorrente. Militano a favore di tale conclusione alcune osservazioni: prima di tutto, la sicurezza del lavoro è diretta
espressione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e pertanto pretende un’applicazione uniforme dei suoi tratti sostanziali su tutto il territorio nazionale. In secondo luogo, la citata produzione normativa comunitaria impone una responsabilità primaria,
in merito alla sua trasposizione nell’ordinamento interno, da parte dello Stato si v., in particolare, Roccella, Il lavoro e le sue regole nella prospettiva federalista, op. cit., 506: “sarebbe alquanto stravagante, dunque, che possano crearsi le condizioni di un’applicazione differenziata da una Regione all’altra delle direttive comunitarie in materia: tenuto conto, oltre tutto, che
ad essere chiamato in causa davanti alla Corte di giustizia, nel contesto di un’eventuale procedura d’infrazione, sarebbe sempre e comunque lo Stato”.
100
Lai, Flessibilità e sicurezza del lavoro, Torino, 2006, 220. Il medesimo Autore, poco
oltre, 227, afferma che “la soluzione proposta non preclude del resto la possibilità di interventi
da parte delle regioni nella materia qui considerata. A titolo esemplificativo, le aree di intervento delle regioni e degli altri enti autonomi territoriali in materia di salute e sicurezza del lavoro
[…] potranno in primo luogo riguardare la garanzia di una efficace attività di informazione,
consulenza ed assistenza nei confronti delle imprese e dei lavoratori, assicurata direttamente
dall’ente pubblico territoriale o tramite un raccordo tra gli organismi a ciò deputati. Altro terreno di intervento è quello degli incentivi e delle norme premiali a sostegno delle iniziative aziendali, specie di piccola e media impresa, volte al miglioramento delle condizioni di igiene e sicurezza o finalizzati al riconoscimento ed alla diffusione di buone prassi applicative”, mentre
“altro aspetto di rilievo è poi quello relativo allo sviluppo della cultura della prevenzione”.
872
dottrina: l’ipotesi maggiormente qualificata del significato della materia
in esame, infatti, all’indomani della revisione costituzionale (ed oggi
molto più che una mera congettura dottrinale, per vero), interpreta la nozione in commento, pur tra numerose differenziazioni al suo interno, nel
senso che essa riguarderebbe innanzitutto il mercato del lavoro, soprattutto in considerazione dell’esperienza anteriore alla riforma del 2001.
Tale interpretazione, dotata di una indubbia razionalità ed organicità interne 101, presenta, come si accennava, profonde divergenze in merito alla nozione di mercato del lavoro accolta 102.
Ma parla anche di “ragionevole e per così dire “naturale” attribuzione alle Regioni, in
un progetto inteso a valorizzare l’intervento di queste ultime e delle autonomie locali (senza
però stravolgere l’assetto precedente)”, Lassandari, La disciplina del mercato del lavoro nel
nuovo disegno costituzionale, in «Riv. giur. lav.», 2002, 238.
102
Pur nella medesima tendenza ad intendere la materia in termini maggiormente “oggettuali”, infatti, ad avviso di alcuni essa comprenderebbe “la parte più propriamente amministrativa del diritto del lavoro (servizi per l’impiego, agenzie di mediazione e intermediazione, incentivi all’occupazione, promozione di commissioni di conciliazione individuali e collettive,
igiene e sicurezza del lavoro)”, (Cnel, Osservazioni e proposte, la riforma del Titolo V della
Costituzione, op. cit.), vale a dire la disciplina di attività amministrative di regolazione e controllo del mercato del lavoro che soddisfano un interesse immediato del lavoratore (servizi di
incontro tra domanda e offerta di lavoro, sostegno alle politiche attive), o che siano tese a verificare l’esatta applicazione delle norme a carattere pubblicistico come l’attività di vigilanza
(in questo senso, M.G. Garofalo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, op. cit., 410;
Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, op. cit., 80) e, conclusivamente, nelle quali il
soggetto pubblico sia titolare di una posizione di potere nei confronti dei privati. L’attribuzione alla competenza regionale della parte amministrativa del diritto del lavoro è stata censurata da chi l’ha ritenuta “un’espressione non solo equivoca, ma anche datata, dal momento che
non rappresenta compiutamente le moderne caratteristiche dell’intervento pubblico in materia
di lavoro, più rivolto alle politiche attive che a quelle passive, più incline alle tecniche regolative promozionali che a quelle vincolistiche”, Magnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, op. cit., 655, e pertanto ricomprende nella formula tutela e sicurezza del lavoro la disciplina di tutti i servizi – in qualsiasi forma erogati – di supporto all’ingresso o al ritorno di lavoratori nel mercato, quindi i servizi per l’impiego, le politiche attive all’avviamento delle componenti deboli, il miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione, il rispetto di standard di trattamento economico e normativo e di igiene e sicurezza, nonché la previdenza complementare ed integrativa con esclusione dei profili legati alla disciplina degli ammortizzatori
sociali (che rientrerebbero nella materia “previdenza sociale” di esclusiva spettanza dello Stato ex art. 117, comma 2, lett. o), Cost.): in questo senso, Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, op. cit., 76; si v., in proposito, anche Salomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 140, il
quale giustamente rileva che “le funzioni regionali considerate sono funzioni legislative e non
funzioni amministrative. Come tali esse non sono da svolgersi necessariamente tramite strumenti pubblicistici: l’ente territoriale Regione svolge qui un ruolo da protagonista nel processo di regolazione e non è necessariamente l’attore nell’attività di erogazione del servizio oggetto della regolazione stessa”.
101
873
L’adozione delle diverse accezioni della formula tutela e sicurezza
del lavoro, alle quali corrispondono differenti calibrazioni delle competenze regionali in materia di mercato del lavoro, implica, evidentemente,
modulazioni differenziate del riparto di competenze tra Stato e Regioni.
Ciò tuttavia non pare revocare legittimamente in dubbio che, in ogni caso, la collocazione della formula in discorso nell’ambito di legislazione
concorrente e la sua asserita inerenza al mercato del lavoro autorizzino la
regione ad attivarsi legislativamente, per lo meno, “per fornire una normativa unitaria e coordinata dei servizi, reali e monetari, di supporto
all’ingresso e al ritorno sul mercato del lavoro, all’avviamento delle componenti deboli, al miglioramento del livello qualitativo/quantitativo
dell’occupazione, al rispetto degli standard di trattamento economico e
normativo e di igiene e sicurezza” 103.
La formula tutela e sicurezza del lavoro, dunque, consentirebbe al
legislatore regionale di disciplinare in maniera differenziata il proprio
mercato del lavoro 104 che, in conformità al disposto dell’art. 4 Cost., necessariamente pretende una politica del lavoro differenziata al variare
della concreta situazione ambientale. Con riguardo a tali funzioni e alle
politiche del lavoro sono infatti integrati i parametri che legittimano una
differenziazione regionale delle regole che può giungere fino a lambire,
ma senza invadere, la disciplina privatistica del contratto di lavoro 105.
La lettura proposta della materia in discorso presenta indubbi vantaggi anche nell’ottica della sistematica generale del diritto. Al di là del
maggior grado di certezza che è in grado di offrire all’interprete alle pre103
Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, op. cit., 76; si v., ancora, l’autorevole posizione di Napoli, Disegno di legge delega e modifiche al Titolo V della Costituzione,
op. cit., 366, ad avviso del quale l’espressione “tutela e sicurezza del lavoro” “sta a significare che è demandata alle Regioni la legislazione che ha ad oggetto la protezione dei lavoratori
sul mercato del lavoro mediante la predisposizione di servizi per l’impiego e l’adozione di politiche attive del lavoro […] accanto alla formazione professionale, l’orientamento professionale e l’osservatorio del mercato del lavoro, già da tempo di spettanza regionale”.
104
Sottolinea che il diritto del lavoro non solo concerne il rapporto contrattuale, ma è
sempre più “organizzazione giuridica del mercato del lavoro”, Napoli, intervento al convegno
Diritto al lavoro e politiche per l’occupazione, in «Riv. giur. lav.», 1999, suppl. n. 3, 60.
105
In questa prospettiva, la preoccupazione che dovrebbe trovare soddisfazione sarebbe
individuare, in concreto, gli strumenti più efficaci per realizzare quel fine, “a sua volta come
mezzo al fine ulteriore della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale”. V. M.G. Garofalo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, op. cit., 409, il quale
avverte sostanzialmente che “si tratta di un problema di efficacia delle politiche, non di valorizzazione delle differenze”.
874
se con il confuso riparto di competenze normative attuato dal legislatore
costituzionale 106, essa consente di fornire copertura costituzionale alle riforme legislative ordinarie avviate con la legge n. 59 del 1997, tramutando in competenza legislativa le potestà essenzialmente amministrative
concesse alle Regioni ed agli enti locali dal d.lgs. 469/1997. L’esistenza
di un nesso tra le due riforme in senso federalista del nostro sistema “può
ritenersi acquisita” 107, posto che le disposizioni normative da ultimo citate hanno predisposto una disciplina sul decentramento in base ad una
“Costituzione materiale provvisoria” 108, in attesa della riforma costituzionale (da lì a breve a venire) ritenuta necessaria ed idonea ad imprimere a quella amministrativa una validazione formale ex post 109.
La riforma costituzionale attua una vera e propria attribuzione e non
un mero “conferimento” di potestà: appare pertanto condivisibile l’opinione di chi ha rilevato che “costituisce una soluzione corretta, nell’ambito di una revisione costituzionale di carattere devolutivo e non regolativo come quella del 2001, aver costituzionalizzato le recenti acquisizioni regionali di competenza fondate sulla più incerta base degli atti di legislazione ordinaria” 110. Ciò costituirebbe l’ambito (giuslavoristico) in
cui si riflette lo spirito di maggiore apertura nei confronti del legislatore
regionale che anima il revisore costituzionale, determinando la transizione da una competenza amministrativa devoluta dal legislatore statale ad
una competenza legislativa, seppur concorrente, in un rapporto di continuità, quindi, con il disegno di decentramento delle funzioni amministrative del mercato del lavoro condotto con il d.lgs. 469/1997 111.
106
Che ha fatto uso, ad avviso di Albi, di un “discutibile livello di approssimazione”, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neoregionalismo, in «Riv. it. dir. lav.», 2005, II, 531.
107
D. Garofalo, Mercato del lavoro e regionalismo, in Di Stasi (a cura di), Diritto del
lavoro e federalismo, op. cit., 231.
108
Per la relativa nozione, Mortati, La Costituzione materiale, 1942.
109
Napoli, Disegno di legge delega e modifiche al Titolo V della Costituzione, op. cit., 365.
110
Gianfrancesco, La ripartizione di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro, op. cit., 535. Lo stesso A. rimanda a Mangiameli, Sull’arte di definire le materie dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, op. cit., 342, per una valutazione
della riforma costituzionale nei termini di ampliamento delle preesistenti competenze regionali ed in modo da escludere riappropriazioni di funzioni da parte statale.
111
Essendo collocata in regime di competenza concorrente, la capacità normocreativa
delle Regioni rimane pur sempre limitata dalla delimitazione dei principi fondamentali ad opera del legislatore statale. Per vero, tuttavia, la dottrina non si è esercitata approfonditamente
nella loro individuazione, stante l’obiettiva difficoltà preliminare di comprendere l’ontologica
distinzione del principio dalla norma di dettaglio. In termini di contenuto minimo dei principi
fondamentali in tema di tutela nel mercato del lavoro si è ipotizzato che esso assorba le quote
d’obbligo e di riserva per i disabili e i lavoratori delle c.d. fasce deboli, il principio di non di-
875
Infine, un’osservazione conclusiva: come già osservato, la competenza concorrente in materia di tutela e sicurezza del lavoro, traducendosi nella gestione del mercato del lavoro, imporrebbe un’azione dei pubblici poteri regionali destinata a favorire le condizioni di massima occupazione
ma, allo stesso tempo, limita a ciò la competenza degli enti locali, confermando in tal modo, in altre parole, un tratto generale tipico della competenza legislativa regionale, circoscritta “nell’ambito della disciplina
dell’azione amministrativa” 112, nell’area, quindi, del diritto pubblico 113.
7. La sentenza della Consulta n. 50 del 2005
7.1. Le problematiche introduttive, i ricorsi regionali e le questioni preliminari
La sentenza Corte Cost. 28 gennaio 2005, n. 50 114 ha ad oggetto il
giudizio di legittimità costituzionale, promosso dalle Regioni Marche,
Toscana, Emilia-Romagna, Basilicata e dalla Provincia autonoma di
Trento, della riforma del mercato del lavoro operata con la legge delega
n. 30/2003 ed il successivo d.lgs. 276/2003 (novellato dal d.lgs. 251/2004),
gravemente lesiva, ad avviso delle Regioni ricorrenti, delle competenze
loro attribuite dall’art. 117 Cost., tanto nelle (asserite) materie oggetto di
competenza esclusiva regionale, quanto nelle materie di competenza
concorrente tra Stato e Regioni 115.
Le Regioni ricorrenti non pongono mai in discussione l’esito del
scriminazione, l’assunzione nominativa, l’ammissibilità della gestione dei servizi da parte dei
privati. V. al riguardo Tosi, I nuovi rapporti tra Stato e Regioni: la disciplina del contratto di
lavoro, op. cit., 601 ss.; la stessa Consulta ha mostrato di voler procedere ad una ricognizione
empirica dei principi fondamentali, calibrandone la precisione in funzione della materia e della evoluzione della normativa: si v. il § 3 delle considerazioni in diritto della sentenza n. 50 del
28.1.2005, oggetto di ampia analisi nel capitolo successivo.
112
Falcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, op. cit., 1252. Il medesimo autore, in Le funzioni, in Aa.Vv., Diritto Regionale. dopo le
Riforme – Parte Terza, Bologna, 2003, 135, osservando le materie per cui è escluso qualsiasi
tipo di intervento da parte della Regioni, afferma che “ci si avvede che l’oggetto primario e
quasi esclusivo delle funzioni regionali è costituito […] dalla disciplina delle politiche pubbliche e dai rapporti amministrativi in genere”.
113
Si v., in particolare, Corte Cost. 13 giugno 1988, n. 691, cit.
114
Vedila, ad esempio, pubblicata in «Riv. it. dir. lav.», 2005, II, 525.
115
La Corte, peraltro, ha disposto la trattazione separata delle questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 8 e art. 1, comma 2, lett. d) prima parte, della legge n. 30 per essere discusse ed esaminate insieme a quelle aventi ad oggetto le disposizioni del decreto legislativo 23
876
lungo dibattito dottrinale che ha affaticato la dottrina all’indomani della
riforma costituzionale 116.
Semmai, obiettivo delle ricorrenti è vedersi garantito, principalmente, quello spazio normativo già a suo tempo riconosciuto loro (ed agli enti locali) dal d.lgs. n. 469/1997, derivato dal “federalismo amministrativo
a Costituzione invariata” inaugurato dalla c.d. Legge Bassanini, n.
59/1997, e che oggi troverebbe un autonomo referente costituzionale nella voce “tutela e sicurezza del lavoro”, e rivolgono pertanto le loro doglianze a presunte violazioni delle loro competenze normative in tema di
politiche attive del lavoro, mercato del lavoro, servizi per l’impiego,
agenzie di mediazione e di lavoro interinale, ammortizzatori sociali e incentivi all’occupazione, nonché dei contratti a contenuto formativo. Come è stato osservato, le Regioni così facendo “non spiccano per originalità” 117, tuttavia occorre tenere presente il radicale revirement che, nel
breve volger di un paio di anni, il medesimo soggetto (vale a dire la maggioranza parlamentare di centro destra) ha compiuto sul medesimo tema,
passando come si è rilevato, da un’impostazione teorica largamente debitrice di convinzioni federaliste 118 ad un, invece, concreto esercizio di
poteri normativi (ritenuto) dal sapore fortemente accentratorio 119-120.
aprile 2004, n. 124 in materia di riordino delle funzioni ispettive. Tali aspetti sono trattati nella
sentenza della Consulta n. 384 del 2005, vedila pubblicata in «Prev. ass. pubbl. priv.», 2006, 87.
116
In altre parole, esse non nutrono dubbio alcuno che l’impianto di competenze normative, così come ora previsto dalla Carta repubblicana, non consenta loro alcuna ingerenza per
quanto attiene alla dimensione contrattualistica del rapporto di lavoro, e convengono anch’esse che quest’ultimo aspetto inerisca alla (e trovi la sua sede naturale nella) voce “ordinamento
civile”, di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost. Così come rilevato dalla stessa Consulta, la
quale nel punto 1 delle Considerazioni in fatto della sentenza in commento afferma: “le ricorrenti non contestano, peraltro, la competenza esclusiva dello Stato prevista, in materia di “ordinamento civile”, dall’art. 117, comma 2, lett. l), Cost., la quale giustifica la disciplina di principio relativa ai rapporti interprivati che si instaurano nell’ambito della contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro; rilevano, però, che la legge in questione è tale, in concreto, da interferire in modo illegittimo con la citata competenza residuale delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale”.
117
Filì, La “Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata. Appunti dopo il decreto correttivo ed il vaglio costituzionale, in «Lav. giur.», 2005, 406.
118
Convinzione, come sopra evidenziato, fatta propria nell’originaria impostazione governativa espressa nel Libro Bianco.
119
Ci si riferisce, naturalmente, al contenuto della legge delega e, conseguentemente, del
decreto delegato.
120
In relazione alle censure rivolte alla disciplina del mercato del lavoro si v., tra gli altri,
Gragnoli, sub. art. 3, in Gragnoli-Perulli, La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli
contrattuali, in Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Padova, 2004, 84 ss.; Angiolini,
Le agenzie del lavoro tra pubblico e privato, in Ghezzi (a cura di), Il lavoro tra progresso e merci-
877
7.2. Ordinamento civile e tutela e sicurezza del lavoro
Escluse piccole operazioni di maquillage, il cui impatto risulta del
tutto irrilevante, la Corte Costituzionale promuove in modo inequivoco
la riforma 121 ed emette, al riguardo, una sentenza dalle dimensioni piuttosto cospicue 122, valutata, nel suo impianto sistematico, “di non agevole lettura” 123, ma “tutto sommato lineare nei principi affermati, [e che] ha
fatto strame delle censure sollevate, ribadendo e talora radicalizzando la
chiave di lettura minimalista del federalismo introdotto dalla legge costituzionale n. 3/2001” 124.
La Consulta privilegia senza alcuna esitazione un assetto di competenze tale da ridurre drasticamente gli spazi disponibili per l’esercizio
dell’autonomia legislativa regionale. L’impostazione adottata dalla Corte, tuttavia, non appare scevra da rilievi critici: con metodo “poco argomentativo, tendenzialmente fideistico” 125, la Consulta prende posizione
ficazione, Commento critico al d.lgs. n. 276/2003, Roma, 2004, 34 ss.; per quanto concerne i contratti con finalità formative D’Onghia, I contratti con finalità formativa: apprendistato e contratto di inserimento, in Curzio, Lavoro e diritti dopo il d.lgs. n. 276/2003, Bari, 2004, 279 ss.
121
La promozione citata nel testo si riferisce esclusivamente all’esame di costituzionalità
dell’impianto normativo, sorta di “convalida” della legge operata dalla Consulta (v. Miscione,
Introduzione, in Carinci (coord. da), Il correttivo alla legge di riforma del mercato del lavoro,
Milano, 2005, XX); “su questo e non su altro la Corte si è pronunciata”: Curzio, La legge 30
due anni dopo alla luce delle pronunce giurisprudenziali, in «Riv. giur. lav.», 2006, I, 289.
122
Il notevole numero delle questioni trattate dalla Corte è certamente alla base della lunghezza della sentenza, “infrequente per una pronuncia del giudice delle leggi, e [dovuta] non
certo alla ricchezza delle argomentazioni esposte dalla Consulta, che, su molti punti, al contrario, motiva succintamente, se non apoditticamente, una decisione, pure nel merito […] ampiamente condivisibile”, Scagliarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in tema
di regolazione del mercato del lavoro, in «Dir. rel. ind.», 2006, 183; Salomone, Il diritto del
lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale,
op. cit., 190, nota 68, attribuisce la scarsa attenzione dedicata dalla sentenza alla ricostruzione
teorica “dei diversi problemi sul tappeto” alla circostanza che “l’estensore della sentenza in
questione sia un magistrato, un pratico e non un teorico del diritto”.
123
Malfatti, La Corte Costituzionale al cospetto delle deleghe in materia di lavoro:
quando la decisione (e la relativa massimazione) diventa difficile, in «Foro it.», 2006, I, 2,
369, la quale addebita alla sentenza una mancanza di scorrevolezza “anche per una scelta redazionale che suscita qualche perplessità, perché determina una sorta di esame ad intermittenza delle norme censurate ed una trattazione altrettanto sfilacciata dei dubbi di costituzionalità,
conducendo tra l’altro ad una serie di evidenti errori, alcuni di carattere materiale, altri di natura sostanziale”, che l’a. elenca nella sua trattazione.
124
Garilli, La riforma del mercato del lavoro al vaglio della Corte Costituzionale, in
«Riv. Giur. Lav.», 2005, 441.
125
Filì, La “Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata. Appunti dopo il decreto correttivo ed il vaglio costituzionale, op. cit., 407.
878
e riconduce il rapporto contrattuale di lavoro alla materia “ordinamento
civile”, ma sembra esimersi dal sostanziale momento motivazionale di
tale scelta, parimenti operando ove fornisce una propria valutazione del
significato della espressione ‘tutela e sicurezza del lavoro’ 126. L’iter argomentativo sviluppato dalla Corte sembra palesare una scelta ideologica che si sovrappone al percorso giuridico vero e proprio: afflitta dalle
medesime preoccupazioni della dottrina dominante, vale a dire evitare la
frammentazione localistica e ricondurre la disciplina contrattuale del
rapporto di lavoro al rassicurante approdo della competenza esclusiva
statale rappresentato dall’‘ordinamento civile’, la Consulta pare richiamare tutte le argomentazioni addotte a sostegno di tale obiettivo. Non solo, quindi, l’ordinamento civile, ma anche la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali 127, nonché
il fondamentale principio di uguaglianza 128, vengono adoperati, in assenza di un esplicito referente normativo, a difesa di un assetto che se da un
lato prevede e valorizza la differenziazione anche normativa, dall’altro
lato non può tollerare la rottura dell’uniformità di trattamento, assicurata
dalla legge statale e posta a presidio dell’eguaglianza e della tutela dei diritti, individuali e collettivi. Strumenti, nel ragionamento della Corte,
funzionali a scardinare, ove puntualmente ed opportunamente calibrati,
la pericolosa formula ‘tutela e sicurezza del lavoro’.
La Corte procede quindi, nel merito, ad un’analisi dettagliata delle
censure di legittimità costituzionale sollevate, nonostante su alcune di esse non indugi con particolare attenzione, limitandosi a liquidarle con poche battute ed a statuire la legittimità costituzionale delle relative disposizioni. La Consulta, infatti, individua il limite invalicabile per il legislatore regionale nella voce ordinamento civile, vale a dire nell’esigenza di
uniformità territoriale legata alla garanzia del rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) e alla parità di tutti i cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.): adattamenti localistici delle tutele determinerebbero
126
Formula di incerte ed oscure origini “che pare emergere dal nulla”, meritevole probabilmente di ben più approfondita indagine cognitiva, v. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, op. cit., 52.
127
Appare evidente l’estrema genericità di tali nozioni, che non sembrano rappresentare
“materie”, ma fasci di rapporti, di competenza esclusiva statale, di ambiti concettuali che “definiscono il riparto di competenze statali e regionali non già in ragione della tipologia di beni,
relazioni, situazioni sociali su cui le norme incidono, bensì in ragione della tipologia di valori,
principi, tecniche, obiettivi che le norme sottendono”: Roppo, Diritto privato regionale? op.
cit., 553.
128
V. Ghirardi, La Corte Costituzionale interviene sulla competenza legislativa regionale in materia di lavoro, in «Riv. it. dir. lav.», 2004, II, 241.
879
inevitabilmente una rottura di tali principi; in altre parole, “i legislatori
non possono legare la persona all’inevitabile destino di un luogo, giacché
la garanzia dei beni fondamentali della persona non può conoscere variazioni territoriali ed è pertanto inammissibile uno statuto giuridico differenziato dei diritti fondamentali” 129. La Corte, soprattutto, ribadisce, in
occasione di un passaggio argomentativo che dovrà essere riesaminato
afferendo anche ad una differente tematica assai rilevante ed affrontata
nella sentenza, che la categoria generale dei rapporti di lavoro appartiene
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, inerendo alla voce “ordinamento civile”, sgombrando il campo da ogni possibile malinteso.
Replicando, infatti, alla lamentata illegittimità dei criteri fissati con l’art.
3 della legge n. 30 (con oggetto le norme per promuovere il ricorso a prestazioni di lavoro a tempo parziale ritenute idonee a favorire l’incremento dei tassi occupazionali) 130 sostenuta dalla Regione Marche secondo
cui il contratto part time sarebbe una misura di politica attiva e quindi rientrerebbe nella competenza concorrente in materia di tutela e sicurezza
del lavoro, la Consulta afferma che la disciplina intersoggettiva di qualsiasi rapporto di lavoro rientra nella materia “ordinamento civile” ed appartiene quindi alla competenza esclusiva statale, a prescindere dalle finalità perseguite dalla normativa in questione 131. Le Regioni, in altre paAlbi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neoregionalismo, op. cit., 535-36.
I criteri sottoposti al vaglio di costituzionalità erano: lett. a) agevolazione del ricorso
a prestazioni di lavoro supplementare nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale cosiddetto orizzontale; lett. b) agevolazione di forme flessibili ed elastiche di lavoro a tempo parziale cosiddetto verticale e misto; lett. c) estensione delle forme flessibili ed elastiche anche ai contratti a
tempo parziale a tempo determinato.
131
Viene conseguentemente rigettato il motivo di doglianza in merito al part-time: non
pare sufficiente, ad avviso della Corte, che la normativa miri a favorire l’occupazione per farla rientrare nella voce “tutela e sicurezza del lavoro”. Come sottolinea Barbieri, Il diritto del
lavoro tra competenze statali e competenze regionali secondo la Corte Costituzionale, in
«Mass. giur. lav.», 2005, 290, “le finalità perseguite da una norma non valgono, infatti, a modificarne la natura, essendo il fine perseguito estraneo al contenuto della norma. Se, dunque,
essa incide sulla disciplina intersoggettiva dei rapporti di lavoro non può che rientrare nella legislazione esclusiva dello Stato, benché utile ai fini della tutela del lavoro”. V., tuttavia, l’opinione di Trojsi, La potestà regionale in materia di lavoro, in «Riv. giur. lav.», 2007, I, 656, ad
avviso della quale “senza dubbio corretto è l’intento della Corte di circoscrivere il campo della “tutela del lavoro”, al fine di evitare l’indeterminatezza di questa; ed è parimenti condivisibile l’esclusione dall’ambito di tale materia degli strumenti e delle discipline attinenti alla regolamentazione dei rapporti interprivati e quindi all’ “ordinamento civile”. Quello che non
convince fino in fondo è l’argomentazione utilizzata dalla Corte per ottenere tali effetti: sostenendo soltanto che una disciplina deve essere valutata “per ciò che dispone, e non già in base
alle finalità perseguite dal legislatore”, la Corte considera, in realtà, semplicemente alternativi
l’“ordinamento civile” e la “tutela del lavoro” (li pone cioè sullo stesso piano logico-cronolo129
130
880
role, non possono occuparsi di una materia che, inerendo al rapporto contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore, concerne il diritto privato, di
esclusiva competenza statale 132.
La parte fondamentale della sentenza è quella che la Corte dedica
all’esame della voce “tutela e sicurezza del lavoro” ed alla regolamentazione e disciplina del mercato del lavoro, oggetto, ad avviso delle Regioni ricorrenti, di illegittimo intervento ad opera del legislatore statale con
la legge delega prima, e con il decreto delegato poi. Il modello organizzativo predisposto dal legislatore statale è, invece, ad avviso della Consulta, pienamente rispettoso del riparto di competenze, con l’unica e poco rilevante eccezione dell’art. 22, comma 6, del d.lgs. 276, per contrarietà alle disposizioni costituzionali in materia di uguaglianza, di diritto
al lavoro, di eccesso di delega, nonché di lesioni delle prerogative regionali in materia legislativa ed amministrativa 133.
A parte tale marginale declaratoria di incostituzionalità, la Corte valuta conforme a Costituzione l’impianto delineato, promuovendo la riforma del mercato del lavoro, per lo meno sotto lo stretto scrutinio del giudizio di legittimità costituzionale. In particolare, prendendo posizione sulla
censura avente ad oggetto i servizi per l’impiego (collocamento, pubblico
gico), non fornendo alcun criterio interpretativo coordinatore del rapporto tra le materie; non
individua, in sostanza, la successione logica del ragionamento, il percorso da seguire nella “inclusione/esclusione” dagli ambiti dell’art. 117 Cost., non aiutando in tal modo a capire quale
sia la vera relazione tra una materiale competenza concorrente Stato-Regione, e lasciando nella più totale ambiguità la valenza da attribuire alla tutela e sicurezza del lavoro”.
132
Ad avviso di Vallebona, Leggi regionali ed ordinamento del lavoro, in «Mass. giur.
lav.», 2007, 4, 229, ciò avviene “opportunamente”. Ma v. l’opinione dissenziente di Salomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 192, il quale ritiene l’argomento della Corte “di rilievo, eppure non
invincibile, perché fondato sul presupposto – […] non del tutto condivisibile – che al legislatore regionale debba sempre ritenersi precluso qualsiasi intervento, anche quando esso sia in
stretta connessione con la dimensione locale delle politiche occupazionali e di sviluppo del
singolo territorio infra-statuale”.
133
La norma dichiarata incostituzionale veniva a prevedere che nelle ipotesi di fornitura
professionale di manodopera non si applicasse la riserva stabilita in materia di assunzioni obbligatorie, nonché la riserva di cui all’art. 4-bis, comma 3, del d.lgs. 181/2000. Tale disposizione stabilisce espressamente che le Regioni possano prevedere che una quota delle assunzioni
effettuate dai datori di lavoro privati e dagli enti pubblici economici sia riservata a particolari
categorie di lavoratori a rischio di esclusione sociale. La Consulta ritiene irragionevole la deroga introdotta “rispetto a un principio fondamentale, [e] lede, nel contempo, le attribuzioni di
competenze regionali. Pertanto, rilevato che la disposizione considerata dalla norma censurata concerne poteri normativi delle Regioni – sui quali la stessa deroga viene a incidere, limitandoli – non si è potuto che dichiarare l’incostituzionalità del comma de qua”, Parisi, La costituzionalità della riforma Biagi, in «Guida lav.», 2005, 7, 29-30.
881
e privato, e somministrazione di manodopera, art. 1, comma 1, l. n.
30/2003, ovvero la regolazione e organizzazione del mercato del lavoro
regionale, art. 3, comma 2, d.lgs. n. 276/2003), ad avviso dei giudici costituzionali “quale che sia il completo contenuto che debba riconoscersi
alla materia ‘tutela e sicurezza del lavoro’, non si dubita che in essa rientri la disciplina dei servizi per l’impiego ed in specie quella del collocamento” . Peraltro, già ai sensi dell’art. 1 della legge n. 59/1997, il d.lgs. n.
469/1997, a Costituzione invariata, aveva conferito alle Regioni ed agli
enti locali le “funzioni e i compiti relativi al collocamento e alle politiche
attive del lavoro, nell’ambito di un ruolo generale di indirizzo, promozione e coordinamento dello Stato”. Ciò indurrebbe fondatamente a ritenere
che la materia disciplinata dal Titolo II del d.lgs. n. 469/1997 non possa
non rientrare tra le materie di competenza concorrente delle regioni. E
conseguentemente, alle Regioni spetterebbero compiti e funzioni che contemplino non solo l’organizzazione amministrativa dei servizi per l’impiego, “ma l’intero asse delle politiche attive del lavoro rivolte all’inserimento professionale degli inoccupati e disoccupati con particolare attenzione ai giovani, alle donne e ai lavoratori svantaggiati”.
La Consulta, pertanto, tramite tale piuttosto sfuggente valutazione –
che lascia, purtroppo, ampio margine all’immaginazione dell’interprete
– consente per lo meno di intendere che nella voce “tutela e sicurezza del
lavoro” rientrano gli istituti finalizzati a favorire la ricerca del lavoro e
l’incontro tra domanda e offerta, e quindi in particolare i servizi per l’impiego. Ma se così fosse, la delega legislativa avrebbe dovuto limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali, con attribuzione alle Regioni del compito di tradurre tali principi in norme di dettaglio.
Proprio a questo punto del momento motivazionale della sentenza irrompe, nel ragionamento della Corte, la necessità di rimarcare la funzione tipica del collocamento e degli altri strumenti funzionali alla ricerca di
occupazione, i quali perseguono, secondo una ben nota definizione,
“l’obiettivo della tutela dell’interesse collettivo […] dei lavoratori al sostegno e alla promozione dell’occupazione […], costituzionalmente protetta attraverso il riconoscimento del diritto al lavoro” 134. La Corte, infatti, afferma recisamente che “essendo i servizi per l’impiego predisposti
alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro 135, possono verificarsi i preGhera, Lavoro (collocamento), in «DDPComm.», 1992, vol. VIII, 103.
Non potendosi negare, ad avviso di Dell’Olio, Mercato del lavoro, decentramento,
devoluzione, in «Arg. dir. lav.», 2002, 176, “che tale sia il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), o meglio la sua quota di effettività, che appunto deve essere promossa con l’organizzazione di un
efficiente mercato”.
134
135
882
supposti per l’esercizio della potestà statale di determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., come pure che la disciplina dei soggetti comunque abilitati a svolgere opera di intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato per la tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e),
Cost.)” 136. D’altro lato, come evidenziato, la Corte non si esime dal rilevare che, ad ogni modo, l’attività di intermediazione può essere osservata
dall’angolo visuale del soggetto che la esercita, e quindi sotto l’ottica imprenditoriale: in questo senso, come qualsiasi altra libera attività economica, anche l’intermediazione è soggetta alle norme che tutelano la concorrenza, e quindi la disciplina dei soggetti che esercitano tale attività può
esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato 137.
Se il lavoro rappresenta un diritto sociale, spetta dunque allo Stato la
predisposizione dei mezzi necessari volti alla realizzazione di tale diritto, vale a dire tramite strategie per l’occupazione e politiche attive 138.
Dunque anche la regolazione del mercato del lavoro ricade nell’ambito
di operatività del legislatore statale: e ciò in virtù dell’operatività della
Piuttosto evidenti risultano, in tale contesto, i richiami alla garanzia all’interno del
mercato del lavoro nazionale a prestazioni adeguate e uniformi per l’accesso al lavoro, a fronte di “una gamma di strumenti di intermediazione individuati nei modelli predefiniti sul piano
strutturale e funzionale delle agenzie, con un unico regime autorizzatorio e di accreditamento”, in modo tale da rispondere all’esigenza di “garantire su un mercato del lavoro, che deve
avere dimensioni almeno nazionali, prestazioni adeguate e uniformi per l’accesso al lavoro”:
Garilli, La riforma del mercato del lavoro al vaglio della Corte Costituzionale, op. cit., 444,
il quale aggiunge che “la scelta, poi, di affidare i servizi in questione anche a privati comporta
la necessità di tutelare con norme statali un’attività di natura economica in regime di concorrenza”: v. oltre, nel testo.
137
Si v. però la critica di Salomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale,
esperienze modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 198, nota 93: “ragionamento, questo, invero resistibile. Con tale argomentazione, infatti, si finisce ancora una volta per
riconoscere che il legislatore ordinario può discrezionalmente incidere sulla ripartizione della
competenza fissata in Costituzione, riconducendo di fatto una disciplina dall’una all’altra “etichetta” costituzionale”.
138
Si v. Mengoni, I diritti sociali, in «Arg. dir. lav.», I, 1998, 6, ad avviso del quale il diritto al lavoro espresso dall’art. 4, comma 1, Cost., “non è soltanto un principio fondamentale
che impone ai pubblici poteri una politica economica di promozione della massima occupazione, ma obbliga lo Stato a istituire servizi pubblici di formazione e di orientamento professionale nonché di avviamento al lavoro, cioè di mediazione della domanda e dell’offerta di lavoro. Questi servizi, erogatori di prestazioni pubbliche di carattere (non direttamente) economico, concorrono pure a integrare i presupposti fattuali di possibilità di esercizio del diritto di
scelta della professione, sancito dall’art. 4, comma 1, che di per sé presenta una struttura uguale a quella dei diritti di libertà”.
136
883
competenza trasversale in merito alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” 139.
Si aggiunga, ulteriormente, che l’art. 120 Cost. vieta l’istituzione di
barriere alla circolazione dei lavoratori tra le Regioni e ciò non può che
costituire un ulteriore impulso per il legislatore statale a regolare in modo uniforme la materia, per lo meno onde impedire intollerabili sperequazioni territoriali. In definitiva, “la stessa materia del collocamento,
astrattamente ricompresa nella potestà concorrente, è dunque soggetta a
limitazioni derivanti da competenze statali trasversali incidenti su di essa, giustificandosi, così, l’adozione di disposizioni di dettaglio” 140 e,
quindi, “poiché il diritto al lavoro è diritto essenziale e primario di tutti i
cittadini della Repubblica, il diritto all’accesso al mercato del lavoro deve essere garantito a livello nazionale in egual misura in tutto il territorio
dello Stato, sicché risulta comunque giustificata la compressione delle
potestà legislative e regolamentari delle Regioni” 141.
Così, se l’art. 4 del d.lgs. 276/2003 esclude ogni prerogativa regionale, attribuendo all’esclusiva competenza statale la disciplina dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di intermediazione, sia sotto il profilo dell’adozione del provvedimento sia sotto quello della disciplina della
sua emanazione, tale assetto viene ritenuto assolutamente legittimo dalla
Corte: il regime autorizzatorio o di accreditamento unico per le agenzie
per il lavoro costituisce idoneo criterio direttivo “a dar luogo alla formu139
Altrimenti detto, “se è vero che astrattamente la disciplina recata dalla riforma è inquadrabile nella tutela e sicurezza del lavoro, è altresì vero che lo Stato ben può – ed anzi deve –
intervenire su di essa invadendo la competenza regionale, ogniqualvolta si manifesta la necessità di garantire quel nucleo minimo del diritto sociale al lavoro coessenziale al concetto stesso
di cittadinanza, che in quanto tale deve essere assicurato, in condizioni di eguaglianza, sull’intero territorio nazionale”: Scagliarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in
tema di regolazione del mercato del lavoro, op. cit., 186. Cfr. Caruso-Alaimo, Il conflitto tra
Stato e Regioni in tema di lavoro e la mediazione della Corte Costituzionale: la recente giurisprudenza tra continuità e innovazione, in «Riv. it. dir. lav.», 2007, II, 574, ad avviso dei quali
la Consulta considera “il proprio ruolo come un ruolo di mediazione tra esigenze di unità e di
autonomia in un ordinamento considerato ormai multilivello. Sembra così schierarsi nettamente a favore del primo corno dell’alternativa (l’eguaglianza formale) quando rilevano questioni
riconducibili al rapporto di lavoro […], meno quando si tratta di questioni inerenti l’organizzazione amministrativa del mercato del lavoro e, in particolare, i sistemi regionali di servizi
all’impiego: in tali casi essa riesce meglio ad assecondare le esigenze di differenziazione normativa su base regionale, pur non mancando, anche qui, di sposare (attraverso l’uso delle “competenze trasversali”) una certa tendenza al centralismo del legislatore nazionale”.
140
Scagliarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in tema di regolazione del mercato del lavoro, op. cit., 186.
141
Leone D’Agata, C.d. riforma Biagi e federalismo: la Corte Costituzionale si pronuncia, in «D&L, Riv. crit. dir. lav.», 2005, 79.
884
lazione di un principio fondamentale, sul quale basare la disciplina della
complessa materia” 142.
Connessa alla scelta dell’unicità del regime di accreditamento e coessenziale ai principi fondamentali suindicati è, infatti, la scelta dell’albo
delle agenzie del lavoro nelle sue diverse articolazioni di cui all’art. 4,
comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, nonché quella relativa ai procedimenti
di rilascio, di verifica del corretto andamento e di revoca dell’autorizzazione (e di “ogni altro profilo relativo all’organizzazione e alle modalità
di funzionamento dell’albo”) di cui all’art. 4, comma 2, d.lgs. 276 del
2003 143.
Coerente è quindi anche la dichiarazione di infondatezza delle censure riferite ai restanti commi dell’art. 4, d.lgs, n. 276/2003, nonché di
quelle riferite ai commi dal primo al settimo dell’art. 6, d.lgs. 276/2003
“in quanto la disciplina è espressione ragionevole del principio di un solo mercato nazionale del lavoro, rispetto al quale la previsione di ambiti
regionali è complementare e ausiliaria” 144.
Ne deriva che il ruolo delle Regioni sarebbe puramente eventuale ed
142
In altre parole, l’unico regime giuridico predisposto per chiunque voglia svolgere tale attività costituisce misura necessaria e strumentale alla garanzia che il mercato del lavoro
abbia dimensioni nazionali, motivo che trova esplicito riconoscimento costituzionale nell’art.
120, “la cui osservanza costituisce la premessa perché siano garantiti anche altri interessi costituzionalmente garantiti, quali quelli inerenti alle prestazioni essenziali per la realizzazione
del diritto al lavoro da un lato, e allo svolgimento di attività che possono avere natura economica in regime di concorrenza dall’altro. In buona sostanza la normativa di dettaglio è giustificata da ragioni superiori, attinenti a interessi costituzionalmente garantiti”: Leone D’Agata,
c.d. riforma Biagi e federalismo: la Corte Costituzionale si pronuncia, op. cit., 81. Ancora, la
Corte rileva che il regime di autorizzazione e accreditamento delle agenzie per il lavoro è connesso all’attività svolta dai soggetti cui si riferisce ossia alla somministrazione del lavoro e, per
questa via, alla disciplina sostanziale di matrice civilistica che la riguarda, e al regime sanzionatorio previsto in caso di violazione della mediazione privata nei rapporti di lavoro: materie
tutte che rientrano in competenze esclusive dello Stato. Viene qui introdotto dalla Corte un argomento che costituirà un rilevante passaggio motivazionale della sentenza n. 384 del 2005,
sui cui ampiamente nel prosieguo del capitolo.
143
V. Vizioli, La giurisprudenza costituzionale sulla ripartizione della competenza in
materia di collocamento tra Stato e Regioni, in «Riv. it. dir. lav.», 2007, II, 489, la quale conclusivamente afferma come “l’intelaiatura generale del Titolo II del d.lgs. n. 276/2003 disegni
una competenza legislativa dello Stato pienamente rispondente al nuovo riparto di attribuzioni
stabilito dal Titolo V Cost., in quanto, per un verso stabilisce principi fondamentali sui quali
dovrà svolgersi la competenza legislativa concorrente delle Regioni e, per altro verso, assicura la conformità della disciplina alla realizzazione dei principi di concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e) e al godimento delle prestazioni indispensabili in materia di diritti civili e sociali (art. 117, comma 2, lett. m)”.
144
A. Pessi, Formazione e politiche attive dell’impiego nella giurisprudenza costituzionale, in «Arg. dir. lav.», 2005, 330.
885
integrativo e ad ogni modo limitato alla possibilità di regolamentare e
promuovere un mercato del lavoro in ambito locale. Lo Stato, infatti, sarebbe l’unico soggetto abilitato a poter operare quel bilanciamento di interessi contrapposti ma tutti contestualmente e parimenti tutelati a livello costituzionale. Se, infatti, lo Stato ha l’onere di garantire a tutti i cittadini le condizioni fondamentali per l’esercizio del diritto al lavoro di cui
all’art. 4 della Carta costituzionale, “le Regioni più virtuose o che dispongono di maggiori disponibilità hanno la possibilità di integrare – e
non derogare – le tutele assicurate dallo Stato” 145.
8. Considerazioni conclusive
La sentenza n. 50 del 2005 riveste un’importanza notevole non solo
per il contributo che essa arreca rispetto alla definizione delle materie
contenute nel catalogo costituito dall’art. 117 Cost. (almeno per quanto
attiene alle materie di contenuto lavoristico), ma anche perché essa imposta in una direzione inequivoca l’impatto della riforma costituzionale del
2001 sul diritto del lavoro italiano. Come verificato, infatti, la pronuncia
della Corte affonda definitivamente tanto le teorie panregionaliste che a
suo tempo trovarono accoglimento nel Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia 146, quanto quelle posizioni dottrinali, per vero assai meno radicali, che consideravano la voce “tutela e sicurezza del lavoro” – contenuta nell’elenco delle potestà normative concorrenti regionali – capace di
ampliare notevolmente la sfera di intervento dei legislatori regionali 147.
L’assetto normativo delineato dalla sentenza, infatti, sterza incisivamente ed opta senza mezzi termini in favore di una regolazione statale
che, peraltro, non si limita ai meri profili contrattuali, ma coinvolge perLeone D’Agata, c.d. riforma Biagi e federalismo: la Corte Costituzionale si pronuncia, op. cit., 81.
146
V. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, op. cit., 81, ad avviso del quale, in fin dei conti, la vicenda mostra come “un Governo di qualsiasi colore è portato inevitabilmente a coltivare ed esprimere una sua forte vocazione centralista”.
147
Si v. Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, valori e tecniche nel diritto del
lavoro, op. cit., 62, ad avviso della quale “allo stato attuale del dibattito le valutazioni conclusive possono essere nel senso che nel nostro sistema si è realizzato un temperato, anche se non
privo di sbavature, assestamento della dislocazione del potere legislativo statale e di quello regionale. Certo esso non è nel senso di chi auspicava una accentuata regionalizzazione vista
quale espressione di sussidiarietà del diritto del lavoro. Il disegno costituzionale delle competenze in materia di lavoro esprime un quadro frastagliato derivante dalla distribuzione della
materia lungo tutto l’asse delle possibili combinazioni delle competenze Stato-Regione con
inevitabili intersezioni e sovrapposizioni”.
145
886
sino il settore del mercato del lavoro, il quale resta, ad ogni modo, quello in cui le Regioni hanno maggiore autonomia normativa, seppur in un
contesto assai ridimensionato rispetto alle loro aspettative.
Punti oscuri, nonostante l’intervento della Consulta, rimangono: un
po’ affrettata o, per lo meno, esageratamente ottimistica, l’opinione di chi
ha ritenuto il dibattito sulla riforma del Titolo V in materia di diritto del lavoro “superato” in ragione della sentenza 50 148. Certo l’autorevolezza
dell’interprete e la sostanziale coerenza logica manifestata da quest’ultimo
nelle pronunce successive rendono la sentenza appena commentata il punto di riferimento cardine per ogni valutazione sul riparto di competenze
normative in materie lavoristiche dettato dal nuovo Titolo V della Cost.
Valga ancora qui rimarcare come il limite del diritto privato, che
l’evoluzione dalla giurisprudenza costituzionale ha individuato come
ineludibile argine all’ampliarsi delle competenze normative regionali, ha
trovato come proprio fondamento, pur con oscillazioni che ne hanno evidenziato la propria difficile determinazione, il principio di uguaglianza.
L’incidenza di tale ultimo principio sulle prerogative normative regionali, come è stato osservato, “non opera in modo assoluto in quanto anche
la disciplina dei rapporti privatistici può subire un qualche adattamento”
ad opera delle competenze legislative regionali. Tuttavia, una simile
eventualità presuppone che l’adattamento operato dalla legislazione regionale sia sottoposto, come imposto dalla Corte Costituzionale, alla verifica tanto della sua ragionevolezza intrinseca quanto di quella estrinseca 149. In questa prospettiva appare allora chiaro che “l’impronta centralistica del legislatore nazionale non può essere cancellata a valle dalle
spinte centrifughe dal sistema normativo manifestate dalle regioni, in
assenza di adeguati principi fondamentali che segnino un minimum di
mantenimento del sistema stesso: ciò determinerebbe la rottura del principio di eguaglianza ed il sistema normativo si collocherebbe ben oltre il
punto massimo di tensione che può esprimere” 150.
Conclusivamente, l’ineludibilità, specie in ambito lavoristico, delle
esigenze di regolazione unitaria sul territorio nazionale, che si esprimoLeone D’Agata, c.d. riforma Biagi e federalismo: la Corte Costituzionale si pronuncia, op. cit., 78.
149
V. Roppo, Diritto privato regionale? op. cit., 555, secondo cui “una stessa norma regionale di diritto privato può da un lato essere intrinsecamente ragionevole sotto i profili di
connessione con qualche materia di competenza regionale, e dell’adeguatezza quanto ai fini e
quanto a nesso tra fini i mezzi; ma essere, d’altro lato, non ragionevole sotto il profilo della generale esigenza di uniformità territoriale del diritto privato in quanto rompe questa uniformità
in modo troppo profondo, o in misura troppo ampia o in misura troppo sensibile”.
150
Albi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neoregionalismo, op. cit., 537.
148
887
no essenzialmente nella necessità di garantire la libera circolazione dei
lavoratori tra le varie regioni, nell’effettività del diritto al lavoro, principe dei diritti sociali garantiti dalla carta costituzionale e, più in generale,
nel godimento per tutti i cittadini ed in condizioni di uguaglianza dei diritti riconosciuti nella parte prima della Costituzione non possono che
giustificare il mantenimento allo Stato della regolazione dei rapporti privati tra i cittadini 151.
È questa, con estrema probabilità, la preoccupazione della Corte,
protesa a mantenere ben salda l’unità giuridica ed economica dello Stato
alla stregua di un argomentare che, per la verità, sembra non trascurare il
tentativo di salvare dalla minaccia di illegittimità costituzionale “un complesso normativo che la dottrina italiana, a ragione, taccia di ipercentralismo” 152.
151
Ed infatti, come afferma Scagliarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in tema di regolazione del mercato del lavoro, op. cit., 187, “nonostante il tenore letterale dell’articolo 117 Cost., particolarmente infelice proprio nell’ambito lavoristico […] possa
aver suscitato aspettative, va riconosciuta, ad avviso di chi scrive, la sostanziale correttezza
dell’opera ermeneutica della Corte, che ben ha individuato e tutelato, sia pure, come si diceva
in precedenza, con argomentazioni che avrebbero potuto sicuramente essere maggiormente articolate, quell’interesse nazionale esistente in materia, interesse che la riforma costituzionale
del 2001 non ha eliminato, ma semplicemente garantito con soluzioni diverse rispetto al passato, tra cui le competenze trasversali dello Stato e il principio della leale collaborazione”.
152
Albi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neoregionalismo, op. cit., 537.
888
GIOVANNI RUSSO
Magistrato
LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO CON LA
REGIONE
Sommario: 1. Premessa. – 2. Le fonti. – 3. Le modifiche del titolo V della Costituzione.
– 4. Principi generali in materia di assunzione. – 5. L’assunzione a mezzo concorso. – 6.
Contratto a termine. – 7. I limiti derivanti dall’ordinamento comunitario. – 8. Brevi note
conclusive. – 9. Bibliografia.
1. Premessa
Si è ormai completata la riforma degli aspetti normativi dei rapporti
di lavoro nel pubblico impiego tanto che è diventato pacifico che il relativo contenzioso sia di regola ormai di competenza del giudice ordinario,
e che è ristretto l’ambito di applicazione delle forme eccezionali che sono ancora attribuite al T.A.R. ed alla Corte dei Conti, queste ultime relativamente alla materia pensionistica.
Invero negli anni ’80 l’evoluzione della funzione svolta dalla pubblica amministrazione in ente erogatore di servizi, ha creato e formato
l’opinione, prima in dottrina e poi a livello politico e quindi legislativo,
di considerare non dissimile tale funzione da quella che viene svolta
nell’ambito prettamente privatistico per la erogazione di servizi: e le due
aree, privata e pubblica, avendo la stessa funzione non dovevano avere
una regolamentazione totalmente diversa e, per certi versi, addirittura antitetica. Ed è proprio dall’esigenza di pervenire ad una omogeneizzazione dei trattamenti normativi delle due aree (oltre che da esigenze di miglior funzionamento, per adeguare la pubblica amministrazione agli standard europei) che è sorta la necessità di “privatizzare” il rapporto di lavoro, contrattualizzandolo.
Le pressanti esigenze di bilancio hanno posto come prioritario l’obbiettivo del contenimento, della razionalizzazione e del controllo della
spesa per il settore del pubblico impiego ed a tal fine la legge 23 ottobre
1992, n. 421, che costituisce il fondamento normativo del d.lgs. n. 29 del
1993, all’art. 2, comma 1, ha conferito al Governo la delega per una nuova regolamentazione autorizzandolo a prevedere la riconduzione dei rapporti di lavoro e di impiego sotto la disciplina del diritto civile con regolazione contrattuale collettiva e individuale e con una disciplina transitoria del passaggio dal precedente al nuovo regime.
889
Successivamente la legge 15 marzo 1997, n. 59, che è il fondamento normativo del d.lgs. n. 80 del 1998, con l’art. 11, n. 4, lett. a) ha autorizzato il Governo a “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al
lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa”.
Come è noto, accanto al rapporto di lavoro nei confronti della pubblica amministrazione, coesistevano altre forme di lavoro, già soggette al
regime privatistico (basti por mente ai rapporti con le aziende autonome).
Ne consegue che il presupposto delle due normative sopra richiamate è
che esistano rapporti di lavoro la cui regolazione deve mutare radicalmente con trasformazione dell’intero sistema delle fonti che li disciplinano. Tale deduzione è confermata dalla circostanza che le originarie esclusioni dall’applicazione delle nuove regole dettate in attuazione delle deleghe in esame (d.lgs. n. 29 del 1993, art. 73, comma 5, corrispondente
all’attuale d.lgs. n. 165 del 2001, art. 70, comma 4) riguardavano spesso
casi nei quali i relativi rapporti di lavoro erano già soggetti al regime privatistico essendosi sganciati dalla disciplina dei comparti prevista nella
legge quadro sul pubblico impiego (l. n. 93 del 1983).
Appare ovvio, conseguentemente, che nulla è innovato in materia di
rapporti di lavoro che già erano disciplinati in modo privatistico e che tale limitazione costituisce il primo “paletto” da tener presente nella interpretazione della normativa sul rapporto di lavoro alle dipendenze della
pubblica amministrazione.
È, poi, intuitivo che i principi fondamentali sono sostanzialmente
eguali per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, siano a livello centrale, regionale o locale. Pertanto, man mano che si presenteranno, verranno poste in evidenza le differenze esistenti per le peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Regioni.
2. Le fonti
Il processo normativo relativo al rapporto di pubblico impiego si è
articolato in una serie di provvedimenti legislativi a partire dalla fondamentale legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 “Delega al governo per la
razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di
pubblico impiego, di previdenza e finanza locale”, all’attuativo d.lgs. 3
febbraio 1993, n. 29 “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego”, successivamente modificato ed integrato dalle l. 15 marzo
890
1997, n. 59, 15 maggio 1997, n. 127, dai d.lgs. 4 novembre 1997, n. 396,
6 marzo 1998, n. 59, 31 marzo 1998, n. 80, 29 ottobre 1998, n. 387 e dalla l. 23 dicembre 1998, n. 448; il complesso normativo è stato poi, in larga misura, riunito e coordinato dal d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, nelle intenzioni del legislatore costituente un testo unico, se non fosse avvenuto
che di seguito una impressionante serie di normative lo ha reso se non
inutile, quantomeno quasi subito in larga parte sorpassato, ridefinendo i
principali istituti giuridici del pubblico impiego.
Come rilevato dalla giurisprudenza della Suprema Corte e dalla dottrina
più attenta, il nocciolo delle questioni attinenti alla riforma del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, risiede nella difficoltà di adattare il predetto rapporto ed i diritti del dipendente alle esigenze di buon funzionamento della
amministrazione, che è strumento per assicurare “economicità, speditezza e
rispondenza al pubblico interesse dell’attività degli uffici dipendenti”.
In effetti l’art. 2, lett. g), n. 1, della legge n. 421 del 1992, cit. ha conferito la delega al governo indicando come fondamentale il criterio della
integrazione del lavoro pubblico in quello privato con l’estensione al primo delle disposizioni del codice civile e delle leggi sul rapporto di lavoro nell’impresa e con il conseguente affidamento ai dirigenti di autonomi
poteri di gestione e controllo.
La legge n. 59 del 1997 contiene una ampia ed articolata delega per
il riordino delle amministrazioni statali, sempre all’insegna della razionalizzazione degli apparati e delle procedure allo scopo di incrementare
l’efficienza.
La linea di indirizzo è stata osservata dal legislatore delegato che ha
strettamente collegato fin dall’art. 1 del d.lgs. n. 29 del 1993, la riforma
dei rapporti di lavoro a quella dell’ organizzazione.
Come è stato osservato in dottrina ed in giurisprudenza (ex plurimis,
Cass. 27 giugno 2007, n. 14809) la predetta normativa “assegna al decreto il compito di regolare l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego. Viene così in rilievo, anche sul piano formale, la priorità
dell’intervento organizzativo al quale è comunque correlato strettamente
l’ulteriore intervento sul rapporto di lavoro. Anzi, come pure è stato sottolineato, l’originaria versione del decreto n. 29 del 1993, manifestava
una specifica attenzione agli aspetti organizzativi degli uffici prevedendo
in proposito numerose disposizioni di dettaglio.
L’operazione innovativa si svolge con l’obiettivo dell’efficienza parametrata sugli standard europei, o più esattamente dei corrispondenti uffici e servizi offerti dai paesi membri dell’Unione. L’intervento sul personale è diretto alla migliore utilizzazione di tale risorsa nelle pubbliche
amministrazioni”.
891
In effetti l’art. 2 del d.lgs. 165/2001 riguarda entrambi gli aspetti, e
dispone che le pubbliche amministrazioni definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici al comma 1 e, in funzione di un miglior funzionamento della pubblica amministrazione, prevedono criteri
di funzionalità, flessibilità, imparzialità e trasparenza. Criteri tutti che
devono caratterizzare non tanto il rapporto di lavoro quanto il funzionamento della pubblica amministrazione: le nuove regole sui rapporti di lavoro hanno un significato e si spiegano solo se vengono inserite nel quadro della riforma della pubblica amministrazione, del quale costituiscono un elemento essenziale, ma pur sempre solo uno dei vari elementi che
fanno parte del disegno complessivo della riforma per l’adeguamento al
livello europeo.
È questo il criterio fondamentale (anche se non l’unico, ma soltanto
il primo) che deve essere applicato per l’interpretazione della normativa
sul rapporto di pubblico impiego.
Ulteriore motivo di complessità del sistema normativo è determinato dalle fonti, che spaziano da quelle comunitarie, alle norme del codice
civile, alle leggi statali, alla contrattazione collettiva e a quella individuale, agli atti organizzativi interni dei dirigenti apicali, ai codici di comportamento, alla legislazione regionale, come si vedrà successivamente con
particolare e specifico riferimento a tale fonte normativa.
Come sopra indicato, vi è stata la emanazione del d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165, che nelle intenzioni del legislatore costituiva un vero e proprio testo unico.
Orbene, dispone l’articolo 1 del predetto decreto legislativo sotto il
titolo “Finalità ed àmbito di applicazione”:
1. le disposizioni del presente decreto disciplinano l’organizzazione
degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, tenuto conto delle autonomie locali e di quelle
delle Regioni e delle Province autonome, nel rispetto dell’articolo 97,
comma 1, della Costituzione, al fine di:
a) accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell’Unione europea, anche
mediante il coordinato sviluppo di sistemi informativi pubblici;
b) razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa
complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza
pubblica;
c) realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quello del lavoro privato.
892
2. Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado
e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità
montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli
Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300.
3. Le disposizioni del presente decreto costituiscono princìpi fondamentali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione. Le Regioni a statuto ordinario si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi
ordinamenti. I princìpi desumibili dall’art. 2 della legge 23 ottobre 1992,
n. 421, e successive modificazioni, e dall’art. 11, comma 4, della legge
15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni ed integrazioni, costituiscono altresì, per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome di Trento e di Bolzano, norme fondamentali di riforma economicosociale della Repubblica”.
La mera lettura della norma rende evidente che viene riconosciuto un
notevole grado di autonomia agli enti locali e che la normativa del d. lgs.
165/2001 regolamenta il rapporto tra il suo contenuto e quello delle Regioni a statuto ordinarie disponendo che il primo detta i principi ai quali i
secondi devono adeguarsi. La Corte Costituzionale 5 luglio 1995, n. 292
ha ritenuto, conformemente a quanto enfaticamente enunciato dal riportato articolo 1, che tali principi sono norme fondamentali di riforma economico sociale, vincolanti sia per le Regioni a statuto ordinario sia per le
Regioni a statuto speciale. Il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 ha poi, in materia di lavoro alle dipendenze di enti pubblici locali, effettuato un rinvio
generalizzato al d.lgs. 29/1993, confluito anch’esso nel t.u. 165/2001.
3. Le modifiche del Titolo V della Costituzione
La situazione è però stata innovata dalla riforma del Titolo V della
Costituzione, che ha disposto che “La potestà legislativa è esercitata dallo
Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
È poi stata divisa la potestà legislativa tra quella dello Stato in via
esclusiva, quella “residuale” delle Regioni e quella concorrente tra le
893
due. Appare inutile ripercorrere tutte le questioni dottrinarie che si sono
accavallate negli anni successivi alla riforma per stabilire la competenza
legislativa in materia di pubblico impiego alle dipendenze degli enti locali, tenendo presente che la legge di modifica costituzionale, 18 ottobre
2001, n. 3 ha, tra l’altro, abrogato l’art. 128 Cost. che disponeva che le
province e i comuni sono enti autonomi, ma solo nell’ambito dei principi fissati dalle leggi generali della Repubblica.
L’inutilità deriva dalle decisioni che ripetutamente ha pronunciato la
Corte Costituzionale. Invero il giudice delle leggi, con la sentenza n. 373
del 23 luglio 2003, nel giudizio di legittimità promossa dalla regione Sardegna, ha affermato che la materia del personale della Regione rientra
nella competenza esclusiva della Regione stessa sia per quanto riguarda
lo stato giuridico sia relativamente al trattamento economico e, per di
più, non continuano ad essere applicabili i precedenti limiti – che in passato vigevano persino per le Regioni a statuto speciale – di fissazione da
parte dello Stato dei principi fondamentali “essendo la materia dello stato giuridico ed economico del personale della Regione Sardegna, e degli
enti regionali, riservata dall’art. 3, lett. A), dello statuto alla legislazione
esclusiva della Regione, ed essendo l’analoga materia, per le Regioni a
statuto ordinario, riconducibile al quarto comma dell’art. 117 – la tesi sostenuta nel ricorso, secondo cui la legge regionale avrebbe dovuto rispettare le disposizioni statali recanti norme fondamentali di riforme economico sociali, non può essere accolta”.
Ciò che occorre sottolineare è che a seguito dell’entrata in vigore
della riforma costituzionale, in particolare dell’art. 117, e dei procedimenti di “delegificazione e di semplificazione” di vari procedimenti amministrativi e di adempimenti, i regolamenti di delegificazione continuano a trovare applicazione solo fino a quando la regione non provveda a
disciplinare autonomamente la materia.
In altri termini, è stato riaffermato – anche da numerose decisioni della Corte Costituzionale – il principio di continuità dell’ordinamento giuridico, il quale determina (relativamente all’applicazione del nuovo riparto di
competenze relativamente alle leggi regionali che sono sopravvenute alla
riforma della Costituzione) il perdurare dell’efficacia delle leggi statali, fino a quando non vengano effettivamente sostituite da quelle regionali.
4. Principi generali in materia di assunzione
Deve innanzi tutto porsi la distinzione, in materia di assunzione di
lavoratori alle dipendenze delle Regioni, tra quelle a statuto speciale e
894
quelle ordinarie: per le prime (così come per le Province di Trento e Bolzano) la normativa è spesso ben differente rispetto a quella prevista per i
dipendenti dello Stato sia nella regolamentazione della costituzione del
rapporto, sia dello svolgimento, nei diritti sindacali, nella contrattazione
collettiva che, infine, nelle regole sulla risoluzione del rapporto.
Basti far riferimento alla regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,
ove vi è un Aran regionale (Areran) che ha cercato, in larga misura riuscendovi, di parificare i trattamenti normativi ed economici dei dipendenti (della Regione, delle Province e degli altri enti locali), anche per favorire la mobilità tra i vari organismi, in tal modo contribuendo a risolvere il problema degli organici e delle assunzioni. Tutto ciò con notevoli
contrasti con le organizzazione sindacali dei dipendenti della Regione (v.
relazione di A. Zilli in convegno del centro D. Napoletano 9 e 10 marzo
2007 all’Università di Calabria in «Lavoro e Previdenza oggi», suppl. al
n. 6/2007) che non volevano veder ridurre il migliore trattamento dei lavoratori in questione rispetto a quello dei comuni, dopo una serie di interventi della Corte dei Conti regionale che aveva impedito l’allineamento “al rialzo”.
La pluralità di fonti e delle relative discipline trova però una serie di
“paletti” sia nell’ordinamento comunitario, sia nella Costituzione ed in
particolare (ma non solo) nella norma relativa all’accesso nel pubblico
impiego mediante concorso.
Vanno, naturalmente, distinte, dal pubblico impiego tutte le altre forme di attività lavorativa svolta in favore dell’ente pubblico,
Sin dalla storica decisione delle sezioni unite del 25 novembre 2004,
n. 22231 la S.C. ha ripetutamente affermato (sia pure con specifico riferimento ed ai fini della distinzione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione esclusiva amministrativa), che si è in presenza di un rapporto di
pubblico impiego ogni volta che “tra un ente pubblico ed un soggetto privato venga costituito un rapporto non occasionale di locazione di opere,
con il conseguente inserimento del secondo nell’organizzazione amministrativa del primo, per il perseguimento di finalità attribuite al medesimo
dalla legge” (così anche Cass. 28 giugno 2006, n. 14847).
Ha precisato il giudice di legittimità che l’assenza di stabilità nel
rapporto di lavoro, l’apposizione di un termine alla durata del rapporto,
la mancanza di un atto formale di nomina o l’assoggettamento alla disciplina del contratto collettivo di diritto privato non escludono la natura
pubblicistica dell’impiego ove le prestazioni abbiano carattere continuativo anche se provvisorio, purché la prestazione venga effettuata in favore di un ente pubblico e non di un’azienda autonoma o, comunque, in una
struttura separata dall’ente pubblico e che sia governata dal principio
895
economico del bilanci “ovvero, ancora, nel caso in cui sia la legge a qualificare privato il rapporto di lavoro (conf., Cass., sez. un., 15 ottobre
2002, n. 14614; Cass., sez. un., 23 novembre 2000, n. 1202).
In particolare Cass. n. 14614/2002 cit. ha ritenuto decisivo al fine
dell’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario che la l.r. Puglia 18 aprile 1994, n. 15, art. 5 (recante disposizioni per l’affidamento
degli impianti irrigui ai consorzi di bonifica), facesse espresso riferimento, per la gestione e la manutenzione degli impianti e delle opere di sistemazione idraulica, a rapporti di lavoro sorti con contratto di natura privatistica; ha quindi precisato che dovesse attribuirsi efficacia di qualificazione in senso privatistico di tali rapporti, con conseguente devoluzione
al giudice ordinario delle relative controversie”. Nello stesso senso v.
Cass. 28 giugno 2006, n. 14847 a proposito di direttori di agenzie per
l’impiego, scelti dalla pubblica amministrazione tra personale della stessa pubblica amministrazione in possesso di elevata professionalità ed assunti con contratto di diritto privato a termine e rinnovabile.
Relativamente ai dipendenti della Regione, non essendo di regola attribuita potestà legislativa alle province ed agli enti territoriali minori, la
Corte Costituzionale – esaminando un ricorso promosso dalla Regione
Sardegna contro la Stato in materia di pubblico impiego, sostenendo la
stessa che la riforma costituzionale ha fatto venir meno il suo obbligo di
rispettare le norme fondamentali delle riforme economiche sociali – ha
accolto il ricorso raffrontando il potere legislativo attribuito alle Regioni
ordinarie rispetto a quelle autonome e stabilendo che se per le prime vigono – nelle materie di cui al quarto comma art. 117 – solo i limiti di cui
al primo comma, ciò deve valere anche per le regioni autonome: “Da
questa ricostruzione (pienamente conforme al criterio interpretativo
enunciato dalla sentenza n. 103 del 2003) discende che – essendo la materia dello stato giuridico ed economico del personale della Regione Sardegna, e degli enti regionali, riservata dall’art. 3, lett. a), dello statuto alla legislazione esclusiva della Regione, ed essendo l’analoga materia, per
le Regioni a statuto ordinario, riconducibile al quarto comma dell’art.
117 – la tesi sostenuta nel ricorso, secondo cui la legge regionale avrebbe dovuto rispettare le disposizioni statali recanti norme fondamentali di
riforme economico-sociali, non può essere accolta”.
Come sopra accennato, la fluidità e la complessità della materia dipende in larga misura dalla circostanza che non vi è un concetti fissi ed
immodificabili di “principi fondamentali” che costituiscono il limite naturale della competenza legislativa da parte della Regione, nemmeno in
materia di assunzione di lavoratori, in relazione all’attribuzione allo stato del potere legislativo.
896
Invero la stessa Corte Costituzionale nella monumentale sentenza n.
50 del 28 gennaio 2005 ha chiarito che la nozione di “principi fondamentali” nella materia della competenza legislativa concorrente tra attribuzioni statali e attribuzioni regionali “non ha e non può avere caratteri di
rigidità e universalità”, dato che le varie materie hanno livelli di definizione diversi, che con il trascorrere del tempo sovente mutano e che contenuto e limiti rientrano nella competenza esclusiva del legislatore, il
quale regola ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali.
Da tale affermazione la Corte Costituzionale ha fatto derivare la regola che “Il rapporto tra la nozione di principi e criteri direttivi, che concerne il procedimento legislativo di delega, e quello di principi fondamentali della materia, che costituisce il limite oggettivo della potestà statuale nelle materie di competenza concorrente, non può essere stabilito
una volta per tutte.” (Corte Cost. 50/2005).
In materia di costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze di
enti locali – ed in particolare delle Regioni – la normativa fondamentale
è la legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 ed il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Orbene, il comma 1 dell’art. 1 della legge delega dispone:
“Allo scopo di realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti
intesi a garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e a migliorare le capacità d’inserimento professionale dei disoccupati e di
quanti sono in cerca di una prima occupazione, con particolare riguardo
alle donne e ai giovani, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentito il Ministro per le pari opportunità ed entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi diretti a stabilire, nel
rispetto delle competenze affidate alle Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, e degli obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell’Unione europea in materia di occupabilità, i principi fondamentali in materia di disciplina dei servizi per
l’impiego, con particolare riferimento al sistema del collocamento, pubblico e privato, e di somministrazione di manodopera”.
Il comma 2 dello stesso articolo contiene la determinazione dei principi e criteri direttivi e l’art. 2 delega il governo di concerto con vari ministeri, tra cui quello per gli affari regionali, ad emanare decreti legislativi diretti a stabilire, nel rispetto delle competenze affidate alle Regioni in
materia di tutela e sicurezza del lavoro e di occupazione, la revisione e la
razionalizzazione dei rapporti di lavoro con contenuto formativo, precisando poi vari principi e criteri direttivi.
Appare conseguentemente evidente che il legislatore ritiene che i
897
servizi per l’impiego ed in particolare il collocamento e la somministrazione di mano d’opera rientrino nella tutela e sicurezza del lavoro, che
sono ricompresse nelle materia di competenza concorrente: da ciò consegue che la delega è limitata alla determinazione dei principi fondamentali per attuare il rispetto delle attribuzioni regionali.
Dalle considerazioni di cui sopra deriva, per ripetere esattamente il
contenuto della sentenza n. 50/2005 della Corte Costituzionale che: “quale che sia il completo contenuto che debba riconoscersi alla materia ‘tutela e sicurezza del lavoro, non si dubita che in essa rientri la disciplina
dei servizi per l’impiego ed in specie quella del collocamento. Lo scrutinio delle norme impugnate dovrà quindi essere condotto applicando il
criterio secondo cui spetta allo Stato la determinazione dei principi fondamentali ed alle Regioni l’emanazione delle altre norme comunemente
definite di dettaglio; occorre però aggiungere che, essendo i servizi per
l’impiego predisposti alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro, possono verificarsi i presupposti per l’esercizio della potestà statale di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117 Cost.,
secondo comma, lett. m), come pure che la disciplina dei soggetti comunque abilitati a svolgere opera di intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato per la tutela della concorrenza (art. 117 Cost., comma 2, lett. e))”.
5. L’assunzione a mezzo concorso
Dispone il comma 3 dell’art. 97 Cost. che “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”.
Ricordato che la Corte Costituzionale (n. 274/2003) ha ormai definitivamente e ripetutamente affermato che lo stato giuridico ed il trattamento economico del personale regionale è attribuito alla competenza
delle Regioni e che in siffatta materia non valgono i limiti, che in passato vigevano per le Regioni a statuto speciale, della fissazione con legge
statale delle norme fondamentali di riforma economico sociale, si richiama il dettato del giudice delle leggi n. 3/2004 e 4/2004. Con tali decisioni è stato affermato che dopo la riforma del 2001 in materia di potestà legislativa delle Regioni, le leggi statali sulla formazione professionale dei
dipendenti di pubbliche amministrazioni sono solo quelle relative ai dipendenti dello Stato o di altri enti pubblici nazionali, ai sensi della lett. g)
del secondo comma dell’art. 117 Cost. “ordinamento e organizzazione
amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”.
Peraltro, la stessa Corte (n. 373/2002) ha chiaramente indicato che
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l’attribuzione alle regioni della competenza legislativa in materia di pubblico impiego non ha fatto venir meno l’obbligo del rispetto del principio
dell’accesso mediante concorso.
In effetti, si rileva, che il sistema di selezione del personale da assumere più coerente con il principio, contenuto nello stesso art. 97 Cost., di
buon andamento degli uffici è quello di ampliare al massimo la partecipazione alla selezione stessa attraverso il concorso esterno pubblico.
Anche il richiamo effettuato dal comma 1 dell’art. 97 alla “imparzialità della amministrazione” si realizza, come dispone d’altronde l’art. 51
Cost. – secondo il quale “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” – a mezzo del pubblico concorso.
Come nella maggioranza delle decisioni della Corte Costituzionale,
il discrimine tra legittimo ed illegittimo è costituito dal criterio principe
della “ragionevolezza”. Posto che è possibile derogare al criterio base del
concorso come metodo di selezione per l’accesso al pubblico impiego,
l’indagine deve accentrarsi sulla legge regionale che – derogando a tale
criterio fondamentale – preveda altra forma di selezione.
Proprio al criterio di “ragionevolezza” il giudice delle leggi si è più
volte richiamato nella materia in esame (v. ordinanza n. 517/2002, sentenza 24 luglio 2003, n. 274).
La giurisprudenza della Corte, richiamata la regola secondo cui è il
pubblico concorso il metodo che offre le migliori garanzie di selezione
dei più capaci per il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione
per consentirle la migliore efficienza possibile, ha riconosciuto la possibilità per le Regioni di apportare deroghe solo ove sussistano particolari
situazioni che le rendano non irragionevoli.
Così, la citata sentenza n. 274 del 24 luglio 2003, ad esempio, avendo la Presidenza del Consiglio dei ministri impugnato la legge regionale
che aveva immesso nei ruoli organici sia persone addette a lavori socialmente utili sia quelle assunte con contratto a tempo determinato, onde
accertare la ragionevolezza della deroga al criterio fondamentale di accesso al pubblico impiego secondo il regime del concorso pubblico esterno, aveva tenuto conto della circostanza che i lavoratori in oggetto erano
da tempo inseriti nell’organizzazione e “quindi verosimilmente avevano,
nella precarietà, acquisito l’esperienza necessaria a far ritenere la stabilizzazione della loro posizione funzionale alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione (art. 97, comma 1, della Costituzione)”.
D’altronde era stata proprio l’amministrazione centrale a disporre
l’assunzione di soggetti impiegati a titolo precario nei ruoli organici: la
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legge finanziaria del 2001 (n. 388/2000) aveva autorizzato il Ministero
del lavoro e della previdenza sociale a stipulare convenzioni con le regioni per realizzare programmi di stabilizzazione di alcune categorie di
lavoratori con l’indicazione di una quota predeterminata di soggetti da
stabilizzare.
Ma il limite della “ragionevolezza” aveva indotto la stessa Corte a
stabilire l’illegittimità per violazione dell’art. 97 Cost. della norma regionale, relativa alla dirigenza per l’accesso nell’amministrazione della Regione, che aveva derogato al principio del concorso in modo irragionevole, ampliando oltre misura la deroga consentita dall’art. 97, non solo prevedendo l’accesso alla dirigenza di non laureati ed attribuendo la qualifica dirigenziale anche al personale non apicale, ma soprattutto aumentando dal 75 al 90 per cento la percentuale dei posti rimasti vacanti che venivano riservati al concorso interno ed eliminando del tutto la previsione
del concorso pubblico per la copertura della pur minima quota residua di
posti.
La Corte (274/2003) ha infatti ribadito i principi contenuti in precedenti decisioni secondo cui l’accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate “non sfugge, di norma, alla regola
del pubblico concorso, cui è possibile apportare deroghe solo se particolari situazioni ne dimostrino la ragionevolezza; ed ha precisato che, di regola, questo requisito non è configurabile – con conseguente violazione
del parametro evocato – a proposito di norme che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori (senza concorso o comunque senza adeguate selezioni o verifiche attitudinali) o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti (da ultimo, sentenza n. 373 del
2002)”.
Pertanto doveva ritenersi violato l’art. 97 Cost. dalla normativa che consentiva l’accesso al pubblico rapporto nella qualifica dirigenziale per l’effetto congiunto della mancanza di concorso per la stragrande maggioranza dei
candidati e della esistenza per la parte residua di concorso riservato.
Conclusivamente, l’assunzione tramite concorso pubblico esterno
resta la forma assolutamente principale per la costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato con la pubblica amministrazione.
6. Contratto a termine
Relativamente alle assunzioni con forme flessibili, giova ricordare la
norma fondamentale che è costituita dall’art. 36 della l. 165/2001 come
900
modificato dall’art. 4, d.l. 10 gennaio 2006, n. 4, come modificato dalla
relativa legge di conversione, e poi così sostituito dal comma 79 dell’art.
3, l. 24 dicembre 2007, n. 244.
Il predetto articolo dispone che le pubbliche amministrazioni possono assumere esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo
indeterminato e di regola non possono avvalersi delle forme contrattuali
di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di
lavoro subordinato nell’impresa. È poi prevista la mobilità orizzontale
con altre amministrazioni per periodi non superiori a 6 mesi; tale ultima
norma non appare, però, realizzare l’ipotesi di un contratto a termine con
la Regione presso la quale avviene il comando, perché datore di lavoro
effettivo resta l’ente distaccante.
L’assunzione con forme flessibili è autorizzata non solo per la dirigenza – per la quale vige un articolato regime giuridico che per la sua
complessità esorbita dalle possibilità di esame in questa sede – ma anche
per esigenze stagionali e per periodi non superiori a tre mesi, nonché per
le sostituzioni per maternità: ma il provvedimento di assunzione deve
contenere l’indicazione del nominativo della persona che viene sostituita, analogamente a quanto era disposto per il contratto a termine nel rapporto di lavoro privato dalla l. 230/1962.
Solo agli enti locali che non siano sottoposti al patto di stabilità interno e che comunque abbiano una dotazione organica non superiore alle quindici unità è concessa la possibilità di avvalersi di forme contrattuali di lavoro flessibile, per la sostituzione di lavoratori assenti e per i
quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la
causa della sua sostituzione.
Altra eccezione riguarda gli enti del Servizio Sanitario, che possono
avvalersi di forme contrattuali di lavoro flessibile, per la sostituzione di
lavoratori assenti o cessati dal servizio, per urgenti e indifferibili esigenze correlate alla erogazione dei livelli essenziali di assistenza in relazione al personale medico, limitatamente alle figure infungibili, al personale infermieristico e di supporto alle attività infermieristiche.
La normativa di cui si tratta stabilisce il divieto di rinnovare il contratto ovvero di stipulare con lo stesso lavoratore altra tipologia contrattuale e viene esclusa l’applicazione del principio generale vigente nel
pubblico impiego della derogabilità delle leggi da parte della contrattazione, stabilendo il citato art. 1 che le regole sopra enunciate non possono essere derogate dalle norme contrattual-collettive.
Con norma inapplicabile al diritto privato, (ma recentemente emanata per le assunzioni a termine effettuate soprattutto dalle Poste Italia901
ne s.p.a.) il comma 6 dell’art. 36 dispone che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione
con le stesse di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ed il lavoratore interessato ha diritto al mero risarcimento del danno derivante dalla
prestazione di lavoro in violazione delle sopra riportate disposizioni imperative.
Allo scopo di scoraggiare ogni possibilità di assunzione in cotal modo, si afferma la responsabilità del dirigente che ha disposto l’assunzione, con l’obbligo dell’amministrazione di recuperare le somme pagate a
tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione
sia dovuta non solo a dolo ma anche a colpa grave.
Alle amministrazioni pubbliche che operano in violazione delle disposizioni di cui sopra è fatto divieto di effettuare assunzioni ad alcun titolo per il triennio successivo alla suddetta violazione.
La violazione delle dette disposizioni inderogabili è causa di nullità
del provvedimento.
Dubbi di legittimità costituzionale e di violazione della normativa
comunitaria sono sorti in relazione al divieto di assunzione in queste ipotesi, essendo previste per il lavoratore solo forme risarcitorie del danno
subito.
Con riferimento alla legittimità costituzionale della normativa (per
violazione degli artt. 3 e 97 Cost.) la Corte Costituzionale è stata chiamata ad esaminare le norme di cui si tratta nella parte in cui escludono che
la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, possa comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le
medesime pubbliche amministrazioni.
Per quanto riguarda la violazione dell’art. 3, veniva denunciata la
violazione del principio di eguaglianza in quanto, nonostante l’intervenuta privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni e la dichiarata applicabilità della l. 18 aprile 1962, n.
230, così come più volte modificata, i dipendenti pubblici sarebbero pesantemente discriminati rispetto a quelli privati essendo i primi esclusi
dalla possibilità della conversione del rapporto a termine in uno a tempo
indeterminato.
L’illegittimità ex art. 97 Cost. risiederebbe nella violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto la
stabilità del rapporto di lavoro renderebbe più motivati e più efficienti i
dipendenti pubblici, attualmente in condizioni di precariato.
La Corte Costituzionale ha respinto le eccezioni di illegittimità rile902
vando che presupposto del ricorso proposto era l’identità del rapporto di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in seguito alla
contrattualizzazione del 1993 rispetto al rapporto con il lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati, e da tale tesi deriverebbe la violazione
del principio di eguaglianza. In effetti, ha rilevato la Corte, siffatto assunto, nei termini assoluti nei quali è formulato, non può ritenersi corretto.
Va infatti considerato – limitando l’esame al solo profilo genetico
del rapporto, che nella specie viene in considerazione – che il principio
fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, comma 3, della Costituzione.
L’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui al primo comma
dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sé rende palese la non omogeneità – sotto l’aspetto considerato – delle situazioni poste a confronto
dal giudice rimettente e giustifica, invece, la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o
l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati.
È appena il caso di sottolineare, al riguardo, che, seppure lo stesso
art. 97, comma 3, della Costituzione, contempla la possibilità di derogare per legge a miglior tutela dell’interesse pubblico al principio del concorso, è tuttavia rimessa alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della non manifesta irragionevolezza, l’individuazione di siffatti casi eccezionali (sentenze n. 320 del 1997, n. 205 del 1996), senza che alcun vincolo possa ravvisarsi in una pretesa esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, cui il principio del concorso è, come si è detto, del tutto estraneo.
Il giudice delle leggi ha fatto derivare da tali considerazioni anche la
manifesta infondatezza della questione anche in relazione al denunciato
parametro di cui all’art. 97 della Costituzione.
Non appare fondato, secondo la regola enunciata dalla Corte Costituzionale, quanto era stato dedotto dal giudice remittente – secondo il
quale, attraverso la conversione dei rapporti a termine irregolari in rapporti a tempo indeterminato e la conseguente stabilizzazione del rapporto di lavoro dei lavoratori precari, si realizzerebbe il principio di buon andamento della pubblica amministrazione: invero la smentita deriva direttamente dalla stessa norma costituzionale dato che proprio l’art. 97, al
terzo comma, individua appunto nel concorso lo strumento di selezione
903
del personale, in linea di principio più idoneo a garantire l’imparzialità e
l’efficienza della pubblica amministrazione.
Un particolare contratto a termine che soventemente è utilizzato dalle pubbliche amministrazioni, ed in particolare da quelle regionali e locali, è quello con i funzionari onorari; si pensi alle numerosissime commissioni attraverso la cui attività la p.a. persegue i suoi fini.
Non sempre appare agevole la distinzione tra la figura del funzionario
onorario da quella del pubblico dipendente, anche a causa della estrema
varietà delle figure di funzionario onorario: dal giudice onorario al presidente dell’autorità portuale, al componente di commissioni previste dallo
statuto dell’ente pubblico: può soltanto affermarsi che in tutti i settori della pubblica amministrazione il ricorso a tale figure appare consueto.
La Suprema Corte ha delineato una serie di elementi specifici e caratterizzanti la figura del funzionario onorario, in contrappostone a quella del
pubblico dipendente, anche se entrambe sono accomunate dall’esistenza
di un rapporto di servizio con l’attribuzione di funzioni pubbliche.
Peraltro il pubblico dipendente è inserito in modo strutturale nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione, mentre il funzionario onorario ha un inserimento meramente funzionale. Per il primo lo
svolgimento del rapporto di lavoro è analiticamente regolato dallo statuto del pubblico impiego, mentre per il secondo è disciplinato dall’atto di
conferimento dell’incarico e dalla natura dello stesso; il primo ha durata
tendenzialmente indeterminata, mentre il secondo ha durata normalmente temporanea, trattandosi di un lavoro a termine. Quest’ultimo riceve solo indennità e rimborsi spese, mentre il primo percepisce un compenso
correlato al carattere sinallagmatico del rapporto.
Ultima differenza, ma è quella che in questa sede appare più rilevante, è che la scelta del dipendente avviene sulla base di valutazione di parametri tecnico amministrativi, mediante un pubblico concorso, mentre il
funzionario onorario viene individuato con una procedura ed una scelta
politica ed eminentemente discrezionale.
Di recente, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte
che hanno affermato il principio secondo cui il servizio volontariamente
prestato su incarico di una pubblica amministrazione, attribuisce al soggetto privato che al rapporto partecipi o la qualifica di “pubblico impiegato” o quella di “funzionario onorario”, senza alcuna possibilità di individuare un tertium genus, costituito cioè da un rapporto non pubblico né
autonomo, caratterizzato dalla parasubordinazione o dalla collaborazione continuativa e coordinata, sia perché la figura del funzionario onorario si presenta come residuale rispetto a quella del pubblico dipendente,
sia perché la parasubordinazione o la collaborazione continuativa e coor904
dinata non può riconoscersi nel rapporto che lega il componente di un organo collegiale all’ente, (Cass. n. 2033/1985).
Ne consegue che a seconda dell’effettivo petitum sostanziale, si determinerà la giurisdizione dell’A.G.O. o quella del giudice amministrativo, con assoluta prevalenza di quest’ultimo dato che di norma il trattamento giuridico ed economico, in mancanza di specifiche disposizioni di
legge, “resta affidato alle libere e discrezionali determinazioni dell’autorità che procede alla investitura” (Cass., sez. un., n. 4887/1983; Cass.,
sez. un., n. 1687/1981) ed è esclusivamente finalizzato al pubblico interesse.
7. I limiti derivanti dall’ordinamento comunitario
In materia di assunzione alle dipendenze della pubblica amministrazione, ed in particolare delle Regioni, appare evidente che la competenza alla emanazione di norme, che disciplinano la costituzione del rapporto, compete alle Regioni stesse, ma con i limiti imposti dalla stessa Costituzione, e specificatamente dall’articolo 97, comma 3 Cost., secondo
il quale “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”, e dianzi si è visto che
le leggi possono derogare a tale criterio fondamentale solo nell’ambito
dei limiti della ragionevolezza.
Peraltro, deve richiamarsi il principio fissato dal primo comma
dell’art. 10 Cost. secondo il quale “L’ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Immediata conseguenza di tale criterio, è che anche le norme regionali non possono essere in contrasto con le direttive comunitarie.
L’affermazione della supremazia del diritto comunitario su quello
interno presenta peculiarità nei riguardi delle assunzioni con forme di lavoro flessibile.
La materia è disciplinata prevalentemente dall’art. 36, d.lgs.
165/2001, il quale dispone che le pubbliche amministrazioni possono assumere con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che
di regola, pertanto, non si possono avvalere delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle altre leggi relative ai rapporti di lavoro subordinato nell’impresa: peraltro la stessa norma dispone che sono possibili le assunzioni con forma di lavoro flessibile per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi, sempre fatte salve le sostituzioni per maternità relativamente alle autonomie territoriali,
prescrivendo altresì che il provvedimento di assunzione deve contenere
905
l’indicazione del nominativo della persona da sostituire; è ancora prescritto, diversamente da quanto stabilito di regola per il rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della pubblica amministrazione, che la
contrattazione collettiva non possa derogare alle norme di cui si tratta.
Le forme e le tipologie contrattuali previste dai rapporti di lavoro
nell’impresa sono essenzialmente il contratto a termine, i contratti formativi e la fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo.
Per rafforzare il divieto di assunzione al di fuori dello schema concorsuale è stabilito che “in ogni caso” la violazione delle disposizioni
imperative (tra le quali vi è il divieto di rinnovo del contratto o l’utilizzo
del medesimo lavoratore con altra tipologia contrattuale) riguardanti
l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni al di fuori del concorso, non può comportare la costituzione di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ed il lavoratore interessato ha diritto solo al risarcimento
del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.
Se vi è stata assunzione irregolare dovuta a dolo o colpa grave da
parte dei dirigenti, le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le
somme pagate a tale titolo e non possono effettuare assunzioni ad alcun
titolo per il triennio successivo.
Da tali norme sono esclusi, tra gli altri, i contratti relativi agli incarichi dirigenziali ed alla preposizione ad organi di direzione, consultivi e
di controllo delle amministrazioni pubbliche.
Peraltro le pubbliche amministrazioni possono avvalersi di contratti
di lavoro flessibile per lo svolgimento di programmi o attività i cui oneri
sono finanziati con fondi dell’Unione europea e gli enti del Servizio sanitario nazionale possono avvalersi di contratti di lavoro flessibile per lo
svolgimento di progetti di ricerca finanziati.
Anche in questo caso, se i predetti lavoratori vengano utilizzati per
fini diversi da quelli che ne consentono l’assunzione, è stabilita la nullità
del contratto e la responsabilità amministrativa del dirigente e del responsabile del progetto.
Tralasciando i problemi relativi ai lavoratori socialmente utili, per i
quali di volta in volta sono stati emanati provvedimenti normativi ad hoc
da parte della legislazione statale, va rilevato che le argomentazioni e la
giurisprudenza che di seguito viene riportata, pur se riferita a contratti a
termine, ha validità anche per i contratti formativi e di somministrazione
di mano d’opera temporanea, che per le modalità dell’assunzione o per le
caratteristiche dello svolgimento potranno essere inquadrate come rapporti di lavoro subordinato, ma che non potranno diventare a tempo inde906
terminato. La questione si è posta recentemente con riferimento alle ASL
ed alle aziende ospedaliere, che avevano ripetutamente assunto lavoratori con contratti a termine. È giurisprudenza ormai costante della Corte di
Giustizia dell’Unione europea che le direttive comunitarie sono applicabili non solo nei confronti dello Stato ma anche di enti pubblici territoriali e di qualsiasi ente pubblico munito di poteri che normalmente non sono concessi ai privati o che, comunque, sono assoggettati al potere di
controllo dello Stato. Conseguentemente nei confronti di qualsiasi ente
pubblico territoriale – al quale è stato affidato dalla legislazione statale o
regionale il potere di rendere un servizio di pubblico interesse – possono
essere fatte valere le direttive comunitarie. In tal senso le sentenza 22
giugno 1989, causa 103/1988, fratelli Costanzo; 12 luglio 1990, causa C
188/1989, Foster e A; 5 febbraio 2004 causa C 157/2002 Rieser Internazionale Tranporte; 4 luglio 2006, Adeneler; 7 settembre 2006, C 180/2004
Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova.
La Corte di Giustizia, in particolare in questa ultima sentenza, a proposito dell’assunzione in organico di dipendenti che avevano stipulato
una pluralità di contratti a termine, rilevato che la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro 18 marzo 1999 allegato alla direttiva 28 giugno
1999 appare applicabile anche nei confronti del predetto ente, ha osservato che quando si rileva che sono stati commessi abusi e la normativa
comunitaria non prevede specifiche sanzioni, compete allo stato membro
irrogare sanzioni adeguate alla gravità del danno subito dal lavoratore e
idonee a garantire l’efficacia preventiva, cioè dissuasiva, della sanzione
stessa; in effetti, ha stabilito la Corte di Giustizia, spetta ai singoli Stati
“prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di
garantire i risultati prescritti dalla detta direttiva”.
Giova rammentare che il Tribunale di Genova, dopo la sentenza della
Corte di Giustizia ha ritenuto la validità dell’esclusione della assunzione a
tempo indeterminato dei dipendenti con contratto a termine ed ha stabilito
che sanzione adeguata al precetto comunitario fosse rinvenibile nella normativa giuslavoristica applicabile ai rapporti di lavoro privati e nell’art. 18
statuto lavoratori, che stabilisce un minimo di 5 mensilità ed inoltre ne attribuisce altre 15 al dipendente illegittimamente licenziato per la rinuncia
alla reintegra nel posto di lavoro, in tal modo ritenendo realizzata anche
l’efficacia dissuasiva del divieto di abuso del contratto a termine.
Appare conseguente a quanto sopra esposto che disponendo la norma dell’art. 36 del d.lgs. 165/2001 al comma 6 che, in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego
di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le
907
medesime pubbliche amministrazioni, ma ciò “ferma restando ogni responsabilità e sanzione” si deve operare una distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (in tal senso De Angelis, Lavoro e
Previdenza citato) e che si è in presenza della prima ove il contratto sia
nullo e si dovrà applicare la normativa relativa alla responsabilità precontrattuale, mentre il secondo caso si verificherà quando il contratto stipulato è valido e non sia nullo, ma solo privo della stabilizzazione. In tal caso dovrà farsi riferimento all’art. 1372 cod. civ.: “Il contratto ha forza di
legge tra le parti: non può essere sciolto che per mutuo consenso o per
cause ammesse dalla legge” e non sarà applicabile l’art. 2126 cod. civ.
“Prestazione di fatto con violazione di legge”; il dipendente avrà diritto
al compenso spettante e alla regolarizzazione previdenziale, ma alla scadenza del termine (sia che si tratti di contratto a tempo determinato, o di
somministrazione irregolare di mano d’opera o di contratto formativo,
che sono tutti a termine) non avrà diritto alla stabilizzazione ma solo al
risarcimento del danno.
8. Brevi note conclusive
Volendo concludere questo breve lavoro, appare degna di menzione
la ratio che è sottesa, e che si può compendiare nella necessità di porre in
evidenza il problema dell’efficienza della pubblica amministrazione, che
è oggi al centro del dibattito politico, istituzionale ed economico. La linea di demarcazione tra pubblico e privato diventa sempre più grigia e
meno netta e la contrapposizione tra i due sistemi – in particolare nel
mondo del lavoro – è entrata in crisi, per la commistione tra diritti individuali, pubblico interesse, tra situazioni individuali e collettive che hanno diritto alla tutela da parte dell’ordinamento, insieme, peraltro, ad esigenze non solo di efficienza ma anche di economicità.
Questa contrapposizione tra interessi diversi ma tutti meritevoli di
tutela è stata complicata da tre fattori: in primo luogo dal passaggio da
strumenti di regolazione del rapporto di lavoro autoritativi a quelli contrattuali e, dunque, fondati su basi paritarie, con il rafforzamento del sistema di tutele individuali, e questo mentre nel rapporto di lavoro privato la flessibilizzazione del rapporto di lavoro apriva spazi, spesso preclusi nel rapporto di lavoro pubblico.
Il secondo elemento che ha creato un ulteriore motivo di complessità è l’attribuzione alle Regioni del potere legislativo anche – ma non soltanto – nel rapporto di pubblico impiego): si tratta della più rilevante innovazione contenuta nella Costituzione in questi suoi primi 60 anni di vi908
ta ed avvicina il potere di amministrare agli amministrati, consentendo
loro di gestirsi direttamente.
L’autonomia regionale, anche nel rapporto di lavoro, dovrebbe consentire un costante adeguamento alla realtà economica e sociale locale,
dell’ordinamento civile tutto, ed in specie di quello relativo al problema
dell’occupazione e del rapporto di pubblico impiego: in tal senso, l’ampiezza dell’autonomia riconosciuta alle Regioni dovrebbe essere strumento idoneo per la realizzazione dell’efficienza della locale pubblica amministrazione, mantenendo inalterati, o migliorando, le tutele dei dipendenti
pubblici locali. La sfasatura tra le realtà economiche tra le diverse Regioni, tra Nord e Sud e (in misura minore) tra Nord Est e Nord Ovest dovrebbe trovare nelle diverse realtà regionali adeguate soluzioni regolative.
Il terzo elemento è costituito dalla (relativa) mancanza di autonomia
finanziaria delle Regioni, (in attesa dell’annunciato federalismo fiscale)
che determina un pesante condizionamento delle trattative contrattuali,
alle quali, come sopra posto in evidenza, è attribuito il maggior potere di
regolamentazione del rapporto di lavoro del pubblico dipendente delle
Regioni.
Allo stato, atteso il sistema dei controlli della Corte dei conti – disciplinato dall’art. 7, comma 7, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla l. cost.
18 ottobre 2001, n. 3), e dall’art. 3, comma 8, della legge 14 gennaio
1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della
Corte dei conti) sussiste l’obbligo di comunicare ad un organo statale il
referto del controllo interno di gestione e, dunque, i dati relativi alla situazione finanziaria degli enti locali.
Le sentenze della Corte Costituzionale, n. 376 del 2003 e nn. 35 e
417 del 2005, hanno ribadito la legittimità dell’obbligo di trasmissione
che, di per sé, non è tale da pregiudicare l’autonomia delle Regioni e degli enti locali, in quanto esso deve essere considerato “espressione di un
coordinamento meramente informativo, che è finalizzato a consentire il
funzionamento del sistema dei controlli sulla finanza di Regioni ed enti
locali, onde realizzare il principio fondamentale del coordinamento della finanza pubblica con quella denominata finanza pubblica allargata”.
Allo scopo di realizzare la finalità fondamentale del buon andamento delle pubbliche amministrazioni devono essere utilizzati i criteri ed i
principi dell’esigenza di contenimento della spesa pubblica e del rispetto
del patto di stabilità interno.
All’uopo dovrà essere realizzata la distribuzione delle risorse disponibili dalla contrattazione collettiva che disciplina il rapporto di pubblico
impiego privatizzato con le Regioni, ma tenendo presente il principio di
909
“continuità” e realizzando così entro i limiti della variabilità e differenza
tra le varie Regioni esistente nella Repubblica una tendenza che appare
antitetica a quella che ha caratterizzato il Risorgimento.
9. Bibliografia
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Martini, Abuso dei contratti a termine da parte della p.a.: il danno
risarcibile e un’equivalenza impossibile, in «D&L», 2008, 2, 743.
910
ALESSANDRA SARTORI
Dottoranda di ricerca in Scienze del lavoro
nell’Università statale di Milano
Le esperienze di misurazione e di valutazione
della produttività dei servizi per l’impiego:
riflessioni sul quadro comparato 1
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La valutazione: nozione, finalità, tipologie. – 3. La valutazione dei servizi per l’impiego: nozioni generali. – 3.1. La valutazione di efficacia, efficienza e impatto; la categoria anglosassone della performance; gli indicatori. – 3.2. Considerazioni conclusive sull’impiego dei diversi tipi di valutazione. – 4. Esperienze internazionali di valutazione. – 5. Stati Uniti. – 5.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Lo
sviluppo e la diffusione degli One-Stop Career Centers. – 5.2. La valutazione dei servizi
per l’impiego. – 5.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La valutazione di performance
dal Job Training Partnership Act … – 5.2.2. … al Work Investment Act. – 5.2.3. La valutazione di sistema. – 6. Australia. – 6.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Il Centerlink
e il Job Network. – 6.2. La valutazione dei servizi per l’impiego. – 6.2.1. La valutazione
degli enti erogatori. La Job Network Provider Star Rating Methodology. – 6.2.2. La valutazione di sistema. – 7. Gran Bretagna. – 7.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Il Network dei Jobcentre Plus. – 7.2. La valutazione dei servizi per l’impiego. – 7.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La valutazione di performance del Jobcentre Plus. – 7.2.2.
La valutazione di sistema. – 8. Svezia. – 8.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Dall’Arbetsmarknadstyrelsen all’Arbetsförmedlingen. – 8.2. La valutazione dei servizi per l’impiego. – 8.2.1. La valutazione degli enti erogatori. Gli studi dell’IFAU e del Riksrevisionen. – 8.2.2. La valutazione di sistema. – 9. Conclusioni. I limiti dell’esperienza italiana e i suggerimenti provenienti dal quadro comparato. – 9.1. La valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi per l’impiego in Italia: iniziative tardive, limitate ed in fase
ancora sperimentale. – 9.2. I suggerimenti (di metodo e di merito) provenienti dall’esperienza comparata.
1. Introduzione
La valutazione delle politiche sociali pubbliche è un fenomeno relativamente recente nel nostro Paese: in passato ci si accontentava di un
controllo di carattere giuridico-formale degli interventi di politica sociale, sostanzialmente disinteressandosi degli effetti concreti sulla realtà su
cui essi incidevano e dei risultati conseguiti. La situazione era analoga
Il saggio rielabora ed approfondisce le tematiche trattate dall’autrice nella relazione
“Le esperienze di misurazione e di valutazione della produttività dei servizi per l’impiego: una
rassegna comparata” presentata al Convegno “II Conversazione sul lavoro” in data 4 maggio
2007 presso il Centro Congressi Hotel Cristallo a Cerese di Virgilio – Mantova.
1
911
anche nell’ambito delle politiche dell’occupazione, benché già dagli anni ’80 vi siano state interessanti esperienze di valutazione delle politiche
attive del lavoro in alcune Regioni a statuto speciale, segnatamente Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta 2. La situazione comincia a evolversi negli anni ’90: tuttavia, le pratiche valutative si appuntano sulle politiche di
formazione professionale, probabilmente trainate dalla crescente enfasi
che la Comunità europea pone sulla valutazione degli interventi dei fondi strutturali, in primo luogo del Fondo sociale europeo 3. Il vero e proprio decollo della valutazione delle politiche occupazionali diverse dalla
formazione, nonché dei servizi per l’impiego tout court avviene però a
cavallo del nuovo secolo. Le cause principali di questa evoluzione sono
probabilmente due: da un lato, gli ulteriori sviluppi della strategia europea dell’occupazione, sempre più basata su obiettivi da raggiungere e
sull’utilizzo delle risorse del Fondo sociale europeo 4; dall’altro lato, la
riforma del collocamento e il conseguente passaggio dalla concezione
burocratico-amministrativa a quella di servizio per l’impiego personalizzato e finalizzato al raggiungimento di obiettivi predeterminati 5.
La riforma federale attuata con la legge costituzionale del 2001 ha
attribuito importanti competenze legislative alle Regioni in materia di regolazione del mercato del lavoro: tra le Regioni che hanno maggiormente raccolto la sfida della valutazione dei servizi per l’impiego vi è sicuramente la Lombardia. L’art. 16 della l.r. 28 settembre 2006, n. 22 prevede
la valutazione di tutti i servizi di istruzione, formazione e lavoro finanziati o comunque gestiti dalla Regione, mentre l’art. 17 attribuisce questo
compito a un organo indipendente (il valutatore indipendente, per l’appunto) individuato tramite procedura a evidenza pubblica. In particolare,
la legge stabilisce che almeno il 75% dei finanziamenti regionali sia attribuito sulla base dei risultati della valutazione dell’ultimo anno 6.
Sull’esperienza valutativa della Valle D’Aosta v. infra la nota 204.
V. infra la nota 196.
4
Per questa evoluzione v. M. Barbera (a cura di), Nuove forme di regolazione: il metodo aperto di coordinamento delle politiche sociali, Giuffré, Milano, 2006; F. Ravelli, Il coordinamento delle politiche comunitarie per l’occupazione e i suoi strumenti, in «Diritti Lavori,
Mercati», n. 1, 2006, 67ss.
5
Cfr. per tutti P.A. Varesi, I Servizi per l’impiego: un nuovo ruolo delle strutture pubbliche nel mercato del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1999; V. Filì, L’avviamento al lavoro tra
liberalizzazione e decentramento, Milano, IPSOA, 2002; G. Falasca, I servizi privati per l’impiego, Giuffrè, Milano, 2006; S. Spattini, Il governo del mercato del lavoro tra controllo pubblico e neocontrattualismo. Analisi storico-comparata dei sistemi di regolazione e governo attivo del mercato, Giuffrè, Milano, 2008.
6
Per un primo commento alla l.r. n. 22 del 28 settembre 2006 cfr. P.A. Varesi, Regione
Lombardia: la legge di politica del lavoro, in «Diritto e pratica del lavoro, Inserto n. 7», 2007;
2
3
912
Questa normativa ha suscitato qualche perplessità in taluni ambienti
politici e sindacali, e, in qualche caso, anche aperta opposizione. Tuttavia, prassi valutative di questo tipo non sono eccentriche nel panorama
comparato: nell’ambito dei servizi per l’impiego, la tecnica del management by objectives, nella quale il momento valutativo è centrale, si sta
diffondendo sempre di più a livello europeo, dopo essere stata già utilizzata per lungo tempo nei Paesi anglosassoni (segnatamente Stati Uniti
d’America e Australia). Si deve tuttavia precisare che la rigida correlazione risultati/finanziamenti, stabilita nella legge regionale lombarda,
non è altrettanto ampiamente diffusa altrove.
In questo saggio si analizzeranno alcune significative esperienze di
valutazione dei servizi per l’impiego nel panorama comparato al fine di
trarne utili indicazioni in termini di potenzialità e criticità. Poiché tuttavia le categorie della valutazione e gli strumenti utilizzati per effettuarla
rimangono tuttora poco usuali per il giurista del nostro Paese, giova premettere alcune considerazioni introduttive sulla valutazione in generale e
sulla valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi all’impiego in
particolare.
2. La valutazione: nozione, finalità, tipologie
Valutazione è concetto multidimensionale e multidisciplinare di cui
sono state fornite svariate definizioni 7. Pur nella diversità degli approcci
sulla valutazione, in particolare, v. VIII. Sulla l.r. 22/2006 cfr. anche G. Falasca, Regione
Lombardia: nuova legge sul mercato del lavoro, in «Guida al lavoro», 2006, 40, 34.
7
V. ad esempio N. Stame, L’esperienza della valutazione, Seam, Roma, 1998, 9: «Valutare significa analizzare se un’azione intrapresa per uno scopo corrispondente ad un interesse
collettivo abbia ottenuto gli effetti desiderati o altri, ed esprimere un giudizio sullo scostamento che normalmente si verifica, per proporre eventuali modifiche che tengano conto delle potenzialità manifestatesi. La valutazione è quindi un’attività di ricerca sociale al servizio dell’interesse pubblico, in vista di un processo decisionale consapevole»; M. Palumbo, Il processo di
valutazione. Decidere, programmare, valutare, Franco Angeli, Milano, 2001, 61, e in Id., Qualità ed efficacia nei servizi: convergenza o coincidenza?, in «Qualità e servizi alla persona, Politiche sociali e servizi», gennaio-giugno 2001, 66: «la valutazione è un complesso di attività
coordinate, di carattere comparativo, basate sulla ricerca delle scienze sociali e ispirate ai suoi
metodi, che ha per oggetto interventi intenzionali […] con l’obiettivo di produrre un giudizio su
di essi in relazione al loro svolgersi o ai loro effetti». Volendo fare riferimento, per completezza, ad alcune definizioni classiche di teorici americani conviene partire da Suchman, autore del
primo vero manuale sull’argomento. Questi distingue la valutazione (scopo) dalla ricerca valutativa (strumento): la valutazione è «il processo generale di giudicare, in qualsivoglia modo, il
merito di qualche attività», mentre la ricerca valutativa è «il tentativo di utilizzare il metodo
913
scientifici e dell’ampiezza attribuita al concetto e al suo oggetto 8, elemento comune a tutte le impostazioni è la formulazione di un giudizio di
carattere comparativo sul merito o valore di un programma o di un intervento 9. Fondamentali sono inoltre le finalità e i destinatari (committenscientifico al fine di stabilire se una attività meriti di essere intrapresa». Cfr. E. Suchman, Evaluative research, Russel Sage Foundation, New York, 1967, 20, riportato da Stame, op. cit., 38.
Secondo un’altra impostazione classica «la valutazione è il processo di determinazione del merito, la validità (worth) e valore (value) delle cose e le valutazioni sono i prodotti di questo processo» (cfr. M. Scriven, Evaluation Thesaurus, Sage, Newbury Park, Ca, 1991, 1, riportata da
M. Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 62; e con qualche lieve differenza in N. Stame,
L’esperienza della valutazione, cit., 52). Contorni più definiti ha la definizione di Rossi e Freeman, che considerano interscambiabili le espressioni di valutazione e di ricerca valutativa e le
applicano al campo delle politiche sociali: «La ricerca valutativa è l’applicazione sistematica
delle procedure di ricerca sociale alla valutazione della concettualizzazione del disegno,
dell’implementazione e dell’utilità dei programmi di intervento sociale». (cfr. P.H. Rossi, H.E.
Freeman, Evaluation. A Systematic Approach, 5a ed., Sage, Newbury Park, Ca, 1993, 5; definizione riportata da M. Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 66-67).
Secondo la definizione comunitaria elaborata nell’ambito del Programma MEANS «la
valutazione di un intervento pubblico consiste nel giudicare il suo valore in relazione a criteri
espliciti e sulla base di informazioni che sono state specificamente raccolte e analizzate». Cfr.
Commission Européenne, Evaluer les programmes socio-économiques. Choix et utilisation des
indicateurs pour le suivi et l’évaluation. Collection Means, Luxembourg, Office des Publications officielles des Communautés européennes, 1999, I, 17.
Per una trattazione esaustiva del problema della definizione della valutazione e per una
rassegna delle differenti ricostruzioni prospettate nella letteratura, anche internazionale, v. M.
Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 59 ss. Per una ricostruzione storica del pensiero sulla valutazione e delle sue principali elaborazioni v. Stame, op. cit., soprattutto 31 ss.
8
Infatti, come si evince dalle definizioni riportate nella nota che precede, si spazia da impostazioni restrittive che riferiscono la valutazione esclusivamente agli interventi di politica
sociale (cfr. Rossi e Freeman) a impostazioni molto più ampie e generali che la associano a
qualsiasi azione razionale (cfr. quelle di Stame e Palumbo). In particolare Palumbo, pur sostenendo un concetto quanto più ampio possibile di valutazione, riconosce tuttavia che nel caso
italiano sia più consono parlare di valutazione di politiche pubbliche, poiché esse (considerate globalmente o in relazione a specifici aspetti) costituiscono l’oggetto privilegiato dell’attività valutativa. V. Palumbo, op. cit., 63. Secondo una classificazione di matrice comunitaria
(precisamente quella di MEANS) sono individuabili tre oggetti della valutazione in ordine di
generalità discendente: le politiche pubbliche tout court (tese al perseguimento di fini generali o goals), i programmi (caratterizzati da durata limitata nel tempo, budget prestabilito e obiettivi definiti con precisione), i progetti (sottocategoria dei programmi finalizzati al raggiungimento di obiettivi di carattere operativo). Cfr. A. Lippi, La valutazione delle politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna, 2007, 92.
9
Cfr. M. Franchi, M. Palumbo, La valutazione delle politiche del lavoro: questioni
aperte, riflessioni, esperienze, in M. Franchi, M. Palumbo (a cura di), La valutazione delle politiche del lavoro e della formazione, Sociologia del lavoro, 77, 2000, 14; M. Franchi, Dalla
valutazione delle politiche alle politiche della valutazione: spunti di riflessione sulla base di
un caso regionale, in Franchi-Palumbo, op. cit., 151.
914
ti) di questo giudizio, da cui dipendono sia l’utilizzo che ne verrà fatto sia
le domande specifiche che orienteranno il valutatore 10.
Per conseguenza, non costituiscono valutazione tutti i procedimenti
di sorveglianza e monitoraggio, che sono volti esclusivamente a raccogliere sistematicamente dati e informazioni, quantitativi e/o qualitativi,
necessari alla verifica dello stato di attuazione di una politica, di un programma o di un’azione 11. Il monitoraggio risulta dunque un momento
propedeutico ed essenziale alla valutazione, costituendone la base informativa: si può dire che «le informazioni generate dalle attività di monitoraggio sono la materia prima principale delle attività valutative vere e
proprie» 12. Esso, in particolare, deve garantire la raccolta di dati sufficienti a misurare lo stato e la modalità di implementazione e gestione
delle azioni; le caratteristiche della popolazione destinataria dell’intervento (c.d. target di utenza); i risultati ottenuti al termine dell’azione
stessa (output); i costi 13. Come è stato incisivamente sottolineato, «il monitoraggio fa riferimento a risultati lordi, mentre la valutazione fa riferimento a risultati netti» 14.
Dunque, benché nella prassi si registri talora confusione terminologica tra le due attività, queste vanno nettamente distinte: «il monitoraggio presenta una natura essenzialmente informativa e descrittiva, mentre
la valutazione implica un giudizio, indaga le ragioni degli esiti che si sono prodotti» 15. Non essendo qui il caso di soffermarsi ulteriormente su
questo tema, si rimanda all’abbondante letteratura in materia 16.
M. Palumbo, Qualità ed efficacia nei servizi: convergenza o coincidenza?, cit., 66.
Cfr. Franchi-Palumbo, La valutazione delle politiche del lavoro…, cit., 14; I. Speziali,
Sistemi di monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro, in Agenzia del lavoro della
Provincia di Trento, Analisi e proposte per la politica provinciale del lavoro. Linee della Commissione provinciale per l’impiego per l’elaborazione del documento degli interventi di politica
del lavoro 2002-2004, Trento, 2001, 142-146; D. Oliva, M. Samek Lodovici, La struttura del sistema di monitoraggio, in «A.T.I. Ismeri Europa-IRS» (a cura di), Servizio di monitoraggio delle politiche del lavoro, della formazione, dell’orientamento e integrazione con la scuola e rilevazione degli indicatori di impatto occupazionale, Rapporto metodologico, 2002, 97.
12
Così P. Sestito, Fonti statistiche per il monitoraggio delle politiche del lavoro, in G.
Antonelli, M. Nosvelli (a cura di), Monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro per
una «nuova economia», CEIS, Il Mulino, Bologna, 2002, 40.
13
Oliva-Samek Lodovici, La struttura del sistema di monitoraggio, cit., 97.
14
G. Cainelli, A. Montini, Fonti statistiche e monitoraggio delle politiche locali del lavoro in Emilia-Romagna, in G. Antonelli-M. Nosvelli (a cura di), op. cit., 158-159.
15
M. Franchi, Il monitoraggio e la valutazione delle politiche del lavoro: il caso
dell’Emilia-Romagna, in G. Antonelli, M. Nosvelli (a cura di), op. cit., 122.
16
Sulla distinzione fra monitoraggio e valutazione v. Stame, L’esperienza della valutazione, cit., 144-145. Sulle caratteristiche di un’attività di monitoraggio e sulla costruzione di
10
11
915
Per quanto riguarda le finalità di un processo valutativo, queste possono essere varie. A tale proposito è piuttosto comune la distinzione tra
valutazione (intesa qui in senso ampio e comprensivo anche del monitoraggio) come controllo (accountability) e valutazione come apprendimento (learning) 17. Nel primo caso la valutazione, intesa come strumento di management pubblico, si pone il fine di consentire alla struttura gerarchicamente superiore il controllo dell’operato di chi gestisce un intervento o un servizio pubblico nell’ottica di garantire il raggiungimento
degli obiettivi stabiliti e/o migliorare la performance, identificare sprechi
e disfunzioni, imporre sanzioni e distribuire risorse. Nel secondo caso la
valutazione è invece uno strumento di policy, finalizzato ad offrire al politico o agli altri stakeholders coinvolti elementi utili per decidere se
mantenere, modificare, ampliare o eliminare una determinata politica.
Come è stato opportunamente notato, il concetto di valutazione come accountability coincide sostanzialmente con quello di monitoraggio, mentre la nozione di valutazione come learning con quella di valutazione
d’impatto 18. Di conseguenza diversa ne è la tempistica: l’attività di controllo deve svolgersi in modo sistematico, su base continua o almeno con
cadenze regolari, la valutazione-apprendimento ha carattere episodico od
idonei indicatori, quali strumenti operativi essenziali, v. ad es. Oliva-Samek Lodovici, op. cit.,
79 ss.; cfr. anche F. Origo, M. Samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orientamento: una
rassegna della letteratura internazionale, in G. Botticelli, D. Paparella, (a cura di), La valutazione dei servizi di orientamento, Franco Angeli, Milano, 2002, 79 ss.
In argomento v. altresì A. Lippi, La valutazione delle politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna, 2007, 135 ss., che descrive i «sistemi di monitoraggio della performance» quale momento fondamentale della valutazione in itinere o di processo.
17
Cfr. Martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà: questioni di metodo e studi di casi, Collana della Commissione di indagine sulla povertà e l’emarginazione sociale, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1997, consultabile sul sito
www.commissionepoverta-cies.it, 8-16. V. anche E. Rettore, U. Trivellato, Come disegnare
e valutare le politiche attive del lavoro, in «Il Mulino», 1999, 48, 5, 899; E. Zucchetti, Le politiche del lavoro a livello regionale e locale: il quadro in cambiamento e le esigenze di valutazione, in M. Franchi, M. Palumbo (a cura di), La valutazione delle politiche del lavoro, cit.,
84; e più recentemente B. Dente, Analisi delle politiche pubbliche e valutazione, in «Rassegna
italiana di valutazione», 2006, vol. 34, n. 1, 105; A. Lippi, La valutazione delle politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna, 2007, 40.
18
F. Origo, M. Samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orientamento: una rassegna della letteratura internazionale, in G. Botticelli, D. Paparella, (a cura di), op. cit., 79.
Cfr anche Martini, Valutazione dell’efficaca…, cit., 12-13, il quale specifica che la valutazione come accountability tende a focalizzarsi sull’aspetto dell’efficienza (ovvero sul rapporto tra
costi e servizio realizzato), mentre la valutazione come learning predilige gli aspetti legati
all’impatto dell’intervento/servizio.
916
occasionale ed è posteriore all’erogazione del servizio o della misura che
ne costituiscono oggetto.
Oltre a quelle principali di learning/accountability il processo valutativo può dispiegare ulteriori finalità, che riflettono diversi bisogni informativi: compliance (cioè verifica della regolarità e conformità degli
atti alle procedure, alle regole o alle norme, ovvero controllo di legittimità), management control (controllo di gestione manageriale o di gestione
finalizzato a elaborare informazioni sugli aspetti cruciali dell’organizzazione), policy e program design (forma di valutazione ex ante tesa a supportare future decisioni o scelte tra alternative di azioni possibili) 19.
La valutazione, a seconda delle finalità e degli obiettivi conoscitivi
che si propone, può essere effettuata in tre diversi momenti 20: prima
dell’inizio di un intervento o di una data politica (valutazione ex ante),
durante l’intervento stesso (valutazione in itinere o di processo) 21, o
Cfr. A. Martini, G. Cais, Controllo (di gestione) e valutazione (delle politiche): un (ennesimo ma non ultimo) tentativo di sistemazione concettuale, in M. Palumbo (a cura di), Valutazione 2000. Esperienze e riflessioni, Primo Annuario dell’Associazione italiana di valutazione, Angeli, Milano, 2000, altresì consultabile sul sito www.prova.org. Vedi anche A. MartiniM. Sisti, A ciascuno il suo. Cinque modi di intendere la valutazione in ambito pubblico, in «Informaires», n. 33, dicembre 2007 (anche consultabile su www.prova.org). Per una rassegna dei
diversi approcci in materia v. Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 76 ss.
20
Su questa triplice scansione temporale si trova concorde la maggioranza degli autori,
nonché la convenzionale classificazione comunitaria Means (cfr. Commission Européenne,
Evaluer les programmes socio-économiques, cit., 52-54). Taluno tuttavia evidenzia il limite di
tale semplificazione e propone una periodizzazione molto più articolata del processo valutativo. Ad es. Bezzi, dopo aver specificato che la valutazione si dovrebbe fare in tutti i momenti
del ciclo decisionale (dalla fase della programmazione a quella dell’implementazione), individua otto fasi in cui si combinano le tre tradizionali (ex ante, in itinere, ex post) con i diversi oggetti valutati/tipi di valutazione. Cfr. C. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, Angeli, Milano, 2003, 123 ss. Per una posizione «parallela e non confliggente», v. Palumbo, Il processo
di valutazione, 201 ss., che specifica per ogni fase il tipo di valutazione, precisando che in tutte e tre le fasi può assumere rilievo tanto la valutazione di efficacia quanto quella di efficienza.
In tal modo si riesce a prendere in considerazione «la più ampia gamma possibile di aspetti del
valutare, uscendo da schemi angusti del tipo obiettivi-risultati, sia nella fase ex ante che in
quella ex post» (così Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 208). All’opposto un’altra impostazione individua due momenti della valutazione: all’inizio del programma/politica e al termine, riconducendo sostanzialmente la valutazione in itinere a quella ex post; in tal modo
quest’ultima non si appunterebbe solo sui risultati ma anche sui processi di attuazione. Cfr. G.
Vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, in M. Morisi, A. Lippi, Manuale di scienza
dell’amministrazione. La valutazione, Giappichelli, Torino, 2001, 242-243.
21
La valutazione in itinere va nettamente distinta dalla cd. mid-term evaluation (valutazione intermedia): quest’ultima può essere assimilata ad una valutazione ex post, ma è condotta nel corso dell’attuazione del programma/politica ed è finalizzata a sue modifiche (predeterminate). Invece la valutazione in itinere è volta a verificare il corretto funzionamento del pro19
917
all’esito dell’intervento, o un certo tempo dopo il suo termine (valutazione ex post o di risultato) 22. Molto sinteticamente 23 la prima è volta a verificare l’opportunità degli obiettivi o la congruenza tra questi e gli strumenti da utilizzare in modo tale da orientare i decisori nella scelta tra più
alternative; la seconda si avvale della base informativa fornita dal monitoraggio per verificare il corretto funzionamento di una politica; da ultimo la valutazione ex post può riguardare sia l’analisi delle politiche a regime sia interventi pilota condotti su una popolazione target ed è finalizzata alla rilevazione dei risultati in termini di efficacia/efficienza al fine
di apportare modifiche nel primo caso o di verificarne la fattibilità e la
generalizzabilità nel secondo.
Secondo un altro punto di vista la valutazione si distingue in valutazione di efficacia e di efficienza sui cui contenuti, per l’economia del
saggio, si rinvia al paragrafo seguente. A queste categorie generali vanno
ricondotte, secondo l’impostazione più diffusa 24, altre eventuali sottocategorie 25, che ne sono specificazione.
gramma o politica in vista di futuri aggiustamenti, ma non ne mette in discussione né gli obiettivi, né le modalità attuative»; cfr. Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 197-198. è stato
evidenziato che, mentre la valutazione di processo riguarda direttamente coloro cui è affidata
la gestione del programma e segue una logica di controllo manageriale e di learning, la valutazione intermedia di risultato concerne gli stakeholder e gli utenti secondo una mera logica di
accountability. Cfr. a riguardo Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 203.
22
Peraltro alcuni autori ulteriormente distinguono la valutazione ex post dalla valutazione conclusiva, sul presupposto che spesso (in particolare nel campo delle politiche del lavoro
e della formazione e dei servizi per l’impiego) alcuni effetti si verificano solo dopo un notevole lasso di tempo dal termine di un intervento o di una politica. La valutazione ex post concerne proprio questi ultimi, mentre quella conclusiva riguarda gli effetti immediati o quasi. Cfr. a
tal proposito M. Palumbo, M. Vecchia, La valutazione: teoria ed esperienze, in C. Bezzi (a cura di), Valutazione 1998, Giada, Narni, 1998, 88.
23
Ma è opportuno precisare che le sintesi sono spesso riduttive e incomplete e che, del
resto, non si registra concordanza di opinioni sul contenuto specifico di queste fasi della valutazione.
24
Cfr. Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 184.
25
Infatti, secondo alcuni autori, i tipi (o meglio criteri) di valutazione sono più numerosi. Ad es. taluno aggiunge la responsiveness (ovvero la rispondenza dell’intervento alle attese
dell’utenza), l’appropriatezza rispetto ai bisogni di partenza, l’accessibilità. Cfr. G. Bertin (a
cura di), Valutazione e processo decisionale, in «Valutazione e sapere sociologico. Metodi e
tecniche di gestione dei processi decisionali», Franco angeli, Milano, 1995, 28-29. Il programma MEANS, oltre alla valutazione di efficacia (effectiveness) e di efficienza (efficiency),
introduce le categorie della rilevanza (relevance), dell’utilità (utility) e dell’equità (equity): la
rilevanza fa riferimento alla congruità obiettivi/bisogni, l’utilità riguarda la soddisfazione dei
destinatari, diretti o indiretti, e l’equità attiene alla distribuzione dei costi e dei benefici dell’intervento e alle sue conseguenze sull’equilibrio sociale. (Commission Européenne, Evaluer les
programmes socio-économiques, cit., 71 ss.).
918
Infine sembra opportuno concludere questo discorso generale soffermandosi brevemente sulla figura del valutatore. Mentre l’attività di
monitoraggio è generalmente condotta dallo stesso soggetto che gestisce
o amministra l’intervento o la politica, la valutazione vera e propria può
essere condotta anche da soggetti esterni. Anzi è questa la soluzione preferibile, onde garantire il più possibile l’indipendenza del giudizio 26.
Spesso capita che nel processo valutativo partecipino in fasi diverse e a
diversi livelli una pluralità di attori (c. valutazione multilivello e multistakeholders) 27, come ad esempio specialisti esterni durante la valutazione ex ante o ex post, soggetti interni durante l’implementazione.
è di tutta evidenza come la natura e le caratteristiche degli autori
della valutazione si ripercuotano sul metodo utilizzato: se i politici sono
poco propensi all’uso di metodi sperimentali, per i connessi problemi etici e legali 28, gli studiosi prediligono questi ultimi per la maggiore attendibilità dei risultati.
Il quadro comparato mostra significative differenze al riguardo: mentre in Europa la valutazione è effettuata sia da soggetti esterni sia da organismi pubblici e si avvale prevalentemente di metodi quasi-sperimentali,
oltreoceano (USA e Australia) essa è condotta prevalentemente da istituzioni esterne e indipendenti e utilizza anche metodologie sperimentali 29.
3. La valutazione dei Servizi per l’impiego: nozioni generali
3.1. La valutazione di efficacia, efficienza e impatto; la categoria anglosassone della performance; gli indicatori
In questa sede ci si occuperà esclusivamente della valutazione ex
26
Di questa opinione: Rettore-Trivellato, op. cit., 902; Franchi, Dalla valutazione delle politiche..., cit., 160; G. Moro, La valutazione della formazione in Italia: dal metodo all’utilità, in Franchi-Palumbo, op cit., 109; Speziali, op. cit., 146.
27
Il tema della valutazione multistakeholder è molto valorizzato nella letteratura degli
ultimi anni. Cfr. M. Mark, R.L. Shotland, Stakeholder-based evaluation and value judgements, in «Evaluation Review», 1985, 9, 605 ss.; J.C. Greene, Stakeholder participation and
utilization in program evaluation, in «Evaluation Review», 1988, 12, 91 ss.; M.C. Alkin, C.H.
Hofstetter, X. Ai, Stakeholder concepts in program evaluation, in A. Reynolds, H. Walberg
(eds.), Advances in educational productivity, vol. 7, 87 ss., JAI Press, Greenwich, 1998.
28
V. paragrafo seguente.
29
Cfr. D. Ciravegna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del lavoro, in
D. Ciravegna et al., La valutazione delle politiche attive del lavoro: esperienze a confronto,
Utet, Torino, 1995, 60-61.
919
post o di risultato, in quanto la misurazione della performance (produttività) dei servizi per l’impiego (oggetto del saggio) implica necessariamente un apprezzamento a consuntivo del loro operato.
Giova premettere che, quando si parla di risultato, bisogna distinguere, a seconda del tipo di valutazione, tra: realizzazioni, ovvero il prodotto immediato (output); risultati, ovvero le conseguenze dopo un certo
periodo di tempo (outcomes); impatti, ovvero, le conseguenze in un lungo arco temporale (impacts o outreaches) 30. Ad es., con riferimento a un
intervento di formazione professionale, l’output consiste nel numero degli allievi formati; l’outcome nel numero degli allievi che, al termine del
corso, hanno trovato un’occupazione; l’impact o outreach nell’incremento della competitività delle imprese che si possono avvalere di risorse meglio addestrate e nel conseguente aumento del benessere sociale
nell’area interessata dalla misura formativa 31.
Precisato che l’output è comunque oggetto del monitoraggio piuttosto che del momento valutativo vero e proprio, la valutazione di risultato, genericamente intesa, può riguardare essenzialmente l’efficacia o l’efficienza della misura in esame.
In merito alla valutazione di efficacia si segnala una varietà, spesso
una confusione, terminologica e concettuale oltre che metodologica, soprattutto nella letteratura italiana 32. è di uso comune la distinzione tra efficacia interna (o gestionale), intesa come misura del grado di raggiungimento degli obiettivi posti in sede di progettazione dell’intervento (prescindendosi quindi dai reali cambiamenti prodotti sui destinatari) ed efficacia esterna (o sociale), intesa come insieme degli effetti prodotti sul
contesto economico-sociale con particolare riferimento alla soddisfazione dei bisogni originari degli utenti 33.
30
Cfr. C. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, Franco Angeli, Milano, 2003, 132; v.
Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 191. Nel linguaggio comunitario vengono utilizzati
termini simili, seppure con significati parzialmente diversi; inoltre gli impatti vengono distinti in «impatti specifici» (che riguardano gli effetti a breve-medio termine sui destinatari del
programma) e «impatti globali» (che definiscono gli effetti su popolazioni non destinatarie).
V. Commission Européenne, Evaluer les programmes socio-économiques, cit., 106-107, riportato da Palumbo, op. cit., 191-192.
31
Cfr. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, cit., 132.
32
In tal senso A. Martini, P. Garibaldi, L’informazione statistica per il monitoraggio e
la valutazione degli interventi di politica del lavoro, in «Economia&Lavoro», 1993, n. 1, 21,
dove si segnala che spesso si qualifica come valutazione di efficacia una serie di attività puramente descrittive, che costituiscono invece monitoraggio; C. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, cit., 129.
33
C. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, cit., 190-193; analogamente cfr. L. Resmini, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico: alcuni metodi di analisi, in «Economia e di-
920
Nel primo caso ci si riferisce agli effetti “lordi” della politica o al
suo processo di implementazione (c.d. efficacia “lorda”), nel secondo al
suo contributo netto (c.d. efficacia “netta”). Le posizioni più radicali,
particolarmente in auge fra gli economisti, riconducono tout court l’efficacia a questa seconda opzione: in tal caso l’efficacia indica «il contributo netto dell’intervento alla modifica della situazione preesistente» 34 o,
secondo una definizione equivalente, «la capacità di un intervento di produrre gli effetti desiderati» 35. Pertanto, secondo questa impostazione, il
termine è da considerare come sinonimo di «impatto».
La valutazione d’impatto si presenta come assai problematica 36. Infatti per poter individuare gli effetti netti di un dato intervento è necessario stabilire cosa sarebbe avvenuto nel caso in cui lo stesso non avesse
avuto luogo. Così, per esempio, per valutare l’impatto di un programma
di formazione professionale, non è sufficiente limitarsi a rilevare il numero degli studenti che ha trovato lavoro entro un determinato periodo
dalla fine dell’azione formativa (efficacia lorda); è necessario individuare se ed in che misura l’intervento abbia favorito la posizione occupazionale dei soggetti formati (efficacia netta o impatto).
A tal fine si deve procedere alla costruzione di una situazione controfattuale 37, confrontando il gruppo dei soggetti destinatari dell’intervento (gruppo dei “trattati”) con un gruppo di controllo, costituito da
soggetti che non sono stati inclusi nell’ambito dell’intervento (gruppo
dei non trattati) 38. L’ipotesi controfattuale può essere creata sperimental-
ritto del terziario», n. 1, 1993, 97; Franchi-Palumbo, La valutazione delle politiche del lavoro: questioni aperte, riflessioni, esperienze, cit., 17; Palumbo, Il processo di valutazione, cit.,
187; Vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, cit., 248.
34
A. Martini-P. Garibaldi, L’informazione statistica…, cit., 4.
35
Martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà, cit., 13.
36
Sulla valutazione d’impatto e sulle problematiche metodologiche connesse v. M. Samek Lodovici, La valutazione delle politiche del lavoro: l’Italia nel contesto internazionale, in
«Economia e Lavoro», n. 1, 1995, 64 ss.; v. altresì D. Ciravegna, La valutazione microeconomica, cit., 76 ss.; Martini, Valutazione dell’efficacia…, cit., 21 ss.; Vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, cit., 277 ss.; Origo-Samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orientamento, cit., 85 ss.
37
Con linguaggio matematico, la valutazione d’impatto può essere resa così: impatto =
fenomeno osservato – controfattuale. Cfr. Martini, Valutazione dell’efficacia…, cit., 22-23.
38
Per avere una stima attendibile, i due gruppi devono essere globalmente omogenei
(con riferimento a tutte le variabili che possono influenzare il raggiungimento dell’obiettivo
dell’intervento), tranne che per la variabile relativa al trattamento. La costruzione dei gruppi
deve cioè avvenire in modo da eliminare possibili distorsioni da selezione (selection bias), ovvero ripartire equamente tra i due gruppi le variabili non osservabili che possono condurre a
sottostimare o sovrastimare l’impatto dell’intervento (come ad es. la motivazione nell’ambito
921
mente, estraendo in modo casuale gli individui appartenenti ai due gruppi 39. Tale via è stata spesso percorsa soprattutto in passato negli Stati
Uniti, ma in Europa l’utilizzo del metodo sperimentale è avvenuto meno
frequentemente per motivi etici e legali (la via dell’esclusione arbitraria
di soggetti aventi titolo a partecipare ad una determinata politica del lavoro non appariva percorribile, perché i servizi stessi sono concepiti come un obbligo istituzionale), nonché di costo (infatti, per eliminare le
possibili distorsioni i due campioni devono essere comunque statisticamente rappresentativi, quindi necessariamente ampi) 40. Anche negli Stati Uniti, tuttavia, l’utilizzazione del metodo sperimentale è stata progressivamente ridotta alla valutazione dei progetti-pilota (c.d. demonstrations) che precedono il lancio di programmi di politica attiva del lavoro,
per la quale il metodo sperimentale puro sembra in effetti più adatto.
In alternativa l’ipotesi controfattuale può essere creata anche in modo non sperimentale o quasi sperimentale. In entrambi i casi, il processo
di selezione degli appartenenti ai due gruppi non è manipolabile dal valutatore, ma dipende dalle decisioni degli utenti e dei gestori dell’intervento 41.
La valutazione degli impatti netti si presenta particolarmente utile
per i policy makers, in quanto permette di apprezzare gli effetti di una determinata politica del lavoro depurandoli almeno in parte da quelli di dispersione. Tra gli effetti di dispersione sono ricompresi quelli di spreco
(ovvero i risultati che avrebbero avuto luogo anche in assenza dell’intervento); quelli di sostituzione (i soggetti partecipanti all’intervento sostituiscono altri che non ne hanno fruito, ma il tasso occupazionale rimane
invariato); quelli di spiazzamento (ovvero gli effetti indiretti dell’intervento attuato su altri lavoratori, imprese, settori estranei all’ambiente micro considerato) 42.
degli interventi di formazione professionale). Cfr. Samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive…, cit., 65.
39
in questo modo il selection bias è nullo per costruzione.
40
Samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive…, cit., 64-65; Martini, Valutazione dell’efficacia…, cit., 40.
41
Pertanto per eliminare le differenze di partenza degli individui trattati si utilizzano sofisticate tecniche statistico-econometriche. Nei disegni non sperimentali tout court sono utilizzati dati longitudinali o panels che consentono di tener conto quanto meno delle variabili osservabili, mentre nei metodi quasi sperimentali il gruppo di controllo è sovente costruito utilizzando i soggetti non ammessi al trattamento più simili a quelli che invece vi hanno partecipato. Cfr. Samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive..., cit., 64-65; Martini, Valutazione dell’efficacia…, cit., 41-43.
42
Ciravegna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del lavoro, cit., 74-
922
Per concludere sull’argomento, la valutazione d’impatto può essere
condotta su un piano microeconomico o su un piano macro 43. Nel primo
caso essa si propone di misurare gli effetti specifici di ciascun intervento, analizzandone le relative interazioni nonché l’impatto sulla popolazione target. Con riferimento ai servizi per l’impiego questa tecnica ha
consentito di verificare quale fosse la risposta di determinate fasce di
utenza ai programmi offerti e ha orientato scelte organizzative e strategiche significative 44. La valutazione dell’impatto macro fa riferimento agli
effetti delle politiche attive del lavoro tout court o del sistema servizi per
l’impiego sul mercato del lavoro, con particolare riferimento all’occupazione e ai salari. Si tratta di una valutazione piuttosto complessa. Infatti
gli indicatori generalmente utilizzati (il numero dei partecipanti ai programmi e la spesa destinata alle politiche del lavoro) possono dipendere
da svariati fattori estranei al fenomeno valutato (quali fattori istituzionali, bilancio pubblico, shock esterni, e così via) e possono conseguentemente portare a conclusioni fuorvianti.
Il secondo tipo di valutazione è quello di efficienza, che presenta sicuramente meno problemi dell’efficacia. Essa mette in relazione le risorse (finanziarie, materiali, tecnologiche, umane) utilizzate per realizzare
l’intervento (input) e i benefici ottenuti (output, outcome, impact). Si badi bene che, a seconda della nozione di efficacia di partenza (al lordo o al
netto delle variabili intervenienti), conseguirà una differente nozione di
efficienza. Così si avrà efficienza lorda, che appartiene alla fase del monitoraggio, o efficienza netta che fa parte del momento più propriamente
valutativo. In letteratura si distinguono due differenti tecniche di valutazione dell’efficienza. L’analisi costi-benefici compara i costi con i risultati ottenuti, economicamente considerati; l’analisi costi-efficacia valuta
un risultato predeterminato in termini di costo per unità di servizio o prodotto 45. In sintesi, la prima mira a massimizzare l’output per un dato input, la seconda è tesa a minimizzare l’input per un dato output 46.
è sovente utilizzata anche la distinzione tra efficienza gestionale ed
efficienza tecnica (o produttiva): l’una si riferisce alla minimizzazione
75; Samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive…, cit., 66; Martini, La valutazione
dell’efficacia…, cit., 30.
43
Cfr. a tal proposito la trattazione di Samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive…, cit., 67 ss.
44
Nello specifico si veda il paragrafo 9.2.
45
Stame, L’esperienza della valutazione, cit., 73. Cfr. anche Lippi, La valutazione delle
politiche pubbliche, cit., 156 ss., che tuttavia distingue tra tre approcci: analisi costi-benefici,
analisi costi-efficacia e analisi costi-utilità.
46
Cfr. Ciravegna, La valutazione micoeconomica delle politiche attive del lavoro, cit., 66.
923
dei costi, l’altra misura il razionale utilizzo dei fattori produttivi (che viene a mancare se si realizza un prodotto inferiore a quello possibile o si
utilizza una quantità di risorse superiore al necessario) 47.
Sempre più spesso, soprattutto in ambienti anglosassoni (ma non solo) assume rilevanza la valutazione di performance (performance evaluation). Si tratta di un’espressione dal significato variamente definito,
spesso usata a sproposito nel linguaggio comune. Secondo alcuni teorici
della valutazione la performance coincide con l’efficienza 48, secondo altri con l’efficacia lorda 49, mentre secondo l’interpretazione più ricorrente essa è un concetto più complesso che implica un mix di efficacia e di
efficienza 50 o, utilizzando una definizione ancora più ampia, un “insieme
delle caratteristiche desiderabili dell’operare di un’organizzazione (i suoi
costi; la qualità delle prestazioni; i volumi di attività; la ricaduta sull’ambiente esterno verso cui agisce)” 51. In quest’ultimo senso la valutazione
di performance comporta una rilevazione sistematica della qualità e
quantità del prodotto, al fine di verificarne la corrispondenza a predeterminati standard (indicatori) quantitativi e qualitativi 52. Dunque, secondo
tale prospettiva, si tratta di un’analisi che permette di integrare «informazioni relative sia all’andamento delle politiche sia alle prestazioni delle
organizzazioni»: in sintesi essa riguarda la «capacità di governo di un’istituzione» rispetto ai fenomeni rientranti nella sua sfera discrezionale 53.
Come si vedrà più avanti, nella legislazione americana, britannica e australiana sui servizi per l’impiego si fa riferimento esclusivamente alla
valutazione di performance 54; del resto, tale terminologia è caratteristica
dei sistemi di management by objectives che, a partire dalle esperienze
anglosassoni, si stanno diffondendo nell’organizzazione dei servizi per
47
Resmini, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico, cit., 95; Vecchi, La valutazione
delle politiche pubbliche, cit., 248.
48
M. Palumbo, Qualità ed efficacia nei servizi…, cit., 78; L. Tronti, Il benchmarking dei
mercati del lavoro. Una sfida per le regioni italiane?, in Antonelli-Nosvelli (a cura di), Monitoraggio e valutazione…, cit., 82.
49
Cfr. A. Me, La valutazione dell’impatto di politiche sociali, in «Economia & Lavoro»,
3-4, 1994, 104.
50
Resmini, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico, cit., 95; Palumbo, Il processo di
valutazione…, cit., 195 e 207.
51
Così A. Martini, M. Sisti, Indicatori o analisi di performance? Implicazioni dell’esperienza statunitense di performance measurement, in «Rivista trimestrale di Scienza dell’amministrazione», n. 2, 2002, 32.
52
Cfr. Martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà, cit., 14.
53
Così Vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, cit., 295.
54
V. infra parr. 5.2 e 7.2.
924
l’impiego in tutta Europa (v. infra il par. 4, in particolare alle note 61 e
62).
Per concludere, la valutazione, come il monitoraggio, si basa sulla
misurazione di indicatori di risultato che traducono quantitativamente
(«operazionalizzano», nel linguaggio tecnico) gli obiettivi prefissati e le
dimensioni di successo di una determinata politica occupazionale (ad es.
il numero di disoccupati intermediati che hanno trovato un lavoro). Un
corretto processo valutativo deve altresì tener conto di indicatori di contesto e di differenti tipologie di utenza: tali strumenti vengono utilizzati
per correggere gli esiti della valutazione prendendo in considerazione
fattori influenti, quali il contesto del mercato locale del lavoro (condizioni del mercato del lavoro locale, tasso di occupazione, di disoccupazione, composizione della domanda di lavoro, e così via) e le caratteristiche
della popolazione-obiettivo (ad es., sesso, età, titolo di studio, background
familiare, condizione di disoccupato di breve o lunga durata, eventuale
disabilità, ecc.) 55. In particolare, indicatori di contesto e tipologie di
utenza entrano nel processo di valutazione attraverso l’utilizzo di sofisticati metodi statistici ed econometrici che ne misurano l’impatto sugli indicatori di risultato.
3.2. Considerazioni conclusive sull’impiego dei diversi tipi di valutazione
A questo punto, definite le categorie essenziali della valutazione,
conviene svolgere qualche breve considerazione sull’utilizzo in concreto
dei diversi tipi di valutazione sinora descritti.
Anzitutto, si nota spesso nella prassi la tendenza a soffermarsi
sull’efficacia senza prendere in considerazione l’efficienza, quasi si trattasse di due dimensioni separate. In realtà si tratta di due aspetti complementari che vanno verificati congiuntamente 56. Condizione necessaria,
anche se non sufficiente, per realizzare un intervento efficace è il contestuale raggiungimento della massima efficienza 57. Non vale l’inverso: è
Oliva-Samek Lodovici, La struttura del sistema di monitoraggio, cit., 100-101; in particolare sugli indicatori per valutare l’attività di orientamento professionale erogata dai centri
per l’impiego v. R. Botticelli, M. Catani, Il modello di valutazione della qualità dei servizi di
orientamento professionale, in G. Botticelli, D. Paparella, (a cura di), op. cit., 170 ss. Per
un’esaustiva trattazione sui sistemi di indicatori di performance v. Vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, cit., 295 ss.
56
Stame, L’esperienza della valutazione, cit., 130; Palumbo, Il processo di valutazione
cit., 185.
57
Resmini, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico, cit., 97.
55
925
possibile operare con efficiente allocazione delle risorse impiegate senza
raggiungere gli obiettivi prefissati. Ad es. nel caso di una misura di formazione professionale o di un altro servizio erogato al disoccupato, la
minimizzazione dei costi non garantisce (anzi spesso inibisce) il successo dell’intervento (cioè la formazione di qualità e l’outcome occupazionale dei partecipanti). Pertanto, a sua volta, l’efficienza ha significato solo se si accompagna all’efficacia 58.
In secondo luogo, si può osservare che la valutazione d’impatto si riferisce più proficuamente ai caratteri complessivi di un intervento o di
una politica del lavoro o ai servizi per l’impiego globalmente considerati (valutazione di sistema), mentre la valutazione di efficienza (intesa in
senso lordo) si attaglia meglio ai singoli enti o centri erogatori dell’intervento o del servizio 59. Nel primo caso (valutazione di sistema) si persegue una logica di learning tramite l’apprezzamento dell’impatto delle
varie politiche: più precisamente, questo tipo di valutazione sarà utilizzato dal policy maker al fine di valorizzare le politiche esistenti, identificare eventuali criticità in esse presenti, realizzare cambiamenti o soppressioni, introdurne di nuove. Nel secondo caso (livello dei singoli enti erogatori del servizio), invece la valutazione (intesa in senso ampio e comprensivo anche del monitoraggio) sarà soprattutto finalizzata all’accountability tramite la verifica dell’efficacia ed efficienza lorde dei soggetti erogatori: a seconda dei risultati ottenuti nell’erogazione dei servizi, potrebbe conseguire, in relazione al contesto politico-istituzionale di
riferimento, una disciplina premiale o sanzionatoria in termini di attribuzione delle risorse pubbliche, fino al limite estremo dell’espulsione dal
sistema 60.
4. Esperienze internazionali di valutazione
Nel quadro comparato la valutazione dei servizi per l’impiego è collegata al diffondersi di pratiche di management by objectives (MBO) nel
settore pubblico 61. In quel contesto essa è prevalentemente finalizzata a
58
Palumbo-Vecchia, La valutazione: teoria ed esperienze, cit., 87; Palumbo, Il processo di valutazione, cit., 185.
59
Martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà, cit., 10.
60
La corrispondenza tra monitoraggio e accountability e, rispettivamente, valutazione
d’impatto e learning trova ampi riscontri in letteratura: cfr. ad es. Martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà, cit., 12; Origo-Samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orientamento…, cit., 79.
61
La tecnica del management by objectives (MBO) comincia a svilupparsi nel contesto
926
indirizzare gli enti pubblici operanti nel sistema dei servizi per l’impiego
verso gli obiettivi stabiliti, evidenziando e rimuovendo le aree di inefficacia ed inefficienza. In Europa questa prassi si sviluppa solo dalla fine anni 80/inizi anni 90 62, mentre negli Stati Uniti la cultura della valutazione
è diffusa già dagli anni 60. Tuttavia, mentre nel contesto americano la valutazione si presenta generalmente funzionale a un’ottica di reward/sanction dei soggetti che gestiscono le politiche pubbliche per l’impiego, nei
Paesi europei tale prassi è meno diffusa: la valutazione, quando riguarda
le singole strutture pubbliche, ha solo finalità di benchmarking 63.
Le più significative esperienze straniere di valutazione delle politiche
per l’occupazione e dei servizi per l’impiego si sono esercitate prevalentemente sulla valutazione (rectius monitoraggio) dell’efficacia ed effiamericano agli inizi del ’900 nel settore privato, ma la sua definizione organica e compiuta risale alla metà degli anni ’50 (per la stessa v. P. Drucker, The practice of management,
Harper&Row, New York, 1955, 104 ss.). Tale approccio richiede la preventiva determinazione
di obiettivi nonché del peso relativo di ciascuno di essi, la definizione di criteri di valutazione,
la fissazione di standard o parametri di riferimento, la valutazione dei risultati ottenuti e infine
la correlazione di questi ultimi ad un sistema di incentivi. (Cfr. Morisi-Lippi, Manuale di scienza dell’amministrazione, cit., 128). L’MBO progressivamente, con tempistiche diverse nei vari Paesi, trova applicazione nel settore pubblico in cui agisce come catalizzatore di un radicale rinnovamento in termini di una più efficiente ed efficace gestione. (Si parla appunto di New
Public Management). Sul tema la letteratura è sterminata: si veda per tutti Ch. Pollit, G.
Bouckaert, Public Management Reform. A comparative analysis, Oxford, Oxford University
Press, 2000.
62
I servizi per l’impiego che adottano il modello del MBO sono tenuti ad individuare finalità strategiche generali (goals), ad identificare obiettivi operativi tesi al loro conseguimento (operational objectives o targets), e ad adottare indicatori per misurare il raggiungimento di
tali obiettivi (performance indicators). Nel dibattito sul funzionamento ottimale dei sistemi di
MBO nei servizi pubblici per l’impiego viene messa in evidenza l’opportunità che il numero
degli obiettivi considerati sia quanto più possibile limitato e che essi siano determinati a livello decentrato (regionale o locale): in tal modo viene assicurato un sistema più efficiente ed
adattabile alle situazioni del mercato del lavoro locale (cfr. H. Mosley, H. Schütz, N. Breyer,
Management by Objectives in European Public Employment Services, Discussion paper FS I
01-203, Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung, Berlin, 2001, 19). Per uno studio
sull’applicazione del modello di MBO nei servizi per l’impiego dei diversi Stati europei v.
Mosley-Schütz-Breyer, op. ult. cit. Sul MBO quale tecnica di governo del mercato del lavoro v. anche S. Spattini, Il governo del mercato del lavoro tra controllo pubblico e neocontrattualismo. Analisi storico-comparata dei sistemi di regolazione e governo attivo del mercato,
cit., 87 ss.
63
Qualche decisivo passo nella direzione di un sistema di valutazione finalizzato a distribuire premi o irrogare sanzioni era stato intrapreso in Svizzera, ma, a quanto consta, il meccanismo non è mai andato a regime a causa di forti resistenze politiche. Sull’esperienza svizzera
v. l’approfondito paper di C. Hilbert, Performanzmessung und Anreize in der regionalen Arbeitsvermittlung: Der Schweizer Ansatz und eine Modellrechnung für Deutschland, 2004, consultabile sul sito www.wz-berlin.de/ars/ab.
927
cienza lorde, in misura più rara sulla valutazione degli impatti: in effetti,
quest’ultima per i motivi già illustrati 64, si presenta particolarmente complessa e richiede tempi lunghi. Negli ambienti anglosassoni è ovunque
diffusa la misurazione sistematica della performance, che, come già accennato, compendia la valutazione di efficacia/efficienza (lorde) alla rilevazione di aspetti legati alla qualità del servizio erogato (quale ad esempio la customer satisfaction, sia dei datori di lavoro che si rivolgono ai
servizi per l’impiego sia dei soggetti in cerca di occupazione).
Inoltre il quadro comparato mostra anche che le esperienze valutative più diffuse si sono appuntate in particolare sull’intermediazione, assai
spesso abbinata ad interventi formativi mirati. Infatti, l’orientamento e la
formazione professionale sono di problematica valutazione, in quanto il
loro esito è difficilmente apprezzabile, e comunque i loro effetti si manifestano spesso soltanto dopo un certo lasso di tempo dall’intervento 65.
Invece, l’esito dell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro è immediatamente quantificabile, e quindi la sua traduzione in indicatori (c.d.
“operazionalizzazione”) è abbastanza agevole. Va altresì considerato che
l’orientamento e la formazione professionale sono entrambi assai spesso
propedeutici all’inserimento lavorativo, cosicché la valutazione della loro efficacia risulta assai di frequente inestricabile da quella del servizio
di mediazione tout court 66.
Qui di seguito saranno analizzate le esperienze dei Paesi stranieri in
cui la cultura della valutazione ha prodotto risultati più avanzati: Stati
Uniti, Australia, Gran Bretagna, Svezia. Per ciascuno di essi, prima di
procedere all’analisi delle pratiche valutative, si ritiene opportuno delineare nei tratti essenziali il rispettivo sistema di servizi per l’impiego. Le
pratiche di valutazione non sono mai fini a se stesse, bensì risultano inscindibilmente legate ai contesti nei quali si collocano. In effetti, il loro
utilizzo è finalizzato al migliore governo dei servizi stessi, ovvero alla loro riforma o riorientamento, cosicché la mera analisi delle pratiche valutative disgiunta dalla considerazione del sistema in cui vengono effettuate sarebbe di scarsa utilità. Dopo la sintetica introduzione di carattere
istituzionale, si procederà ad analizzare da un lato i modelli di valutazione degli enti erogatori dei servizi, dall’altro le esperienze di valutazione
dei sistemi di servizi per l’impiego globalmente intesi, nonché della loro
Cfr. il paragrafo 3.1.
Cfr. a tale proposito F. Origo, M. Samek lodovici, La valutazione nei servizi di orientamento: una rassegna della letteratura internazionale, in G. Botticelli, D. Paparella (a cura di), op. cit., 76-77.
66
Cfr. Origo-Samek, op. cit., 75-76.
64
65
928
struttura, organizzazione e funzioni (valutazione di sistema), secondo la
distinzione operata nel paragrafo precedente, particolarmente comoda a
fini espositivi.
5. Stati Uniti
5.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Lo sviluppo e la diffusione degli
One-Stop Career Centers
Negli anni ’90 il Dipartimento del lavoro del governo degli Stati
Uniti ha favorito la diffusione degli One-Stop Centers (di seguito: OSC),
organismi pubblici che erogano in un’unica struttura integrata (one-stop
shop) una vasta gamma di servizi per l’occupazione, quali orientamento,
bilancio di competenze, informazioni sull’opportunità di istruzione e formazione, supporto all’ottenimento dell’indennità di disoccupazione e
all’accesso all’istruzione e formazione, assistenza per la ricerca di un posto di lavoro, consultazione di banche-dati sul mercato del lavoro 67.
Tali strutture sono state formalmente introdotte nel 1998 con il Work
Investment Act (WIA) 68, che sostituisce il precedente Job Training Partnership Act (JTPA) del 1982. Tuttavia già dal 1994 il governo federale
aveva cominciato a distribuire finanziamenti ad alcuni Stati perché costituissero e sviluppassero in via sperimentale one-stop centers addestrando il relativo personale. Secondo quanto previsto dalla legge, entro il luglio 2000 ogni Stato doveva dotarsi di una workforce investment area in
cui fosse presente almeno un one-stop center 69. Tuttavia alcuni Stati hanno mantenuto strutture autonome, a volte affiliate al sistema degli OSC,
a volte completamente separate dalla rete degli One-stop shops, costituendo in tal modo un sistema parallelo di erogazione di servizi per l’impiego (regolato e finanziato dal Wagner-Peyser Act) 70. Probabilmente an67
Per una trattazione puntuale sul sistema dei servizi per l’impiego negli USA v. Oecd,
The Public Employment Service in the United States, Paris, 1999.
68
Public Law 105-220 del 7 agosto 1998.
69
Nel 2007 erano presenti complessivamente 563 local investment areas, distribuite in
misura eterogenea fra i diversi stati, col numero massimo in California (50 aree). Per i dati precisi sulle aree e i relativi one-stop centers cfr. General Accounting Office, Workforce Investment Act. One Stop Infrastructure continues to evolve, but Labour should take action to require that all employment service offices are part of the system, GAO-07-1096, Washington,
D.C., september 2007, sopr. Appendix III, 44 (consultabile sul sito www.gao.gov).
70
Si tratta dei c.d. stand-alone Employment offices. Il Ministero del lavoro, pur esprimendo preoccupazione per il rischio di confusione, duplicazione di servizi, e di conseguenza
929
che in relazione a tali prassi nelle proposte del 2007 di emendamenti al
WIA, al fine di assicurare una maggiore flessibilità del sistema, la suddetta previsione viene stralciata, cosicché possono esistere anche aree
prive di OSC, purché, però, le stesse siano in grado di garantire servizi alternativi ed efficienti a chi è in cerca di lavoro 71.
Il sistema degli OSC è piuttosto articolato: esso comprendeva originariamente 17 programmi obbligatori, ora ridotti a 16 72, facenti capo a
quattro differenti agenzie federali: Ministero del lavoro, dell’istruzione,
della sanità e dello sviluppo urbano (Department of Labor, of Education,
of Health and Human Services, e of Housing and Urban Development).
Di tali programmi 3 sono stati introdotti, disciplinati e finanziati dallo
stesso WIA, in sostituzione di quelli previsti dal JTPA. Inoltre fanno parte del sistema l’Employment Service, regolato e finanziato dal WagnerPeyser Act del 1933 e l’Unemployment Insurance introdotto nel 1935 dal
Social Security Act 73. Accanto ai programmi-partners obbligatori, i singoli stati federali e le diverse aree hanno la facoltà di introdurne altri al
fine di contribuire meglio alle necessità locali 74. L’accesso ai servizi forniti tramite i programmi non è più basato sul reddito, come nella precedente disciplina 75, ma è garantito alla generalità degli utenti, sia disoccupati sia imprenditori 76.
per l’inefficiente uso delle risorse, constata che non ha l’autorità sufficiente a proibirli. Secondo una ricerca condotta dal GAO (General Accounting Office) nel 2007, ben 18 stati riportano di avere almeno uno o più stand-alone Employment Service office, e tra questi 9 dichiarano di averne almeno uno completamente scollegato dal sistema degli one-stop center. Per
quanto riguarda gli one stop centers, il loro numero è diminuito del 7% negli ultimi 6 anni,
probabilmente a causa della scarsità di fondi: si passa dalle 1756 unità del 2001 alle 1637 del
2007. Tuttavia il trend non si è mantenuto costante in tutti gli Stati: infatti in una decina di essi si è verificato un incremento. Cfr. GAO-07-1096, cit., 8-9, nonché, per dati precisi e completi, la tabella contenuta nell’Appendix IV, 46 e VI, 50. Cfr. altresì General Accounting Office, Workforce Investment Act. Additional Actions Would Further Improve the Workforce System, GAO-07-1051 T, Washington, D.C., June 28, 2007, consultabile sul sito www.gao.gov.
71
Cfr. Sec. 108 (b).
72
Infatti il programma Welfare to work, gestito dal Ministero del lavoro, è stato interrotto.
73
Per una tabella sinottica dei differenti programmi partner e delle agenzie di riferimento v. per es. GAO-07-1096, cit., p. 7. Per una descrizione degli stessi cfr. G. Pellicano, Le politiche per l’occupazione negli USA, Spinn-Adapt-Italialavoro, 2005, 39 ss.
74
Le proposte di emendamento hanno rivisto la lista dei programmi in partnership con
gli OSC, eliminando alcuni dei tradizionali partner obbligatori (per es. il Wagner-Peyser Act
Program) ed aggiungendone altri, prima solo opzionali (come il Temporary Assistance for Needy Families Program –TANF). Cfr Sec 108 (a).
75
Il JTPA prevedeva, infatti, che potessero fruire dei servizi solo le persone con un basso reddito.
76
Però per i giovani anche il WIA mantiene fermo il requisito reddituale.
930
I servizi offerti si articolano in tre pilastri (o livelli): servizi base (core services) 77, servizi intensivi (intensive services) 78 e formazione professionale (training) 79. I primi (come per esempio le facilitazioni alla ricerca del lavoro o informazioni sul mercato del lavoro) sono per lo più accessibili self-service, nelle apposite aree degli OSC a ciò adibite o tramite internet nella propria abitazione, ma possono richiedere una minima interazione con lo staff; gli altri due richiedono invece una significativo coinvolgimento degli operatori. è previsto che, per poter fruire del servizio di
assistenza intensiva, il disoccupato abbia sperimentato senza successo i
core services (self-service); e ulteriormente che, per poter partecipare alle attività di training, sia risultata vana l’assistenza intensiva: solo in tal
caso i disoccupati ricevono dei vouchers, detti Individual Training Accounts, con i quali possono rivolgersi ad un provider privato di loro scelta. Tuttavia nelle proposte di emendamento al WIA del 2007 questa progressione forzata viene eliminata, cosicché il cliente può, se necessita, direttamente accedere a servizi più complessi, quali il training 80.
Il sistema degli OSC è inserito in un contesto organizzativo alquanto articolato. A livello federale il Governo è competente per l’attribuzione delle risorse tra i diversi Stati, per la formulazione degli indicatori di
performance (d’accordo con gli Stati), per la valutazione dei risultati e
quindi per l’applicazione delle sanzioni o dei benefici. Invece l’implementazione dei programmi è operata a livello statale e locale. In particolare in ogni Stato è presente un comitato esecutivo (State Workforce Investment Board-SWIB) 81 che assiste il Governatore, predispone il piano
quinquennale (approvato in seguito dal Department of Labour), individua le aree locali di intervento (Local workforce Investment Areas-LWIA)
basandosi sui mercati del lavoro territoriali, provvede alla distribuzione
delle risorse, definisce e rileva gli indicatori di performance a livello lo-
77
Le proposte di emendamento al WIA del 2007 ampliano la gamma di servizi di base
che l’OSC può fornire, includendo per es. servizi di reclutamento per i datori di lavoro, la somministrazione del work test ai fini dell’erogazione dell’indennità di disoccupazione, la previsione di servizi di reintegrazione al lavoro per coloro che richiedono tale indennità. Cfr. Sec.
112 (e) (4).
78
Gli emendamenti proposti includono servizi aggiuntivi, quali l’apprendistato e la work
experience, le attività di scrittura e lettura, l’assistenza nella ricerca di un lavoro fuori zona.
Cfr. Sec. 112 (e) (3) (C).
79
Le proposte di emendamento istituiscono dei fondi ad hoc (Career Advancement Accounts) che gli utenti possono utilizzare per acquistare i servizi dai providers oltre che per pagare libri e spese varie. Cfr. Sec. 112 (e) (3) (D).
80
Cfr. Sec. 112 (e) (3).
81
Cfr. WIA, Title I, Sec. 111.
931
cale. Infine le LWIA 82 sono costituite in zone con almeno 500.000 abitanti 83 e caratterizzate dall’omogeneità del mercato del lavoro. In ciascuna è costituito un comitato locale (Local Workforce Investment BoardLWIB) 84 che ha un ruolo decisivo nella gestione degli OSC: infatti si occupa della selezione degli operatori degli uffici, dell’accreditamento dei
providers dei diversi servizi, della negoziazione dei livelli di performance attesi con l’autorità statale 85.
5.2. La valutazione dei servizi per l’impiego
5.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La valutazione di performance dal Job Training Partnership Act …
Negli Stati Uniti la cultura della valutazione di efficacia/efficienza 86
dell’amministrazione pubblica, e in particolare dei servizi sociali, è risalente 87, tanto questo Paese è stato definito come la culla della valutazione 88. Da un lato infatti la valutazione è stata istituzionalizzata con la cre-
Cfr. WIA, Title I, Sec. 116.
Tuttavia le proposte di emendamento al WIA del 2007 limitano tale automatica designazione ad un periodo di 2 anni e richiedono per queste aree solidità finanziara e performance positiva. Cfr. Sec 105 (a).
Secondo l’attuale disciplina inoltre le LWIA sono ammissibili in via temporanea altresì
in zone popolate da 200.000 abitanti che, sotto la vigenza del JTPA, costituivano Service Delivery Areas purché abbiano conseguito per due anni gli obiettivi di performance stabiliti e non
abbiano manifestato deficit finanziari.
84
Cfr. WIA, Title I, Sec. 117. Tali comitati hanno una composizione molto ampia e comprendono managers, enti formativi locali, rappresentanti aziendali, terzo settore, programmi
partner degli OSC. Tuttavia gli emendamenti proposti, al fine di facilitare il processo decisionale, prevedono una drastica riduzione del numero dei componenti, e non richiedono più la
presenza dei programmi partner degli OSC. Cfr. Sec 106 (a).
85
Per la descrizione del sistema v. G. Pellicano, Le politiche per l’occupazione negli
USA, Spinn-Adapt-Italialavoro, 2005, 8 ss.
86
Ma nella terminologia anglosassone è più diffuso il termine performance.
87
Si sviluppa infatti negli anni ’60 in relazione agli interventi sociali volti a contrastare
la povertà (c.d. Guerra alla Povertà). Cfr. C.F. Manski, I. Garfinkel, Valutazione strutturale e
valutazione in forma ridotta, in N. Stame (a cura di), Classici della valutazione, Franco Angeli, Milano, 2007, 249.
88
In tal senso v. N. Stame, Introduzione, in N. Stame (a cura di), Classici della valutazione, Franco Angeli, Milano, 2007, XI. Per la descrizione di alcune risalenti esperienze v. per
es. Ciravegna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del lavoro, cit., 83; M. Favro-Paris, La formazione professionale, in D. Ciravegna et al., La valutazione delle politiche
82
83
932
azione di organismi appositi 89, dall’altro la maggior parte delle leggi
americane che prevedono l’impiego di fondi pubblici contengono numerose disposizioni in materia di valutazione, specificandone gli obiettivi, i
criteri e le metodologie da adottare nonché le risorse stanziate ad hoc 90.
Inoltre essa costituisce parte integrante dell’implementazione delle varie
politiche.
Di grande importanza nel radicamento della pratica valutativa è stata l’approvazione del Government Performance and Results Act (di seguito GPRA) nel 1993, che impone alle più importanti Agenzie federali
l’adozione di sistemi di rilevazione e valutazione della performance. Più
precisamente queste, oltre a sviluppare piani strategici pluriennali, devono formulare piani annuali di performance in cui siano specificati obiettivi generali (goals) quantitativamente misurabili, risorse e strategie necessarie per raggiungerli, criteri e metodi di rilevazione della performance. Al termine di ciascun anno devono inoltre presentare reports accurati sul livello di performance raggiunto 91.
L’attuazione del GPRA e l’implementazione di tali sistemi di valutazione è avvenuta per gradi e ha richiesto numerosi esperimenti-pilota.
Una funzione essenziale in questo processo è stata svolta dal General Accounting Audit (GAO), che costituisce organo di supporto al Congresso
con funzioni ispettive, di controllo e valutative e contribuisce al miglioramento della performance e accountability del Governo federale: esso
controlla l’utilizzo delle risorse pubbliche, valuta i programmi e le politiche del governo federale e fornisce pareri, analisi e raccomandazioni al
Congresso. In particolare, in tema di politica del lavoro, è intervenuto
con frequenti rapporti e valutazioni indirizzate al Congresso e con raccomandazioni metodologiche per le agenzie federali coinvolte.
Tra le diverse agenzie governative, il Department of Labor ha avuto
un ruolo «pionieristico» 92 nell’introduzione e sviluppo di modelli di gestione basati sulla performance. Già negli anni ’70, e dunque ancora priattive del lavoro: esperienze a confronto, Utet, Torino, 1995, 139 ss.; Martini-Sisti, Indicatori o analisi di performance?, cit., 40 ss.
89
A tale proposito va osservato che in passato la valutazione era affidata ad istituzioni
esterne alla pubblica amministrazione, come ad esempio la Manpower Demonstration Research
Corporation, finanziata dal governo federale, o fondazioni private. Negli anni più recenti, accanto a questi organismi, si assiste ad un rafforzato ruolo delle autorità statali e locali in materia. Cfr.
Ciravegna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del lavoro, cit., 84.
90
Rettore, Trivellato, op. cit., 893.
91
Cfr. J. Dorrer, The US: Managing Different Levels of Accountability, in OECD, Managing Decentralisation. A new Role for Labour Market policy, Paris, 2003, 195-196.
92
Così B. Barnow, Exploring the relationship between performance management and
933
ma dell’emanazione del summenzionato GPRA, in diversi atti legislativi
era prevista una valutazione dei programmi ivi disciplinati. Per esempio
il Comprehensive Employment and Training Act (CETA) del 1973, che
introduceva e regolava programmi di formazione professionale e di sostegno all’occupazione, richiedeva che gli stessi fossero oggetto di valutazione. Di conseguenza il Dipartimento del Lavoro promosse più valutazioni di tipo quasi sperimentale (utilizzando una banca-dati longitudinale), volte a verificare le maggiori capacità reddituali e occupazionali
dei partecipanti. Tuttavia i risultati di tali studi sono contraddittori e, a
causa del metodo utilizzato, non sono stati ritenuti attendibili 93.
Più significativo ai nostri fini è il Job Training Partnership Act
(JTPA) che, introdotto nel 1982 in sostituzione del CETA, prevedeva servizi e programmi mirati a favorire il reinserimento lavorativo delle fasce
deboli, erogati da apposite agenzie pubbliche denominate Service Delivery Areas. Anch’esso istituiva un sistema di misurazione della performance finalizzato a “valutare la capacità delle agenzie di ottenere buoni
esiti occupazionali per gli utenti dei servizi” 94. Dato che i principali
obiettivi del programma erano identificati nell’inserimento occupazionale dei partecipanti entro un certo periodo di tempo dalla fruizione del servizio, nonché nel miglioramento del loro livello retributivo, tali obiettivi
sono stati tradotti operativamente nei seguenti indicatori, calcolati separatamente per diverse combinazioni di età e sesso dell’utenza: la percentuale di occupati per almeno 20 ore la settimana tra gli allievi (rilevata
mediante un’indagine a 13 settimane dalla conclusione del corso/fruizione del servizio); la retribuzione settimanale di coloro che sono occupati
alla tredicesima settimana dalla conclusione del corso/fruizione del servizio. Sono questi gli unici indicatori considerati in quanto la valutazione era stata volutamente focalizzata soltanto sull’efficacia intesa come
capacità di produrre gli outcomes desiderati (ovvero l’occupazione/retribuzione), prescindendo dall’efficacia intesa come outputs (clienti serviti), dalla qualità del processo (ore di lezione) e dall’efficienza (costo per
utente servito).
Il meccanismo immaginato prevedeva la fissazione di livelli minimi
di performance, opportunamente aggiustati per ciascuna agenzia per teprogram impact: a case study of the Job Training Partnership Act, in «Journal of policy analysis and management», 2000, vol. 19, n. 1, 119 e 137.
93
Per una rassegna critica di tali studi v. D.B. Muhlhausen, Do Job Programs work? A
Review Article, in «Journal of Labur research», 2005, n. 2, 307-311. Cfr. anche Ciravegna, La
valutazione microeconomica…, cit., 84; Rettore-Trivellato, op. cit., 896.
94
Cfr. Martini, Sisti, Indicatori o analisi di performance?, cit., 40.
934
ner conto dei seguenti indicatori di contesto: condizioni socio-economiche della zona; utenza servita con caratteristiche meno appetibili. Lo scopo era quello di evitare da un lato il c.d. creaming, ovvero la selezione
dell’utenza più facilmente collocabile da parte delle agenzie; dall’altro, di
consentire il raggiungimento del livello minimo di performance anche alle agenzie operanti in contesti difficili e con utenza particolarmente svantaggiata. Il calcolo dello standard minimo per ogni agenzia era effettuato
applicando un modello statistico di regressione che identificava l’effetto
marginale di ciascun fattore di svantaggio sull’indicatore e provvedeva a
correggerlo mediante l’applicazione di un moltiplicatore. L’elaborazione
e l’implementazione del modello erano affidate ad un istituto di ricerca.
La finalità della valutazione era quella di erogare benefici alle agenzie che si collocassero al di sopra degli standard minimi stabiliti, nonché
di irrogare sanzioni alle agenzie la cui performance si fosse rivelata per
2 anni consecutivi al di sotto di tali livelli minimi 95. Tuttavia, un recente
studio, volto a verificare la congruenza tra la performance misurata così
come previsto nel JTPA e l’impatto del programma sul mercato del lavoro, conclude che la congruenza è statisticamente debole e che, pertanto,
il Ministero del lavoro non dovrebbe irrogare sanzioni né applicare misure premiali sulla base di tal sistema 96.
Anche in conseguenza di tale valutazione non pienamente positiva
(sia per il metodo sia per il merito) nel 1998 il JTPA è stato sostituito dal
Workforce Investment Act (WIA).
5.2.2. … al Work Investment Act
Il WIA riforma in misura rilevante la materia del mercato del lavoro: oltre a disciplinare il nuovo sistema di servizi per l’impiego (workforce investment system), esso regola diversi programmi per i disoccupati
nonché le tecniche di valutazione da adottare. A tale proposito, il WIA
dedica una intera sezione del Titolo I (Sec. 136, Performance Accountability System) alle disposizioni in materia di valutazione, prevedendo un
sistema organico di misurazione della performance, costituito da un set
di 17 indicatori, distinti in indicatori-chiave (core indicators), indicatori
relativi alla soddisfazione dei clienti (customer satisfaction indicators),
Cfr. Barnow, Exploring the relationship between performance management and program impact…, cit., 124.
96
Barnow, Exploring the relationship between performance management and program
impact…, cit.,135-136.
95
935
indicatori addizionali (additional indicators); e differenziati per i giovani 97 e per gli adulti, in relazione alle diverse finalità dei programmi a loro destinati. Tali indicatori si applicano a tutti e tre i programmi disciplinati e finanziati dal WIA 98: Adult, Youth, Dislocated workers 99. Precisamente i core indicators per gli adult e i dislocated workers sono gli stessi: tasso di occupazione in un lavoro non sussidiato, tasso di mantenimento in un lavoro non sussidiato dopo 6 mesi dall’assunzione, reddito
percepito per un lavoro non sussidiato a 6 mesi dall’inizio, tasso di ottenimento di un credito formativo relativo ad un diploma scolastico o titolo equivalente o abilità professionali acquisite. Tali indicatori sono riprodotti per i giovani fra i 19 e i 21 anni con la sola differenza che per questi viene presa in considerazione anche l’istruzione post-secondaria e la
formazione professionale. Invece i core indicators previsti per i giovani
di età inferiore a 18 anni sono: tasso di ottenimento delle abilità di base
e, eventualmente, attitudine al lavoro e abilità professionali; tasso di ottenimento del diploma di scuola secondaria o titolo equivalente; tasso di
partecipazione e di mantenimento relativi a percorsi di istruzione secondaria o formazione avanzata; tasso di partecipazione al servizio militare,
all’apprendistato o tasso di occupazione.
Il WIA prescrive che i dati relativi alla performance debbano essere
tratti obbligatoriamente dagli archivi dell’indennità di disoccupazione
(Unemployment Insurance records-UI), in quanto ritenuti più attendibili
rispetto ad altri data-base: tali archivi contengono, per ogni soggetto registrato, informazioni relative alla nuova occupazione, al tasso di mantenimento, alle modifiche reddituali 100. Tuttavia per raccogliere dati sui lavoratori esclusi dagli archivi UI, è ammesso il ricorso a fonti supplementari, come indagini follow-up sui partecipanti ai programmi, ma non per
acquisire informazioni sul reddito e le sue variazioni 101.
97
I giovani sono suddivisi dal WIA in due categorie, alle quali si applicano indicatori differenti: giovani di età inferiore ai 18 anni e giovani di età compresa fra i 19 e i 21 anni, questi
ultimi assimilati agli adulti.
98
Per una puntuale descrizione v. G. Pellicano, Le politiche per l’occupazione negli
USA, cit., 45 ss.
99
Quest’ultimo programma è riservato ai soggetti che sono rimasti disoccupati in seguito a chiusura d’azienda o a licenziamenti collettivi e con grande probabilità non potranno ritornare allo stesso tipo di occupazione.
100
Invece il JTPA prevedeva che tali dati fossero raccolti tramite indagini follow-up con
i disoccupati, con notevole dispendio di risorse e tempo e col rischio di ottenere informazioni
non uniformi e poco attendibili.
101
V. la circolare del Ministero del lavoro: Training and Employment Guidance Letter
(TEGL) n. 7/99 (march 3, 2000), consultabile sul sito www.doleta.gov.
936
Indicatore trasversale a tutti i programmi è la soddisfazione dei
clienti (customer satisfaction), sia disoccupati, sia imprenditori, che viene misurata attraverso surveys condotte al termine della partecipazione
alle attività previste dal WIA.
Gli Stati, che sono chiamati ad applicare uniformemente tali indicatori-chiave, hanno la facoltà di integrarli con altri a loro scelta (additional
indicators), rispondenti alla peculiare situazione locale: si tratta di un elemento di flessibilità che smussa la rigidità del sistema di accountability.
Nel WIA, rispetto al JTPA, si rilevano due significative novità: anzitutto viene introdotta, quale decisiva misura di rilevazione della performance, la soddisfazione dei clienti (Customer satisfaction); in secondo
luogo vengono previsti notevoli spazi per la negoziazione della performance, che avviene a due livelli. Per un verso, gli Stati federati sono invitati a negoziare col governo centrale gli standard attesi di performance
per ciascuno dei 17 indicatori. A loro volta anche le aree locali negoziano questi livelli con lo Stato di riferimento 102. Tali accordi hanno durata
triennale, ma possono essere rinegoziati se intervengono imprevisti mutamenti significativi nelle condizioni economiche e del mercato del lavoro, nonché nella popolazione target. In ogni caso, come specifica la normativa, i livelli programmati o negoziati devono “tenere conto” dei fattori di contesto menzionati, quali le condizioni economiche, demografiche,
le caratteristiche dei partecipanti e i servizi da erogare. Nella disciplina
precedente, come si è visto, non era previsto alcuno spazio per la negoziazione fra gli attori coinvolti, ma i fattori di contesto erano inclusi nel
modello di valutazione attraverso la rigida applicazione di formule statistico-matematiche.
La valutazione persegue una logica di reward/sanctions: è cioè finalizzata ad attribuire incentivi economici o irrogare sanzioni in relazione
al livello di performance ottenuta sia a livello statale sia a livello locale.
A tal fine, ciascuno Stato federato ogni anno deve preparare e trasmettere alla Segreteria del Governo federale un rapporto in cui riferisce sui livelli di performance raggiunti e sui progressi riscontrati a livello statale
e locale, e dà conto dei processi valutativi condotti autonomamente dai
singoli Stati sui programmi del WIA realizzati all’interno dello Stato
stesso 103. Il report contiene infine ulteriori informazioni aggiuntive sui
102
La legge prescrive che i livelli attesi siano definiti in un forma «oggettiva, quantificabile, misurabile» e, una volta raggiunto l’accordo, siano inclusi nel piano statale pluriennale.
103
Infatti gli Stati, come previsto dal WIA sec. 136, subsec. e), in coordinamento con i
comitati locali, devono procedere a continui studi valutativi dei programmi previsti dal Wia
ed erogati nel loro ambito territoriale. Tali analisi devono includere la rilevazione della custo-
937
partecipanti alle attività autorizzate dal WIA 104. è interessante rilevare
che le informazioni non sono utilizzate esclusivamente dal governo federale, ma vengono rese disponibili alla collettività tramite pubblicazione e altri metodi appropriati: si realizza così un principio di trasparenza
delle attività pubbliche e si instaurano al contempo prassi di mutuo confronto e apprendimento tra i diversi Stati.
Per quanto riguarda le conseguenze della valutazione, è da notare che
l’applicazione di eventuali sanzioni non è mai immediata: qualora lo Stato ottenga uno scarso risultato, prima di procedere all’irrogazione della
sanzione, è previsto che il livello federale fornisca, su richiesta, assistenza tecnica nella predisposizione di un piano di miglioramento della performance. Solo se lo Stato realizza una performance insufficiente per due
anni consecutivi (alternativamente omette di presentare il rapporto annuale), il governo può ridurre fino al 5% le risorse pubbliche ad esso destinate per l’anno successivo. Nel caso in cui la performance attesa non venga
raggiunta a livello locale (in una workforce investment area), è lo Stato (il
governatore) cui l’area appartiene che deve assumersi la responsabilità di
richiedere l’assistenza tecnica. Se la situazione di inefficacia/inefficienza
si prolunga per due anni, il governo può adottare decisioni radicali che
possono andare dalla ristrutturazione del consiglio del lavoro locale (workforce investment board), alla eliminazione dal sistema OSC dei soggetti
ritenuti responsabili del fallimento della performance 105.
Se invece lo Stato federato (o l’area locale) raggiunge o supera il livello di performance richiesto riceve dal Governo federale dei finanziamer satisfaction, degli outcomes nonché misure di processo e possono avvalersi dell’utilizzo
di gruppi di controllo. Il Wia dispone l’allocazione di fondi ad hoc per tali attività e richiede
che esse siano il più possibile coordinate con le valutazioni avviate a livello federale. Gli Stati federali, sulla base delle disposizioni contenuti nel WIA hanno elaborato indicatori addizionali e costruito autonomi sistemi di valutazione interni. In alcuni tale processo era stato avviato addirittura già prima della riforma del 1998. Non tutti però si sono adeguati alla logica di reward-sanctions sottesa alla valutazione. Comunque, laddove introdotti, i meccanismi di incentivi e sanzioni variano da Stato a Stato. Cfr. Social Policy Research Associates (SPR), The
Workforce Investment Act after five years: results from the National Evaluation Implementation of WIA, Report prepared as part of the National Evaluation of the implementation of WIA,
June 2004,V-21 (consultabile sul sito www.doleta.gov/reports), dove vengono proposti alcuni
esempi di incentivi e sanzioni adottati in alcuni Stati.
104
Tasso di inserimento in lavori non sussidiati, salario d’ingresso, tasso di mantenimento e salario a distanza di 12 mesi, costi delle attività realizzate per i partecipanti, performance
relative ad alcune categorie di soggetti nominate.
105
è tuttavia previsto che l’area locale soggetta a riorganizzazione possa entro 30 giorni
dalla comunicazione presentare un appello al governatore dello Stato che dovrà decidere definitivamente entro i successivi 30 giorni.
938
menti (incentive grants). A tal fine è però necessario che lo Stato totalizzi un punteggio cumulativo del 100% per ognuno dei tre programmi finanziati dal WIA nonché per i programmi di Adult Education and Literacy; e che raggiunga l’80% della performance negoziata per tutti i 17 indicatori, poiché il fallimento relativo anche a uno solo di essi comporta
la perdita del diritto al finanziamento 106. Dal momento che questo approccio separa il sistema premiale dalla performance realizzata in ogni
singolo programma, così disincentivando gli operatori, le proposte di
emendamento suggeriscono di collegare i finanziamenti anche solo ad
una «performance esemplare» (dello Stato o delle aree locali) riferita al
raggiungimento o al superamento delle misure negoziate nell’ambito dei
programmi finanziati dal WIA, o alla performance realizzata con riguardo a particolari gruppi target 107.
Il GAO, in una serie di rapporti presentati al Congresso, ha analizzato il sistema di valutazione del WIA evidenziando una serie di nodi problematici e notevoli spazi di miglioramento 108.
In particolare ha rilevato che, quantunque il ministero del lavoro sia
intervenuto a più riprese con circolari esplicative, alcune misure restano
di difficile definizione: i crediti formativi (credentials) e le abilità acquisite si prestano a molteplici interpretazioni nei diversi Stati e dunque
comportano il rischio di disparità di trattamento 109. Tra l’altro una delle
prime circolari interpretative 110 contribuisce ad accrescere la confusione,
prescrivendo che debbano essere registrati (ai fini valutativi) i disoccupati che abbiano ricevuto dallo staff un’assistenza significativa: è di tutta
evidenza come anche questo concetto, nella sua vaghezza, possa dare
adito a una preoccupante discrezionalità. Per questo motivo il Department of Labor è intervenuto nuovamente sull’argomento definendo il
concetto 111. Ciononostante, le misure di performance prodotte dai diversi Stati permangono difficilmente comparabili.
V. la circolare del Ministero del lavoro TEGL n. 7-99, cit.
Section 113 (f).
108
V. per es. General Accounting Office, Workforce Investment Act: Improvements
Needed in Performance Measures to Provide a More Accurate Picture of WIA’s Effectiveness,
GAO-02-275, Washington D.C., february 2002, consultabile sul sito www.gao.gov.
109
Per esempio alcuni Stati forniscono una nozione molto restrittiva di credito formativo, includendo solo diplomi rilasciati da istituzioni accreditate; altri ne delineano confini molto più ampi, includendo anche la generica abilità al lavoro, esperienze on the job, la partecipazione a workshop.
110
TEGL 7-99, cit.
111
Costituisce assistenza significativa qualsiasi forma di assistenza dello staff che vada
oltre le mere attività informative e a prescindere dal tempo dedicato. Cfr. TEGL 17-05, 29.
106
107
939
Inoltre l’utilizzo dei dati della UI, se da un lato garantisce uniformità e attendibilità delle informazioni raccolte, dall’altro presenta diversi
inconvenienti: anzitutto sono disponibili solo dopo un consistente lasso
di tempo (9 mesi o più) e così non consentono una verifica dei programmi nel breve periodo; in secondo luogo non forniscono notizie su alcune
categorie di lavoratori (es. gli autonomi, il personale militare, gli impiegati del governo federale, i lavoratori delle poste) e su quelli che svolgono un’occupazione fuori dal luogo di residenza 112.
Va aggiunto che la valutazione, come configurata nel WIA, non fornisce un quadro completo e realistico dell’attività degli OSC, in quanto
non valuta i servizi self-service e quelli meramente informativi, benché
questi costituiscano una quota assai significativa del volume di attività
degli OSC. Per questo motivo con gli emendamenti proposti nel 2007 tali servizi sono stati inclusi fra gli aspetti da valutare.
Anche il criterio della customer satisfaction non permette di apprezzare alcuni aspetti: in particolare esso misura la soddisfazione dei disoccupati e dei datori di lavoro riguardo ai singoli programmi a cui hanno
partecipato, ma non rileva il loro giudizio sul servizio complessivamente
erogato dal sistema.
Pertanto la critica di maggior peso è probabilmente che tale impianto valutativo non permette di valutare il sistema OSC nel suo complesso,
ma solo i singoli programmi che ne fanno parte.
Tra l’altro, poiché ogni programma partner viene valutato sulla base di definizioni, criteri e metodi differenti 113, e i risultati in seguito inseriti in separati reports, ne risulta un quadro confuso e frammentato.
Per questo motivo, al fine di realizzare un sistema maggiormente integrato, l’Office of Management and Budget (OMB) già dal 2002 aveva
proposto l’adozione di una serie di misure (indicatori) comuni alla tota-
(consultabile sul sito www.doleta.gov). Si noti che tale circolare definisce tutti i principali termini chiave per l’implementazione della valutazione.
112
Per superare o almeno ridurre tali inconvenienti gli Stati possono ricorrere ad altre
fonti, concludere fra loro accordi finalizzati allo scambio dei dati, o servirsi di uno strumento
in grado di permettere una trasmissione reciproca dei dati (c.d. Wage Record Interchange System-WRIS). Tali espedienti non sono, però, risolutivi: le fonti supplementari non devono fornire informazioni sui redditi, non tutti gli Stati sono disponibili alla conclusione di detti accordi; il WRIS, a sua volta, richiede la predisposizione di sistemi di protezione della privacy e altri aggiustamenti amministrativi o tecnici che non tutti gli Stati sono in grado di affrontare.
113
Anche quando le misure di performance utilizzate nei vari programmi appaiono simili, possono essere diverse le definizioni di base. Per es. il gruppo dei giovani che nel WIA comprende i soggetti di età fra 14 e 18 anni, in altri programmi comprende gli individui fra i 16 e
i 24 anni.
940
lità dei programmi 114. Nel 2005 il Ministero del lavoro, raccogliendo
questi suggerimenti, ha adottato ufficialmente tali misure, specificandole e spiegandole in dettaglio in una apposita circolare (c.d. Training Guidance Employment Letter-TEGL) 115. Si tratta di sei indicatori, tre applicabili agli adulti e tre ai giovani. I primi sono: tasso di occupazione, tasso di mantenimento dell’occupazione, reddito medio; i secondi riguardano il tasso di partecipazione all’occupazione o all’istruzione, il tasso di
ottenimento di un diploma o equivalente, le abilità linguistiche o aritmetiche. Rispetto alle misure individuate dal OMB è stata eliminata, sia per
i giovani sia per gli adulti, l’efficienza (misurata in termini di costo per
partecipante): questo perché, alla luce dell’esperienza negativa maturata
sotto il JTPA, si temeva che l’introduzione di tale criterio avrebbe favorito l’erogazione di servizi di bassa qualità a scapito di un addestramento più intensivo e investimenti in capitale umano.
Gli Stati, con modalità e tempistiche differenti, si stanno muovendo
nella direzione indicata.
Il WIA avrebbe dovuto essere riautorizzato entro il 2003, ma il procedimento non si è ancora concluso. Nel 2007 sono stati proposti vari
emendamenti, alcuni dei quali rappresentano una netta rottura con i principi guida del 1998.
In particolare viene accantonato uno degli elementi caratterizzanti
del sistema anglosassone, cioè la rilevazione della customer satisfaction 116, che aveva cominciato ad essere utilizzata come misura di performance già dagli anni ’80.
Del resto sin dal 2005, con l’adozione delle misure comuni, il Ministero del lavoro aveva concesso agli Stati ampie facoltà di deroga, esentandoli in particolare dalla rilevazione della soddisfazione dell’utente.
Altra importante modifica è l’inclusione dei core services nella rilevazione della performance: in tal modo si ottiene un risultato più attendibile dato che tali servizi sono molto utilizzati dagli utenti 117.
In terzo luogo si prevede che i fattori di contesto abbiano un peso assai maggiore nella negoziazione sugli standard attesi di performance, a
livello sia locale sia statale: mentre nel WIA è previsto semplicemente
che questi fattori siano «presi in considerazione» ora si richiede che su
Cfr. Ray Marshall Center for the Study of Human Resources, Proposed approaches to workforce development performance measurement, Occasional Brief series, vol. 1, n.
1 (consultabile sul sito www.utexas.edu/reseach/cshr.).
115
TEGL 17-05, attachment a) (consultabile sul sito www.doleta.gov).
116
Cfr. Section 113 (a) (1).
117
Cfr. Sec. 113 (a) (2).
114
941
questi (più chiaramente specificati) si basi fondamentalmente la negoziazione 118.
Da ultimo anche negli emendamenti si dispone che il Governo utilizzi gli indicatori base per verificare l’efficacia di tutti i programmi federali 119. In tal modo verrebbe rafforzato ulteriormente il processo di costruzione di misure di performance comuni, in atto da qualche anno.
5.2.3. La valutazione di sistema
Gia il JTPA era stato sottoposto ad un’approfondita valutazione di sistema, con metodo sperimentale, confrontando gruppi di partecipanti ai tre
diversi tipi di formazione previsti con i rispettivi gruppi di controllo 120:
l’obiettivo era quello di valutare l’impatto complessivo (netto) del programma sul mercato del lavoro. Gli indicatori considerati sono stati il
tasso occupazionale e il livello salariale, verificati nei 30 mesi successivi
allo svolgimento dell’esperimento. I risultati sono compositi: mentre
l’impatto sull’occupazione è di 2-3 punti percentuali senza differenze tra
uomini e donne, l’impatto retributivo è maggiore per le donne (15%) rispetto agli uomini (8%), è nullo per i giovani ed è diverso a seconda del
programma considerato (la formazione in aula ha risultati peggiori di
quella on the job).
Anche il sistema del WIA nella sua globalità è stato oggetto di approfondita valutazione. Anzi, nel 2002 il Governo ha lanciato una strategia valutativa denominata «National Evaluation of the implementation of
the WIA». In questa cornice la società di ricerca Social Policy Research
Associates (SPR) ha condotto un ampio studio su un campione di Stati
federati a 5 anni di distanza dall’entrata in vigore della legge 121. L’indagine si è valsa sia del metodo qualitativo che di quello quantitativo, e ha
prodotto un cospicuo numero di reports intermedi 122. Con riferimento al
Cfr. Sec. 113 (a) (3) e Sec. 113 (b).
Cfr. Sec. 113 (g).
120
Si tratta di un’analisi di impatto molto ampia, che ha coinvolto un campione di circa
20.000 persone distribuite in 16 sedi diverse sul territorio nazionale. La valutazione è stata effettuata da L. Orr, H.S. Bloom et al., Does Training for the Disadvantaged Work? Evidence
from the National JTPA Study, Urban Institute Press, Washington D.C., 1996. Per una sintesi
esaustiva v. D.B. Muhlhausen, Do Job Programs work?, cit., 312-314. V. anche Favro Paris,
La valutazione della formazione professionale, cit., 143.
121
Cfr. Social Policy Research Associates, The Workforce Investment Act after five
years, cit.
122
Cfr. Social Policy Research Associates, cit., I-21 ss.
118
119
942
primo, sono state effettuate visite presso le local workforce investment
areas e i relativi One-Stop Shops e sono state condotte interviste ai soggetti competenti per l’amministrazione del WIA a livello statale e locale,
ai rappresentanti dei boards, agli esponenti dei programmi partners, nonché ai manager e agli operatori degli One-Stop Shops. La ricerca qualitativa si è snodata longitudinalmente in 3 fasi per dar meglio conto del progresso nell’attuazione del WIA: essa si è focalizzata in particolare sulla
gestione, anche informatica, del nuovo sistema, sulle modalità di erogazione del servizio, sulla costruzione di una partnership funzionante, sui
programmi offerti, sul modello di valutazione della performance previsto. L’indagine quantitativa, avvalendosi di apposite banche dati nazionali, si è concentrata su tematiche più specifiche quali il coinvolgimento dei
soggetti privati, l’erogazione di un servizio efficace al mondo delle imprese, nonché la capacità del sistema di soddisfare le esigenze di gruppi
specifici della popolazione, tra i quali i senzatetto, i disoccupati con insufficienti conoscenze linguistiche, i lavoratori delle campagne.
La valutazione condotta dal SPR ha messo in luce le notevoli difficoltà connesse al processo di passaggio dal JTPA al WIA, ma ha verificato al contempo che i vantaggi connessi al nuovo sistema sono reali: accessibilità universale del servizio; razionalizzazione e semplificazione
mediante l’accorpamento in un’unica struttura delle funzioni facenti capo ad enti diversi (in particolare quella di sostegno al reddito e l’erogazione dei servizi per l’impiego); accresciuta flessibilità nel rispondere alle esigenze specifiche delle comunità locali; più efficaci (seppur migliorabili) meccanismi di valutazione.
Anche il General Accounting Office ha periodicamente elaborato
rapporti in cui ha via via evidenziato i progressi e gli aspetti critici
nell’implementazione del sistema fornendo contestualmente raccomandazioni e suggerimenti ai policy makers 123.
6. Australia
6.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Il Centerlink e il Job Network
L’Australia ha riformato radicalmente il proprio sistema di servizi
per l’impiego a partire dalla seconda metà degli anni ’90 124. Nel 1997, in
V. rapporti GAO citati retro.
Per una descrizione dettagliata del sistema australiano v. Oecd, Innovations in labour
Market Policies. The Australian Way, Paris, 2001. V. anche, in una prospettiva comparata, De123
124
943
seguito allo smantellamento del sistema pubblico dei servizi per l’impiego (Commomwealth Employment Service- CES) è stato costituito il Centerlink, organismo pubblico che si configura come one stop shop, ramificato localmente in 1000 siti d’accesso e coniuga la funzione di sostegno
al reddito con alcune delle funzioni del disciolto CES: in particolare si
occupa del colloquio iniziale con i disoccupati, verifica il diritto ai benefits, ne amministra l’erogazione, provvede allo screening dei clienti per
identificare più facilmente, con un sofisticato strumento ad hoc (Jobseeker Classification Instrument-JSCI) quelli con maggiori barriere al lavoro, monitora il comportamento attivo dei disoccupati (c.d. activity
test), irroga le eventuali sanzioni, infine costituisce il punto d’accesso per
la fruizione dei servizi del Job Network.
Nel 1998, all’esito della riforma, la funzione pubblica di assistenza
ai disoccupati con attività di orientamento, mediazione e formazione viene attribuita, mediante periodiche gare di appalto organizzate su base regionale 125, ad enti (providers) privati, pubblici ed appartenenti al terzo
settore che insieme costituiscono appunto il Job Network (JN). Quest’evoluzione è in linea con la tendenza internazionale dell’introduzione di
meccanismi di mercato (rectius quasi-mercato) nel settore delle politiche
del lavoro, costituendone l’esempio più radicale 126.
Work and Pensions, The use of contestability and flexibility in the delivery of
welfare services in Australia and Netherlands, DWP, Research Report n. 288, Corporate Document Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.
125
Con la riforma l’Australia era stata inizialmente divisa in 29 Regioni del mercato del
lavoro, che dal 2000 sono state ridotte a 19, a loro volta distinte in Employment service Areas
(ESA), in modo che le offerte delle gare d’appalto riflettessero meglio le condizioni del mercato locale.
126
Uno Stato in Europa decisamente avviato in questa direzione è l’Olanda, dove, a partire dal 2002, l’intero servizio di reintegrazione dei disoccupati è stato appaltato ai privati. Cfr.
L. Struyven, G. Steurs, Design and redesign of a quasi market for the reintegration of jobseekers: empirical evidence from Australia and the Netherlands, in «Journal of European Social Policy», 2005, 15, 211 ss. In Inghilterra, benché la presenza dei privati sia consistente da
decenni, non ci si è spinti così oltre. Le Employment Zones (che implicano l’affidamento dei
disoccupati più svantaggiati a providers privati per un periodo di 26 settimane, sia per i servizi al lavoro sia per l’erogazione dei benefits) costituiscono esperienze limitate a zone determinate del Paese e ad alcune fasce di disoccupati, benché sia in discussione l’estensione del progetto (comunque non su scala nazionale). Sul quasi-mercato in generale la letteratura è abbondante: v. in particolare J. Le Grand, W. Bartlett, Quasi-markets and social Policy, The MacMillan Press, London, 1993; K. Walsh, Public Services and Marchet Mechanisms. Competition, Contracting and the New Public Management, The MacMillan Press, London, 1995; M.
Considine, Enterprising States. The Public Management of Welfare-to-Work, Cambridge University Press, Cambridge, 2001; con specifico riguardo ai Servizi per l’Impiego v. O. Bruttel,
Contracting-out and the Governance Mechanisms in the Public Employment Service, WZB,
partment for
944
Il numero e le caratteristiche dei providers sono variati nel corso degli anni, in relazione agli esiti delle gare d’appalto. Sino ad oggi sono state organizzate quattro tornate contrattuali (Employment Service Contracts-ESC), di cui l’ultima si concluderà nel 2009 127. Inizialmente (ESC
1) il servizio era stato affidato a circa 300 organizzazioni; in seguito
(ESC 2) ridotte a 200, di cui una buona parte a carattere religioso e volontario, e, infine, a un centinaio (ESC 3). Nei primi due stadi faceva parte del sistema anche Employment National, compagnia privatizzata partecipata dal Governo (quale unico azionista), derivante dal disciolto CES:
la ratio sottesa era di assicurare un servizio a copertura universale anche
dopo lo smantellamento del servizio pubblico per l’impiego. La compagnia partecipava alle gare d’appalto in posizione paritaria rispetto agli altri providers nelle zone trascurate da questi in quanto considerate commercialmente poco convenienti. Inizialmente essa si era assicurata un
terzo dei contratti, ma a causa della scarsa performance la sua quota di
mercato è stata progressivamente ridotta da ESC 1 a ESC 2 sino alla definitiva scomparsa in ESC 3.
Con la terza tornata contrattuale, al fine di ridurre i costi di transazione associati al meccanismo della gara d’appalto 128, sono state introdotte novità di significativo rilievo: in particolare è stato deciso che il
60% dei contratti venisse automaticamente attribuito sulla base della valutazione della performance, rilevata con un nuovo metodo (c.d. Star Rating, v.infra), fissando la soglia minima a 3,5 punti; il restante 40% continuasse ad essere assegnato mediante gare d’appalto. Inoltre è stato contestualmente stabilito che i singoli contratti debbano specificare il numero massimo di clienti che ogni provider può servire.
In ogni caso è mantenuta ferma la regola inderogabile secondo la
quale un provider non possa aggiudicarsi più del 50% del mercato e in
ogni zona debba essere garantita almeno la presenza di 5 provider.
Per aumentare la competitività e l’efficienza del sistema in via di
Discussion Paper n. 109, Berlin, 2005; E. Sol-M. Westerweld (eds.), Contractualism in Employment Services. A New Form of Welfare Governance, Kluwer Law International, The
Hague, 2005.
127
Precisamente ESC 1 si è svolto dal maggio 1998 al febbraio 2000; ESC 2 dal febbraio 2000 al luglio 2003; ESC 3 dal luglio 2003 al giugno 2006; ESC 4, iniziato il luglio 2006 si
svolgerà sino a maggio 2009.
128
Tali costi sono molto elevati in quanto nel sistema australiano non è prevista, come invece per es., in Olanda, una fase filtro che selezioni preliminarmente i partecipanti alla gara.
Cfr. L. Struyven, G. Steurs, Design and redesign of a quasi-market…, cit., 217-218. Sui costi di transazione tipici dei quasi mercati v. in generale O. Williamson, The Economic Institutions of Capitalism, The Free Press, New York, 1985, 15 ss.
945
principio i disoccupati possono scegliere il provider cui affidarsi: tuttavia
solo nel 20-30% dei casi essi sono in grado di effettuare una tale scelta;
per il resto il Centrelink provvede ad assegnarli in maniera automatica
sulla base della vicinanza geografica.
Il Job Network si focalizza sull’attività di placement, che è alla base
dello schema retributivo dei soggetti partecipanti. Più specificatamente
ha la funzione di aiutare i disoccupati nella ricerca del lavoro, anche segnalando nuove opportunità, offrire ai datori di lavoro un servizio di elevata qualità, la possibilità di una scelta più ampia a copertura delle posizioni vacanti, nonché incentivi consistenti per il collocamento dei disoccupati più svantaggiati. Originariamente erano previsti 3 principali e distinti servizi/programmi (denominati rispettivamente FLEX1, FLEX2,
FLEX3): la mediazione semplice (ora Job Placement-Basic Job Matching
in ESC1 e 2), il servizio di orientamento (Job Search Training), l’assistenza intensiva per i lavoratori più svantaggiati (ora Customised Assistance-Intensive Assistance in ESC1 e 2) 129. A questi vanno aggiunti gli
incentivi per la creazione di nuove imprese (the New Incentives Enterprises Scheme-NEIS) e i lavori di pubblica utilità (Project Contracting). I
disoccupati venivano assegnati all’uno o all’altro programma a seconda
delle caratteristiche, identificate dal Centerlink tramite l’ISCI: quelli
pronti al lavoro venivano inseriti nel Job Placement, quelli bisognosi di
un certo addestramento al Job training, quelli più lontani dal mondo del
lavoro alla Customised Assistance, che comprende oltre alle attività tipiche di altri programmi anche formazione più intensiva, work experience,
lavori sussidiati. Tuttavia, a partire da ESC 3, questa distinzione è stata
sostituita da un continuum di servizi, per cui tutti i disoccupati seguono
il medesimo percorso per la reintegrazione al lavoro, che inizia con
l’orientamento e culmina nell’assistenza intensiva.
A partire dal 2003 il livello di flessibilità, efficienza, qualità ed equità nell’erogazione dei servizi è stato migliorato grazie all’introduzione dei
Jobseeker Accounts, che sono fondi di cui i providers possono disporre, in
misura proporzionale al numero di disoccupati che hanno in carico e al rispettivo livello di svantaggio, per fornire assistenza mirata (training, sussidi, vestiti, attrezzature trasporto, ecc.), in particolare ai più bisognosi.
I disoccupati inseriti in questo programma erano classificati in distinte categorie (in
origine tre, poi ridotte a due) in relazione al grado di svantaggio e di lontananza dal mercato
del lavoro: i compensi erogati ai providers per il placement erano più consistenti per i gruppi
difficilmente collocabili con la precipua finalità di incentivare l’assistenza di questi soggetti.
129
946
6.2. La valutazione dei servizi per l’impiego
6.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La Job Network Provider Star
Rating Methodology
La valutazione dell’efficacia degli enti nello svolgimento delle funzioni loro attribuite riveste un’importanza centrale nel sistema, dal momento che, a tacer d’altro, il rinnovo dell’appalto viene concesso agli enti che presentano i risultati migliori. Poiché l’efficienza del sistema è già
garantita dai meccanismi concorrenziali presenti nella gara di appalto, la
valutazione si appunta soltanto sull’efficacia, intesa prevalentemente come outcome, ovvero risultato occupazionale.
Il modello di valutazione 130, predisposto da un ente di ricerca (South
Australian Centre for Economic Studies) dell’Università di Adelaide è
chiamato Job Network Provider Star Ratings Methodology poiché attribuisce un certo numero di stelle a seconda della performance dell’ente
esaminato.
Gli indicatori di performance sono differenziati a seconda del servizio cui si fa riferimento.
Per il Job Placement sono considerati: la quota di lavoratori occupati (per più di 15 ore su cinque giorni consecutivi) sul numero complessivo degli utenti; la quota di lavoratori occupati con contratti di lavoro a
tempo indeterminato; la quota di disoccupati di lunga durata (più di 6 o
rispettivamente 12 mesi) ai quali è stata trovata un’occupazione; la quota di lavoratori occupati appartenenti alle categorie svantaggiate (disabili, soggetti che provengono da famiglie che non parlano l’inglese, aborigeni).
Per il Job Search Training vengono in rilievo: la quota di disoccupati collocati entro 3 mesi dalla loro partecipazione alla sessione orientativa; la quota di disoccupati per i quali è stato pagato il bonus previsto; la
quota di disoccupati che non ricevono più il sussidio di disoccupazione 3
mesi dopo la partecipazione alla sessione di orientamento; la quota di disoccupati appartenenti alle categorie svantaggiate sopra menzionate che
sono stati collocati dopo la loro partecipazione alla sessione orientativa.
Per la Customised Assistance si calcolano: la quota di destinatari del
servizio collocati in un lavoro di almeno 13 settimane consecutive, con
una riduzione dell’indennità di disoccupazione pari almeno al 70%; la
quota di destinatari del servizio collocati in un lavoro di almeno 26 setti130
Cfr. Access Economics, Final Report. Indipendent review of the job network provider
star ratings method, march 2002, 9 ss., consultabile sul sito www.workplace.gov.au.
947
mane consecutive, con una riduzione dell’indennità di disoccupazione
pari almeno al 70%; la quota di destinatari del servizio collocati; la quota di destinatari del servizio appartenenti alle categorie deboli, che sono
stati collocati.
Il modello australiano tiene ovviamente conto di indicatori di contesto e tipologie di utenza. Essi riguardano due ordini di fattori: in primo
luogo le condizioni del mercato locale del lavoro, misurate mediante la rilevazione del tasso di disoccupazione nell’area di residenza e la crescita
delle opportunità di impiego nel mercato regionale; inoltre le caratteristiche del disoccupato, identificate in sesso, età, appartenenza all’etnia aborigena, condizione di disabile, provenienza da famiglia che non parla l’inglese, genitori single, livello di istruzione, durata della disoccupazione.
La valutazione viene effettuata attribuendo a ogni indicatore un peso relativo; le variabili influenti (indicatori di contesto e tipologie di utenza) sono utilizzate per correggere con un metodo di regressione statistica
le performance degli enti facenti parte del servizio pubblico per l’impiego. All’esito della valutazione a ogni ente viene attribuito un numero di
stelle che va da 1 a 5, e che indica la sua performance complessiva: il risultato si considera positivo se il punteggio totalizzato è di 3,5 star ratings, e in tal caso viene concesso o rinnovato il contratto.
Poiché la valutazione ha un’importanza centrale per la permanenza
degli operatori pubblici e privati nel sistema dei servizi per l’impiego australiani, non stupisce la circostanza che lo stesso modello valutativo, nel
2001, sia stato, a sua volta, sottoposto a valutazione, e con esito positivo,
da un soggetto indipendente (Access Economics) 131. In particolare il modello statistico è stato definito valido, accurato, oggettivo, affidabile, tuttavia suscettibile di affinamenti. A tal fine si propone di aggiungere un limitato set di variabili in modo da tenere maggiormente conto delle differenze urbane e regionali e di ridurre gli intervalli star rating, eliminando
i mezzi punti e calcolando solo i numeri interi da 1 a 5. Si suggerisce
inoltre di prendere in considerazione, accanto alla star ratings performance, altri elementi importanti, attualmente esclusi dall’assessment,
L’indagine, commissionata dal Department of Employment and Workplace Relations,
si propone di sottoporre a revisione le proprietà statistiche del modello verificando possibili
ampliamenti del data set utilizzato; si focalizza espressamente sui servizi di Intensive Assistance e di Job Search Training, ma ritiene i risultati estensibili anche al Job Matching. Lo studio ha richiesto due sessioni di lavoro, parallele e interattive. Da un lato il team di ricerca ha
organizzato consultazioni con 450 rappresentanti del Job network nelle principali città e selezionati centri regionali per individuare i nodi problematici ed elaborare proposte e suggerimenti; dall’altro lato, contemporaneamente, procedeva l’analisi tecnica del modello statistico,
che si giovava degli apporti di tali consultazioni. Cfr. Access Economics, Final Report, cit.
131
948
quali il prezzo pagato ai providers nelle diverse regioni (dato che riflette
le difficoltà attese degli outcomes occupazionali), nonché la qualità dei
servizi erogati.
6.2.2. La valutazione di sistema
Anche il Job Network (nel suo complesso e nei singoli servizi offerti), secondo gli impegni presi dal Governo, è stato oggetto di continue valutazioni, che hanno progressivamente permesso di apportare modifiche
migliorative al sistema. Si tratta di studi elaborati da soggetti diversi, non
sempre univoci nei risultati.
In primo luogo il Department of Employment and Workplace Relations (DEWR) al fine di verificare l’efficacia, l’efficienza, la qualità,
l’equità del JN, ha lanciato una complessa «strategia valutativa» a tre stadi (pubblicandone i reports), che comprende sia ampie indagini qualitative multi-stakeholder (disoccupati, datori di lavoro, membri del JN), sia
surveys con i partecipanti, sia indagini quantitative con gruppi di controllo. Il primo stadio riguarda l’implementazione iniziale (nei primi 17 mesi) del JN 132, il secondo rileva i progressi del nuovo sistema, soprattutto
in relazione all’equità nell’accesso all’assistenza e negli outcomes 133, il
terzo valuta l’efficacia globale (con riferimento alla sostenibilità degli
esiti occupazionali, all’impatto dei servizi sulle probabilità lavorative, alla soddisfazione dei clienti, alla capacità di risposta alle necessità particolari di alcuni segmenti dell’utenza, agli impatti macroeconomici) 134.
In particolare sono stati analizzati i punti di vista di circa 1000 stakeholders sul nuovo sistema, realizzate indagini sulla soddisfazione dei clienti, esaminate le pratiche di reclutamento e l’utilizzo del JN relativamente a 11.000 datori di lavoro, raccolti dati sugli outcomes
occupazionali a tre mesi dalla conclusione dell’assistenza, condotti studi di caso con gli indigeni aborigeni partecipanti all’Intensive Assistance. Cfr. Department of Employment and
Workplace Relations (di seguito DEWR), Job Network evaluation Stage one: implementation
and market development, Evaluation and Programme Performance Branch, Labour Market
Policy Group, february 2000, consultabile sul sito www.dewr.gov.au.
133
Questo studio è costituito da due surveys sui comportamenti dei disoccupati in Assistenza Intensiva: la prima condotta nel febbraio 2000 su 596 disoccupati e 60 operatori del servizio, la seconda nel mese di giugno su 582 partecipanti. Sono stati inoltre utilizzati dati amministrativi del DEWR nonché dati sullo status occupazionale o formativo, raccolti tramite il
monitoraggio dei partecipanti ai programmi tre mesi dal termine. Cfr. DEWR, Job Network
evaluation Stage two: Progress report, Evaluation and Programme Performance Branch, Labour Market Policy Group, february 2001, consultabile sul sito www.dewr.gov.au.
134
La ricerca consiste anzitutto in una survey con i partecipanti al JN, realizzata in due
fasi: nella prima, fra aprile e giugno 2001, sono state effettuate interviste telefoniche con 6.000
132
949
Gli esiti della valutazione sono piuttosto «positivi e incoraggianti» 135.
Dall’analisi qualitativa è emerso un miglioramento della qualità del
servizio rispetto al sistema del CES: da un lato i disoccupati si dichiarano soddisfatti di un servizio professionale, individualizzato, che li fa sentire trattati come persone e non come numeri, e utile nel migliorare le loro chances occupazionali; dall’altro i datori di lavoro sono soddisfatti di
un servizio personalizzato, veloce e in linea con l’evoluzione del mercato. L’analisi quantitativa ha dimostrato in primo luogo che l’efficienza
del sistema è aumentata, in quanto i costi per partecipante sono decisamente più bassi (addirittura dimezzati) in tutti i programmi 136. Tuttavia
la diminuzione dei costi non sempre si associa ad una maggiore efficacia
del servizio, rectius ad un accresciuto tasso di placement: si può parlare
di più elevato costo-efficacia per i programmi di Job matching e di Job
search training, ma non per l’assistenza intensiva.
Per quanto riguarda l’efficacia si registrano incrementi negli outcomes occupazionali in seguito alla partecipazione ai programmi, che si coniugano con un miglioramenti della qualità dei lavori (tipologia, durata)
nel lungo periodo 137. Tuttavia, l’impatto netto appare modesto: gli evidenziati incrementi occupazionali sono riconducibili in gran misura al
c.d. motivation effect (o compliance effect o threat effect), che comporta
un’intensificazione della ricerca del lavoro con l’avvicinarsi della data di
inserimento obbligatorio in un programma di politica del lavoro; e solo
in misura minore costituiscono l’effetto precipuo della partecipazione al
disoccupati volte a rilevare il loro status occupazionale, i procedimenti di ricerca del lavoro, le
esperienze con il JN; la seconda, alla fine di settembre 2001, implica una survey follow-up
(mediante interviste telefoniche) su 4100 soggetti già intervistati nello stadio 1 per verificarne
i miglioramenti occupazionali. In secondo luogo è stata realizzata un’indagine esplorativa con
gli stakeholders mediante focus groups e interviste individuali a 454 disoccupati e 128 membri de JN di differenti aree metropolitane, rurali e regionali di tutta l’Australia. Altri dati per la
valutazione sono stati tratti dai sistemi amministrativi del DEWR e dal monitoraggio effettuato 3 mesi dopo la partecipazione ai programmi (1 anno nel caso di Job matching). Cfr. DEWR,
Job Network evaluation Stage Three: effectiveness report, Evaluation and Programme Performance Branch, Labour Market Policy Group, May 2002, consultabile sul sito www.dewr.
gov.au.
135
Cfr. DEWR, Job Network evaluation Stage Three, cit., 17 ss.
136
Per i dati precisi v. DEWR, Job Network evaluation Stage Three, cit., 19.
137
Gli outcomes positivi associati alla partecipazione al programma di Job matching erano del 71%, (di cui il 66% impegnato in un’occupazione, il resto in istruzione e formazione professionale); quelli associati al Job training raggiungevano la percentuale del 52% (di cui il 45%
occupato); quelli derivanti dall’Intensive Assistance sfioravano il 45% (di cui il 39% inseriti in
un lavoro). V. più dettagliatamente DEWR, Job Network evaluation Stage Three, cit., 18.
950
programma (programme effect) 138. Un altro aspetto della valutazione
quantitativa riguarda la quota di mercato realizzata e mantenuta dal JN:
nelle successive tornate contrattuali si rileva un progressivo allargamento del mercato, accompagnato da un costante miglioramento della qualità dei providers, dato che i meno performanti venivano eliminati dal sistema 139. A tale proposito si ricorda che, per dotare il mercato di maggiore stabilità, a partire da ESC 3 è stato cambiato il meccanismo contrattuale: se da principio i contratti venivano stipulati o rinnovati mediante gare
d’appalto nelle quali la performance passata era solo uno degli elementi
di giudizio, a partire da questo momento ai soggetti che hanno ottenuto
una valutazione positiva della performance viene attribuito direttamente
il 60% della quota di mercato. Tale sistema, se garantisce la stabilità desiderata eliminando confusione e incertezza per i providers e i disoccupati, dall’altro lato impedisce o comunque rende difficoltoso l’ingresso
nel mercato di nuovi soggetti ed inoltre indebolisce il meccanismo competitivo del quasi-mercato.
La strategia valutativa del DEWR è completata da uno studio indipendente condotto nel 2002 dall’Australian Productivity Commission,
organo consultivo che si occupa di una serie di questioni economiche, sociali, ambientali attinenti al welfare, coadiuvando il Governo nell’attività decisionale 140. La commissione, confermando i risultati della ricerca
del DWR, conclude che l’introduzione di meccanismi di mercato ha aumentato l’efficienza del sistema, gli outcomes occupazionali (lordi), la
soddisfazione dei clienti, ma che l’impatto netto è molto basso. Tuttavia
riconosce che tali risultati sono destinati a migliorare col tempo man mano che i provider inefficaci/inefficienti sono eliminati dal sistema.
Inoltre sia le ricerche del DEWR, sia quelle della Productivity Commission, mettono in luce preoccupanti fenomeni di risk-selection, connaturati al funzionamento dei quasi-mercati: a causa della struttura retributiva, basata sugli outcome occupazionali dei clienti, i provider sono incentivati a focalizzarsi solo sui disoccupati più facili da collocare e quindi per
138
Ad es. per i partecipanti al Job Search Training, che avevano lasciato il programma
nell’agosto 1999, il beneficio netto (in termini di uscita dal sistema dei benefici sociali) era del
3%, ma l’effetto compliance del 10%; per coloro che avevano lasciato l’Intensive Assistance il
beneficio post-programma era del 10% e l’effetto compliance incideva per il 3%. Cfr Department of Employment, Workplace Relations and Small Business (DEWRSB), Job Network:
a net impact study, EPPB Report 1/2001, Canberra, april 2001, consultabile sul sito www.dewrsb.gov.au.
139
DEWR, Job Network evaluation Stage Three, cit., 20-21.
140
Productivity Commission, Indipendent Review of Job Network, Inquiry Report n. 21,
Canberra, 2002, consultabile sul sito www.pc.gov.au.
951
loro più profittevoli (creaming) offrendo ai più svantaggiati il minimo dei
servizi necessario per ottenere il pagamento fisso iniziale (parking).
In realtà diversi elementi del Job Network sono congegnati ab origine in modo da limitare tali rischi: in particolare la netta separazione tra il
Centrelink (che introduce disoccupati nel sistema) e gli enti erogatori,
l’assegnazione ai diversi servizi in modo oggettivo, tramite punteggi elaborati da un sistema statistico (JSCI), la regola per cui i providers non
possono rifiutare i disoccupati a loro inviati. Tuttavia, anche così non era
stato eliminato il rischio che i providers si concentrassero su quelli – fra
i disoccupati loro assegnati – dotati di maggiori chances occupazionali:
infatti gli studi hanno rilevato segnali che può verificarsi creaming in
questa fase. Tale pericolo riguardava soprattutto il programma di intensive assistance, in quanto questo, così come inizialmente configurato, offriva un pagamento iniziale non correlato agli outcomes ed inoltre non
specificava condizioni e standard minimi per il servizio da offrire. Sulla
base di tali rilievi, nella terza tornata contrattuale sono stati introdotti alcuni aggiustamenti. Anzitutto, come già detto, è stata eliminata la rigida
divisione tra i servizi, per cui tutti i disoccupati seguono in ugual misura
un medesimo percorso caratterizzato da un continuum di servizi; in secondo luogo il pagamento iniziale sganciato dalla performance è sostituito con un sistema di incentivi erogati in diverse tranches lungo l’arco
temporale in cui il soggetto è affidato al servizio: in particolare una somma iniziale è erogata a condizione che il servizio rispetti certi standard,
specificati in un apposito accordo (activity agreement), un’altra parte è
versata al provider quando il disoccupato è collocato in un’occupazione
da almeno 13 settimane (interim placement fee), il saldo dopo 26 settimane (final placement fee). Infine è stato istituito un fondo per finanziare i costi per l’assistenza e il training dei disoccupati, congegnato in modo da non permettere ai providers di trattenere a loro profitto le somme
risparmiate, cosicché questi siano incentivati a spenderle esclusivamente
per garantire un servizio di qualità 141.
7. Gran Bretagna
7.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Il Network dei Jobcentre Plus
L’attuale struttura del sistema dei servizi per l’impiego britannico ri141
Sulla valutazione del Jobseeker Account v. Dewr, Job network. Jobseeker Account
Evaluation, August 2006, consultabile sul sito www.dewr.gov.au.
952
sale al 2002, quando, nel contesto del work-first welfare state, caratterizzato da un nuovo equilibrio fra diritti e responsabilità 142, è stato creato il
Jobcentre Plus (JCP). Si tratta di un’ agenzia esecutiva del neo costituito
Department for Work and Pensions, e deriva dalla fusione di due agenzie
preesistenti: la Benefit Agency, responsabile dell’erogazione delle prestazioni sociali e l’Employment Service competente per i servizi al lavoro ed
in particolare per il matching. Pertanto essa, sulla base del modello americano, si configura come punto unico d’accesso (single gateway o onestop shop) per i disoccupati: infatti provvede tanto all’attività di intermediazione e all’offerta dei vari programmi di politica attiva (le differenti tipologie in cui si articola il New Deal 143), quanto all’erogazione dell’indennità di disoccupazione (Jobseeker’s Allowance-JSA) e delle altre prestazioni sociali (es. Income Support, Disability Allowance). La nuova organizzazione, pur essendo fortemente centralizzata, è articolata localmente in numerosi distretti (Jobcentre Plus Districts) in cui sono divise
le 11 regioni (Jobcentre Plus Regions).
Tale assetto è la conclusione di un processo che si sviluppa attraverso una serie di progetti pilota (pilots) e diverse tappe intermedie 144, che
hanno coinvolto nel sistema del JCP un numero progressivamente maggiore di vecchi uffici per l’impiego. La riforma avviata nel 2002 avrebbe
142
Non è questa la sede per trattare l’argomento. Si rinvia pertanto all’ampia letteratura
al riguardo citata da A. Tursi, Disoccupazione e lavori socialmente utili. Le esperienze di Stati Uniti, Germania e Italia, Angeli, Milano, 1996. Più recentemente v. anche J. Peck, Workfare
states, The Guilford Press, New York-London, 2001.
143
Più precisamente il New Deal comprende diversi programmi, alcuni obbligatori ed altri facoltativi, introdotti a partire dal 1997. Tra i primi troviamo il New Deal for Young People
(NDYP), per i giovani fra i 18 e i 24 anni, disoccupati da almeno 6 mesi; il New Deal 25 Plus
(ND25), destinato agli adulti disoccupati da più di 18 mesi. Fra i secondi si annoverano il New
Deal 50+, riservato agli ultracinquantenni dopo sei mesi di disoccupazione, il New Deal for
Disabled People (NDDP), riservato ai disoccupati invalidi che percepiscono l’incapacity benefit, e il New Deal for Lone Parents (NDLP), destinato ai genitori disoccupati singles, che
percepiscono l’income support. Per una descrizione delle caratteristiche di tali programmi v.
C. Hasluck, Better off in work or on benefit: income support, work incentives and welfare reform in the United Kingdom, paper of the Warwick Institute for Employment Research (IER),
2007, 17 ss.; cfr. anche R. Walker, M. Wiseman, Making welfare work: UK activation policies
under New Labour, in International Social Security Review, vol. 56, 1/2003, 9 ss.
144
In un primo momento l’iniziativa fu lanciata in 12 aree della Gran Bretagna tramite
l’istituzione dell’agenzia One, che fu operativa dal giugno 1999 all’ottobre 2001; in seguito il
progetto fu esteso in 56 Pathfinder Offices sparsi in 17 zone del Paese. Solo nell’aprile 2002,
dopo avere avuto conferma del successo dell’esperimento, questo fu avviato su scala nazionale. Cfr. E. Karagiannaki, Jobcentre Plus or Minus? Exploring the performance of jobcentre
plus for non jobseekers, Centre for Analysis of social exclusion, CASE Paper n. 97, march
2005, consultabile sul sito www.eprints.lse.ac.uk.
953
dovuto completarsi nel 2006, con la trasformazione della totalità delle
strutture preesistenti in 1000 Jobcentre Plus offices 145; tuttavia, per difficoltà nell’implementazione, è stata decisa una dilazione nel tempo nonché una riduzione del numero programmato 146. Il nuovo sistema è finalizzato al raggiungimento della maggior efficienza possibile nell’erogazione del servizio. Nel 2004 il Governo ha introdotto il cd. programma di
efficienza (The efficiency savings programme) che prevede l’eliminazione degli sprechi con un risparmio del 2,8% all’anno entro il 2008, ottenuto grazie allo sviluppo e al perfezionamento di una piattaforma IT in
grado di garantire la flessibilità ed il collegamento fra tutte le strutture,
alla diminuzione dei membri del comitato direttivo da 8 a 6, del numero
dei distretti da 70 a 50, nonché alla soppressione di 15.000 posti di lavoro tra il 2004 e il 2008 (20.000 in tutto a partire dal 2002) 147.
Il Jobcentre Plus, come ogni agenzia pubblica, è vincolato da una
convenzione con il Ministero da cui dipende (c.d. Public Service Agreement) a raggiungere una serie di targets annuali entro un budget assegnato: pertanto il suo funzionamento si caratterizza per un costante monitoraggio e conseguente valutazione dei risultati raggiunti, effettuati ai diversi livelli. Di questo si darà conto nel paragrafo che segue. Come è
emerso nel corso di alcune interviste condotte in loco da chi scrive 148, il
margine di discrezionalità dei manager nel raggiungimento degli obiettivi e nella distribuzione di risorse tra i vari programmi è alquanto ristretto. Tuttavia negli ultimi anni si assiste a un tentativo di rafforzare il loro
ruolo decisionale (con la creazione di figure apposite, quali i district managers) 149.
Nel 2001 si contavano 1500 vecchi Employment Offices con uno staff globale di
90.000 persone. Cfr. Finn et al., Reinventing the Public Employment Service: the changing
role of employment assistance in Britain and Germany, Anglo-German Foundation for the
study of Industrial Society, London, 2005, 23, consultabile sul sito www.agf.org.uk.
146
Alla fine del mese di settembre 2007 l’obiettivo era stato raggiunto per il 99%: erano,
infatti stati costituiti 858 uffici degli 865 previsti in seconda istanza. Entro il 2008 è prevista
l’organizzazione dei rimanenti 7 centri. Cfr. National Audit Office, The roll-out of the Jobcentre Plus Office Network, 11, consultabile sul sito www. nao.org.uk.
147
Con una conseguente riduzione del personale complessivo di supporto e direttivo dal
13% all’8% del totale. Cfr. House of Commons-Work and Pensions Committee, The Efficiency Savings Programme in Jobcentre Plus, Second report of session 2005-6, march 2006, 7-9.
(consultabile sul sito www.publications.parliament.uk).
148
Le interviste si sono svolte a Leicester nelle West Midlands nei mesi di novembre/dicembre 2007 e hanno coinvolto rispettivamente i manager di due centri, uno locale e uno distrettuale.
149
Sull’accresciuto potere discrezionale dei district mangers nel quadro di un progressivo decentramento nell’organizzazione del JCP v. C. Hasluck, A.E. Green, What works for
145
954
7.2. La valutazione dei servizi per l’impiego
7.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La valutazione di performance del Jobcentre Plus
La valutazione della performance dei servizi per l’impiego britannici è elemento centrale della gestione per obiettivi che, in linea con quanto richiesto dal Public Service Agreement, caratterizza il sistema e si sviluppa a vari livelli. In tale convenzione sono fissati gli obiettivi operativi
(targets) che l’agenzia è obbligata a raggiungere nel corso dell’anno di
riferimento, nonché gli indicatori per misurare la performance.
Gli obiettivi elaborati per l’anno 2007/2008 riguardano cinque macroaree che interessano sia gli utenti disoccupati, sia gli utenti-imprese,
sia l’organizzazione tout court.
Il job outcome target (JOT) è stato introdotto a partire dall’aprile
2006 in sostituzione del precedente criterio (job entry target) e comporta un’evoluzione significativa nella misurazione della performance 150.
Esso misura il numero di disoccupati che escono dal sistema dei benefits
per entrare nel mercato del lavoro 151 prescindendo da un intervento diretto degli operatori dei centri, ma computando altresì coloro che si avvalgono dei canali self-service o delle risorse informatiche, di pertinenza del
JCP, laddove in precedenza era considerato esclusivamente il numero di
occupazioni registrate derivanti da una specifica attività di intermediazione dello staff.
Inoltre il nuovo obiettivo permette di misurare la performance a livello del distretto, e non consente di isolare l’apporto del singolo ufficio
o tanto meno del singolo operatore, al contrario di quel che succedeva in
passato, quando il risultato era misurato individualmente.
Nel JOT per ogni disoccupato che trova collocazione lavorativa viene assegnato al distretto un certo punteggio, variabile da 1 a 12 a seconda del gruppo di appartenenza, ovvero più elevato se l’utente rientra in
una categoria più debole 152. Sono previsti punteggi addizionali per il colwhom?, Department for Work and Pensions, Research Report n. 407, Corporate Document
Services, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.
150
I relativi vantaggi/svantaggi del nuovo approccio saranno illustrati più avanti nel corso di questo paragrafo.
151
Tali dati sui nuovi occupati sono tratti dagli archivi di Her Majesty’s Revenue and Customs; la performance è misurata confrontando queste informazioni con i data bases dei clienti a disposizione del JobcentrePlus.
152
Precisamente sono assegnati 12 punti per ciascuno degli appartenenti al primo gruppo (genitori single, disoccupati che ricevono un sussidio di incapacità o altro sussidio che non
955
locamento di disoccupati residenti in aree svantaggiate (sulla base di
un’alta proporzione di minoranze etniche o di redditi molto bassi). Cosicché il target globale stabilito (11.200.000 punti) può essere raggiunto
indifferentemente collocando un gran numero di disoccupati con buone
chances lavorative o un numero limitato di disoccupati problematici o
provenienti da zone disagiate.
L’Employer Outcome Target misura l’efficacia/efficienza dei servizi
per l’impiego con riguardo all’altro fondamentale segmento dell’utenza
costituito dai datori di lavoro. Precisamente sono valutate tre aree-chiave
(indicatori): la capacità di soddisfare le richieste di avviamento per posizioni vacanti (resolution), la capacità di provvedere nei tempi utili per le
imprese (responsiveness), la congruenza tra le competenze dei lavoratori
avviati e quelle richieste dalle aziende (matching). L’analisi è condotta
da un ente di ricerca indipendente che provvede a effettuare interviste su
un campione di imprese.
Altro obiettivo di fondamentale importanza fa riferimento alla soddisfazione dei clienti, imprese e disoccupati (Customer Service Target) e
si articola in un set di standard, relativi alle tre essenziali modalità di accesso al servizio per l’impiego, ovvero di persona, per telefono, per via
telematica. Tali standard riguardano la professionalità dello staff nella
gestione dei rapporti con i clienti, la tempestività e la disponibilità al riscontro delle richieste, direttamente o per telefono, l’accuratezza e la
chiarezza delle informazioni fornite, sia in loco sia al telefono sia sul sito web: ognuna di queste dimensioni contribuisce in misura diversa al
raggiungimento dell’obiettivo globale che deve essere l’84% 153.
A sostituzione del Business delivery target (che misurava l’efficienza nello svolgimento di ciascuna delle attività cardine) nel 2007 è stato
previsto un nuovo target, definito Interventions Delivery Target, volto a
rilevare la tempestività con cui i personal advisers provvedono alle interviste obbligatorie (work-focused interviews) con determinate categorie di
disoccupati 154.
richiede attivazione del beneficiario), 8 punti per ciascuno degli appartenenti al secondo gruppo (disoccupati che ricevono JSA e partecipano al programma New Deal, disoccupati affidati
ai servizi gestiti dai privati-Employment Zones, disabili non appartenenti al primo gruppo, disoccupati che richiedono la JSA da 6 mesi e più, clienti svantaggiati, come alcolizzati, rifugiati, drogati, senza-tetto), 4 punti per ciascuno di coloro che reclamano la JSA da un periodo inferiore ai 6 mesi (3° gruppo), 2 punti per i disoccupati che non ricevono alcun beneficio (4°
gruppo), 1 punto per ogni soggetto già occupato che cambia impiego. Cfr. la tabella sul sito
www.jobcentreplus.gov.uk.
153
Per il peso relativo di ciascun indicatore v. la tabella sul sito www.jobcentreplus.gov.uk.
154
In particolare l’80% delle interviste con i percettori dell’Incapacity Benefit deve svol-
956
Inoltre l’Average Actual Clearance Target (AACT), introdotto per
l’anno 2006-2007 misura il tempo (numero medio di giorni lavorativi)
impiegato dallo staff per esaminare le richieste degli utenti relative alle
varie prestazioni sociali. Per raggiungere l’obiettivo, devono essere rispettati i termini relativi a ciascuna delle prestazioni qui di seguito menzionate e precisamente 18 giorni per l’Incapacity Benefit, 11 per l’Income Support, 12 per la Jobseeker’s Allowance. Il monitoraggio viene effettuato ogni mese, sia a livello nazionale sia a livello di distretto.
Da ultimo il Monetary Value of Fraud and Error Target si propone
di ridurre (del 15% entro il marzo 2010) le perdite economiche derivanti
da frodi dei clienti o da errori materiali degli stessi o dei componenti dello staff. Esso viene misurato su un campione estratto a caso di disoccupati percettori di indennità sociali, quali la JSA o l’Income Support.
Per l’anno 2008/2009 sono stati fissati obiettivi analoghi, ma elevati i livelli di performance richiesta 155.
La valutazione della performance costituisce parte integrante della
strategia di un continuo miglioramento del servizio, ma non comporta
l’applicazione di sanzioni o di premi, in termini di una differente allocazione di risorse ai centri per l’impiego locali o distrettuali. Per quanto riguarda invece meccanismi per premiare la performance dello staff, a partire dal 2000, in base alle indicazioni contenute nel Makinson Report 156,
commissionato dal Public Services Productivity Panel 157 col fine di indurre, motivare e diffondere comportamenti virtuosi dei pubblici impiegati, sono state sperimentate forme di retribuzione incentivante in divergersi dopo la fine dell’8a settimana ed entro la 13a dalla richiesta della prestazione sociale,
l’85% delle interviste ai genitori singles in Income Support deve avvenire entro 3 mesi, l’85%
delle interviste con i fruitori della Jobseeker’s Allowance deve svolgersi entro 6 settimane. La
performance da totalizzare (85%) risulta dalla media di tali componenti di uguale peso (cfr.
www.jobcentreplus.gov.uk).
155
Per es. con riguardo al JOT si richiede una maggiorazione della performance del 5%
rispetto a quella prevista per l’anno precedente; per L’Employer Outcome Target, che prende
il nome di Employer Engagement Target si richiede uno score del 92%, per il Customer Service Target un risultato dell’86%. Cfr. Jobcentre plus, Business Plan 2008-2009, 2008, 10 (consultabile sul sito www.jobcenterplus.gov.uk).
156
Questo studio, intitolato Incentives for Change, analizza i comportamenti di 150.000
front-line staff delle più importanti agenzie governative, quali Benefit Agency, HM Customs
&Excise, Inland Revenue, e l’Employment Service (l’attuale Jobcentre Plus) e fornisce proposte e raccomandazioni ad hoc, poi accolte per avviare esperimenti pilota. Cfr. J. Makinson, Incentives for Change. Rewarding Performance in National Government Networks, Public Service Productivity Panel, 2000.
157
Si tratta di un organismo creato nel 1998 al fine di migliorare l’efficienza e la produttività della pubblica amministrazione.
957
se agenzie pubbliche, tra cui il Jobcentre Plus 158. In particolare sono stati introdotti incentivi di gruppo (team-based incentives), usualmente a livello di ufficio (comprendente un centinaio di persone), più raramente a
livello di intere divisioni o regioni (comprendente anche migliaia di persone): essi consistono in una percentuale significativa del salario, (il 5%
e più) e sono corrisposti quando viene superato un certo standard-soglia
sulla base di target misti (quantitativi e qualitativi) legati a quelli previsti
dal Public Service Agreement. L’applicazione di tali schemi, come è stato evidenziato in recenti valutazioni, ha avuto un impatto positivo sulla
efficacia ed efficienza dei centri per l’impiego 159.
Lo stesso sistema di valutazione della performance è stato a sua volta
oggetto di valutazione. Come conseguenza alcuni dei target originariamente
previsti sono stati ridisegnati. In particolare il passaggio dal job entry target
al job outcome target (JOT), prima di essere lanciato su scala nazionale, ha
comportato una valutazione qualitativa e quantitativa dei progetti pilota, implementati a partire dal 2005 in sette Distretti in due differenti versioni 160. La
Sulle forme di retribuzione incentivante nella pubblica amministrazione introdotte in
Gran Bretagna cfr. S. Burgess, M. Ratto, The role of incentives in the public sector: issues
and evidence, in «Oxford Review of Economic policy», vol. 19, n. 2, 2003, 285 ss., e ulteriori
riferimenti bibliografici ivi indicati.
159
In particolare l’effetto è stato positivo rispetto al numero di avviamenti al lavoro, soprattutto negli uffici piccoli e nei distretti con pochi uffici, meno significativo negli uffici di
maggiori dimensioni o nei distretti con molti uffici; invece non si è osservato alcun impatto
sulla soddisfazione dei clienti. Questi risultati sono stati depurati dei fattori che possono distorcere la rilevazione della performance, quali differenze soggettive dei membri dello staff,
delle condizioni dei mercati del lavoro locali e fattori stagionali. Per una descrizione più dettagliata di questi schemi ed una correlativa valutazione v. S. Burgess et al., Evaluation of the
Introduction of the Makinson Incentive Scheme in Jobcentre Plus. Final report, january 2004,
consultabile sul sito www.bristol.ac.uk/cmpo. Cfr. altresì Id., Incentives in the Public Sector:
Evidence from a Government Agency, CMPO Working paper Series n. 04/103, march 2004,
consultabile sul sito www.bris.ac.uk /depts/CMPO/workingpapers.
160
Precisamente nella prima versione (Option 1), pilotata in quattro distretti, il numero
dei disoccupati che escono dal sistema di sicurezza sociale e trovano un’occupazione è rilevato utilizzando gli studi longitudinali del DWP (WPLS), che combinano i dati dei JCP con quelli delle tasse (Inland Revenue); nella seconda versione (Option 2), che è stata avviata in tre distretti, tali dati sono ricavati tramite accertamenti e controlli del JCP. Entrambi i sistemi presentano vantaggi e svantaggi: nel primo caso, poiché tutti i dati sono tratti da una fonte centrale, non c’è bisogno di controlli locali circa il numero di avviamenti al lavoro, ma i dati sulla
performance sono disponibili solo con un certo ritardo, visto che occorrono molti mesi per incrociare gli outcomes su entrambi i sistemi e riportarli nel WPLS; nel secondo caso la situazione è opposta: è necessario un tracking locale, ma i dati sulla performance attuale sono disponibili tempestivamente, anche se non sono completi (infatti questo sistema non permette di fornire notizie sugli outcomes occupazionali dei disoccupati che non richiedono i benefits o che
hanno solo sporadici contatti con i centri per l’impiego).
158
958
valutazione qualitativa 161, tramite molteplici interviste a staff, manager,
utenti e providers esterni, ha messo in luce i decisivi vantaggi che tale sistema presenta rispetto al JET.
Precedentemente, a causa delle modalità di computo del punteggio,
focalizzato sulla quantità degli outputs realizzati, si erano instaurate alcune pratiche perverse e tutt’altro che efficienti: lo staff per assicurasi
una job entry si concentrava sui clienti più pronti al lavoro (cherry picking), fornendo spesso servizi inutili e non richiesti, scoraggiava l’utilizzo di canali self-service (che non venivano computati), trascurava i
soggetti più svantaggiati e difficilmente collocabili, operava in una condizione di costante competizione, spendeva tempo e risorse per contattare i datori di lavoro al fine di provare il proprio diretto contributo all’assunzione del disoccupato. Il JOT, al contrario, ha introdotto un approccio
basato più sulla qualità che sugli outcomes numerici: in tal modo ha permesso allo staff di focalizzarsi sui disoccupati più svantaggiati e lontani
dal mercato del lavoro, indirizzando al contempo i più autonomi verso i
canali di ricerca self-service. Inoltre ha eliminato il clima di competizione fra i componenti dello staff, permettendo lo sviluppo di proficue pratiche di team working.
Questi cambiamenti hanno accresciuto il livello di motivazione di
molti advisers, rendendone il lavoro più stimolante. Tuttavia su tale
aspetto le opinioni dello staff non sono univoche: infatti una parte denuncia una maggiore confusione e incertezza nell’identificare gli obiettivi da
perseguire. Anche i manager, pur dichiarandosi generalmente soddisfatti
del cambiamento, rivelano una certa difficoltà nel passaggio da un sistema con obiettivi giornalieri e individuali ad uno caratterizzato da obiettivi collettivi e dati non prontamente disponibili e lamentano una mancanza di adeguata preparazione al riguardo. Per quanto riguarda l’impatto
sui clienti non si evidenziano particolari effetti negativi su alcuno dei
gruppi: molti soggetti si dichiarano soddisfatti del potenziamento dei
nuovi canali self-service; una minoranza, soprattutto fra quelli appartenenti ai gruppi a bassa priorità, critica la perdita di un rapporto diretto
Tale indagine si è sviluppata attraverso tre fasi: prima del lancio del JOT sono stati organizzati 14 gruppi di discussione con lo staff per verificarne le opinioni, le aspettative sul
nuovo sistema nonché il livello di conoscenza; tre mesi dopo l’implementazione si sono rilevati gli impatti iniziali tramite focus groups con 50 membri dello staff e interviste a 25 rappresentanti del management; sei mesi dopo focus groups e interviste hanno coinvolto una platea
più ampia di attori (oltre allo staff, 70 fra datori di lavoro e training providers, 211 clienti disoccupati). Cfr. S. Johnson, A. Nunn, Evaluation of the Job Outcome target pilots: findings
from the qualitative study, Department for Work and Pensions, Research Report n. 302, Corporate Document Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.
161
959
(face to face) con il personale. Per ciò che concerne infine l’impatto sui
datori di lavoro e sui providers, questo sembra nullo, anzi spesso il cambiamento non è neanche a conoscenza degli intervistati.
L’indagine quantitativa 162 compara gli outcomes occupazionali dei
distretti in cui è stato pilotato il JOT con quelli in cui esso non è stato introdotto. Conclude che, considerati i numerosi fattori coinvolti, l’impatto di tale target sugli outcomes occupazionali dei clienti è molto difficile
da quantificare, ma in ogni caso non sembrano esserci stati effetti negativi, se non minimi, su alcuno dei gruppi svantaggiati 163. Va segnalato comunque che il JOT permette di fornire una misura della performance più
corretta, in quanto cattura anche le cifre relative ai disoccupati che si servono dei canali self-service, dati che invece rimanevano ignoti al sistema
JET. L’analisi quantitativa comprende altresì una dettagliato resoconto
sull’efficienza (value for money) del nuovo sistema e anche da questo
punto di vista l’evidenza non mostra alcun effetto negativo 164. Tuttavia,
nell’analisi della performance globale va sottolineato da un lato che i dati sono stati raccolti in un lasso di tempo troppo breve perché siano pienamente attendibili, dall’altro che qualsiasi innovazione può comportare
nel periodo di start up aspetti negativi di carattere transitorio, suscettibili di miglioramento nel tempo.
Sei mesi dopo l’implementazione del JOT su scala nazionale, è stata
avviata un’ulteriore valutazione, che ha sostanzialmente confermato i risultati delle prime analisi sui progetti pilota, evidenziando cambiamenti
ancora più marcati nell’erogazione del servizio, nelle prassi lavorative, nei
comportamenti e nella motivazione dello staff. Tuttavia, poiché l’introduzione del JOT è parte di una trasformazione organizzativa del JCP di più
ampio respiro e si combina tra l’altro con mutamenti profondi nel mercato del lavoro, è molto difficile isolare uno specifico «effetto JOT» 165.
Cfr. J. Frankham et al., Evaluation of the Job Outcome Target Pilots:quantitative
Study, Final report, DWP Research Report n. 316, Corporate Document Services, Leeds 2006,
consultabile sul sito www.dwp.gov.uk
163
Va tuttavia precisato che i risultati differiscono nelle due varianti del JOT: la valutazione della prima indica un minimo effetto negativo, ascrivibile principalmente ad uno dei Distretti considerati, ma nessun impatto differenziato per i diversi gruppi di disoccupati; invece
la valutazione della seconda opzione mostra un effetto negativo sulla performance globale.
164
In particolare l’Opzione 1 ha registrato migliori risultati in termini di efficienza, soprattutto perché evita la raccolta e il monitoraggio locale dei dati, con notevole risparmio di
tempo e denaro.
165
Tale ricerca valutativa ha comportato interviste con più di 110 operatori del JCP (fra
manager e staff) di 11 distretti, con 25 datori di lavoro selezionati da una banca dati nazionale, 22 providers privati tratti da un campione nazionale; focus groups con clienti dei primi tre
gruppi prioritari; interviste negli uffici del JCP con i disoccupati appartenenti ai Gruppi 4 e 5;
162
960
Un’altra valutazione attinente il sistema di misurazione della performance ha riguardato la struttura del Business Delivery Target (BDT) ed è
stata realizzata tramite interviste e focus groups che hanno coinvolto i
principali livelli, politici e operativi, all’interno del JCP e del DWP 166.
Le diverse risposte hanno messo in luce punti di criticità e fornito suggerimenti di policy. In primo luogo si è rilevato che la struttura composita
del target (che conteneva 5 elementi ugualmente importanti riguardanti
l’accuratezza, l’efficacia e la qualità di specifiche attività del JCP) impediva di prendere adeguatamente in considerazione alcune importanti dimensioni, come per esempio l’accuratezza nell’erogazione del servizio.
In secondo luogo è stato osservato che il BDT, così come era configurato, si presentava più come uno strumento di management che come uno
di accountability del sistema: infatti esso misurava i processi, mentre è
opinione condivisa che i target dovrebbero concentrarsi sugli outcomes.
Tali critiche, accompagnate da suggerimenti di modifiche radicali, hanno
portato l’Agenzia a eliminare l’obiettivo, che nel 2007/2008 è stato sostituito dall’Interventions Delivery Target.
7.2.2. La valutazione di sistema
Dopo aver analizzato il modello di valutazione della performance
dei PES inglesi, è opportuno ricordare che la stessa configurazione attuale è frutto di numerosi esperimenti e progetti pilota accompagnati da valutazioni di impatto. Il sistema britannico, al pari di quello statunitense,
è infatti caratterizzato da un approccio decisamente empirico all’implementazione delle politiche: introdotte certe misure in aree circoscritte si
procede alla valutazione degli effetti e, se l’esito è positivo, gli elementi
di successo vengono applicati gradualmente ad aree più estese o anche a
livello nazionale. Molte di queste ricerche valutative sono state commissionate dal Department for Work and Pensions o dallo stesso Jobcentre
311 interviste telefoniche con precedenti clienti JCP che avevano lasciato il sistema di sicurezza sociale dal novembre 2006. Cfr. A. Nunn et al., Job Outcome Target National Evaluation,
Department for Work and Pensions, Research Paper n. 462, Corporate Document services, Leeds, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.
166
Più precisamente durante una prima fase sono state condotte interviste con i rappresentanti politici a livello regionale e nazionale del JCP e del DWP, in seguito sono stati organizzati focus groups con le diverse componenti dello staff (managers, personal advisers e personale amministrativo). Cfr. Department for Work and Pensions, Review of the structure of
the Jobcentre plus Business delivery Target, DWP, Research Report 233, february 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.
961
Plus ad enti di ricerca esterni. Altre sono state promosse dal National Audit, un organismo indipendente dall’esecutivo, che controlla l’attività di
Ministeri, agenzie e altri organismi pubblici al fine di riferire al Parlamento circa l’efficacia e l’efficienza nell’utilizzo delle risorse statali.
Già prima dell’introduzione del Jobcentre Plus, erano stati condotti
studi per verificare l’efficacia del servizio pubblico nel matching. In particolare uno studio dei primi anni 90 167, commissionato dall’Employment Service, basandosi sui dati delle Forze Lavoro dal 1984 al 1992, accertava che il servizio era utilizzato soprattutto durante i periodi di recessione economica e in particolare dai disoccupati meno qualificati e da
quelli di lunga durata e che proprio questi ne beneficiavano in misura più
consistente; mentre i disoccupati con maggiori possibilità occupazionali
si rivolgevano preferibilmente ad altri canali di ricerca del lavoro e solo
in tempo di crisi al servizio pubblico.
Altre valutazioni risalenti, condotte con metodo sperimentale, avevano per oggetto il Programma Restart, introdotto nel 1987: esso implicava l’obbligo per i disoccupati di lungo periodo di sottoporsi ogni 6 mesi, presso gli Employment Offices, a interviste durante le quali veniva verificata la loro disponibilità al lavoro e offerte occasioni formative e di lavoro ad hoc. L’esito del programma è stato abbastanza positivo nonostante gli osservati effetti di spiazzamento: a fronte di bassi costi si è registrato un certo aumento del tasso di assunzioni 168. Per tale motivo detto procedimento è divenuto parte integrante del funzionamento del servizio attuale: tutti i disoccupati, dopo il primo contatto col centro per l’impiego, sono obbligati a recarvisi ogni due settimane per un breve colloquio di controllo e ogni 6 mesi devono sostenere una intervista più approfondita (c.d. Restart interview) col personal adviser.
Prima di rendere operativa l’attuale struttura, come sopra accennato,
sono state avviate più valutazioni della performance di One, la prima
agenzia ad avere integrato in via sperimentale i servizi al lavoro e le prestazioni sociali 169. I risultati hanno messo in luce alcuni aspetti positivi,
167
Cfr. P. Gregg, J. Wadsworth, How effective are state employment agencies? Jobcentre use and Job Matching in Britain, in «Oxford Bulletin of economics and Statistics», vol. 58,
3, 1996, 443 ss.
168
V. M. Matto, I servizi pubblici per l’impiego, in Ciravegna et al., op. cit., 126.
169
Le valutazioni, promosse dal Department for Work and Pensions, sono state condotte
con metodo sperimentale e si sono concentrate sui disoccupati che percepivano benefici diversi dall’indennità di disoccupazione (JSA), non condizionati all’obbligo di attivazione (income
support e incapacity benefit). Tali valutazioni si sono sviluppate in diverse fasi. Durante il primo stadio della ricerca, in cui la partecipazione a One era volontaria per coloro che non percepivano la JSA, sono state condotte interviste in quattro aree pilota di One e quattro aree di con-
962
altri negativi 170: un effetto positivo riguarda il flusso di informazioni, che
non è più frammentato dal passaggio attraverso differenti uffici, col rischio di doppioni, contrapposizioni, confusione sia per gli utenti sia per
gli operatori; in secondo luogo, il nuovo sistema permette di fornire più
incisivi aiuti e consigli sulle questioni legate ai benefici e al lavoro. Tuttavia, poichè gli effetti positivi non sono così elevati come ci si aspetterebbe, si evidenziano margini per ulteriori miglioramenti. Dall’altro lato,
un aspetto sicuramente negativo, relativo a tutte le tipologie di clienti, è
associato al prolungamento dei tempi necessari per ottenere i benefici sociali, causato soprattutto dal nuovo generale obbligo di sottoporsi alle
work-focused interview col personal adviser. Inoltre le ricerche hanno
dimostrato che i clienti erano più interessati alle pratiche per ottenere le
prestazioni sociali che ai servizi per il lavoro, contestualmente offerti durante l’intervista. Per questo motivo, quando è stato implementato il Jobcentre Plus, è stata introdotta, accanto al personal adviser, una diversa figura professionale con specifiche competenze, il Financial assessor. In
tal modo i disoccupati affrontano preliminarmente un colloquio con il Financial assessor, che spiega loro tutto ciò che concerne i benefici. Solo
successivamente ha luogo l’intervista (work-focused interview) con il
personal adviser, che può così concentrarsi esclusivamente sugli aspetti
riguardanti il lavoro.
In seguito all’introduzione del Jobcentre Plus, durante il periodo
transitorio, caratterizzato dalla coesistenza dei vecchi Employment offices con i nuovi uffici, diversi studi hanno messo a confronto le due strutture al fine di verificare se l’integrazione, in un’unica agenzia, dell’erogazione delle prestazioni sociali con l’erogazione dei servizi al lavoro ha
aumentato l’efficacia/efficienza del sistema. Uno dei primi studi 171 compara gli effetti occupazionali dei distretti integrati (ovvero quelli in cui è
compreso almeno un nuovo Jobcentre Plus office) con quelli non integrati (dove sono presenti solo i vecchi Employment Offices); e giunge alla
conclusione che i Jobcentre Plus offices realizzano una performance migliore nella collocazione di persone disabili, ma non incidono su altri
trollo; nella seconda fase, sei mesi dopo, gli stessi soggetti sono stati sottoposti ad interviste
follow-up; nel terzo e quarto stadio della ricerca, quando ormai gli incontri con il personal adviser erano divenuti obbligatori per tutti i disoccupati registrati in One, sono state realizzate interviste in 12 aree pilota e 12 aree di controllo.
170
Per una sintesi sulla ricerca e sui principali risultati v. E. Karagiannaki, Jobcentre
Plus or Minus?, cit.
171
J. Corkett et al., Jobcentre Plus evaluation: Summary of evidence, IAD Social Research Division, Research Report n. 252, Department for Work and Pensions, Corporate Document Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk
963
gruppi, quali disoccupati comuni e genitori single. Questo risultato viene
spiegato con la circostanza che per gli ultimi due gruppi il nuovo sistema
non ha comportato una significativa differenza di regime: infatti già in
precedenza essi erano soggetti alle work-focused interviews che costituiscono elemento caratterizzante dei nuovi JCP.
Una ricerca successiva, caratterizzata da un approccio metodologico più complesso 172, al fine di misurare l’impatto dei nuovi JCP, si sofferma sul differente livello di integrazione (definito dalla percentuale di
JCP presenti) di ogni distretto in un certo periodo di tempo. Per fornire
un quadro più completo essa prende in esame i tre elementi chiave del sistema: gli esiti occupazionali (job entry), la soddisfazione dei clienti (customer service) e l’accuratezza e rapidità nella corresponsione dei benefici (benefit service delivery). La conclusione è che il Jobcentre Plus ha
un marcato effetto positivo sugli outcomes occupazionali, nessun effetto
(né positivo né negativo) su qualità e standard del servizio clienti 173 e un
effetto negativo sull’erogazione dei benefici. Ciò perché il nuovo sistema
è focalizzato sulle attività front-line di matching secondo l’approccio
work-first del governo laburista e pone meno enfasi sulle attività di back
office relativa alla somministrazione dei benefici sociali 174.
Altre valutazioni, sia quantitative sia qualitative, commissionate dal
DWP, si appuntano su ulteriori aspetti cardine del sistema del JCP (quali
i programmi offerti ai disoccupati, le work focused interviews, la soddisfazione degli utenti e dello staff, gli impatti occupazionali, il ruolo del
Financial assessor, del Personal adviser, dei District Managers, il sistema di valutazione della performance) in modo da monitorare costantemente il raggiungimento degli obiettivi nell’erogazione del servizio e
l’impatto sul mercato del lavoro 175.
172
Cfr. E. Karagiannaki, Exploring the effects of integrated benefit systems and active
labour market policies: evidence from Jobcentre Plus in the Uk, Centre for Analysis of Social
exclusion, CASE Peper n. 107, february 2006 (consultabile sul sito www.sticerd.lse.ac.uk);
ripubblicato e aggiornato in Id., Exploring the Effects of Integrated Benefit Systems and Active
Labour Market Policies: Evidence from Jobcentre Plus in the UK, in «Journal of Social Policy», vol. 36, n. 2, 2007, 177 ss.
173
In realtà la ricerca ha messo in luce un effetto negativo sul servizio clienti, ma questo sarebbe propriamente di tipo transitorio e da ricondurre al periodo di start up del nuovo sistema.
174
Come si sottolinea in D. Finn et al., Reinventing Public Employment service: the
changing role of employment assistance in Britain and Germany, cit., 22 ss.
175
V. ex plurimis N. Coleman, N. Rousseau, H. Carpenter Jobcentre Plus Service Delivery Survey (Wave 1), Department for Work and Pensions, Research Report n. 223, Corporate
Document Services, 2004, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk; Id., Jobcentre Plus Service
Delivery Wave two: findings from quantitative research, Department for Work and Pensions,
Research Report n. 284, Corporate Document Services, 2005, consultabile sul sito www.dwp.
964
Tra gli studi invece promossi dal National Audit Office conviene qui
menzionare quello dedicato al ruolo del personal adviser, in quanto figura chiave del nuovo sistema dei servizi per l’impiego. In particolare si valuta la sua efficacia nell’aiutare i disoccupati nella ricerca del lavoro, la
capacità del Jobcentre Plus di sfruttarne al massimo le potenzialità, infine la possibilità di migliorarne ulteriormente il rendimento. L’indagine si
avvale di ricerche indipendenti (qualitative e quantitative) promosse per
lo più dal DWP, delle ricerche comparate dell’OCSE e di interviste effettuate presso i centri con i clienti e lo staff.
Complessivamente emerge che l’impatto dei personal advisers, soprattutto per alcune categorie di utenti (quali genitori singles e disoccupati percettori di benefici di incapacità), è stato positivo, anche se non facilmente quantificabile poiché non è possibile separare il loro ruolo specifico dal sistema di cui sono parte. Gli utenti durante le interviste hanno
manifestato un elevato grado di soddisfazione rispetto al servizio fornito,
con particolare riguardo alla gentilezza, empatia e professionalità del
personale, all’utilità dei colloqui al fine dell’ accrescimento delle competenze, dell’autoconsapevolezza e della motivazione.
Il Jobcentre plus si adopera per un continuo miglioramento della
produttività di tali figure, cercando di aumentare il tempo che essi possono dedicare all’attività loro propria di consulenza e di eliminare i fattori
dispersivi: a tal fine, in particolare, ha apportato significativi cambiamenti al sistema dei target, ha potenziato il sistema IT e nello stesso tempo ha cercato di semplificare e ridurre il carico di lavoro puramente burocratico e amministrativo. In quest’ultima direzione si delineano gli
spazi per un continuo perfezionamento nel tempo 176.
gov.uk; Corkett J. et al., Jobcentre Plus Evaluation…, cit.; C. Hasluck et al., The use and development of alternative service delivery channels in Jobcentre Plus: a review of recent evidence, Department for Work and Pensions, Research Report n. 280, Corporate Document
Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk; S. Davis, L. James, S. Tuohy,
Qualitative assessment of Jobcentre Plus delivery of Jobseeker’s Allowance and New Deal Interventions, Department for Work and Pensions, Research Report n. 445, Corporate Document
Services, Leeds, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk; C. Hasluck, A.E. Green, What
works for whom?, cit.
176
V. più in dettaglio National Audit office (NAO), Delivering effective services through
Personal Advisers, London, novembre 2006, consultabile sul sito www.nao.org.uk
965
8. Svezia
8.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Dall’Arbetsmarknadstyrelsen
all’Arbetsförmedlingen
La Svezia ha recentemente riformato in modo radicale il sistema dei
servizi per l’impiego al fine di ridurre le inefficienze e gli sprechi. Per lo
stesso fine ha contestualmente operato una draconiana riduzione delle
politiche attive offerte dai centri, lasciando in vita le più efficaci e introducendone delle nuove.
Fino allo scorso anno il sistema era strutturato secondo tre livelli.
Precisamente l’amministrazione nazionale per il mercato del lavoro (Arbetsmarknadsverket-AMV) si articolava in un’Agenzia nazionale per il
mercato del lavoro (Arbetsmarknadsstyrelsen – AMS), e in ramificazioni
periferiche per ogni Regione: di queste ultime facevano parte i centri pubblici per l’impiego. L’agenzia era organo indipendente dal governo, ma
doveva riferire ad esso circa gli esiti delle politiche occupazionali e in genere l’andamento del mercato del lavoro. Essa, sulla base delle regole generali, dei target quantitativi 177 fissati dal governo e del budget ricevuto,
aveva il compito di dirigere, sviluppare e coordinare le politiche del lavoro. In particolare definiva obiettivi, regolamenti, istruzioni per le strutture
regionali (Consigli di Contea per il mercato del lavoro), distribuiva le risorse ripartendole tra fondi di disoccupazione, politiche attive e misure
per l’integrazione dei disabili 178. Inoltre indirizzava direttive e regolamenti ai 325 centri locali per l’impiego e ne monitorava l’operato.
A livello regionale i 21 Consigli di Contea (Länsarbetsnämnd-Lan),
nell’ambito delle risorse e dei target prefissati a livello nazionale, erano
responsabili del funzionamento dei centri locali e fornivano rapporti e resoconti all’AMS. I Consigli di Contea avevano emanazioni locali in quasi tutte le municipalità: si trattava di Comitati locali per i servizi per l’impiego (Local Employment Service Committees), che avevano il compito
177
Tali target con i rispettivi outcomes sono riportati nella brochure informativa AMS,
The Public employment service. Fact and figures, 2005, 14-15, messa a disposizione di chi
scrive dall’ams e altresì scaricabile dal sito www.ams.se.
178
Nel 2005 il bilancio dell’AMV ammontava a 5.2 miliardi di euro, pari al 2.3% del
PIL. Esso è stato destinato per il 53% ai sussidi di disoccupazione, il 26% ai programmi di politica attiva del lavoro, il 12% all’integrazione delle persone disabili e l’8% a spese varie di amministrazione. Tali dati sono stati tratti dal dossier messo a disposizione da Samuel Engblom,
già Deputy Head of Analysis dell’AMS, ora dirigente sindacale della TCO (sindacato degli impiegati svedesi). Cfr. S. Engblom, La politica del mercato del lavoro svedese e il ruolo dell’amministrazione nazionale per il mercato del lavoro (AMV), 2005, dattiloscritto.
966
di adattare le politiche per il lavoro alle esigenze del mercato locale. I
Lan erano in gran parte modellati sull’esempio dell’AMS: anche per
questo motivo erano oggetto di discussione e venivano percepiti dagli addetti ai lavori come un inutile oneroso doppione 179, tanto che il nuovo governo ne ha subito previsto l’eliminazione.
I 325 uffici locali erano dislocati nei vari Comuni. La loro funzione
principale consisteva nell’agevolare l’incontro tra domanda e offerta di
lavoro, avvalendosi a tal fine dell’ampio ventaglio di politiche attive disponibili: essi costituivano e ancora costituiscono la “pietra angolare” del
sistema dei servizi per l’impiego e presso tali uffici avviene il primo contatto col disoccupato.
Dal 1° gennaio 2008 è divenuta effettiva la nuova organizzazione per
il mercato del lavoro, che cambia anzitutto denominazione (Arbetsförmedlingen). A livello centrale essa è costituita da un Comitato direttivo, nominato dal governo e costituito da 9 membri fra cui un direttore generale. È pure presente un Consiglio degli stakeholder, organismo a carattere
consultivo, presieduto dal direttore generale e costituito in eguale proporzione da rappresentanti di lavoratori e datori di lavoro. Sono stati eliminati i LAN e sono state invece create quattro macro-aree suddivise in
68 regioni del mercato del lavoro, individuate sulla base dei percorsi dei
pendolari e delle preferenze regionali delle imprese nelle assunzioni. A
livello locale operano i centri per l’impiego, variamente distribuiti nelle
diverse zone, ma presenti in ogni città. Completano il quadro due grandi
divisioni, l’una competente per i servizi destinati ai diversi settori industriali e ai gruppi prioritari (disabili, giovani, immigrati, disoccupati di
lunga durata), l’altra di carattere operativo, competente per i servizi di
supporto alle funzioni fondamentali (servizi legali, IT services, risorse
umane, ecc.).
8.2. La valutazione dei servizi per l’impiego
8.2.1. La valutazione degli enti erogatori. Gli studi dell’IFAU e del
Riksrevisionen
La Svezia presenta una delle esperienze più mature di valutazione a
livello europeo.
Anzitutto il funzionamento dei servizi per l’impiego è incentrato su
179
È quanto è emerso nell’intervista rilasciata a Stoccolma il 5 ottobre 2006 da Paola
Moscatelli, incaricata del programma integrazione disabili presso un centro per l’impiego.
967
un continuo meccanismo di monitoraggio e valutazione delle performances. Come già esposto, a livello centrale vengono elaborati gli obiettivi
(target) che l’amministrazione nel suo complesso e i centri in particolare
devono raggiungere ogni anno 180. Periodicamente l’AMS rende pubblici
i dati aggregati relativi alle diverse politiche del lavoro e ai servizi offerti dal PES (ovvero essenzialmente numero di partecipanti, risultati occupazionali). Allo stesso tempo essa distribuisce ai vari centri locali periodici prospetti in cui sono riportate le rispettive performances e gli eventuali scostamenti dal target prestabilito. Il mancato raggiungimento non
determina conseguenze sanzionatorie né per i manager né per gli operatori, ma la circostanza che tali dati siano fatti circolare incentiva di per sé,
soprattutto in un sistema improntato ad un alto grado di civicness quale
quello svedese, il mantenimento degli standard richiesti. In ogni caso sono organizzati incontri di indirizzo e coordinamento fra il livello centrale e i manager dei centri. Analogamente a livello locale sono organizzati
frequenti meeting fra lo staff e i manager: in queste occasioni sono discussi eventuali problemi e individuate di comune accordo soluzioni appropriate, eventualmente assegnando ai membri meno produttivi altri
ruoli, affiancandoli ad altri colleghi o organizzando brevi iniziative di
training mirato. Un sistema di retribuzione incentivante, sperimentato in
passato, non è infatti bene accettato in un sistema coeso ed egualitario
come quello svedese. Né a maggior ragione è prevista una diversa distribuzione di risorse fra i centri sulla base delle performances raggiunte.
Per quanto riguarda invece le valutazioni sulle politiche nel complesso
esse sono tenute in gran considerazione a livello governativo nel disegno
di riforme e perfezionamenti 181.
La centralità dell’attività di valutazione del sistema dei servizi per
l’impiego è dimostrata anche dalla circostanza che a questo fine sia stato
Per esempio per l’anno 2005 sono stati elaborati i seguenti obiettivi: 1) almeno l’85%
dei datori di lavoro dovrà avere un numero di candidati sufficiente a consentire l’assunzione in
tempi ragionevoli dei lavoratori di cui ha bisogno; 2) la quota di persone che hanno stipulato
un piano di azione e che dichiarano che esso fornisce un supporto utile o abbastanza utile per
trovare lavoro dovrà essere almeno del 70%; 3) almeno il 70% delle persone che abbia completato l’addestramento professionale dovrà aver trovato un’occupazione entro 90 giorni; 4)
nel corso dell’anno non dovranno mediamente essere registrate come disoccupati di lunga durata più di 36.000 persone; 5) dovrà aumentare rispetto al 2004 il numero di persone disabili
che transitino da un posto di lavoro incentivato a uno non incentivato. Tali obiettivi, secondo
le stime dell’AMV, sono stati brillantemente raggiunti. Cfr. AMS, The Public employment
service. Fact and figures, cit., 14-15.
181
Quanto sopra esposto è frutto di interviste e colloqui con i manager del centro Globen
di Stoccolma, dove chi scrive è stata ospitata per un periodo di studio e osservazione diretta
nell’ottobre 2007.
180
968
costituito un organo apposito, l’Istituto per la valutazione delle politiche
del mercato del lavoro (IFAU). Si tratta di un organismo indipendente dal
Governo i cui studi sono considerati un punto di riferimento importante
nell’introduzione e realizzazione di riforme. La maggior parte delle ricerche riguarda l’impatto delle politiche del lavoro o di singoli programmi sui differenti segmenti dell’utenza dei centri per l’impiego. Ma sono
pure abbastanza frequenti gli studi sull’efficacia del sistema dei servizi
per l’impiego nel suo complesso, mentre sono piuttosto rari quelli sull’efficacia dei servizi resi dai singoli centri per l’impiego.
Uno studio molto ampio, condotto tra il 2000 e il 2005 e commissionato dal Riksrevisionen 182, indaga l’efficienza di un vasto campione di uffici per l’impiego con lo scopo di confrontarli e individuare quelli caratterizzati da un alto grado di produttività, che possano servire come esempio
agli altri. Il modello di valutazione si basa sulla misurazione di tre variabili: inputs di base, outputs intermedi e outputs finali 183. Si considerano come input di base (su cui l’ufficio esercita un controllo) le tre diverse categorie di personale (assistenti, addetti all’intermediazione e dirigenti), l’ampiezza dei locali in mq e l’indice FAI, che indica l’aspettativa di disoccupazione ed esprime il tempo medio dalla registrazione alla conclusione
del processo di intermediazione, prendendo in considerazione fattori di
contesto (quali il background del disoccupato e le condizioni del mercato
locale) 184. Gli outputs intermedi implicano la permanenza all’interno del
sistema dei servizi per l’impiego, e precisamente sono la collocazione dei
disoccupati in misure di politica del lavoro o in un posto incongruente con
la formazione ricevuta/aspettative ed esigenze; gli outputs finali (o variabili di fine servizio) fanno riferimento all’inserimento in di qualsiasi tipo
di lavoro permanente o temporaneo, al rientro nel sistema scolastico regolare o alla cancellazione dalle liste di disoccupazione 185.
Su ruolo e funzioni del Riksrevisionen v. più avanti questo stesso paragrafo.
Riksrevisionen, Den offentliga arbetsförmedlingen, Stockholm, RiR 2006:22, 51-52,
consultato su www.riksrevisionen.se
184
Più in dettaglio tale indice è calcolato tenendo conto di caratteristiche personali del
disoccupato, quali sesso, età, livello di istruzione, stato civile e carichi di famiglia, eventuale
handicap, condizione di immigrato di prima o seconda generazione, previa esperienza lavorativa, disponibilità esclusivamente ad un lavoro part-time, disponibilità al trasferimento, eventuale iscrizione presso un fondo di sostegno alla disoccupazione (c.d. a-kassan). Per quanto riguarda le condizioni del mercato locale l’indice tiene conto della relazione tra la quota dei disoccupati e quella dei posti vacanti nell’area di riferimento.
185
Si può essere cancellati dalla lista dei soggetti assistiti per mancata risposta o rifiuto ingiustificato dell’offerta lavorativa/formativa, per trasferimento all’assistenza di un’altra autorità
pubblica o per altri motivi stabiliti dalla legge (Unemployment Insurance Act n. 238 del 1997).
182
183
969
Nel calcolare l’efficienza (definita come la riduzione dell’uso degli
inputs mantenendo costante la quantità di outputs) vengono confrontati
solo gli uffici comparabili, ovvero quelli caratterizzati dalla stessa quantità di inputs (es. le stesse unità di personale), tenendo conto altresì delle
differenti condizioni locali e delle differenti caratteristiche dei disoccupati che si rivolgono ai centri, indicatori di contesto sintetizzati nell’indice FAI 186. Tuttavia, malgrado la considerazione di tali fattori ed i relativi
correttivi econometrici apportati nel modello, dallo studio emerge una
preoccupante disparità fra i vari uffici svedesi.
Oltre all’IFAU, altro soggetto di rilievo è il Riksrevisionen (Swedish
National Audit Office), che ha più generalmente il compito di supervisionare tutte le attività statali, valutando l’efficacia e l’efficienza delle diverse agenzie pubbliche. Uno degli ultimi studi valutativi riguarda, appunto,
i servizi per l’impiego ed è stato reso pubblico nell’agosto del 2006 187. La
parte del rapporto che qui interessa è quella che illustra le modalità con le
quali è stata misurata l’efficienza dei singoli centri per l’impiego nell’intermediazione della forza lavoro: sul punto viene riproposto nel rapporto
lo studio commissionato dal Riksrevisionen all’IFAU e sopra descritto 188.
Benché l’efficienza dei singoli centri per l’impiego avesse mostrato in
quello studio, come si è detto, preoccupanti eterogeneità nei diversi angoli del Paese, a questa valutazione non è stata ricollegata alcuna immediata conseguenza in termini di allocazione delle risorse pubbliche.
186
Per l’abstract in inglese del progetto v. reg. n. 18/1998, Dynamic analysis of efficiency and productivity in Swedish employment offices 1992-1997, sul sito www.ifau.se; per una
descrizione sintetica in italiano v. E. Mellander, Analisi dinamica dell’efficienza negli uffici
pubblici svedesi dell’impiego, in M. Curtarelli (a cura di), La valutazione delle politiche per
il lavoro, Atti del Convegno tenutosi all’Università La Sapienza di Roma, Facoltà di Sociologia, il 26 giugno 2000, 2001, 119 ss., consultabile sul sito www.isfol.it
L’indagine dell’IFAU sopra descritta costituisce lo sviluppo e il perfezionamento di un
precedente studio, che si proponeva di valutare l’efficienza tecnica di 253 uffici nel periodo
1992-1995. Esso concludeva nel senso che nel periodo considerato il valore medio dell’efficienza degli uffici era stato abbastanza costante, ma fra i diversi uffici si registrava una grande
varianza. Gli uffici inefficienti si caratterizzavano per un utilizzo sub-ottimale delle risorse rispetto ai prodotti, dovuto soprattutto all’incapacità di adeguarsi ai cambiamenti interni ed esterni. Tuttavia nell’analisi non erano considerati, per scarsità di dati disponibili, alcuni fattori in
grado di incidere sul prodotto dei centri per l’impiego (condizioni locali del mercato e tipologia di utenza). Cfr. R. Althin, L. Behrenz, Efficiency and productivity of employment offices:
evidence from Sweden, in «International Journal of Manpower», vol. 26, n. 2, 2005, 196 ss.
187
Riksrevisionen, Den offentliga arbetsförmedlingen, cit.
188
Riksrevisionen, cit., 51-52. V. supra.
970
8.2.2. La valutazione di sistema
Una seconda sezione dello studio valutativo del Riksrevisionen menzionato alla fine del paragrafo precedente misura l’efficacia del servizio
pubblico, inteso nella sua globalità. A tal fine gli indicatori utilizzati dal
rapporto sono: la quota di assunzioni che vengono comunicate ai centri
per l’impiego sul totale di quelle effettuate nell’anno (questo indicatore
segnala la fiducia che il mondo imprenditoriale nutre per il sistema dei
servizi per l’impiego); la quota di lavoratori disoccupati e occupati in
cerca di un nuovo impiego che si rivolgono ai centri per l’impiego (questo indicatore segnala la fiducia che i lavoratori nutrono nei confronti del
sistema dei servizi per l’impiego); la quota di lavoratori che hanno ricevuto informazioni sul proprio attuale lavoro dai centri (questo indicatore
misura più direttamente l’efficacia del servizio pubblico sul mercato del
lavoro).
Sulla base della valutazione effettuata, il rapporto del Riksrevisionen
conduce una serrata critica al sistema dei servizi per l’impiego, la cui efficacia (misurata in termini di quota di disoccupati intermediata) è andata calando nel corso degli ultimi decenni.
Deve segnalarsi infine che sono tuttora in corso una serie di progetti di valutazione dei vari aspetti del servizio per l’impiego, promossi
dall’AMS ed affidati all’IFAU o ad altri istituti di ricerca. Qui si menzionano i più significativi.
Nel 2004 l’Ams, nell’ambito di una serie di progetti di sviluppo su
scala regionale volti a migliorare il servizio per l’impiego, ha introdotto
in tre Regioni selezionate una nuova tipologia di servizio caratterizzato
da un maggiore assistenza e orientamento nell’intermediazione, destinato a un certo numero di disoccupati individuati su base casuale. Il progetto, utilizzando metodi sperimentali classici, si proponeva di verificare gli
effetti sui disoccupati, con particolare riguardo ai risultati occupazionali,
formativi e al rischio di futura perdita del lavoro 189.
Il servizio di intermediazione è stato oggetto di un altro esperimento, finalizzato all’analisi dello specifico ruolo svolto dagli operatori dei
centri con riferimento all’aumento delle future chances lavorative e dei
futuri guadagni 190.
Un altro progetto, iniziato il 2007 e destinato a concludersi nel 2009,
Reg. n. 103/2005, Effects of intensified intermediary activities at the employment office, abstract consultabile sul sito www.ifau.se
190
Reg. n. 100/2003, Intermediary effects and programme evaluations, abstract consultabile sul sito www.ifau.se
189
971
si propone di verificare se le agenzie private per l’impiego siano più efficaci, in termini di accresciute possibilità occupazionali, rispetto al servizio pubblico. Lo studio, che utilizza il metodo sperimentale, indaga specificamente le popolazioni target di adolescenti, disabili, immigrati con
lo scopo di comparare il gruppo di trattati, estratti casualmente e affidati
al servizio privato, con soggetti rimasti a carico del pubblico 191.
Infine, rientra nell’ambito della valutazione di sistema anche l’abbondantissima attività di ricerca svolta dall’IFAU per monitorare costantemente l’impatto dei programmi di politica attiva del lavoro 192, che tanta importanza hanno tradizionalmente rivestito nell’intervento statale sul
mercato del lavoro svedese.
191
Reg. n. 92/2007, Are private jobcentres more effective than the public employment office?, abstract consultabile sul sito www.ifau.se
192
Uno studio recente per es. indaga l’impatto a breve e a lungo periodo delle politiche
del lavoro su salari, durata della disoccupazione e partecipazione a futuri programmi: conclude che i programmi di formazione professionale non solo non hanno effetti positivi sui partecipanti, ma, al contrario, allungano i periodi di disoccupazione (effetto lock-in); invece sono
molto più efficaci i lavori sussidiati, in quanto, oltre a rendere più fluido il mercato del lavoro,
aumentano la durata dei periodi occupati e l’entità dei salari. Cfr. J. Adda et al., Labour market programmes and labour market outcomes: a study of the Swedish active labour market interventions, IFAU, Uppsala, Working Paper 2007:27 In passato altre ricerche hanno dimostrato che i programmi caratterizzati da forme di addestramento pratico (work experience e on the
job training) sono di gran lunga più efficienti ed efficaci rispetto ai tradizionali corsi di formazione. V. per es. B. Sianesi, Essays on the evaluation of social programs and eduactional qualifications, IFAU, Uppsala, Dissertation series, 2002:3, in particolare capp. 2 e 3, altresì pubblicati in una versione sintetica in «Swedish Economic Policy Review», 2001, 8, 2, 133 ss., col
titolo Swedish Active Labour Market Programmes in the 1990s: Overall Effectiveness and Differential Performance. Ad analoghi risultati giunge un’altra valutazione dalla quale emerge altresì come gli effetti positivi siano superiori per i giovani. (A. Forslund, O. Nordstrom Skans,
Swedish Youth Labour Market Policies Revisited, IFAU, Uppsala, Working Paper 2006:6.) Per
un’ analisi puntuale dei diversi programmi con una comparazione dei rispettivi effetti v Ackum
Agell S. et al., Follow-up EU’s recommendations on labour market policies, IFAU, Uppsala,
Report 2002:3. Alcune indagini si sono poi concentrate su un intervento di politica attiva, l’Activity Guarantee, un umbrella program di durata indeterminata e perciò da subito molto controverso. La conclusione è che il programma aveva registrato bassi tassi di adesione, comunque non aveva prodotto alcun miglioramento delle probabilità occupazionali dei partecipanti,
e, al contrario, sembrava favorirne un incremento del tasso di disoccupazione. (Cfr. A. Forslund, D. Fröberg, L. Lindqvist, The Swedish Activity Guarantee, IFAU, Uppsala, Report,
2004:4). Sulla scorta di tali risultati negativi il nuovo governo nel 2007 ha deciso l’eliminazione di detta misura, sostituendola con un’altra: il Job and Development Guarantee Scheme, programma finalizzato al rapido reinserimento lavorativo dei disoccupati di lunga durata. Su tale
politica è attualmente in corso un progetto di ricerca volto ad indagarne l’implementazione e
gli esiti occupazionali. (V. l’abstract in inglese sul sito www.ifau.se, reg. n. 19/2008, A study
on the Job and Development Guarantee Scheme). Tutti i rapporti di ricerca dell’IFAU citati
nella presente nota sono consultabili sul sito www.ifau.se
972
9. Conclusioni: i limiti dell’esperienza italiana e i suggerimenti provenienti dal quadro comparato
9.1. La valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi per l’impiego
in Italia: iniziative tardive, limitate ed in fase ancora sperimentale
L’Italia rispetto agli altri Paesi, anche europei, registra un certo ritardo nell’avvio di pratiche valutative, dovuto soprattutto a fattori culturali
e istituzionali, fra cui, in primis, la vischiosità del diritto amministrativo
ancorato a meccanismi di verifica della legalità formale. Alla fine degli
anni ’80 la drammatica situazione di inefficienza della farraginosa macchina burocratica statale impone un cambio di direzione. Il nuovo corso
dell’azione amministrativa è segnato da rilevanti interventi legislativi,
quali il decreto legislativo 286/1999, attuativo dell’art. 17 della l. 59/1997
(c.d. Bassanini 1) intitolato «meccanismi e strumenti di monitoraggio e
valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche» 193. A distanza di più di un decennio la valutazione dell’operato della pubblica amministrazione è ancora di scottante attualità, anche perché l’auspicata svolta efficientista è ancora di là
da venire: sull’opportunità di fare della valutazione l’elemento centrale
per cambiare in profondità l’attività della p.a. e l’atteggiamento dei suoi
dipendenti si riscontra ormai identità di vedute tra maggioranza e opposizione 194.
Nello specifico ambito delle politiche per il lavoro, già a partire dalla fine degli anni ’80 in una serie di provvedimenti si prevedono attività
di monitoraggio e valutazione degli interventi da attuarsi per mezzo delle Agenzie per l’impiego e degli Osservatori sul mercato del lavoro 195.
193
È stato tuttavia osservato che, nonostante il titolo faccia riferimento alla valutazione
tout court, nella sostanza il decreto si occupa di disciplinare varie forme di controllo di gestione della p.a. Cfr. Martini, Cais, Controllo (di gestione) e valutazione (delle politiche), cit., 3.
194
Le cronache riportano giornalmente le dichiarazioni del Ministro della funzione pubblica Renato Brunetta sulla necessità di una svolta meritocratica nella p.a., mentre il Partito democratico ha appena presentato al Senato (5 giugno 2008) un disegno di legge, primi firmatari onn. Ichino e Treu, intitolato “Trasparenza e valutazione delle strutture pubbliche e dei loro
dipendenti”.
195
Cfr. Samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive del lavoro, cit., 82. In particolare, l’art. 8 della legge n. 56/1987 contemplava la costituzione di un osservatorio nazionale sul lavoro, che nello svolgimento della propria attività doveva raccordarsi con gli osservatori già costituiti a livello regionale (sull’esperienza di questi ultimi v. Varesi, Regioni e mercato del lavoro. Il quadro istituzionale e normativo, Franco Angeli, Milano, 1986, 154 ss.; Napoli, Regioni e organizzazione del mercato del lavoro, «Quad. dir. lav. rel. ind.», 1987, 2, 4749, ove anche ulteriori indicazioni bibliografiche). Tuttavia, all’indomani della riforma costi-
973
Successivamente ha svolto un ruolo decisivo la legge sul decentramento
territoriale (d.lgs. n. 469/1997), completata dalla riforma costituzionale
(l.n. 3/2001), che attribuisce alle regioni le competenze in materia di
mercato del lavoro e dei servizi per l’impiego. Fa da cornice ed elemento catalizzatore la normativa comunitaria, da un lato con la creazione dei
fondi strutturali ove si impone la valutazione dei progetti finanziati specificandone i criteri 196, dall’altro lo sviluppo della strategia europea per
l’occupazione 197, che richiede agli Stati precisi target da raggiungere e la
diffusione di buone pratiche (best practices) in un’ottica di benchmarking, ovvero di autoapprendimento 198.
Le esperienze italiane più mature sono quelle del Trentino-Alto Adige e della Valle D’Aosta, che iniziano a sviluppare pratiche di valutazione sin dagli anni ’80. Fra le altre regioni particolarmente evolute in
quest’ambito si segnalano l’Emilia Romagna e la Lombardia. Tali attività sono gestite dagli Osservatori Regionali o da Centri di ricerca regionali (es. IReR: Istituto di ricerca Regione Lombardia) 199. A latere vanno
menzionati gli studi valutativi prodotti da numerose istituzioni di carattere pubblico e privato (ISFOL, CESOS, IRS) 200. Si deve però precisare fin
tuzionale attuata con l. n. 3/2001, che ha trasferito alla competenza concorrente la materia
dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro, il d.lgs. n. 297/2002 ha abrogato l’art. 8 della
l. n. 56/1987. Le Regioni non si sono invece private dello strumento degli osservatori: cfr. ad
es. l’art. 6 della l.r. Lombardia n. 22/2006. Per quanto riguarda le Agenzie per l’impiego v.
l’art. 24, l. n. 56/1987, anch’esso tuttavia abrogato dall’art. 8, d.lgs. n. 297/2002. Nell’ambito
delle riforme c.d. Bassanini fu prevista la costituzione a livello regionale di un’“apposita struttura […] dotata di personalità giuridica”, con funzione di “assistenza tecnica e monitoraggio
nelle materie” di politica attiva del lavoro [v. l’art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 469/1997]. Anche in questo caso l’organismo è stato conservato nella legislazione regionale posteriore alla
riforma costituzionale ex l. n. 3/2001: cfr. ad es. l’art. 11, l.r. Lombardia n. 22/2006 che istituisce l’Agenzia regionale per l’istruzione, la formazione e il lavoro.
196
In particolare, sul funzionamento del Fondo sociale europeo v. M. Napoli, La riforma
del Fondo sociale europeo, in «Riv. giur. lav.», 2000, I, 899 ss.
197
Sulla SEO v. gli autori citati retro alla nota 4.
198
Sullo sviluppo delle tecniche di benchmarking v. L. Tronti, Il benchmarking dei mercati
del lavoro. Una sfida per le regioni italiane?, in Antonelli, Nosvelli (a cura di), op. cit., 71 ss.
199
Per una rassegna degli studi sui vari interventi di politica del lavoro in Italia v. Samek
Lodovici, La valutazione delle politiche attive del lavoro, cit., 82 ss. Per una trattazione approfondita si rimanda all’ampia monografia di Ciravegna, et al., op. cit.
200
A titolo meramente esemplificativo si indicano qui di seguito: i numerosi rapporti di
monitoraggio sui Centri per l’impiego nonché le indagini sulla soddisfazione dell’utenza contenute nella collana dell’ISFOL, Monografie sul mercato del lavoro e le politiche per l’impiego, consultabili sul sito www.isfol.it; lo studio sull’ efficienza ed efficacia dei prodotti e dei
servizi di orientamento professionale, promosso ed attuato dal CESOS nel 2002, riportato in
Botticelli, Paparella, La valutazione dei servizi di orientamento, cit.; v. il rapporto metodo-
974
d’ora che l’esperienza di valutazione italiana, oltre a presentare un carattere geograficamente frammentato che la vede concentrata soprattutto in
alcune Regioni più progredite del Paese, si focalizza soprattutto sui programmi di politica attiva del lavoro, soffermandosi assai di rado e soltanto di recente sulla valutazione di efficacia ed efficienza dei servizi e dei
centri per l’impiego.
Il Trentino-Alto Adige ha avuto in Italia un ruolo pionieristico in
quest’ambito. Infatti è stato sede della prima Agenzia per il lavoro, dove
sono state effettuate le prime esperienze di valutazione dei risultati. Precisamente si è trattato di una serie di valutazioni di efficacia (o impatto)
condotte con metodo non sperimentale: si segnalano ad esempio l’indagine del 1988 sugli effetti dei sussidi all’occupazione 201, nonché due studi sul contratto di formazione e lavoro, rispettivamente del 1987 e del
1988 202. Più recentemente è stata realizzata una approfondita valutazione dell’efficacia e efficienza del Progetto di «inserimento lavorativo di
lavoratori svantaggiati in cooperative sociali», parte integrante degli interventi di politica del lavoro per il biennio 1998-2000 203.
In Valle d’Aosta alla fine degli anni ’90 l’Osservatorio Regionale ha
intrapreso un’ampia opera di valutazione delle politiche del lavoro inerenti il piano di azione 1995-97. Si è trattato di una valutazione di impatto incentrata sulle singole politiche (servizi di orientamento, mediazione
domanda-offerta, formazione professionale), attuata con metodo prevalentemente qualitativo tramite interviste e finalizzata alla programmazione delle nuove azioni 204.
logico sul monitoraggio delle politiche del lavoro e della formazione in Emilia-Romagna del
2002, a cura dell’Irs (A.t.i. Ismeri Europa-Irs, Servizi di monitoraggio, cit.); infine il recentissimo rapporto dell’IRS sul sistema dei servizi per l’impiego in alcune regioni italiane ed alcune nazioni europee: cfr. Irs, Servizi al lavoro e rete degli operatori pubblici e privati: la
Lombardia nel contesto italiano ed europeo. Azioni di sistema a sostegno del mercato del lavoro e del sistema educativo di istruzione e formazione professionale, la Fenice Grafica, Borghetto Lodigiano, 2007.
201
Cfr. A. Ichino, L. Felli, I sussidi all’occupazione: gli effetti sull’offerta di lavoro in CIGS,
in Le politiche del lavoro a livello locale: valutazione dei risultati, Agenzia di Trento, 1988. Per
una sintesi sull’esperienza v. Martini, Garibaldi, L’informazione statistica, cit., 19 ss.
202
Sinteticamente descritti in E. Ragazzi, Le politiche in favore dei giovani, in Ciravegna et al., op. cit., 315 ss.
203
Cfr. G. Marocchi, Integrazione lavorativa, impresa sociale, sviluppo locale. L’inserimento lavorativo in cooperative sociali di lavoratori svantaggiati come fattore di crescita
dell’economia globale, Franco Angeli, Milano, 1999.
204
Cfr. l’ampia monografia di D. Ceccarelli, Valutare le politiche del lavoro. La valutazione d’impatto come fattore di programmazione, Angeli, Milano, 2000; M. Napoli, Le politiche attive del lavoro al vaglio della valutazione d’impatto, in M. Napoli, Lavoro, diritto, mu-
975
In Emilia-Romagna la valutazione costituisce un paradigmatico
esempio di partnership fra amministrazioni locali, università, sistema di
istruzione-formazione. Progressivamente negli anni è stato messo a punto un vero e proprio «pacchetto di politiche per la valutazione», che ha
avuto essenzialmente ad oggetto la valutazione dell’efficacia della formazione professionale sull’occupazione, la valutazione di specifici strumenti di politica del lavoro (quali aiuti all’occupazione, tirocini formativi, misure per l’inserimento dei disabili), la valutazione dell’impatto dei
servizi per l’impiego, con particolare riferimento alla soddisfazione degli
utenti (disoccupati e imprese) 205.
La Regione Lombardia, infine, costituisce un caso sui generis nel
quadro non solo italiano, ma anche europeo: qui la valutazione è associata e finalizzata a meccanismi premiali e sanzionatori, che trovano riscontro solo nell’esperienza americana e australiana. Il termine di raffronto
più appropriato è però quello australiano, caratterizzato, come si è visto,
dalla creazione di un quasi-mercato in cui organismi pubblici competono
con enti privati nell’aggiudicazione di gare d’appalto ai fini dell’erogazione dei servizi all’impiego: le quote di mercato attribuite a ciascun ente sono consequenziali alla performance da esso realizzata.
In Lombardia la l.r. 22/2006 istituisce un analogo meccanismo concorrenziale. Infatti essa impone la valutazione dei servizi di formazione,
istruzione, lavoro erogati da enti pubblici e privati 206, considerandone
l’esito positivo quale condicio sine qua non per l’attribuzione di risorse
pubbliche nell’anno successivo: in tal modo pubblico e privato si trovano a competere per la stessa sopravvivenza nel mercato, in quanto gli enti meno performanti possono essere addirittura esclusi dal sistema 207.
tamento sociale (1997-2001), Giappichelli, Torino, 2002, 90 ss.; M. Napoli, Le politiche del
lavoro della Valle d’Aosta, in «Jus», settembre-dicembre 2004, 360-361.
205
Cfr. M. Franchi, Il monitoraggio e la valutazione delle politiche del lavoro: il caso
dell’Emilia-Romagna, 121 ss.; sul monitoraggio e valutazione della performance dei Servizi
per l’Impiego v. in particolare Poleis (a cura di), Il sistema dei servizi pubblici per l’impiego
in Emilia-Romagna. Valutazione di efficacia e monitoraggio della performance, Agenzia Emilia-Romagna Lavoro, Bologna, 2004.
206
Per un esempio di valutazione del ruolo dei centri per l’impiego nel contesto lombardo precedente alla legge 22/2006 v. Regione Lombardia, I centri per l’impiego lombardi: ruolo di cerniera tra i sistemi della formazione, dell’istruzione e del lavoro nell’attivazione
dell’approccio preventivo e analisi dei servizi erogati in favore dei soggetti svantaggiati – Valutazione indipendente del POR Ob. 3 della Regione Lombardia per il periodo 2000-2006,
gennaio 2005.
207
Cfr. l’art. 16, comma 5, secondo periodo, l.r. n. 22/2006: “gli operatori che hanno ottenuto risultati non rispondenti agli obiettivi fissati nel piano d’azione” regionale “e punteggi
inferiori agli standard definiti per tutti i profili considerati, sono esclusi dai finanziamenti”. Le
976
Precisamente la legge prevede due tipi di valutazione: nell’art. 16,
comma 4 fa riferimento alla valutazione di «ciascun operatore accreditato o autorizzato, pubblico o privato» (valutazione dei singoli enti erogatori); nell’art. 17, comma 3 richiede la predisposizione di una «relazione annuale sul funzionamento dei servizi di istruzione, formazione e
lavoro» (valutazione di sistema). Nel primo caso si persegue l’ottica di
reward/sanction dei singoli enti erogatori: per quelli privati accreditati si
tratterà di penalizzazioni nella distribuzione dei finanziamenti regionali
208
; per quelli pubblici inoltre «i risultati negativi […] sono considerati ai
fini della responsabilità dirigenziale, della riorganizzazione degli uffici
e delle procedure di mobilità» (art. 16, comma 6). Il secondo tipo di valutazione è funzionale all’indirizzo del sistema di istruzione, formazione e lavoro da parte della Regione; in particolare i risultati serviranno
per programmare gli interventi contenuti nel piano d’azione regionale ex
art. 3 stessa legge.
La Lombardia costituisce, almeno sulla carta, sicuramente la punta
oggi più avanzata per quanto riguarda l’incidenza della valutazione dei
servizi per l’impiego in Italia: è però assai sintomatico che a quasi due
anni dall’approvazione della l.r. n. 22/2006, a quanto consta nel momento in cui si scrive, il sistema di valutazione non sia ancora entrato a regime. I processi valutativi sono estremamente complicati da gestire e richiedono di essere calibrati molto attentamente, in particolare quando
vengono utilizzati come perno per la creazione di un quasi-mercato che
abbraccia non soltanto il mercato del lavoro, ma anche quello dell’istruzione e formazione professionale 209.
conseguenze dell’applicazione di questa disposizione non sono chiare per gli operatori pubblici, nella misura in cui essi non sono finanziati esclusivamente tramite le risorse destinate
all’erogazione dei servizi per l’impiego, e la valutazione negativa comporta l’esclusione dai finanziamenti, ma non la cancellazione dall’albo dei soggetti accreditati. V. poi con riferimento
più specifico alle conseguenze della valutazione negativa per gli operatori pubblici il tenore
piuttosto sibillino dell’art. 16, comma 6, l.r. Lombardia infra nel testo.
208
Più precisamente l’art. 16, comma 5 prevede che “una quota non inferiore al 75% dei
finanziamenti regionali per i servizi per il lavoro” sia “assegnata sulla base dei risultati della
valutazione relativa all’ultimo anno”. Tra gli operatori non esclusi dai finanziamenti, questi ultimi “sono distribuiti in base alla collocazione nella graduatoria”.
209
L’art. 16, comma 1 della l.r. n. 22/2006 sancisce che “la valutazione concerne tutti i
servizi per l’istruzione, la formazione e il lavoro”. V. anche l’art. 27 della l.r. Lombardia 6 agosto 2007, n. 19, recante norma sul sistema educativo di istruzione e formazione.
977
9.2. I suggerimenti (di metodo e di merito) provenienti dall’esperienza
comparata
L’analisi delle esperienze straniere permette di evidenziare caratteri
comuni e criticità di un modello di valutazione, fornendo indicazioni essenziali per l’auspicabile fase di decollo della valutazione dei servizi per
l’impiego nel nostro Paese.
Anzitutto qualsiasi esperienza valutativa richiede la preventiva individuazione delle finalità generali e degli obiettivi operativi della politica,
o programma o servizio che si vuole valutare nonché la costruzione di
adeguati indicatori, atti a rendere misurabili i predetti obiettivi. Tuttavia,
la valutazione risulterebbe inevitabilmente distorta se non si tenesse conto del contesto in cui l’intervento si colloca e delle caratteristiche della
popolazione target (tramite la predisposizione di indicatori di contesto e
tipologie di utenza, come si è già accennato). Inoltre, la considerazione
di tali dimensioni intervenienti permette di ovviare ai tipici problemi conosciuti nella letteratura economica come di principal-agent, che emergono in particolar modo laddove la valutazione si proponga di irrogare
sanzioni (o concedere benefici). Ci si riferisce in primo luogo ai rischi di
creaming, pratica per cui gli operatori dei centri, per non segnalarsi come
soggetti meno performanti nel sistema, tendono a seguire le persone che
ab origine appaiono più agevolmente collocabili sul mercato del lavoro e
ad escludere i soggetti maggiormente svantaggiati 210. Prassi complementare, ugualmente diffusa, è quella del parking, per cui gli operatori, assicuratisi una certo numero di soggetti più promettenti, si concentrano su
questi e di fatto parcheggiano gli altri, senza offrir loro alcuna proposta
significativa di formazione o di impiego.
Il che – è evidente – frustra la ratio della esistenza stessa dei servizi
per l’impiego e vanifica la loro mission, che è quella di aiutare la transizione al lavoro in particolar modo delle fasce deboli. L’esempio anglosassone indica con chiarezza la via percorribile per superare questi inconvenienti: attribuendo punteggi elevati nel caso di collocamento di disoccupati più svantaggiati e punteggi inferiori ai clienti più facili si incentivano i centri a farsi carico dei primi.
Altro problema che rileva quando la valutazione segue una logica di
reward/sanction è il cheating, ovvero la tendenza ad adottare comportamenti opportunistici volti a conseguire valutazioni positive anche in as210
Cfr. M. Samek Lodovici, Politiche attive e flessibilità del lavoro in Lombardia: alcuni spunti di riflessione per l’intervento regionale alla luce dell’esperienza europea, Paper IRS,
2006, 52.
978
senza di risultati effettivi coerenti con tali valutazioni 211. In particolare si
segnala la diffusa inclinazione degli operatori a manipolare i dati di partenza o a interpretare in maniera strumentale il significato degli indicatori 212 (si pensi all’indicatore “numero dei contatti”, che ben si presta ad
interpretazioni tanto estensive quanto restrittive). Anche per evitare questo rischio, gli indicatori devono essere il più possibile chiari e univoci, e
le fonti dei dati scelte con oculatezza; in particolare è necessario che i dati non provengano dai database dei soggetti valutati.
A questo proposito sono illuminanti le esperienze statunitense e australiana, che, non a caso, utilizzano la valutazione anche a fini di allocazione delle risorse pubbliche. Negli Stati Uniti ha grande rilievo (anche
se le proposte di futuri emendamenti hanno apportato cambiamenti sul
punto) la misurazione della customer satisfaction, che viene rilevata tramite interviste telefoniche a campione effettuate entro un breve periodo
(60 giorni) dall’utilizzazione del servizio. Inoltre, per quanto riguarda la
base-dati di riferimento la legge prevede che si possa attingere solo dagli
archivi dell’Unemployment Insurance: in tal modo il centro per l’impiego non è in grado di manipolare i dati relativi alla permanenza nello stato di disoccupazione del soggetto da lui assistito, e conseguentemente
non ha la possibilità di influire sulla valutazione della performance effettuata dal valutatore indipendente. Infine nei Paesi analizzati i dati relativi all’intermediazione sono il perno degli indicatori di risultato, in quanto più univoci e più difficili da manipolare/equivocare.
Da ultimo tra le buone prassi mutuabili dall’esperienza internazionale vi è quella relativa all’indipendenza del valutatore: si suggerisce che
questo debba essere distinto dal soggetto responsabile dell’attuazione
della politica o dell’erogazione del servizio per garantire gli indispensabili requisiti di imparzialità e di professionalità. Ovviamente l’indipendenza del valutatore pare ancor più necessaria quando la sua attività finisca per incidere sui finanziamenti pubblici diretti agli enti che fanno parte del sistema sottoposto a valutazione.
È solo il caso di notare che le esperienze valutative condotte nel nostro Paese molto spesso non si sono conformate alle prassi più evolute
presenti nel quadro comparato. Così per esempio è frequentissimo l’uso
di dati provenienti dai centri per l’impiego ai fini della valutazione, con
tutti i problemi di manipolazione dei dati (cheating) che si possono verificare in una situazione di questo tipo. Inoltre, per vari motivi anche con211
P. Ichino, Finanziamenti distribuiti in base all’efficienza, intervista pubblicata in «Il
Giornale», 23 ottobre 2006, 44.
212
Cfr. M. Samek Lodovici, Politiche attive e flessibilità del lavoro in Lombardia, cit., 53.
979
nessi al nostro sistema di previdenza sociale, i dati relativi allo stato di disoccupazione di un soggetto, elemento evidentemente chiave nella valutazione di qualsiasi sistema di servizi per l’impiego, non sono attendibili. Per un verso, il nostro sistema di tutela contro la disoccupazione, nonostante le recenti modifiche 213, presenta un carattere ancora frammentario, che talora non ricollega alcun vantaggio di carattere patrimoniale
allo status di disoccupato: capita così che soggetti privi di impiego non
abbiano alcun incentivo a registrarsi come disoccupati presso i centri per
l’impiego, né a controllare che l’ufficio non li cancelli abusivamente
dall’elenco. Anche la formulazione e l’utilizzo degli indicatori, vera chiave di volta di tutto il sistema della valutazione, non sono sempre appropriati. Talvolta, poi, la scarsa cultura del nostro Paese in materia di valutazione si manifesta anche con riguardo alla corretta delimitazione
dell’oggetto stesso del processo valutativo. Ad es., come è stato puntualmente rilevato in dottrina, la l.r. Lombardia n. 22/2006 ha ingenuamente
indicato tra gli oggetti della valutazione anche una realtà che non appartiene al momento valutativo, quanto piuttosto a quello ispettivo: in particolare, infatti, l’art. 16, comma 2, lett. b), prescrive al valutatore indipendente di valutare “l’effettivo svolgimento delle attività di istruzione e formazione professionale” 214. Quanto all’indipendenza del valutatore, tale
caratteristica non è normalmente presente nelle valutazioni effettuate in
Italia, anche perché esse non sono solitamente effettuate in un’ottica di
reward/sanction, il che rende meno cruciale la predicata indipendenza.
Non a caso in Lombardia, dove la valutazione si prefigge di orientare i finanziamenti pubblici, la legge si premura di sottolineare espressamente
l’indipendenza del valutatore.
Le valutazioni condotte all’estero sui servizi per l’impiego hanno
messo in luce una serie di circostanze, che hanno orientato strategie e decisioni vincenti dei soggetti competenti (sia i manager dei centri per l’impiego sia i politici).
In primis, si è dimostrato che proprio i servizi per l’impiego, fra le
politiche per il lavoro, si sono rivelati abbastanza efficaci e efficienti (poco costosi). In particolare ciò vale per gli interventi rivolti alle fasce più
Cfr. l’art. 1, comma 25, l. n. 247/2007. Sulla legge di attuazione del Protocollo del 23
luglio 2007 sul Welfare v. per tutti Cinelli-Ferraro (a cura di), Welfare, mercato del lavoro e
competitività. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247, «Suppl. a GLav», n. 2/2008;
M. Persiani, G. Proia (diretto da), La nuova disciplina del Welfare: legge 24 dicembre 2007,
n. 247. Commentario, Cedam, Padova, 2008.
214
Cfr. Varesi, Regione Lombardia: la legge di politica del lavoro, cit., VIII, nota 10.
213
980
deboli della forza lavoro 215. Pertanto, sulla scorta di tali risultati, nei Paesi più avanzati proprio tali gruppi sono i principali destinatari delle misure (priority o target groups): per esempio, in Svezia le popolazioniobiettivo sono i giovani, i disoccupati di lunga durata, gli extracomunitari e i disabili; in Gran Bretagna i genitori single, i disabili, i disoccupati
di lunga durata e i giovani. A tal fine sia in Australia sia negli Stati Uniti
sono state introdotte e progressivamente perfezionate tecniche statistiche
di profiling, che permettono preventivamente di segmentare l’utenza individuando i disoccupati più bisognosi: è di tutta evidenza l’utilità di
questo screening nel senso del risparmio di tempi e di costi.
Inoltre si è evidenziato che i centri per l’impiego sono più efficaci ed
efficienti nella misura in cui riescono ad integrare in un’unica struttura
diverse funzioni per i disoccupati: servizi di consulenza ed orientamento,
matching, erogazione dell’indennità di disoccupazione (one-stop shop).
Questa prassi, risultata vincente in America, sta diventando progressivamente un trend comune in Europa.
Infine gli studi valutativi hanno messo in rilievo l’importanza di un
approccio customer-oriented e quanto più possibile personale con lo staff
dei centri. Pertanto i paesi più evoluti hanno cercato di diminuire il numero di clienti per ogni operatore ed hanno creato figure di tutor (Svezia)
o di personal adviser (Gran Bretagna).
Un utilizzo più intenso della valutazione in Italia avrebbe permesso
di mettere all’ordine del giorno a tempo debito riforme in linea con ciò
che accade nei Paesi che gestiscono con maggiore efficienza i propri
mercati del lavoro. Si può discutere se il sistema dello One stop shop sia
il migliore per massimizzare l’efficacia/efficienza dei servizi per l’impiego, ma una riforma degli ammortizzatori sociali che uniformi e generalizzi i vantaggi patrimoniali connessi con lo status di disoccupato, anche
al fine di creare gli incentivi più opportuni per uscire da esso con una
nuova occupazione, è sicuramente indilazionabile 216. Inoltre, nella maggior parte delle esperienze dei nostri centri per l’impiego è per certi versi anche tristemente nota l’assenza delle più moderne tecniche di gestioCfr. Samek, La valutazione delle politiche attive del lavoro, cit., 69; R. Fay, Making
the public employment service more effective through the introduction of market signals, Labour Market an Social policy occasional Papers, n. 25, OECD, Paris, 1997, 6-7.
216
Nel senso indicato nel testo si muove la delega per la riforma degli ammortizzatori sociali contenuta nell’art. 1, comma 28, l. n. 247/2007. Sulle speranze di una rapida attuazione,
però, è lecito esprimere qualche dubbio: la prima delega in materia di ammortizzatori sociali
era prevista già dalla l. n. 144/1999, ma il susseguirsi di ben tre governi (escludendo dal conteggio l’attuale, appena entrato in carica) non ha condotto finora ad alcuna riforma di sistema,
ma soltanto a qualche correzione marginale.
215
981
ne 217 sperimentate e applicate su larga scala, anche in esito alle risultanze di processi valutativi, nei Paesi dove i servizi per l’impiego funzionano meglio: management by objectives, tecniche di profiling, utilizzo adeguato (nella qualità e nel numero) di tutor e personal adviser, ecc. 218.
In conclusione, non si può nascondere l’estrema complessità dei
processi valutativi. Ma questo non significa tout court affermarne l’impossibilità. Anzi, il successo di alcune esperienze straniere prima illustrate dimostra che questa via è percorribile, anche se impegnativa: come è
stato efficacemente sottolineato, “la valutazione non si risolve mai in un
pacchetto chiavi in mano, ma in un abito che deve essere cucito addosso,
alla situazione e all’oggetto che si deve valutare” 219. La valutazione è
uno strumento sofisticato e costoso, che necessita di continue sperimentazioni e affinamenti per funzionare correttamente. Esso pare tuttavia indispensabile per garantire efficacia ed efficienza agli interventi pubblici
su di un mercato del lavoro così complesso come quello che si sta disegnando in questo inizio di ventunesimo secolo.
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R. Althin, L. Behrenz, Efficiency and productivity of employment offices:
217
Per un affresco, non certamente esaltante, dell’attuale situazione dei servizi per l’impiego in Italia v. Sestito-Pirrone, Disoccupati in Italia. Tra Stato, Regioni e cacciatori di teste, Il Mulino, Bologna, 2006, in partic. 114 ss.
218
Queste tematiche sono assenti dai principi e criteri direttivi per l’attuazione della delega per la (ennesima) riforma dei servizi per l’impiego contenuta nell’art. 1, comma 30, lett.
a), l. n. 247/2007 (art. 1, comma 31).
219
Così in Morisi-Lippi, Manuale di scienza dell’amministrazione, cit., 42.
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991
992
ANNA ZILLI
Dottore di ricerca in Diritto del lavoro,
Professore a contratto nell’Università degli Studi di Udine
IL LAVORO PUBBLICO LOCALE
TRA STATO E REGIONI
Sommario: 1. Il lavoro pubblico locale: una materia “in cerca di autore”. – 2. Il lavoro alle dipendenze di Regioni ed autonomie locali nella l. n. 93/1983. – 2.1. (segue) … e nella privatizzazione (d.lgs. n. 29/1993). – 3. La riforma costituzionale del 2001 e il suo impatto sul lavoro pubblico locale. – 3.1. La prima tesi: la disciplina del lavoro pubblico locale come diritto del lavoro tout court, ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost. – 3.2. La seconda tesi: il lavoro pubblico locale come organizzazione delle amministrazioni, ex art.
117, comma 4, Cost. – 4. La funzione dirimente della Corte Costituzionale nel conflitto tra Stato e Regioni sul lavoro pubblico locale. – 5. La ricomposizione del conflitto: il
difficile cammino della «leale collaborazione» tra Stato e Regioni, ex art. 120 Cost. – 6.
Osservazioni conclusive.
1. Il lavoro pubblico locale: una materia “in cerca di autore”
Il tema del miglioramento della qualità delle pubbliche amministrazioni, attraverso la loro razionale e profonda riorganizzazione, è di nuovo
al centro del dibattito politico: esso, infatti, è affrontato sia congiuntamente tra il (vecchio) Governo di centro-sinistra (Prodi secondo) e le tre
Confederazioni CGIL, CISL e UIL con il «Memorandum d’intesa su lavoro pubblico e riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» del 18
gennaio 2007 1, sia unilateralmente dal (nuovo) Esecutivo di centro-destra (Berlusconi quarto), che il 16 giugno 2008 ha approvato il d.d.l. «Delega al Governo per ottimizzare la produttività del lavoro pubblico» 2.
Entrambi i documenti 3 evidenziano la necessità di un coinvolgimento delle Regioni ed autonomie locali nella rifondazione della “macchina
amministrativa”, nella consapevolezza che, a seguito della riforma di tipo neoregionalista o federalista 4 del Titolo V, Parte II della Costituzione,
Il Memorandum è reperibile sul sito www.fmb.unimore.it.
Il d.d.l. di iniziativa governativa «Delega al Governo per ottimizzare la produttività del
lavoro pubblico» è reperibile sul sito www.governo.it.
3
Per il contenuto dei quali si rinvia alle Osservazioni conclusive (§ 6) del presente lavoro.
4
B. Caravita di Toritto (in Tra federalismo e regionalismo: la Costituzione italiana dopo le riforme del Titolo V, in Aa.Vv., Federalismo e regionalismo in Italia dopo la riforma del
Titolo V, Roma, 2004, 5 ss., Pubblicazione finale del progetto “Scenari del Federalismo” coor1
2
993
attuata con la legge costituzionale n. 3/2001, nessuna trasformazione della pubblica amministrazione può prescindere dall’azione della “periferia” della Repubblica, sul doppio versante dell’organizzazione e della gestione del proprio personale.
Non sono però né chiari né ben definiti il ruolo e l’importanza da riconoscere e garantire alle Regioni ed autonomie locali nella riorganizzazione degli apparati pubblici: ciò indubbiamente deriva (anche) dalla
mancanza di riferimenti in merito alle conseguenze del nuovo riparto di
competenze legislative sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ed in particolare sul pubblico impiego locale, inteso come inclusivo dei lavoratori alle dipendenze sia delle Regioni, sia delle autonomie locali.
Se, infatti, la discussione sulla collocazione del genus “diritto del lavoro” ha finito per rappresentare un caso emblematico delle difficoltà
sorte in sede di traduzione in pratica del nuovo riparto di competenze ex
art. 117 Cost., la species del lavoro pubblico costituisce forse il caso-limite, in cui vengono ad intricarsi non una, ma due storiche riforme: la
privatizzazione, o contrattualizzazione 5, del lavoro pubblico, avviata con
dinato da M. Covino per il Formez) dà conto delle diverse opinioni sul “tipo” di decentramento (federalista ovvero regionalista) attuato con la l. cost. n. 3/2001. Si v. amplius le approfondite analisi di S. Bartole, Devolution o federalismo? O soltanto regionalismo?, in «Le Regioni», 2002, 1233 ss. e. G. Rolla, Incertezze relative al modello di regionalismo introdotto dalla legge costituzionale 3/2001, in «Quad. reg.», 2004, 627 ss. Per gli orientamenti emersi ante
rifoma costituzionale si rinvia a F. Bencardino (a cura di), Federalismo e regionalismo in Italia: prospettive di riassetto politico-ammnistrativo, Napoli, 1997.
5
La querelle su come denominare la riforma (se chiamarla “contrattualizzazione” ovvero “privatizzazione” del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) è
richiamata da F. Carinci [in Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e prassi applicativa,
in F. Carinci e L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commentario,
Tomo I, Torino, 2004, I, spec. XLVI] che evidenzia come, in prima battuta, risultò privilegiata
la prima definzione, lanciata e sostenuta dal sindacalismo confederale, di modo che «venne
fatto cadere l’accento non solo e non tanto sul contratto individuale, quale fonte costitutiva, ma
anche e soprattutto sul contratto collettivo (…) con un’esplicita e netta discontinuità rispetto
alla legge-quadro». La dizione «più fortunata» (Id., L, corsivo mio) di “privatizzazione” è successiva, ma non diminuisce lo sbilanciamento della riforma a favore della contrattazione collettiva. M. Rusciano [in Relazione di sintesi, in G. De Martin (a cura di), Il nuovo assetto del
lavoro pubblico, Milano 1999, 216] ritiene che si debba parlare di “contrattualizzazione”, invece di utilizzare il termine “privatizzazione”, ritenuto «fuorviante, sia sul piano per così dire
culturale, sia sul piano più strettamente tecnico-giuridico», ed appropriato soltanto allorché si
parli della «vendita a privati di imprese pubbliche, di banche, ecc.» ovvero del «mutamento
strutturale (da pubblica a privata) di aziende che gestiscono servizi pubblici». Avvalersi
dell’espressione “contrattualizzazione” pare idoneo ad evitare l’errore di credere che la riforma del rapporto di pubblico impiego abbia mutato la natura giuridica dei rapporti, che riman-
994
la l. delega n. 421/1992 e «conclusa» 6 con il d.lgs. 31 marzo 2001, n. 165
(e succ. modd.), e la modifica costituzionale successiva soltanto di pochi
mesi.
Le grandi riforme che hanno modificato radicalmente le competenze, l’organizzazione ed il rapporto di lavoro nelle Regioni ed autonomie
locali non sono state però in alcun modo coordinate tra loro: infatti, quella del pubblico impiego (anche locale) attraverso l’«integrazione della
disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato» 7 non ha subito alcuna esplicita revisione da parte della l. cost. n. 3/2001. Nonostante il mutato contesto, i modelli regolativi del lavoro alle dipendenze di
Regioni ed autonomie locali non sono stati messi in discussione e le regole del lavoro pubblico locale continuano ad essere le medesime disegnate per una Repubblica assai diversa da quella attuale, caratterizzata da
rapporti tra Stato, Regioni ed autonomie locali improntati ad una prevalenza del primo sulle seconde. Il principio della supremazia dello Stato
rispetto a quello della pariordinazione tra Stato e Regioni ha permesso allo Stato di incidere profondamente sulla struttura organizzativa delle Regioni ed autonomie locali, che debbono tener conto dei vincoli imposti
“dall’esterno” nell’utilizzo delle risorse umane per esplicare le proprie
funzioni e realizzare le assegnate competenze, nonché di imporre precisi
modelli regolativi per il lavoro pubblico alle dipendenze delle stesse 8.
Anche la riforma delle relazioni sindacali nel lavoro pubblico è stata di stampo “centralizzato”, modellata su quella realizzata con il Protocollo Ciampi del 1993 9, seppur adattata alle peculiarità del settore pubblico. Ne è risultato un sistema regolato dalla legge, accentrato, uguale in
gono “pubblici”, pur se ricondotti ad una «relazione paritaria e antagonistica (anziché autoritaria e protezionistica)» fra pubblica amministrazione e singolo lavoratore. Nella presente trattazione, così come avvenuto sino ad oggi in dottrina, i due termini sono utilizzati indifferentemente come sinonimi, a fronte delle precisazioni cennate.
6
Il riferimento è all’espressione usata da F. Carinci, Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e prassi applicativa, cit., I.
7
Art. 11, comma 4, lett. a), l. n. 59/1997. La scelta di privilegiare questa espressione, anziché utilizzare i termini correnti quali “contrattualizzazione” e/o “privatizzazione” è fatta propria da E. Ales, Contratti di lavoro e pubbliche amministrazioni, Torino, 2007, 1.
8
Circa il tema dei vincoli imposti alle Regioni quali “datori di lavoro” sia consentito rinviare a A. Zilli, Modelli negoziali per il lavoro pubblico locale, Udine, 2008.
9
Sul Protocollo d’intesa tra Governo e sindacati del 23 luglio 1993, c.d. Protocollo
Ciampi, si v. amplius C. Dell’Aringa e S. Negrelli (a cura di), Le relazioni industriali dopo
il 1993. Un decennio di studi e ricerche, Milano, 2005. Sull’evoluzione della concertazione
c.d. sociale F. Carinci, Riparlando di concertazione, in Aa.Vv., Diritto del lavoro. I nuovi problemi. L’omaggio dell’accademia a Mattia Persiani, Padova, 2005. Per l’attuazione nel pubblico impiego si rinvia a M. D’Antona, L’accordo del 23 luglio 1993 nel settore pubblico, in
995
tutti i Comparti di contrattazione, in cui le amministrazioni sono rappresentate nella negoziazione da un unitario agente tecnico e autonomo
(ARAN) il quale opera attuando le indicazioni provenienti dal Comitato
di settore (imago degli enti datori di lavoro), variamente composto a seconda delle amministrazioni coinvolte, ma in cui la maggioranza dei
membri è espressione del Governo statale. Da tale sistema sfuggono soltanto le Regioni a statuto speciale e le Province autonome, la cui discrezionalità nel regolare la materia è stata però sino ad oggi limitata dalle disposizioni che pongono i principi della contrattualizzazione quali «norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica» cui attenersi nell’esercizio delle proprie prerogative (art. 1, comma 3, d.lgs. n.
165/2001).
Il sistema centralistico sopra descritto vale anche per le Regioni ed
autonomie locali, unite nell’omonimo Comparto nazionale: tali previsioni,
costruite quando le autonomie si trovavano in posizione subordinata rispetto allo Stato [art. 114 Cost., versione originale 10], non sono state modificate né quando la “periferia” è divenuta destinataria di maggiori funzioni ed autonomia con il c.d. federalismo amministrativo a Costituzione
invariata (introdotto con le ll. nn. 59/1997 e 127/1997, c.d. leggi Bassanini), né, successivamente, con la l. cost. n. 3/2001. In modo dunque inopportuno, le medesime regole vigono anche a fronte di potestà (legislative,
regolamentari) ed autonomia statutaria tali da far ritenere il complessivo
peso costituzionale di Regioni ed enti locali assolutamente nuovo e maggiore rispetto al passato, nel segno del «principio di parità tra i diversi livelli di governo» 11 sancito dal nuovo art. 114 Cost. 12.
Il pubblico impiego vive tutte le tensioni ereditate dalle difficoltà
politico-istituzionali del recente passato, reo di aver determinato quei
«nodi irrisolti» che oggi si ripropongono amplificati nell’approccio con
il lavoro pubblico locale 13.
C. De Martin (a cura di), Il nuovo assetto del lavoro pubblico. Bilanci della prima tornata
contrattuale, nodi problematici, prospettive, Milano, 1999, 309.
10
Il testo originario dell’art. 114 Cost. recitava che «La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni» (corsivo mio).
11
Così il parere del CNEL, Osservazioni e proposte. La riforma del Titolo V della Costituzione, Assemblea del 24 gennaio 2002, è riportato integralmente nell’appendice a M.T. Carinci (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Milano,
2003, 411.
12
Sulla parità (assoluta o relativa) tra Stato, Regioni ed autonomie locali si v. R. Tosi, Il
sistema delle fonti regionali, in «Il dir. della Regione», 2002, 766.
13
L. Zoppoli [in Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma
costituzionale, in F. Carinci e L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazio-
996
A causa del mancato coordinamento tra la prima privatizzazione
(1993) e il c.d. “federalismo” amministrativo (1997) già si era determinata un’incongruenza tra il modello negoziale del pubblico impiego, fortemente incentrato sul livello nazionale e poco incline a concedere spazi
significativi alla sede decentrata, e la maggiore autonomia (allora non legislativa, ma amministrativa) riconosciuta alle Regioni. Nelle riforme citate non vi era alcuna apertura in favore di una vera regolamentazione
“periferica” del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Regioni ed autonomie locali, cioè proprio quelle amministrazioni interessate dal cambiamento, affidandosi alla contrattazione di secondo livello soltanto alcuni
aspetti marginali, comunque vincolati dalle scelte (e dalla dotazione finanziaria) stabilite a livello centrale.
Si assiste oggi ad un lento e faticoso processo di aggiustamento di
nuovi e difficili equilibri: in primis, tra il “centro” e la “periferia” della
Repubblica; in secundis, tra le diverse “periferie”, o tra i vari livelli delle
stesse (si pensi al dibattito sulle ragioni della “specialità” delle autonomie differenziate, nonché alla crisi del rapporto tra le Regioni e gli enti
locali). Ma, usando una metafora, a “quadri” nuovi, si è cercato di adattare “cornici” vecchie, come già accaduto sia nel 1997, sia nel 2001.
Le forti disarmonie che hanno investito le amministrazioni e, conseguentemente, il personale pubblico delle Regioni ed autonomie locali
(che più degli altri ha vissuto il “work in progress” del cambiamento costituzionale) riflettono la non conformità 14 delle regole di gestione delle
risorse umane pensate per un modello amministrativo e costituzionale
con lo Stato al “centro” all’odierna «Repubblica delle autonomie» 15, caratterizzata dalle sue forze centripete, quali le Regioni e gli enti locali,
ni. Commentario, Tomo I, Torino, 2004, 54] osserva come l’elaborazione delle c.d. leggi Bassanini (ll. nn. 59 e 127/1997) si sia intrecciata con i lavori della Commissione Bicamerale per
le riforme costituzionali e che da questa, legittimamente, ci si attendeva il riassetto del Titolo
V, Parte II della Costituzione in senso più fortemente regionalista o federalista. Il naufragio
della Commissione nel maggio 1998 ha lasciato drammaticamente incompiuto il disegno neoregionalista: le conseguenze più evidenti sono rappresentate dal mancato completamento della riforma del pubblico impiego, che pure sarebbe stato possibile attraverso il d.lgs. n. 387/1998,
ultimo correttivo al d.lgs. n. 29/1993, e che, al contrario, neppure si accosta alle problematiche
di attuazione dell’art. 11, comma 4, l. n. 59/1997 per coordinare la c.d. prima privatizzazione
con la c.d. seconda.
14
Particolarmente critica è l’opinione di G. D’Auria, Il lavoro pubblico dopo il nuovo
Titolo V (Parte II) della Costituzione, in «Lav. pubbl. amm.», 2001, 753 circa la compatibilità
dei meccanismi di controllo del Governo statale oggi previsti sull’autonomia di Regioni ed enti locali con il modificato assetto costituzionale.
15
L’espressione è ripresa da T. Groppi e M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, 2001.
997
che rivendicano i propri spazi anche come datori di lavoro del proprio
personale, al fine di poter operare una (ri)organizzazione degli apparati
burocratici che, necessariamente, costituisce il punto di partenza per
l’esplicazione delle nuove funzioni acquisite a seguito della riforma costituzionale.
Al fine di individuare l’esatta collocazione della materia del lavoro
pubblico locale (cioè dell’ “autore” istituzionale che l’ambito va cercando) tra Stato e Regioni, si procede alla trattazione degli argomenti secondo la sequenza cronologica degli eventi, trattando prima la riforma del
pubblico impiego e poi la riforma costituzionale, per dar conto dell’impatto di quest’ultima sull’humus del rapporto di lavoro alle dipendenze
delle pubbliche amministrazioni.
2. Il lavoro alle dipendenze di Regioni ed autonomie locali nella l. n.
93/1983
Il tema del riparto tra Stato e Regioni della competenza sul pubblico
impiego non statale riguardò inizialmente il solo lavoro pubblico regionale: il rapporto di impiego negli enti locali era infatti disciplinato attraverso
i regolamenti delle amministrazioni stesse, suscettibili di recepire gli eventuali accordi collettivi intercorsi tra il Governo centrale ed i sindacati (art.
220, l. n. 384/1934, c.d. testo unico dei comuni e delle province) 16.
La quaestio sull’individuazione delle competenze in materia di impiego pubblico locale affonda le proprie radici in un momento antecedente non solo la riforma costituzionale del 2001, ma addirittura la c.d.
privatizzazione, emergendo sin dal progetto di riforma sfociato nella l. n.
93/1983 (c.d. legge quadro sul pubblico impiego).
Parte della dottrina 17 si era interrogata sulla legittimità costituzionale di un procedimento di negoziazione centralizzato, in cui la disciplina
del rapporto di pubblico impiego regionale doveva attenersi ai principi
fondamentali stabiliti con legge statale ma essere successivamente inserito in disposizioni di legge regionale. Ciò sembrava contrastare con il riparto di competenze stabilito dall’originario art. 117 Cost., che demandava alla potestà legislativa (secondaria) delle Regioni la disciplina dell’«ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla RegioS. Bartole, F. Mastragostino e L. Vandelli, Le autonomie territoriali, Bologna,
1991, 440 e, spec. 445 per ampi riferimenti bibliografici.
17
A. Romano, Pubblico impiego e contrattazione collettiva: aspetti pubblicistici, in
«Giust. civ.», 1980, 851.
16
998
ne» da esercitarsi «nei limiti dei principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni» (art. 117, comma 1,
Cost.). Poiché il rapporto di pubblico impiego dei dipendenti regionali
ante privatizzazione veniva ricondotto alla materia dell’ordinamento degli uffici e degli enti datori di lavoro, si poneva all’attenzione degli interpreti la criticità rappresentata dalla vincolatività per le Regioni di una determinazione centralizzata e negoziale degli aspetti economici e normativi del rapporto di impiego del personale, che avrebbe impedito alla legge regionale di disporre trattamenti più favorevoli per i lavoratori regionali rispetto a quanto già stabilito a livello nazionale.
Questa preclusione era vista come «garanzia di effettività degli esiti
della contrattazione nazionale» e perciò idonea ad «acquistare quel carattere di principio fondamentale» dal quale far derivare «il suo valore vincolante per il legislatore regionale»; al contempo, però, si sottolineava
come il fatto di privare le Regioni di ogni margine di scelta sulla regolamentazione del proprio personale finisse per svilire l’autonomia che già
la Costituzione riconosceva a tali enti, sacrificata ad «esigenze economiche congiunturali, di carattere antinflazionistico, e per il contenimento
della spesa pubblica» 18.
La traduzione dei principi cennati nel testo della l. n. 93/1983 19
spinse le Regioni (sia a Statuto ordinario sia speciale) a ricorrere avanti
alla Corte Costituzionale contro il modello di contrattazione centralizzata previsto dalla legge, ritenuto invasivo della competenza regionale in
materia di organizzazione dei pubblici uffici.
La risposta della Consulta giunse con la sentenza n. 219/1984 20 che
prestò grande attenzione alle ragioni dell’autonomia. Pur salvando l’impianto complessivo della legge quadro, la Corte dichiarò l’illegittimità
costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 10, l. n. 93/1983, ove si prevedeva che «al fine del rispetto dei principi della presente legge la disciplina contenuta nell’accordo è approvata con provvedimento regionale in
A. Romano, op. cit., 860, 569.
Sulla quale si v., per gli snodi critici relativi al pubblico impiego regionale: M. Rusciano e T. Treu (a cura di), La legge quadro sul pubblico impiego, Padova, 1985; G. Pastori, Verso la legge quadro sul pubblico impiego: i problemi della contrattazione collettiva, in Atti del
XXV convegno di Scienza dell’amministrazione di Varenna (CO), Milano, 1980, 289.; M.S.
Giannini, Considerazioni sulla legge quadro per il pubblico impiego, in «Pol. dir.», 1983, 529.;
A. Orsi Battaglini ed Altri, Accordi sindacali e legge quadro sul pubblico impiego dalle
esperienze di settore alla riforma, Milano, 1984.
20
C. Cost., n. 219/1984, in «Giust. civ.», 1984, 1490. e con nota di A. Romano in «Giust.
civ.», 1985, 72.
18
19
999
conformità ai singoli ordinamenti». Nella cennata decisione si riconobbe, infatti, che la norma non lasciava alcuno spazio all’autonomia regionale, a tal punto compressa da tradursi in una «perfetta corrispondenza
delle leggi regionali al contenuto dell’accordo. Il che non può essere considerato conforme all’art. 117 Cost., il quale attribuisce alle Regioni la
potestà di emanare nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato norme legislative relative agli ordinamenti degli uffici».
La Corte ebbe altresì ad affermare che la disciplina del rapporto di
pubblico impiego tramite accordi (art. 3, l. n. 93/1983) doveva essere
conciliato col principio secondo cui nelle Regioni l’ordinamento degli
uffici e del personale è regolamentato con legge, ex art. 97 Cost. e art. 2,
l. n. 93/1983. La conseguenza di tale ragionamento è che alla legge regionale non spetta il mero recepimento dell’accordo negoziale, ma il suo
adattamento alle peculiarità dell’ordinamento e alle disponibilità finanziarie della Regione interessata, fermo però il divieto di concedere trattamenti ulteriori rispetto agli accordi nazionali che comportino oneri di bilancio (art. 11, l. n. 93/1983) 21.
Il dictum del giudice delle leggi venne recepito dal Parlamento che,
con la l. n. 426/1985 22 modificativa della legge quadro del 1983, ammise la possibilità per i provvedimenti regionali di disporre «i necessari
adeguamenti alle peculiarità dell’ordinamento degli uffici regionali e degli enti pubblici non economici dipendenti dalle Regioni entro il limite
delle disponibilità finanziarie all’uopo stanziate nel bilancio regionale»
(art. 10, l. n. 93/1983, come modificata dall’art. 2, l. 426/1985).
L’ampiezza del margine di incidenza concesso alle Regioni rispetto
agli accordi nazionali venne chiarito dalle pronunce costituzionali nn.
290/1984 e 72/1985 23, rese su due ricorsi del Governo avverso leggi regionali in materia di pubblico impiego regionale (rispettivamente, delle
Regioni Veneto e Lombardia).
Con la prima sentenza la Consulta rigettò il ricorso statale, dichiarando la legittimità costituzionale della legge regionale che introduceva
un’ipotesi di inquadramento non prevista dal vigente contratto collettivo
Secondo V. Caianiello, Legge quadro sul pubblico impiego: contrasti reali e contrasti
apparenti nei rapporti tra Stato e Regioni, in «Foro it.», 1985, 74, il rigetto dei ricorsi regionali volti ad eliminare i “tetti” massimi di retribuzione previsti dagli accordi si è reso necessario per evitare lo scardinamento dell’intero sistema, fondato sul contenimento delle dinamiche
retributive all’interno della fase negoziale.
22
L’iter di formazione della legge è dettagliatamente descritto da A. Bardusco, Vicende
costituzionali del pubblico impiego regionale, in «Quad. reg.», 1986, 395, spec. 406.
23
C. Cost., n. 290/1984; C. Cost., n. 72/1985, entrambe considerate da A. Bardusco, op.
ult. cit., 408.
21
1000
nazionale, nonché un trattamento economico migliorativo rispetto a quello negoziato. La Corte, respingendo le censure del Governo, ritenne che
l’intervento regionale fosse ascrivibile alle competenze in materia di
adattamento della contrattazione nazionale attribuite al legislatore regionale (ex art. 11, l. n. 93/1983), prerogativa che in primis incide sull’inquadramento giuridico del personale e solo indirettamente sul trattamento economico. Venne, dunque, considerato conforme alle legge quadro
un inquadramento diverso comportante emolumenti differenti ed anche
migliori per il personale regionale.
Anche nel giudizio conclusosi con la seconda sentenza citata il Governo risultò soccombente. La disposizione regionale (in specie, di un
compenso per il lavoro straordinario dei dipendenti della Regione Lombardia, migliorativo rispetto a quanto previsto nel CCNL) fu fatta salva
in quanto adattamento dell’accordo sindacale alle peculiarità locali
nell’ambito delle disponibilità di bilancio. In questo caso, la Corte Costituzionale si dimostrò attenta sia al rispetto dell’autonomia regionale che
alla necessità (già evidente con la legge quadro n. 93/1983) di contenere
la spesa per il personale entro parametri certi.
2.1. (segue) … e nella privatizzazione (d.lgs. n. 29/1993)
Sebbene il modello della legge quadro n. 93/1983 abbia rappresentato soltanto una tappa intermedia nella riforma del pubblico impiego, le
preoccupazioni e considerazioni emerse all’entrata in vigore della legge
quadro si riproposero anche al momento di realizzare la progettata contrattualizzazione (o privatizzazione) del pubblico impiego, acutizzate però dalla forza (di legge) del contratto collettivo nazionale anche nei confronti delle Regioni, contemporaneamente private della possibilità di
adattarlo ai propri ordinamenti attraverso il filtro (legittimato dalla Consulta) della legge regionale.
Sin dai primi commenti circa gli effetti sul lavoro alle dipendenze
delle Regioni ed autonomie locali del d.lgs. n. 29/1993, emanato in attuazione della l. delega n. 421/1992 (c.d. prima privatizzazione) e poi modificato in seguito alla l. n. 59/1997 (c.d. seconda privatizzazione) 24, emer24
In forza della l. n. 421 del 1992 (art. 1, comma 2) è stato emanato il d.lgs n. 29/1993,
successivamente modificato dai dd.lgs. nn. 247, 470 e n. 546 del 1993 (c.d. prima privatizzazione). Su tale decreto è intervenuta la l. n. 59 del 1997 (art. 11, comma 4), in attuazione della quale sono stati emanati altri tre decreti legislativi: il d.lgs. n. 396 del 1997 ed i dd.lgs. n. 80
e n. 387 del 1998 (la c.d. seconda privatizzazione). Da ultimo, il d.lgs. n.165 del 2001 (emana-
1001
sero due orientamenti tra loro discordanti, che perdurarono anche nelle
successive versioni della legge sino alla vigilia della riforma costituzionale.
Secondo un primo orientamento dottrinale, la potestà legislativa regionale sul personale delle Regioni ed autonomie locali usciva fortemente ridimensionata dalla contrattualizzazione, dovendosi ritenere assorbita nella materia del diritto del lavoro di esclusiva competenza statale 25;
sicché, le Regioni avrebbero dovuto limitare il proprio intervento all’organizzazione amministrativa dei propri uffici, definendone funzioni e
competenze, senza poter intervenire sul trattamento economico-giuridico del personale.
Secondo una diversa lettura, viceversa, mettendo l’accento sull’autonomia delle Regioni in tema di «ordinamento degli uffici e degli enti
amministrativi», quale materia di competenza regionale secondaria soggetta ai limiti dei «principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato»
e dell’ «interesse nazionale e… di altre Regioni» (art. 117, comma 1,
Cost.), si sarebbe potuto creare uno spazio per la legge regionale in materia di lavoro pubblico 26.
I due orientamenti cennati sono separati da una grande distanza, causata dalla grande difficoltà di operare una ripartizione netta tra l’organizto sulla base dell’art. 1, comma 8, l. n. 340 del 2000) ha accolto il complesso dei decreti legislativi citati, sostituendo integralmente il d.lgs. n. 29 del 1993 ed assumendo il ruolo ed il significato di “testo unico” del rapporto di lavoro privatizzato alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni. Sul d.lgs. n. 165/2001 si sono successivamente innestate, attraverso la tecnica della “novellazione”, la l. n. 145 del 2002 in materia di dirigenza ed altre norme, specialmente di legge finanziaria. Come osserva F. Carinci [in Una riforma conclusa, Fra norma
scritta e prassi applicativa, in F. Carinci e L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commentario, Tomo I, Torino, 2004, XLVI] il d.lgs. n. 165/2001 era stato pensato quale corpus normativo «destinato a razionalizzare e a rafforzare il tutto» e poi risultato
invece «del tutto compilativo» e limitato alla rinumerazione del d.lgs. n. 29/1993, con poche
modifiche.
25
In questo senso S. Battini, Autonomia regionale e autonomia negoziale nella disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, in «Le Regioni», 1996, 689; M.T. Carinci,
Il contratto collettivo del settore pubblico tra riserva di regime pubblicistico e riserva di legge, in «Riv. it. dir. lav.», 1994, I, 557.
26
L. Zoppoli, Neoregionalismo e contrattualizzazione del lavoro pubblico, in F. Carinci
e M. D’Antona (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche dal
d.lgs. 29/1993 ai d.lgs. nn. 396/1997, 80/1998 e 387/1998. Commentario, Milano, 2000, Tomo I, 75; A. Loffredo, La legislazione regionale in materia di dirigenza ed ordinamento degli
uffici, in G. Lisella e L. Zoppoli (a cura di), Nuovi strumenti giuridici nelle autonomie locali,
Napoli, 2000, 207; V. Baldini, Sub art. 1, comma 3, in A. Corpaci, M. Rusciano e L. Zoppoli
(a cura di), La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in «Le nuove leggi civili commentate», 1999, 5-6, 1016.
1002
zazione degli uffici ed il lavoro pubblico. Infatti, se, da un lato, la disciplina del rapporto organico di ufficio compete alla legge ed ai regolamenti degli enti, mentre quella del rapporto di lavoro spetta, oltre che alla legge, al contratto collettivo (nazionale e integrativo-decentrato),
dall’altro, il legislatore ha conferito ad ogni amministrazione la competenza ad adottare sia gli atti di organizzazione, sia quanto necessario alla
gestione dei rapporto di lavoro «con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro» (art. 5, d.lgs. n. 165/2001), cioè con determinazioni unilaterali che incidono sulle posizioni giuridiche soggettive dei lavoratori.
Nel modello di contrattualizzazione adottato, i rapporti tra la normativa statale e quella regionale sono formalmente risolti attraverso la qualificazione delle disposizioni del d.lgs. n. 29/1993 come vincolo per il legislatore regionale, diversamente declinata a seconda del tipo di Regione
(e Provincia autonoma). Si impone, infatti, una coazione apparentemente più debole alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome,
per le quali il d.lgs. n. 29/1993 rappresenta un insieme di «norme fondamentali di riforma economico-sociale»; a cui si contrappone un’imposizione a prima vista più forte per le Regioni a Statuto ordinario, per le
quali le disposizioni del d.lgs. n. 29/1993 costituiscono «principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 Cost.» cui attenersi «tenendo conto delle
peculiarità dei rispettivi ordinamenti» (art. 1, comma 3, d.lgs. n.
165/2001, già art. 1, comma 3, d.lgs. n. 29/1993).
Le Regioni, dunque, non sarebbero state vincolate alla legislazione
statale di riforma del pubblico impiego, ma soltanto alle «norme fondamentali» ovvero ai «principi» da quella espressi, con piena salvaguardia
della propria autonomia organizzativa 27. Ma la traduzione della “grande
riforma” del pubblico impiego nella realtà “materiale” 28 è stata però ben
diversa. Da un lato, le previsioni del d.lgs. n. 29/1993 (ed oggi quelle rifluite nel d.lgs. n. 165/2001) si sono rivelate assai più penetranti dei meri “principi” che avrebbero dovuto essere, imponendosi invece alle Regioni il percorso standardizzato immaginato unitariamente per tutto il
pubblico impiego; dall’altro, le Regioni non hanno reagito all’esproprio
27
Sul punto si v. diffusamente G. Rolla, L’autonomia delle Regioni in materia di organizzazione e di disciplina del personale: profili costituzionali del d.lgs. 29/1993, in «Le Regioni» 1993, 660 e ss., qui spec. 671.
28
Richiamando l’insegnamento di C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, Milano, 1940, parrebbe potersi identificare (in assonanza con l’ermeneutica della Legge fondamentale dello Stato) una riforma del pubblico impiego “formale” cui contrapporre la sua concretizzazione “materiale” o “vivente”.
1003
perpetrato in loro danno, avallando l’attrazione al “centro” della disciplina del rapporto di lavoro regionale e locale.
Anche nel procedimento di contrattazione collettiva il ruolo riservato alle Regioni ed alle autonomie locali è marginale ed insoddisfacente;
solo formalmente la disciplina che consegue all’intesa negoziale è imputabile anche alla volontà della “periferia” (che via via nell’evolvere della riforma partecipa sempre più all’ARAN ed al Comitato di settore), ma
in realtà nella formazione della volontà negoziale il ruolo delle Regioni
ed Autonomie locali non è mai di primattore, quanto al massimo di comprimario rispetto al Governo, che regge i destini del Comparto delle autonomie 29.
3. La riforma costituzionale del 2001 e il suo impatto sul lavoro pubblico locale
Allorché con il c.d. “federalismo” amministrativo (ll. nn. 59 e
127/1997) si conferì un maggior peso alle Regioni ed autonomie locali,
esse non colsero l’opportunità offerta per incidere sull’organizzazione 30
e, attraverso questa, sul rapporto di lavoro alle proprie dipendenze 31.
L’atteggiamento della “periferia” della Repubblica è radicalmente mutato a seguito della novella costituzionale del 2001. La “carica” suonata
dalle Regioni ha percorso due strade: da un lato, le autonomie hanno intrapreso un aspro contenzioso costituzionale avverso le leggi dello Stato,
ritenute lesive della propria competenza piena (residuale) sull’organizzazione degli enti non statali (Regioni ed autonomie locali) (sul quale v. infra); dall’altro, le Regioni hanno iniziato a legiferare negli ambiti “di
confine”, disponendo strumenti regionali di gestione delle risorse umane
locali, specialmente in tema di dirigenza 32 e procedure selettive 33. Si è
Contra G. Rolla, L’autonomia delle Regioni…, cit., 679.
Le Regioni avrebbero potuto provvedere con leggi e regolamenti; gli enti locali avrebbero invece dovuto seguire le linee tracciate dal d.lgs. n. 276/2000 (c.d. testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali) e far leva sulla propria autonomia statutaria.
31
Ritiene che le Regioni avrebbero potuto approfittare della situazione R. Salomone, Il
lavoro pubblico e la legge ‘Finanziaria 2002’: verso il primo conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni?, in «Lav. pubbl. amm.», 2002, 237, spec. 244.
32
Si v. l’ampia casistica esplorata da A. Loffredo, La legislazione regionale in materia
di dirigenza…, cit., 225.
33
Sul punto amplius V. Filì, Concorsi pubblici e riserve per i lavoratori precari, in «Lav.
pubbl. amm.», 2004, 415. Si evidenzia che, in relazione all’introduzione di procedure di stabilizzazione del personale c.d. precario introdotto ex ll. nn. 296/2006 (l. finanziaria 2007) e
29
30
1004
innescato così un meccanismo di moltiplicazione dei conflitti tra Stato e
Regioni, affidato alla funzione dirimente della Corte Costituzionale 34,
incaricata di definire il confine della disciplina dei rapporti di lavoro pubblico rispetto a quella dell’organizzazione degli enti, per chiarire le competenze, rispettivamente, del Parlamento e dei consigli regionali 35.
La materia del «lavoro pubblico» non è prima facie di facile collocazione nel riparto di competenze definito nel nuovo art. 117 Cost. proprio per l’assenza di riferimenti espressi nel testo costituzionale alla materia del pubblico impiego.
Com’è noto, l’art. 117 Cost. contiene la ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni elencando le materie attribuite al primo
in via esclusiva (comma 2), alle seconde in via residuale (comma 4), ovvero destinate alla competenza concorrente, in cui il legislatore statale
pone i principi fondamentali e quello regionale la disciplina di dettaglio
(comma 3). La novità rispetto alla formulazione originaria della disposizione è rappresentata dal rovesciamento del verso della clausola di enumerazione delle materie, nel senso che la competenza legislativa esclusiva dello Stato concerne le materie tassativamente elencate al comma 2
dell’art. 117 Cost., spettando invece alle Regioni la potestà legislativa «in
riferimento ad ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» come espresso dalla clausola residuale (anche detta “generale” 36) contenuta nel nuovo comma 4 dell’art. 117 Cost.
Il nuovo art. 117 Cost. ha generato molti dubbi e perplessità per la
difficoltà di riconoscere negli elenchi dei commi 2 e 3 le discipline ed i
settori “classici”, generalmente riconosciuti come materie autonome. Tra
le lacune più evidenti, si è ampiamente sottolineata la mancata individuazione del “diritto del lavoro” tra le materie tassativamente elencate e per
far fronte a tale silenzio (ed evitarne l’attrazione sic et simpliciter nella
competenza residuale regionale ex art. 117, comma 4, Cost. 37) la dottri244/2007 (l. finanziaria 2008), le Regioni ed autonomie locali hanno utilizzato gli strumenti
legislativo e regolamentare per disciplinare la materia.
34
Sul ruolo dirimente della Corte Costituzionale si v. da ultimo E. D’Orlando, La funzione arbitrale della Corte Costituzionale tra Stato centrale e governi periferici, Bologna,
2006.
35
Invero, l’enorme massa di ricorsi per conflitto di attribuzioni avanzati sin dai primi mesi del 2002 era stata prevista dalla dottrina, in particolare da R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in «Le Regioni», 2001, 613.
36
Così F. Carinci, Il principio di sussidiarietà verticale nel sistema delle fonti, in Aa.Vv.,
Diritto e libertà. Scritti in onore di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, 188.
37
A favore di questa soluzione, invece, M. Biagi, Il lavoro nella riforma costituzionale,
in «DRI», 2002, 157.
1005
na ha ricercato nel testo dell’art. 117 Cost. i “frammenti” del diritto del
lavoro sparsi nelle materie espressamente enumerate, al fine di ricomporre i tasselli di un «difficile puzzle» 38. Sono così emersi principalmente
due orientamenti interpretativi: il primo ha ricondotto il lavoro pubblico
locale al diritto del lavoro in generale; il secondo, invece, ne ha accentuato il carattere pubblicistico e l’ha fatto rifluire nell’organizzazione delle
amministrazioni.
3.1. La prima tesi: la disciplina del lavoro pubblico locale come diritto
del lavoro tout court, ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
Secondo ampia parte della dottrina giuslavoristica, la c.d. privatizzazione del pubblico impiego ha condotto il lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni nell’alveo del diritto del lavoro tout court 39.
Si tratterebbe delle estreme conseguenze dell’applicazione dello strumento scelto (il contratto) per riformare il pubblico impiego e rappresentato
dal progressivo avvicinamento di questo al diritto del lavoro privato 40,
pur senza dimenticare «la differenza intrinseca alla natura del soggetto
pubblico» 41 che è chiamato ad essere datore di lavoro 42.
Ritenendo il precetto costituzionale dell’art. 97 quale vincolo per la
pubblica amministrazione al rispetto della riserva di legge (solo) nell’esercizio del potere di organizzazione degli uffici 43, a seguito della privatizzazione l’organizzazione sarebbe definitivamente scissa dalla gestione
dei rapporti di lavoro «attratti nell’orbita della disciplina civilistica per
tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa» in un «equilibrato dosaggio di fonti re38
L’espressione è di L. Zoppoli, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche Amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle?, in «Lav. pubbl. amm.», 2002, suppl. 1, 159.
39
F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, cit., 23; F. Liso, Art. 117 e lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in www.astridonline.it; L. De Angelis, Federalismo e rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in «Foro it.»,
2003, V, 25.
40
Ma per D. Bolognino, La collocazione del “lavoro pubblico” tra Stato e Regioni nel nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione, in «Dir. lav.», 2005, 12, invero l’avvicinamento sarebbe la
ratio della riforma.
41
M. D’Antona, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del
pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, in «Lav. pubbl. amm.», 1998, 57.
42
E. Ales, La pubblica Amministrazione quale imprenditore e datore di lavoro. Un’interpretazione giuslavoristica del rapporto di lavoro tra indirizzo e gestione, Milano, 2002.
43
G. Rolla, L’autonomia delle Regioni…, cit., 674-675.
1006
golatrici» con cui «il legislatore ha garantito, senza pregiudizio per l’imparzialità, il valore dell’efficienza contenuto nello stesso precetto costituzionale» (C. Cost., sentenza n. 309/1997) 44.
Nell’affermare la legittimità costituzionale della riforma del pubblico impiego, la Consulta ha evidenziato, infatti, come essa si realizzi «intorno all’accentuazione progressiva della distinzione tra aspetto organizzativo della pubblica amministrazione e rapporto di lavoro con i suoi dipendenti» di modo che «l’organizzazione, nel suo nucleo essenziale, resti necessariamente affidata alla massima sintesi politica espressa dalla
legge nonché alla potestà amministrativa, nell’ambito di regole che la
stessa pubblica amministrazione previamente pone; mentre il rapporto di
lavoro dei dipendenti viene attratto nell’orbita della disciplina civilistica
per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente
pubblico dell’azione amministrativa».
Nel modello adottato dalla Corte Costituzionale, il sistema di regolazione del lavoro pubblico prevede la contestuale presenza di fonti pubblicistiche e privatistiche: le prime informano i soli atti di c.d. macro-organizzazione 45, cioè di quel «nucleo essenziale» dell’aspetto organizzativo
che rimane nell’ambito dei poteri unilaterali dell’amministrazione; alle
seconde, invece, è demandata l’intera disciplina del rapporto di lavoro,
nei suoi aspetti individuali e collettivi, nonché la c.d. micro-organizzazione, dove la pubblica amministrazione agisce «con la capacità e i poteri del
privato datore di lavoro» (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165/2001) 46.
Ove si aderisca all’interpretazione in esame e si ritenga che il lavoro
pubblico locale rientri a pieno titolo nel diritto del lavoro tout court, nella varietà delle posizioni emerse 47 si ritiene assai convincente la posizione espressa da illustre dottrina 48 e confermata anche dalla Corte Costitu44
C. Cost., n. 309/1997, in «Lav. pubbl. amm.», 1998, 131, con nota di M. Barbieri,
Corte Costituzionale e lavoro pubblico: un passo avanti e uno a lato.
45
C. D’Orta, Il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato, in F. Carinci e M. D’Antona (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle
Amministrazioni pubbliche dal d.lgs. 29/1993 ai d.lgs. nn. 396/1997, 80/1998 e 387/1998.
Commentario, Milano, 2000, Tomo I, 149.
46
D. Bolognino, op. cit., 13; L. de Angelis, op. cit., 30.
47
Per una rassegna critica delle posizioni emerse si v. M.T. Carinci, La legge delega n.
30/2003 e il sistema delle fonti, in M.T. Carinci (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Milano, 2003, 6.
48
F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2003, 75; Id.,
Una svolta tra ideologia e tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio secolo, in M. Miscione e M. Ricci (a cura di), Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, in F. Carinci (coord. da), Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Tomo I, Milano, 2004, XXXV.
1007
zionale nella sentenza n. 50/2005 49, che colloca la regolamentazione giuridica dei rapporti individuali e collettivi di lavoro nell’ambito dell’«ordinamento civile» di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost., riconducendola alla potestà legislativa esclusiva dello Stato 50. Rimarrebbero dunque
allo Stato sia il diritto sindacale, in forza del suo rilievo costituzionale
(art. 39, Cost.), sia il rapporto di lavoro individuale, in relazione alla debolezza del prestatore di fronte al datore di lavoro. Alla competenza legislativa concorrente ex art. 117, comma 3 Cost. sarebbero invece attribuite la «previdenza complementare ed integrativa» 51 la «tutela della salute» e la «tutela e sicurezza del lavoro» 52.
Questa lettura della Carta costituzionale ha evitato in prima battuta
l’indiscriminata regionalizzazione della delicata materia del lavoro in
generale 53, fuggendo il pericolo di una feroce concorrenza (al ribasso)
Sulla sentenza C. Cost., n. 50/2005, individuata da A.Trojsi (in La potestà regionale in
materia di lavoro, in «RGL», 2007, 651, qui spec. 652) come la «più significativa» di un vasto novero di decisioni sul tema del riparto di competenze in materia di lavoro, si v. V. Filì, La
“Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata. Appunti dopo il decreto correttivo ed il vaglio
costituzionale, in «Lav. giur.», 2005, 405.
50
Così F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, cit., 17, secondo il quale rimarrebbero comunque fuori dall’“ordinamento civile” il diritto pubblico del lavoro, previdenziale, amministrativo, penale; così anche F. Fracchia, Il pubblico dipendente nella “formazione sociale” “organizzazione pubblica”, in «Lav. pubbl. amm.», 2003, 5, 769; P.A. Varesi, Regioni e politiche attive del lavoro dopo la riforma costituzionale, in «Lav. pubbl. amm.», 2002,
suppl. 1, 123. Contra L. Zoppoli, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del
lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle, in «Lav.
pubbl. amm.», 2002, suppl. 1, pag. 149, che definisce questa orientamento semplificante e persino pericoloso. I limiti della formula ordinamento civile non sono sfuggiti, tanto che una parte della dottrina ha tentato di ricondurre tutta la materia lavoristica allo Stato, attraverso l’identificazione della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.) che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale con il corpus di norme (inderogabili) che il datore di lavoro è tenuto a rispettare: M.
Persiani, Devolution e diritto del lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2002, 1, 19; M. Rusciano, Il diritto del lavoro italiano nel federalismo, in «Lav. dir.», 2001, 3, 491. Questa lettura della lett. m)
dell’art. 117, comma 2 Cost. sembra però in contrasto con l’art. 39, comma 1, Cost., nel caso in
cui le garanzie dei diritti dei lavoratori si trasformassero in vero e proprio dovere (e non potere,
com’è oggi) in forza di un intervento del legislatore statale: così F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, cit., 19; F. Fracchia, op. ult. cit., 782; L. Zoppoli, La riforma del Titolo V, cit., 151. Una ricostruzione dei vari orientamenti emersi si ritrova, da ultimo, in F. Carinci, Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e prassi applicativa, cit., LXXII-LXXIII.
51
G. Balandi, Il sistema previdenziale nel federalismo, in «Lav. dir.», 2001, 479.
52
F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2003, 17 ss.
qui spec. 22, afferma che «questa espressione pare emergere dal nulla, senza alcuna storia alle spalle».
53
Un orientamento favorevole alla “regionalizzazione” del diritto nel lavoro emergeva
invece nel Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e per
49
1008
tra i diversi modelli regolativi regionali, realizzabili qualora ogni Regione potesse dar vita ad un proprio ordinamento dei rapporti di lavoro 54.
Considerando dunque il lavoro pubblico locale quale species del diritto del lavoro, l’attrazione di quest’ultimo nella materia dell’ «ordinamento civile» comporterebbe la competenza esclusiva del legislatore statale sia sulle fonti privatistiche di regolamentazione di tutto il lavoro pubblico contrattualizzato [ex art. 117, comma 2, lett. l), Cost.], sia sull’«ordinamento e organizzazione amministrativa» ma limitatamente a quella
«dello Stato e degli enti pubblici nazionali» [art. 117, comma 2, lett. g),
Cost.], intesa quale attività di macro-organizzazione, sottratta al diritto
del lavoro ed attratta al diritto pubblico.
In virtù di queste distinzioni, lo spazio regolativo per le Regioni ed
autonomie locali in materia di lavoro pubblico locale parrebbe dunque
assai ristretto, confinato tra la competenza legislativa residuale in tema di
«ordinamento e organizzazione amministrativa» degli enti non nazionali
(ex art. 117, comma 4, Cost.) e la potestà regolamentare di Comuni, Province e Città metropolitane (ex art. 117, comma 6, Cost.) 55.
3.2. La seconda tesi: il lavoro pubblico locale come organizzazione delle amministrazioni, ex art. 117, comma 4, Cost.
Invero, la ricostruzione sopra esposta non ha convinto tutti, special-
un lavoro di qualità, Roma, 2001, allorché al punto I.1.3. (Lavoro e federalismo) affermava
che, alla luce del nuovo art. 117, Cost., «la potestà legislativa concorrente delle Regioni riguarda non soltanto il mercato del lavoro, in una logica di ulteriore rafforzamento del decentramento amministrativo in atto, bensì anche la regolazione dei rapporti di lavoro, quindi l’intero ordinamento del lavoro». Così anche M. Biagi, Il lavoro nella riforma costituzionale, in «Dir. rel.
ind.», 2002, 157.
54
R. Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, in «Arg. dir. lav.», 2002, 81, individua un possibile «effetto deflagrante per il mercato del lavoro» nel caso in cui si affermasse la
piena competenza delle Regioni sul lavoro pubblico non statale. Ma, invero, la concorrenza tra
le Regioni è possibile, operando sul diverso piano della fiscalità anziché della regolamentazione dei rapporto di lavoro. Infatti, ex art. 1, comma 43, l. n. 244/2007 (l. finanziaria 2008) si prevede che «in attesa della completa attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, con particolare riferimento alla individuazione delle regole fondamentali per assicurare il coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario di livello substatuale, l’imposta regionale sulle
attività produttive (Irap) assume la natura di tributo proprio della Regione e, a decorrere dal 1°
gennaio 2009, è istituita con legge regionale». La possibilità per le Regioni di incidere sulla
determinazione dell’Irap (finanche a prevederne l’eliminazione) innesca una competizione tra
le “periferie”, che hanno la facoltà di rendersi più allettanti per gli investimenti.
55
L. de Angelis, op. cit., 28.
1009
mente sul versante della dottrina amministrativistica. Di essa si è criticata la concezione “pan-privatistica” e “centralista”/“statalista” del lavoro
pubblico, che finisce per svilire le peculiarità del pubblico impiego, nonché l’importanza e l’autonomia che la Costituzione ha riconosciuto alle
Regioni e alle autonomie locali, sacrificate sull’ “altare” della contrattualizzazione del rapporto di lavoro con negazione di una loro piena signoria sul governo delle risorse umane, in virtù dei vincoli derivanti dalla
legge e dalla contrattazione collettiva nazionale 56.
Stando alla citata dottrina, dunque, le prerogative in tema di stato
giuridico ed economico del personale della Regione e degli enti locali
dovrebbero essere intese come lavoro pubblico locale e riservate alle Regioni, in quanto aspetto inscindibile dall’organizzazione degli enti. Tale
competenza sarebbe ricavabile a contrario facendo leva sul dato letterale del nuovo Titolo V, Parte II della Costituzione ove si prevede la potestà legislativa esclusiva dello Stato solo nella materia dell’«ordinamento
e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» [art. 117, comma 2, lett. g), Cost.]; da ciò la dottrina in commento
ricava la piena e residuale competenza legislativa (ex art. 117, comma 4,
Cost.) delle Regioni sull’ordinamento e l’organizzazione amministrativa
propria e degli altri enti territoriali diversi da quelli nazionali 57. La riconosciuta ed incontestata competenza regionale sull’«ordinamento e organizzazione amministrativa» viene, quindi, “dilatata” sino a comprendere
anche la competenza sulla regolamentazione del personale, in quanto in
qualche modo “funzionalizzata” all’organizzazione.
Come noto, la “funzionalizzazione” rappresenta nel diritto pubblico
un’attività di cura di interessi alieni giuridicamente rilevante 58, comportante l’apposizione di un «vincolo formale di scopo» cui indirizzare la regolazione legislativa 59. Il richiamo alla “funzionalizzazione” nella disciM. Cammelli, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione, in «Le Regioni», 2001, 1283; A. Corpaci, Revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione e sistema amministrativo, in «Le Regioni», 2001, 1389; E. Gianfrancesco, La ripartizione di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro, in «Le
Regioni», 2005, 513; L. Torchia, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in «Le Regioni», 2002, 343, spec. 360. La tesi proposta è accolta, tra i giuslavoristi, da E. M. Mastinu, Il
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni regionali nel Titolo V della Costituzione, in «Riv.
giur. lav.», 2007, 371.
57
Sul punto si v. G. Falcon, Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi art. 118 e
117 della Costituzione, in «Le Regioni», 2002, 383, spec. 395; F. Merloni, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, in
«Le Regioni», 2002, 409, spec. 428-430).
58
M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993, II, 7 ed anche 445.
59
F. Modugno, voce Funzione, in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, 301, spec. 303.
56
1010
plina del rapporto di lavoro pubblico non sembra prima facie condivisibile, in quanto tende a riportare il pubblico impiego nell’alveo del diritto
amministrativo da cui si è invece espressamente discostato attraverso la
contrattualizzazione 60; essa presenta però degli argomenti di suggestione.
Non vi è dubbio che anche il lavoro pubblico partecipa alla costituzione
dell’organizzazione: in questo senso, dalla realtà fattuale si ricava che esso, in quanto parte dell’amministrazione, ne realizza gli scopi di interesse
pubblico 61. Ciò però non consente di affermare che nella disciplina del lavoro pubblico debba riconoscersi l’esercizio di poteri (funzionalmente)
vincolati all’affermazione di un fine: si tratta di un’estremizzazione del
ragionamento non condivisibile ove si rammenti che, a seguito della c.d.
privatizzazione, anche il pubblico impiego è retto secondo gli strumenti
dell’autonomia negoziale privata (collettiva ed individuale) di per sé incompatibile con l’esercizio di una “funzione” in senso pubblicistico 62.
L’utilizzo del termine e delle logiche della “funzionalizzazione”
sembrano invece richiamabili allorché al termine si attribuiscano i diversi significati di “finalizzazione” immediata della riforma del lavoro pubblico alla definizione delle misure «inerenti all’organizzazione ed alla
gestione dei rapporti di lavoro» 63 e di “finalizzazione” mediata degli
obiettivi economico-politici sottesi alla contrattualizzazione 64. In tale accezione, sembra potersi affermare che nel settore pubblico è l’autonomia
privata ad essere “funzionalizzata” in quanto orientata ad un fine.
Contra M. Rusciano (in Contratto, contrattazione e relazioni sindacali nel «nuovo »
pubblico impiego, in «Arg. dir. lav.», 1997, n. 5, 97 ed Id. in La riforma del lavoro pubblico:
fonti della trasformazione e trasformazione delle fonti, in AIDLASS, Le trasformazioni dei
rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, Atti delle giornate di studio di diritto del
lavoro, L’Aquila, 31 maggio-1 giugno 1996, Milano, 1997, 82 e, da ultimo, in Contratto collettivo e autonomia sindacale, Torino, 2003, 239), a parere del quale il legislatore, con la riforma attuata con il d.lgs. n. 29/1993, avrebbe voluto «legificare il metodo per delegificare i rapporti», da cui si farebbe derivare la funzionalizzazione di tutto l’assetto contrattuale, nazionale e decentrato. Sul tema della “funzionalizzazione” del contratto agli scopi della riforma del
lavoro pubblico si v. amplius U. Romagnoli, La revisione della disciplina del pubblico impiego: dal disastro verso l’ignoto, in «Lav. dir.», 1993, 231; M. Grandi, L’assetto della contrattazione collettiva: un ballo in maschera, in «Lav. dir.», 1993, 575.
61
F. Liso, Art. 117…, cit., 1.
62
M. Dell’Olio, Legge e contratto collettivo; autorità, funzione, libertà, in AIDLASS,
Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, Atti delle giornate di
studio di diritto del lavoro, L’Aquila, 31 maggio-1 giugno 1996, Milano, 1997, 253.
63
G. Ghezzi, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e la ridefinizione delle fonti, in AIDLASS, Le trasformazioni, cit., 110.
64
M. Grandi, La posizione del contratto collettivo nell’impiego pubblico privatizzato, in
Aa.Vv., Diritto e libertà. Scritti in onore di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, 704, spec. 714.
60
1011
4. La funzione dirimente della Corte Costituzionale nel conflitto tra Stato
e Regioni sul lavoro pubblico locale
Le due tesi proposte presentano entrambe elementi condivisibili. Secondo il primo orientamento, a seguito della c.d. privatizzazione, il lavoro pubblico locale assurge a species del genus diritto del lavoro, del quale condivide gli strumenti (l’autonomia negoziale) e la disciplina (espressamente richiamata ex artt. 2 e 5, d.lgs. n. 165/2001), fatti salvi i necessari tratti di specialità. La potestà legislativa delle Regioni troverebbe
spazio, dunque, soltanto per ciò che concerne i profili pubblicistici, di organizzazione ed ordinamento degli enti. Ma proprio attraverso il pertugio
dell’«organizzazione» il secondo orientamento “regionalista” consente
l’ingresso del legislatore regionale nella regolamentazione del lavoro
pubblico locale, inteso come strumento affinché l’amministrazione realizzi i propri scopi.
A tracciare il solco entro cui, da un lato, lo Stato e, dall’altro, le Regioni possono legittimamente legiferare in materia di lavoro pubblico locale è stata chiamata (ancora una volta) la Corte Costituzionale.
In prima battuta, la Consulta è parsa sbilanciarsi verso la tesi “regionalista”: nella sentenza n. 274 del 2003, sembra, infatti, pronunciarsi in favore di una possibile regionalizzazione del lavoro pubblico non statale 65.
In tale occasione la Corte era stata chiamata a valutare la legittimità della l.r. n. 11/2002 della Regione Sardegna con cui si disponeva l’immissione in ruolo di lavoratori socialmente utili in attività presso l’amministrazione regionale. Il ricorso promosso dal Governo si fondava sulla
pretesa violazione di norme di riforma economico-sociale desumibili
dalla legislazione statale (quale d.lgs. n. 468/1997 di disciplina dei lavoratori socialmente utili), ritenute vincolanti per le Regioni a Statuto speciale ex art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001. Nel respingere il ricorso statale, la Corte Costituzionale affermava l’inopponibilità del vincolo delle
norme di riforma economico-sociale alla legislazione sarda in materia di
«stato economico e giuridico del personale» in seguito alla riforma costituzionale.
Per risolvere il conflitto, il giudice delle leggi ha fatto leva sull’art.
10, l. cost. n. 3/2001, ove si dice che «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano
anche alle Regioni a Statuto speciale ed alle Province autonome di Tren65
I profili in esame sono analizzati da R. Salomone, Il lavoro pubblico locale e il nuovo
art. 117 Cost. all’esame della Corte Costituzionale, nota a C. Cost., n. 274/2003, in «Lav. pubbl. amm.», 2003, 595.
1012
to e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite» con gli statuti vigenti. Secondo la Corte, la materia del lavoro pubblico locale dovrebbe ricadere nella piena
competenza delle Regioni (anche) a Statuto speciale «essendo l’analoga
materia, per le Regioni a statuto ordinario, riconducibile al quarto comma dell’art. 117» e cioè alla potestà legislativa piena ex art. 117, comma
4, Cost., trattandosi di una materia non presente negli elenchi tassativi
dei commi 2 e 3.
Nella decisione della Corte Costituzionale, ciò che rileva ai fini del
riparto di competenze in tema di impiego è la natura del datore di lavoro: se questo è privato, si rientra nella materia dell’«ordinamento civile»
di esclusiva competenza statale; se invece è un ente pubblico, il rapporto di impiego attiene ad un’altra materia, quella definita come «ordinamento ed organizzazione amministrativa» e riguarda, per i rispettivi ambiti, lo Stato [ex art. 117, comma 2, lett. g) Cost.] ovvero le Regioni (ex
art. 117, comma 4, Cost.).
L’essenzialità della distinzione tra datore di lavoro “privato” e “pubblico” ai fini del riparto di competenze è sottesa anche alla successiva
sentenza n. 359/2003, con cui la Corte Costituzionale censura la l.r. n.
16/2002 della Regione Lazio in tema di mobbing 66, nella parte in cui prevede una particolare forma di diffida ad adempiere da effettuarsi nei confronti del datore di lavoro: tale diffida configura un elemento del possibile inadempimento del datore, con invasione della competenza esclusiva
dello Stato in materia di «ordinamento civile» quando il datore di lavoro
sia privato ed in punto di «ordinamento e organizzazione amministrativa
dello Stato e degli enti pubblici nazionali … quando il datore di lavoro
sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico nazionale».
Nelle argomentazioni della Corte, la disciplina del rapporto di lavoro è ricondotta all’«ordinamento civile» [art. 117, comma 2, lett. l), Cost.]
soltanto per il lavoro privato, viceversa ritenendo attratta la stessa mate66
La decisione della C. Cost., n. 359/2003 è richiamata da F. Ghera, Il lavoro alle dipendenze delle Regioni alla luce del nuovo art. 117 Cost., nota a C. Cost., n. 2/2004, in «Giust.
civ.», 2005, 44. Si v. altresì G. Manfredi, Impiego pubblico e riforme costituzionali, in www.
impiegopubblico.it; A. Loffredo, Mobbing e regionalismo: chi deve tutelare il piacere di lavorare?, in «Lav. pubbl. amm.», 2003, 1208; R. Salomone, Titolo V della Costituzione e lavoro pubblico privatizzato: i primi orientamenti della Consulta, in «Lav. pubbl. amm.», 2004,
1147; L. Gaeta e S. Verdoliva, I difficili percorsi giurisprudenziali del mobbing negli enti locali: notizie dalla Toscana, in Aa.Vv., Diritto e libertà. Scritti in onore di Matteo Dell’Olio,
Torino, 2008, 568, spc. 572. Sulle decisioni più recenti si v. P. Tullini, Nuovi interventi della
Corte Costituzionale sulla legislazione regionale in materia di mobbing, in «Riv. it. dir. lav.»,
2006, II, 502.
1013
ria lavoristica alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia
di «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali » [art. 117, comma 2, lett. g), Cost.] nel caso in cui
il datore di lavoro sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico
nazionale.
Invero, l’orientamento assunto dalla Corte Costituzionale nelle due
decisioni ricordate non può essere condiviso; qualora si devolvesse alle
Regioni la piena potestà sul pubblico impiego non statale, l’attuale sistema delle fonti indicato dal d.lgs. n. 165/2001 sarebbe travolto nei suoi
principi fondamentali, con effetti dirompenti sulla regolazione del lavoro
pubblico locale 67.
In primis, l’affermazione di una competenza regionale piena ed
esclusiva sul lavoro pubblico locale determinerebbe il superamento del
principio secondo cui la «regolazione mediante contratti individuali e
collettivi dei rapporti di lavoro nel settore pubblico» rappresenta «una
norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica»
(art. 2, l. delega n. 421/1992, recepita nell’art. 1, comma 3, d.lgs. n.
165/2001), vincolante per le Regioni a Statuto ordinario «tenendo conto
delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti» e per le Regioni a Statuto
speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano, limitatamente ai
principi desumibili dagli artt. 2, l. 421/1992 ed 11, comma 4, l. n. 59/1997,
(art. 1, comma 3, d.lgs. n. 165/2001). Tali vincoli non potrebbero, infatti, essere richiamati nel caso in cui il lavoro pubblico locale, attratto nella materia dell’organizzazione, ricadesse nella potestà piena delle Regioni (art. 117, comma 4, Cost.), soggetta soltanto al «rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali» ex (nuovo) art. 117, comma 1, Cost.
Caduta la vincolatività per le Regioni del sistema previsto dal d.lgs.
n. 165/2001 mancherebbe un fondamento positivo alla previsione di un
contratto collettivo nazionale uguale per le tutte le amministrazioni
dell’odierno Comparto delle Regioni ed autonomie locali (art. 40, comma 1, d.lgs. n. 165/2001) stipulato dall’Aran quale rappresentante legale di tutte le amministrazioni (art. 46, d.lgs. n. 165/2001) e sotto il controllo del Comitato di settore (espressione fondamentalmente del Governo statale e, solo in minima parte, delle Regioni ed autonomie locali) e
conseguentemente di un ruolo soltanto integrativo giocato dalla contratA. Bellavista (in Federalismo e lavoro pubblico locale, in www.di-elle.it, ed anche,
con modifiche, in Aa. Vv., Diritto del lavoro. I nuovi problemi. L’omaggio dell’accademia a
Mattia Persiani, Padova, 2005, 1), evidenzia il rischio di una “balcanizzazione” del diritto del
lavoro, se frammentato tra Stato e Regioni.
67
1014
tazione di secondo livello, tenuta a svolgersi sulle materie e con le risorse indicate dal contratto nazionale, a pena di nullità delle disposizioni in
contrasto (art. 40, comma 3, d.lgs. n. 165/2001).
Proseguendo nel ragionamento, anche il Comparto delle Regioni ed
autonomie locali sarebbe probabilmente destinato alla disgregazione,
“esplodendo” in tanti Comparti autonomi di lavoro pubblico locale, eventualmente separati in lavoro pubblico alle dipendenze delle Regioni e degli enti locali, corrispondenti alle diverse realtà regionali. Non si potrebbe certo escludere a priori la formazione di un Comparto che riunisse il
personale alle dipendenze di più Regioni, se adeguato rispetto all’assetto
di queste: ma detta ipotesi pare difficilmente conciliabile con il desiderio
di affermazione di autonomia manifestato dalle “periferie” della Repubblica, nonché con i diversi orientamenti politici di cui le Regioni possono essere espressione 68.
Dalla “regionalizzazione” conseguirebbe la messa in discussione del
rapporto tra le fonti unilaterali (statuti, leggi e regolamenti regionali; determinazioni delle amministrazioni quali datori di lavoro ex art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165/2001) e negoziali, soprattutto per la parte in cui oggi
si dispone la derogabilità della disciplina unilaterale (e quindi anche della legge regionale) attraverso «successivi contratti o accordi collettivi»
salvo che la legge stessa non disponga in senso contrario (art. 2, comma
3, d.lgs. n. 165/2001).
Qualora si ritenesse che la forza vincolante del complesso delle fonti di disciplina del lavoro pubblico nei confronti delle Regioni (basata
sulla possibilità per lo Stato di indicare con legge i principi generali della materia e sul dovere di conformazione a questi da parte delle Regioni)
sia venuta meno con la riscrittura dell’art. 117 Cost., si potrebbe addirittura mettere in discussione la stessa “privatizzazione”, operata attraverso
La proposta di articolare la contrattazione collettiva per macroregioni è stata avanzata
sia per il settore privato (T. Boeri e P. Garibaldi, Standard minimi e nuove tipologie contrattuali, in www.lavoce.info del 9 gennaio 2006), sia per il pubblico impiego (secondo quanto
suggerito dall’allora Presidente dell’ARAN G. Fantoni, L’esperienza contrattuale sul versante pubblico, in www.ildiariodellavoro.it del 18 luglio 2005), anche con richiami espressi alla
differenziazione per Regioni (G. Viesti, Gabbie salariali tra federalismo e contrattazione, in
www.nelmerito.it del 12 giugno 2008). La riforma della struttura contrattuale è oggetto di un
intenso dibattito scientifico, sul quale si v. P. Ichino, A che cosa serve il sindacato, Milano,
2005; il Forum su «La riforma della contrattazione collettiva: quale riforma», in «Riv. it. dir.
lav.», 2006, con interventi di R. Del Punta, L. Mariucci, R. Scognamiglio, A. Tursi, L. Zoppoli (n. 3, 259-325) e M. Del Conte, O. Mazzotta, A. Pizzoferrato, A. Vallebona (n. 4, 417447); il numero monografico della rivista www.nelmerito.it del 12 giugno 2008, con interventi di S. Bellomo e A. Maresca, C. Dell’Aringa, A. Lassandari, T. Treu, L. Tronti, A. Tursi,
G. Viesti.
68
1015
l’estensione al pubblico impiego delle «disposizioni del capo I, Titolo II
del libro V del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa» ex art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001. Infatti, se la
materia fosse interamente attribuita alla potestà legislativa delle Regioni,
queste potrebbero addirittura individuare un nuovo e diverso rapporto tra
fonti unilaterali e fonti negoziali, sin anche optando per una “ripubblicizzazione” del lavoro pubblico locale se ritenuta più funzionale all’organizzazione amministrativa degli enti, ovvero per un modello “misto” in
cui taluni aspetti siano regolati unilateralmente ed altri attraverso la contrattazione 69. Entrambe le ipotesi sembrano però destinate (fortunatamente) ad arrestarsi di fronte all’impossibilità per le Regioni di attrarre
nuovamente alla giurisdizione amministrativa la competenza sul contenzioso del pubblico impiego, ex art. 117, comma 2, lett. l), Cost., (che riserva alla competenza statale «giurisdizione e norme processuali» e
«giustizia amministrativa») 70.
Delle possibili (e sconcertanti) ripercussioni derivanti dalle pronunce citate la stessa Corte Costituzionale è parsa rendersi conto e, con due
decisioni depositate il 13 gennaio 2004, ha cambiato orientamento.
Con la sentenza n. 2/2004 71 il giudice delle leggi ha respinto il ricorso dello Stato, teso a far dichiarare l’illegittimità costituzionale dello Statuto regionale della Calabria con cui «la Regione disciplina con provvedimenti normativi il regime procedimentale della contrattazione con i propri dirigenti» 72. Avverso le pretese governative, la Consulta ha reputato
che il legislatore regionale si fosse espresso soltanto «per la parte di propria competenza» e in modo «compatibile con la disciplina costituzionale e con la legislazione statale vigente in tema di ordinamento della dirigenza pubblica», in quanto «la intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici vincola anche le
Regioni, tuttavia la stessa legislazione statale in materia … non esclude
una, seppur ridotta, competenza normativa regionale»; alle Regioni sembra pertanto rimessa l’individuazione delle modalità della contrattazione
collettiva con i propri dirigenti, senza però che il metodo negoziale possa
essere messo in discussione dalla Regione medesima, obbligata ad esso in
69
Per le “combinazioni” possibili, in chiave comparata, si v. E. Ales, Modelli di lavoro pubblico in Europa, Milano, 1996; S. Sciarra, L’evoluzione della contrattazione collettiva. Appunti per una comparazione nei Paesi dell’Unione europea, in «Riv. it. dir. lav.»,
2006, I, 447.
70
Così A. Topo, Legge e autonomia collettiva nel lavoro pubblico. (Riflessione sul lavoro nella pubblica amministrazione), Padova, 2008, in corso di stampa, 36 del dattiloscritto.
71
C. Cost., n. 2/2004, in «Giust. civ.», 2006, 10, con nota di F. Ghera, cit.
72
Così testualmente nel ricorso del Governo avverso lo Statuto calabrese.
1016
virtù della contrattualizzazione «pur (se) dotate, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 della Costituzione, di poteri legislativi propri in tema di
organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale» 73.
La Corte, però, non chiarisce come i due enunciati possano stare insieme: il primo (la vincolatività della contrattualizzazione) fondato sulla
qualificazione della privatizzazione come «principio fondamentale» per
la competenza esclusiva regionale ai sensi del “vecchio” art. 117, comma
1, Cost., ovvero come «norma fondamentale di riforma economico-sociale» ai sensi del d.lgs. n. 29/1993; il secondo (la competenza esclusiva
regionale in materia ordinamentale ed amministrativa) desumibile
dall’odierno comma 4 dell’art. 117 della Costituzione riformata. In sostanza, la decisione della Consulta innesta la “retromarcia” rispetto alle
affermazioni rese nella sentenza n. 274/2003, pur senza (riuscire a) motivare in modo convincente.
La coeva sentenza n. 4/2004 74 vede pronunciarsi la Corte Costituzionale sui ricorsi proposti da più Regioni 75 avverso gli artt. 16, 17 e 18
della l. n. 448/2001 (c.d. legge finanziaria per il 2002) intervenuti in materia di contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni. Secondo le ricorrenti, le disposizioni sarebbero state lesive della loro competenza ex art. 117, comma 4, Cost., a cui il lavoro pubblico locale avrebbe dovuto essere ricondotto «per esclusione» 76, in quanto non compreso tra le materie riservate allo Stato 77 né tra quelle di competenza concorrente 78.
Nel dichiarare infondate le questioni di legittimità sollevate dalle
Regioni, la Corte Costituzionale non prende posizione sulla collocazione
L’opzione della contrattazione collettiva come «metodo di disciplina» assurge sino al
rango di norma costituzionale in C. Cost., n. 308/2006, costituendo un effettivo limite per le
opzioni possibili in capo al legislatore regionale.
74
C. Cost., n. 4/2004, in «Giust. civ.», 2006, 56, con note di A. Perino, ivi, 75 e G. della Cananea, Il coordinamento della finanza pubblica alla luce dell’Unione economica e monetaria, ivi, 77; ed anche di D. Bolognino, op. cit., 7.
75
Ricorso n. 10/2002 della Regione Marche; n. 12/2002 della Regione Toscana; n.
20/2002 della Regione Basilicata; n. 23/2002 della Regione Emilia-Romagna; 24/2002 della
Regione Umbria.
76
D. Bolognino, op. cit., 8.
77
In particolare, sono richiamate sia la competenza statale sull’«ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» (art. 117, comma 1, lett. g),
Cost.), sia la potestà in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art.
117, comma 1, lett. m), Cost.).
78
Il riferimento è alla competenza legislativa concorrente sulla «tutela e sicurezza del lavoro» (art. 117, comma 3, Cost.).
73
1017
del lavoro pubblico locale nel nuovo riparto di competenze, sembrando
invece impegnata a “salvare” la legge finanziaria avallando l’intervento
statale, ascritto, per l’occasione, alla materia (di competenza concorrente) dell’«armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica» (art. 117, comma 3, Cost.) e non, come sostenuto dalle
ricorrenti, alla materia dell’«impiego presso la Regione stessa e gli enti
locali».
Si è trattato, indubbiamente, di un utile escamotage, attraverso cui la
Consulta – evitando di pronunciarsi sul riparto di competenze in tema di
lavoro pubblico locale – ha risolto il dubbio di legittimità (pur se in modo non appagante) salvando la legge statale e conservando, dunque, la
medesima distribuzione delle competenze del Titolo V ante riforma del
2001 79. Lo stesso espediente (utile, ma poco convincente) è stato utilizzato anche in sentenze successive, ove l’intervento statale è stato ricondotto a materie di competenza concorrente (ad es. «istruzione» nel caso
del personale della scuola, v. sentenze n. 13/2004, n. 34/2005, n. 37/2005;
«tutela della salute» per ammettere gli interventi “centralistici” sul personale sanitario, v. sentenze n. 36/2005, n. 145/2005 80).
Alla Corte Costituzionale è stato affidato il difficile compito di ricomporre il quadro delle competenze (statali e regionali) in tema di lavoro pubblico locale. La giurisprudenza della Consulta mostra, da un lato,
aperti slanci verso le ragioni della “periferia” (sentenze nn. 274/2003 e
359/2005) e, dall’altro, prudenti arretramenti in favore delle affermazioni dello Stato (sentenze nn. 2 e 4/2004).
L’atteggiamento oscillante della Corte può forse essere spiegato (e,
in qualche modo, giustificato) dalle opposte esigenze che la Consulta si
trova a dover contemperare, sospesa com’è tra le legittime aspirazioni
delle “periferie” post riforma costituzionale del 2001 ad una maggior autonomia regolativa e la necessità di contenere a livello “centrale” la spesa pubblica entro limiti certi.
Lo snodo critico può allora individuarsi nel tema della fiscalità decentrata, prevista dal novellato art. 119 Cost. come «autonomia finanziaria di entrata e di spesa» ma ad oggi non attuata, con le Regioni ed
autonomie locali che rivendicano più ampi spazi nella gestione delle ri-
79
Sull’orientamento conservativo della Corte Costituzionale si v. per tutti F. Carinci,
Giurisprudenza costituzionale e c.d. privatizzazione del pubblico impiego, in «Lav. pubbl.
amm.», 2006, 499.
80
Le decisioni cennate sono commentate da A. Trojsi, Lavoro pubblico e riparto di potestà normativa, in «Lav. pubbl. amm.», 2005, 491, spec. 512-515.
1018
sorse 81, pur essendo ancora ad autonomia finanziaria derivata e controllata dallo Stato 82. La richiesta di maggior indipendenza proveniente
dalla “periferia” trova un saldo aggancio nel nuovo modello di Repubblica disegnato dall’art. 114 Cost., al contempo però la mancanza di autonomia finanziaria “costringe” la Corte ad utilizzare il vincolo dei
«principi di coordinamento della finanza pubblica» (art. 119, comma 6,
Cost.) al fine di salvaguardare la sostenibilità del sistema nel suo complesso.
5. La ricomposizione del conflitto: il difficile cammino della «leale collaborazione» tra Stato e Regioni, ex art. 120 Cost.
I dilemmi ermeneutici sollevati, tanto in dottrina quanto nella giurisprudenza costituzionale, dalla riforma operata con la l. cost. n. 3/2001,
sono probabilmente destinati a non trovare un definitivo chiarimento in
tempi rapidi, come dimostra anche l’enorme contenzioso costituzionale
ormai stratificato tra il “centro” e la “periferia” 83. Presa coscienza di ciò,
si è autorevolmente evocato uno “spirito conciliativo” tra lo Stato e le Regioni, invocando espressamente il principio costituzionale della «leale
collaborazione» (art. 120, comma 2, Cost.), quale «regola aurea di prevenzione e soluzione delle jurisdictional disputes» in una Repubblica
“federalista” priva di spazi e luoghi istituzionali di compensazione tra lo
Stato e le Regioni 84.
Del principio della leale collaborazione la Consulta cominciò a far
uso sistematico sin dagli anni Ottanta 85, intendendolo inizialmente qua81
Si v. il Rapporto di ricerca Unioncamere Veneto, I costi del “non” federalismo, Treviso, 2007, 6, in www.unioncameredelveneto.it/ pubblicazioni.
82
Fatta salva la previsione di “regionalizzazione” dell’Irap, prevista dall’art. 1, comma
43, l. n. 244/2007 (l. finanziaria 2008), che dispone «in attesa della completa attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione, con particolare riferimento alla individuazione delle regole fondamentali per assicurare il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario di livello substatuale, l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) assume la natura di tributo proprio della Regione e, a decorrere dal 1° gennaio 2009, è istituita con legge regionale».
83
Al 31 dicembre 2007, sul sito della Corte Costituzionale si contavano circa quattrocento sentenze e centocinquanta ordinanze relative al nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni.
84
F. Carinci, Regola maggioritaria, alternanza e bulimia riformatrice, in «Lav. pubbl.
amm.», 2002, 837, qui spec. 850.
85
L’espressione appare in C. Cost., n. 94/1985. Da C. Cost., n. 359/1985 in poi, si segnala il frequente riferimento al principio della leale collaborazione tra Stato e Regioni.
1019
le auspicio a che «i rapporti tra Stato e Regioni ubbidiscano … a quel
modello di cooperazione e integrazione nel segno dei grandi interessi
unitari della Nazione» 86 e successivamente quale indiretto corollario
proprio dell’art. 97 Cost. 87. Soltanto in un secondo momento la Corte approdò alla consacrazione della leale collaborazione come diretta emanazione dell’art. 5 Cost. in quanto «espressione del principio costituzionale fondamentale per cui la Repubblica, nella salvaguardia della sua unità
“riconosce e tutela le autonomie locali” alle cui esigenze “adegua i principi e i metodi della sua legislazione” (art. 5 Cost.)» in grado di andare
«al di là del mero riparto delle competenze per materia ed opera dunque
su tutto l’arco delle relazioni istituzionali fra Stato e Regioni» 88.
Non stupisce, dunque, che di fronte alla difficoltà di collocazione
della materia del lavoro pubblico locale gli interpreti invochino la leale
collaborazione (come già si era fatto, con successo, in tema di servizi per
l’impiego 89), affinché si possa addivenire ad un ragionevole tentativo di
contemperamento degli interessi di Stato e Regioni 90, che soddisfi le autonomie della Repubblica (ex art. 5 Cost.). La ricerca della leale collaborazione rappresenta sempre di più non una mera affermazione di principio, ma una necessità di fronte al nuovo riparto di competenze, nel quale «non c’è più molto spazio per il vecchio pubblico impiego» 91 ma in
cui pare assai ostico anche individuare spazi per il nuovo lavoro pubblico locale.
La necessità di mettere la parola “fine” alla «pericolosissima incertezza sui principi e sulle regole di fondo» 92 del lavoro alle dipendenze di
Regioni ed autonomie locali ha spinto verso la neo-costituzionalizzata
«leale collaborazione» come panacea di tutti i mali, senza però spiegare
come essa possa effettivamente essere utilizzata per garantire «la pacifica coesistenza e l’efficace ed appropriato svolgimento delle attribuzioni
C. Luciani, Un regionalismo senza modello, in «Le Regioni», 1994, 1321.
Aa.Vv., L’ordinamento regionale. Materiali di giurisprudenza costituzionale, Bologna, 1996, 28.
88
C. Cost., n. 242/1997.
89
V. Filì, L’avviamento al lavoro fra liberalizzazione e decentramento, Milano, 2002, 95.
90
R. Salomone, Nuova riforma costituzionale e lavoro pubblico. Osservazioni a margine della c.d. devolution (legge cost. 18 novembre 2005), in «Lav. pubbl. amm.», 2006, 53, qui
spec. 58, il quale sottolinea l’insoddisfazione rispetto alla mera attrazione del lavoro pubblico
locale alla competenza statale sul lavoro.
91
L. Zoppoli, Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, cit., 65.
92
L. Zoppoli, La ricerca di un nuovo equilibrio tra contrattazione nazionale e contrattazione integrativa. Il Comparto Regioni/autonomie locali, in «Quad. rass. sind.», 2002, 99,
spec. 110.
86
87
1020
centrali e locali» 93 nell’ambito del lavoro pubblico. Non pare affatto
semplice trasformare la compresenza/competizione sul territorio degli
ordinamenti statale e regionale in una «coesistenza attiva» 94, ove il “centro” e la “periferia” della Repubblica integrano le proprie reciproche attribuzioni per trovare una soluzione alla problematica in esame. Nondimeno, l’urgenza di dare risposte alle questioni supra descritte impone
l’intervento del legislatore statale d’intesa con le Regioni, affinché lo
scoglio della definizione delle competenze sul lavoro pubblico locale
possa essere superato di comune accordo, mettendo fine allo stillicidio
dei ricorsi (e relativi controricorsi) proposti da ambo le parti avanti alla
Corte Costituzionale.
6. Osservazioni conclusive
La rivoluzione copernicana nei rapporti tra Stato e Regioni, determinata dalla riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione, non ha avuto,
sino ad oggi, alcuna evidente conseguenza sulla disciplina del lavoro
pubblico regionale. Infatti, al personale alle dipendenze delle Regioni ed
autonomie locali, unito nell’omonimo Comparto, continuano ad applicarsi sia la legislazione previgente alla revisione della Carta fondamentale (compresi il procedimento di contrattazione collettiva regolato dal d.
lgs. n. 165/2001 ed il d.lgs. n. 267/2000), sia i CCNL del relativo Comparto. I (pochi) tentativi delle Regioni di appropriarsi di spazi più ampi
rispetto a quelli concessi, ovvero di difendersi dagli interventi dello Stato in materia di pubblico impiego, sono stati compressi dalla Corte Costituzionale, che ha contribuito al mantenimento dello status quo ante in
materia di impiego regionale e locale.
Tale situazione può essere ricondotta alla difficoltà di individuare gli
esatti contorni della materia del lavoro pubblico regionale all’interno del
nuovo riparto di potestà tra Stato e Regioni: il lavoro alle dipendenze di
Regioni ed autonomie locali pare quasi “sospeso” tra l’«ordinamento civile» e l’«ordinamento e organizzazione amministrativa» degli enti non
statali. Di fronte alle difficoltà del riparto per materie (che però costituisce la via ‘obbligata’ dalla struttura dell’art. 117, Cost.) pare emergere
anche l’inadeguatezza di quel criterio per circoscrivere le competenze
A. Anzon, Leale collaborazione tra Stato e Regioni, modalità applicative e controllo
di costituzionalità, in «Giust. civ.», 1998, 3532.
94
L’espressione è di V. Filì, L’avviamento al lavoro fra liberalizzazione e decentramento, cit., 99.
93
1021
sul lavoro pubblico regionale. Esso rappresenta il luogo naturale dell’incontro-scontro tra amministrazione e rapporti di lavoro, ove si può concretamente verificare come il potere di ordinare ed organizzare gli enti
non possa prescindere dalla possibilità di incidere sul trattamento del
personale ivi occupato. Ciò a pena dell’inevitabile incompiutezza
dell’azione di riorganizzazione (di nuovo) intrapresa per modernizzare il
Paese, fine sotteso alla c.d. privatizzazione del pubblico impiego (19932001), alla riforma neoregionalista (2001) ed ai recenti Memorandum
(2007) e d.d.l. delega per «Ottimizzare la produttività del lavoro pubblico» (2008).
L’obiettivo del miglioramento qualitativo della pubblica amministrazione sembra poter essere raggiunto attuando appieno il regionalismo
(o federalismo) “all’italiana”, attraverso la ridefinizione delle regole che
disciplinano il pubblico impiego regionale e locale, senza escludere le
pubbliche amministrazioni della “periferia” dal governo del proprio personale.
Alla luce dell’analisi svolta nel presente studio, sembra dunque possibile proporre alcune riflessioni sulle prospettive per il lavoro pubblico
locale.
In primo luogo, pare doversi escludere una competenza esclusiva
(piena) regionale sulla materia del pubblico impiego alle proprie dipendenze. Il “confine estremo” della competenza regionale viene posto per
relationem dalla privatizzazione stessa: sussiste, infatti, l’impossibilità
per le Regioni di ripubblicizzare il rapporto di lavoro alle proprie dipendenze delle Regioni, essendo sicuramente sottratta al legislatore “periferico” la capacità di incidere sulla materia della giurisdizione [art. 117,
comma 2, lett. l), d.lgs. n. 165/2001]. A seguito della contrattualizzazione, dunque, il rapporto di lavoro, esplicitamente separato dall’amministrazione, deve essere collocato nell’alveo dell’«ordinamento civile» di
potestà esclusiva statale [art. 117, comma 2, lett. l), Cost.]. In tale ambito, il legislatore statale dovrà però tener conto del mutato assetto della
Repubblica, per intervenire sulle fonti di disciplina del lavoro pubblico
regionale in modo coerente e rispettoso delle autonomie.
Le (legittime) aspirazioni delle autonomie potrebbero trovare soddisfazione nella riscrittura, da parte del legislatore nazionale, delle “regole
del gioco” in tema di contrattazione collettiva, la quale rappresenta il
principale strumento di gestione delle risorse umane (art. 2, comma 2,
d.lgs. n. 165/2001) e di controllo della spesa per il datore di lavoro “pubblico” (artt. 45 e 47, d.lgs. n. 165/2001), con una essenziale differenza rispetto al settore privato, in cui assume maggiore importanza il contratto
individuale di lavoro.
1022
L’azione riformatrice potrebbe attuarsi sia intervenendo sui meccanismi di rappresentanza della parte pubblica (Comitato di settore e
ARAN), sia incidendo sui rapporti tra contratto collettivo nazionale (necessario al contenimento della spesa pubblica) e livello decentrato-integrativo (imprescindibile strumento di gestione del personale). Proprio sul
contratto di secondo livello del Comparto Regioni ed autonomie locali
potrebbe “giocarsi” la partita delle riforme: attraverso una sua regionalizzazione, si permetterebbe alle amministrazioni “periferiche” l’adattamento delle regole e la caratterizzazione degli istituti in relazione all’ordinamento ed all’organizzazione degli enti (entro i vincoli di spesa sanciti dal contratto nazionale).
Sicché, la “rifondazione” della pubblica amministrazione si realizzerebbe agendo a livello regionale, attraverso un riassetto della contrattazione collettiva. In tale modello le Regioni assumerebbero un ruolo centrale, che pare in linea sia con l’equilibrio tra i soggetti territoriali disegnato dal riformato Titolo V, Parte II della Costituzione (art. 114, Cost),
sia con la previsione di una competenza piena e residuale delle Regioni
(art. 117, comma 4, Cost.), architrave del nuovo assetto repubblicano.
La necessità di fare chiarezza nell’eterna contesa sul riparto di competenze in materia di lavoro pubblico locale si coglie, riprendendo gli
spunti di apertura 95, anche allorché si approfondisca l’esame degli atti
all’ordine del giorno nell’agenda politica.
Nel Memorandum del 2007, le parti hanno concordato sulla necessità di dare corso ad una (ennesima) stagione di riforme che incidano sul
pubblico impiego «per una nuova qualità dei servizi e delle funzioni pubbliche». Secondo gli stipulanti, quest’obiettivo potrà essere raggiunto
agendo su più fronti, con il concorso coordinato (tra l’altro) «I) della legislazione a sostegno della piena contrattualizzione del rapporto di lavoro pubblico; II) delle disposizioni contrattuali del settore pubblico; III)
della disciplina delle procedure e del sistema di contrattazione (nazionale e integrativa)» (Punto 3, Memorandum). Non si tratta, invero, né di temi, né di intenti nuovi; al contrario, vi è una sostanziale riproposizione
delle ragioni e delle tecniche della privatizzazione, i cui effetti positivi
stentano ancora a vedersi.
Il rinnovato interesse per il tema della contrattazione collettiva nel
pubblico impiego nasconde però un atteggiamento assai preoccupante. Il
Memorandum è un accordo “di programma” stipulato, ancora una volta,
95
Si v. il § 1 di questo scritto.
1023
«a palazzo» 96 tra il Governo e le Confederazioni, con l’esclusione delle
Regioni e delle autonomie locali dal tavolo della concertazione. Esse sono viste soltanto come destinatarie di scelte fatte da altri, che, in modo
autoreferenziale, si qualificano come gli unici attori coinvolti nella riforma della pubblica amministrazione. Questo pericoloso révirement verso
un’idea della “res publica” centralista e “centralizzata” pare del tutto incompatibile con l’attuale assetto del Paese e della pubblica amministrazione: modernizzare la “periferia” con decisioni prese al ‘centro’ sembra
una via non solo difficile e defatigante, ma anche impercorribile e foriera di un nuovo e ampio contenzioso tra Stato e Regioni.
Nel disegno di legge delega del 2008 si prevede invece il (terzo) riordino delle procedure della contrattazione collettiva e la (quarta) riforma dell’ARAN, con un’espressa menzione al «potenziamento del potere
di rappresentanza delle Regioni e degli enti locali» nell’ottica di una «ridefinizione delle strutture e delle competenze dei Comitati di settore»,
nonché alla «definizione degli ambiti di disciplina del rapporto di lavoro
pubblico riservati rispettivamente alla contrattazione collettiva e alla legge» ed alla «regolamentazione con legge dell’organizzazione del lavoro,
del sistema di valutazione del personale e di tutto il regime delle responsabilità (infrazioni, relative sanzioni e procedimento disciplinare)».
De iure condendo, si può osservare, in primo luogo, che lo Stato
centrale si appresta a legiferare nuovamente in materia di procedure negoziali per il lavoro pubblico anche locale, evidentemente ritenendo che
tale ambito di competenza legislativa sia sottratto alle Regioni. In secondo luogo, si evidenzia una notevole spinta verso la rilegificazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni nella materie dell’«organizzazione
del lavoro» e del «rapporto di lavoro». Sul punto, si sottolinea la difficoltà di tracciare un solco tra l’«ordinamento ed organizzazione amministrativa» che riguarda, per i rispettivi ambiti, lo Stato [ex art. 117, comma
2, lett. g) Cost.], ovvero le Regioni (ex art. 117, comma 4, Cost.), e l’«organizzazione del lavoro» 97 cui si riferisce il disegno di legge in esame e
che potrebbe, quindi, essere foriera di un nuovo conflitto avanti alla Corte Costituzionale.
Ultima, ma non per importanza, si segnala il favore del delegando
legislatore alle “periferie” della Repubblica attraverso l’attenzione ad un
rafforzamento del «potere di rappresentanza» delle Regioni e gli enti loCosì F. Carinci, Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno, in «Lav. pubbl.
amm.», 2006, 1043.
97
Per un chiarimento sulla definizione di “organizzazione del lavoro” si v. la relativa voce in L. Gallino (a cura di), Dizionario di sociologia, Torino, 1983.
96
1024
cali, che potrebbe aprire, insieme al riordino dell’ARAN, ad un riequilibrio dei rapporti tra Stato e “Autonomie” ex art. 114 Cost.
In conclusione, se dal riparto costituzionale di competenze previsto
dalla l. cost. n. 3/2001 non pare discendere una competenza legislativa
regionale sulla materia del lavoro pubblico locale tout court, si ritiene invece debba affermarsi a gran voce la legittimità della pretesa di Regioni
ed autonomie locali affinché il legislatore nazionale, che si appresta alla
nuova stagione di riforme, modifichi il quadro delle fonti, ed in particolare il modello negoziale da cui non può né vuole prescindere, tenendo
conto del nuovo “peso” della “periferia” della Repubblica rispetto al
“centro”.
1025
dibattiTI e attualità
RENATO BALDUZZI
Professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università
del Piemonte Orientale
SUL RAPPORTO TRA REGIONALIZZAZIONE
E AZIENDALIZZAZIONE IN CAMPO SANITARIO
Sommario: 1. Le aziende sanitarie e la dottrina: incomprensioni e dimenticanze. – 2. Il legame tra la regionalizzazione, l’aziendalizzazione e la garanzia del diritto alla salute. –
3. Il “nucleo essenziale” non comprimibile del diritto alla salute, i livelli essenziali di assistenza sanitaria e la revisione costituzionale del 2001. – 4. Le funzioni statali in sanità come garanzia istituzionale della regionalizzazione e dell’aziendalizzazione. Le “coerenze di sistema” alla prova dell’autonomia e delle sue anche problematiche declinazioni. – 5. Tecniche e istituti di coesione in un modello decentrato e aziendalizzato. – 6.
Verso il consolidamento del Servizio sanitario nazionale o il suo progressivo e strisciante indebolimento?
1. Le aziende sanitarie e la dottrina: incomprensioni e dimenticanze
Trascorsi quindici anni dal suo ingresso ufficiale nel Servizio sanitario nazionale, è normale che si tenti di tracciare un bilancio della trasformazione in azienda delle unità sanitarie locali, cioè dei principali enti del
Servizio stesso, la cui natura giuridica e collocazione istituzionale hanno
da sempre costituito un difficile banco di prova per costituzionalisti e
amministrativisti.
Nei primi anni successivi all’entrata in vigore del d.lgs. n. 502 del
1992 i commentatori per lo più avevano sottolineato che l’introduzione
dell’aziendalizzazione fosse da intendere soprattutto per la sua pars destruens, cioè come esclusione di compiti gestionali da parte dei comuni,
dei quali le unità sanitarie locali disegnate dalla riforma sanitaria del
1978 costituivano organismi operativi 1.
Si trattava di un orientamento all’epoca già consolidato, se è vero
che l’esclusione dei comuni da compiti diretti di gestione e amministra-
Si v. la ricostruzione di G. Sanviti, Art. 3, in Aa.Vv., Il nuovo servizio sanitario nazionale, a cura di F. Roversi Monaco, Rimini, Maggioli, 2000, p. 110; cfr. anche R. Balduzzi, Il
Servizio sanitario nazionale tra razionalizzazione delle strutture e assestamento normativo
(riflessioni sulla legge 30 novembre 1998, n. 419), in Quad. reg., 1998, pp. 954 ss. Sul dibattito intorno alla natura giuridica delle u.s.l. immediatamente a valle dell’istituzione del Ssn v.
per tutti F. Merusi (a cura di), Unità sanitarie locali e istituzioni, Bologna, il Mulino, 1982.
1
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zione compariva già nelle proposte dell’allora ministro Carlo Donat-Cattin (si vedano in particolare i dd.ll. 25 marzo 1989, n. 111 e 29 maggio
1989, n. 199, entrambi non convertiti): una scelta dunque da intendersi
come in qualche modo neutrale rispetto ai diversi approcci di politica sanitaria dei quali si discuteva tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo e volta prevalentemente a correggere il principale difetto della legge di riforma, cioè la ridotta governabilità del sistema a
causa dell’esistenza di una molteplicità di centri di gestione autonoma e
poco coordinabile, e dunque scarsamente in grado di assicurare un adeguato controllo sulla pur crescente spesa sanitaria 2. I contenuti “positivi”
dell’aziendalizzazione, quando emergevano, erano per lo più circoscritti
alla generica esigenza di adottare metodi e tecniche propri delle aziende
private, quali la contabilità economica.
Sarebbero dovuti passare alcuni anni prima di vedere apparire nella
trama legislativa una nozione positiva specifica di aziendalizzazione, sintetizzata, da un lato, nell’accostamento della personalità giuridica pubblica e dell’autonomia imprenditoriale e, dall’altro, nella sottolineatura
della natura privatistica degli atti adottati dalle aziende e in particolare
dell’atto aziendale sull’organizzazione e sul funzionamento (art. 3, comma 1-bis del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e s.m.) 3. Per quanto parte
della dottrina abbia sottolineato l’ambiguità di tali disposti normativi 4, la
loro considerazione complessiva consente di rinvenirne una ratio univoca, consistente proprio nella volontà di far fuoriuscire il più possibile le
aziende sanitarie dalla sfera del diritto (e del giudice) amministrativo per
assoggettarle alla normativa (e al giudice) di diritto comune, nel contempo rafforzandone la dipendenza rispetto all’ente Regione.
Proprio il legame tra le due prospettive è il profilo che la riflessione
dottrinale ha stentato a cogliere e a ricostruire in modo convincente: se è
comprensibile che l’attenzione dottrinale si sia soffermata più sulla problematica dell’aziendalizzazione che su quella della regionalizzazione
(la prima costituendo una novità, la seconda già scritta con chiarezza nella formulazione originaria dell’art. 117 della Costituzione, ancorché nella pratica fortemente inattuata), più sorprendente è la difficoltà a coglieV. già R. Balduzzi, Il Servizio sanitario, cit., p. 951.
Il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici) ha, all’art. 256, inopinatamente abrogato l’intero comma 1-ter dell’art. 3 e non soltanto il suo ultimo periodo, relativo
ai contratti sotto soglia comunitaria.
4
Da ultimo F. Merloni, Gli incarichi dirigenziali nelle Asl tra fiduciarietà politica e
competenze professionali, in Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario. Un primo bilancio, a cura di A. Pioggia, M. Dugato, G. Racca, S. Civitarese Matteucci, Milano, FrancoAngeli, 2008, p. 118.
2
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re il legame tra i due princìpi, e in particolare la circostanza che l’affidamento alla Regione dei compiti non solo di programmazione, ma anche,
tout court, delle funzioni amministrative nella materia dell’assistenza sanitaria e ospedaliera 5 avrebbe comportato l’instaurarsi di molteplici e diverse “aziendalizzazioni” in dipendenza delle scelte organizzative delle
diverse Regioni e Province autonome.
Né si può dire che il legislatore non avesse sottolineato tale nesso, a
partire dall’affinità delle formule circa il “completamento” della regionalizzazione e dell’aziendalizzazione, introdotto con la legge delega 30 novembre 1998, n. 419 e il successivo d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229.
Tale “disattenzione” dottrinale ha concorso, tra l’altro, al mantenimento di una rilevante incertezza circa i profili concernenti le relazioni
tra aziende e regioni e quelli concernenti l’esistenza e l’ampiezza di un
generale potere regionale di direttiva nei confronti delle aziende (potere
forse non esplicitamente conferito dai principi fondamentali statali, ma
indirettamente ricavabile dal potere di dare indirizzi in ordine all’atto
aziendale, la cui portata è molto ampia, concernendo sia l’organizzazione sia il funzionamento delle aziende).
2. Il legame tra la regionalizzazione, l’aziendalizzazione e la garanzia
del diritto alla salute
Per quanto nel sistema normativo non manchino indizi sufficienti
per concentrare l’attenzione sul ruolo di governo da parte della Regione,
sugli strumenti con cui esercitarlo e sulle conseguenze che questo comporta circa la natura e il ruolo delle aziende sanitarie, il legame tra regionalizzazione e aziendalizzazione è spesso rimasto nell’ombra.
Eppure l’art. 3, comma 6, ult. periodo del d.lgs. n. 502 (introdotto
con norma diretta dalla stessa legge di delegazione, art. 3, l. 30 novembre
1998, n. 419), laddove prescriveva che “le Regioni determinano in via
generale i parametri di valutazione dell’attività dei direttori generali delle aziende, avendo riguardo al raggiungimento degli obiettivi assegnati
nel quadro della programmazione regionale con particolare riferimento
Così, con particolare chiarezza, l’art. 3 del d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517, che costituisce, com’è noto, la riforma della riforma della riforma, in quanto esprime il ritrovato accordo
tra Stato e Regioni dopo la generalizzata impugnazione da parte di queste ultime del decreto
legislativo di riordino 30 dicembre 1992, n. 502 (sui rapporti tra i due testi normativi v. R. Balduzzi, Le “sperimentazioni gestionali” tra devoluzione di competenze e fuoriuscita dal sistema, in questa Rivista, 2004, pp. 534 ss.).
5
1031
alla efficienza, efficacia e funzionalità dei servizi sanitari” (disposizione
parzialmente ripresa e “corretta” nell’art. 3-bis, comma 5, dove si è aggiunto che “all’atto della nomina di ciascun direttore generale, esse definiscono e assegnano, aggiornandoli periodicamente, gli obiettivi di salute
e di funzionamento dei servizi, con riferimento alle relative risorse, ferma
restando la piena autonomia gestionale dei direttori stessi” e completata
dal comma 13 dello stesso articolo, che ha previsto l’applicazione della
disposizione testé riportata in sede di revisione del d.p.c.m. sui contenuti del contratto dei direttori generali), fornisce un quadro sufficientemente chiaro del legame tra aziendalizzazione e regionalizzazione.
Si tratta di disposizioni che permettono di inquadrare esattamente il
potere-dovere regionale di “governo” del sistema: il limite dell’interventismo regionale è dato, in primo luogo, dalle necessarie garanzie procedurali in termini di risoluzione del contratto e di revoca dei direttori generali (anche allo scopo di coinvolgere quei particolarissimi stakeholders
che sono gli enti locali, del cui “ritorno” a un ruolo più spiccato in sanità si trovano molte tracce nella normativa successiva al d.lgs. n. 502 del
1992, insieme peraltro a qualche segnale di tipo contrario) 6; in secondo
luogo, dall’esigenza di assicurare non genericamente l’autonomia gestionale dei direttori generali, ma la loro “piena” autonomia, secondo
quanto prescritto dal menzionato comma 5 dell’art. 3-bis, limitata dai poteri regionali, compreso quello di direttiva, da intendersi non tanto come
potere generale o generico, ma riferito puntualmente ai termini e ai modi stabiliti dalla normativa nazionale e regionale, compresa quella, come
si è visto importantissima, sull’atto aziendale. Una nozione, quella di
“piena autonomia” che certamente non può essere intesa alla lettera 7, ma
alla luce del complessivo quadro normativo, che vede appunto la presenza di indirizzi e obiettivi regionali, con la conseguenza di far diventare
parametrabile il rendimento dei singoli direttori e conseguentemente la
mancata conferma e la revoca dei medesimi 8.
6
Si v. R. Balduzzi, Il Servizio sanitario, cit., pp. 954-955; Id., Titolo V e tutela della salute, in questa Rivista, 2002, p. 72, nt. 15.
7
In senso diverso v. F. Merloni, Gli incarichi dirigenziali, cit., pp. 104 ss.
8
Il rapporto Regioni-aziende viene talvolta assimilato a quello privatistico tra impresa
capo-gruppo e controllate. Si veda per esempio, tra i documenti più recenti, il Piano socio-sanitario regionale piemontese 2007-2010, secondo il quale il processo di aziendalizzazione delle organizzazioni sanitarie pubbliche deve essere coerente con l’appartenenza ad un “gruppo”,
a due livelli: rispetto alla Regione, l’autonomia imprenditoriale delle aziende sanitarie va intesa nell’organizzazione dei processi assistenziali (come fare), nell’ambito della missione definita dalla programmazione regionale, in coerenza con le linee guida definite nell’ambito della
funzione di “capo gruppo” (ovviamente con la partecipazione delle aziende) e con il rispetto
1032
Nonostante dunque fosse possibile ricavare pianamente dal sistema
normativo un quadro di riferimento univoco cui ricollegare l’attenzione ai
profili del governo regionale della sanità come strettamente connessi alla
scelta dell’aziendalizzazione e alla tipologia della medesima, questi rimasero sottovalutati almeno sino a quando, in seguito alla revisione costituzionale recata dalla legge cost. 24 ottobre 2001, n. 3, la questione della effettiva regionalizzazione della sanità e dei suoi limiti costituzionali venne
riproposta, già a partire dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale,
la quale, soltanto a poche settimane dall’entrata in vigore delle modifiche
costituzionali, ebbe a inviare un preciso segnale al legislatore regionale
circa la portata dei cambiamenti costituzionali (sent. n. 510 del 1992) 9.
La regionalizzazione italiana va compresa entro il quadro di riferimento costituito dai princìpi fondamentali della legge n. 833, ribaditi
nell’ultima importante sistemazione normativa del Servizio sanitario nazionale (appunto il complesso legge delega n. 419 del 1998 e decreto legislativo n. 229 del 1999), in particolare quanto alla filosofia di fondo del
sistema e al rapporto tra livelli di assistenza e risorse finanziarie, contro
applicazioni e interpretazioni dei decreti n. 502 del 1992 e n. 517 del
1993 che erano apparse in contrasto con i capisaldi della legge istitutiva
del Servizio sanitario nazionale. Si tratta di un quadro oggi apparentemente consolidato dopo un decennio di oscillazione, ma in realtà soggetto a continue tensioni e torsioni, derivate dai diversi quando non opposti
approcci di politica sanitaria che si confrontano nel nostro Paese 10.
È importante liberare la lettura dell’evoluzione della legislazione sanitaria da ipoteche legate a specifiche concezioni del diritto alla salute e
delle modalità attraverso cui soddisfarlo le quali, seppure in astratto sostenibili, non trovano appigli nel sistema costituzionale italiano.
Negli anni di stesura del decreto di riordino del 1992 era venuta infatti affermandosi la costruzione del diritto alla salute come diritto finanziariamente condizionato, elaborata anche sulla base di alcune sentenze
della Corte Costituzionale. A dire il vero, la Corte non sembra aver mai
aderito in toto a tale controversa nozione, limitandosi per lo più ad afferdei vincoli di bilancio; rispetto alle altre aziende sanitarie, l’autonomia delle aziende sanitarie
deve essere intesa in coerenza con l’organizzazione a rete di tutti i servizi, sanitari, amministrativi e di supporto.
9
Cfr. R. Balduzzi, Considerazioni di sintesi, in La sanità italiana tra livelli essenziali di
assistenza, tutela della salute e progetto di devolution, a cura di R. Balduzzi, Milano, Giuffrè,
2004, pp. 404-405.
10
Su cui rinvio a R. Balduzzi, I livelli essenziali nel settore della sanità, in G. Berti,
G.C. De Martin, Le garanzie di effettività dei diritti nei sistemi policentrici, Milano, Giuffrè,
2003, pp. 247 ss.
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mare che, nel bilanciamento dei valori costituzionali che il legislatore
compie al fine di dare attuazione al diritto alla salute, debba rientrare anche la considerazione delle esigenze relative all’equilibrio della finanza
pubblica: il diritto alla salute, che implica il diritto ai trattamenti sanitari
necessari per la sua tutela, si configura allora, secondo espressioni largamente presenti nella giurisprudenza costituzionale, come diritto costituzionalmente condizionato all’attuazione che il legislatore ne dà attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, “tenuto conto dei limiti oggettivi che
lo stesso legislatore incontra in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone” (così, tra le molte, la sent. n. 267 del 1998) 11.
Si trattò di una costruzione non priva di qualche aggancio sul piano
normativo. L’attenzione per le esigenze della finanza pubblica era stata
infatti espressamente presente, ancorché con espressioni non prive di
qualche ambiguità, nella legge delega n. 421 del 1992, in particolare
nell’art. 1, comma 1, primo periodo, dove il contenimento della spesa sanitaria era indicato tra gli scopi da raggiungere, e nell’art. 1, comma 1,
lett. g), secondo cui le prestazioni di assistenza sanitaria dovevano essere assicurate “in coerenza con le risorse stabilite dalla legge finanziaria”:
la legge delega del 1992 sembrava cioè considerare l’equilibrio economico-finanziario ora come obiettivo autonomo da raggiungere, ora (più correttamente, dal punto di vista costituzionale) come vincolo da rispettare.
E se è vero che l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 avrebbe eliminato tale ambiguità (come immediatamente rilevato dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 355 del 1993, che respinse una censura di parte regionale fondata sull’assunto che il contenimento della spesa pubblica
fosse l’unico obiettivo per la determinazione dei livelli uniformi di assistenza sanitaria), è altresì vero che dall’insieme della normativa di riordino emergeva un’oscillazione di significato, la quale, se pure risolta (come si è visto) dal legislatore delegato e dalla giurisprudenza costituzionale attraverso la distinzione tra obiettivi di salute e vincoli di bilancio,
sarebbe rimasta sullo sfondo dell’attuazione operativa delle riforme del
1992/1993. Questa circostanza, insieme a periodici aggiustamenti della
normativa (soprattutto in sede di “collegati” alla legge finanziaria) dettati dalla necessità di tenere sotto controllo una spesa tendente alla continua espansione, ha concorso a determinare una situazione di fatto e una
mentalità degli operatori più propensa a concentrare il proprio interesse
e la propria attenzione sul vincolo anziché sulla risorsa.
11
1034
R. Balduzzi, Il Servizio sanitario, cit., pp. 954 ss.
Era pertanto evidente che, al fine di potersi parlare di vera e propria
regionalizzazione, occorreva superare tale mentalità ed è proprio su queste basi che si svilupperà la reazione normativa, della quale appunto la
legge n. 419 del 1998 e il relativo decreto legislativo delegato n. 229 del
1999 sono stati l’espressione.
3. Il “nucleo essenziale” non comprimibile del diritto alla salute, i livelli essenziali di assistenza sanitaria e la revisione costituzionale del
2001
La reazione legislativa cui si è fatto cenno si fondava sulla necessità
di dare un contenuto più preciso a quel “nucleo essenziale” del diritto alla salute che dottrina e giurisprudenza (soprattutto, ma non solo, costituzionale) avevano comunque individuato come non comprimibile: in questa prospettiva, si comprende anche bene perché l’art. 1, comma 3, del
medesimo d.lgs. nel testo introdotto dal d.lgs. n. 229/1999, abbia stabilito che l’individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza venga effettuata “contestualmente” all’individuazione delle risorse finanziarie destinate al Ssn, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite
dal D.p.e.f.
Con una formula di sintesi potremmo ribadire che, per la legge delega del 1998, in principio ci stiano “i livelli uniformi ed essenziali di assistenza e le prestazioni efficaci ed appropriate da garantire a tutti i cittadini a carico del Fondo sanitario nazionale”: questa formula, tratta dalla
lettera aa) dell’art. 2, comma 1, della legge e riferita al contenuto del Piano sanitario nazionale, ben può rappresentare il cuore della riforma del
1999, la sfida cioè a dare dimensione organizzativa al contenuto essenziale del diritto alla salute.
L’attuazione di tale riforma è venuta poi a intersecarsi con l’entrata
in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione, e ciò ha consentito alla
regionalizzazione di potersi compiutamente esplicitare.
La revisione costituzionale, se da un lato ha facilitato il superamento delle discussioni degli anni Novanta sia (a) sulla portata del diritto alla salute e sul rapporto tra la sua tutela e i vincoli economico-finanziari,
sia (b) sulla qualificazione dei livelli di assistenza sanitaria come “minimi” o come “essenziali”, dall’altro ha riproposto con rinnovata forza (c)
il tema delle relazioni tra garanzia del diritto alla salute e predisposizione delle condizioni organizzative che lo rendono effettivo, e dunque delle relazioni tra livelli territoriali di governo cui competono le prime e le
seconde.
1035
(a) Sul primo punto, la discussione si è concentrata sulla portata e
sui limiti della nozione del diritto alla salute come diritto finanziariamente condizionato, in connessione con la più ampia problematica del ripensamento dello Stato sociale. Gli svolgimenti successivi della giurisprudenza costituzionale hanno confermato la tendenza del giudice costituzionale a sottolineare il condizionamento finanziario nei casi in cui viene in rilievo non direttamente il diritto individuale alla salute da tutelare,
quanto piuttosto la distribuzione delle risorse finanziarie tra i vari soggetti che operano nel Ssn (si veda, a titolo di esempio, la sent. n. 200 del
2005) e a rimarcare, negli altri casi, che le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla
salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità
umana (così già la sent. n. 309 del 1999).
(b) Sotto il secondo e connesso profilo, la previsione della competenza esclusiva statale in ordine alla determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lettera m); la medesima espressione viene ripresa all’art. 120, comma 2, Cost., dove, nello stabilire i presupposti per l’esercizio del potere sostitutivo statale, si
prevede che ciò possa avvenire quando lo richieda “la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”) ha condotto la giurisprudenza costituzionale a rispondere alla domanda se il nucleo
irriducibile coincida con i livelli essenziali oppure i livelli essenziali delle prestazioni e il contenuto costituzionale dei diritti siano concetti distinti. Qui la Corte, pur non rinunciando a formule generali come il “godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti” (sent. n. 88 del 2003), tende a distinguere tra il profilo dei livelli essenziali, i profili organizzativi e i profili attinenti all’appropriatezza della pratica terapeutica (si vedano, rispettivamente, le sentt. n. 88 del 2003,
120 del 2005 e 282 del 2002), con un orientamento compatibile con l’approccio del legislatore ordinario per il quale, come si è visto, in materia
sanitaria i livelli essenziali di assistenza definiscono il tetto massimo, il
livello massimo, non la soglia, cioè il livello minimo, delle garanzie offerte a tutti i consociati 12.
(c) Pur non contenendo la Costituzione disposizioni che espressaSul punto R. Balduzzi, I livelli essenziali, cit.; Id., voce Salute (diritto alla), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, vol. VI, pp. 5397 ss.; L.
Cuocolo, La tutela della salute tra neoregionalismo e federalismo. Profili di diritto interno e
comparato, Milano, Giuffrè, 2005, spec. pp. 116 ss.
12
1036
mente riguardino i profili organizzativi della sanità (a differenza di quanto stabilito negli artt. 33, comma 2, Cost. e 38, comma 4, Cost.), la previsione di livelli essenziali e uniformi di assistenza quale oggetto di competenza esclusiva statale implica conseguenze importanti anche sull’organizzazione dei servizi sanitari: è arduo immaginare un sistema capace
di assicurare tali livelli senza un’organizzazione ultraregionale. Si tratta
però di chiarire bene, in primo luogo, che il Servizio sanitario nazionale
di cui si parla è quello disegnato dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n.
229/1999, che ha così sostituito il precedente art. 1, comma 1, dei decreti di riordino del 1992/1993, e che lo qualifica come il “complesso delle
funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali” (oltre
che “delle altre funzioni e attività svolte dagli enti e istituzioni di rilievo
nazionale, nell’ambito dei conferimenti previsti dal decreto legislativo
31 marzo 1998, n. 112, nonché delle funzioni conservate allo Stato dal
medesimo decreto”); e, in secondo luogo, che l’ultimo comma dell’art.
118 Cost. e il rilievo da esso dato alla cosiddetta sussidiarietà orizzontale, impongono ai pubblici poteri di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, e dunque il riconoscimento e la promozione delle forme no-profit di
prestazione di servizi sanitari. Il richiamo alla pregnanza di significato
del richiamo alla Repubblica trova oggi conferma indiretta nell’inclusione della tutela della salute tra le materie di legislazione concorrente ai
sensi del secondo comma dell’art. 117 Cost.
Bisogna a questo punto ricordare che parlare di regionalizzazione in
sanità non può mai essere dato per scontato, nonostante la formula originaria dell’art. 117 Cost. demandasse alle regioni la potestà legislativa
concorrente per quanto concerne l’assistenza sanitaria e ospedaliera, in
quanto la materia sanitaria è caratterizzata nel nostro Paese, a partire dal
1978, dalla presenza di un’organizzazione a carattere nazionale, il Servizio sanitario nazionale, attuativa del diritto costituzionalmente garantito
alla salute, nonché dall’esistenza di una cornice programmatoria nazionale: è proprio in questa materia che la giurisprudenza costituzionale
aveva affermato il principio che “quando si tratti di organizzare un servizio a carattere nazionale, o di regolare una programmazione, o di dettare
norme sostitutive anticipatrici della medesima (…) le regole del riparto
fra Stato e soggetti di autonomia in tema di legislazione concorrente non
possono essere interpretate in modo così rigido da impedire alla legislazione statale di porre in essere strumenti normativi ed organizzatori diretti al perseguimento dei fini generali del servizio o della programmazione, trattandosi in definitiva di norme di coordinamento e sul coordinamento”. A tale orientamento corrispondeva la qualificazione della rifor1037
ma sanitaria come riforma economico-sociale, anche se la Corte Costituzionale ha sempre evitato di utilizzare questa definizione per coprire tutte le disposizioni del d.lgs. n. 502 del 1992 e non soltanto i principi da esso ricavabili (v. rispettivamente la sent. n. 341 del 1992 e la sent. n. 354
del 1994).
Con l’entrata in vigore del nuovo Titolo V la situazione è però profondamente mutata.
Anche ammettendo che gli orientamenti della Corte Costituzionale
ora menzionati valessero a confermare la degradazione della potestà legislativa delle Regioni in presenza di interessi nazionali infrazionabili
(tale, per la potestà concorrente, da averla trasformata in molti casi in attuativo-integrativa), una tale conseguenza è oggi impensabile, a causa
della diversa tecnica di attribuzione di competenze legislative e della più
netta distinzione tra riserva statale dei principi fondamentali e spettanza
alle regioni della competenza legislativa in tali materie (in senso conforme Corte Cost., sentt. n. 282 del 2002 e n. 370 del 2005). Fondamentale
è poi la constatazione che oggi il sindacato di costituzionalità sulle leggi
regionali, mutando da preventivo in successivo, ha ormai come oggetto
norme entrate in vigore, cioè norme che hanno già avuto un impatto concreto sugli interessi disciplinati, consentendo al giudice delle leggi un
sindacato altrettanto “concreto” su norme che vivono già in un determinato modello di Servizio sanitario regionale.
Anche il cambiamento terminologico (da “assistenza sanitaria e
ospedaliera” alla formula, di tipo teleologico-funzionale, “tutela della salute”) è importante, sia perché è venuto a confermare a livello costituzionale quanto già l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale aveva immesso nell’ordinamento, sia perché la stretta affinità con la formulazione
dell’art. 32 Cost. induce a considerare rafforzata la competenza riconosciuta alle Regioni, attuativa di un bene oggetto di tutela da parte della
Repubblica.
Da quanto detto consegue, in ordine alla distinzione tra principi fondamentali e legislazione regionale cosiddetta di dettaglio (terminologia
essa stessa oggi inadeguata), che, fatte salve le disposizioni statali di dettaglio “interpretative”, rivolte cioè a definire con maggiore precisione il
senso del principio – per le quali diventa un problema di interpretazione
delle concrete fattispecie lo stabilire se stiano o meno dentro il modellino dei principi fondamentali –, altre categorie di disposizioni statali di
dettaglio (come quelle relative a disposizioni che stabiliscano standard
minimi meramente organizzativi rispondenti a un interesse nazionale, o
che siano poste al fine di soddisfare l’esigenza di una più sollecita operatività delle nuove regole organizzative) non sembrano più compatibili
1038
con il nuovo assetto, che non pare ammettere, quanto alla prima categoria, una tutela dell’interesse nazionale non ricondotta a una precisa fattispecie di competenza ovvero unilateralmente individuata dallo Stato
mentre, quanto alla seconda, è proprio la posizione da parte statale di regole organizzative e non di soli principi, prima ancora che l’urgenza
dell’operatività delle medesime, a costituire problema (fatta salva l’attrazione in sussidiarietà, secondo il concetto e i limiti contenuti nella nota
sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2003).
4. Le funzioni statali in sanità come garanzia istituzionale della regionalizzazione e dell’aziendalizzazione. Le “coerenze di sistema” alla prova
dell’autonomia e delle sue anche problematiche declinazioni
Dalla revisione costituzionale si ricava allora un ampliamento
dell’autonomia regionale, specialmente per quanto attiene al profilo organizzativo dei Servizi sanitari regionali, chiamati ad autoconfigurarsi e
a caratterizzarsi (e dunque anche ad autodefinirsi come ambito di “governo” nel quale sperimentare concrete ipotesi di aziendalizzazione).
Parallelamente a questa direzione di sviluppo del sistema, dalla revisione costituzionale si ricava però anche la necessità di una maggiore caratterizzazione della funzione statale, chiamata non soltanto a individuare, d’intesa con le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, i livelli essenziali di assistenza sanitaria, ma soprattutto a promuoverne il monitoraggio e la progressiva “manutenzione”.
In proposito, è importante evitare una lettura, per dir così, pre-riforma del rapporto tra la regionalizzazione e l’aziendalizzazione, da un lato, e le funzioni statali, dall’altro, nel senso che le prime costituiscano un
mero limite per l’esercizio delle seconde. Dopo la revisione costituzionale del 2001, tale lettura non è più accettabile, in quanto le funzioni di interesse unitario o si radicano espressamente nell’elenco delle competenze legislative di cui al secondo comma dell’art. 117, oppure trovano fondamento nell’art. 118, ma in tal caso sono assoggettate a scrutinio stretto
di costituzionalità e a regole precise della leale collaborazione (accordo,
intesa).
Ciò non significa che il ruolo statale abbia perso di significato, per
contro esso assume il senso della garanzia istituzionale che consente l’esercizio decentrato di funzioni strettamente connesse con un fondamentale
diritto di cittadinanza; e ciò proprio in forza della previsione e del puntuale esercizio di funzioni statali volte ad assicurare la garanzia dei livelli essenziali su tutto il territorio nazionale. Dunque, accanto alla regionalizza1039
zione e alla connessa aziendalizzazione, sorge il problema delle “coerenze
di sistema” 13 che possono essere assicurate sia da un migliore esercizio
della funzione statale, sia da forme di autocoordinamento tra le regioni
(arg. ex art. 1, comma 5, d.lgs. n. 502/1992 e s.m.), sia da forme di coordinamento verticale fondate sul principio della leale collaborazione.
La riflessione dottrinale ha mostrato che le Regioni hanno generalmente risposto alla nuova situazione creata dalla revisione costituzionale
del 2001 e dall’attuazione, per molti aspetti problematica, della riforma
sanitaria del 1999 con l’impegno a consolidare i rispettivi “modelli” sanitari (impiego tale nozione in senso del tutto descrittivo e non valoriale),
confermando il pieno inserimento degli stessi dentro il Servizio sanitario
nazionale e le coerenze di sistema che esso genera 14.
Quanto appena riassunto si evince sia direttamente, attraverso disposizioni che espressamente ciò stabiliscono (l’esempio più significativo,
tenuto anche conto del rango della fonte in cui è inserito, è l’art. 9 del
nuovo Statuto del Piemonte, secondo cui “il sistema sanitario regionale
opera nel quadro del sistema sanitario nazionale”) oppure che riconoscono attività normative regionali come esplicitamente poste “in attuazione”
di norme di principio statali (un esempio, fra i tanti, è l’art. 10 l.r. Veneto 16 agosto 2002, n. 22, in tema di autorizzazione e accreditamento delle strutture); sia indirettamente, attraverso la declinazione e lo svolgimento, in sede regionale, di scelte caratterizzanti del modello statale,
com’è il caso della nozione di aziendalizzazione, intesa come “piena capacità e assunzione di responsabilità nell’impegnare e valorizzare il patrimonio affidato, ottemperando alla missione aziendale di tutela della
salute delle popolazioni di riferimento”, secondo quanto recita, non senza qualche enfasi, il Piano sanitario regionale della Campania.
Il consolidamento del modello passa, nelle regioni storicamente meno favorite, attraverso la decisa critica delle pratiche passate e l’assunzione di concreti impegni. Un esempio è fornito dalla Regione Calabria, dove già il Piano regionale per la Salute 2004/2006 (in allegato alla l. r. 19
marzo 2004, n. 11) denotava la consapevolezza dell’esigenza di un salto
di qualità (che l’emergenza di questi ultimi mesi rende ancora più urgente), indispensabile dopo l’entrata in vigore della revisione costituzionale
del Titolo V e consistente in un nuovo slancio programmatico e normativo, capace di incidere su tutti i profili dell’assistenza sanitaria, dalla riV. sul punto I Servizi sanitari regionali tra autonomia e coerenze di sistema, a cura di
R. Balduzzi, Milano, Giuffrè, 2005.
14
Indicazioni ulteriori in R. Balduzzi, Quanti sono i sistemi sanitari italiani? Un’introduzione, in I Servizi sanitari regionali, cit., pp. 9 ss.
13
1040
strutturazione della rete ospedaliera alla ridefinizione dell’assistenza territoriale, dalla razionalizzazione delle prestazioni farmaceutiche alla riforma del sistema integrato di interventi e servizi socio-sanitari. Sempre
all’interno della problematica degli squilibri fra Centro-Nord e Sud, è da
segnalare l’orientamento della Regione Basilicata, volto a riqualificare la
spesa per prestazioni effettuate in strutture private e a cercare di riequilibrare lo sbilancio della mobilità sanitaria interregionale (si veda in particolare la l.r. 7 agosto 2003, n. 29).
E se è vero che, in ordine a molte delle situazioni regionali cui si è
fatto cenno, diviene decisivo il confronto tra obiettivi prefissati e risultati conseguiti e tra disposizioni normative o provvedimenti amministrativi e concreta effettività degli stessi, è pur vero che proprio l’odierna vicenda dei Piani di rientro dai disavanzi testimonia, pur nella faticosa attuazione, le coerenze di sistema.
Introdotta come principio poco più che declamatorio all’interno della prima esperienza del cosiddetto “patto di stabilità interno” dall’art. 28
della l. 23 dicembre 1998, n. 448 (attraverso la previsione che il Ministro
della sanità si avvalesse dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali per
la valutazione delle situazioni regionali, individuando le regioni deficitarie e definendo le linee generali degli interventi di rientro e di ripiano), e
corredata di valenze procedimentali dall’art. 19-ter del d.lgs. 502/1992
nel testo introdotto dalla riforma del 1999, la previsione di una collaborazione Ministero-Regioni diviene più stringente con l’art. 1, comma
180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, secondo cui, in caso di disavanzo di gestione a fronte del quale non sono stati adottati adeguati piani di rientro, la regione interessata procede alla ricognizione delle cause
ed elabora un programma operativo di riorganizzazione, riqualificazione
o potenziamento del Servizio sanitario regionale, sulla cui base stipulare
con i Ministri della salute e dell’economia un apposito Accordo che individui gli interventi necessari per il perseguimento dell’equilibrio economico. Con la l. 27 dicembre 2006, n. 296, si stabilisce all’art. 1, comma
796, lett. b), che il Ministero della salute, di concerto con il Ministero
dell’economia e delle finanze, assicuri l’attività di affiancamento alle regioni che hanno sottoscritto l’Accordo sopra menzionato, “comprensivo
di un piano di rientro dai disavanzi, sia ai fini di monitoraggio dello stesso, sia per i provvedimenti regionali da sottoporre a preventiva approvazione da parte del Ministero della salute e del Ministero dell’economia e
delle finanze, sia per i Nuclei da realizzarsi nelle singole regioni con funzioni consultive di supporto tecnico, nell’ambito del Sistema nazionale
di verifica e controllo dell’assistenza sanitaria di cui all’articolo 1, comma 288, della l. 23 dicembre 2005, n. 266”.
1041
Si tratta, come si vede, di un sistema complesso e non sempre di agevole decifrazione, nel quale si intrecciano elementi di segno diverso (dal
tradizionale controllo sugli atti al più attuale controllo-consulenza), ma
che denota il peso crescente delle necessarie coerenze di sistema.
Se a fronte della normativa statale esaminiamo quella regionale, possiamo facilmente constatare che, salvo isolate eccezioni, non si è verificata sinora la corsa a nuovi modelli legislativi (forse perché i “modelli” già
preesistevano, in forza del carattere largamente decentrato del Servizio
sanitario nazionale almeno a partire dalla fine degli anni Ottanta), il che
conferma il peso delle coerenze di sistema. Il tentativo forse più importante di “occupazione” della disciplina, attraverso la determinazione di
norme generali regionali, quello della l.r. Emilia-Romagna 23 dicembre
2004, n. 29, “Norme generali sull’organizzazione ed il funzionamento del
Servizio sanitario nazionale”, non mira a configurare un modello alternativo a quello nazionale, ma a “prendere sul serio” la riforma del 1999 e a
declinarla secondo la sensibilità regionale. Quella emiliano-romagnola è
la punta massima di un approccio che ha coinvolto tutte le regioni: la riforma del 1999, anche quando non vi è stato un apposito atto di recepimento o adeguamento legislativo, ha comunque dato origine a modificazioni rilevanti negli ordinamenti dei Servizi sanitari regionali 15.
Quanto detto vale dunque anche per quelle situazioni nelle quali la
riforma del 1999 non è stata compiutamente recepita e dunque dove, per
esempio, non hanno avuto ingresso lo strumento dell’atto aziendale di diritto privato o l’autonomia imprenditoriale delle aziende, come è il caso
della Provincia autonoma di Trento. Qui il regolamento dell’Azienda
provinciale per i servizi sanitari ricalca peraltro, anche nel procedimento
di formazione, il modello dell’atto aziendale e le “deroghe” rispetto al
modello nazionale paiono determinate non dall’intendimento di costruire un modello alternativo, quanto piuttosto dal voler adeguare il modello
nazionale alle peculiari caratteristiche provinciali. Si spiega così la dissonanza tra profili strutturali, per così dire, di retroguardia e profili funzionali di avanguardia. Discorso analogo per l’Umbria, dove il mancato recepimento dell’autonomia imprenditoriale delle aziende va letto per
quello che esso realmente significa, cioè il riflesso della preoccupazione
di assicurare l’effettività sia del governo e della programmazione regionali, sia della stessa programmazione attuativa locale: una preoccupazione di sistema, coerente con lo spirito della riforma del 1999, anche se con
15
Per sviluppi sul punto devo rinviare a R. Balduzzi, Cinque anni di legislazione sanitaria decentrata: varietà e coesione di un sistema nazional-regionale, in “Le Regioni”, 2005, pp.
717 ss.
1042
una strumentazione in parte differente (a conclusioni analoghe è possibile giungere a proposito del sistema sanitario marchigiano e, in parte, molisano e della loro scelta per un’unica azienda Usl regionale).
La differenza tra le realtà regionali, più che ricollegarsi a modelli rigidi, sembra così riassumibile: da una parte, Servizi sanitari regionali che
rimarcano il loro essere dentro il Servizio sanitario nazionale, introducendo scostamenti, anche importanti (la recezione del d.lgs. n. 229 ben
raramente è integrale), ma non tali da fuoriuscire dal sistema; dall’altra,
alcune eccezioni (la più consolidata e l’unica che possa aspirare a porsi
come tipo a sé è quella lombarda).
Il quadro che emerge non deve però far pensare a una legislazione
regionale di mero aggiustamento, reattiva soltanto alle sollecitazioni di
natura budgetaria e avente per obiettivo esclusivo il contenimento della
spesa, soprattutto ospedaliera e farmaceutica: se così fosse, il ruolo delle
coerenze di sistema sarebbe modesto. In realtà, alcune Regioni si sono
mosse da tempo nella direzione della auto-assunzione della garanzia
dell’effettività dei diritti sociali in campo sanitario, percorrendo la strada
della promozione di tecniche di uso appropriato delle risorse e di appropriatezza delle prestazioni (strada peraltro pressoché obbligata, se è vero
che l’unico modo per arrivare in posizione di forza ai pressoché settimanali “vertici” con i ministeri interessati e contrattare vantaggiosamente i
profili budgetari consiste nel “mettere ordine in casa propria”), puntando
sul rafforzamento e sull’affinamento dell’assetto organizzativo quali premesse e fattori del miglioramento qualitativo 16 .
16
Così, il già citato legislatore emiliano-romagnolo concentra i propri sforzi nella costruzione di una condivisa programmazione locale dei servizi e delle prestazioni, potenziando il
modello organizzativo distrettuale, si preoccupa di rivisitare sperimentazioni gestionali avviate negli anni Novanta a livello aziendale in numero e importanza consistente (verificandone
motivazioni originarie di qualità dei servizi e convenienza economica), riconduce alle esigenze della programmazione regionale l’attività sanitaria delle università (prevedendo un’apposita Conferenza Regione-Università) e degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico
aventi sede nel territorio regionale: non senza introdurre variazioni originali, quali il conferimento della qualità di organo aziendale al Collegio di direzione o l’introduzione del parere obbligatorio dell’Ufficio di presidenza della Conferenza territoriale sociale e sanitaria sulla nomina regionale del direttore generale.
Dal canto suo, il legislatore lombardo, avendo scelto sin dal 1996 e formalizzato nella l.r.
11 luglio 1997, n. 31 (“Norme per il riordino del Servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attività dei servizi sociali”) una diversa strada, la ha via via progressivamente precisata, giungendo a un modello di separazione delle funzioni di produzione e di acquisto dei servizi portato alle sue conseguenze massime, con la previsione che le aziende sanitarie locali
concentrino il proprio ruolo nelle funzioni di programmazione finanziaria, acquisto e controllo, smettendo quelle funzioni di tutela attiva anche in quei settori (es. prevenzione) nei quali
1043
Per altro verso, le tendenze della legislazione regionale paiono assolutamente coerenti con l’evoluzione stessa del quadro normativo statale:
nel momento in cui l’ordinamento consente l’articolazione organizzativa
e gestionale, la tenuta del sistema sembra risiedere nella condivisione del
modello di fondo, con una forte insistenza, negli ultimi anni, su quello
che costituisce, alla fine, lo snodo fondamentale del modello sistemico,
cioè una concezione forte dell’appropriatezza.
Sin dal suo primo apparire nel nostro ordinamento, l’appropriatezza,
questo singolare neologismo introdotto nella legislazione italiana nel
1997 17, ha presentato due caratteristiche, quella di essere un’integrazione
e una specificazione della nozione di qualità, cui è strettamente connessa,
e quella di fondere il profilo clinico con quello organizzativo, l’appropriatezza della prestazione sanitaria in quanto tale e delle modalità con le quali è resa nel contesto strutturale e organizzativo in cui è inserita. Dimensioni, queste, descritte con chiarezza nel Piano sanitario nazionale 19982000, nel quale la nozione di appropriatezza è stata connessa con quella
di livelli essenziali di assistenza: sia indicando nell’appropriatezza l’elemento determinante della definizione stessa dei Lea (livelli di assistenza
non soltanto necessari, ma altresì appropriati, “rispetto sia alle specifiche
continuavano a conservarla. Le inversioni di marcia pur verificatesi (soprattutto quella volta a
ridisegnare le relazioni tra ente Regione e soggetti erogatori delle prestazioni, aderendo al modello nazionale delle cosiddette 4 A, si vedano soprattutto le ll.rr. 19 dicembre 2001, n. 26 e 16
febbraio 2004, n. 2), si spiegano più a causa delle difficoltà budgetarie incontrate dal modello
lombardo della separazione (il quale, in assenza di correzioni, ha finito per enfatizzare comportamenti opportunistici degli operatori, oltre che generare cospicui conflitti di interesse, come vicende anche recentissime confermano) che non in forza di un ripensamento della strada
intrapresa.
In posizione ancora diversa, la regione Toscana (tra le prime ad adeguare il proprio Servizio sanitario al d.lgs. n. 229, con la l. r. 8 marzo 2000, n. 22, “Riordino delle norme per l’organizzazione del Servizio sanitario regionale”) ha avviato, a partire dal Piano sanitario regionale 2002-2004, la sperimentazione delle cosiddette “Società della salute” (anche se, almeno
inizialmente, una siffatta denominazione appare ultronea per qualificare consorzi di diritto
pubblico tra comuni e aziende unità sanitarie locali ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 267 del
2000). Di rilevante significato simbolico in quanto rappresenta un ritorno dell’ente locale a
funzioni di gestione in campo sanitario, tale scelta trova una giustificazione forte nella revisione costituzionale del 2001 proprio a causa della costituzionalizzazione del principio della spettanza in via generale delle funzioni amministrative ai comuni (art. 118, comma 1 Cost.). I suoi
esiti saranno importanti non soltanto per l’assetto del settore sanitario e sociosanitario, ma altresì per il comparto dei servizi sociali.
17
Non è possibile in questa sede ripercorrere il cammino legislativo della nozione di appropriatezza; si fa rinvio sul punto a R. Balduzzi, L’appropriatezza in sanità. Il quadro di riferimento legislativo, in Fondazione Smith Kline, Rapporto Sanità 2004, a cura di N. Falcitelli, M. Trabucchi, F. Vanara, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 73 ss.
1044
esigenze di salute del cittadino, sia alle modalità di erogazione delle prestazioni”), sia quale criterio per raggiungere l’auspicato ridimensionamento della diagnostica strumentale attraverso appunto “l’introduzione di
profili di appropriatezza delle richieste”, sia soprattutto quale principale
criterio di esclusione dai Lea di quegli interventi che non rispondono al
requisito della appropriatezza clinica (“la cui efficacia non è dimostrabile
in base alle evidenze scientifiche disponibili” e/o sono relativi a “soggetti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccomandate”) e organizzativa (cioè quelle forme di assistenza le quali “pur rispondendo al principio dell’efficacia clinica, risultano inappropriate rispetto alle specifiche necessità assistenziali, in quanto sproporzionate nei
tempi, nelle modalità di erogazione o nella quantità di prestazioni fornite”, per questa via descrivendo un altro profilo dell’appropriatezza, quello “temporale”, l’erogazione cioè delle prestazioni e dei servizi in tempi
adeguati alle necessità assistenziali degli utenti).
La strada dell’appropriatezza e del puntuale controllo della medesima allo stato attuale appare, alla luce dei periodici scandali che la cronaca ci presenta, anche in contesti regionali pur “virtuosi”, la sola che può
consentire al sistema di autocontrollarsi senza stravolgersi.
5. Tecniche e istituti di coesione in un modello decentrato e aziendalizzato
Si apre a questo punto il problema dei “collanti”, cioè degli istituti,
delle tecniche e dei metodi capaci di produrre pratiche condivise di responsabilizzazione dei diversi soggetti territoriali che compongono, ai
sensi del rinnovato art. 114 Cost., la Repubblica, in una materia dove le
esigenze unitarie si sono storicamente fatte sentire con particolare cogenza, sin quasi a giustificare la fuga dai principi fondamentali in nome del
principio di coordinamento. Si tratta di un principio che è stato frettolosamente considerato superato dal nuovo sistema (si veda l’esplicito divieto contenuto nell’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131),
un po’ perché nel suo nome si sono consumate in passato significative
compressioni dei poteri regionali, un po’ perché la sua applicazione concreta ne ha dilatato oltre misura senso e contenuti, un po’ perché non era
stata del tutto metabolizzata dalla stessa dottrina la metaformosi di cui
questo principio è stato protagonista a seguito delle riforme amministrative della seconda metà degli anni Novanta (se l’atto di indirizzo e coordinamento è esercitato d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni o la
1045
Conferenza Unificata, in pratica viene a coincidere con un provvedimento ugualmente frutto di intese nel sistema delle Conferenze) 18.
A) Strettamente connesso con tale profilo è la scelta sulle caratteristiche organizzative della struttura amministrativa cui affidare la cura degli interessi nazionali in materia. In proposito, se sembra condivisibile la
tendenza (già affermata nel d.lgs. n. 300 del 1999, e ribadita, almeno implicitamente, nella legge finanziaria per il 2008) ad accorpare i ministeri
o almeno a ridurre il numero dei ministri, problematica appare la scelta
di unificare in un unico ministero le competenze in tema di lavoro, quelle in tema di salute e quelle sulle politiche sociali. È vero, infatti, che il
passaggio dalla considerazione della mera assistenza sanitaria alla tutela
della salute quale oggetto della competenza concorrente si iscrive in una
più generale tendenza, da tempo presente anche a livello internazionale,
volta a intendere la nozione di salute in un significato più ampio rispetto
a quello di semplice contrasto alle malattie, e che dunque la cura dell’interesse “salute”, al pari di quella dell’interesse “lavoro” viene a connotarsi come attività promozionale e non soltanto prestazionale; ed è altrettanto vero che, all’interno del concetto di salute, al pari di quanto accade
per la nozione di lavoro, sono compresenti sia il profilo del diritto soggettivo inteso come libertà, sia quello del dovere.
Ma da qui a inferire l’opportunità di concentrare le competenze in
ordine a questi due diritti (fondamentali, ex artt. 1, 4 , 32 e 117 Cost.), il
passo è tutt’altro che breve: la struttura dell’attività amministrativa volta
a soddisfare i due diritti è diversa, a cominciare dalla scelta del tipo di
unità operativa chiamata ad assicurare i livelli essenziali di assistenza sanitaria e delle sue caratteristiche strutturali (aziende dotate di autonomia
imprenditoriale, funzionalmente correlate al decisore regionale), in una
logica di decentramento istituzionale cui fa da contraltare la scelta, in
materia di lavoro, per modelli di decentramento burocratico e di delega
all’ente Provincia. Senza contare che l’accento in materia di lavoro viene posto sulla capacità della pubblica amministrazione centrale di praticare o favorire modelli di composizione di controversie interprivate,
mentre in materia di salute è posto sulla capacità del livello centrale di
implementare politiche della salute il più possibile condivise tra i diversi
attori istituzionali.
Il carattere trasversale del bene salute rispetto alla generalità delle
politiche pubbliche imporrebbe per contro la specializzazione dell’appa18
Si veda l’art. 8 della l. 15 marzo 1997, n. 59 e il commento di R. Balduzzi, Tutela della salute, cit., pp. 79 ss.
1046
rato amministrativo centrale preposto a fungere da elemento di tenuta del
sistema e della relativa responsabilità politica ministeriale. Al più, un
eventuale accorpamento sarebbe configurabile tra le politiche sanitarie e
quelle sociali, che già trovano nel campo del sociosanitario un terreno di
lavoro comune.
(B) Se l’amministrazione centrale quale perno ed elemento di tenuta del sistema rappresenta in qualche modo il profilo soggettivo dei “collanti” di cui si è detto, la lett. m) del secondo comma dell’art. 117 Cost.
ne costituisce il pendant sostanziale.
Essa rappresenta la costituzionalizzazione di una nozione già presente nella legislazione ordinaria, proprio nelle materie sanitaria e sociale (per la prima v. l’art. 1 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e successive
modificazioni). Non a caso, è nel campo sanitario che si registra la prima
“declaratoria” di tali livelli, data dal combinato disposto del citato art. 1,
commi 6-8 (nel testo introdotto dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229) con il
d.P.C.M. 29 novembre 2001; la nozione è peraltro conosciuta anche nel
campo dell’assistenza, con la differenza che la specificazione degli stessi è demandata alla “pianificazione nazionale, regionale e zonale” del sistema integrato di interventi e servizi sociali (artt. 2 e 22 della l. 8 novembre 2000, n. 328).
In campo sanitario la locuzione “livelli essenziali” aveva già trovato
un’interessante esplicazione in sede di Piano sanitario nazionale per il
triennio 1998-2000, che definiva “essenziali i livelli di assistenza che, in
quanto necessari (per rispondere ai bisogni fondamentali di promozione,
mantenimento e recupero delle condizioni di salute della popolazione) ed
appropriati (rispetto sia alle specifiche esigenze di salute del cittadino sia
alle modalità di erogazione delle prestazioni), debbono essere uniformemente garantiti su tutto il territorio nazionale e all’intera collettività, tenendo conto delle differenze nella distribuzione delle necessità assistenziali e dei rischi per la salute”; il menzionato art. 1 del d.lgs. n. 229 del
1999 darà veste legislativa alla definizione contenuta nel Piano e sarà a
sua volta ripreso dal legislatore costituzionale.
Conviene subito sottolineare che la formula costituzionale, proprio
perché tratta dalla legislazione ordinaria e dagli atti di programmazione
generale, si presenta, almeno nella materia sanitaria, con un contenuto
tutt’altro che generico: nell’oscillazione, riscontrabile nella legislazione
ordinaria degli anni Novanta, tra livelli “minimi” e livelli “essenziali” (ricordo che la necessità che in sede di attuazione della delega si precisasse
comunque “l’individuazione della soglia minima di riferimento” era evidenziata nell’art. 1, comma 1, lett. g) della l. n. 421 del 1992, recante de1047
lega per la riforma della legge n. 833 del 1978), il legislatore costituzionale opera una scelta precisa, che ha notevoli conseguenze in sede ricostruttiva sostanziale. Prescrivere livelli essenziali e uniformi di assistenza sanitaria (quali definiti dal menzionato Piano sanitario e dalla cosiddetta riforma-ter del 1999) è infatti altra cosa che prescrivere livelli minimi di tutela, tracciati secondo un arbitrario razionamento: (almeno)
nella materia sanitaria non è ammessa confusione tra le due nozioni: richiamare i livelli minimi (come già accennato al § 1) significa ammettere che il programmatore dei servizi possa arbitrariamente fissare il novero delle prestazioni garantite, mentre il riferimento all’essenziale fotografa il massimo di tutela che la scienza medica tempo per tempo può assicurare, purché, come si è detto, necessaria e appropriata 19.
Quanto all’uniformità dei livelli essenziali, si tratta a tutta evidenza
del problema di fondo in un ordinamento decentrato, una tensione continua tra il livello di tutela (che si vuole “uniforme”) e il livello gestionale
e organizzativo (per definizione autonomo, dunque non necessariamente
orientato all’uniformità). Come passare dalla “doverosità” di siffatta uniformità di tutela alla sua “effettività” è un obiettivo cui tendere e non un
dato della situazione, a quest’ultima concorrendo una serie complessa di
fattori ambientali, culturali, socioeconomici e organizzativi che rende del
tutto irrealistico pensare che la formulazione di principi e regole costituzionali possa da sola (anche se accompagnata da atti di normazione subordinata) realizzare compiutamente il valore e l’interesse tutelato.
Il punto allora sembra essere il seguente: verificare se, in un determinato ordinamento decentrato e in relazione a determinati diritti, siano
presenti, da un lato, condizioni finanziarie e organizzative di partenza
idonee a consentire di percorrere un cammino verso l’obiettivo proclamato e, dall’altro, tecniche e strumenti di monitoraggio e di intervento
idonei a correggere eventuali scostamenti rispetto a tale percorso. Riprendendo uno spunto tratto di Konrad Hesse, sulle condizioni per il funzionamento ottimale di un siffatto sistema, vengono in rilievo sia la già
accennata procedura che la normativa statale delinea per l’individuazione di risorse certe per i Servizi sanitari regionali (la contestualità tra individuazione dei livelli essenziali e uniformi e l’individuazione delle risorse finanziarie), sia, ancora una volta, l’esigenza di strumenti e tecniche di
raccordo verticale e di autocoordinamento orizzontale.
Cfr. F. Taroni, Livelli essenziali di assistenza, ipotesi” federali” e futuro del Servizio
sanitario nazionale, in La sanità italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela della salute
e progetto di devolution, a cura di R. Balduzzi, Milano, Giuffrè, 2004, p. 339; L. Cuocolo, La
tutela della salute, cit., pp. 116 ss.
19
1048
6. Verso il consolidamento del Servizio sanitario nazionale o il suo progressivo e strisciante indebolimento?
Un sistema decentrato quale l’attuale Ssn italiano, con forti coerenze interne e collanti sostanziali e organizzativi, ma con grandissime differenze di rendimento dei diversi sistemi sanitari regionali (confermati
dai dati sulla mobilità sanitaria interregionale), pur confortato da positivi
giudizi internazionali (che ne evidenziano a livello macro un buon rapporto tra risorse pubbliche impegnate e outcome di salute), richiede costanti sforzi di consolidamento. Se è vero che, almeno sino ad oggi e nonostante le molte difficoltà, l’alternanza di maggioranze governative non
ha indotto particolari sconquassi nell’assetto normativo quale risultante
dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229 e persino le modifiche più significative
(d.l. 18 settembre 2001, n. 347, conv., con modificazioni, in l. 16 novembre 2001, n. 405; n. 347 del 2001 e d.l. n. 138/2004) sono state metabolizzate dal sistema 20, è altresì vero che le difficoltà di tenuta finanziaria
e le vicende non facili dei Piani di rientro rischiano di compromettere
l’attuazione delle linee di intervento contenute nel “Patto per la salute”
del 2006 21: la predeterminazione e la certezza delle risorse assegnate in
un’ottica di medio periodo (triennale), la responsabilizzazione finanziaria dei centri decisionali di spesa, l’aumento delle risorse finalizzate alla
riqualificazione tecnologica delle strutture, il controllo di efficienza nella gestione delle risorse e del livello della qualità dei servizi e il monitoraggio basato sul principio del costo delle pratiche più efficienti.
Il consolidamento del Servizio sanitario nazionale potrebbe avvenire probabilmente anche attraverso alcune modifiche normative, senza
20
Si considerino due esempi: l’istituto delle sperimentazioni gestionali sembra aver concluso la sua parabola nella funzione di copertura del modello sanitario lombardo, il quale a sua
volta è sempre meno derogatorio per via della progressiva accettazione del sistema delle autorizzazioni, dell’accreditamento e degli appositi rapporti di cui agli artt. 8-ter e seguenti del
d.lgs. n. 502/1992, nel testo introdotto dal d.lgs. n. 229/1999; il d.l. n. 81/2004, conv. in l.
138/2004, in tema di libera professione intramuraria, ha trovato a livello regionale un’attuazione legislativa soltanto parziale oppure una vera e propria messa tra parentesi pratica, mantenendosi l’esclusività di rapporto come criterio di preferenza per incarichi di responsabile di
struttura. Né, a conclusioni diverse, sembra potersi giungere a seguito delle disposizioni contenute nell’art. 79, comma 1-quinquies del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. nella l. 6 agosto
2008, n. 133.
21
Sul Patto, siglato nel settembre 2006 e recepito nella legge finanziaria per il 2007, si è
espresso in senso positivo il documento “Libro verde sulla spesa pubblica. Spendere meglio:
alcune prime indicazioni” (pubblicato dalla Commissione tecnica per la spesa pubblica del
settembre 2007).
1049
stravolgerne l’assetto di fondo 22. In questa prospettiva, vengono in rilievo anzitutto: a) il miglioramento dell’organizzazione e del funzionamento dell’organo di gestione e degli altri organi e organismi consultivi delle aziende unità sanitarie locali e delle altre aziende ed enti del Servizio
sanitario nazionale; b) la precisazione delle funzioni e del ruolo degli organismi e degli strumenti che a livello nazionale svolgono compiti di
supporto e di monitoraggio del Ssn, con particolare riferimento all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, della quale andrebbe sottolineato il carattere di ente pubblico nazionale, collocato in posizione di terzietà tra Stato e Regioni, snodo della ricerca applicata e del monitoraggio
delle funzioni 23; c) il coinvolgimento partecipativo dei cittadini e degli
utenti delle prestazioni sanitarie e sociosanitarie; d) la precisazione dei
doveri e delle responsabilità del personale del Servizio medesimo ai fini
del raggiungimento degli obiettivi di tutela della salute; e) la migliore definizione dei tempi e dei percorsi per pervenire a un modello unico di
azienda ospedaliero-universitaria.
Il profilo sub a) è quello dove più diffusamente si avvertono esigenze di aggiornamento normativo.
Si tratta anzitutto di dare una più precisa definizione della responsabilità gestionale del direttore generale, di cui all’art. 3, comma 1-quater,
del d.lgs. n. 502 del 1992 e s.m. Già la riforma del 1999, definendo tale
responsabilità come “complessiva”, si era mossa nel senso di conferire
un contenuto più preciso alla formula originaria secondo cui al direttore
generale sarebbero spettati tutti i poteri di gestione. Ora si tratta di fare
un passo più in là, specificando ambiti e limiti dei poteri del d.g. e della
loro delegabilità. La situazione regionale in materia è alquanto caotica,
serve un quadro di principi condiviso che possa essere adattato in ciascu-
Come sarebbe probabilmente accaduto ove fosse stata confermata nel referendum costituzionale del 2006 la legge di revisione costituzionale contenente, tra l’altro, la cosiddetta
devolution: indicazioni in R. Balduzzi, La creazione di nuovi modelli sanitari regionali e il
ruolo della Conferenza Stato-Regioni (con una digressione sull’attuazione concreta del principio di sussidiarietà “orizzontale”), in questa Rivista, 2004, pp. 17 ss.; Id., Quanti sono i sistemi sanitari, cit., pp. 23 ss.
23
Si veda sul punto il d.d.l. Atto Camera n. 1441-quater, in particolare l’art. 24 recante
delega per la riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del lavoro, della salute e delle
politiche sociali e, fra questi, dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali: la previsione, tra i principi e criteri di delega, di direttive ministeriali sembra però contrastare con il
carattere di terzietà dell’Agenzia (alla quale, non a caso, gli indirizzi sull’attività sono dati dalla Conferenza Unificata: art. 9, comma 2, lett. g) del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281).
22
1050
na Regione sia da direttive di fonte regionale, sia conseguentemente in
sede di atto aziendale 24.
In secondo luogo, vanno potenziati il ruolo e le funzioni del Collegio di direzione di cui all’art. 17 del citato d.lgs., configurandolo quale
vero e proprio organo (anche sulla scorta di alcune legislazioni regionali
anticipatrici) e prevedendone il parere obbligatorio in ordine alla nomina
del direttore sanitario, nel contempo ammettendo una pluralità di modelli per la disciplina regionale della scelta del presidente del Collegio di direzione. Si tratta di introdurre correttivi che non snaturino la logica della
catena di responsabilità che caratterizza il sistema e che impone la coincidenza dell’attribuzione di un potere con la relativa responsabilità e reciprocamente, ma che assicurino una maggiore coesione intra-aziendale
e lo stabilirsi di relazioni virtuose tra i diversi soggetti che in essa operano. L’ottica da cui muovere non è infatti quella che vede nell’espressione “governo delle attività cliniche” di cui all’art. 17, comma 1, del d.lgs.
n. 502 un sinonimo di “governo dei clinici”, quanto piuttosto l’invito a un
governo “con” i clinici. Dando poi continuità a quanto già detto circa
l’accennata migliore definizione dei poteri del direttore generale, potrebbero essere previste forme e modalità di trasparenza nella procedura di
selezione dei candidati ad incarichi di direzione di struttura complessa,
nonché criteri cui informare la selezione dei candidati ad incarichi di natura professionale e di direzione di struttura semplice, anche quali indicazioni da specificare in sede di contrattazione collettiva nazionale.
La diffusa insoddisfazione in ordine alle troppe e troppo acclarate
interferenze di tipo politico-partitico nella nomina regionale dei direttori
generali delle Aziende sanitarie non può poi essere sottaciuta. La circostanza che la normativa vigente faccia riferimento alla natura fiduciaria
del rapporto del direttore generale e alla conseguenza che la sua nomina
debba riferirsi ai soli requisiti di legge, senza necessità di valutazioni
comparative, non significa che queste nomine siano nomine “politiche”
nel senso usuale del termine. Adottare questo approccio condurrebbe a
dar ragione a chi sostiene che, siccome le nomine dei direttori generali
hanno natura fiduciaria, è normale che se ne occupi la “politica”; se non
si vuole ciò, occorre cambiare sistema e dunque, alternativamente, sottrarre alla “politica” tali nomine oppure sopprimerne il carattere fiduciario. In realtà, il carattere fiduciario della nomina serve a escludere o a limitare controversie giurisdizionali sui provvedimenti di nomina da parte
24
Sul punto v. da ultimo la ricognizione di A. Pioggia, Il ruolo del top management e della dirigenza di line in sanità: modelli di distribuzione del potere decisionale negli atti aziendali, in Oltre l’aziendalizzazione, cit., pp. 71 ss.
1051
dei candidati non nominati. Non a caso, il sistema nazionale non prevede
la revoca ad nutum, cioè libera, dell’incarico stesso, ma che essa sia motivata, foss’anche soltanto con l’indicazione del mancato raggiungimento degli obiettivi puntualmente fissati. E la Corte Costituzionale (sent. n.
104 del 2007) ha dichiarato incostituzionale una legge regionale che
estendeva lo spoil system a tali nomine, quasi a voler appunto sottolineare che fiducia non significa arbitrio 25.
Come rendere ciò maggiormente evidente potrebbe essere il compito di un intervento riformatore, volto a chiarire che il potere di nomina in
questione è comunque funzionalizzato al migliore rendimento dei servizi sanitari e non direttamente all’attuazione di un determinato indirizzo
politico. Per parafrasare ancora la già menzionata sentenza della Corte
Costituzionale n. 104 del 2007, si tratta di acclarare il carattere di dirigenza tecnico-professionale, più che politica, dei manager sanitari.
L’obiettivo va perseguito evitando di scompaginare le coordinate di fondo del sistema, e in particolare di reintrodurre forme di valutazione comparativa dei candidati alla nomina a direttore generale, già adottate in
passato e che non hanno dato generalmente buona prova, soprattutto per
la difficoltà di adottare provvedimenti sufficientemente e comparativamente motivati in un settore nel quale la sintonia sugli obiettivi della programmazione sanitaria regionale conta evidentemente almeno quanto le
abilità strettamente manageriali.
Per quanto attiene al profilo sub c), sul coinvolgimento partecipativo
dei cittadini e degli utenti, qui l’aggiornamento dei principi contenuti nel
Titolo IV del d.lgs. n. 502 (art. 14, cui va affiancato ratione materiae
l’art. 10 del medesimo), rubricato come “partecipazione e tutela dei diritti dei cittadini”, potrebbe consistere nella previsione dell’inserimento di
un rappresentante delle organizzazioni di tutela dei diritti degli utenti del
Ssn all’interno del Collegio di direzione, così da consentire un ponte tra
interno ed esterno dell’azienda, evitandone possibili tentazioni autoreferenziali.
Ora, sebbene i meccanismi di rappresentanza di interessi scontino in
gran parte una certa inadeguatezza, poiché ben difficilmente il rappresentante riesce a impersonare fino in fondo tale ruolo rinunciando a un
coinvolgimento attivo e dunque potenzialmente stravolgente, una siffatta
soluzione potrebbe essere di notevole utilità, proprio in quanto volta a inserire dentro a una dinamica tutta intra-aziendale una voce portatrice di
25
1052
Indicazioni in F. Merloni, Gli incarichi dirigenziali, cit., pp. 107 ss.
interessi e valori diversamente sacrificati all’interno delle ordinarie logiche che presiedono alle relazioni intercategoriali sui luoghi di lavoro.
Per quanto attiene al profilo sub e), è forse tempo di verificare lo stato di attuazione del d.lgs. n. 517 del 1999, essendo i rapporti sanità-università un nodo delicatissimo di qualunque Servizio sanitario regionale.
Accanto all’inevitabile proroga del termine previsto dall’art. 2, comma 3,
del d.lgs. n. 517 del 1999, si potrebbe prevedere, in luogo degli strumenti ivi ipotizzati per introdurre eventuali adattamenti al modello unico alla
luce delle esperienze realizzate (atto di indirizzo e coordinamento, ovvero provvedimento legislativo), un’intesa ai sensi dell’art. 8, comma 6,
della l. n. 131 del 2003. In tal modo, le realtà regionali nelle quali il modello deve ancora consolidarsi avrebbero lo spazio temporale per farlo,
mentre quelle in cui il modello si è già consolidato potrebbero concorrere alla definizione finale del medesimo. Si tratta di un terreno dalla quanto mai comprovata delicatezza, in ragione della compresenza in esso di
due tipi di autonomia, entrambi costituzionalmente previsti: quella regionale, rafforzata dal nuovo Titolo V e che ha visto estendersi la competenza legislativa (concorrente) sulla materia della ricerca scientifica; quella
universitaria, cui pure il nuovo Titolo V potenzia l’autonomia (a volerla
considerare, almeno in parte, rientrante nell’ambito materiale dell’istruzione) 26.
È però il profilo sub b) quello forse più decisivo, ai fini del consolidamento del sistema. Si tratta di affiancare, ai risultati importanti cui è
pervenuta l’indagine economico-aziendale in ordine alla valutazione di
sistemi complessi come il sistema sanitario, altri risultati, ottenuti a partire da un’analisi sistemica di tipo giuridico-istituzionale e giuridico-organizzativo. Se teniamo presente che il Rapporto mondiale sulla salute del
2000 ha individuato quattro componenti chiave nelle prestazioni dei servizi sanitari (la fornitura di servizi, la creazione di risorse per investimenti e formazione, il finanziamento e la funzione di governo-amministrazione-controllo), è facile rendersi conto che nel nostro Paese l’elemento di
debolezza, conoscitiva e reale, si concentra proprio nell’ultima componente. Ciò che manca è l’attenzione e la predisposizione di modelli di conoscenza e valutazione che superino la sola prospettiva economico-aziendale e che riescano a misurare non soltanto il complesso delle prestazioni
fornite (Lea) e il complessivo output, ma altresì la capacità di governo del
Sul punto cfr. R. Balduzzi, L’autonomia universitaria dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in «Le istituzioni del federalismo», 2004, pp. 263 ss.; Id., L’università tra Stato e Regioni, in L’autonomia del sistema universitario. Paradigmi per il futuro, a cura di A.
D’Atena, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 27 ss.
26
1053
sistema, sia come capacità di dare obiettivi e indirizzi al medesimo e di
monitorarne e verificarne la realizzazione, sia come promozione di Linee
guida e Protocolli diagnostico-terapeutici (che assumono, in un sistema
basato sul legame tra qualità e appropriatezza delle prestazioni, un rilievo
decisivo per il funzionamento del medesimo).
È evidente che un siffatto modello di conoscenza e di valutazione si
rende indispensabile in un contesto come quello italiano che vede la
combinazione di regionalizzazione e aziendalizzazione, nel quadro dei
principi fondamentali stabiliti, unitamente ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti il diritto alla salute, a livello statale. Se la regionalizzazione comporta, soprattutto dopo la revisione costituzionale del 2001,
una forte autonomia dei singoli Servizi sanitari regionali, dentro un quadro di coerenze di sistema assicurate da meccanismi legislativi e finanziari e da un rinnovato quadro costituzionale che, se ha confermato il
principio-cardine della regionalizzazione, ne ha nel contempo chiarito,
come si è visto al n. 2, i limiti, ne consegue che un sistema sanitario regionalizzato non può essere conosciuto (e dunque valutato, e dunque migliorato) se non conoscendo le peculiarità dei ventuno sottosistemi (tra
Regioni e Province autonome) di cui si compone. L’aziendalizzazione, a
sua volta, comporta una relativa diversità infraregionale, connessa con
l’autonomia imprenditoriale delle aziende stesse e con la maggiore o minore incisività del governo regionale. Un sistema aziendalizzato non può
allora essere conosciuto senza la conoscenza delle caratteristiche delle
aziende regionali e del tipo di aziendalizzazione che il singolo Servizio
sanitario regionale prevede e applica.
È possibile che l’attenzione ai profili messi in evidenza possa attenuarsi, nei prossimi mesi, in conseguenza dell’intensificarsi del dibattito
sul cosiddetto federalismo fiscale, al momento in cui scrivo ancora indeterminato quanto a conclusioni concrete, ma certamente incidente in misura rilevante sui sistemi sanitari regionali e che coesiste con la tendenza, riscontrabile nella normativa sui piani di rientro, a sottoporre a stretto controllo amministrativo i servizi sanitari regionali meno “virtuosi”.
La partita del consolidamento è pertanto una partita aperta, dall’esito non
facilmente prevedibile.
Si potrebbe dunque concludere che è forse davvero venuto il momento, a trent’anni esatti dall’entrata in vigore della legge 23 dicembre
1978, n. 833, di aprire una reale discussione, tecnica e politica, sul Servizio sanitario nazionale e sulle sue prospettive.
1054
Alessandro Candido
Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale
nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano
Norme cedevoli e poteri sostitutivi legislativi
nel nuovo assetto costituzionale
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Cenni sulla dottrina delle norme cedevoli. – 3. Principio
di continuità e norme cedevoli dopo la l. cost. n. 3/2001. – 4. Un tentativo di dare fondamento costituzionale alla cedevolezza normativa: l’intervento sostitutivo governativo ex
art. 120, comma 2, Cost. – Conclusione.
1. Introduzione
Scopo del presente lavoro è esaminare, senza pretesa di esaustività,
– data l’enorme mole di problemi e spunti cui il tema oggetto di disamina si presta – uno dei più discussi meccanismi di snodo presenti nel nostro sistema delle fonti: il criterio della cedevolezza normativa. In relazione a quest’ultimo, prenderemo le mosse dalle origini del regionalismo
italiano, per poi risalire sino alle più recenti pronunce giurisprudenziali
che, a quanto sembra, lo hanno dichiarato incostituzionale. Nella seconda parte della trattazione, invece, proveremo a spiegare le ragioni per cui
oggi la suddetta clausola potrebbe ben confluire nell’art. 120, comma 2,
Cost., probabilmente una delle più lacunose norme introdotte dalla l.
cost. n. 3/2001. In particolare, cercheremo di rinvenire un fondamento
costituzionale per la c.d. dottrina delle norme cedevoli, individuando
nell’art. 120, comma 2, vale a dire nella possibilità di adottare poteri sostitutivi in via anche legislativa (sebbene quest’ultimo inciso, non specificato in Costituzione, sia tutt’altro che pacifico), la norma di chiusura
dell’ordinamento.
Parlando di norme cedevoli 1 ci si riferisce all’adozione, da parte
dello Stato, di disposizioni di normazione di dettaglio in materie di competenza legislativa concorrente, norme aventi un’efficacia provvisoria e
limitata al periodo in cui le Regioni non abbiano ancora esercitato le proprie attribuzioni 2. Le norme “suppletive” o “cedevoli”, dunque, rappre1
C’è anche chi parla di clausola “di dissolvenza”. V. F. Pizzetti, Le autonomie locali nella riforma costituzionale e nei nuovi statuti, in «Le Regioni» 2002, 944.
2
La Corte Costituzionale ha utilizzato per la prima volta l’aggettivo “cedevole”, sia pure
1055
sentano (così come la clausola dell’interesse nazionale 3, forse troppo
frettolosamente depennata dal testo costituzionale con la riforma del Titolo V) uno strumento connesso alla salvaguardia e al funzionamento del
sistema giuridico, essendo esso volto a evitare la presenza di vuoti normativi all’interno delle Regioni, in seguito al mutamento dei principi
fondamentali 4 delle materie da parte dello Stato 5.
in modo del tutto casuale e con un senso completamente diverso rispetto al suo attuale significato, nella sent. n. 1/1981. Ma è solo con la sent. n. 304/1987 che esso viene a identificare
quel fenomeno che la stessa Corte ha dichiarato legittimo a partire dalla sentenza n. 214/1985
(v. infra). Sul tema cfr. tra gli altri M. Massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del
Titolo V, in «Effettività» e «seguito» delle tecniche decisorie della Corte Costituzionale, a cura
di R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto e P. Veronesi, Napoli 2006, 439 ss.
3
Sul tema, cfr. G. Falcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda
della Costituzione, in «Le Regioni» 2001, 1251 ss. L’A. sostiene che, l’interesse nazionale,
sebbene a seguito della riforma del Titolo V sia venuto meno nel testo della Costituzione, si
manifesta oggi in specifiche riserve di competenza dello Stato ex artt. 117, 119 e 120 Cost. Cfr.
anche C. Pinelli, I limiti alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in «Foro it.» 2001, 199, L. Cuocolo,
Gli interessi nazionali tra declino della funzione di indirizzo e coordinamento e potere sostitutivo del Governo, in «Quad. Reg.» 2002, fasc. 2, 427 e. P. Cavaleri, La nuova autonomia
legislativa delle Regioni, in Le modifiche al Titolo V della parte II della Costituzione, ibidem,
2001, 202. C’è invece chi (cfr. A. Barbera, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, in
«Quad. cost.», 2001, 345-346) ritiene che con la l. cost. n. 3/2001 il Parlamento abbia inteso
non eliminare l’interesse nazionale (il quale permarrebbe come limite implicito), bensì radicare la sua difesa in capo alla Corte Costituzionale. Altri ancora (cfr. sul punto R. Tosi, A proposito dell’«interesse nazionale», in «Quad. cost.» 2002, 86-88) demandano la precisazione
dell’interesse nazionale alla continua collaborazione tra il Parlamento e il giudice delle leggi, a
seconda della situazione concreta. Vi è poi una tesi ulteriore (cfr. R. Bin, L’interesse nazionale
dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale,
in «Le Regioni» 2001, 1219) in base alla quale non si può dire che il nuovo Titolo V abbia
escluso ogni riferimento all’interesse nazionale. Più semplicemente, quest’ultimo si è trasformato sulla base dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione, per cui l’allocazione delle
competenze avviene oggi secondo una valutazione concreta della dimensione degli interessi
da tutelare. Della stessa idea F. Benelli, Interesse nazionale, istanze unitarie e potestà legislativa regionale: dalla supremazia alla leale collaborazione, «Giur. cost.» 2006, 933 ss.; Id., La
“smaterializzazione” delle materie, Milano 2006, 53 ss.
4
Sulla complessa nozione di “principio” – spesso definito, a partire dalla definizione
fornita da Ronald Dworkin, quale norma dal carattere non precisamente determinato e quale
fondamento di norme dal carattere più dettagliato – cfr. R. Guastini, Teoria e dogmatica delle
fonti, in «Tr. dir. civ. comm.», dir. da A. Cicu e F. Messineo, cont. da L. Mengoni, vol. I, t. I,
Milano 1998, 276 ss.; cfr. anche W. Twining e D. Miers, Come far cose con regole, trad. it. a
cura di C. Garbarino, Milano 1990, 181 ss.; ancora, cfr. E. Balboni, I livelli essenziali e i procedimenti per la loro determinazione, in «Le Regioni» 2003, 1183 ss.; dello stesso autore, Gli
standard strutturali delle relazioni di assistenza tra livelli essenziali e principi fondamentali,
in «Giur. cost.» 2007, 974 ss.
5
Cfr. M. Santini, Il tema della cedevolezza e le sue residue applicazioni dopo la riforma
del titolo V della parte seconda della Costituzione, in www.federalismi.it
1056
Com’è noto, le leggi costituzionali n. 1/1999 e n. 3/2001 hanno, nel
loro complesso, abrogato o modificato la maggior parte degli articoli
che componevano in origine il Titolo V della parte seconda della Costituzione, ridisegnando il quadro delle fonti statali e i loro rapporti con le
fonti regionali 6. In passato, infatti, tutto il sistema delle fonti si reggeva
– salvo alcune deroghe (artt. 76, 77, 117 Cost.) – sull’art. 70 della Costituzione, ossia sul principio della generale e illimitata competenza legislativa attribuita al Parlamento, ragion per cui la vecchia legislazione regionale assumeva carattere derogatorio ed episodico 7. A conferma di
ciò, mentre la legge dello Stato non appariva sottoposta ad alcun limite
che non fosse quello di compatibilità con la Costituzione, la potestà legislativa regionale era fortemente compressa, in quanto doveva essere
esercitata nel rispetto della Costituzione, degli Statuti di autonomia e
delle leggi-quadro.
Tutto questo è invalso sino alla l. cost. n. 3/2001, che ha costituzionalizzato il principio di sussidiarietà 8 (nelle due accezioni “verticale” e
“orizzontale”), peraltro già prefigurato dalla legge n. 59 del 1997 a Costituzione invariata 9. Ciò ha portato, quantomeno a livello di principi, a
un capovolgimento radicale del sistema delle fonti, anche se poi – nella
sostanza – la produzione normativa statale e regionale non è granché mutata rispetto al passato.
Cfr. U. De Siervo, Il sistema delle fonti: il riparto della potestà normativa tra Stato e
Regioni, in www.federalismi.it
7
Basti pensare che il vecchio art. 127 della Costituzione sottoponeva la legge regionale
a un controllo preventivo di legittimità al punto che, come sosteneva Crisafulli (cfr. V. Crisafulli, La legge regionale nel sistema delle fonti, in «Riv. trim. dir. pubbl.» 1960, 285-286), i
principi posti dalla legge statale condizionavano “la stessa immissione nell’ordinamento delle
norme di fonte regionale”.
8
Cfr. sul tema A. Ruggeri, A. Morrone, Q. Camerlengo, E. D’Arpe, F. Cintioli per il
Forum di Quaderni Costituzionali; anche R. Dickmann, La Corte Costituzionale attua (ed
integra) il Titolo V, in www.federalismi.it; L. Torchia, In principio sono le funzioni (amministrative): la legislazione seguirà, in www.astridonline.it; L. Violini, I confini della sussidiarietà: potestà legislativa «concorrente», leale collaborazione e strict scrutiny, in «Le Regioni»
2004, 587 ss.; O. Chessa, Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e modelli teorici a confronto, ibidem 2004, 941 ss.; E. Balboni, P. G. Rinaldi, Livelli essenziali,
standard e leale collaborazione, ibidem 2006, 1029 ss.; sempre di E. Balboni, Livelli essenziali: il nuovo nome dell’eguaglianza? Evoluzione dei diritti sociali, sussidiarietà e società del
benessere, in E. Balboni, B. Baroni, A. Mattioni, G. Pastori (a cura di), Il sistema integrato
dei servizi sociali, Milano 2007, 27 ss.
9
Cfr. G. Pastori, La redistribuzione delle funzioni: profili istituzionali, in «Le Regioni»
1997, 749 ss.
6
1057
2. Cenni sulla dottrina delle norme cedevoli
Proviamo ora a ripercorrere, sia pure in estrema sintesi, il tema delle norme cedevoli, considerando il rapporto intercorrente tra leggi statali
e leggi regionali, così come descritto dalla l. n. 62/1953 (c.d. Legge Scelba) 10.
In particolare, l’art. 10 della l. n. 62/1953 prende in considerazione
l’ipotesi della successione delle leggi nel tempo laddove si verifichi un
mutamento dei principi fondamentali delle materie: in tal caso, dispone il
comma 1, “le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali [...] abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse” 11.
Chiaro che qui – poiché nulla si dice in tema di nuova legislazione
10
L. 10 febbraio 1953, n. 62, recante “Costituzione e funzionamento degli organi regionali”. Interessante è l’art. 9 della legge in questione, ove si stabiliva – nella originaria formulazione – che il Consiglio regionale non avrebbe potuto legiferare se preventivamente non fossero state promulgate le leggi della Repubblica contenenti, singolarmente per ciascuna materia,
i principi fondamentali cui la legislazione regionale avrebbe dovuto attenersi. Dopodiché, al
suddetto criterio veniva posta una deroga, in base alla quale le Regioni, in attesa dell’approvazione delle leggi-quadro, avrebbero potuto legiferare in alcuni settori di secondaria importanza, quali circoscrizioni comunali, fiere e mercati, musei e biblioteche di enti locali, istruzione
artigiana e professionale, caccia e pesca. Secondo questa logica, il rapporto tra legge statale
e legge regionale era inteso in un’ottica di separazione, per cui le Regioni avrebbero emanato
norme di dettaglio nell’ambito di una disciplina statale uniforme. L’ostacolo principale per il
funzionamento di tale impostazione era chiaramente rappresentato dall’assoluta mancanza di
leggi quadro nel momento in cui erano state istituite le Regioni ordinarie, con il rischio quindi
che l’inattività del legislatore nazionale si sarebbe riverberata sulle competenze legislative
regionali, paralizzandole. Proprio per evitare tale inconveniente, l’art. 17 della l. n. 281/1970
aveva modificato l’art. 9 della Legge Scelba, disponendo che “l’emanazione di norme legislative da parte delle Regioni nelle materie stabilite dall’art. 117 della Costituzione si svolge
nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono
per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Così, l’ordinamento aveva in
quell’occasione fatto propria la logica dell’integrazione, per cui le norme di principio poste
dallo Stato diventavano puri e semplici parametri di legittimità di una legislazione regionale di
dettaglio destinata a sovrapporsi a quella statale. Tra l’altro, la Corte Costituzionale si era in
proposito pronunciata con sent. n. 39/1971, affermando l’illegittimità costituzionale dell’originaria impostazione della Legge Scelba, dato che a quella stregua “l’esercizio delle potestà
legislative regionali rischiava di essere procrastinato sine die”, restando “rimesso alla mera
discrezione del legislatore statale” (L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996,
333). Il problema, sosteneva Paladin, era quello di consentire ai Consigli regionali l’esercizio
immediato delle loro funzioni legislative, non appena entrati in vigore i primi decreti di trasferimento delle funzioni amministrative statali alle Regioni.
11
L’art. 10, comma 2, aggiunge che “i Consigli regionali dovranno portare alle leggi
regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni”.
1058
statale di dettaglio nelle materie di cui all’art. 117 Cost. 12 – veniva in
gioco un meccanismo del tutto velleitario: infatti, così come non si poteva costringere il legislatore statale ad adottare leggi quadro entro un certo termine, allo stesso modo non vi era strumento alcuno che sanzionasse la mancata osservanza dell’art. 10 della legge in questione da parte
delle Regioni, con la conseguenza che l’eventuale modificazione dei
principi fondamentali delle materie ad opera dello Stato avrebbe causato
numerosi vuoti nei tessuti normativi regionali.
Sul punto sono state avanzate diverse autorevoli tesi 13, ciascuna delCfr. A. Roccella, Rapporti tra fonti normative statali e regionali, in «Amministrare»
2005, 28.
13
Tra le varie tesi elaborate, si pensi a quella dell’abrogazione differita – facente capo
a Crisafulli – in base alla quale l’abrogazione delle leggi regionali contrastanti con i nuovi
principi fondamentali (posti dalla legge dello Stato) deve essere sospesa per novanta giorni,
termine entro il quale le Regioni hanno il dovere di modificare le preesistenti leggi, conformandole così ai mutati principi statali (cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, vol.
II, Padova 1993, 133). Come nota Crisafulli, “probabilmente, l’interpretazione più attendibile [...] è che l’effetto abrogativo sia sospeso fino al decorso dei novanta giorni ovvero sino
all’entrata in vigore, entro tale termine, delle leggi regionali modificative di quelle precedenti
per conformarle ai mutati principi delle leggi statali [...]”. Una ricostruzione di tal natura,
tuttavia, lascerebbe aperto il problema dei vuoti normativi che l’introduzione dei nuovi principi fondamentali comporterebbe, laddove il legislatore regionale non provvedesse a legiferare
entro la scadenza dei suddetti novanta giorni. Secondo un’ulteriore idea, dell’incostituzionalità sopravvenuta (cfr. A. D’Atena, L’autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, 89
ss.) non può accadere che una legge statale invada il campo normativo riservato ai Consigli
regionali, abrogando ex lege norme regionali pregresse. L’unica soluzione possibile sarebbe
allora quella dell’impugnazione in sede di giudizio di costituzionalità, da parte dello Stato,
delle norme regionali confliggenti con i mutati principi delle materie. D’Atena afferma che
“stante l’obbligo dei Consigli regionali di attenersi ai principi legislativamente fissati, dovrà
ritenersi che il contrasto tra la normazione locale e le successive leggi-cornice integri gli estremi di una illegittimità costituzionale sopravvenuta, sindacabile, in quanto tale, dalla Corte”.
Dunque, continua D’Atena, “potrebbe dirsi che decorso il termine che la legge-cornice assegna alle Regioni, perché adeguino, alle disposizioni in essa contenute, la propria normazione,
quest’ultima realizza un’invasione della sfera di attribuzioni dello Stato (e possa, pertanto,
essere impugnata, ai senso dell’art. 39 della l. n. 87 del 1953)”. Più drastica è, infine, la tesi
dell’abrogazione immediata di Paladin, il quale ritiene viziate le precedenti interpretazioni
dell’art. 10 della legge Scelba: infatti in entrambe vi sarebbe il problema di far convivere per
un certo periodo – novanta giorni nel caso dell’abrogazione differita, invece nel caso dell’incostituzionalità sopravvenuta il tempo necessario affinché la Corte si pronunci – i nuovi principi
fondamentali posti dallo Stato con le vecchie norme di dettaglio regionali. Per ovviare a tale
inconveniente, egli ritiene più opportuno che le leggi quadro, ove immediatamente applicabili,
abroghino hic et nunc la disciplina regionale con esse contrastante (cfr. L. Paladin, Le fonti del
diritto italiano cit., 95). Zagrebelsky critica tale impostazione (cfr. G. Zagrebelsky, Manuale
di diritto costituzionale, vol. I, Torino 1988, 234 ss.) affermando che “non può trattarsi [...] di
abrogazione, poiché essa presupporrebbe la concorrenza di due tipi di fonti nello stesso ambito
12
1059
le quali presentava tuttavia degli inconvenienti: vi era, infatti, oltre al
problema dei vuoti nei sistemi normativi regionali, anche quello della
convivenza di norme di principio e norme di dettaglio con esse incompatibili (o ad ogni modo inidonee a rendere queste ultime applicabili).
Su queste premesse, Paladin ha proposto di dotare le leggi cornice di
una struttura costituita tanto da disposizioni di principio, quando da disposizioni di dettaglio, le prime inderogabili e le seconde cedevoli 14. In
tal modo, le leggi statali avrebbero trovato applicazione sia nelle Regioni sguarnite di una disciplina regionale, sia laddove quest’ultima fosse risultata presente, ma incompatibile con i nuovi principi fondamentali. Era
questa, evidentemente, l’anticipazione del sistema delle normative cedevoli, che veniva a configurare i rapporti tra fonti statali e fonti regionali
sulla base di un criterio misto: da un lato una componente gerarchica, a
favore dei principi fondamentali delle leggi statali, dall’altro un elemento di separazione, essendo la Regione competente alla produzione normativa di dettaglio 15. In tal modo, nei rapporti tra leggi cornice e leggi
regionali venivano applicati “gli stessi criteri che la legge n. 382 del 1975
ha fissato in tema di attuazione degli obblighi comunitari, precisando che
«in mancanza della legge regionale, sarà osservata quella dello Stato in
tutte le sue disposizioni»” 16.
Rifacendosi all’impostazione poc’anzi tracciata, il legislatore è intervenuto con legge 3 gennaio 1978, n. 1, ponendo norme di principio e
norme “suppletive” di dettaglio – pur in presenza di una precedente disciplina regionale – in materia di accelerazione delle procedure di esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali.
materiale e sullo stesso piano gerarchico”. Sul punto si è espressa la Corte con sent. n. 40 del
1972, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della l. n.
62/1953, in quanto “in conseguenza del subentrare, nella legislazione statale, di nuovi principi
[...], ben può verificarsi l’abrogazione di norme regionali [...]”. Tuttavia, “ciò non toglie che
quando il contrasto tra principi di fonte statale e norme regionali anteriori non si configuri in
termini di vera e propria incompatibilità, tale da dar luogo ad abrogazione, possa proporsi una
questione di legittimità costituzionale delle norme regionali diventate difformi dai nuovi principi, essendo la legislazione regionale costituzionalmente subordinata al rispetto dei principi
fondamentali delle leggi statali”.
14
Cfr. L. Paladin, Diritto regionale, Padova 1979, 96. “In simili casi, del resto, lo Stato
non è solo abilitato a dettare nuove norme di principio; ma può anche accompagnare tali
norme, perché transitoriamente non si abbia una carenza di legislazione, con una dettagliata regolamentazione di ciascuna materia, salve – s’intende – le innovazione apportabili in
quest’ultimo campo dalle successive leggi regionali”.
15
Cfr. T. Martines, A. Ruggeri, C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano,
2002, 173 ss.
16
V. L. Paladin, Diritto regionale cit., 96-97.
1060
Di fronte all’impugnazione della presente legge da parte della Regione Lombardia e della Provincia autonoma di Bolzano, che lamentavano il
contrasto con l’art. 117 della Costituzione – oltre che con varie disposizioni del d.p.r. 616/1977 – la Corte si è pronunciata con la storica sentenza n.
214/1985 17, dichiarando infondata la questione di legittimità sollevata e
mostrando di condividere l’interpretazione “paladiniana” poc’anzi considerata, subordinando così il venir meno della fonte incompetente all’eventuale sovrapposizione e sostituzione ad opera di quella competente.
Il giudice delle leggi ha affermato, infatti, che “le attribuzioni statali non vengono paralizzate dalla circostanza che l’ente regionale abbia
precedentemente emanato una legislazione di dettaglio, ma possono trovare ulteriore e successiva esplicazione se diverse esigenze di politica legislativa, frattanto emerse, lo richiedano. Né la legge dello Stato deve essere necessariamente limitata a disposizioni di principio, essendo invece
consentito l’inserimento anche di norme puntuali di dettaglio, le quali sono efficaci soltanto per il tempo in cui la Regione non abbia provveduto
ad adeguare la normativa di sua competenza ai nuovi principi dettati dal
Parlamento”.
Sulla base di tali argomentazioni 18, si è iniziato a concepire in modo più duttile il concorso tra atti normativi nelle materie di cui all’art.
117 Cost., “costruendo non già una competenza riservata alla legislazione locale di dettaglio, ma una preferenza per mezzo della quale i Consigli regionali possano recuperare la competenza medesima” 19. Ecco allora che, una volta configurati in questi termini (ossia come una deroga) i
rapporti tra leggi statali e leggi regionali, l’intervento della normativa di
Corte cost., 22 luglio 1985, n. 214, in «Le Regioni» 1986, 236 ss., con nota di L. CarLa «preferenza» come regola dei rapporti tra fonti statali e regionali nella potestà legislativa ripartita. Ancora, v. commenti di A. Anzon, Mutamento dei «principi fondamentali»
delle materie regionali e vicende della normazione di dettaglio, in «Giur. cost.» 1985, I, 1660
ss.; F. Cuocolo, Il difficile rapporto tra leggi statali e leggi regionali, ibidem, II, 2667 ss.; R.
Tosi, Leggi di principio corredate da disposizioni di dettaglio: un’estensione della competenza statale senza sacrificio dell’autonomia regionale, ibidem, II, 2678 ss.
18
Non è questa la sede per svolgere un’approfondita analisi delle ulteriori pronunce –
precedenti alla riforma costituzionale del 2001 – attraverso le quali la Corte ha confermato a
più riprese la dottrina delle norme cedevoli. Fra queste, ricordiamo le sentt. n. 123/1992, n.
352/1992 e n. 464/1994.
19
V. L. Paladin, Le fonti del diritto italiano cit., 335. Allo stesso modo, Crisafulli (Cfr.
V. Crisafulli, Vicende della «questione regionale», in «Le Regioni» 1982, 506) – riprendendo un’idea di Zanobini (cfr. G. Zanobini, La gerarchia delle fonti nel nuovo ordinamento, in
Comm. sistematico alla Cost. it., diretto da P. Calamandrei e A. Levi, vol. I, Firenze 1948, 59)
– sostiene che le norme costituzionali determinano la preferenza della legge regionale rispetto
a quella statale come fonte della disciplina di dettaglio.
17
lassare,
1061
dettaglio regionale non causerebbe l’abrogazione delle norme di dettaglio statali, le quali rimarrebbero in vigore quasi “allo stato di quiescenza, per riespandersi provvisoriamente […] ogni qualvolta le norme regionali vengano a mancare senza essere sostituite” 20.
Una volta legittimata la prassi delle norme cedevoli, il legislatore –
forte dell’appoggio della giurisprudenza costituzionale degli anni 80-90 21
– ha iniziato a farne uso e abuso, così che “la cedevolezza ha finito per
trasformarsi in uno dei mezzi attraverso i quali lo Stato ha potuto continuare a legiferare in modo sostanzialmente libero anche nelle materie di
cui all’art. 117 Cost.” 22, intaccando e comprimendo inevitabilmente la
sfera di autonomia regionale.
3. Principio di continuità e norme cedevoli dopo la l. cost. n. 3/2001
3.1. Come si è già avuto modo di osservare, la l. cost. n. 3/2001 ha
completamente ridisegnato l’assetto delle fonti 23, sollevando diversi problemi: uno di questi, di carattere – si spera – temporaneo, riguarda la fase di avvicendamento tra il previgente e il nuovo ordine dei rapporti tra
legislazione statale e legislazioni regionali. La Corte Costituzionale,
all’indomani della riforma del Titolo V, ha subito affrontato la questione,
chiamando in causa il principio di continuità dell’ordinamento, in base al
quale si afferma la validità e l’efficacia di norme non più conformi al mutato riparto di competenze. In altre parole, tempus regit actum.
Per la verità, già con sent. n. 13 del 1974 i giudici di Palazzo della
V. Crisafulli, Vicende della «questione regionale» cit., 505. È stato proprio Crisafulli
il primo a utilizzare, in questo saggio, l’aggettivo cedevole. Cfr. anche A. Anzon, Mutamento
dei «principi fondamentali» delle materie regionali e vicende della normazione di dettaglio
cit., 1660 ss.
21
Si pensi alla sent. n. 192/1997, con la quale la Corte non escludeva la legittimità
delle norme statali di dettaglio per il solo fatto che esse non fossero qualificate come tali,
rimettendo alle Regioni l’onere di impugnarle qualora ritenute invasive della propria sfera di
attribuzioni.
22
V. M. Massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 444.
23
Circa i problemi relativi all’attuazione del nuovo Titolo V, molto interessante è il “colloquio” tra S. Bartole, M. Cammelli, V. Onida e G. Pastori, Comuni, Province, Regioni,
Stato: riformare la riforma?, in «Amministrare», n. 1-2/2006, 1-46. Ancora, cfr. R. Tosi, Sui
rapporti tra fonti regionali e fonti locali, in «Le Regioni» 2002, 963 ss.; sempre R. Tosi, La
legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa,
ibidem 2001, 1233 ss.; A. Ruggeri, La ricomposizione delle fonti in sistema, nella Repubblica
delle autonomie, e le nuove frontiere della normazione, ibidem 2002, 699 ss. G. Falcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione cit., 1247 ss.
20
1062
Consulta avevano enunciato il suddetto principio 24. La pronuncia era stata nel senso dell’inammissibilità del ricorso 25, proprio alla luce del principio di continuità, per cui ciò che limita la competenza legislativa statale nelle singole materie non è la mera competenza regionale, “in quanto
astrattamente prevista in Costituzione o negli Statuti, ma il concreto esercizio che ne abbia fatto l’ente cui è conferita”. Ecco allora che le Regioni – e le Province autonome – per rimuovere dalle materie attribuite alla
loro potestà legislativa le previgenti norme statali che eccedono i limiti
posti dalla Costituzione, devono soltanto legiferare, sostituendo così le
proprie leggi a quelle statali fino a quel momento vigenti nei rispettivi
ambiti territoriali. Il suddetto meccanismo altro non è se non uno strumento di garanzia della continuità normativa.
Il principio in esame torna a essere ribadito dopo la riforma del 2001
con la sentenza n. 422 del 2002 26, dove si è posto il problema dell’impugnazione di una serie di disposizioni di legge approvate in base alla previgente disciplina e ritenute ora incompatibili con il nuovo riparto di
competenze delineato dall’art. 117 della Costituzione. In quell’occasione la Corte ha sostenuto che il permanere delle norme statali, “al di là del
momento di entrata in vigore della riforma del Titolo V, è conseguenza
della necessaria continuità dell’ordinamento giuridico” 27. Pertanto, è
l’epoca di proposizione del ricorso a radicare il parametro costituzionale
del giudizio 28. Da qui allora la conclusione che “le norme che definisco-
Nella decisione in questione (cfr. anche sent. n. 28 e n. 31 del 1976), la Provincia di
Bolzano impugnava la legge 24 aprile 1935, n. 740 – istitutiva del Parco nazionale dello Stelvio – lamentando il contrasto con le sopravvenute norme dello Statuto speciale della Regione
Trentino-Alto Adige (l. cost. n. 1/1971).
25
Cfr. A. Pizzorusso, Le modificazioni dello Statuto per il Trentino-Alto Adige e le leggi statali anteriori: termine per ricorrere e «principio di continuità», in «Giur. cost.» 1974,
535 ss. L’A. contesta la tipologia di decisione adottata dalla Corte. Egli sostiene, infatti, che
l’inapplicabilità del principio di gerarchia delle fonti al caso in esame abbia come conseguenza
l’insussistenza della sopravvenuta incostituzionalità denunciata dalla Provincia, il che determinerebbe, pertanto, l’infondatezza e non l’inammissibilità del ricorso. Sullo stesso tema,
cfr. C. Mezzanotte, Giudizi in via di azione, termini per ricorrere e autoritarietà della legge
statale, in «Giur. cost.» 1976, 230 ss.
26
Per la verità già la sent. 376/2002, rifacendosi alla n. 13/1974, aveva affrontato il
problema.
27
V. Corte cost., sent. 422/2002. Tale impostazione è stata peraltro confermata nella
successiva sent. n. 507/2002 – sia pure qui con riferimento alla validità degli atti ministeriali –
precisando che la riforma del Titolo V non ha la capacità di rendere invalidi atti posti in essere
in virtù del precedente riparto di competenze.
28
Cfr. R. Brandolin, La Corte alle prese con un nuovo parametro costituzionale, in
www.giurcost.it
24
1063
no le competenze legislative statali e regionali contenute nel nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione potranno, di norma, trovare applicazione nel giudizio di costituzionalità promosso dallo Stato contro leggi
regionali e dalle Regioni contro leggi statali soltanto in riferimento ad atti di esercizio delle rispettive potestà legislative, successivi alla loro nuova definizione costituzionale” 29.
Il principio di continuità dell’ordinamento ha trovato conferma e codificazione all’art. 1, comma 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131 30, che
ha trasposto in legge la dottrina delle norme cedevoli 31.
3.2. È arrivato ora il momento di chiedersi come la Corte Costituzionale ha affrontato il tema della cedevolezza in seguito alla l. cost. n.
3/2001. Una prima pronuncia degna di nota sembra essere la n. 282 del
2002, avente ad oggetto l’impugnazione, da parte dello Stato, di una legge della Regione Marche per invasione della sfera di competenze prefigurata dal nuovo art. 117 della Costituzione. La Corte, ragionando qui
sulla tutela della salute – che costituisce oggetto di potestà legislativa
29
In seguito la Corte, con sent. n. 13/2004 torna ad affrontare, sotto profili ulteriori e più
ampi, la questione del principio di continuità. In quell’occasione essa afferma che il principio
di continuità “in virtù del quale le preesistenti norme statali continuano a vigere nonostante il
mutato assetto delle attribuzioni fino all’adozione di leggi regionali conformi alla nuova competenza, deve essere ora ampliato per soddisfare l’esigenza della continuità non più normativa
ma istituzionale”. Cfr. in proposito R. Dickmann, La Corte amplia la portata del principio
di continuità (osservazioni a Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 13), in www.federalismi.it; A.
Poggi, Un altro pezzo del “mosaico”: una sentenza importante per la definizione del contenuto della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di istruzione, ibidem; P.
Milazzo, La Corte Costituzionale interviene sul riparto di competenze legislative in materia
di istruzione e “raffina” il principio di continuità, nel Forum di «Quad. cost.»; M. Massa, Le
norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 447 ss.
30
Qui si dispone che “Le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione regionale continuano ad
applicarsi, in ciascuna Regione, fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali
in materia, fermo quanto previsto al comma 3, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della
Corte Costituzionale. Le disposizioni normative regionali vigenti alla data di entrata in vigore
della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano
ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia, fatti salvi
gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale”. Cfr. F. Bassanini, Legge “La Loggia”: commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione,
Rimini 2003, 22 ss.
31
Allo stesso modo, l’art. 1, comma 3, l. cit., sembra aver riproposto l’art. 9 della Legge
Scelba (nella versione modificata dall’art. 17 della l. n. 281/1970), disponendo che “Nelle
materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa
nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali
desumibili dalle leggi statali vigenti”.
1064
concorrente – enuncia un principio innovativo rispetto ai pregressi orientamenti, affermando che l’art. 117, comma 3, a differenza del previgente
art. 117, comma 1, “esprime l’intento di una più netta distinzione fra la
competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina” 32.
Da qui, secondo parte della dottrina 33, si dovrebbe pertanto escludere la possibilità per lo Stato di continuare a legiferare nelle materie di
competenza regionale, sia primaria che concorrente, attraverso la tecnica
delle norme cedevoli.
Tale impostazione è stata peraltro ribadita – con messaggio del 5 novembre 2002 – dal Presidente della Repubblica Ciampi 34, il quale ha sottolineato che in ogni caso non è giustificabile l’invasione da parte dello
Stato di una competenza costituzionalmente riservata alla legge regionale, nemmeno con la clausola della cedevolezza. La stessa sentenza n. 282
del 2002, prosegue il messaggio presidenziale, rappresenta “autorevolissima conferma che anche l’omissione o il ritardo nella determinazione,
da parte dello Stato, dei principi fondamentali non costituisce titolo valido per sostituire la legge statale alla legge regionale in una materia riservata alla competenza legislativa della Regione; infatti, è sempre e soltanto la Regione che, anche in assenza delle cosiddette leggi (statali) di principio, ha il potere di legiferare, con l’obbligo di attenersi al rispetto dei
principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già
in vigore” 35.
Tanto la sentenza n. 282 del 2002, quanto il messaggio del Presidente Ciampi, lasciavano presagire l’inammissibilità del sistema delle norme
cedevoli, tesi che avrebbe trovato ulteriore e compiuta conferma nella
storica sentenza n. 303 del 2003, vera e propria summa di alcuni dei nodi più problematici del nuovo assetto costituzionale.
32
Sul tema della potestà concorrente, cfr. F. Cuocolo, Principi fondamentali e legislazione concorrente dopo la revisione del Titolo V, Parte seconda, Costituzione, in «Quad. Reg.»
2003, fasc. 3, 721 ss.
33
Cfr. M. Santini, Il tema della cedevolezza e le sue applicazioni dopo la riforma del
Titolo V della parte seconda della Costituzione, in www.federalismi.it.
34
In quell’occasione il Presidente aveva rinviato alle Camere una legge in materia di
incompatibilità dei Consiglieri regionali, rilevando come la competenza in oggetto rientrasse
nella potestà concorrente di Stato e Regioni.
35
Per la lettura del messaggio presidenziale, v. www.camera.it. Cfr. anche il commento
di B. Caravita, Una vicenda piccola, una questione importante: alcune riflessioni in ordine ad
un recente rinvio presidenziale, in www.federalismi.it
1065
3.3. Con la sentenza n. 303 del 2003, la Corte Costituzionale, attraverso una elaborata opera interpretativa, ha provato a ricondurre in un
quadro sistematico il nuovo Titolo V della Costituzione, tentando in alcuni casi di sorvolare, in altri di intervenire sulle sue enormi lacune.
Nel caso di specie, veniva in rilievo un complesso di impugnazioni
della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (c.d. legge-obiettivo), che poneva
una disciplina – tanto di principio, quanto di dettaglio – per l’accelerazione della realizzazione di grandi opere pubbliche, in deroga al riparto
di competenze posto dall’art. 117 della Costituzione.
Il giudice delle leggi si pronuncia, in questo caso, nel senso dell’ammissibilità della suddetta deroga e prova a giustificare la necessità di
clausole che rendano più flessibile il rigido modello di distribuzione delle competenze delineato dal nuovo Titolo V, in modo da ampliare lo spazio di intervento riservato al legislatore nazionale, tutte le volte che sia
necessaria la salvaguardia di istanze unitarie. Proprio a tal proposito, essa fa riferimento alla konkurrierende Gesetzgebung tedesca o alla Supremacy Clause del sistema statunitense, quali elementi di flessibilità, affermando che lo stesso può dirsi, nel nostro ordinamento, con riguardo al
principio di sussidiarietà verticale (art. 118, comma 1 Cost.), introdotto
per le funzioni amministrative, ma destinato a rendere meno rigida la
stessa distribuzione di competenze legislative. Ecco allora che, per consentire al poco riuscito federalismo della riforma di funzionare, il principio di sussidiarietà diventa un subsidium – quando un livello di governo
non sia adeguato rispetto alle finalità da raggiungere – e ad esso si affianca il principio di legalità il quale, dice la Corte, “impone che anche le
funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge” 36.
I giudici di Palazzo della Consulta affermano, poi, che “non può negarsi che l’inversione della tecnica di riparto delle potestà legislative e
l’enumerazione tassativa delle competenze dello Stato dovrebbe portare
ad escludere la possibilità di dettare norme suppletive statali in materie di
legislazione concorrente”. Tuttavia, continua la Corte, “una simile lettura dell’art. 117 svaluterebbe la portata precettiva dell’art. 118, comma 1,
36
Cfr. anche A. Ruggeri, Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma
non regolamentare…) in una storica (e, però, solo in parte soddisfacente) pronunzia, nel Forum di «Quad. cost.»; Q. Camerlengo, Dall’amministrazione alla legge, seguendo il principio
di sussidiarietà. Riflessioni in merito alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte Costituzionale,
ibidem; S. Bartole, Collaborazione e sussidiarietà nel nuovo ordine regionale, ibidem; L.
Violini, I confini della sussidiarietà: potestà legislativa “concorrente”, leale collaborazione e
strict scrutiny, ibidem; A. Moscarini, Titolo V e prove di sussidiarietà: la sentenza n. 303/2003
della Corte Costituzionale, ibidem.
1066
che consente l’attrazione allo Stato, per sussidiarietà e adeguatezza, delle funzioni amministrative e delle correlative funzioni legislative, come
si è già avuto modo di precisare. La disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata
com’è ad assicurare l’immediato svolgersi di funzioni amministrative
che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettività” 37.
In altri termini, con la sent. n. 303 del 2003 si dichiara l’inammissibilità del sistema delle norme cedevoli 38 che, conseguentemente alla riforma del 2001, non potranno più essere utilizzate dallo Stato in materie
di legislazione concorrente e, a maggior ragione, in materie di competenza esclusiva delle Regioni. L’istituto della cedevolezza sopravviverebbe,
quale deroga al suddetto principio, unicamente negli straordinari casi in
cui lo Stato attragga a sé funzioni amministrative per il soddisfacimento
di esigenze unitarie (“che non possono essere esposte al rischio dell’ineffettività”): solo in tali casi è possibile che esso intervenga, con norme di
dettaglio cedevoli, nell’ambito della legislazione concorrente, in attesa
delle nuove leggi regionali.
I primi commenti a questa sentenza hanno considerato poco convincente il fatto che la Corte da un lato dichiari inammissibile il sistema delle norme cedevoli, dall’altro lo salvi ove le funzioni amministrative siano allocate al centro. Qualcuno sostiene che, molto più facilmente, sarebbe stato sufficiente riaffermare il principio per cui, in presenza di esigenze unitarie, lo Stato, anche nelle materie di competenza concorrente o
esclusiva delle Regioni, avrebbe dettato – accanto a norme di principio –
una disciplina di dettaglio suppletiva e cedevole, che sarebbe venuta meno al sopraggiungere della nuova legislazione regionale 39. In realtà, è beIl corsivo è nostro. Sul punto, cfr. E. D’Arpe, La Consulta censura le norme statali
“cedevoli” ponendo in crisi il sistema: un nuovo aspetto della sentenza 303/2003, nel Forum
di «Quad. cost.».
38
V. anche sent. n. 270/2005, ove la Corte, con riguardo alle norme impugnate, afferma
che “esse sarebbero illegittime ‘in quanto dettagliate’, né esse potrebbero considerarsi legittime ‘in virtù di una loro ipotetica cedevolezza’, in quanto questa Corte, con le sentenze n.
303 del 2003 e n. 282 del 2002, avrebbe statuito l’inammissibilità di norme statali di dettaglio
cedevoli, «salvo il caso che ciò sia necessario per assicurare l’immediato svolgersi di funzioni
amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono
essere esposte al rischio della ineffettività»”.
39
Sul punto la Corte si limita a dire che “il principio di cedevolezza affermato dall’impugnato art. 1, comma 5, opera a condizione che tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome interessate sia stata raggiunta l’intesa di cui al comma 1, nella quale si siano concordemente qualificate le opere in cui l’interesse regionale concorre con il preminente interesse nazio37
1067
ne tenere ben presente che tutte le volte in cui si presentino esigenze unitarie, il meccanismo della cedevolezza non può essere invocato; sarebbe
infatti impensabile trovare una disciplina differenziata Regione per Regione, ove l’ordinamento manifesti in determinati settori la necessità di
uniformità normativa, al fine di preservare il funzionamento dell’intero
sistema. “Infatti, delle due l’una: o sussiste quella necessità di esercizio
unitario che giustifica l’attrazione al centro della funzione amministrativa, e allora anche la disciplina normativa dovrebbe – per le ragioni sopra
dette – presentare carattere di unitarietà; o tale necessità non sussiste, ed,
in tal caso, la stessa allocazione a livello statale dell’amministrazione dovrebbe ritenersi esclusa” 40.
Il ragionamento del giudice delle leggi, come emerge da quanto sin
ora detto, ruota volutamente tutto attorno agli artt. 117 e 118 della Costituzione e questo ha consentito alla Corte di evitare di addentrarsi nel
‘campo minato’ dell’art. 120, comma 2 della Costituzione. In proposito,
parte della dottrina – intravvedendo nell’art. 120, comma 2 una possibile clausola di flessibilità del sistema – ha avanzato, immediatamente dopo la riforma, la tesi secondo cui il Governo avrebbe potuto esercitare un
potere sostitutivo nei confronti delle Regioni non soltanto nel caso di
inerzia nell’esercizio di funzioni amministrative, ma anche nell’esercizio
delle funzioni legislative loro attribuite 41.
Proprio per evitare ogni equivoco, la Corte aggira il problema, distinguendo nettamente tra funzioni amministrative che, per ragioni di
sussidiarietà, lo Stato può assumere e regolare con legge, e funzioni che
spettano alle Regioni e per le quali lo Stato, non ricorrendo i presupposti
per la loro assunzione in sussidiarietà, eserciti poteri in via sostitutiva.
Infatti in quest’ultimo caso, si dice nella 303 del 2003, “l’inerzia della
Regione è il presupposto che legittima la sostituzione statale nell’esercizio di una competenza che è e resta propria dell’ente sostituito”.
nale e si sia stabilito in che termini e secondo quali modalità le Regioni e le Province autonome partecipano alle attività di progettazione, affidamento dei lavori e monitoraggio”.
40
A. D’Atena, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica
della Corte Costituzionale, in «Giur. Cost.», Milano 2003, 2779 ss.
41
Interessante è sul punto il contributo di C. Mainardis, Poteri sostitutivi e autonomia
amministrativa regionale, Milano 2007, 164 ss., che però conclude nel senso dell’impossibilità di configurare poteri sostitutivi legislativi. A quest’ultima possibilità, invece, ha fatto cenno
M. Massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 452 ss. Considerazioni più approfondite saranno svolte più avanti (v. infra). Interessante l’analisi comparatistica in
materia di V. Tamburrini, Il potere sostitutivo in Germania, Spagna, Austria e Belgio, in «Amministrare 2004», 457 ss.
1068
4. Un tentativo di dare fondamento costituzionale alla cedevolezza normativa: l’intervento sostitutivo governativo ex art. 120, comma 2, Cost.
4.1. Dopo aver passato in rassegna le principali pronunce della Corte Costituzionale in materia di cedevolezza, mi pare di poter trarre come
conclusione quella della generale incostituzionalità del sistema delle norme cedevoli: il che, certamente, pone non pochi problemi, soprattutto se
si pensa alla imprescindibilità di meccanismi di snodo nel sistema delle
fonti, in particolar modo nei casi in cui vi siano interessi unitari che non
potrebbero trovare piena tutela se non per via di un intervento statale.
Proprio a causa della necessità di individuare nel Titolo V un elemento di flessibilità che, sul piano delle attribuzioni legislative, sostituisca il meccanismo della cedevolezza, può essere utile considerare una
delle più complesse – e lacunose – norme introdotte dalla l. cost. n.
3/2001, vale a dire l’art. 120, comma 2 e, in particolare, il caso della sostituzione del Governo alle Regioni per “la tutela dell’unità giuridica o
dell’unità economica” della Repubblica 42. Questo mi sembra oggi il solo modo per giustificare l’intervento dello Stato (rectius, del Governo) in
ambiti riservati a un legislatore regionale inerte o, peggio ancora, inadempiente. Del resto, a ben rifletterci, che cos’è la sostituzione legislativa se non un modo forse più elegante per definire ciò che fino ad ora è
stato chiamato sistema delle norme cedevoli? Si cercherà, allora, di radicare e circoscrivere la complessa tematica della cedevolezza normativa
entro i confini dell’art. 120, comma 2, della Costituzione 43.
4.2. Volendo procedere con ordine, bisogna risalire al 1972 44, quando la Corte, per la prima volta, ha lamentato l’assenza nel nostro ordinamento costituzionale di poteri sostitutivi statali nei confronti delle Regioni che erano rimaste inerti rispetto all’attuazione di alcuni obblighi posti
dall’ordinamento comunitario 45.
Cfr., tra gli altri, L. Cuocolo, Gli interessi nazionali cit., 430 ss.
Cfr. P. Caretti, Rapporti tra Stato e Regioni: funzione di indirizzo e coordinamento e
potere sostitutivo, in «Le Regioni» 2002, 1327. Cfr. anche G. Fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie, in «Rass. parlamentare 2006», n. 4, 1020.
44
Cfr. M. P. Iadicicco, La disciplina costituzionale della sostituzione statale, in “Il nuovo regionalismo nel sistema delle fonti” a cura di F. Pinto, Torino 2004, 229 ss.
45
V. Corte cost., sent. n. 142/1972. La Corte, precisamente, afferma che “ogni distribuzione dei poteri di applicazione delle norme comunitarie che si effettui a favore di enti minori
diversi dallo Stato contraente […] presuppone il possesso da parte del medesimo degli strumenti idonei a realizzare tale adempimento anche di fronte all’inerzia della Regione che fosse
investita della competenza dell’attuazione. Strumenti di tal genere fanno difetto nel nostro or42
43
1069
Dando seguito al ragionamento del giudice delle leggi, le l. n. 153 46
e n. 382 47 del 1975 hanno realizzato i primi esempi di attribuzione allo
Stato, in via generale, di poteri sostitutivi nella devoluzione di funzioni
statali ad altri livelli di governo 48. Allo stesso modo, si trova traccia del
potere di sostituzione – sebbene circoscritto alle sole funzioni amministrative – nella l. n. 400 del 1988 49, nonché, sempre prima della riforma
del Titolo V, all’art. 5 del d.lgs. n. 112/1998 (rubricato, per l’appunto,
“poteri sostitutivi”) 50 che, in caso di inadempimento, da parte delle Regioni, degli obblighi comunitari o nei casi in cui vi sia il pericolo di pregiudizi agli interessi nazionali, assegna alle stesse un termine per adempiere, decorso il quale sarà un commissario ad acta a provvedere in via
sostitutiva. Una norma pressoché identica è presente nel Testo Unico sulle autonomie locali del 2000 51.
Le cose sono cambiate con la riforma costituzionale del 2001 che, da
un lato ha segnato il venir meno del limite dell’interesse nazionale (per
lo meno quale limite espresso 52), dall’altro ha tipizzato all’art. 120, comma 2, Cost., alcune fattispecie di indubbio rilievo costituzionale che de-
dinamento […]. Pertanto, fino a quando tale situazione non venga modificata con il ricorso alle forme a ciò necessarie, il solo mezzo utilizzabile per fare concorrere le Regioni all’attuazione dei regolamenti comunitari è quello della delegazione di poteri in materia di strutture agrarie, che appunto offre il rimedio della sostituibilità del delegante in caso di inadempimento del
delegato”.
46
V. l. 9 maggio 1975, n. 153, recante “Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell’agricoltura”.
47
V. l. 22 luglio 1975, n. 382, recante “Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione”.
48
Cfr. B. Caravita, I «poteri sostitutivi» dopo le sentenze della Corte Costituzionale, in
Politica del diritto, 1987, 315.
49
V. art. 2, comma 3, lett. f), l. 23 agosto 1988, n. 400, ove si dispone che sono sottoposte alla deliberazioni del Consiglio dei Ministri “le proposte che il ministro competente formula per disporre il compimento degli atti in sostituzione dell’amministrazione regionale, in caso di persistente inattività degli organi nell’esercizio delle funzioni delegate, qualora tali attività comportino adempimenti da svolgersi entro i termini perentori previsti dalla legge o risultanti dalla natura degli interventi”.
50
V. art. 5, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo
1997, n. 59).
51
V. art. 137, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
52
Cfr. L. Cuocolo, Gli interessi nazionali tra declino della funzione di indirizzo e coordinamento e potere sostitutivo del Governo cit., 437. L’A. ritiene che l’interesse nazionale si
manifesti oggi in forme nuove rispetto al passato, come, ad esempio, la tutela dell’unità giuridica ed economica di cui all’art. 120, comma 2, della Costituzione.
1070
vono essere necessariamente tutelate per preservare un certo grado di
uniformità giuridica, economica e sociale dell’ordinamento, pur nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione 53: ecco allora i casi del mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza pubblica, di tutela dell’unità giuridica ed economica, di tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali 54.
In attuazione dell’art. 120, comma 2, Cost., è intervenuto l’art. 8 della l. n. 131/2003, disponendo al comma 1 che “Nei casi e con le modalità previsti dall’art. 120, secondo comma, della Costituzione, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente per
materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli enti locali, assegna
all’ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari; decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei Ministri, sentito l’organo interessato, su proposta del Ministro competente o
del Presidente del Consiglio dei ministri, adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario” 55.
Nei successivi commi sono invece puntualmente disciplinate le modalità procedimentali di esercizio del potere sostitutivo diretto a porre rimedio alla violazione della normativa comunitaria (comma 2), di quello
riguardante Comuni, Province e Città metropolitane (comma 3) e di quello di natura preventiva, da disporre “nei casi di assoluta urgenza, qualora
l’intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo
le finalità tutelate dall’articolo 120 della Costituzione”.
Le tipologie di sostituzione previste dai commi 1 e 4 riprendono
chiaramente il modello generale già descritto dalla Corte Costituzionale
con sent. n. 177 del 1988, vale a dire il caso in cui lo Stato intervenga in
via amministrativa a fronte di un inadempimento regionale in relazione a
un atto dovuto, purché siano rispettati determinati presupposti 56:
a) deve anzitutto trattarsi di attività regionali prive di discrezionalità
nell’an, ossia attività che la Regione ha il dovere di compiere, come ad
esempio quelle sottoposte per legge a termini perentori, o quelle che, ove
Cfr. G. Fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie cit., 1027 ss.; R.
Cameli, Poteri sostitutivi del governo e autonomia costituzionale degli enti territoriali (in
margine all’art. 120 Cost.) in «Giur. cost.» 2004, 5, 3390.
54
Non mi soffermerò sull’analisi dei presupposti legittimanti l’esercizio di poteri sostitutivi ex art. 120, comma 2, Cost. In proposito, v. G. Fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie cit., 1031 ss. V. anche C. Mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi statali, autonomie speciali (nota a C. Cost., 8 luglio 2004, n. 236), in «Le Regioni», 2005, 198.
55
Il corsivo è nostro.
56
Cfr. R. Cameli, Poteri sostitutivi del governo, cit., 3410-3411.
53
1071
non realizzate, possano pregiudicare il soddisfacimento di interessi essenziali affidati alla responsabilità statale;
b) proprio in quanto l’intervento sostitutivo è per sua natura eccezionale, allo scopo di non comprimere eccessivamente l’autonomia degli
enti territoriali, occorre una previsione legislativa che ne fissi i presupposti sostanziali e procedurali;
c) al fine di assicurare l’unitarietà dell’indirizzo politico, il potere
sostitutivo può essere esercitato soltanto dal governo dello Stato;
d) infine, “l’esercizio del controllo sostitutivo nei rapporti tra Stato e
regioni (o province autonome) dev’esser assistito da garanzie, sostanziali e procedurali” quali, ad esempio, la leale collaborazione e la necessità
di garantire agli enti sostituiti una adeguata partecipazione al procedimento.
Alla luce delle considerazioni sino ad ora svolte e sulla base della
lettura delle norme fino ad ora citate in materia di poteri sostitutivi, vale
a dire gli artt. 5 del d.lgs. n. 112/1998, l’art. 120, comma 2, Cost. e l’art.
8 della l. n. 131/2003, possiamo desumere l’esistenza di – almeno – tre
tipologie di poteri sostitutivi 57: a) poteri sostitutivi introdotti dalla legge
statale e regionale in rapporto a funzioni amministrative delegate. Qui il
soggetto delegante conserva la titolarità della funzione, intervenendo nel
caso di inerzia del delegatario a tutela di interessi pubblici propri; b) poteri sostitutivi ordinari previsti dalla legge relativi a funzioni amministrative attribuite. Qui l’interesse tutelato non è quello proprio di chi esercita il potere, ma quello generale a che la funzione sia svolta effettivamente; c) poteri sostitutivi straordinari del Governo, riguardanti il compimento di atti normativi (dunque non solo amministrativi), esercitabili nei
confronti di Regioni ed altri enti locali, in relazione a funzioni amministrative delegate e attribuite. Qui l’interesse che viene in gioco è quello
alla salvaguardia di interessi unitari ritenuti essenziali per il funzionamento del sistema.
4.3. Proprio partendo da quest’ultimo punto, chiediamoci se sia possibile configurare – sulla base dell’art. 120, comma 2, della Costituzione
– l’ipotesi della sostituzione legislativa (dunque non solo amministrativa) dello Stato alle Regioni.
La dottrina che ha studiato il tema dei poteri sostitutivi ha in gran
parte negato che essi potessero riguardare l’ambito legislativo 58, affer57
Cfr. F. Merloni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regionali, in «Le Regioni», 2004, 1080 ss.
58
Cfr. ad esempio R. Cameli, Poteri sostitutivi del governo cit., 3396-3397; ancora, C.
1072
mando che in tal modo si paralizzerebbe totalmente l’autonomia regionale. In particolare, si è messa in evidenza la differenza – sulla quale in questa sede non ci soffermeremo – tra l’art. 117, comma 5 59 e l’art. 120,
comma 2 della Costituzione, sottolineando – tra le altre cose – che solo
la prima delle due norme si riferisce al Parlamento (e non al Governo, come il 120, comma 2). Ragion per cui la sostituzione ex art. 117, comma
5 avrebbe carattere eminentemente normativo, mentre quella ex art. 120,
comma 2 avrebbe invece natura spiccatamente amministrativa.
Sul punto la Corte Costituzionale non ha mai preso una posizione
abbastanza netta e, come si è visto anche a proposito della sentenza n.
303/2003, spesso e volentieri ha preferito aggirare il problema.
Ad esempio, con sentenza n. 43/2004 essa, dopo aver affermato la
necessità che i poteri sostitutivi trovino il loro fondamento in Costituzione, ha espressamente riconosciuto due tipi di sostituzione in via amministrativa 60:
a) sostituzione ordinaria, a tutela di interessi unitari: qui è la legge
statale o regionale a realizzare la concreta allocazione delle funzioni in
virtù del riparto di competenze delineato dalla Carta costituzionale;
b) sostituzione straordinaria, a tutela di interessi essenziali sotto la
responsabilità dello Stato: qui interviene la previsione di cui all’art. 120,
comma 2, Cost., manifestandosi per l’appunto delle “emergenze istituzionali di particolare gravità, che comportano rischi di compromissione
relativi ad interessi essenziali della Repubblica”. La stessa Corte definisce questo tipo di intervento sostitutivo come “straordinario” – perché
appunto volto a tutelare interessi essenziali per la Repubblica – e “aggiuntivo” – poiché si affianca alle ipotesi ordinarie di sostituzione 61.
Mainardis, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, in «Le Regioni» 2001, 1381 ss.; F. Pizzetti, I nuovi elementi unificanti del sistema italiano: il posto della Costituzione e delle leggi costituzionali ed il ruolo dei vincoli comunitari e degli obblighi internazionali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Il nuovo Titolo V
della parte II della Costituzione. Primi problemi della sua attuazione, Milano, 2002, 191 ss.
59
L’art. 117, comma 5, Cost. così dispone: “Le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di
inadempienza”.
60
Cfr. S. Parisi, Poteri sostitutivi e sussidiarietà: la tensione tra unità e autonomie, in
Nuove autonomie 2006, 840 ss.; T. Groppi, Nota alla sentenza n. 43 del 2004, nel Forum di
«Quad. cost.»; F. Merloni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regionali cit., 1075.
61
Cfr. C. Mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi statali, autonomie speciali cit., 198.
1073
Poco tempo dopo il giudice delle leggi ha ripreso la questione, ribadendo l’importanza dei poteri sostitutivi quali meccanismi di flessibilità
del nostro sistema costituzionale. Come sostiene la Corte 62, “si evidenzia insomma, con tratti di assoluta chiarezza − si pensi alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che
forma oggetto della competenza legislativa di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera m) −, un legame indissolubile fra il conferimento di una
attribuzione e la previsione di un intervento sostitutivo diretto a garantire che la finalità cui essa è preordinata non sacrifichi l’unità e la coerenza dell’ordinamento. La previsione del potere sostitutivo fa dunque sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di interessi unitari”. Anche tali affermazioni lasciano pensare alla configurabilità della sostituzione legislativa ex art. 120 Cost., soprattutto se si considera che, come ha modo di sottolineare la stessa Corte, “tale disposizione è posta a presidio di fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza, legalità che il mancato o l’illegittimo esercizio delle
competenze attribuite, nei precedenti artt. 117 e 118, agli enti sub-statali, potrebbe lasciare insoddisfatte o pregiudicare gravemente” 63. I giudici di Palazzo della Consulta, invocando l’art. 117 Cost., sembrerebbero
dunque fare riferimento a competenze non solo amministrative, ma anche legislative, ammettendone implicitamente la loro riconducibilità
nell’alveo dell’art. 120, comma 2, della Costituzione.
4.4. Pur tra i tanti dubbi avanzati dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza costituzionale – che ha soltanto lanciato qualche segnale nel
senso dell’ammissibilità della sostituzione legislativa dello Stato alle Regioni – si potrebbe trovare il bandolo della matassa nella “tutela dell’unità giuridica ed economica” della Repubblica (di cui appunto all’art. 120,
comma 2). Tale elemento di flessibilità – che ovviamente dovrà essere
ben delineato e circoscritto dalla Corte Costituzionale – ben si presterebbe ai casi in cui il legislatore regionale fosse inerte, o peggio ancora inadempiente, rispetto alla realizzazione di alcuni interessi di sistema costituzionalmente rilevanti64, a tal punto da fare dell’art. 120, comma 2 una
V. Corte cost., sent. n. 236/2004.
Cfr. C. Mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi statali, autonomie speciali cit.,
200; M. Barbero, La Corte Costituzionale interviene sulla legge “La Loggia”, nel Forum di
«Quad. cost.»; R. Dickmann, Note sul potere sostitutivo nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in www.federalismi.it
64
Cfr. G.M. Salerno, I poteri sostitutivi del governo nella legge n. 131 del 2003, in
Aa.Vv., Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, 1987.
62
63
1074
norma – anzi, la norma – di chiusura dell’ordinamento, precisazione e
garanzia del principio unitario di cui all’art. 5 della Costituzione 65.
Per unità giuridica possiamo intendere la necessità di evitare che
un’omissione da parte delle Regioni o degli altri enti locali possa mettere
a rischio la certezza del diritto o, più in generale, possa paralizzare il funzionamento dell’intero ordinamento giuridico. L’unità economica, invece, mira a impedire situazioni di squilibrio negli scambi economici, nonché si prefigge il fine di intervenire nei casi in cui l’inerzia o l’inadempimento regionale possa recare pregiudizio alla realizzazione degli obiettivi di riforma economica e sociale, che investono l’intera collettività.
La clausola suindicata, avvalorata dalla necessità della “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” 66, riprende in tutto e per tutto la formulazione che la Legge fondamentale di
Bonn utilizza all’art. 72 per dare fondamento alla konkurrierende Gesetzgebung, cioè quel meccanismo di sovrapposizione legislativa progressiva – ed eventuale – del Bund nei confronti dei Länder, ricorrente a determinate condizioni nel sistema federale tedesco 67. Qualcosa del genere
stava per essere realizzato anche nel nostro ordinamento, ma il referendum oppositivo del 2006 ha respinto la legge di revisione costituzionale
che, tra le altre norme, modificava anche l’art. 120, comma 2 68. Se tale
riforma avesse superato positivamente il referendum – prescindendo in
questa sede da ogni tipo di giudizio di merito sul contenuto complessivo
della suddetta riforma, che non riguarda il tema trattato – probabilmente
diversi nodi sarebbero venuti al pettine: infatti la riformulata disciplina
65
Interessanti sono le osservazioni in materia di “unità giuridica ed economica” di F.
Biondi, I poteri sostitutivi, in Aa.Vv., L’incerto federalismo, a cura di N. Zanon e A. Concaro,
Milano, 2005, 109 ss.
66
Sui livelli essenziali quali specificazione dell’unità giuridica ed economica nell’ordinamento, v. E. Balboni, I livelli essenziali e i procedimenti per la loro determinazione, in «Le
Regioni», 2003, 1183 ss. Sempre sui livelli essenziali, cfr. L. Cuocolo, I livelli essenziali delle prestazioni: spunti ricostruttivi ed esigenze di attuazione, in «Dir. econ.», 2003, fasc. 2-3,
389 ss.; Id., I livelli essenziali: allegro, non troppo, in «Giur. cost.», 2006, fasc. 2, 1264 ss.
67
Cfr. C. Mainardis, Art. 120, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco,
A. Celotto, M. Olivetti, Torino 2006, 2397.
68
La nuova versione dell’art. 120, comma 2, disponeva: “Lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle Città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell’esercizio delle funzioni loro attribuite dagli artt. 117 e 118 nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o
della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica,
ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali e nel rispetto dei principi di leale collaborazione e di sussidiarietà”.
1075
da un lato aveva sostituito il termine “Governo” con “Stato”; dall’altro
aveva genericamente – e opportunamente – previsto una sostituzione non
nei confronti degli “organi delle Regioni…”, ma nei confronti delle autonomie territoriali in generale, pur facendo riferimento alle funzioni loro
attribuite ex artt. 117 e 118 Cost.; infine, veniva meno la riserva di legge
oggi presente all’art. 120, comma 2, in base alla quale è la legge a dover
stabilire i meccanismi procedurali volti a far sì che la sostituzione si eserciti sempre “nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di
leale collaborazione”. Proprio la presenza di una riserva in tale ambito è
un argomento ulteriore a sostegno della impossibilità di configurare una
sostituzione di tipo legislativo poiché, se le procedure relative alla sostituzione devono essere disciplinate con legge, sembra logico che queste
non possono che riferirsi agli atti amministrativi. Ecco allora che, ove
fossero intervenuti i suddetti cambiamenti, ogni dubbio circa l’ammissibilità della sostituzione legislativa sarebbe stato superato.
Conclusione
Posto che, come sopra detto, la modifica dell’art. 120 Cost. non si è
realizzata, proviamo a fornire qualche risposta rispetto ai tanti dubbi
avanzati dalla dottrina in materia di poteri sostitutivi. La soluzione, già
anticipata all’inizio del presente lavoro, consiste nel considerare la sostituzione legislativa come espressione del sistema delle norme cedevoli 69,
ossia svolgimento di quel meccanismo di sovrapposizione progressiva
dello Stato alle Regioni e agli enti locali che non si adeguino al mutamento dei principi fondamentali delle materie, quando la loro inerziainadempimento possa condurre a un pericolo per l’unità giuridica o per
l’unità economica e in particolare per la “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
Ovvio che qui sorge immediatamente un altro problema, dovuto al
fatto che l’art. 120, comma 2 parla di “Governo” e non di “Stato”. Probabilmente, ogni perplessità sul punto potrebbe essere superata se si pensa
che il Governo può avvalersi, sempre a determinate condizioni, dello
strumento della decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost. Del resto, l’elenco di materie contenuto nell’art. 120, comma 2 Cost. – e in particolare,
Come dice R. Bin, voce Legge regionale, in Dig. disc. pubbl., vol IX, Torino 1994,
191: “benché il potere sostitutivo agisca, almeno in linea di principio, in via amministrativa, vi
è un corrispettivo sul piano degli atti legislativi, l’emanazione di norme statali di dettaglio con
valore suppletivo”.
69
1076
come più volte ripetuto, la necessità di tutelare l’unità giuridica ed economica – ben si presterebbe ai “casi straordinari di necessità e urgenza”
indicati dall’art. 77 70. Sarebbe questo un particolare tipo di decreto legge, atipico rispetto a quello configurato dall’art. 77 Cost., perché prefigurerebbe tassativamente le speciali forme di necessità e urgenza cui subordinarne l’adozione. Ma come risolvere il problema della riserva di legge
prevista dall’art. 120, comma 2? In realtà, la stessa Corte Costituzionale,
con sent. n. 71 del 2004, ha ammesso che la legge che prevede i presupposti sostanziali per l’esercizio del potere sostitutivo possa rinviare ad
un’altra fonte di rango primario per l’individuazione delle procedure idonee a realizzare la sostituzione medesima. Nel nostro caso, il già citato
art. 8 della l. n. 131/2003 – rubricato “Attuazione dell’articolo 120 della
Costituzione sul potere sostitutivo” – proprio perché stabilisce i meccanismi procedurali di cui sopra, ben può essere elevato al rango di parametro interposto nel giudizio di costituzionalità sugli atti di sostituzione
legislativa (come una legge delega rispetto a un decreto legislativo, o come una legge cornice rispetto alle norme di dettaglio regionali…). In tal
modo, un decreto legge sostitutivo che non rispetti le condizioni poste
dall’art. 8 suddetto, sarebbe incostituzionale per violazione, in via mediata, dell’art. 120, comma 2, Cost. 71.
Ammettere la possibilità di poteri sostitutivi in via legislativa, piuttosto che – come parte della dottrina sostiene – creare insanabili paralisi
nei sistemi regionali, al contrario significherebbe porre fine al sistema
delle norme cedevoli, escludendo in primo luogo la facoltà, per lo Stato,
di porre preventivamente delle norme di dettaglio suppletive in materie di
competenza regionale. Inoltre – e qui sarà importante il contributo della
Corte Costituzionale – la presenza dei requisiti indicati in modo tassativo dall’art. 120, comma 2 – che rende il potere sostitutivo un istituto
emergenziale ed eccezionale – dovrebbe essere un ulteriore elemento di
tutela per l’autonomia di Regioni ed enti locali. Se a tutto questo aggiungiamo la possibilità che la Corte eserciti un controllo da un lato sull’effettiva sussistenza dei presupposti che legittimino l’esercizio del potere
sostitutivo, dall’altro sulla congruenza e sulla proporzionalità delle misu-
Cfr. G. Fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie cit., 1048-1049.
Come sostiene l’A., “Si tratterebbe, dunque, non di un comune decreto-legge ma di un atto risultante dalla combinazione dell’art. 77 e dall’art. 120 Cost.”. Dello stesso avviso G.U. Rescigno, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in «Dir. pubbl.», 2002, 816-817.
71
Cfr. G. Scaccia, Il potere di sostituzione in via normativa nella legge n. 131 del 2003,
in «Le Regioni», 2004, 890.
70
1077
re adottate 72, allora non v’è dubbio sul fatto che l’art. 120, comma 2, possa essere considerato il “meccanismo di chiusura” dell’intero sistema 73.
Sarebbe questo un passo ulteriore verso lo sviluppo di un federalismo
che, rebus sic stantibus, stenta a decollare e che a tutt’oggi rimane, come
nel 2001, “malinteso” 74.
Cfr. sul punto A. Ruggeri, Riforma del titolo V e «potere estero» delle Regioni (notazioni di ordine metodico-ricostruttivo), in www.federalismi.it, 34.
73
Cfr. G. Pastori, Funzione amministrativa nel nuovo quadro costituzionale. Considerazioni introduttive, in Annuario A.I.P.D.A. 2002, Milano, 2003, 463 ss.
74
V. A. Anzon, Flessibilità dell’ordine di competenze legislative e collaborazione tra
Stato e Regioni, in «Giur. cost.», 2003, 2782.
72
1078
Davide Paris
Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale
nell’Università degli Studi di Milano
Riflessioni di diritto costituzionale
sull’obiezione di coscienza all’interruzione
volontaria della gravidanza a 30 anni dalla
legge n. 194 del 1978
Sommario: 1. Introduzione. – 2. I diversi soggetti tutelati dall’art. 9 della legge n. 194 del
1978. – 3. L’obiezione di coscienza all’intervento abortivo fra costituzionalmente necessario e costituzionalmente illegittimo. – 4. Effetto pratico e significato teorico dell’obiezione di coscienza dei soggetti che intervengono nel processo decisionale della gestante.
– 5. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Se per molti anni, almeno nel linguaggio corrente, il termine “obiezione di coscienza” è stato comunemente utilizzato per indicare il servizio civile sostitutivo dell’obbligo militare di leva 1, tale associazione
mentale in tempi più recenti sembra aver perso attualità. La sospensione
della leva obbligatoria e la conseguente istituzione del servizio militare
professionale su base volontaria (l. n. 331 del 2000) 2 hanno infatti determinato il netto ridimensionamento 3, in questo campo, di un istituto che
negli anni precedenti aveva invece dato luogo a lunghe e complesse vicende istituzionali con riferimento alla modifica della legislazione in ma-
1
A conferma del carattere scontato del riferimento dell’obiezione di coscienza all’ambito militare si noti che né la prima legge in materia (l. 15 dicembre 1972, n. 772, Norme per il
riconoscimento dell’obiezione di coscienza) né la seconda (l. 8 luglio 1998, n. 230, Nuove norme in materia di obiezione di coscienza) recavano nel titolo alcun riferimento all’obbligo militare cui si riconosceva la possibilità di obiettare, evidentemente ritenendolo superfluo.
2
Sul punto v. F. Pizzolato, Servizio militare professionale e Costituzione, in «Quad.
cost.», 2002, 771 ss.
3
Sulle «persistenti ragioni dell’obiezione di coscienza, pure nel nuovo sistema ad esercito professionale e volontario» v. V. Turchi, Obiezione di coscienza, in Dig. disc. priv., sez.
civ., Aggiornamento, Torino, 2003, 964.
1079
teria 4 e ad una assai nutrita giurisprudenza, di merito, di legittimità e costituzionale 5, oltre che ad un ampio dibattito nella società civile.
Lungi dal cadere nell’oblio in seguito alla sospensione dell’obbligo
militare, l’istituto dell’obiezione di coscienza ha invece conosciuto una
nuova vita in un ambito affatto diverso: deve infatti riconoscersi che, negli ultimi decenni, si è verificata una sorta di “migrazione” dell’obiezione di coscienza dal campo dell’organizzazione delle forze armate a quello dell’organizzazione sanitaria, che ne rappresenta ad oggi il terreno privilegiato soprattutto con riferimento agli interventi e alle scelte che concernono l’inizio e la fine della vita. Al proposito gli esempi non mancano: se l’art. 9 della l. n. 194 del 1978 rappresenta sicuramente il caso più
significativo e problematico fra le ipotesi di obiezione ad oggi espressamente riconosciute nel nostro ordinamento 6, il più recente è invece costituito dall’art. 16 della l. n. 40 del 2004 in materia di procreazione medicalmente assistita. A ciò si aggiunga che, qualora dovesse addivenirsi
ad una positiva disciplina legislativa riguardante le scelte di fine vita non
è da escludere che una nuova ipotesi di obiezione di coscienza venga introdotta nel nostro ordinamento 7, né si deve dimenticare, fra i casi di
obiezione non riconosciuta, o quantomeno non espressamente riconosciuta, il caso della c.d. “pillola del giorno dopo”, il cui rifiuto di prescrizione da parte di alcuni medici che invocavano il loro diritto all’obiezione di coscienza è in tempi recentissimi giunto all’attenzione degli organi
giudiziari 8.
4
Cfr. R. Venditti, L’obiezione di coscienza al servizio militare. Terza edizione aggiornata secondo la legge n. 230/1998, Milano, 1999, 89-90.
5
Per un quadro sintetico della giurisprudenza in materia di obiezione di coscienza al servizio militare v. rispettivamente F.E. Adami, L’obiezione di coscienza nella giurisprudenza di
legittimità e di merito, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza tra tutela della libertà e disgregazione dello Stato democratico, Milano, 1991, 113 ss., e G. Dammacco, L’obiezione di coscienza nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in R. Botta (a cura di), Diritto ecclesiastico e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 116 ss.
6
Per un quadro sintetico delle forme di obiezione di coscienza attualmente riconosciute
in Italia v. B. Randazzo, Obiezione di coscienza (dir. cost.), in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 3873 ss.
7
Prevedono l’obiezione di coscienza in relazione alle scelte di fine vita, ad esempio, i
progetti di legge C. n. 81 (primo firmatario on. Beltrandi), Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia, art. 5; C. n. 1597 (on. Binetti), Disposizioni sulle cure da
prestare alla fine della vita come forma di alleanza terapeutica, art. 8 e S. n. 994 (sen. Baio),
Disposizioni in materia di dichiarazione anticipata di trattamento, art. 8.
8
Si tratta di alcuni casi di denuncia per omissione d’atti d’ufficio; in uno dei più noti episodi di questo genere il pubblico ministero ha di recente richiesto per la seconda volta l’archiviazione, dopo che il giudice per le indagini preliminari aveva ritenuto necessarie ulteriori in-
1080
Ritornare a ragionare di obiezione di coscienza alle pratiche abortive nel trentesimo anniversario dell’entrata in vigore della legge n. 194
non è pertanto attività priva di interesse: l’ampio arco temporale trascorso, infatti, non solo non ha determinato il venir meno dell’attualità della
tematica, ma, al contrario, permettendo l’osservazione del concreto operare di questo istituto, consente di formulare delle valutazioni circa l’opportunità e la stessa legittimità costituzionale della sua introduzione che
non erano invece possibili nel momento dell’adozione della legge.
In generale, infatti, l’introduzione in una legge della possibilità di
obiettare si basa sul presupposto che la legge stessa «tolleri» l’obiezione,
la quale risulta cioè ammissibile soltanto nella misura in cui sia «comunque garantita la soddisfazione degli interessi collettivi alla cui tutela sono finalizzati gli obblighi cui si consente di derogare» 9. Ciò dipende, con
tutta evidenza, dalla portata quantitativa del fenomeno, cioè dal numero
effettivo di coloro che, avendone diritto, concretamente decideranno di
fare ricorso all’obiezione, nonché da altri fattori (quali, nel caso in esame, la loro distribuzione geografica) che ugualmente incidono sulla possibilità di concreta attuazione della legge: quanto maggiore sarà il numero degli obiettori (e quanto meno territorialmente omogenea la loro distribuzione), tanto più arduo risulterà il conseguimento degli obiettivi da
essa perseguiti.
Tali dati quantitativi, però, nel momento in cui la legge viene approvata non sono ovviamente disponibili al legislatore che al proposito non
può che fare affidamento su una valutazione di tipo prognostico. Questa
concerne non solo il profilo generale del raggiungimento o meno degli
dagini (ne dà notizia Corriere della sera, ed. di Roma, 17 novembre 2008). Sull’obiezione di
coscienza alla prescrizione e alla vendita della c.d. «pillola del giorno dopo» v. G. Di Cosimo,
I farmacisti e la «pillola del giorno dopo», in «Quad. cost.», 2001, 142 ss.; G. Boni, Il dibattito sull’immissione in commercio della c.d. pillola del giorno dopo: annotazioni su alcuni
profili giuridici della questione, in particolare sull’obiezione di coscienza, in «Dir. fam. pers.»,
2001, 677 ss.; N. Gimelli, L’obiezione di coscienza dei farmacisti: cosa ne pensa la Corte europea dei diritti dell’uomo? Il caso Pichon e altri c. Francia. Il dibattito dottrinale italiano sulla c.d. «pillola del giorno dopo», in «Dir. eccl.», 2004, 740 ss. e E. La Rosa, Il rifiuto di prescrivere la c.d. «pillola del giorno dopo» tra obiezione di coscienza e responsabilità penale,
disponibile in www.statoechiese.it e in corso di pubbl. negli Atti del Convegno Laicità e multiculturalismo: profili penali ed extrapenali, (Messina 13-14 giugno 2008).
9
V. Onida, L’obiezione di coscienza dei giudici e dei pubblici funzionari, in B. Perrone
(a cura di), Realtà e prospettive dell’obiezione di coscienza. I conflitti degli ordinamenti, Milano, 1992, 368. Il requisito della non compromissione dei fini perseguiti dalla legge è generalmente ritenuto uno dei principali presupposti per l’ammissibilità dell’obiezione di coscienza: per tutti v. F. Onida, Contributo a un inquadramento giuridico del fenomeno delle obiezioni di coscienza (alla luce della giurisprudenza statunitense), in «Dir. eccl.», 1982, I, 237 ss.
1081
obiettivi della legge nonostante l’operare dell’obiezione di coscienza, ma
anche quelli che si potrebbero chiamare i «costi» dell’obiezione di coscienza. Quand’anche infatti gli scopi della legge possano essere ugualmente conseguiti pur ammettendo l’obiezione di coscienza, inevitabilmente questa determina un qualche aggravio nell’organizzazione amministrativa che alla legge deve dare attuazione. Nel momento dell’approvazione della legge tale aggravio, che generalmente non viene interamente sopportato dagli obiettori stessi bensì è addossato su altri specifici soggetti o sulla collettività in generale, viene ritenuto giustificato dalla necessità di tutelare le ragioni di coscienza degli aspiranti obiettori: nel
bilanciare la tutela della libertà di coscienza con gli effetti che questa
produce, il legislatore, nell’esercizio del potere discrezionale che costituzionalmente gli è riconosciuto, valuta, sulla base di una stima del numero dei futuri obiettori, che la prima giustifichi i secondi. Quando però,
con il passare del tempo e il concreto operare della legge e dell’obiezione alla stessa, si riesce a disporre di dati quantitativi tali da permettere
una più precisa definizione degli effetti dell’obiezione di coscienza e dei
soggetti su cui essi ricadono, si pongono le condizioni, e la necessità, di
riconsiderare tale scelta del legislatore tanto dal punto di vista dell’opportunità quanto sotto il profilo della stessa legittimità costituzionale. In
altre parole la legittimità costituzionale, e più ancora l’opportunità, delle
leggi che prevedono l’obiezione di coscienza non sembra pienamente valutabile nel momento genetico della legge stessa, che necessita piuttosto
di un periodico controllo al fine di soppesare nuovamente, alla luce dei
dati quantitativi del fenomeno, legittimità e opportunità della scelta compiuta, per così dire «alla cieca», dal legislatore 10.
10
Cfr., con specifico riferimento all’ipotesi oggetto del presente lavoro, A. D’Atena,
Commento all’art. 9, in C.M. Bianca, F.D. Busnelli (a cura di), Commentario alla l. 22 maggio 1978, n. 194, in Le nuove leggi civili commentate, 1978, I, 1660-1661: «Ove la percentuale delle obiezioni superasse i limiti di tolleranza delle strutture il diritto alla salute delle gestanti rischierebbe di essere gravemente sacrificato. Il che – al di là di ogni considerazione di opportunità – potrebbe far seriamente dubitare della compatibilità della legge con l’art. 32 Cost.
Con riferimento a questo punto, può dirsi che l’obiezione, in quanto tale, non confligge con la
norma appena ricordata; la quale non impedisce al legislatore ordinario di contemperare le esigenze connesse alla tutela della salute con le scelte di coscienza del personale sanitario. Una
soluzione siffatta, tuttavia, in tanto potrebbe ritenersi ammissibile (alla stregua della Costituzione), in quanto risultasse concretamente idonea a garantire che il servizio – nonostante l’esonero di alcuni operatori – funzioni (e sia in grado di far fronte alla domanda di interventi abortivi). Ove ciò non accadesse (e la scelta legislativa non superasse il “collaudo” dell’esperienza), non potrebbe pertanto escludersi la possibilità di un annullamento ad opera della Corte
Costituzionale». Nello stesso senso, ma con riferimento più generale a qualsiasi ipotesi di
obiezione di coscienza, S. Mangiameli, La «libertà di coscienza» di fronte all’indeclinabilità
1082
2. I diversi soggetti tutelati dall’art. 9 della legge n. 194 del 1978
La scarsa chiarezza della delimitazione del campo soggettivo e oggettivo dell’obiezione di coscienza prevista dall’art. 9 della legge n. 194
del 1978 è stata sin da subito sottolineata dalla dottrina 11, che ha proposto differenti soluzioni per (cercare di) comporre ad unità le antinomie
che sembrano derivare dal contrasto fra la disposizione di cui al primo
comma, che consente di non prendere parte «alle procedure di cui agli
artt. 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza», e quella
contenuta nel comma 3, che «esonera il personale sanitario ed esercente
le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della
gravidanza e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento» 12.
Anche in considerazione del fatto che l’oscurità della disposizione
in esame ha dato luogo nel corso di trent’anni ad un contenzioso giudiziale piuttosto limitato ancorché non privo di interesse 13, non sembra opportuno in questa sede proporre un’ulteriore diversa lettura dell’art. 9,
quanto piuttosto sottolineare che, quale che sia la sua più corretta interpretazione, esso in ogni caso equipara nel godimento del diritto all’obiezione di coscienza due diverse categorie di soggetti che, a ben vedere, si
delle funzioni pubbliche (a proposito dell’autorizzazione del giudice tutelare all’interruzione
della gravidanza della minore), in «Giur. cost.», 1988, 539.
11
Fra i primi commenti v. in particolare A. D’Atena, Commento all’art. 9, cit., 1650 ss.,
che sottolinea l’eterogeneità dei criteri utilizzati dal legislatore per delimitare l’ambito di operatività dell’obiezione di coscienza, quali l’individuazione delle attività in positivo e in negativo, il criterio teleologico e quello cronologico. Sulla «larghezza» dei criteri che individuano
l’oggetto dell’obiezione v. anche F.C. Palazzo, Obiezione di coscienza, in Enc. dir., XXIX,
Milano, 1979, 544-545.
12
Per una discussione critica delle diverse ricostruzioni interpretative proposte v. M.
Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza, Padova, 1992, 238 ss.
13
Le pronunce specificamente concernenti l’estensione e i limiti dell’obiezione di coscienza di cui si ha notizia si riducono essenzialmente a Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, in «Giur.
it.», 1980, II, 184, con nota di V. Zagrebelsky; T.A.R. Emilia Romagna, 29 gennaio 1981, n.
30, in «Trib. Amm. Reg.», 1981, I, 961; Cons. Stato, sez. V, 10 ottobre 1983, n. 428, in «Consiglio di Stato», 1983, I, 1027; Pret. Penne, 6 dicembre 1983, in «Giur. it.», 1984, II, 314, con
nota di A. Nappi, I limiti oggettivi dell’obiezione di coscienza. Correttamente è stato notato (P.
Moneta, Obiezione di coscienza. II) Profili pratici, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, 5)
che, a differenza di quanto avvenuto con riferimento all’obbligo militare, «per l’obiezione
all’interruzione della gravidanza invece, di fronte ad un dato normativo già di per sé molto
aperto verso gli obiettori, la giurisprudenza ha preferito, per lo più, assumere un indirizzo improntato a notevole prudenza, tendente a contenere e frenare, più che a sviluppare, le indicazioni favorevoli al riconoscimento delle esigenze di coscienza contenute nel sistema legislativo».
1083
pongono in posizione significativamente differente rispetto all’intervento di soppressione del nascituro 14, cioè quell’evento la cui intollerabilità
per la coscienza giustifica la previsione dell’obiezione. Non è da escludere, del resto, che proprio nella comune sottoposizione alla medesima
disciplina di due così differenti categorie di soggetti sia da individuare la
causa di quelle difficoltà interpretative ben evidenziate dalla dottrina.
Un primo gruppo di soggetti cui è consentita l’obiezione di coscienza, in primis i medici chiamati a svolgere gli accertamenti necessari per
il rilascio del documento di cui all’art. 5, u.c., possono rifiutarsi di compiere delle attività che sono finalizzate ad accertare la possibilità della
scelta della gestante alla stregua dei parametri individuati dalla legge. Al
contrario, ad un secondo gruppo di soggetti tutelati dall’art. 9, quali gli
anestesisti e i ginecologi, è consentita la non partecipazione ad attività
che, assumendo la scelta della donna come ormai compiuta ed irrevocabile, si pongono su un piano più strettamente esecutivo della stessa. Queste due categorie, divise in maniera sufficientemente chiara dallo spartiacque della scelta della gestante 15, benché assimilate nel trattamento
giuridico, si differenziano in realtà assai significativamente tanto in considerazione dei presupposti che giustificano il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, quanto alla luce delle conseguenze che la loro scelta
obiettoria determina con riferimento all’attuazione della legge; da ciò
l’opportunità di procedere ad un esame separato delle due fattispecie.
3. L’obiezione di coscienza all’intervento abortivo fra costituzionalmente necessario e costituzionalmente illegittimo
La posizione dei soggetti direttamente chiamati a compiere l’inter-
Cfr. V. Onida, L’obiezione di coscienza dei giudici, cit., 371.
Il momento della scelta definitiva della donna è individuato quale elemento discriminante nell’individuazione delle attività «specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza» ai sensi dell’art. 9, comma 3, da Pret. Ancona, 9 ottobre
1979, cit., 189-190, il quale ritiene che «non possa essere rifiutata nessuna attività, il compimento della quale lasci ancora spazio ad una desistenza dalla volontà di effettuare l’intervento
abortivo» e considera pertanto legittimamente rifiutabili soltanto quelle attività «legate in maniera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico, all’intervento abortivo», quali «le
attività immediatamente precedenti l’anestesia, l’anestesia vera e propria e l’intervento abortivo». Nella fattispecie veniva condannato per omissione di atti d’ufficio, con l’attenuante dei
motivi di particolare valore morale, un cardiologo che, dichiarandosi obiettore di coscienza, si
era rifiutato di effettuare un elettrocardiogramma necessario per poter eseguire un intervento
abortivo in anestesia.
14
15
1084
vento interruttivo della gravidanza è caratterizzata dallo stretto nesso di
causalità che corre fra l’azione richiesta e l’evento ritenuto in coscienza
inaccettabile. Il riconoscimento del diritto di sottrarsi legittimamente a
questi obblighi risponde infatti all’esigenza di tutelare chi, ancorché in
esecuzione di un altrui legittima volontà, è chiamato ad essere il materiale esecutore di un’attività che risulta intollerabile alla sua coscienza.
Se si analizza la fattispecie da un punto di vista «soggettivo», avendo cioè riguardo al duplice profilo della percezione che l’obiettore ha
dell’azione richiestagli e del significato che egli attribuisce al suo rifiuto,
risultano certamente sussistere tutti i presupposti che rendono legittimo
il ricorso all’obiezione di coscienza.
Sotto il primo profilo, volto a verificare l’attitudine dell’atto richiesto a provocare un insostenibile turbamento della coscienza, occorre premettere che, se il riconoscimento dell’obiezione trova il suo fondamento
costituzionale nella protezione della libertà di coscienza 16, il ricorso a
questa forma particolarmente elevata di tutela si giustifica soltanto in
presenza di una situazione in cui l’eventuale adeguamento all’imperativo
espresso dalla legge e contrastante con quello che il soggetto ritrova nella propria coscienza viene vissuto come un intollerabile tradimento nei
confronti della propria persona, al punto che il soggetto finisce per non
riconoscere più se stesso e sente di non poter esprimere un giudizio di dignità circa la propria azione e, più in generale, la propria vita. Le porte
dell’obiezione di coscienza, in altri termini, sembrano potersi dischiudere soltanto di fronte ad un contrasto fra imperativo interiore e imperativo
esteriore talmente acuto da essere in grado di compromettere, se non seguito, l’identità e la dignità della persona umana 17.
16
Con la sent. n. 467 del 1991 la Corte Costituzionale ha individuato nell’art. 2 Cost. la
base per il riconoscimento della libertà di coscienza: «La protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione» (punto 4 del Considerato in
diritto). A commento di questa sentenza, con specifico riferimento al fondamento costituzionale della libertà di coscienza, v. J. Luther, I diritti della coscienza in attesa di una nuova legge, in «Giur. it.», 1992, I, 633 ss. e P. Sassi, Una nuova sentenza della Corte Costituzionale in
tema di obiezione di coscienza al servizio militare. Obiezione c.d. sopravvenuta e motivi religiosi, in «Giur. cost.», 1992, 475 ss. Per una più recente ricostruzione del dibattito dottrinale
circa la rilevanza costituzionale della coscienza v. G. Di Cosimo, Coscienza e Costituzione. I
limiti del diritto di fronte ai convincimenti interiori della persona, Milano, 2000, 67 ss.
17
La configurazione dell’obiezione quale strumento di massima tutela della libertà di coscienza e quindi la necessità di circoscrivere il suo utilizzo a quelle sole ipotesi in cui tale libertà sia intaccata nel nocciolo duro del suo contenuto sembra emergere chiaramente in particolare nella testé citata sent. n. 467 del 1991, al punto 4 del Considerato in diritto, dove si afferma che «la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in rela-
1085
Non vi è dubbio che, se si ha riguardo al significato che il soggetto
attribuisce all’atto che l’ordinamento gli impone, nel caso in esame tale
contrasto è certamente in grado, per la gravità percepita del comportamento richiesto, di ferire l’obiettore nella sua identità e dignità. Per chi
infatti considera il concepimento quale inizio della vita umana e ritiene
che a partire da quel momento il diritto alla vita del concepito non possa
essere bilanciato con il diritto alla salute della gestante ma debba piuttosto godere di una tutela in tutto uguale a quella di cui godono le persone
già nate, l’azione richiesta viene a porsi in insanabile contrasto con il
fondamentale imperativo morale del «non uccidere», configurandosi nella sua coscienza la soppressione del feto in tutto assimilabile all’uccisione di una persona umana.
Per quanto invece riguarda il profilo del significato della scelta obiettoria, vale a dire il diverso ordine assiologico espresso dal comportamento dell’obiettore rispetto alle scelte valoriali codificate nella legge, requisito indispensabile ai fini della legittimità del riconoscimento dell’obiezione di coscienza è quello che il rifiuto dell’obiettore esprima un bilanciamento di valori che, ancorchè differente da quello compiuto dal legislatore, non sia comunque incompatibile con il quadro costituzionale ma,
al contrario, trovi in esso legittimazione 18. Anche sotto questo aspetto il
zione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici
qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)» (corsivo aggiunto). Sul nesso obiezione di coscienza-identità personale v. L. Guerzoni, L’obiezione di coscienza tra politica, diritto e legislazione, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza,
cit., 194, dove l’obiezione è descritta come «elemento costitutivo di un rifondato patto politico-costituzionale, nel cui quadro l’irrinunciabile fedeltà all’obbligo politico venga a porre
sempre meno l’uomo e il cittadino in conflitto con la parte più preziosa di sé: la sua coscienza, la sua personalità, in una parola la sua stessa identità» (corsivo nel testo). In questa prospettiva sembra potersi leggere l’affermazione di uno dei più famosi obiettori di coscienza, H.D.
Thoreau, «Se io non sono io, chi lo potrà mai essere?», cit. in R. Bertolino, Obiezione di coscienza. 1) Profili teorici, in «Enc. giur. Treccani», XXI, Roma, 1990, 1.
18
Cfr. V. Turchi, Obiezione di coscienza, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIII, Torino, 1995,
526, secondo cui l’obiettore è portatore «di un valore che non è avulso dal contesto normativo; è proposto (…) come potenzialmente universale, e necessita anch’esso di un riferimento
nel comune patrimonio valoriale dell’ordinamento, in particolare a livello costituzionale». Similmente R. Bertolino, Obiezione di coscienza, cit., 2: «L’obiezione non è considerata illegale dall’ordinamento se fondi su convinzioni che, non ancora condivise, possono però essere accettate e apprezzate dai consociati, tra i quali l’obiettore vive». Similmente v. T.A.R. Puglia,
10 febbraio 1986, n. 88, in «Trib. amm. reg.», 1986, I, 1480, secondo cui l’obiettore si appella «a valori morali, non parimenti valutati dalla comune coscienza collettiva e sociale, ma pur
sempre meritevoli di considerazione e di rispetto, stante la forte tensione ideale degli stessi e
la loro profonda ispirazione umana».
1086
riconoscimento di questa forma di obiezione di coscienza appare perfettamente legittimo: nel testimoniare la necessità di una tutela assoluta della vita prenatale, il comportamento dell’obiettore si discosta certo dalla
«coscienza collettiva» di cui è espressione la legge che acconsente al bilanciamento del diritto alla vita del concepito con il diritto alla salute della madre, ma il suo bilanciamento si compie comunque fra beni giuridici
dotati di un sicuro fondamento costituzionale. In particolare, la scelta
obiettoria esprime la radicata convinzione dell’esigenza di una maggiore
tutela della vita umana prenatale 19, cioè di un bene giuridico di cui non
solo la Corte Costituzionale ha riconosciuto e ribadito il sicuro fondamento costituzionale 20, ma la cui tutela si pone anche fra le finalità cui
espressamente si ispira la stessa legge che impone gli obblighi ritenuti in
coscienza inaccettabili 21. Differente negli esiti da quello del legislatore,
il bilanciamento di cui la scelta obiettoria è espressione insiste comunque
su beni giuridici costituzionalmente tutelati e perseguiti dallo stesso legislatore.
Dal punto di vista soggettivo, in conclusione, il riconoscimento
dell’obiezione di coscienza per chi è chiamato ad eseguire l’intervento interruttivo della gravidanza non solo appare pienamente legittimo, ma, in
considerazione della gravità del comportamento cui si chiede di potersi
sottrarre, risulta forse essere una scelta costituzionalmente vincolata, per
cui dovrebbe considerarsi illegittima una sua ipotetica futura abrogazione
da parte del legislatore 22. Tale carattere costituzionalmente vincolato, del
19
Cfr. R. Bertolino, Obiezione di coscienza, cit., 2, secondo cui «l’obiettore all’aborto
reclama di testimoniare il principio-cardine di ogni società umana: il rispetto della vita del nascituro».
20
A partire dalla nota sent. n. 27 del 1975, con cui la Corte ha ritenuto che la situazione
giuridica del concepito debba collocarsi, «sia pure con le caratteristiche sue proprie», fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.
21
Il riferimento è, ovviamente, all’art. 1, comma 1, l. n. 194 del 1978: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».
22
La percezione del carattere costituzionalmente necessario dell’obiezione di coscienza
non era del resto estranea al legislatore nel momento dell’approvazione della legge, come
emerge dalla relazione di maggioranza delle Commissioni riunite Giustizia e Igiene e Sanità
della Camera, riportata in G. Galli, V. Italia, F. Realmonte, M. Spina, C.E. Traverso, L’interruzione volontaria della gravidanza, Milano, 1978, 393 ss., dove i relatori, on. Del Pennino e
G. Berlinguer, affermano che, a fronte dei timori della vanificazione degli obiettivi della legge
a causa della possibile obiezione di coscienza di gran parte del personale medico, «non era
(…) apparso ammissibile vietare il ricorso all’obiezione di coscienza in una materia che coinvolge così delicate questioni di principio e in cui l’imposizione per legge di un determinato
comportamento configurerebbe, essa sì, una violazione costituzionale» (398). Esclude invece
1087
resto, non sembra potersi escludere in ragione del fatto che il dovere di
compiere interventi abortivi non si configura come un obbligo gravante
sulla totalità dei consociati, come era nel caso del servizio militare di leva, ma più semplicemente come un onere per chi scelga una ben determinata professione. Si deve infatti considerare che, giusta l’assoluta gravità
dell’attività richiesta 23, la mancata previsione della possibilità di sottrarsi
al suo compimento determinerebbe una sostanziale preclusione dell’accesso a determinate professioni per chi non ritenga in coscienza di poter
partecipare a tali interventi. Con il che si avrebbe una palese violazione
del diritto di scelta della professione quale aspetto imprescindibile dello
sviluppo della persona umana, né varrebbe, alla luce del carattere determinante che riveste l’accesso alle strutture pubbliche per la concreta possibilità di svolgere la professione medica, sostenere che essa è comunque
che l’introduzione dell’obiezione di coscienza costituisse per il legislatore una scelta obbligata A. D’Atena, Commento all’art. 9, cit., 1651, n. 3. Il caso più interessante in materia è certamente rappresentato da Corte cost., sent. n. 196 del 1987, dove la questione di legittimità costituzionale concerneva l’illegittimità dell’art. 12 della l. n. 194 del 1978 nella parte in cui non
prevede il diritto di sollevare obiezione di coscienza per il giudice tutelare chiamato, in determinati casi, ad autorizzare la donna minorenne a decidere l’interruzione della gravidanza. Come opportunamente messo in luce dalla dottrina (cfr. E. Rossi, L’obiezione di coscienza del
giudice, in «Foro it.», 1988, I, 766), l’accoglimento della questione avrebbe determinato il venir meno del monopolio del legislatore nell’introdurre forme di obiezione di coscienza, in
quanto la Corte avrebbe riconosciuto «il potere non solo del legislatore ma anche suo proprio
di trasformare un’obiezione di coscienza contra legem in un’obiezione secundum legem», ipotesi che peraltro tale pronuncia non sembra aver astrattamente escluso (così V. Turchi, Obiezione di coscienza, cit. 1995, 532 e, problematicamente, E. Rossi, op. loc. cit.). Criticamente
su questo specifico profilo della sentenza v. S. Mangiameli, La «libertà di coscienza», cit.,
539, il quale, stante la ritenuta inesistenza di una copertura costituzionale dell’obiezione di coscienza, giunge alla conclusione che «il mancato accoglimento di forme di obiezione di coscienza non porrebbe mai una questione di costituzionalità, bensì di semplice opportunità», risolvendosi l’introduzione dell’obiezione stessa in «una scelta discrezionale rimessa al legislatore, il quale potrebbe, attraverso l’adozione di particolari forme organizzative, risolvere il
conflitto senza richiedere la rinuncia, per il singolo, alla coerenza con il proprio “foro interno”,
o alle funzioni assunte» (corsivo nel testo). Più in generale sul rapporto fra fondamento costituzionale della libertà di coscienza e discrezionalità del legislatore nel riconoscere o meno
l’obiezione v., diffusamente, A. Pugiotto, Obiezione di coscienza nel diritto costituzionale, in
«Dig. disc. pubbl.», X, Torino, 1995, 243 ss.; da ultimo, circa la possibilità che «rispetto a
comportamenti legittimamente configurati dalla legge come doverosi, la Costituzione imponga, espressamente o non, di riconoscere al singolo il diritto di obiettare ed in quali limiti» v.
anche B. Randazzo, Obiezione di coscienza, cit., 3871-3872.
23
Si noti, inoltre, che l’interruzione volontaria della gravidanza non coincide e non si
identifica con la professione nel suo complesso, ma rappresenta soltanto uno degli interventi
che possono essere richiesti a un ginecologo o a un anestesista; dal che la possibilità di distinguere fra la scelta della professione ed il rifiuto di uno specifico compito ad essa connesso.
1088
possibile in regime esclusivamente privato. Detto in altri termini, e conclusivamente, non sembra costituzionalmente legittimo disporre una seria
limitazione delle concrete possibilità di realizzazione delle proprie aspirazioni professionali a chi intende svolgere una determinata professione
medica senza essere disposto ad abdicare alle proprie radicate convinzioni di coscienza che, ancorché non coincidenti con quelle della coscienza
collettiva, risultano ugualmente meritevoli di tutela.
A porre in dubbio il carattere costituzionalmente vincolato del riconoscimento dell’obiezione di coscienza per i soggetti direttamente coinvolti nell’intervento abortivo interviene piuttosto il profilo «oggettivo» di
questa forma obiettoria, vale a dire l’analisi dei concreti effetti che essa
determina sull’attuazione della legge che la prevede. Come infatti testimoniano i dati esposti nelle relazioni ministeriali che annualmente devono essere presentate al Parlamento ai sensi dell’art. 16 della legge n. 194,
l’obiezione di coscienza di cui all’art. 9 ha avuto, fra queste categorie di
soggetti, una notevole e crescente diffusione al punto da porsi attualmente, per ginecologi e anestesisti, quale scelta maggioritaria 24. Del resto, se
in termini generali «l’obiezione, per definizione è fenomeno sociale minoritario» 25, non è affatto scontato che, quando essa sia prevista per una
specifica categoria professionale anziché per la generalità dei consociati,
le scelte di coscienza di tale categoria rispecchino quelle della coscienza
collettiva che ha espresso la legge. In generale ciò ha certamente un significato latamente politico su cui si tornerà più avanti; ugualmente però, una
simile diffusione dell’obiezione di coscienza, rappresentando una delle
principali cause delle difficoltà e dei ritardi nella garanzia del servizio
predisposto dalla legge n. 194, pone la questione della «effettività» della
legge stessa e quindi, per le ragioni più sopra esposte, della legittimità costituzionale della disposizione che prevede l’obiezione.
L’obiezione di coscienza all’intervento interruttivo della gravidanza
sembra così porsi al paradossale crocevia fra ciò che è costituzionalmente necessario e ciò che è costituzionalmente illegittimo. Dal punto di vista della gravità del comportamento richiesto e del pregiudizio che la sua
mancata previsione determinerebbe in capo all’obiettore essa risulta sot24
Cfr. la Relazione del Ministro della salute sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (legge
194/1978) dell’anno 2008, in www.ministerosalute.it, 34: «Si evince un notevole aumento generale dell’obiezione di coscienza negli ultimi anni per tutte le professionalità, con percentuali pari al 69.2% per i ginecologi (rispetto al 59.6% della precedente relazione), 50.4% per gli
anestesisti (rispetto a 46.3%) e 42.6% per il personale non medico (39% nella precedente relazione). Questi valori raggiungono percentuali particolarmente elevate nel sud Italia».
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R. Bertolino, Obiezione di coscienza, cit., 1.
1089
tratta all’area della discrezionalità del legislatore e assistita dalla garanzia dell’opzione costituzionalmente obbligata. Avendo invece riguardo
agli effetti che il suo utilizzo di fatto generalizzato produce, la stessa norma si espone al rischio di essere giudicata costituzionalmente illegittima,
contrastando «con la natura stessa di ogni ordinamento giuridico, la cui
prima esigenza è quella della vigenza e dell’effettività delle leggi» 26. Tale tensione sembra potersi ricomporre nell’affermazione del principio secondo cui, in questo caso specifico, ove sia comunque possibile raggiungere le finalità della legge, il legislatore sia tenuto a riconoscere l’obiezione di coscienza ma, ai fini di garantirne la legittimità costituzionale,
debba contestualmente introdurre misure necessarie ed adeguate al raggiungimento di tali finalità. Un rilievo centrale assumono allora, alla luce di questa impostazione, gli strumenti disponibili per assicurare che il
ricorso all’obiezione di coscienza non si risolva in una sostanziale impossibilità di dare attuazione alla legge che la prevede 27.
Tale preoccupazione non era certo estranea al legislatore del 1978 28
che, all’art. 9, comma 4, prevede, in capo agli enti ospedalieri e alle case
di cura autorizzate, l’obbligo di assicurare in ogni caso l’effettuazione
degli interventi di interruzione della gravidanza e affida alla Regione il
compito di controllare e garantire l’attuazione della legge stessa. A fronte di questi obblighi, però, assai poco la legge dice circa il come tali soggetti possano adempiervi. Nulla infatti viene previsto in merito agli strumenti giuridici utilizzabili dagli enti ospedalieri, che sono generalmente
ricorsi alle convenzioni con le case di cura autorizzate, soluzione che,
Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, cit., 189.
Si noti che la garanzia del raggiungimento degli obiettivi perseguiti dalla legge è anche l’elemento determinante che permette di superare le più radicali (e altrimenti fondate) critiche all’obiezione di coscienza, di cui si contesta in radice la compatibilità con il principio democratico (così, in via generale, G. Gemma, Brevi note critiche contro l’obiezione di coscienza, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza, cit., 319 ss., che parla di un istituto «giuridicamente irrazionale» che «consente che minoranze anche ristrette (…) vanifichino o compromettano le manifestazioni di volontà popolare, in totale contrasto con la logica democratica» (322); secondo la medesima prospettiva, con specifico riferimento all’oggetto di questo
studio, C.E. Traverso, Commento all’art. 9, in G. Galli, V. Italia, F. Realmonte, M. Spina,
C.E. Traverso, L’interruzione volontaria della gravidanza, cit., 222 ss.).
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Né ha perso di attualità se si considera che i primi mesi del 2008 hanno visto il Ministero della Salute impegnato nell’avviare il confronto con i rappresentanti delle Regioni per la
messa a punto di un’intesa per una migli