Il problema religioso in Ugo Betti

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Il problema religioso in Ugo Betti
Il problema religioso
in Ugo Betti
di Federico Doglio
Nel cinquantesimo anniversario della morte dello scrittore marchigiano
Ugo Betti (1892-1953), il Liceo classico «G. Leopardi» di Macerata ha indetto un Convegno nei giorni 9-10 maggio 2003. Hanno partecipato alcuni noti studiosi. Giorgio Pullini ha parlato su «Corruzione al Palazzo di
Giustizia e i processi morali», Federico Doglio su «Il problema religioso in
Betti», Franco Musarra su «Spettacolarità in Frana allo Scalo Nord», Renato Bertacchini su «Betti novelliere sul campo», Giovanni Antonucci su
«Fortuna e sfortuna scenica del teatro di Betti», Turi Vasile su «Il salotto
di Ugo Betti». Le sere del 10 e 11 maggio gli studenti del Liceo hanno rappresentato con successo Frana allo Scalo Nord. La rivista è lieta di presentare il testo della relazione tenuta dal Prof. Doglio.
Chi si propone di interpretare la natura dell’ispirazione religiosa
di uno scrittore si impegna in un’impresa ardua e probabilmente
arbitraria. Ardua, perché il tentativo di individuare, comprendere
e poi illustrare l’ispirazione religiosa di un autore attraverso lo
schermo delle sue opere è tentativo esposto all’eventualità di molti fraintendimenti, dovuti a personali ipotesi di lettura, ai diaframmi dei mutamenti della mentalità e del costume, alle conseguenze
indotte dalla stessa creatività dell’autore che, alimentata da quella
ispirazione, si traduce poi, attraverso un lungo processo elaborativo, nelle pagine scritte non sempre adeguate e coerenti alle sue
intenzioni.
Il tentativo di interpretare la peculiarità dell’ispirazione religiosa di un autore mostra la presunzione di poter svelare il segreto dell’anima stessa dell’uomo-scrittore e si configura quindi come un’operazione arbitraria.
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Chi siamo noi per poter comprendere a fondo l’intimo segreto
di un uomo? Uno scrittore che alcuni di noi hanno conosciuto e ammirato, Diego Fabbri, concludeva uno dei suoi drammi più intensi,
Ritratto d’ignoto, con questa battuta: «Un uomo è un mistero, un
gran mistero, un uomo è sacro, un uomo lo sa solamente Dio».
Queste riflessioni preliminari hanno la funzione di chiarire
che questo mio articolo non ha affatto la presunzione di saper risolvere «il problema religioso in Ugo Betti», bensì si propone come una ricerca di elementi, tratti dalla vita e dall’opera, che mi sono sembrati utili per intravvedere il carattere complesso, tormentato e tuttavia disponibile alla speranza, della problematica religiosa di Betti.
Quanto a me, sono della generazione di coloro che avrebbero
potuto essere figli di Betti (nato nel 1892, mentre mio padre era
dell’88) e pertanto, ripercorrendo la sua vita, mi è sembrato talvolta di essere in grado di comprendere (ricordando le confidenze di mio padre e nonostante fra loro fossero evidenti innumerevoli differenze di carattere e di cultura) certe prese di posizione
dello scrittore, certe sue reazioni nei confronti della società.
Di persona Betti lo ho incontrato solo una volta. A Milano,
nell’autunno del ’49, poco dopo aver discusso la mia tesi di laurea
con Mario Apollonio. Passavo davanti al Piccolo Teatro di Via Rovello e mi fermai a leggere il cartellone dello spettacolo annunciato, si trattava di Lotta fino all’alba, allestito dalla Compagnia del
Piccolo Teatro della Città di Roma con la regia di Orazio Costa.
Di fronte al cartellone, intento alla lettura, vidi un signore dall’aspetto distinto e severo e (grazie a una foto pubblicata in quei
giorni) riconobbi in lui Ugo Betti; allora feci timidamente un cenno di saluto col capo cui egli rispose.
Il primo mio incontro diretto con il teatro di Betti lo ebbi
qualche anno dopo, nel marzo del ’52, quando dirigevo la compagnia amatoriale degli universitari della Fuci milanese e feci effettuare la lettura drammatica de Il Giocatore (pubblicato su
Teatro-Scenario pochi mesi prima e già rappresentato a Roma da
Vittorio Gassman).
Mi aveva colpito allora il carattere del protagonista, un ambiguo avventuriero che si beffa della giustizia, fino a quando lo metterà in crisi il percepire la voce della moglie morta a causa della
sua colpevole inerzia; soprattutto mi aveva emozionato la battuta
finale rivolta a Dio dal Funzionario, metaforico personaggio.
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Infatti quel finale, come altri dei suoi drammi degli anni Cinquanta, sembrava consonante con l’aspirazione a vivere nella dimensione della testimonianza dei valori divenuti distintivi di giovani educati in ambienti cattolici, che partecipavano con ingenuo
ottimismo agli eventi della ricostruzione materiale e culturale della nazione governata dalla Democrazia Cristiana.
Ricordo questo per giustificare in parte la mia frettolosa adesione a quella corrente critica del teatro bettiano che tendeva ad
interpretare i suoi ultimi drammi come espressioni di una fede religiosa ormai ritrovata e professata.
Infatti, quando l’editore Cappelli nel 1959 mi chiese di scrivere
la prefazione a Corruzione al Palazzo di Giustizia per la sua collana
Universale, convinto dalla testimonianza resa da Betti pochi mesi
prima di morire con lo scritto Religione e Teatro, così come dalla
sua fine confortata da monsignor Giuseppe De Luca, sottolineai
naturalmente la convergenza esistente fra il finale del dramma e la
fine della sua vita.
Nelle successive occasioni in cui mi accadde di ritornare sull’opera di Betti nel ’78 1 e nell’86 2, il mutato clima culturale e spirituale nell’Italia del dopo Concilio e la caduta di tante illusioni mi hanno indotto a una lettura critica più riflessiva rispetto all’interpretazione originaria sull’itinerario salvifico della parabola bettiana. Si è
trattato pur sempre, tuttavia, di «personali ipotesi di lettura» cui accennavo all’inizio e che definivo «sostanzialmente arbitrarie» nei
confronti di qualsiasi autore.
Mi è sembrato che l’unico modo legittimo per svolgere correttamente il tema di questo saggio fosse quello di lasciare sullo sfondo del quadro le innumerevoli interpretazioni offerte dalla bibliografia critica diffusa su Betti negli ultimi cinquant’anni o di riportare, in primo piano, le sue riflessioni sulla vita e sull’arte, le sue dichiarazioni e poi, in secondo piano, alcune delle aspirazioni, negazioni, tesi, antitesi su temi religiosi enunciate dai suoi personaggi.
Il metodo scelto è dunque quello documentale, che cataloga i
testi reperiti e li presenta in successione cronologica, nel tentativo
di seguire la parabola evolutiva dei pensieri e dei sentimenti dello
scrittore.
Dico subito che non è stato un tentativo agevole per due ragioni: il naturale riserbo e pudore di Betti nei confronti della propria intimità e poi la difficoltà di acquisire testimonianze dirette;
anche una ricerca effettuata nell’Archivio Betti e in particolare
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nell’Epistolario 3 non mi ha offerto contributi significativi sul tema della problematica religiosa.
I primi dati rilevanti sull’infanzia e l’adolescenza di Betti sono
reperibili nell’album che il padre Tullio compilò assiduamente,
dalla nascita di questo suo secondogenito (1892) al novembre
1918, fine della prima guerra mondiale. Una specie di diario, in
cui il padre medico annotava puntualmente aspetti ed episodi della vita del figlio:
«Fino a una certa età ogni sera ti accompagnavo a letto; e tu, quando
era giunta l’ora, richiedevi sempre la mia compagnia. Conversavano
pacificamente come due camerati... Quando ti eri spogliato... ti rimboccavo le coperte; ascoltavo la tua preghiera della sera; poi posandoti una mano sul capo ti dicevo: “Addio, Ugone” – “Addio, papanonzio”» 4.
Il diario manifesta una tenerezza particolare verso questo figlio
prediletto, una tenerezza che diventa struggente e patetica nelle
innumerevoli lettere che gli invia al fronte e, dopo la rotta di Caporetto, ai campi di prigionia di Rastatt e di Cellelager.
Dalla lettura di questo diario uno studioso di formazione psicoanalitica potrebbe forse trarre elementi illuminanti per penetrare i segreti dell’uomo Betti. Il diario paterno infatti rivela un’ammirazione idolatrica verso questo figlio vitale e coraggioso, mentre non manifesta lo stesso trasporto verso il primogenito Emilio,
così come verso la moglie Emilia, che si dice fosse assai bella e di
forte carattere.
Le letterine di Ugo bambino, scritte in occasione del Natale,
ci confermano comunque l’educazione religiosa formalmente ricevuta, tipica di una famiglia borghese del tempo. I primi segni di
insofferenza nei confronti della pratica religiosa affiorano in alcune liriche scritte negli anni del liceo. Una poesia intitolata In chiesa contesta infatti le cupe atmosfere e i mediocri arredi dell’ambiente ecclesiastico, contrapponendogli la luminosità della natura
e la vitalità del lavoro umano.
Un’altra, intitolata Rivolta, denuncia l’assenza di Dio:
Gelido iddio che non ti mostri mai,
Che non ci guardi, e mai non ci favelli,
[...]
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La tua grande menzogna è omai finita:
Di pietra tu sei fatto. Un dio non se’
mentre, ne Il Dubbio, emerge la nostalgia per la fede dell’infanzia:
Ma ancora con un tacito desio
Si volge indietro il cor che non scordò;
O mia fede infantile, o ingenuo e pio
Fervor, che ridestare io più non so 5.
Nel corso degli anni 1912-14, quelli dei suoi ultimi corsi universitari compiuti a Parma, nel clima turbolento della crisi politica che
sfociò nel nazionalismo e nell’interventismo, Betti compose la sua
tesi in filosofia del diritto dal titolo rivelatore: Il diritto e la rivoluzione.
La tesi è caratterizzata dall’orgogliosa ambizione di valutare
criticamente l’intera storia della filosofia e del diritto, sulla base di
innumerevoli ma non sempre ben assimilate letture. In essa denuncia con enfasi quello che gli appare essere stato il tradimento
dell’autentico ideale rivoluzionario del cristianesimo. Dopo avere
ammesso che:
«il cristianesimo preservò l’evo medio dall’anarchia sociale, ricondusse
la luce nel mondo imbarbarito e fu la madre della nostra civiltà, fino a
quando è diventato un fardello inutile, che i moderni hanno tranquillamente lasciato indietro... Quando infatti il rosso Galileo squassava le
porte del Campidoglio gli uomini pensarono che un mondo veramente
nuovo stesse per nascere, dove non vi sarebbero più stati barbari e cittadini, schiavi e padroni, ricchi e poveri, sapienti e ignoranti... ma fu un
troppo breve sogno perché il cristianesimo, che era il partito dei derelitti diventa una comunità, di persone per bene... Partito in guerra contro la ricchezza, la potenza e il dispotismo, il cristianesimo diventava
potente, ricco e dispotico... dopo avere preteso libertà di coscienza e di
religione si faceva antesignano di tutte le servitù... la chiesa cattolica fu
la negazione del cristianesimo» 6.
È evidente l’autentica amarezza che prorompe da questa sua
estremistica interpretazione della storia del cristianesimo, che gli
appare come una forza salvifica che, involvendosi e degenerando
nei secoli, avrebbe tradito la sua originaria vocazione rivoluzionaria per la liberazione delle masse oppresse.
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Come è noto, questo suo atteggiamento esasperatamente critico nei confronti della società borghese (figlia di quel cristianesimo), ormai priva di ideali, lo porterà ad arruolarsi volontario, un
anno dopo la laurea, nel maggio del 1915.
L’amara esperienza della guerra e della prigionia (ritornerà in
patria solo nel ’19), che egli alleviò con la lettura dei tanti libri inviatigli dal padre, suscitarono nel suo animo alternanti sentimenti
di evasione in un mondo fiabesco e di trepida nostalgia per le piccole vicende della vita quotidiana. Sentimenti che egli esprime in
delicate composizioni poetiche, redatte in quei mesi di prigionia,
cui diede poi forma definitiva nella raccolta Il Re pensieroso, edita nel 1922.
Emerge in queste liriche il lato tenero e umanissimo di Betti,
che affiorerà talvolta in seguito nella sua produzione, anche se
sarà incessantemente messo in crisi e stravolto dall’insorgere delle
tensioni morali irrisolte che, in seguito, caratterizzeranno le sue
opere drammatiche.
Di quei primi mesi dopo il rimpatrio è uno scritto redatto per
partecipare al concorso per il ruolo di Avvocato delle Ferrovie
dello Stato e pubblicato nel ’20: Considerazioni sulla forza maggiore come limite di responsabilità nel vettore ferroviario. Attira la
nostra attenzione perché in esso Betti riflette, per la prima volta,
sul complesso problema dei rapporti fra responsabilità e colpa e
fa cadere l’accento sulla
«delicatezza multiforme dei fenomeni relativi alla personalità umana
e sull’estrema difficoltà di separare le responsabilità e le colpe individuali da quelle collettive» 7.
Sarà poi la sua esperienza di magistrato (era entrato in carriera nel
’21) a farlo riflettere quotidianamente sui tanti problemi irrisolti
della giustizia.
Negli anni Venti Betti compone i suoi primi racconti che,
pubblicati su giornali e riviste, verranno raccolti in volume e editi
col significativo titolo Caino. Nel racconto che dà titolo al volume,
due fratelli crescono insieme, ma Caino, che è sfregiato da una cicatrice e malaticcio, invidia il fratello che è bello e fortunato; invano tenta di andarsene, ma la madre egoista si oppone. Un sogno
angoscioso gli fa immaginare che anche i suoi figli saranno sempre
umiliati ed oppressi:
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«Allora Caino, essendo atterrito nel vedere che su tutta la terra non
era più filo d’erba o fronda, fuggiva, incespicava fra zolle dure come
scoglio, si rialzava con le ginocchia insanguinate, giungeva pieno d’affanno davanti a Cristo, che era vestito di rosso, e gridava: – Cristo, io
ti dico che tu non sei giusto! – Ma Cristo lo guardava, e Caino, travolto da terrore e da terribile collera, si rotolava per terra come una
biscia, si morsicava la mano, piangeva lacrime rosse come sangue. E
queste lacrime gli piovevano sul cuore» 8.
Appare qui, per la prima volta, la figura di un dio ingiusto, che discrimina fin dalla nascita le creature e che non risponde alle loro
invocazioni. Il tema della insensibilità divina nei confronti dell’umanità sofferente lo ritroviamo in due liriche scritte negli stessi
anni, con altre di carattere composito, nell’alternanza di temi favolistici, patetici e amari, nel volume dal curioso titolo Canzonette-La Morte, edito da Mondadori solo nel ’32. La prima è intitolata La terra
Dio con l’occhio cieco e fisso
guarda le tenebre e l’abisso.
Ora sorge fino a lui preghiera.
La mano di Dio cala
giù nei regni bui,
cala verso quel ronzìo.
Dio con la sua mano ghiaccia
tocca la terra come una faccia.
Riconosce mari, deserti.
Riconosce rupi, rive,
la dolcezza dell’acque vive;
ondeggiare sente le selve,
formicolare uomini e belve;
nella calda umida terra
ficca l’unghia sua superba,
riconosce ogni filo d’erba.
[...]
Ma con gli occhi ciechi e fissi
Dio sta curvo sugli abissi
ove la terra un dì ghiacciata
dalla sua mano sarà scagliata 9.
La seconda, Canto di operai, di cui riporto solo due brani:
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Dio, ci hai creato disperati, grami.
Battendo i denti sotto gli uragani
con gemiti pesi e miseria portammo,
fra truci incendi delirammo.
Vedemmo il mondo irto sanguigno
rigare le notti, piangemmo
are le notti, piangemmo
coi volti sopra il macigno!
[...]
Ed ecco, con grande sgomento
ti chiamiamo, Signore.
Signore, dacci per nutrimento
angoscia, coprici di lebbre e di terrore!
Ma tu, se odi le voci delle creature, rispondi!
Accendi per noi la stella senza tramonti!
Fa che del nostro patimento
qualcosa resti, e sia dopo di noi
come un granello di frumento;
dà a noi piccola lucerna
che ci accompagni nella notte eterna.
Ma senza posa piombava la terra.
Sugli orli, disperato brulichìo,
i popoli tendevano le mani
come per aggrapparsi...
Un buio vento rapiva l’urlìo 10.
Il motivo dell’umanità sofferente si allarga a quello, fondamentale, sul senso apparentemente inesplicabile della vita individuale e
collettiva. In un grosso fascicolo di appunti, composti fra il 1922 e
il ’23, Betti riflette sul destino:
«Noi agiamo per motivi che sfuggono a un preciso esame di cause e
di effetti. A rigor di logica, partendo dalle premesse granitiche dei nostri bisogni e dei nostri interessi, dovremmo volere ed agire in un senso; e invece vogliamo ed agiamo nel senso opposto [...].
Ci troviamo in presenza, dunque, di moventi che non derivano
da un bisogno, o un interesse, o un istinto individuale, né da un bisogno o un interesse o un istinto panico; anzi, spesso contraddicono a
tutti questi bisogni e istinti [...].
I deterministi [...] si circoscrivono rigidamente entro rapporti di
casualità prettamente materiali [...]. Non tengono conto di rapporti
che possiamo definire spirituali perché si muovono in senso esatta-
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mente contrario al movimento della materia: per es. come spiegano il
fatto dei “cercatori di dolore” (inteso in senso lato) come siamo noi
tutti. Come spiegano questo comando inteso da quasi tutti gli spiriti
non sordi: il cercare il combattimento, il movimento, la conquista, sapendo bene, perché ce lo dice l’istinto e la ragione, che tutto ciò è dolore? Come spiegano i “sacrifici per dopo la morte” [...]? [...].
Questo comando, che ci impone di far cose contrarie al nostro
interesse, è segno e vincolo tipicamente religioso [...]. Il destino è religione. Il destino è Dio».
Il fato è dunque per Betti la forza che, lungi dall’umiliare la persona umana, la esalta, rivelandone, contro tutte le opposte «forze
adeguatrici» della vita pratica, la vocazione profonda ad «allontanarsi dalla condotta più vantaggiosa e più agevole per realizzarsi
[...]».
E appunto da questo «movimento verso la disformità nasce il
conflitto tragico fra la giusta legge del proprio destino e la giusta
legge del destino altrui» 11.
Betti non si limita quindi a stigmatizzare l’incomprensibilità
della vita, ma la sua riflessione tende a interpretare le cause
profonde dei contrasti interiori, come pure dei conflitti fra gli individui.
Contrasti e conflitti che trovano forma esplicita nei testi
drammatici. In quei mesi, infatti, sta lavorando al suo primo
dramma La Padrona, completato nel 1924, rappresentato nel ’27,
ma pubblicato solo nel ’29. Su questo testo che, come è noto, pur
con un linguaggio verista viene rappresentato simbolicamente il
contrasto fra «la vita e la morte», titolo della prima stesura del
dramma, si è esercitata lungamente la critica teatrale. Qui si riportano solo alcuni passi della ben nota Prefazione, premessa alla
pubblicazione del ’29:
«Ogni sera ascoltando questo silenzio, che lentamente si sparge per le
povere case qua intorno, mi si stringe un po’ il cuore. So bene quale
pesante carico di fatica e di pena è stata la giornata di costoro, che ora
finalmente chiudono gli occhi nelle piccole stanze buie; so bene che
nemmeno la mia giornata è stata leggera; e non posso vincere un certo scoramento.
[...] Siamo tutti povere creature inquiete, e vorremmo almeno capirlo, a che cosa serve questa enorme, bizzarra incongruità fra quello
che è la nostra esistenza e quello che essa dovrebbe essere secondo
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l’animo che ci fu dato: a che cosa serve questa meravigliosa tranquilla iniquità che è la vita. Creature inquiete che un solo segno distingue
dell’indifferenza del tutto: quest’ansia appunto che è in noi soli verso
qualcosa che si può chiamare armonia, che si può chiamare giustizia;
e questo senso oscuro, che è in noi soli, d’essere invece premuti da
una condanna ingiusta, che sta non tanto fuori quanto dentro ad
ognuno, che fa nascere con terrificante ed uguale naturalezza, in
qualcuno di noi la gioia e il bene, in qualche altro il dolore ed il male,
che fa gli uni come corde armoniose d’una vasta arpa, gli altri striduli ed amari in eterno.
[...] Se pure un interesse è lo stimolo del nostro brancolare, se
pure un bene ne è la meta, verrebbe quasi fatto di credere che codesto interesse e codesto bene appartengono a zone che stanno assai più
su o più giù della nostra fronte o dei nostri calcagni. Il meccanismo
che ci muove sembra far parte di un ingranaggio che continua, del
quale trasentiamo le vibrazioni profonde. Ed è forse quanto basta, intanto, per poter sperare che l’agghiacciante senso d’isolamento che
talvolta c’invade sia solo un capogiro della nostra intelligenza, per potere intravedere un barlume anche nelle cose più opache, per poter
volere un po’ di bene alla vita che dobbiamo vivere» 12.
Alcuni critici l’hanno interpretata come una confessione rivelatrice dell’intima inquietudine ma anche della lucida coscienza morale dello scrittore. Noi, che abbiamo seguito sin qui il filo delle sue
riflessioni, apprezziamo la coerenza di un testo che non dissimula
gli inquietanti interrogativi esistenziali che infelicitano la sua esistenza e quella di tutti, ma notiamo, al di là dell’attesa di una vaga
risposta sovra-umana, l’affiorare di una speranza, quella di «poter
voler bene alla vita».
È una speranza alimentata in quei mesi dall’incontro e dall’amicizia con la giovane Andreina Frosini, che presto si tramuterà
in un tenero rapporto amoroso (gelosamente celato ai suoi!), che
darà una momentanea svolta positiva ai suoi pensieri. È illuminante leggere la lettera scritta ad Andreina pochi mesi prima del
matrimonio, che verrà celebrato nel 1930. È una lettera seria e
concettosa, che prende lo spunto dalla concezione cattolica del libero arbitrio per sostenere che anche le situazioni affettive devono essere sostenute da un impegno volontaristico:
«Anche io ho meditato, come dici tu, e credo d’avere scoperto una verità assai semplice, ma assai importante, che prima non era abbastanza
chiara dentro di me. Sono partito da un dettame di teologia, nienteme-
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no! (guarda un po’ a quali cose va a mescolarsi questa terribile Andreina!) secondo il quale è bensì vero che la grazia (cioè il dono di credere,
cioè la fede) è un dono di Dio, che Dio può concedere e negare; ma è
anche vero che l’uomo, per averla, perché gli venga concessa, deve volerla, deve voler credere. Sembra una contraddizione, ma forse non è
(del resto tutta la religione si fonda sulla conciliazione di due principii
apparentemente contraddittori: onnipotenza del Signore e libero arbitrio dell’uomo). Ora io ho pensato che per tutti i sentimenti dell’uomo,
specialmente per i più grandi e fondamentali, e specialmente per l’amore (dal quale derivano tutti gli altri valori della vita, i quali si colorano del suo colore, ed hanno le sue stesse proporzioni, per cui un grande amore ci porta sempre grandi pensieri e ci forma sempre una grande personalità) questo principio è ugualmente vero. Non basta voler
bene, non basta permettere passivamente a qualche cosa di misterioso
in noi, che non è solo istinto, e non è solo spirito, di svegliarsi e di vivere. Non basta amare, bisogna voler amare» 13.
Nel settembre del 1930 Betti si trasferisce a Roma con la moglie.
Oramai noto come poeta e drammaturgo, non cerca facili successi, ma le pur impegnative responsabilità della professione giudiziaria non rallentano la sua attività creativa, anzi la corrotta e colpevole umanità che incontra nel suo delicato lavoro alimenta la
sua incessante ricerca sui contraddittori atteggiamenti umani, che
egli registra nelle centinaia di pagine di appunti composti in preparazione dei suoi nuovi drammi.
Il primo è Un albergo sul porto, vincitore di un concorso ma
tanto crudamente realistico da non poter essere rappresentato nel
’32. È una storia vissuta da personaggi che richiamano alla memoria certi esemplari, violenti e brutali, della drammaturgia russa fra
Otto e Novecento. Di loro uno soltanto riesce a superare la propria istintualità, grazie all’insorgere di un sentimento forte, quello
dell’amore materno 14.
Molti anni dopo, quando il testo sarà pubblicato sulla rivista
Il dramma nell’agosto del ’43, Betti dichiarerà:
«Ciò che vorrei, io, scrivendo, sarebbe di mettere certe persone e certi sentimenti nudi e soli, all’infimo di una gran scala. E vedere se in essi, solo in essi, senza aiuto né appoggi, c’è, nonostante tutto, la capacità di salire».
È una dichiarazione che sembra sconcertante, più da entomologo
che osserva al microscopio il comportamento di certi insetti, che
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da tormentato indagatore della condizione umana. In realtà, Betti
non ha mai dissimulato la sua visione critica dell’esistenza, contrassegnata dalla violenza e sospesa su un baratro misterioso.
Già anni prima, nel dicembre del ’31, rispondendo al questionario per un’inchiesta sulla poesia, aveva preso le distanze dalla
visione retoricamente ottimistica e dinamica dell’Italia fascista e
manifestato il proprio senso di inquietudine e di impotenza nei
confronti del destino.
«Mi sembra che l’animo dei nostri tempi, quello che i poeti più attenti e sensibili dovrebbero cogliere, stia nel contrasto fra una vita
ogni giorno più ricca, veloce, sonora, luminosa, e le pericolose crepe,
i paurosi scoscendimenti del “sottosuolo”, e cioè del terreno entro il
quale la vita stessa dovrebbe avere le sue fondamenta; fra l’ottimismo,
le macchine scintillanti [...] delle nostre giornate tumultuose, e l’incertezza, il malessere dei nostri momenti di solitudine e di silenzio.
[...] Abbiamo creato il mito dell’attivismo, crediamo che ogni forma
d’azione e di movimento sia buona, ma si ha talvolta il sospetto che il
più vertiginoso dei movimenti non serva a spostare neppure d’un’unghia il perno della gran ruota» 15.
Fra il 1931 e ’32, Betti ritorna a impegnarsi nella narrativa, scrivendo alcune novelle, raccolte poi col titolo Le case e pubblicate
da Mondadori nel ’33. L’ultima di queste novelle: I poveri, si conclude con una travolgente e simbolica marcia di derelitti e col monologo di un brigadiere, rappresentante della legge:
«Tutti passavano, lo lasciavano solo.
E, abbandonato dagli uomini, il brigadiere d’un tratto pensa, con
acuto risentimento, a Dio:
– E lui, allora? [...] E lui che fa? Ci fa morire i figli, i figli tra le
braccia, capite?
Così singhiozzando, [...] s’era incamminato quasi senza avvedersene, anche lui con gli altri [...]. La sterminata folla, come al suono
d’una musica, camminava sulla pianura tempestosa, pareva certa che
finalmente, laggiù, incontro a lei, si sarebbe visto un arcobaleno» 16.
Troviamo qui, a concludere, una rappresentazione di abbrutimento e desolazione, l’attesa di un’immagine rasserenante, un’ipotesi salvifica.
È un Leitmotiv che ritroveremo spesso nei drammi bettiani
degli anni successivi, con esiti più o meno congrui e convincenti.
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Tuttavia, la sua quotidiana esperienza lo induce ad approfondire, con maggiore equilibrio, il grande tema della giustizia, sentita dall’uomo come esigenza necessaria nei rapporti interpersonali
e connessa all’idea di una giustizia superiore, divina. Sono riflessioni meditate e ben argomentate quelle che troviamo negli appunti preparatori del nuovo dramma Frana allo Scalo Nord, che i
critici definiranno poi il primo dei «processi morali» e «drammi
giudiziari». Fu pubblicato su Scenario nel ’35 e rappresentato con
successo nel ’36.
«Giustizia vuol dire paragone [fra] un oggetto e un’unità di misura:
fra un fatto e una norma, fra una vita e una legge, fra una creatura e
un codice. Dunque, mentre da un lato suppone una entità contingente, una vita, un fatto, una creatura, un dolore, un piacere; dall’altro
una norma superiore, il che vuol dire una visione superiore, [...] cioè
l’unificarsi di tutti i fatti, creature, piaceri, dolori in un panorama unico, con ombre e rilievi. Il che vuol dire che tutti quegli episodi, tutte
quelle contingenze tali ci sembravano ma non erano episodi e contingenze: avevano un senso, un significato, un valore un’importanza una
durata superiori a quelli empirici [...]. In fondo vuol dire [...] che c’è
un Dio o un angelo, con un grande registro, che segna il dare e l’avere [...]; si paga, se c’è da pagare, e poi si è in pari [...]» 17.
Come è noto, si tratta di un dramma corale, in cui l’inchiesta per
accertare le responsabilità di un disastro si conclude con l’ammissione, da parte del giudice, dell’impossibilità di giudicare uomini
condizionati dal loro destino:
«– Considerato... che tutti costoro davanti a noi, in questo tribunale,
ed altrove, molto si sono affannati, impastando un pane assai confuso e scuro... (pausa) Che in questo pane sembra un po’ difficile spartire il buono e il cattivo; difficile e magari impossibile, e forse vietato,
perché essi, siccome respiravano e camminavano sopra la terra, forse
non potevano essere diversi da quelli che sono stati... [...] – [...] Considerato che essi hanno consumato la loro vita fra stenti, affanni, e miserie, hanno sopportato molti patimenti, trascinando avanti un macigno assai pesante... – [...] che per moneta di tutto questo dolore, una
cosa sola, essi vogliono: sentire piombare sopra di sé il fischio d’una
frusta sovrumana [...] – [...] perché essi possano spingere senza requie in eterno – ma forse non invano – il loro macigno... – Noi dichiariamo che questi uomini... non meritano di essere condannati né
forse assolti; spetta ad essi qualcosa di più alto: la pietà» 18.
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In una lettera a Luigi Volpicelli del marzo 1934, Betti illustrava il
significato del dramma:
«Il lavoro è questo: una indagine esasperata sulle responsabilità giuridiche, sociali, umane dell’uomo di fronte al prossimo e a se stesso:
in questo processo d’indagine si sgretolano tutti i puntelli in cui l’uomo crede di credere; però giunti al fondo, ritroviamo dentro di noi alcuni punti fermi sui quali è possibile riedificare il mondo» 19.
Il finale utopistico può meravigliare, ma è tipico del clima culturale di quegli anni, in cui il fascismo si proponeva, secondo la visione di Gentile, come civiltà antimaterialistica di natura essenzialmente religiosa.
Pochi mesi prima tuttavia, Betti, nell’articolo Esame di coscienza, pubblicato su Oggi, aveva tentato di definire e precisare,
nel clima di generale adesione ai miti «costruttivi», la propria posizione critica:
«[...] Nasce l’arte, insomma, come una scintilla, dall’attrito dell’artista vivo, con la vita vivente che gli è intorno. E questa scintilla, poiché
l’artista è un uomo, cioè una coscienza morale, avrà sempre, sia pure
implicito, sotterraneo, remotissimo, un colore di giudizio morale (che
non è, naturalmente, giudizio moralistico). Scrivere è sempre un po’
giudicare. Del proprio tempo l’artista è perciò sempre (sempre, se si
guarda un po’ più in là delle apparenze) il giudice e l’interprete: e ne
è perciò, in ogni caso, il più prezioso collaboratore, [...] anche quando in apparenza sembra, quel suo tempo, totalmente negarlo, perché
sempre vi sarà, in quella sua negazione, una catarsi, un superamento,
la formulazione, sia pure sottintesa, di un “così dovrebbe essere”.
Che cosa è infatti scrivere (e così vivere) se non rendere alla vita
una testimonianza, insieme, di invincibile amore e di irriducibile
scontento? [...]» 20.
Un evento significativo, nella prospettiva del nostro itinerario, è la
Lectura Dantis del XXIX canto del Paradiso che Betti, ormai figura di primo piano nel mondo culturale, fu invitato a tenere l’11
marzo 1934.
Una lettura interpretativa, insieme partecipe e colta, che manifesta sincera ammirazione per il poema. A noi colpisce soprattutto l’analisi (rivelatrice del suo eterno rovello sulla predestinazione) della muta domanda che il poeta rivolge a Beatrice sull’ine-
Il problema religioso in Ugo Betti
951
splicabile coesistenza di quel divino atto d’amore che sarebbe all’origine del tutto, con il primo moto di rivolta che, quasi contemporaneamente, sprofondò negli abissi gli angeli ribelli.
«Usciti appena dallo stesso raggio, e quasi dallo stesso fiato, palpiti
della stessa bontà e della stessa onnipotenza, perché mai dunque gli
uni sfolgorarono in alto e gli altri caddero subito? [...] Ebbe luogo
in essi il primo atto di volontà, il primo lampo del libero arbitrio. E
quel primo atto fu negli uni superbia [...]. Negli altri fu umiltà: [...]
quale fu mai la causa che determinò in questi e non in quelli quel
primissimo fatale atto di bene, e valse loro una così gran ricompensa? [...] Con grazia illuminante e con loro merto. I segreti quesiti, di
silenzio in silenzio, quasi di gradino in gradino, sono saliti alla domanda estrema. Quest’ultima domanda non riguarda soltanto le
creature celesti. Essa è la battuta monotona di un dialogo antico,
eterna protesta dell’uomo, che scosta, respinge da sé la responsabilità del male compiuto. Perché – domanda l’uomo – sono io chiamato a rispondere d’un istinto di male che qualcuno o qualche cosa
ha messo dentro me?...»
Pur ripetendo con accenti di personale drammaticità l’eterna domanda, Betti alla fine si piega alla «forza quasi più imperiosa che
amorevole» con cui Beatrice persuade Dante:
«La risposta [...] è il ricorso a un mistero. [...] un mistero, d’amore
[...]. Dal creatore scende la grazia [...]. Ma qualche cosa ad essa risponde, nelle creature, di misteriosamente libero» 21.
Un critico ha osservato che l’alto influsso della poesia dantesca è
individuabile in alcune liriche composte in quegli anni, raccolte e
poi edite col titolo Uomo e donna. In particolare in quella dedicata a Gli Angeli:
Là dove non è più ombra, laggiù
sovra prati di splendido colore
là vanno e vengono le migliaia e le migliaia,
là sono le leggiadre pensierose creature
venute da mondi spenti.
Esse non bevono, non mangiano,
non hanno sposo né sposa.
Loro parola è un riso;
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Federico Doglio
per gioire risplendono;
e così per cantare, per amare.
Essi comprendono, ma non desiano.
Sanno, ma non ricordano
Ah, come veloci, leggeri.
Hanno pietà talvolta (forse
d’un dimenticato dolore).
Chinano allora le ombrate ciglia,
sorridendo fra sé 22.
Ma lo stesso critico ha notato che in questa lirica Betti:
«[...] ben lontano dalle motivazioni teoretiche sottese alla poesia del
Paradiso, ne utilizza soltanto concetti frammentari e moduli iconografici, svigorendo la forte fede religiosa di Dante in un troppo umano desiderio di smemorata pace [...] 23.
Così pure, quando nel ’35 compose Il cacciatore d’anitre, moderna
tragedia a quadri con l’introduzione di cori, sul tema della corruzione propria della società capitalistica, attuale fenomeno dell’eterna lotta fra il Bene e il Male, c’è stato chi ha evocato i modi della sacra rappresentazione, ma ha poi osservato la conclusione del
dramma con l’intervento finale della figura simbolica de Il Reggente, l’invocazione del protagonista:
«Marco: Oh digli che non ho potuto far nulla, di tante cose che volevo. Avrei voluto spiegargli, fargli capire... che forse vi era, in tutto
questo un errore (Muore).
Fausta (come a un bambino, ma senza più guardare il corpo) Oh,
sì, gli dirò che non v’era in te sospiro, che non fosse altezza e bontà,
che avresti voluto concordia e affetto: che soffristi molto. E lui mi
dirà che il tuo conto è in pari e che puoi essere tranquillo [...]» 24.
«[...] La proclamazione di un’assoluta fede nelle possibilità di un riscatto finale, si rivela sul piano artistico non meno prematura che su
quello intellettuale» 25.
Dopo alcuni testi meno impegnati, Betti ritorna a rappresentare
vicende estreme, che implicano i temi inquietanti della giustizia e
della responsabilità individuale in Notte in casa del ricco, un dramma più volte rielaborato fra il ’38 e il ’42. In uno degli appunti preparatori leggiamo infatti:
Il problema religioso in Ugo Betti
953
«Troppo comodo, troppo semplice [...] prima aver fatto d’ogni erba
fascio [...]. Poi ci si dà a Dio. [...] I fatti non si cancellano. Ogni fatto
è un seme, è una gocciolina, scorre, lavora, noi la perdiamo di vista,
ma quella cammina, va. [...] Dove c’è un dolore, vuol dire che vi fu un
errore. Hai sbagliato, tanto tempo fa. Ora paghi» 26.
e nelle battute di un personaggio alla fine del Prologo:
«Mauro: No. Non dobbiamo abbellire con bugiardi colori il triste ingranaggio delle nostre azioni [...] – [...]. Ciò che è avvenuto, sarà come non mai avvenuto. Questo pensiero mi ha turbato [...] solo al mio
cervello è nota quella deformità. E a chi dunque se non a me [...]
spetta di ristabilire l’equilibrio turbato? Sarei pigro o vile, se volessi
scaricare su una potenza invisibile un dovere che invece pesa sulle
mie spalle. [...] Che questa potenza ci sia, noi lo speriamo, ma [...] come possiamo, per una semplice speranza, rinunciare alla Giustizia?
Se Dio è giustizia, Dio stesso è sottoposto ad essa» 27.
Dicevo: temi inquietanti e frequenti rielaborazioni. Ormai è evidente: Betti è un autore che vive interiormente i drammi che, con
linguaggio realistico-simbolico, fa vivere ai propri personaggi; la
sua non è una «maniera» letteraria, è la rivelazione di una crisi costante e ricorrente. È crisi esistenziale (nel ’38 è morto suo padre),
spirituale e professionale. Rivelatrice, a questo proposito, una sua
amara confessione del 15 dicembre 1941:
«Sento di essere cambiato e non sono capace di rispettare il mio io di
due o dieci anni fa. Voglio che le mie cose siano il più possibile
conformi con quello che io sono adesso. Capisco che ciò crea qualche
volta delle stonature, ma non sono capace di resistere, mi sembrerebbe di mandare in giro, con la mia firma, cose non mie [...]».
«La verità però è che non sono sicuro di me stesso. Questo è il
vero motivo di tali tentennamenti, coi quali oscuramente cerco di avvicinarmi a chi invece sembra che mi abbia sempre fuggito, cioè gli
ascoltatori. In realtà... è stato fatto il possibile per mettermi addosso
incertezze, dubbi e sfiducia. Il pubblico... non l’ho mai avuto. La critica: in gran parte opaca, ostile e perfino crudelmente maligna e quasi sempre orientata su un equivoco... in conclusione solitudine» 28.
Del 1944 è la sua opera più nota Corruzione al Palazzo di Giustizia, tragedia in cui Betti evoca l’inferno del mondo giudiziario in
cui vive ed opera da anni e di cui il diabolico Cust è figura emble-
954
Federico Doglio
matica del giudice corrotto che, dopo aver trionfato su tutti, si
sente soffocare dalla sua stessa menzogna:
«Nessun ragionamento al mondo potrebbe permettermi stanotte di
chiudere gli occhi tranquillamente. Dovrò svegliare l’Alto Revisore.
Devo confessargli la verità» 29.
Rispondendo all’interpretazione arbitraria di un critico, Betti dichiara:
«La tesi che tu attribuisci al lavoro è esattamente l’opposto della vera. – Non abbiamo diritto di giudicare? Siamo tutti corrotti? – Codeste non sono la tesi del lavoro, ma l’antitesi. E infatti tale antitesi è
smentita solamente dal lavoro. Il quale significa e rappresenta questo:
che pur apparentemente trionfando la corruzione, pur schierandosi a
favore della corruzione l’accomodantismo della giustizia umana, il
servilismo degli uomini, l’indifferenza della natura e persino l’idea
“comoda” che gli uomini si fanno di Dio, non ostante tutto ciò finisce per trionfare misteriosamente in fondo all’animo umano l’esigenza insopprimibile della giustizia e dell’assoluto. Sicché alla fine è proprio il colpevole che va a denunciarsi, spontaneamente, e proprio
quando gli è stata assicurata una trionfante impunità. Questa è – fin
troppo dichiaratamente – la tesi del mio lavoro» 30.
Altri spunti di riflessione contengono le opere degli anni del dopoguerra, ma illuminanti ci appaiono, come sempre, le intenzioni e le
considerazioni degli appunti preparatori, come quelli scritti nel ’47
per Irene innocente, il cui titolo era in origine Miracolo fra i monti:
«Esprimere la bontà di Dio. Questo concetto [...] è stato curiosamente dimenticato, anche da me, per l’inavvertito ma potente dominio di un’educazione positivista e scientista: [...] che ha un innegabile, fondamentale difetto: [...] non è capace di spiegare [...] la realtà
nelle sue qualità essenziali [...] nemmeno tiene conto di quel che vi è
di imponderabile, [...] di autonomo, di “capriccioso” in noi, cioè nell’uomo [...]. E perciò anche nel Dio. Il quale perché, se è un principio di cui noi siamo i corollari, perché dovrebbe essere, una volta ammesso, qualche cosa di uniforme, impersonale, automatico; perché
non dovrebbe essere come noi? Un principio vivo, cioè indipendente,
attivo, imprevedibile» 31.
Come era già accaduto altre volte, questa parabola di una povera
Il problema religioso in Ugo Betti
955
ragazza minorata, mercificata dal padre per le turpi voglie dei
compaesani, che troverà la sua libertà nell’amore e, infine, nel suicidio, non sembra davvero corrispondere alle intenzioni dell’autore. Il gap tra il serio proposito del pensatore e le tortuose, disarmoniche soluzioni drammaturgiche, anziché dimostrarne la ricorrente inadeguatezza espressiva, testimoniano l’incessante travaglio di uno spirito inquieto.
Sono considerazioni che si possono applicare anche agli ultimi testi drammatici e che ci confermano la natura spirituale della
sua sofferenza, che egli fa esprimere dai suoi personaggi, come da
Giacomo, nell’ultima scena di Acque turbate (1948):
«È con questo viso Signore, che ora debbo venirti avanti? Ero io il
peggiore? Oh mio Dio, ma come ha potuto nascere e crescere dentro
di me a mia insaputa un male non voluto? E com’è possibile che io,
non avendolo voluto, debba esserne ugualmente responsabile?...
Mio Dio, come è possibile che ci spettino compiti così intricati?
Come è stato permesso che il bene e il male siano così simili, e ugualmente naturali alle cose? E sono poi essi davvero distinti? E che è a
distinguerli? Forse è il fatto stesso di esistere che è inquinato in sé, dal
principio? Mio Dio, come posso chiudere gli occhi, assalito da un tale caos? Non è troppo crudele che io sia qui a gridare morente sopra
una pietra deserta, senza che nessuno mi oda?»
La risposta viene dal personaggio anonimo, Tizio, e per questo
suona tanto più persuasiva:
«Se distinguere e sceverare è difficile a te, non mancherà un occhio
migliore. Tutto sarà sceverato, e utilizzato. L’importante è che hai
combattuto coraggiosamente. E per il resto... fidati! Uomo orgoglioso! Perché vuoi far tutto? Perché vuoi sapere tutto? Fidati» 32.
a cui farà eco, con un’enfasi che ci appare tanto più declamatoria
quanto meno convincente, l’invocazione del ricorrente personaggio
simbolico, il Funzionario, nell’ultima battuta de Il Giocatore (1950):
«... e a farli certi sei Tu. Sei Tu, instancabile predilezione. Tu, ingemmata d’astri regale ingiustizia, sublime condiscendenza che fai le
creature e permetti che ti stiano di fronte e di questo le ami. E anche
esse ti amano: perché è solo un barlume del tuo amore che ognuna di
esse ama nell’altra. È solo te che imita, è di te che ha sete; è verso te
che corre nello spazio notturno» 33.
956
Federico Doglio
Nonostante queste liriche enunciazioni, il rovello dell’imperscrutabile natura divina ancora turba il suo animo. Rievoca le antiche
accuse contro un dio ingiusto che condiziona la vita delle creature. Accuse che Betti fa pronunciare al Dottore, il personaggio diabolico del dramma scritto negli ultimi mesi di vita, La fuggitiva:
«... Egli sta neghittoso sulla riva, getta la rete nel nulla, dove non c’è
proprio nulla!... E tuttavia la rete, quando esce, su, reca certi squallidi
pesci, pallide fibre del nulla... Lui ne guarda una, poi dice “Tu sarai Nina”... Questi sono i pensieri che penserai. Questi i tuoi desideri; i gesti;
gli sguardi; il sudore del tuo grembo; il latte delle tue mammelle; completamente tutto. Ed è tutto mio. Tu non avevi e non sei nulla. E perciò
ora, di ogni cosa che hai e sei, sei la mia debitrice... (Con ferocia)... e responsabile! Ogni attimo, ogni gesto, lo peseremo sulla bilancia. Responsabile! (Sghignazza) Io sono lo scrivano, tu sei il foglio bianco, ma
tu sei il responsabile delle parole che io ho scritto lì sopra. (Con minaccia) Responsabile!... Responsabile perché giocherai l’asso di quadri...
avendoti io comandato di giocare l’asso di quadri; responsabile perché
acquisterai il veleno pei topi, avendoti io comandato di acquistare il veleno pei topi. Bene! E ora, esisti! Passa. Stai entrando nel mondo delle
cose esistenti, le quali, una volta esistite, non possono più non esistere,
e tornare indietro... (Con accanimento) Dove non c’è più scampo, dove non potrai più nasconderti, né in vita né dopo... Perché sarà sempre
su te l’occhio del Creditore, e tu fuggirai, nuda, urlando, i capelli come
serpi, e mai mai troverai, in tutto il tempo e lo spazio, un atomo di polvere o d’ombra che si ripari da quell’occhio. Dove andrai? Che farai?
Nina. Nina. Come pagherai? Sempre su te quell’occhio, sempre, dietro
di te, quel passo...» 34.
e non basta, a farci superare l’inquietudine, il Coro funebre che
conclude il dramma:
Nel chicco di grano si legge
che esso presuppone la terra.
Così si legge dentro noi
che siamo fatti per te, Signore.
Anche quando ti fuggivamo
venivamo a te, portandoti
la nostra farina 35.
Nel gennaio del ’53, cinque mesi prima di morire, Betti preparò il
testo di una conferenza che avrebbe dovuto tenere ad Assisi in
Il problema religioso in Ugo Betti
957
settembre: Religione e Teatro. In essa, per la prima volta, questo
scrittore tormentato e introverso, prigioniero del proprio rigore,
si impegna, nella prospettiva di rivolgersi a un pubblico di credenti, ad esprimere lucidamente il suo pensiero riguardo alla
drammaturgia contemporanea e al suo rapporto con la religione.
Comincia col dire:
«La materia è troppo importante, impegni troppo gelosi ci legano ad
essa, perché la si possa abbandonare a soluzioni facili e liriche effusioni» 36.
E subito noi ricordiamo quante volte nei suoi testi egli sia incorso
in queste tentazioni. Poi, dopo avere notato che la tematica religiosa viene spesso trattata dagli autori contemporanei, distingue
acutamente fra:
«Religione come un bene già conquistato, da esaltare o asserire; religione come un bene da conquistare, verso il quale muove se non un
preciso proposito, un inquieto desiderio; religione come rielaborazione intima di certi principî, per sentirli più vivi e assimilabili; religione magari come un nemico da aggredire non senza ricchezza,
però, di turbamenti e rimorsi».
Con quest’ultima definizione sentiamo che sta alludendo alla sua
problematica. Quindi, dopo aver segnalato i numerosi motivi che
spesso intorbidano la rappresentazione dei temi religiosi, ammette:
«Anche le mescolanze e i travisamenti cui è soggetto l’impulso originariamente religioso di un’opera di teatro, gli intorbidamenti di cui
ho discorso fin qui, sono certo intorbidamenti che insidiano anche
me, sono i tranelli che io vorrei evitare, ma ogni volta, finito di scrivere, ricomincia per me il sospetto di esservi caduto: quella religiosità
senza rigore; quel supremo bisogno di amare e di essere amati, che invece resta così pigro, quell’umanitarismo accomodante e morbido; e
la sensazione che attrae più del sentimento; e la cornice amata più del
quadro; e quel compiacimento nel mostrarsi o nel credersi intelligente e nel mettersi in vetrina; tutte queste sono certo colpe anche mie,
sarebbe troppo strano che io fossi salvo da ciò che ammala tutta o
quasi la letteratura dell’epoca».
Subito dopo però dichiara la sua delusione di spettatore nell’assistere a molti moderni spettacoli edificanti:
958
Federico Doglio
«opere senza slittamenti tutte bruciate nell’umile – ed alto e antico –
compito di essere religiose e niente più, interpretazioni di gloriosi miracoli, rappresentazioni di sacrifici edificanti, vicende di carmelitane
al patibolo o di gesuiti al cimento, opere in genere eccellenti, e da
ogni punto di vista ineccepibili. E tuttavia sentivo una delusione».
E qui il frettoloso accenno critico appare superficiale e inadeguato nei confronti dei capolavori cui allude.
Tuttavia, riesce poi a mettere a fuoco il suo pensiero:
«Quella contrapposizione di bene e male aveva insomma un modesto
effetto in un mondo la cui caratteristica è proprio questa: di credere
poco nella reale esistenza del bene e del male.
Qual è, rispetto a una tale situazione, il pensiero di molti cattolici, soprattutto scrittori e critici? Mi pare che sia un pensiero curiosamente roseo ... .
L’animo che sta al fondo di codesta tranquillità mi pare quello
stesso di un critico il quale concludeva che la “tragedia” finì nel momento stesso in cui Cristo parlò, poiché le guerre cessano quando comincia la vittoria».
E a questo punto reagisce ponendosi delle domande, che non sono altro che esplicite confessioni:
«Ci furono date sì una vittoria e una verità definitive. Questo è ben
certo. Tuttavia intorno a noi come mai queste frane? E altre se ne annunciano con boati lontani. Come mai, qua e là, queste sconfitte? E
questo, di ieri e forse di domani, maggiore che non mai nella storia,
straripamento di crudeltà e odio? Quale diga dunque si logorò? E,
d’altra parte, fu anch’esso inutile, un tale logoramento? Inutile questa
vasta inquietudine, nostra e di tanti? Inutile anche, totalmente inutile, l’errore e questo sforzo del nostro tempo di combatterlo sì, ma anche di conoscerlo e perciò di amarlo e di spremerne un proficuo dolore? Inutile, il nostro viaggio, dato che già arrivammo?
E non vi è forse intorno a noi e in noi tanta debolezza e smarrimento e appunto un acuto bisogno di ripersuaderci in modo nuovo
di fronte a certe nuove obiezioni, riconfermandoci così più stabilmente in quelle certezze senza le quali non possiamo vivere?»
Avviandosi alla conclusione, riprende con fervore il tema risolutivo di Corruzione al Palazzo di Giustizia e della sua risposta al critico:
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«Si ritroveranno, nel fondo delle miserie umane, quando le avremo
veramente sofferte e comprese (poiché non tutto nell’errore è errore),
alcune irragionevoli e direi straniere esigenze.
Inspiegabili esigenze. Nell’animo dell’uomo ingiusto e addirittura del giudice eversore della giustizia, scopriremo, alla fine, che egli
stesso non potrà respirare e sopravvivere senza una giustizia. Sorprenderemo, nell’animo dei crudeli, degli egoisti, dei perduti, nel
fondo delle amarezze più indurite, a un certo punto, un “ingiustificato” bisogno di pietà, d’armonia, di solidarietà, d’immortalità, di fiducia, di perdono; e soprattutto d’amore. Cristo ci attende là. Una pietà,
un amore assai maggiori di quelli che offre il mondo, pallide imitazioni. È una sete cui le fontane della terra sono avare. Ognuna di queste misteriose esigenze è il lato di un perimetro, il cui disegno completo, quando lo intravediamo finalmente, ha un nome: DIO».
Il discorso quindi tocca il suo culmine, dichiarando che per
ogni uomo l’unica speranza salvifica è Cristo.
È stato dunque questo, dell’uomo Betti, l’approdo, dopo tanta inquietudine, dal rovello inestinguibile alla ferma speranza?
Monsignor Giuseppe De Luca, che lo assistette malato fino
alla fine, disse: «Io l’ho accompagnato mentre egli portava la croce della sua agonia» 37.
Sul frontone dell’ingresso principale dell’Università Cattolica
di Milano è scritto: «Initium sapientiae timor Domini». Forse proprio il timore di Dio è stato il viatico della sua salvezza.
Federico Doglio
NOTE
1 Teatro
d’ispirazione cristiana nell’Italia contemporanea, in Il Teatro postconciliare
in Italia, Bulzoni, Roma 1978, pp. 17-18, 23-25.
2 Il teatro spiritualista. Quattro spunti per uno studio. Convegno «Il testo nel teatro
italiano contemporaneo», febbraio 1986, in Il Testo, n. 12, 1986, pp. 113-131.
3 Epistolario, Raccoglitori XI-XII-XIII dell’Archivio Betti, all’Istituto di Studi Pirandelliani di Roma.
4 In A. Fiocco, Teatro italiano di ieri e di oggi, Cappelli, Bologna 1958, p. 128.
5
Queste liriche degli anni liceali, contenute in due quaderni, sono state riportate
in parte da A. Di Pietro in L’opera di Ugo Betti, Edizioni del Centro Librario, Bari 1966,
I, pp. 16-17.
6 A. Di Pietro, Ugo Betti, scritti inediti, Edizioni del Centro Librario, Bari 1964, pp.
43- 92, passim, riportate in A. Di Pietro, L’opera, cit., I, pp. 35-36.
7
Ibid., pp. 81-82.
8
U. Betti, Caino, Corbaccio, Milano 1928, pp. 95-96.
960
Federico Doglio
9
U. Betti, Poesie, Cappelli, Bologna 1957, p. 130.
Ibid., pp. 133-134.
11
A. Di Pietro, op. cit., I, pp. 104-106.
12 U. Betti, Teatro completo, Cappelli, Bologna 1957, pp. 3-5.
13 In A. Fiocco, op. cit., p. 134.
14 A. Di Pietro, op. cit., II, pp. 12-13.
15 Ibid., p. 32.
16 Ibid., p. 52.
17 Ibid., p. 57.
18 U. Betti, Teatro completo, cit., pp. 259-260.
19 Epistolario in Archivio Betti, cit., XI.
20 U. Betti, Oggi, 15 ottobre 1933.
21 U. Betti, Religione e Teatro. Il canto XXIV del Paradiso, Morcelliana, Brescia
1957, pp. 40-44 passim.
22 U. Betti, Poesie, cit., p. 184.
23 A. Di Pietro, op. cit., II, p. 118.
24 U. Betti, Teatro completo, cit., p. 378.
25
A. Di Pietro, op. cit., II, pp. 120 e 129.
26
Ibid., II, p. 150.
27 U. Betti, Teatro completo, cit., pp. 576, 578.
28 In F. Barbetti, Statura di Ugo Betti, in Il ponte, dicembre 1954, pp. 1933-1934.
29 U. Betti, Teatro completo, cit., p. 1155.
30 U. Betti, in Teatro-Scenario, a. XVII, n. 10, 16-31, V ’53, p. 8.
31 A. Di Pietro, op. cit., II, p. 243.
32 U. Betti, Teatro completo, cit., pp. 1411-1412.
33 Ibid., p. 1084.
34 Ibid., pp. 1495-1496.
35 Ibid., p. 1536.
36 Questa e le citazioni seguenti sono tratte da Religione e Teatro, cit., pp. 23, 24,
26-30, 33.
37 G. Fontanelli, Il teatro di Ugo Betti, Bulzoni, Roma 1985, p. 84.
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