macello privè - Libertà Edizioni

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macello privè - Libertà Edizioni
LibertàEdizioni
Enrico Solmi
MACELLO PRIVÈ
ROMANZO
LibertàEdizioni
A Carola,
che sopporta e supporta le mie folli fantasie
MACELLO PRIVÈ
“Mi piace l’odore della terra.”
“Guardi che quella è merda secca.”
Bernardo Bertolucci, Novecento
1.
L’APPARTAMENTO
“Senta, guardi che per questo basta
l‟autocertificazione, non c‟è bisogno di richiedere il
documento.”
“Ah sì, io pensavo che…”
“No, no. Basta che lei inserisca gli estremi. È un
suo diritto poter usufruire dell‟autocertificazione.”
“Sì, ma io non ricordo esattamente gli estremi. E
poi visto che sono qui…”
Armido iniziava a spazientirsi. Era venuto apposta allo sportello e ora gli stavano dicendo che era
inutile. L‟impiegato continuò inflessibile a insistere.
“Le ho già spiegato che questo è un suo diritto.
Ormai per queste cose non facciamo più certificati:
basta una sua dichiarazione.”
Armido s‟innervosì. Tra l‟altro stava accumulando parecchio ritardo. C‟era quel lavoretto da
portare a termine. Doveva ottenere quei certificati,
decise.
“Io non ricordo gli estremi! E quali poi? Non so
nemmeno quali, per questo voglio il certificato!”
“Questo è affar suo! Adesso esiste
l‟autocertificazione e si deve arrangiare!”
“Insomma, è un mio diritto, non un mio dovere.
È suo dovere, invece, farmi questo certificato!”
Armido era arrabbiato. Iniziò ad alzare la voce.
L‟impiegato diventò paonazzo.
“È mio dovere ricordarle che lei può utilizzare
l‟autocertificazione. Se lei non lo fa, io vado nelle
grane, perché l‟ho costretta allo sportello a fare certificati ormai inutili: la legge parla chiaro!”
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Armido esplose.
“Mi faccia questo certificato. Vuole che le sottoscriva un foglio dove dichiaro che lei mi ha ricordato i miei diritti? L‟ho sentito, non sono mica sordo! Un po‟ forse, ma non del tutto: le mele mi mantengono, contengono vitamine. E poi le ho già ripetuto che non mi ricordo gli estremi: mi dica lei come faccio ad autocertificarmi?”
L‟impiegato si aggiustò la cravatta e rispose impassibile:
“Per avere gli estremi, deve fare domanda in
carta da bollo.”
Armido uscì dall‟ufficio imprecando a voce alta.
Era irritato, anzi diciamo pure arrabbiato, incazzato, incazzatissimo. Eppure la giornata non era cominciata male: finalmente l‟Agenzia gli aveva trovato un incarico. Anche se ormai in pensione da
anni, accettava questi lavoretti per due motivi: uno,
la noia; due, i soldi. Con la pensione da poliziotto
non c‟era molto da stare tranquilli! Poi sentiva il
dovere di essere utile alla società, in tempi immorali come quelli odierni.
Così, la mattina si era alzato di buon umore: Natale si avvicinava e lui doveva trovare i soldi per i
regali a figli e nipoti. Certo continuavano a dire papà, non c’è bisogno di nulla, ma possedeva ancora
un po‟ d‟orgoglio e non voleva sentirsi un povero
vecchio.
Purtroppo aveva sbagliato autobus e si era ritrovato dall‟altra parte della città. Dopo più di un‟ora
di attesa ne aveva preso un altro, ma l‟autista lo aveva fatto scendere alla fermata sbagliata. Lì aveva
incrociato un gruppo di teppisti che avevano iniziato a canzonarlo, facendogli perdere altro tempo.
Maledetti ragazzini, con le loro felpe, gli occhiali e
le cuffie. Anche suo nipote vestiva così purtroppo.
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Gioventù ingrata. Così, tra un altro autobus perso e
un‟altra fermata sbagliata, aveva finito con il perdere tutta la giornata. Poi si era ricordato del certificato e aveva dovuto tornare all‟anagrafe. Che tempi:
cartelli incomprensibili, autisti sgarbati. C‟era proprio bisogno di una bella azione moralizzatrice. Il
suo era un nobile scopo.
Alla fine aveva preso un taxi, speso un sacco di
soldi ma, giunto a destinazione, doveva semplicemente eseguire la consegna e incassare, il solito lavoretto semplice, giusto per un pensionato come
lui. Sapeva che l‟Agenzia, pur rispettandolo, gli affidava solo lavori facili, in quanto ormai un po‟ anziano, ma non gli interessava. Bastava lo pagassero!
Armido inforcò gli occhiali e controllò una, due, tre
volte il nome della via, il numero e la descrizione
della casa: la prudenza non era mai troppa. La descrizione della casa corrispondeva: un‟elegante palazzina, circondata da un cortile ben curato, con un
vialetto illuminato che portava all‟ingresso. Era
ormai sera e Armido iniziava a sentire la stanchezza di tutto un giorno passato fuori casa, quindi,
senza esitare, si incamminò lungo il vialetto ed
entrò.
La signora Russo faceva la portinaia in quel palazzo da tre anni, cioè da quando lo avevano costruito. All‟inizio aveva sperato in un ambiente signorile, distinto, ma presto tutte le sue speranze andarono in frantumi: certo, gente ricca ne passava,
ma in quanto a classe, neanche a parlarne. Venivano tutti, con i loro vestiti costosi e le loro auto di
lusso, a incontrare le donnacce che abitavano lì.
C‟erano addirittura un paio di uomini che si travestivano: il solo pensarci a volte la faceva rabbrividire. Ciao zia la salutavano, tutte agghindate come
quello che appunto erano: puttane. Accompagnatri11
ci si facevano chiamare, ma sempre puttane rimanevano, anche se d‟alto bordo. Per questo non si
era mai sposata, tanto gli uomini, per soddisfare le
loro voglie, se ne andavano da quelle. Meglio evitare questi dispiaceri. L‟unica preoccupazione che la
tormentava, era che potesse succedere qualche fatto
di sangue, come quelli che leggeva sempre sulle
sue riviste, anche se quasi ci sperava: magari
l‟avrebbero intervistata. L‟unica consolazione era
poter parlare al telefono con al sua amica Silvana,
tutto il tempo che voleva. Il conto lo pagava
l‟amministratore.
Mentre stava per comporre il numero di Silvana,
non si accorse dell‟anziano distinto signore entrato
nell‟atrio. Lo notò solo quando fu a pochi passi da
lei. Ebbe un sussulto, ma la sorpresa si mutò presto
in meraviglia. Di solito nel condominio circolavano
ben altri soggetti. Questo invece sembrava un nobile, con un portamento fiero ed elegante. I capelli
erano folti, bianchissimi ed accuratamente pettinati;
riflettevano la luce formando una sorta di aureola.
Due grossi baffi dal sapore antico spuntavano sopra
la bocca sottile. Sotto la giacca indossava un maglione a collo alto, che gli forniva un‟aria altera.
La signora Russo, appoggiò il telefono, guardò la
sua camicetta a fiori e, notando un bottone mancante, tentò di coprirsi. Il distinto signore le si fermò
davanti e sfoggiò un largo sorriso.
“Buongiorno gentile signora” disse.
Gentile signora! Ma quando mai si erano rivolti
a lei in questa maniera? La signora Russo arrossì e
tentò di parlare, ma le parole faticarono ad uscire.
“B-buongiorno, desidera?” balbettò.
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“Ahimè, mia cara signora, quello che desidero
da lei dovrei dirglielo in privato, ma per il momento mi accontenterò di una semplice informazione”continuò Armido, sorridendo ad una signora
Russo rimasta a bocca aperta ad ascoltarlo.
La Tv era accesa a volume molto alto. Scorrevano le immagini di Pulp Fiction. Pasticcino e Zucchina si stavano apprestando a compiere la rapina
al ristorante.
Sono pronta. Facciamolo subito, qui, già che ci
siamo. Ti amo zucchino.
“Desidera? Desidera mi ha detto, quella vecchia
troia! Roba da non credere! Da te sicuramente niente, grassona, le ho risposto. Non sono messo così
male!”
Cruccio esplose in una sonora risata, compiaciuto con se stesso.
“Credevo che mi vomitasse in faccia” continuò
Cruccio. “Era diventata tutta rossa, con quella faccia da culo la sua lingua sembrava un grosso stronzo. Non so cosa mi ha risposto, ero troppo impegnato a ridere. Dio, credo di non avere mai riso tanto in vita mia.”
“E poi?” domandò Strina, curiosa.
“E poi mi sono rotto il cazzo. Le ho detto di non
farmi girare troppo le palle e di darmi le chiavi
dell‟appartamento che l‟affitto era già stato pagato.
Penso che lo stronzo a quel punto le si sia strozzato
in gola!” Cruccio sogghignò. “E mi sono pure stufato di raccontare questa storia. Ma dove cazzo è
quel merdoso corriere di Sciacca? Ho bisogno di
altre dosi!”
Strina si rabbuiò. Lo stava guardando, seduta sul
letto, con quel visino da topo e l‟espressione ansio13
sa, che era poi la sua espressione abituale. Distolse
subito lo sguardo quando incrociò gli occhi saettanti di lui. Non riusciva a sopportare le sue occhiate e
Cruccio lo sapeva: lo faceva quando non la voleva
tra i piedi. Cruccio era fatto così, perennemente nevrotico, come se qualcosa lo tormentasse in continuazione: da qui il soprannome. Però sapeva anche
essere protettivo. Con lei lo era stato, quando si era
trovava nei guai, grossi guai. E le procurava le dosi.
E le dava di che vivere.
“Cazzo hai da guardare! Vaffanculo, pensa piuttosto a quello stronzo sul letto: quanta roba gli hai
dato? Non vorrai mica che crepi?”
Strina girò gli occhi verso il loro ospite. Stava
disteso sul letto con gli occhi socchiusi, in preda ad
un‟estasi mistica. Lei lo guardò meglio. Era piuttosto brutto a vedersi, lungo, magro e con quelle
braccia che pareva volessero toccare i piedi tanto si
estendevano. Certo aveva scopato con uomini ben
peggiori e questo oltretutto era vergine, faceva quasi tenerezza. No, non gli aveva dato troppa roba.
Giusto quel tanto necessario per...
Un leggero bussare alla porta la distolse dai suoi
pensieri. Tre colpi leggeri, poi un colpo di tosse e
altri tre colpi leggeri.
“Finalmente quel cazzone è arrivato: era ora!”
Cruccio aprì la porta senza nemmeno preoccuparsi di controllare.
“Allora, Sciacca, non ti sei dimenticato di me!”
Non riuscì a dire altro. Un terzo occhio gli si aprì improvvisamente in fronte, mettendo fine a tutte
le sue preoccupazioni.
Armido entrò nella stanza scavalcando il corpo
del suo primo obiettivo. Mentre lo superava, gli
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sparò un secondo colpo, stavolta al cuore, per essere sicuro di avere portato a termine il lavoro. Fece
qualche passo, quindi controllò la situazione: era
molto professionale lui, non il povero vecchio che
credevano.
Quello che aveva appena ucciso doveva essere
Cruccio. La descrizione corrispondeva: pantaloni di
pelle, stivali a punta, una grande A cerchiata tatuata
sul petto nudo, un grosso anello al naso. E una faccia da idiota, aggiunse Armido: pareva suo nipote,
peccato non poter riservare anche a quello lo stesso
trattamento. La ragazza che lo fissava terrorizzata
appoggiata al letto era probabilmente l‟altro suo obiettivo, quella che chiamavano Strina. Assomigliavano a quei drogati che aveva incontrato ieri al
parco, ma tanto quelli erano tutti uguali. Aveva una
faccia che pareva il criceto di quella strega di sua
nuora; la bocca le si muoveva su e giù in maniera
inconsulta senza che uscisse nessun suono, mettendo in evidenza i denti sporgenti. Erano pure neri:
nessuna igiene orale, pensò Armido. Certo lei non
andava dal suo dentista rompiballe. Era completamente nuda, tranne due calze a rete sbrindellate autoreggenti e degli stivali in pelle con la zeppa. Armido distolse lo sguardo, un po‟ per pudore (poteva
essere sua nipote), un po‟ perché lo spettacolo era
penoso: la ragazza pareva non mangiasse da giorni
tanto le si vedevano le ossa; i capelli erano sporchi
e appiccicati al viso, il trucco pesante non nascondeva la pelle butterata: la parodia di una puttana,
che per Armido era una parodia di donna: aveva
una moralità ben salda lui.
Lo smarrimento durò solo un attimo, poi la professionalità riprese il sopravvento. Si avvicinò al
letto per finire il lavoro, ma si fermò immediatamente. C‟era qualcuno, nudo e legato con delle
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manette alla spalliera: un uomo magro con la faccia
da scimmia, forse drogato. Non avrebbe dovuto esserci nessun altro, ma lui era in ritardo di ore: maledetti impiegati comunali e maledetti autobus! La
testa sembrava spuntasse direttamente dal tronco e
le braccia erano sproporzionate al resto del corpo.
Un vero e proprio babbuino, o un mandrillo, vista
la situazione. Lo fissava e sorrideva, mormorando
frasi incomprensibili. Il viso era stranamente famigliare, ma in quelle condizioni Armido non riusciva
a ricordarsi dove poteva averlo visto. In sottofondo
stavano ora risuonando le parole di Jules:
E io colpirò con grande vendetta e furibonda
collera coloro che mirano ad avvelenare e sterminare i miei fratelli. E saprai che io sono il Signore,
quando stenderò la mano su di te.
“Chi è questo?” chiese nervosamente rivolto a
Strina, puntandole contro la pistola.
“Io... Io... Non farmi del male... Cruccio... È stata una sua idea... Io faccio solo quello che vogliono... Faccio quello che vuoi... Io...”
“Senti, brutta...” No, la violenza non serviva a
nulla contro questa poveretta, che oltretutto gli faceva anche un po‟ pena. E non rientrava nel suo stile. Sua nuora si comportava così con il figlio e non
otteneva nulla. Lui invece lo prendeva con le buone
e poi lo colpiva alle spalle, quello stupido.
“Senti figliola, voglio dirti una cosa. Hai la stessa età di mio nipote e somigli pure a mia nuora e
non voglio farti del male. Lui adesso…” puntando
la pistola verso il corpo di Cruccio “… Non può più
fartene, quindi perché non mi racconti chi è quel
tipo sul letto?”
“Lui... Anche lui non c‟entra... Ha preso un po‟
di roba, ma credo fosse la prima volta, anche per
scopare… Non lo aveva mai fatto. È venuto subito,
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ma non c‟entra.…”
“Buona. Stai calma e raccontami meglio tutto.
Ma con calma.”
“Io... Sì... Io mi chiamo... Mi chiamano Strina…”
“Strina, lo so… Ma che razza di nome è, Strina?”
“Cristina, sono tanto abituata… Strina è il… Mi
chiamano così da quando… Mi hanno bruciato le
mani… È stato il mio protettore… Si vedono ancora i segni… Io…”
Strina tese le secche braccia verso Armido. Una
serie di ematomi ne punteggiavano la pelle. Armido
si ritrasse infastidito.
“Cruccio mi ha tolto da quella brutta storia, ma
adesso voleva mettersi in proprio… A spacciare,
intendo, e pensava di farmi nuovamente battere…
In camera, però, stavolta e quello… Quello sul letto, dovevamo dargliene un po‟ per convincerlo a
comprarne ancora e io… Io dovevo essere l‟esca
per attirarlo… Ma lui è venuto subito e poi… Io
avevo paura… Glielo avevo detto a Cruccio che
non c‟era da fidarsi di Sciacca e poi… Io non volevo battere… E poi…”
Strina cadde in ginocchio tremante. Ansimava e
sudava. Armido ebbe un moto di pietà. In fondo si
trattava di una vittima, da riabilitare certo, ma sempre una vittima. Era stato quello stronzo lì per terra
che l‟aveva convinta. Era stato lui a cercare di fregare la droga. Quindi era solo lui da punire. In questo caso, il contratto l‟aveva già portato a termine.
Rimaneva il mandrillo sul letto. Quello era un problema, anche se, ridotto così, probabilmente non si
sarebbe ricordato nulla. Certo, il contratto parlava
di una coppia. Si trattava di un vero dilemma morale. In fondo lui non era un assassino, lui moralizzava, uccideva solo quelli che se lo meritavano…
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Strina osservava terrorizzata quel vecchio con i
baffi che le puntava contro la pistola. Sapeva che
questa storia le avrebbe portato guai, glielo aveva
detto a Cruccio: Locco lo avrebbe scoperto…
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2. CRUCCIO E STRINA
Cristina Verzi era soprannominata Strina a causa
di quella brutta storia con il Saladino, quando ci
aveva quasi rimesso la pelle. Un po‟ di pelle sulle
mani ce l‟aveva rimessa in realtà. Cruccio l‟aveva
aiutata ed era stato lui a chiamarla così. Da una
brutta storia, l‟aveva trascinata in un‟altra, ma a
modo suo le voleva bene e questo a Strina bastava.
Cruccio stava con gli SCHIZZATI FRENICI, una
scalcinata banda di spacciatori tossicodipendenti; a
lui però, ambizioso com‟era, la sistemazione andava stretta. Gli SCHIZZATI vivevano alla giornata e
Cruccio era un irrequieto, voleva di più. A Strina la
sistemazione non dispiaceva e a volte si divertiva
pure. Era una fatalista, pensava che la vita non potesse riservarle nulla di meglio; continuava a bucarsi, ma almeno non si prostituiva più. Nella banda
vigeva una sorta di codice d‟onore e alle donne era
proibito vendere il proprio corpo, nemmeno in caso
di estrema necessità. Si poteva rubare, questo sì,
uccidere, al limite, spacciare, ma la prostituzione
era bandita. Le regole le aveva dettate Locco, il capo e ispiratore della filosofia del gruppo. Teneva un
diario, da lui chiamato Vangelo, dove segnava tutto
quello che gli saltava in testa e da cui traeva le regole che scriveva, in ordine alfabetico, in
un‟agenda telefonica. Alla P stava la regola sulla
prostituzione, la quale era stata ideata da Locco per
contrapporsi alla banda del Saladino, odiati rivali
che, come Strina sapeva, ne facevano la loro principale attività.
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Strina era stata con quelli del Saladino, marocchini e tunisini per lo più. Per Strina erano tutti uguali: non distingueva un arabo da un altro e tutti la
trattavano male, la picchiavano, non le davano la
droga e una volta, durante un tentativo di trafugare
una dose, era stata tradotta davanti al Saladino in
persona e condannata dal tribunale islamico, come
lo chiamava lui, alla combustione delle mani.
“Queste mani hanno cercato di rubare e quindi
dovranno essere tagliate!” aveva sentenziato il Saladino con i suoi baffi neri come la pece. “Ma io
sono magnanimo, mi limiterò a bruciartele.”
Così fecero. Uno dei suoi uomini la portò in un
casolare per eseguire la condanna, ma lì incontrarono Cruccio che si stava iniettando una dose. Così,
disturbato e sotto l‟effetto della droga, piantò il
cucchiaio rovente, usato per scaldare il limone che
scioglieva la polverina magica, nella gola del nordafricano. Strina riuscì, saltellando e urlando dal
dolore, a spegnere il fuoco che già avvolgeva le sue
mani, riuscendo a evitare guai peggiori. Ma i segni
rimasero, tanto che per un po‟ dovette portare i
guanti. Da allora non aveva più incontrato il Saladino. Cruccio la teneva nascosta, ma le notizie giravano e doveva stare bene attenta. Stavolta, non si
sarebbero limitati a bruciarle le mani.
Comunque sia, chiunque entrasse negli Schizzati
Frenici doveva leggersi il Vangelo, o meglio un
sunto di esso preparato da Locco, e nemmeno Strina si era potuta sottrarre a questo adempimento.
Locco interrogava a sorpresa i membri della banda
e se non rispondevano erano guai. Locco li guardava da dietro i suoi occhialini tondi, sorrideva malevolo e sentenziava: “Adesso mangi il tuo Vangelo,
così che le sacre parole ti entrino in testa e
nell‟anima!”
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Strina era impaurita da Locco. Aveva uno
sguardo freddo e indagatore, un sorrisetto maligno.
Ogni tanto sembrava perso nel vuoto, ma non gli
sfuggiva nulla.
“Non sembro cattivo, lo sono. Il Pittore mi ha
dipinto così e non posso farci nulla. È una strada
dura, ma qualcuno la deve lastricare” era solito affermare.
Strina si imparò a memoria il Vangelo, anche se
Locco difficilmente interpellava le donne, lo considerava disdicevole. Cruccio se lo era invece mangiato più volte. Non ne voleva sapere di apprendere
il Verbo e Locco lo considerava ormai irrecuperabile. Cruccio odiava Locco: diceva sempre che avrebbe dovuto essere lui a guidare gli Schizzati
Frenici.
Un giorno, Cruccio ebbe la grande pensata: avrebbe spacciato per conto proprio. Già faceva il
corriere per conto di Locco, un compito ingrato,
quindi bastava che ne tenesse un poco per sé e nessuno se ne sarebbe accorto. Aveva già un‟idea su
come piazzare la droga senza destare sospetti. Serviva la collaborazione di Strina. Messo un annuncio
sul giornale, un annuncio tipo vogliosa ventenne ti
cerca per giochini particolari, ne avrebbe approfittato per vendere roba al cliente, magari ricattandolo
dopo averlo drogato. Solo clienti facoltosi naturalmente. Cruccio pensava che a Strina la cosa sarebbe piaciuta, era abituata a ben peggio. Ma a Strina
la cosa non piacque affatto.
“Dovrei tornare a fare la puttana? Tu sei matto!”
la bocca di Strina si raggrinzì in una smorfia di disgusto. “E poi ti sei dimenticato del Vangelo: niente prostituzione. Bella copertura hai pensato. Come
se poi non ti scoprissero comunque!”
“Stai zitta, stronza! Vuoi che ti senta qualcuno?”
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inveì Cruccio. “E poi farai come ti dico io! Ti sei
dimenticata del Saladino? Chi ti ha salvato il culo e
le mani? Chi ti ha portato qui? Mi devi qualcosa e
ora salderai il conto, che ti piaccia o no! E adesso
togliti dalle palle che devo pisciare.”
Strina tentò di dire qualcosa, ma Cruccio si era
già sbottonato i pantaloni e aveva iniziato a irrigare
il terreno. Strina si allontanò con le lacrime agli occhi e andò a sedersi su una panchina vicina, le
braccia incrociate e il volto imbronciato, accendendosi una sigaretta. Da sopra un‟altalena - gli Schizzati Frenici avevano sede in un piccolo parco - saltò a terra Tatta e passò di fianco a Strina, strizzandole l‟occhio. Tatta era tozzo e corpulento e se ne
stava sempre sdraiato a dormire, dovunque capitasse. Nonostante il magro regime alimentare degli
Schizzati Frenici, riusciva a ingurgitare quantità
enormi di cibo, anche se spesso la definizione di
cibo era un po‟ lata. Riciclava alimenti da tutto ciò
che trovava ed era un assiduo frequentatore dei cassonetti dei rifiuti. Il nome Tatta derivava dalla sua
somiglianza fisica e psicologica con Yattaran, un
personaggio del cartone animato di Capitan Harlock.
Tatta si avvicinò svelto a Cruccio, ancora intento
ad annaffiare l‟erba, e gli lanciò sui piedi un oggetto a cui aveva dato fuoco.
“Porca troia, che cazzo fai, pezzo di merda!”
imprecò Cruccio che, tentando di spegnere le
fiamme con un piede, perse il controllo della pisciata e si inzuppò una gamba. “Ma vaffanculo, testa di cazzo! Devi sempre giocare con la merda,
non ti basta mangiarla?”
Cruccio si guardò il suo bello stivale, il suo orgoglio, inzaccherato, lordato da una sostanza nera e
viscida. Una puzza terribile aveva iniziato a diffon22
dersi nell‟aria.
“Hei, Cruccio! Stai attento, è merda fresca, appena sfornata!” lo sbeffeggiò Tatta.
Strina iniziò a ridere e a tossire. Cruccio, furibondo, aveva tentato di avventarsi su Tatta, ma inciampando era caduto sull‟erba bagnata dal suo liquido fisiologico. Tatta gli saltellava intorno,
schernendolo. La confusione aveva riunito alcuni
degli altri, che pregustavano già una rissa. Cruccio
si era alzato e aveva estratto un coltello.
“Tu ami i sorci, Tatta? Credo di sì, visto quanti
ne mangi! Beh, io adesso te ne farò vedere parecchi, di verdi però!” e si scagliò su Tatta.
“Chi è causa del suo mal, pianga se stesso, ma
guai a chi causa il male degli altri!”
Una voce metallica si levò sopra il frastuono e
tutti si fecero da parte.
“Bene, vedo che qualcuno non ha ancora studiato a fondo il Vangelo.”
Cruccio rinfoderò l‟arma e deglutì alcune volte,
mentre Tatta mise le mani dietro la schiena continuando a esibire il suo solito sorriso da ebete.
“Cruccio, Cruccio… Tu sei un allievo indisciplinato…” disse Locco mettendogli una mano sulla
spalla “E puzzi pure… Comunque sono sicuro che
hai delle qualità, devi solo indirizzare meglio le tue
energie. Tu hai della tensione Cruccio e questo
danneggia la tua crescita spirituale… Tatta è un essere primitivo, istintivo e tu, che dovresti essergli
superiore, cadi ancora nei suoi tranelli: mi deludi
veramente.”
Locco abbassò la testa, poi la alzò con fare ispirato e si tolse gli occhiali. “Avete in tasca le vostre
copie di Vangelo?”
I due annuirono.
“Le avete studiate?”
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Nuovo doppio cenno di assenso.
“Non molto, direi, visto quello che avete combinato. Ora sapete che cosa fare, ma la formula va recitata lo stesso. Colui che mi mangerà, mi possiederà e io possiederò lui. Mangiate!” sentenziò.
Mentre Tatta divorava la sua copia di Vangelo
con avidità, insaporita con alcuni bocconi indefinibili che aveva estratto dalle tasche, Locco chiamò a
sé Cruccio che stava ancora cercando di ingoiare il
suo pezzo di carta.
“Cruccio, devi andare da Sciacca a prendere la
nuova partita. Questo è il ricavato della vecchia”
gli disse allungandogli un pacchetto.
Cruccio osservò l‟involucro, mentre con le dita
cercava di togliersi i residui di carta dai denti. Un
sonoro rutto accompagnò la fine di quelle operazioni.
“Locco, ma il nostro guadagno, quant‟è? Tu non
ce lo hai mai detto. E dove va a finire?” domandò
Cruccio pulendosi le mani sul giubbotto.
Locco lo fissò, piegando di lato la testa e sorrise
ironico.
“Cruccio… Come al solito tu non leggi a fondo
il Vangelo… E pensare che ne hai mangiate parecchie copie, ma forse ti mancano gli enzimi giusti, devi ancora digerirle. Adesso vai e porta con te Tatta.”
“Che cosa? Ma…”
“Niente ma, così ho deciso! Dentro al pacchetto
ci sono le due nuove copie del Vangelo, per te e per
Tatta. Le devi imparare a memoria per domani, così
non farai più domande stupide.”
Cruccio rimase a fissare Locco per qualche secondo poi, non sopportando più il suo sorriso gelido, se ne andò a testa bassa verso Strina.
“Dobbiamo liberarci di Tatta” sibilò tra i denti.
Strina lo guardò cercando di accendere un‟altra si24
garetta. La mano le tremava troppo e i fiammiferi
non riuscivano a rimanere accesi. Cruccio la afferrò
e gettò a terra la sigaretta. Strina represse un urlo di
dolore, mentre lui le martoriava le povere mani già
tanto provate.
“Dobbiamo andare ora! E guai se mi giochi
qualche scherzo: faremo come ho deciso e non se
ne parla più!” minacciò Cruccio trascinandola con
sé. Tatta caracollava dietro a loro, con la sua solita
andatura balzellante.
“Aspettatemi piccioncini!” urlò con la sua stridula voce da controtenore.
Improvvisamente si fermò. “Fermatevi, devo finire la mia colazione!”
Cruccio si arrestò.
“Quello stronzo…” imprecò a bassa voce.
Tatta si era fermato davanti a una panchina su
cui sedeva un uomo anziano che leggeva, e iniziò a
sbocconcellare qualcosa ricoperto di penne.
“Delizioso, ne vuoi anche tu?” disse rivolgendosi al vecchio che lo guardava “No? Preferisci quella
brioche? Fa sentire… Mhhhh… meglio il piccione,
è più frollo, sarà morto da almeno tre giorni.”
Tatta si allontanò salutando il vecchio che lo fissava iroso. Si divertiva sempre a prendere in giro e
schifare le persone, soprattutto i pensionati che frequentavano il parco.
“Ciao, ciao…” si congedò Tatta agitando le tozze mani. Cruccio lo raggiunse, seguito da Strina, e
lo prese per un braccio, scuotendolo furiosamente.
“Muoviti pezzo di merda, piantala di giocare con
i vecchi rincoglioniti. Dobbiamo andare e non ho
voglio di mangiarmi il Vangelo un‟altra volta. A te
forse farebbe piacere, brutta fogna, ma a me, no!”
Il vecchio li osservava da lontano e scuoteva la
testa. Strina fece una smorfia.
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“Pensa se mi dovesse capitare un vecchio bavoso come quello… Me ne sono capitati sai, quando
stavo con il Saladino… Hai visto come mi guarda?”
“Vuoi startene zitta, brutta stronza!” la fulminò
Cruccio facendo un cenno verso Tatta che li precedeva saltellando. “E tu che hai da guardare? Fatti i
cazzi tuoi!” disse rivolto al vecchio.
Detto ciò Cruccio spinse Strina avanti a lui e il
terzetto si incamminò verso il bar di Sciacca.
Cruccio rimuginò per tutto il tragitto. Doveva
liberarsi di Tatta, era un impedimento per i suoi
piani avere quel ciccione rompiballe tra i piedi. La
fortuna gli venne incontro sotto forma di due uomini del Saladino. Se li trovarono davanti inaspettatamente, visto che quella non era la loro zona. I due
si fermarono e li osservarono, incerti sul da farsi.
Cruccio nascose Strina dietro di sé, ma i due nordafricani la riconobbero e, dopo aver confabulato un
po‟ tra di loro, iniziarono ad avanzare spavaldi, le
mani in tasca. Strina era terrorizzata e si fece piccola piccola dietro il giubbotto di Cruccio.
“Ti prego, ti prego! Non lasciare che mi prendano, mi spellano viva stavolta… Ti prego!” piagnucolò.
La stretta di Strina lo fece quasi cadere a terra.
Cruccio intravide i coltelli che spuntavano e prese
Tatta verso di sé.
“Abbiamo bisogno di un diversivo, fagli uno dei
tuoi stupidi giochetti, mentre noi cerchiamo di raggiungere il bar.”
“Ma che dici, facciamo una bella zuffa, ci divertiremo…”
“Cretino, quelli vogliono Strina! Il Saladino ha
messo una taglia su di lei. E poi non abbiamo tem26
po, dobbiamo andare da Sciacca. Muoviti, guadagnati la merda che mangi!”
Mentre Cruccio e Strina indietreggiavano, Tatta
avanzò verso gli uomini del Saladino, sorridendo e
salutando.
“Hei, ragazzi! Come va? E come sta il vecchio
beduino? E un po‟ che non lo si vede un giro!”
Tutto successe in un lampo. I due si guardarono
interrogandosi su chi fosse quel matto che li sfidava
così apertamente. Fecero per avventarsi su di lui,
ma Tatta li bombardò con due dei suoi speciali sacchetti fiammeggianti. Nel trambusto che seguì
Cruccio e Strina riuscirono a defilarsi e iniziarono a
correre a perdifiato.
“Li abbiamo fregati quei figli di puttana! E ci
siamo pure liberati di quello stronzo di Tatta. Magari lo sbudellano…”
Strina lo guardò amorevolmente. L‟aveva salvata un‟altra volta. Cruccio aveva tanti difetti, ma sicuramente un po‟ ci teneva a lei. Non sapeva dire
se fosse amore o altro, ma il fatto che esistesse
qualcuno al mondo interessato alla sua persona, le
bastava. Si strinse a lui sognando una romantica
fuga in moto, con i capelli scompigliati dal vento e
gli occhiali scuri e i giubbotti di pelle. Un languore
le salì da sotto e le venne voglia di fare l‟amore con
lui, lì, in mezzo alla strada. Di fare l‟amore, non
scopare come quando faceva la puttana. Loro non
l‟avevano mai fatto, Cruccio non voleva, lei non
capiva il perché. Forse aveva paura dell‟AIDS, ma
lei era pulita, lo sapeva. Ma adesso voleva farlo, assolutamente.
“Cruccio, andiamo via di qui… Prendiamo un
treno e scappiamo… Io ti a…”
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“Ma che stai dicendo, stupida troia!” imprecò
spazientito “Dobbiamo andare da Sciacca, ti ricordi
vero, quello che dobbiamo fare? Andiamo e non rompere, gli uomini del Saladino non ci troveranno là.”
Una folata di vento gelido accompagnò l‟entrata
di Strina, sospinta malamente da Cruccio. L‟interno
del bar era caldo e fumoso; alcuni ragazzetti stavano ciondolando davanti ai videopoker e non alzarono nemmeno la testa; Leonardo, detto Lardo, il barista, se ne stava appoggiato con i gomiti al bancone, la sigaretta in bocca e il lurido grembiule allacciato al ventre prominente. Alla vista di Lardo,
Strina fece una smorfia: quel maiale ci aveva provato varie volte, mettendole le mani dappertutto;
diceva che lei avrebbe dovuto essere più carina,
con tutti i favori che le faceva, ma finora non era
andato più in là di qualche manata, anche perché
Locco non lo avrebbe tollerato.
Appena Strina fu entrata, Lardo le lanciò un laido sguardo e fece uscire la lingua, sorridendo malevolo. Strina si strinse nel suo cappottino di plastica e corrucciò le labbra. Cruccio non disse nulla e
fece un cenno con la testa a Lardo, il quale, beffardamente, si inchinò e li invitò a passare nel retro.
Mentre Strina veniva trascinata da Cruccio, Lardo
si mise una mano sotto il grembiule e, sollevandolo, mostrò i suoi attributi.
“Vieni a succhiarmelo, troietta! Prima o poi mi
capiti sotto tiro senza i tuoi protettori e allora…” le
sibilò.
Strina cercò di rispondere, ma Cruccio la zittì:
erano nel retro, nella saletta riservata, una stanza
spoglia con due tavoli e alcune sedie. A un tavolo
sedevano alcuni personaggi che parevano usciti da
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un telefilm americano degli anni Settanta. Al centro
si trovava un ometto, dai lunghi e radi capelli brizzolati, vestito in maniera bizzarra. Indossava camicia rosa dal largo colletto, elegante panciotto argentato con orologio da taschino, lunga giacca di pelle,
jeans e stivali a punta. Ascoltava tranquillo un vecchio walkman, agitando ispirato le mani, a occhi
chiusi. A sinistra, una biondina slavata, truccata e
ingioiellata, fumava voluttuosamente una sigaretta,
stringendo i bicipiti di un ragazzotto abbronzato,
con i capelli impomatati e gli occhiali scuri. A destra una specie di bufalo dai lunghi capelli ondulati,
si stava abbuffando in un piatto dal contenuto incerto.
“Questa carne fa cacare! È dura come il mio uccello quando è in tiro!” sbottò.
“Si vede che ce l‟hai proprio moscio! La carne è
fresca: quando la addenti piange ancora il maiale!”
A parlare era stata Tora, la signora Taurella come voleva essere chiamata. Il padre, pugile dalla
breve ma intensa carriera, era soprannominato Il
Tauro per la sua notevole stazza fisica. Con i soldi
guadagnati aveva aperto un bar che aveva chiamato
Caffè Tauro. Alla figlia aveva lasciato in eredità il
bar e un nome assurdo: Taurella, o meglio, Torella
o Tora come era soprannominata. Con il suo faccione rosso e minaccioso, si avvicinò al bufalo.
“Hai qualche lamentela?”
Il bufalo stava per replicare, ma una delle mani
che l‟uomo al suo fianco stava agitando, si fermò
sul suo braccio e il bufalo abbassò nuovamente la
testa. Tora annuì soddisfatta e allontanò il suo grasso corpo dal tavolo, producendo una sonora scoreggia.
“E non spostare le sedie senza sollevarle: ho
sentito il rumore, sai?”
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“È pure sorda quella!” ringhiò il bufalo, mentre
la bionda agitava la mano arricciando il naso e il
ragazzotto rideva. “Ma il buco del culo ce l‟ha ben
aperto!”
Cruccio aveva osservato spazientito tutta la scena.
“Sciacca!” urlò per sovrastare il baccano “Sono
venuto per la roba. E ho pure i soldi!”
Mentre allungava il pacchetto, i tre che sedevano
all‟altro tavolo si alzarono contemporaneamente.
Erano i rappresentanti degli Schizzati Frenici al
Caffè Tauro, la guardia scelta di Locco. Li chiamavano Trinità. Tanghero, la mano, era alto e massiccio, non parlava mai ma picchiava molto; Trancio,
la voce, largo, tozzo e muscoloso, parlava troppo;
Tapino, l‟orecchio, esile e curvo, sorrideva sempre.
“Che cappio hai fatto Cruccio? È quasi mezzogiorgio, pensavamo fossi leprato!” disse Trancio
mentre gli altri annuivano.
Cruccio odiava il gergo degli Schizzati Frenici,
ma Locco pretendeva che lo si parlasse in presenza
di estranei, in modo da confondere le idee.
“Non bombarmi Trancio, di sassabiglie ce ne ho
già una dietro.” rispose Cruccio seccato. “Abbiamo
visato due islamici qui fuori e Tatta ha dovuto sparafuocare.”
“Due islamici? Dentro i sacri confini? La situazione è gravida, bisogna subito notiziare Locco. Lo
messaggerò subito, ma dovrò usare la voce tumefatta…” continuò Trancio, mentre lo sguardo di
Tanghero divenne truce e il sorriso di Tapino più
malevolo. “E Tatta?”
“Che cappio ne so! Non sono mica il suo papipapi. Io dovevo portare i soldi e li ho portati!”
“Tu sei troppo extrabranco Cruccio, non mi gusti. Lo notizierò a Locco e…”
Mentre Trancio parlava, il bufalo protese la ma30
no verso il pacchetto, ma nuovamente la mano di
Sciacca, sospendendo il suo arieggiare, lo fermò
con un buffetto. Sciacca aprì gli occhi, guardò gravemente il bufalo e finalmente parlò.
“Cruccio, ragazzo mio!” esclamò interrompendo
Trancio e afferrando il pacchetto “Vieni che andiamo nel magazzino a prendere la merce.”
Sciacca si alzò, si tolse le cuffie e prese Cruccio
per le spalle. Strina era rimasta in piedi, lo sguardo
basso, sperando che tutto si risolvesse alla svelta.
Non sopportava l‟idea di stare troppo a contatto con
quei tipi, lei voleva stare con Cruccio, all‟aria aperta. Anche il freddo era meglio di quel luogo fumoso
pieno di porci e buzzurri.
“Vieni a sederti bella” la invitò il bufalo.
I piedi le facevano male e lei accettò. Il bufalo le
sorrise.
“Ne vuoi un po‟? Ma attenta quando mastichi,
potrebbe urlare!”
Il bufalo scoppiò in una sonora risata, sputando
boli di carne in tutte le direzioni. La Trinità rimase
impassibile, mentre la bionda si stava affogando nel
fumo che le era andato di traverso. Strina abbassò
gli occhi, cercando di formare un‟immagine nella
sua mente, completa di odori, sapori, rumori. Immaginò una spiaggia e bel mare azzurro. Il dolce
rumore della risacca copriva le volgarità del bufalo.
Era un trucco che le aveva insegnato sua madre,
quando da bambina la cullava sulle sue ginocchia.
Povera mamma: anche allora era sempre malata e
non usciva mai di casa. Così le raccontava un sacco
di storie meravigliose.
Sciacca condusse Cruccio nel magazzino. Tora
stava spostando alcuni barattoli ostruendo il passaggio.
“Ti dispiace?” le sorrise Sciacca.
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Tora lo guardò torva e si allontanò producendo
una delle sue scoregge. Sciacca la osservò allontanarsi, poi aprì il walkman e da uno scomparto ne
estrasse una busta di plastica.
“Tengo sempre qui le dosi, ho modificato apposta il mio vecchio walkman. Credi che non abbia i
soldi per comprarmi un lettore MP3? E poi dove
metterei le dosi? Le trasformo in digitale? Droga
musicale: potrebbe essere un‟idea, Cruccio ragazzo
mio. Nel magazzino c‟è solo borotalco. Quei due
non sono affidabili, se potessero mi fregherebbero.”
“Certo che tu Sciacca sei veramente furbo. Io
non ci avrei mai pensato…”
“Ecco perché io sono io e tu sei non sei un cazzo. Ma non ti crucciare Cruccio” rise Sciacca alla
sua battuta. “Essere ignoranti è bello, perché si ha
ancora molto da imparare. Esseri saggi, come me, è
triste, perché sei già al massimo e nulla ti sorprende. Diventi un solitario, un cinico e le cose ti appaiono fin troppo chiare. Comunque tu sei giovane
e hai ancora tanto da imparare. E da sorridere.”
“Senti Sciacca, io…” disse Cruccio cercando
nervosamente di allentare la presa sulla sua spalla
“Locco vorrebbe qualche dose in più, questa volta… Sai, c‟è stata molta richiesta, le abbiamo finite
in fretta… E così, ci servirebbero…”
La voce di Cruccio assunse uno strano tono distorto. Cercò di sfuggire allo sguardo di Sciacca,
ma lui venne ancora più vicino.
“Altre dosi? Mhhhh… Locco non mi ha detto
nulla, ma comunque, più vendete e più io guadagno… Quante ve ne servono esattamente?”
“Non lo so, non me la ha detto… Fai tu, quello
che pensi sia possibile… Per me, cioè… Locco…”
Cruccio stava diventando sempre più nervoso. Il
fiato di Sciacca gli soffiava direttamente in faccia e
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i suoi denti gialli ostruivano completamente il
campo visivo.
“Va bene, te ne darò dieci in più” disse estraendo un ulteriore sacchetto dal walkman. “Se non bastano la prossima volta ve ne darò delle altre, in
aggiunta.”
Cruccio sorrise e fece per andarsene, ma Sciacca
lo trattenne ancora per la spalla.
“Sai, Cruccio… Si dice che chi trova un amico,
trova un tesoro… Ma io dico pure che chi trova un
tesoro, trova molti amici… Amici disposti a seguirlo, ad aiutarlo, ma anche a tradirlo, per quel tesoro.
E una volta che non c‟è più il tesoro, anche gli amici svaniscono. È una metafora della mia condizione, ma potrebbe diventarla anche della tua: riflettici
Cruccio. Se vuoi arrivare alla mia età, conviene che
ci rifletti. Ora vai.”
Cruccio si liberò della stretta di Sciacca e, sudato e paonazzo, uscì dal magazzino. Appena fuori
Strina si alzò e gli venne vicino.
“Hai finito? Voglio andarmene di qui” gli mormorò.
“Sì, adesso ce ne andiamo, non rompere… Ce ne
andiamo.” Poi, rivolgendosi alla Trinità: “Io metto
in moto gli zoccoli. Farò un girone per abbagliare
gli islamici, se sono ancora in circolo. Ci visiamo
alla base.”
Detto questo uscirono dalla stanza prima che
Trancio avesse il tempo di dire qualcosa. Strina si
sentiva puntati addosso gli occhi di tutti e fu ben
felice di andarsene. Ma appena rientrati nel bar una
voce li bloccò.
“Il vermouth lo bevono i froci!” stava urlando
un ubriaco dai vestiti spiegazzati a Lardo, che se ne
stava dietro al bancone.
“Ti ho già detto che grappa non ne abbiamo!
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Non teniamo superalcolici…”
“Non ne avete perché questo è un bar di froci! E
di drogati! Io sono della polizia e voi siete in arresto!” continuò il tipo mimando il gesto di sparare
con una pistola.
“Sì, sì… Bevi questo e taci.”
Strina osservò l‟ubriaco. Trangugiò il contenuto
del bicchiere e iniziò a sussultare, come se si strozzasse.
“Ancora tu!” urlò Tora da dietro le orecchie di
Strina, assordandola “Appoggia quel bicchiere e
sparisci!”
L‟ubriaco si girò con il bicchiere in una mano e
mimando un gesto osceno con l‟altra.
“Appoggia il bicchiere e metti i soldi sul bancone!” continuò infuriata.
“Oh, che cazzo vuoi? Ce l‟hai con me, vuoi morire?”
A quest‟ultima frase Tora replicò con un micidiale pugno che mandò steso l‟ubriaco. Poi, dopo
avergli preso un po‟ di soldi dal portafoglio, lo buttò fuori senza tanti complimenti.
“Hei!” urlò lui da fuori “Me ne hai presi troppi!”
“Questi sono per il disturbo! E guai a te se ti fai
rivedere, te l‟ho già detto! In quanto a te…” disse
rivolgendosi a Lardo “Sei un incapace, non sei
buono a fare nulla… Il mio povero papà me lo diceva sempre, ma allora ero giovane…”
Tora si allontanò nel retro e Cruccio e Strina ne
approfittarono per uscire da quel bar da incubo.
Svoltato l‟angolo, si allontanarono velocemente dal
Caffè Tauro, inseguiti dalle terribili bestemmie di
Tora che, esasperata, stava imprecando contro il
mondo e il suo destino ingrato.
“Forse era anche più magra...” sogghignò malignamente Cruccio.
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“Non ne potevo più. Non ne posso più!” si lamentò Strina mentre veniva trascinata da Cruccio
“Non li voglio più vedere quelli là, io…”
“Smettila stupida. E muoviti che dobbiamo fare
in fretta, altrimenti Locco si insospettirà se ritardiamo. Adesso andiamo all‟agenzia di Gastone,
mettiamo l‟annuncio e ci facciamo dare
l‟appartamento…” Cruccio si fermò e fissò freddamente Strina “Non mi vorrai mica fregare, vero?
In questo affare ci sei dentro anche tu, quindi…”
Strina si strinse a lui il più forte che le sue deboli
forze le consentivano.
“No, lo sai che io per te farei qualunque cosa!
Mi devi promettere, però, che se guadagniamo dei
soldi ce ne andiamo di qua… Via, il più lontano
possibile…” disse in un impeto di romanticismo.
“Sì, sì… Adesso vedremo, prima cerchiamo di
piazzare alla svelta queste dosi…”
“Cruccio vuole fregarmi. E vuole fregare anche
Locco.” Sciacca si era rimesso a sedere e ascoltava
la musica a occhi chiusi.
“Lo sapevo che era un fregoli!” ruggì Trancio, a
cui fece eco il ringhio di Tanghero.
“Vado a romperlo in due, quel coglione!” urlò il
bufalo, ma prima che si potesse alzare, la mano di
Sciacca lo fermò nuovamente.
“Non facciamo cazzate! Voi tre…” puntò
l‟indice verso la Trinità “Voi lo seguirete e tornerete a riferirmi. Poi deciderò il da farsi, ma sarà un
lavoro pulito, non voglio macelli.”
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3. L’UOMO SUL LETTO
La TV continuava a trasmettere Pulp Fiction.
Adesso era il capitano Koons che parlava.
Per cinque lunghi anni, ha portato
quest’orologio nel suo culo. Poi, quando è morto di
dissenteria, ha dato l’orologio a me. Io ho tenuto
nascosto questo scomodo pezzo di metallo nel mio
culo per due anni...
Armido non sopportava la volgarità di questi
film, ma tenne la TV accesa e alzò il volume. I dialoghi avrebbero coperto il rumore e le urla.
Strina osservava il corpo di Cruccio steso a terra. Povero Cruccio, era tanto tranquillo ora. Lei
l‟aveva avvertito, ma lui si sentiva sicuro di sé e si
era nuovamente messo in contatto con Sciacca, per
avere ulteriore droga. Lei aveva cercato di avvertirlo che erano troppo disponibili, che si sarebbero insospettiti, avrebbero parlato con Locco, il giochino
sarebbe venuto alla luce e Sciacca avrebbe mandato
qualcuno.
Un flebile gorgoglio uscì dalla bocca di Cruccio,
insieme a un misto di bava e sangue. Frammenti di
pensiero si affollarono nella sua mente prossima a
spegnersi. I suoi libri, i suoi amati libri. Perché suo
padre non voleva che leggesse i libri di avventura?
Sandokan, Il corsaro nero, il capitano Nemo,
L’isola del tesoro, Gulliver... Erano i suoi amici.
Perché li buttava via? Papà perché mi picchi, lasciami, lasciami stare...
Un‟altro colpo colpì Cruccio, che sussultò e poi
rimase immobile. Armido rivolse la sua attenzione
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all‟uomo legato al letto.
“Che cosa? Questo deficiente è… Ecco perché
mi pareva un viso noto! Senza occhiali e nudo come un verme…”
Armido gettò a terra i pantaloni dello sventurato
cliente di Strina. “Conoscevi già questo tipo?” le
domandò, nascondendo a malapena la sua stizza.
“N-no, io… Lui era venuto per scopare… Io…”
Strina era terrorizzata.
“Come siete entrati in contatto?” insistette Armido.
“Con un annuncio… Lui ha risposto ad un annuncio… Voleva scopare, non l‟aveva mai fatto,
diceva di avere già risposto ad altri… Annunci intendo… Ma che erano stati esperienze negative…
Lui parla bene, è istruito, ha un nome strano, forse
è un nobile…”
“Lo so! È l‟insegnante di storia di mio nipote!
Aveva la carta d‟identità in tasca. Ulfredo! Quel
babbeo di mio nipote ne parla sempre… Lui lo
chiama Fredo. Ecco perché è cresciuto così deficiente, con dei pervertiti come insegnanti! Adesso
si spiega quel disegno pornografico che gli hanno
trovato nel diario… Con la sua insegnante di italiano in quella posa immonda… Che tempi! Meno
male che esiste ancora qualcuno con una moralità
ben salda!”
Ulfredo udiva una voce lontana che lo chiamava,
ma non riusciva a scorgere nessuno. Gli sembrava
di viaggiare su di una nuvola: era tutto così leggero,
così ovattato… Forse era lei, la donna della sua vita, che lo invitava a raggiungerla…
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4.
ULFREDO
Non ne poteva più, ormai tutte le notti la sognava. Si era fermata a parlare con lui fuori dalla scuola, al termine del Collegio Docenti. Avevano conversato dieci minuti, anche se in verità lui si era espresso a monosillabi. Poi l‟aveva persa: doveva
correre a prendere l‟autobus e lui nemmeno aveva
pensato di accompagnarla. Non l‟aveva più rivista.
In segreteria gli avevano spiegato che non insegnava più lì, la sua supplenza era terminata. Tutto
quello che gli restava era il suo nome, Francesca, il
numero dell‟autobus che aveva preso, il sei, e la
sua ultima frase: “Sono un‟amante dei piaceri della
vita… Di tutti i piaceri…”
La segretaria non voleva dargli l‟indirizzo, per la
questione della privacy. Sanbernardo, che l‟aveva
avuta come collega in Terza C, non riusciva a ricordarsi il cognome. Continuava a ripetere che aveva a che fare con i bruchi, con i bachi. Ulfredo
non si dava pace, si era innamorato. Lui non si era
mai innamorato, a trent‟anni non era mai stato con
una donna, non aveva mai provato le gioie del sesso.
Quella mattina arrivò a scuola in bicicletta, come al
solito. Antonio Sanbernardo, il suo collega di matematica, lo vide arrivare e non poté fare a meno di
sorridere. Ulfredo Romella, insegnante di storia,
soprannominato ironicamente Rommel dai colleghi
e Fredo dagli studenti, utilizzava una bicicletta ormai troppo piccola per lui, una bicicletta a cui era
affezionato, che suo padre gli regalò quando aveva
quattordici anni. Usava il sedile talmente rialzato,
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che pareva voler pedalare anche con le mani. Si avvicinò a Sanbernardo con la solita andatura caracollante, la barba incolta e i capelli arruffati. La logora
borsa in pelle toccava quasi terra, visto l‟esagerata
lunghezza delle braccia.
“Allora Antonio, durante l‟ora buca ci facciamo
la solita partitina a scacchi?” domandò Ulfredo appoggiando stancamente la borsa su di un banco.
“D‟accordo” rispose Sanbernardo. “Ma che cosa
hai fatto stanotte? Hai litigato con i tuoi gatti? Sei
più scombinato del solito.”
“Ho dormito poco Antonio” sorrise Ulfredo, da sotto la barba incolta. “Penso ancora a Francesca.”
“Francesca? Quella supplente! Ma dai… Sai che
non riesco ancora a ricordarmi il cognome… Continua a venirmi in mente il baco da seta, ma non
capisco il perché…”
“Già, se te lo ricordassi… Sto pensando di seguire il percorso dell‟autobus che aveva preso quella sera. Me lo ricordo benissimo: era il numero
sei.”
“Ma tu sei matto! E poi che farai?”
“Controllerò tutte le case nelle vicinanze, tutte le
fermate, la gente che passa, mi apposterò ogni
giorno…”
“Ulfredo, è una cosa da folli, ma te ne rendi conto? Adesso probabilmente non prenderà nemmeno
più quell‟autobus, andrà in un‟altra scuola, oppure
farà qualche altro lavoro…”
“Ma casa sua deve trovarsi lungo quel percorso!
Sono sicuro che questa pista produrrà dei risultati,
me lo sento. Il destino mi attende a una di quelle
fermate. Stasera inizio, ho deciso!” affermò risoluto
Ulfredo.
“Ma non dire cazzate! Stai facendo una stronzata, te lo dico io! Hai proprio del tempo da perdere.”
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“Calma, calma. Ci ho riflettuto, e tu sai che
quando rifletto soppeso tutte le possibilità. Alla fine
sono arrivato alla conclusione che devo ritrovarla e
da qualche parte devo pur iniziare. So che appare
un‟impresa disperata, ma è uno dei pochi appigli
che possiedo e magari, con un po‟ di fortuna… La
mia vita era così tranquilla e ora è diventata un inferno.”
“Ascolta Ulfredo, sai che ti sono amico e che mi
dispiace vederti così ma, come ti ho sempre consigliato, tu dovresti venire con me qualche sera, e lasciare perdere i tuoi libri, i tuoi film e i tuoi gatti!”
“Antonio, io in quei posti non ci vengo, lo sai! E
poi la sera mi piace starmene tranquillo.”
“Almeno metti l‟inserzione di cui ti parlavo, in
quell‟agenzia. Devi dimenticare quella Francesca,
non sai neanche chi è!”
“Ci penserò. Sì, ci penserò, però… Va bene, ci
vediamo dopo, devo andare a lezione ora.”
Sanbernardo lo vide allontanarsi e scosse la testa. Una bella scopata ci voleva per lui, proprio così, anche se conciato a quel modo…
Antonio Sanbernardo era noto per essere un
donnaiolo. Curava molto la sua persona, a differenza di Ulfredo: la barba folta e ben curata, gli occhiali professionali, giacca, cravatta e acqua di colonia. Girava su una Mercedes giallo canarino, anche se usata e di un modello piuttosto antiquato,
l‟unica che si potesse permettere. Alcune colleghe
definivano il suo aspetto come quello di un tipico
puttaniere e così la sua fama non era delle migliori.
Contribuiva ad alimentare queste voci l‟insistenza
con cui cercava di attaccare bottone con le nuove
arrivate, soprattutto se giovani.
“Raga, arriva Fredo! Che fredo fredo che c‟è!”
Angelo Strossi corse in prima fila, non voleva
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perdersi lo spettacolo dell‟entrata del Professor
Romella. Poi doveva fare il suo solito giochetto per
evitare l‟interrogazione.
Ulfredo entrò in classe, si tolse il liso cappotto,
lo appoggiò sulla sedia, ma subito dopo se lo rimise: l‟aula era sempre gelida. Il Preside aveva la mania del risparmio energetico e razionava il riscaldamento.
“Ragazzi c‟è veramente freddo freddo!”
Nel pronunciare la solita frase d‟esordio Ulfredo si
voltò verso gli studenti e vide che erano tutti raggruppati nelle prime file e sorridevano. Che classe
magnifica che aveva, lo adoravano! Soprattutto
Strossi, che se ne stava sempre in prima fila a guardarlo fisso, addirittura sacrificato tra due banchi.
Povero Strossi, non era una cima, ma aveva tanta
buona volontà. E lo prendevano anche in giro.
“Prof, Stronzi le voleva chiedere una cosa!”
strillò ridacchiando qualcuno dal fondo dell‟aula.
“Ma vaffanculo!” inveì Strossi “Prof, sa che mi
sono guardato tre volte quel video che mi ha prestato. Ho preso esempio da lei, è una cosa proprio figa. Però ancora non ci capisco un... Cioè non riesco
a capire lo stile artefatto di Poles…”
“Strossi, ma insomma ti devo sempre spiegare
tutto? Si dice stile rarefatto! Dunque…”
Ulfredo si era appassionato al cinema di Luque
Poles, uno sconosciuto regista spagnolo di cui ricorreva il centenario della nascita, da quando aveva
assistito a un documentario sull‟argomento, verso
le tre di notte. Da allora si era votato alla ricerca di
qualsiasi cosa riguardasse questo autore. Era riuscito a farsi spedire dalla Spagna un video dove erano
raccolti i due capolavori di Poles: Annuario, dove
la cinepresa inquadra minuziosamente l‟uscita quotidiana di una donna da un portone, mentre le sta41
gioni alternano il loro vicendevole corso; Necessità
Primordiale, capolavoro del realismo, cortometraggio che fissa le emozioni che traspaiono dal
volto di un uomo intento nei propri bisogni fisiologici. Anche i ragazzi si erano appassionati a questo
argomento e Ulfredo era lieto di condividere con
loro questa passione. Un‟altra passione che aveva
contagiato i suoi studenti erano le gare di tamburello, uno sport trascurato ma molto interessante. Lui
conosceva tutto, le tecniche, i regolamenti, i campionati. Aveva anche tentato di organizzare un torneo a scuola, ma l‟iniziativa non aveva avuto molto
seguito. I ragazzi invece parevano molto interessati
e speravano di fare cambiare idea al professore di
ginnastica. Ulfredo stava ancora parlando, quando
il suo orologio suonò, ricordandogli che l‟ora era
quasi passata.
“Ragazzi, oggi avrei dovuto interrogare, ma comunque anche queste discussioni sono educative.
Almeno, io la penso così. Purtroppo devo mettere
qualche voto e il quadrimestre sta terminando. La
prossima volta interrogo. Vorrei tre o quattro volontari… “
La campanella suonò e Ulfredo non fece in tempo a finire il discorso. Una massa urlante di studenti si riversò fuori.
“Ragazzi non è ricreazione, non potete andare
fuori!”
Le sue parole si persero nel frastuono e non sortirono molto effetto. Ulfredo si strinse nelle spalle
e, raccolta la sua borsa, fece per uscire ma venne
bloccato sulla porta da una potente voce baritonale.
“Ulfredo, cercavo proprio te! Fermo lì, non azzardarti ad andare!”
Il professor Boschi, Attila di nome e di fatto,
tanto che era chiamato l‟Unno, gli intimò di fer42
marsi. Boschi insegnava ginnastica e usava metodi
per così dire, un po‟ antichi. Innanzitutto usava una
tuta degli anni Trenta, portava un paio di baffi
all‟insù, e pensava che l’esercizio ginnico tempra il
fisico e la morale. Con lui niente calcetto, ma sangue e sudore, corse e piegamenti, volteggi e salti,
fino allo sfinimento. A volte arrivava vestito come
un gentiluomo dell‟Ottocento, con panciotto e orologio da taschino, ma l‟aspetto, con i suoi argentei
capelli a spazzola, rimaneva quello di un sergente
dei marines.
Ultimamente Ulfredo l‟aveva tormentato con la
storia del tamburello e due giorni fa l‟Unno si era
incazzato per l‟insistenza delle sue richieste, ma la
campanella aveva impedito degenerazioni. Ora però Boschi era davanti a lui, con fare minaccioso.
“Ulfredo, stavolta non mi scappi. Stasera alle
nove e non accetto rifiuti. Ti verrà a prendere Sanbernardo, ho appena parlato con lui!”
Ulfredo impallidì.
“Senti Attila, non credo ci sia bisogno di prenderla in questo modo. E poi come hai fatto a convincere Antonio, non capisco… Io aborro la violenza!”
“Ma smettila Ulfredo. È l‟unico modo per trascinarti fuori, te ne stai sempre chiuso in casa. Stasera deve essere presente l‟intero corpo insegnante!”
“L‟intero corpo insegnante! Cos‟è, volete liberarvi
di me e tutti devono accertarsene? No, io non ci
sto! Comunque giuro che non ti parlerò più del
tamburello.”
“Non voglio sentire storie! O ti presenti o ti
vengo a prendere io. Alle ventuno da Nicola, vedrai
che davanti a una pizza tirata e ad una birra ti passeranno le fissazioni!”
Detto questo Boschi girò sui tacchi e se ne andò
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con fare marziale. Ulfredo rimase interdetto: dunque si trattava solo di una cena con gli altri colleghi. Una mano sulla spalla lo fece nuovamente sussultare. Che fosse l‟Unno che tornava per mollargli
un cazzotto? Sanbernardo lo guardò svogliato.
“Allora stasera ti vengo a prendere. E non dire di
no che altrimenti Attila me le suona. Possibile che
te ne devi sempre stare a casa?”
Ulfredo inclinò la testa e fece per ribattere.
“Ti prometto che ti porto a casa in tempo per
guardare i film di quel Pollos!”
Ulfredo sospirò.
“Poles, si chiama Poles… E va bene, verrò. Però… No, no. Stavolta vengo, è giusto.”
Ulfredo arrivò a casa già pentito di avere accettato. Alberto e Marta gli vennero incontro miagolando. Notò che le ciotole erano vuote e aprì una
scatoletta. I due gatti si avventarono sul cibo prima
ancora che ne versasse il contenuto. Si buttò sul letto, ancora sfatto, e osservò il soffitto. C‟erano i
nuovi video di Poles, poi quel recente libro su Atlantide, era arrivata la rivista di “Star Trek” e doveva guardare i film registrati stanotte: no, non aveva
proprio tempo di andare a cena fuori. Si stava così
bene in casa… E doveva pensare a lei. Doveva
pensare al sesso e all‟immancabile erezione che gli
provocava tutto ciò. Cercò a tentoni sotto il letto,
estrasse una rivista pornografica e la sfogliò. Francesca non gli voleva uscire dalla testa: immaginò il
suo viso, quello che pensava fosse il suo viso, sul
corpo della prosperosa modella della foto. Immaginò la testa di Francesca tra le sue gambe e altre fantasie perverse: l‟erezione divenne dolorosa, sembrava volesse scoppiargli nei pantaloni. Si alzò e
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andò in soggiorno. Cercò tra la pila di video che si
era accumulata in questi giorni. La casa era un disastro, mucchi di oggetti accatastati disordinatamente: libri, video, giornali, piatti, scatolette, dischetti, CD ROM, cartacce, cartoni di pizza, lattine,
bottiglie, vestiti. DVD volarono dappertutto, mentre Ulfredo rovistava alla ricerca di quella giusta:
Star Trek, Star Wars, Alien, Venerdì 13, Halloween, Scream, Inculami Ancora: eccola! Accese il video. Francesca si faceva sodomizzare da tre uomini, che a turno la possedevano. Ulfredo chiamò Federica, la mano amica. Si sbottonò i calzoni e Federica iniziò il suo lavoro. Poteva solo fantasticare: il
sesso, lui, non l‟aveva mai provato, nemmeno un
bacio. Le donne o erano dolci fiorellini da tenere
delicatamente per mano e baciare teneramente o
gran puttane da sbattere e coprire di insulti, come
stava facendo in questo momento con Federica, davanti al video. Era disperato, si sentiva incompleto,
aveva un disperato bisogno di soddisfare una donna, voleva sentirsi uomo, una volta tanto. In più,
aveva il complesso del pene piccolo. Gli sembrava
minuscolo e aveva iniziato a misurarselo in continuazione. Marta lo distolse dai pensieri: attirata dal
movimento ritmico di Federica, era corsa verso di
lui, incuriosita. Ulfredo l‟allontanò, infastidito. Alzò la testa verso il soffitto, mentre l‟orgasmo lo assaliva. Le ragnatele imbrattavano ormai tutti gli angoli, visto che non trovava più il tempo di toglierle.
“Devo fare qualcosa!” urlò arrivato al culmine
dell‟eccitazione.
Uno schizzo colpì una coppia di ragni che se
stavano placidi, costringendoli ad una repentina fuga. Venne sfiorato anche l‟incolpevole Alberto, che
soffiò adirato e si diede a una precipitosa ritirata
sotto il letto.
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“Devo fare qualcosa o impazzirò. E la casa andrà a pezzi, e non solo quella!”
Sanbernardo lo trovò all‟autostazione di fronte
alla scuola. Ulfredo aveva lasciato aperta la porta di
casa e sullo stradario cittadino era sottolineato il
percorso dell‟autobus numero sei, l‟autobus del destino.
“Bravo, così non mi hai dato retta, preferisci dare libero sfogo alle tue mattane! Ma che ti dice la
testa? E volevi pure darmi il bidone per la pizza,
vero?”
“Guarda Antonio che sono sicuro di trovarla. È
matematico. Questo è l‟unico autobus diretto alla
periferia est e mi pare di ricordare che lei, essendo
senza patente, avesse delle difficoltà negli spostamenti. Quindi deve stare fuori città… Aveva anche
chiesto dei permessi al Preside… Il sei effettua solo
quattro corse in periferia e una proprio all‟ora in
cui Francesca lo ha preso. Io la devo trovare, assolutamente. Non ce la faccio più!”
Ulfredo era eccitato. Parlava a raffica come mai
gli era capitato. Non riusciva a calmarsi.
“Se tu riuscissi a ricordare il suo cognome, sarebbe più facile trovarla…”
“Ma guarda un po‟, non ci avevo pensato…”
“Già, è questo il tuo problema, non ti fermi mai
a riflettere… A proposito, come hai fatto a sapere
dov‟ero?”
“Ho seguito il tuo percorso!”
“Davvero? Ma se dovevo ancora prendere
l‟autobus…”
“Ma andiamo Ulfredo, che siamo già in ritardo!”
Sanbernardo trascinò Ulfredo nella sua scassata
Mercedes e, nonostante le vivaci proteste, si avvia46
rono verso la pizzeria.
La serata in pizzeria si trascinò per le lunghe.
Ulfredo si era lanciato in disquisizioni filosofiche
con l‟insegnante d‟italiano, la professoressa Pisacchini. Erano giunti a parlare di Baudelaire e dei
poeti maledetti. La Pisacchini, una nostalgica sessantottina, declamava versi, lodando l‟uso del laudano come musa ispiratrice, dei fumi di oppio, del
sesso libero e di quell‟epoca altamente creativa. La
sua voce era ispirata, entusiasta, rapita. Sanbernardo malignò sull‟astinenza prolungata che giocava
brutti scherzi, mentre Boschi inveiva contro certi
costumi troppo libertini, che non facevano bene né
al corpo né allo spirito.
La Pisacchini era molto popolare tra gli studenti,
dai quali era chiamata Pisacca la vacca. Pur essendo ben oltre la quarantina, era ancora assai piacente. Aveva cortissimi capelli biondi e un generoso
seno in costante tensione all‟interno delle camicette
aderenti che era solita indossare. Quando teneva
una lezione su di un autore a lei caro, sembrava sul
punto di avere un orgasmo e accavallava in continuazione le gambe seduta sulla cattedra. Si immedesimava a tal punto nei brani che leggeva con passione che, durante le lezioni su Baudelaire, aveva
tenuto acceso un bastoncino di incenso e suonato
musica new-age. Non tollerava la minima interruzione e le sue urla erano note e leggendarie in tutta
la scuola. Concentrazione sul brano e rispetto
dell‟autore erano il suo credo. In classe tutti tacevano, in parte per il suo fare autoritario e in parte, i
maschi, perché impegnati a osservare le sue gambe.
Strossi, in particolare, aveva disegnato sul suo diario una pesante caricatura a sfondo erotico, corredata da una eloquente didascalia.
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Ulfredo detestava Baudelaire. Lui aveva letto
molto sull‟argomento, anni fa, quando aveva passato un periodo di interesse per i poeti maledetti.
Cambiava spesso i suoi interessi. Guardava un film,
leggeva un articolo e subito si lanciava a leggere
volumi su volumi, per poi abbandonarli presto. Fece parlare per un po‟ la Pisacchini e quindi, razionalmente, ribatté punto su punto. Si impegnò in un
discorso fiume, prendendo fiato ogni tanto. Era solito alzare la testa, rielaborare ad alta voce le proprie ultime parole, criticarle a volte, e riprendere
più spedito di prima. Metaconversazione, la chiamava lui. Era stata teorizzata da uno sconosciuto
filosofo, di cui forse solo lui aveva letto qualcosa.
Sanbernardo si stava scocciando: di solito era lui
l‟attrazione della serata. Lui teneva banco, con la
sua loquela, le sue battute e, dopo aver bevuto, con
le tragiche storie della sua vita. Quella sera si sfogò
con Boschi.
“Vedi Boschi, era il ventiquattro settembre del
millenovecentosettantasei, me lo ricordo ancora
perché era il mio compleanno… Lei era così bella… Nemmeno una telefonata mi ha fatto ed io ero
solo come un cane… Troia! Poi un giorno mi
chiama, io a momenti mi ammazzo per rispondere e
alla festa lei va via con un altro! È stato umiliante… Mai come quella volta alla recita scolastica,
sarà stato nel… Facevo la quinta… Io dovevo fare
Mosè ma hanno preferito quello stronzo… Infami… Se lui faceva Mosè io dovevo fare come minimo Dio! Dio… Ma non sono stato zitto e loro…
Loro mi hanno fatto fare Dio: ero il cespuglio infuocato sul Sinai, tutto coperto di rosso che mi
muovevo come una tartaruga… E lei… Lei se la
sono fatta tutti meno che me… Vacca boia! Porca
troia! Sì era proprio una troia, puttana vacca! Una
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puttana, le donne sono tutte delle puttane!”
Sanbernardo aveva iniziato a urlare. Faceva
sempre così, quando l‟attenzione non era rivolta a
lui. La frustrazione per il divorzio che aveva subito,
contro la sua volontà diceva, prendeva il sopravvento.
“Antonio calmati, dai non fare così…” cercò di
intervenire Ulfredo “Non è il modo migliore Ulfredo, ricordati dell‟ultima volta…” continuò in metaconversazione.
“Brutto stronzo, taci tu che mi fai ammattire con
le tue cazzate e poi parli da solo per un‟ora. Andate
a farvi fottere tutti quantiiiiiii!!!”
Sanbernardo non riuscì a finire la frase, che Boschi lo bloccò con una presa micidiale e lo trascinò
fuori dal locale.
“Pagate voi, ci penso io a fargli passare la sbornia. Ne ho visti tanti di tipi ridotti così!”
Ulfredo si guardò intorno. Era tardi e al tavolo
erano rimasti solo lui e la Pisacchini. Si ricordò che
era stato Antonio ad accompagnarlo.
“Adesso come faccio, come ci torno a casa? È
anche tardi!”
La Pisacchini gli sorrise languidamente.
“Non ti preoccupare Ulfredo caro, ti accompagno io. So guidare, l‟auto ce l‟ho. Così possiamo
continuare la discussione su Baudelaire…”
L‟odore era nauseante. La Pisacchini aveva acceso una serie interminabile di ceri e candele, dagli
aromi più vomitevoli che Ulfredo avesse mai sentito. Lui al massimo usava la citronella. Le pareti erano addobbati con drappi multicolori, dagli oscuri
simboli. La Pisacchini apparve da dietro una tenda:
si era cambiata e indossava un largo camicione ros49
so. Porse a Ulfredo un grosso bicchiere pieno di un
liquido scuro.
“Tieni. Questo devi assaggiarlo. È buono, solo
leggermente alcolico…”
“No grazie, io…” Ulfredo iniziava ad essere infastidito da tutti quegli odori e quelle luci.“Ho già
bevuto troppo a cena. Non sono abituato e poi vorrei andare a casa, sono stanco, dovrei guardare il
nuovo video di Poles che mi è arrivato…”
“Ma dai!” insistette la Pisacchini sedendosi a
terra su di un enorme cuscino rosso a fianco di
quello blu di Ulfredo “È presto: assaggi questo,
leggiamo due poesie di Baudelaire e poi ti riporto a
casa, dai tuoi gatti.”
Gli porse l‟enorme boccale. Ulfredo annusò, poi
lo portò alla bocca. Sembrava Vin Santo: era buono. Ulfredo aveva la gola secca e la bevanda fresca
lo attirò. Dopo due sorsi ne tracannò avidamente il
contenuto.
“Buono, ma che cos‟è, un vino?”
“Una specie. È l‟elisir degli artisti. Aiuta a creare
e non solo. Serve anche per il piacere… Fisico…”
La Pisacchini gli si avvicinò lasciva, con le labbra ravvivate da un vivido rossetto viola. A quella
distanza, Ulfredo poteva vedere le sue rughe ad una
ad una, come solchi scavati su di un terreno e malamente riempiti di terra.
“Voglio leggerti un passo di una poesia di Baudelaire. Penso sia molto evocativa e ne vorrei discutere con te” gli disse sbattendo gli occhi. Due
ciglia si incollarono tra loro, a causa dell‟uso eccessivo di mascara, ma lei le liberò con noncuranza.
[…]
io t’adoro, o mia fatua
e mortale passione,
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come adora il santone
sull’altare una statua.
[…]
Il tuo corpo disegna
Pose di sfinge oscura.
[…]
come l’ombra seduci
o ninfa oscura e ardente.
Non so filtri più forti
delle tue pigre ebbrezze:
tu sai con le carezze
far rivivere i morti!
[…]
Per placar dei tuoi sensi
Le arcane ire voraci,
a volte seria i baci
e i morsi dispensi.
[…]
Or sotto il tuo scarpino
di raso io getto, vedi,
ai tuoi serici piedi,
gioia, e genio, e destino,
e l’anima, che seppe
guarir sotto i tuoi lampi,
o fuoco alto che avvampi
nelle mie nere steppe!
(C. Baudelaire, Chanson d’après-midi, in Le fleurs du mal)
“Non è meravigliosa? Baudelaire componeva
questi versi in una stanza come questa, aspirando
incenso e bevendo laudano. Immagina di essere
Baudelaire e che io sia la tua musa!”
Ulfredo cominciava a essere confuso, quel vino
gli doveva aver dato alla testa, forse era meglio se
si fosse fatto accompagnare a casa…
“Vieni a miei piedi, adora i miei scarpini di raso…”
La Pisacchini pareva in preda a un raptus: roteava
la testa, declamando versi di Baudelaire, agitando
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le braccia. Poi prese Ulfredo, sempre più confuso,
lo buttò a terra e gli salì sopra.
“Vieni, accarezza il mio ventre, bevi il mio nettare, la bevanda degli dei… Sfodera la tua durlindana, la tua spada infuocata…” disse prendendogli
le mani e mettendosele in grembo.
Si alzò il camicione. La birra bevuta in abbondanza, la pressione delle mani e l‟incontinenza della Pisacchini, fecero il loro effetto e un getto acido
investì Ulfredo in pieno volto. Lui cercò di sottrarsi, ma lei, allucinata, gli teneva ben ferma la testa.
“Quel che è mio sia tuo, che i nostri fluidi si mescolino e che i nostri corpi diventino tutt‟uno.”
Lo zampillo continuava imperterrito a scendere,
lordando completamente Ulfredo, che dal canto suo
non sembrava più in grado di ragionare in modo
coerente. Profumi e sapori strani cominciarono a
insinuarsi e a mescolarsi nel naso e nella bocca; la
vista si fece confusa e una macchia nera si allargò
inesorabilmente davanti al suo campo visivo, già
offuscato da spruzzi di liquido acre. E intanto, la
Pisacchini urlava.
“Nettami, spegni il fuoco che avvampa nelle mie
nere steppe! Alza il tuo gladio implacabile.”
Il mattino dopo, sia la Pisacchini sia Ulfredo,
non si presentarono alla prima ora di lezione.
Don Giorgio passeggiava davanti alla cattedra
dall‟alto del suo metro e novanta. Ogni tanto si girava cercando qualcuno da cogliere in fallo.
“Dovete stare immobili. È come il gioco del
Fante, Cavallo e Re, che facevo da piccolo: si contava uno, due, tre, fante, cavallo e re e se vedevo
qualcuno che si muoveva, faceva penitenza. Ma voi
chissà a che cosa giocate oggigiorno, con tutte
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quello che avete. Eh sì, ai miei tempi era meglio, ci
si arrangiava con poco…”
Don Giorgio, o George One come lo chiamavano i ragazzi, parlava mulinando all‟aria le sue terribili manone. Stava leggendo un passo della Bibbia
quando una voce, dal fondo dell‟aula, lo interruppe.
“Prof! Ma non c‟è mica scritto così! Secondo me
lei ha un‟edizione vecchia!”
Il Don si fermò di colpo e i suoi occhi si fecero
truci.
“Un‟edizione vecchia? Sei scemo, Mozzarelli?
Anzi no, essendolo veramente, è una domanda puramente retorica… Fammi vedere quella Bibbia!”
Il volume, grazie ad una serie di passamano,
giunse nelle mani di don Giorgio.
“Ma Prof., me l‟hanno appena regalata, è sicuramente più nuova…”
Mozzarelli non riuscì a terminare la frase: il libro gli arrivò direttamente in testa.
“Deficiente! Quella è la Bibbia dei Testimoni di
Geova! Dio perdonami…” disse alzandosi dalla
cattedra e avvicinandosi minaccioso ai primi banchi.
Si fermò di colpo notando una cicca in terra.
“Non fumare!” disse rivolgendosi al mozzicone
“Ti ho detto di non fumare, come te lo devo fare
capire!”
Strossi, dalla prima fila, allungò le braccia verso
la testa del Don, cercando di scimmiottarlo. Di solito era bravo a non farsi mai cogliere in fallo, ma
stavolta don Giorgio alzò le mani al cielo di scatto,
invocando l‟aiuto del Signore. Le braccia di Strossi
erano proprio sulla traiettoria.
“Beh!” esclamò don Giorgio voltandosi di scatto
“Che stavi facendo?”
Strossi avvampò immediatamente e cercò di sottrarsi allo sguardo fiammeggiante dell‟insegnante.
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“Niente! Non stavo facendo un... Cioè, vai tra
Don, niente, giuro. Vero raga? Dai dicetecelo...”
Numerose mani iniziarono a battere sui banchi e
un coro iniziò a salire
“Stronzi! Stronzi! Stronzi!”
“Basta! Smettetela o…”
Don Giorgio non riuscì a finire la minaccia: Ulfredo, trafelato, entrò in aula.
Il prete lo squadrò. Era in condizioni terribili: gli
scarsi capelli svolazzanti, gli occhi pesti, i vestiti
sgualciti e puzzava di rancido. In aula si scatenò il
caos.
“Silenzio, bestie! E tu Ulfredo, sei un po‟ in ritardo mi sembra. Non vedendoti arrivare, hanno
mandato me a sostituirti…”
La campanella della ricreazione suonò in
quell‟istante e l‟aula si svuotò. Ulfredo si guardò
intorno allucinato.
“Grazie, ti ringrazio per avermi sostituito… Ho
avuto dei problemi…”
“Ma Signore Iddio, sei in condizioni terribili. Se
non ti sentivi bene potevi stare a casa… Non è che
il tuo amico Sanbernardo, quel miscredente, ieri sera alla cena ti ha fatto bere troppo? Tu non sei il tipo… So che anche la Pisacchini è stata male…”
“Cosa? No, no… Io ho solo avuto… Bisogno
di…”
“Ma guarda un po‟, si parla del diavolo… Allora
Sanbernardo, avete folleggiato ieri sera, vero?”
Antonio Sanbernardo, appena si accorse della
presenza di don Giorgio, cercò di cambiare direzione, ma lui lo afferrò per un braccio e lo costrinse a
restare.
“Ho solo cercato di fare uscire Ulfredo, del resto
si era tra colleghi. Ma non abbiamo fatto nulla di
strano: solo una pizza e due chiacchiere. Avrebbe
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dovuto venire anche lei.”
“Io, tra voi peccatori? Dio mi scampi. Ho passato la serata a leggere gli arretrati delle „Cronache di
Castel del Vallo‟. Ve l‟ho detto che sono stato parroco in quel ridente paesino montano? Ero agli inizi… Pensate che loro si ricordano sempre di me e
mi mandano il loro quotidiano. Lo stampa la parrocchia: l‟idea era partita da me, ma non ho fatto in
tempo a vederne la nascita. È un bellissimo giornale, mi ricorda la mia gioventù… Un paese così piccolo…”
Don Giorgio iniziò a sospirare e a guardare in
alto. Sanbernardo approfittò dell‟occasione per liberarsi della scomoda presenza.
“Don Giorgio, ma non deve fare sorveglianza
nell‟atrio, durante la ricreazione?”
“È vero. Devo correre, scusate. Chissà che cosa
stanno combinando quelle bestie!”
Appena si fu allontanato, Sanbernardo si passò
la mano sulla fronte.
“Meno male. Stava cominciando uno dei suoi
sermoni, con relative pacche sulle spalle… E con
questa storia del ridente paesino… Che cosa significherà poi, ridente? Io non ho mai visto un paese
ridere… Ma Ulfredo, puzzi che fai schifo. Che cosa
hai combinato?”
Ulfredo lo guardò irritato.“Che cosa ho combinato io? Tu piuttosto, ti sei ubriacato e hai fatto la
figura dell‟idiota. E poi mi hai lasciato a piedi, nelle grinfie…”
In quel momento passò la Pisacchini, fresca e
pimpante come se nulla fosse successo. Guardò con
bramosia Ulfredo e gli fece l‟occhiolino, poi passò
avanti. Sanbernardo inarcò le labbra in un sorriso
ironico.
“Non mi dire che tu e lei…”
55
“Lasciamo perdere per favore. Grande idea quella di farmi venire alla cena, almeno ti fossi trattenuto! Bell‟amico che sei.”
“Hai ragione, scusa” disse Sanbernardo con aria
contrita. “Ho fatto la figura dell‟idiota, ma non mi
sono saputo trattenere. Non ci sei mica solo tu con
dei problemi, al mondo… Comunque se stasera
vieni a casa mia…”
“A casa tua? E a fare che cosa? Io stasera me ne
sto con i miei gatti. Poi ho trovato un video raro…”
“Piantala Ulfredo. Forse sono riuscito a trovare
la tua donna misteriosa. Lasciami fare un paio di
telefonate.”
“Francesca? Ma come…”
“Saprai tutto stasera. Ti vengo a prendere io, adesso non posso dire di più.”
Sanbernardo si era messo comodo. Il suo ideale
di comodità, consisteva nell‟indossare una lurida
vestaglia grigia tutta macchiata e dall‟odore indefinibile. Ulfredo conosceva bene quell‟abbigliamento
e non lo sopportava.
“Ma insomma, Antonio, ancora quello schifo!”
“È comoda. E poi ha un grande valore affettivo”
si difese Sanbernardo.
“Infettivo magari: con quella puzza… Comunque, lasciamo perdere la vestaglia e parliamo di
Francesca. Che cosa hai scoperto?”
Ulfredo era impaziente, ma Sanbernardo se la
prese comoda. Guardò Ulfredo con un sorriso beffardo.
“Allora?” incalzò Ulfredo.
“Allora… Ti ricordi che continuavo a pensare al
baco, al bruco… Poi ieri notte, forse anche grazie
all‟alcol, ho avuto una visione e tutto mi è diventa56
to chiaro: si chiama Bozzoli, capito? Come il bozzolo del baco! È stata la Tirelli, quella sindacalista
che insegna alle Pascoli, a parlarmi di lei stamattina
e a farmela ricordare. Insegna là adesso e mi sono
pure procurato l‟indirizzo: mentre tu te la spassavi,
io ho lavorato. C‟è una cosa però che…”
“Dammi l‟indirizzo! Dai Antonio, questo me lo
devi.”
“Ma che fretta hai? Ti ho invitato a casa mia per
fare quattro chiacchiere e per guardare qualcosa insieme. Non ci troviamo mai, fuori dalla scuola. Ieri
sera sei stato sempre a parlare con la Pisacca…”
disse accendendo il videoregistratore. “Stamattina
ho pure dovuto incontrare la Tirelli. Pensa, mi voleva far entrare nel sindacato: troia femminista…
Te l‟ho detto che una volta ci ho provato con lei,
hai presente? Ho ancora i lividi.”
Intanto aveva fatto partire un video dal titolo inequivocabile: Sesso Fermo Posta, una serie di annunci pornografici, corredati da filmati amatoriali.
Sanbernardo, davanti agli occhi allucinati di Ulfredo, si era infilato una mano dentro le mutande.
“Ulfredo, guarda che roba! Lascia perdere quella
là. Sai che ieri sera io e Boschi ce lo siamo visto insieme e ci siamo pure fatti una sega in compagnia!”
“Boschi? Ma che cosa dici, smettila!”
“Sì, proprio Boschi, l‟integerrimo. Anche lui ha
qualche problema e insieme ci siamo consolati. Sai
che cosa abbiamo concluso: la colpa è nelle nostre
mani!”
Estrasse la mano destra dalle mutande e la agitò
davanti ad Ulfredo, il quale si allontanò di scatto
imprecando.
“Le nostre mani sono troppo grandi. Guarda che
dita, sono grosse e tozze, nessuna grazia. Le donne
ci fanno caso a questi particolari. Avanti Ulfre57
do…” intanto la mano era nuovamente scomparsa
“È una specie di terapia per uomini in crisi, è come
pisciare insieme. Sai come si dice: chi non piscia in
compagnia…”
“Quello che voglio è l‟indirizzo! E andarmene!”
Sanbernardo sembrò scuotersi. Abbassò lo
sguardo, avvilito.
“Mi dispiace, ho nuovamente bevuto e quando
bevo faccio delle cazzate. Il mio terapista dice che
soffro di un complesso di colpa, a causa della mia
ex moglie, e che vado a puttane per questo motivo,
ma io non ci sto capendo nulla, spendo solo dei
soldi…”
Si alzò stancamente e prese un foglietto da una
mensola, lo guardò e lo porse a Ulfredo.
“Ecco l‟indirizzo: la segretaria della Pascoli è
una mia amica, purtroppo solo amica. C‟è anche il
numero di telefono. Spero che a te vada bene” disse
Sanbernardo allungandogli un foglietto. “Ma volevo avvertirti…”
“Sì, sì… Dopo, me lo dirai dopo. Adesso accompagnami a casa che le telefono subito. Grazie
Antonio, nonostante tutto sei un vero amico.”
Sanbernardo lo guardò e si lasciò sfuggire un
sorriso amaro: avrebbe dovuto dirglielo?
Ulfredo non si decideva a suonare il campanello.
Era lì, fermo da dieci minuti, ma ogni volta che
provava ad avvicinare la mano al pulsante, questa
veniva inesorabilmente respinta. Al telefono era
stata ancora più dura: un‟ora di tentativi abortiti
prima di riuscire a chiamare. Francesca era rimasta
sorpresa da quella telefonata: il nome di Ulfredo
Romella non le ricordava nulla, ma lui aveva insistito, si era inventato un libro che lei aveva scorda58
to e che le voleva assolutamente restituire. Lei naturalmente non si ricordava neppure del libro, ma
aveva acconsentito a farlo passare da casa sua. Ulfredo credette di sentire delle risate in sottofondo,
ma l‟eccitazione era tanta che non diede loro importanza.
Provò nuovamente a suonare e stavolta, nel ritirare la mano, incespicò malamente nella pedana
d‟ingresso e finì carponi davanti alla porta, urtandola violentemente. Stava per fuggire, rosso in viso, quando la porta si aprì e Francesca apparve in
tutto il suo splendore. Indossava una maglietta lunga fino alle ginocchia e abbassando la testa lo
squadrò divertita.
“Puoi alzarti: va bene rendere omaggio alla padrona di casa, ma questo mi sembra esagerato!”
disse ridendo.
“No…Io sono… Scivolato sulla pedana e …”
Era ancora più bella di come la ricordava. Le nude
e lunghe gambe affusolate, il seno che le gonfiava
la T-shirt. Ulfredo virò verso il viola.
“Entra. Non vorrai mica stare in ginocchio per
sempre?”
Si decise a rialzarsi. Appena entrato cercò di
riacquistare un portamento decoroso. Tentò di dire
qualcosa, ma Francesca lo interruppe.
“Senti, al telefono non ho capito bene che cosa
hai detto… Hai parlato di un libro, mi sembra… Io
adesso avrei da fare… Se si tratta di una cosa
breve…”
Francesca si voltò verso una porta da cui provenivano strani rumori. Ulfredo era un po‟ confuso,
l‟agitazione non lo stava aiutando e lui aveva bisogno di calma per agire. Tentò di dire qualcosa,
quando improvvisamente una figura spuntò dietro a
Francesca. Una figura alta e muscolosa. Una figura
59
completamente nuda e che metteva in mostra una
grossa escrescenza tra le gambe. Francesca si voltò
di scatto e iniziò a ridere con veemenza. Ulfredo
vide la stanza iniziare a girare, a girare…
“Era la Tirelli! Indossava uno di quei cosi, come
si chiamano… Un…” Ulfredo parlava agitando le
mani, rabbioso, mimando la forma dell‟oggetto in
questione.
“Vibratore, si chiama” sussurrò Sanbernardo
bloccandogli le mani. “Calmati Ulfredo, se ti vede
qualcuno!”
Ulfredo passeggiava nervosamente, avanti e indietro, in sala insegnanti. Fortunatamente in quel
momento non c‟era nessuno, altrimenti avrebbe attirato l‟attenzione.
“Un vibratore sì! Io credevo fosse un uomo…
Hai presente i muscoli della Tirelli e con quel coso…”
“Sì, ho presente! Ma abbassa la voce, per favore!”
“Mi ha pure chiesto se gradivo anch‟io, che
Francesca non era gelosa… Hai capito
l‟umiliazione che ho subito! Quella stronza! E in
tutti questi giorni… Quella virago della Tirelli e
Francesca… Tu lo sapevi che la Tirelli era lesbica,
hai detto che ci avevi pure provato con lei!”
“Sì lo sapevo, lo sapevo!” sbottò Sanbernardo
“Ma tu eri così entusiasta che non mi hai lasciato finire.”
“Ma allora anche Francesca è lesbica, ma come… Capisco quella là, ma lei così dolce, così delicata…”
“Non sei un professore di matematica come me,
ma le operazioni le saprai fare, no? Che cosa ci
vuole, oltre l‟evidenza, per capire? Dimenticala Ulfredo, dai retta a me, ti ci vuole una bella scopata.
60
Telefona a questo numero, a quell‟agenzia, sono
persone serie… Ci avrei voluto andare io, ma adesso ne hai più bisogno tu!”
“No! Assolutamente no! Io non ci vado con
quelle! Mai! E poi non credo che Francesca… Dici
così perché sei geloso!”
“Non dire cazzate! Non vorrai restare vergine
per tutta la vita, vero? Tieni il numero!”
“No! E quando dico no, è definitivo!”
“Mozzarelli, allora? Hai finito questo calcolo, o
no?”
Sanbernardo stava interrogando senza prestare
troppa attenzione alle risposte. Dettava un esercizio
alla lavagna e aspettava che l‟interrogato finisse,
per controllare il risultato finale, che tanto, invariabilmente, era sbagliato. Masticava continuamente
una gomma al mentolo, glielo aveva consigliato il
terapeuta, per attenuare il nervosismo e impedirgli
di sfogarlo sulle sigarette e sull‟alcol. Aveva
l‟abitudine di giocare con la gomma mentre masticava, allungandola con le mani. I ragazzi l‟avevano
soprannominato Tiramolla.
“Allora? Che cos‟è? Non capisco quello che hai
scritto.”
Mozzarelli tentò di dare una spiegazione, anche
se non poteva, visto che aveva scritto dietro suggerimento. Balbettò qualcosa e poi ammutolì.
“Io continuo a non capire… Forse il tuo amico
Strossi può aiutarti. Vieni fuori Strossi e smettila di
sussurrare, con la voce che hai ti sentono anche da
fuori. E porta la calcolatrice.”
Sanbernardo aveva dei problemi con le calcolatrici. Con le sue dita troppo grosse, spingeva sempre due o tre tasti alla volta e invariabilmente si la61
mentava.
“Strossi, questa calcolatrice non funziona, perché non cambi la pila?”
Gli studenti gli avevano regalato una calcolatrice
dai tasti enormi, allegando un allusivo bigliettino.
Sanbernardo si era offeso e non la portava mai a
scuola, per non avvallare le calunnie sulle sue dita.
“Strossi, spiega anche a noi, e non solo a Mozzarelli, questa equazione.”
Strossi iniziò la dimostrazione. Si ricordava i
primi passaggi, dato che li aveva appena letti, ma
quasi subito si bloccò, ripetendo più volte l‟ultima
frase.
“Già l‟hai detto Strossi, e allora?”
In quel momento entrò un bidello: Strossi era
desiderato in sala insegnanti. Sanbernardo fulminò
Strossi e si lasciò andare ad un gesto di stizza, picchiando il pugno sul tavolo.
“Salvo per un pelo Strossi, ma non ti mollo sai?”
disse al ragazzo, guardandolo torvo “La prossima
volta non mi sfuggi, e nessuno ti potrà aiutare! Puoi
andare.”
Ulfredo era nervoso. Gli ultimi giorni non erano
stati facili e adesso si trovava ad affrontare Armido
Strossi, il nonno di Angelo. Angelo era un caro ragazzo, ma del nonno aveva sentito parlare come di
un uomo terribile e severo. Se ne stava lì, rigido, a
fissarlo da sotto due occhialini quadrati. La barba
era fatta con cura e aveva due baffoni all‟insù, che
si lisciava in continuazione. Odorava di acqua di
colonia. Si era tolto l‟ampio capello, ma indossava
ancora sciarpa e cappotto. Assomigliava un po‟ a
Boschi, anche se con qualche anno di più.
“Ho visto la polizia qua fuori, professor Romel62
la, che cosa è successo?” esordì Armido.
“I soliti spacciatori… Sembra che fosse in corso
un qualche regolamento di conti. Io ci sono quasi
finito in mezzo, pensi un po‟. C‟erano due negri,
due marocchini, sa di quelli lì, che inseguivano un
ciccione tutto stracciato che rideva come un ossesso. Secondo me era sotto l‟effetto di qualche droga.
Forse non aveva pagato, chissà… Comunque mi
sono preso un bello spavento, anche se la polizia
dice che non è la prima volta che succede. Dicono
che c‟è un bar qui vicino…”
Armido lo fissò truce.
“Queste cose non dovrebbero accadere. Se sanno che ci sono degli spacciatori dovrebbero buttarli
in galera e gettare la chiave. Ma ormai sono loro i
padroni e fanno quello che vogliono e la polizia lascia fare. La libertà! Dicono che ci sono i diritti, ma
ai miei tempi…”
“Eh già…” rispose Ulfredo imbarazzato, guardando i colleghi che fissavano Armido, incuriositi
dal suo stentoreo tono di voce “Sono brutti tempi
questi… Ah, ma ecco il nostro Angelo!”
Angelo Strossi si sedette timoroso di fianco al
nonno Armido, il quale lo ricambiò con un‟occhiata
sospettosa. Ulfredo continuò a sorridere cercando
di prendere tempo.
“Dunque, Angelo è un bravissimo ragazzo…”
iniziò “Uno studente modello, è interessato, fa un
sacco di domande, è…”
“Mi scusi professore.” lo interruppe uno spazientito Armido “Ma se è così bravo, perché ha voluto parlare con me?”
“Veramente avevo chiamato la madre…”
“Non tergiversi, per favore!”
“Sarebbe una cosa delicata, forse la madre…”
63
Armido lo guardò furente, poi guardò il nipote
che abbassò la testa. Ulfredo gli porse timidamente
un foglio.
“Guardi, è meglio. Dirlo a parole mi imbarazzerebbe.”
Ulfredo arrivò all‟agenzia mentre ancora gli risuonavano nelle orecchie le urla del nonno di
Strossi.
“Quell‟uomo era veramente impossibile, una
scenata del genere per una ragazzata. Quel povero
ragazzo, atterrito da tanta violenza…”
Ulfredo stava pensando ad alta voce quando urtò
contro qualcosa di duro e compatto. Alzò la testa
sorpreso e si trovò davanti una specie di mostro di
Frankenstein che lo fissava dall‟alto dei suoi due
metri.
“M-mi scusi, n-non l‟ho vista…” balbettò Ulfredo.
“No problem, zio. Se adesso levi le ragnatele,
noi andremmo di razzo.”
L‟assurda frase era stata pronunciata da un ometto piccolo, piccolo ma molto muscoloso, sbucato a lato del gigante, il quale non aveva pronunciato
parola. Ulfredo si scostò, intimorito dagli strani
personaggi e dal loro colorito linguaggio, e questi
gli sfilarono accanto. Chiudeva la fila un terzo uomo, di una magrezza impressionante, che gli sorrise
mellifluo passandogli accanto. Seguì con lo sguardo la comitiva per qualche istante e poi si girò. Davanti lui si stagliava l‟insegna dell‟agenzia con cui
aveva preso contatti per telefono. Agenzia Funebre
Bovini Gastone Fu Gastone Fu Gastone. Un robusto ragazzo, con un paio di vistosi baffi, stazionava
all‟entrata. Iniziò a sentirsi male. Non se la sentiva
di entrare, gli sembrava di essere in procinto di
64
commettere chissà quale terribile atto. Eppure Antonio lo faceva spesso, almeno a sentire lui. Il baffuto continuava a osservarlo, mettendolo in serio
imbarazzo.
“Ha preso un contatto telefonico?” disse improvvisamente, rivolgendosi ad Ulfredo.
“Sì, io… Ho telefonato, il numero me l‟ha dato
un mio… Conoscente e io… Mi è stato detto di venire a questa agenzia, ma io… Non so se…” rispose Ulfredo, desiderando di essere altrove.
“Non si preoccupi, è venuto nel posto giusto. Lei
è l‟amico di Tony, vero?”
“Sì, cioè… Lo conosco, ma…”
“Bene, può accomodarsi. Mio padre la sta aspettando” e gli fece cenno di entrare.
Ulfredo entrò circospetto, con il cuore che gli
batteva in gola, e un altro ragazzo baffuto, seduto
ad una scrivania a forma di bara, gli fece cenno di
andare nel retro.
“Buongiorno signor… Freddy, giusto?”
Un omone grasso lo accolse gioviale. Era stata
un‟idea di Antonio, Tony come si faceva chiamare
qui, di scegliere lo pseudonimo di Freddy, un nome
veramente stupido, che tra l‟altro gli ricordava
Freddy Krueger. L‟omone se ne stava seduto in
mezzo a decine di bare, di varie forme e dimensioni. Una la usava come schienale e un‟altra per sostenere l‟enorme ventre che sporgeva dai pantaloni.
“Sì io sono… Freddy… L‟amico di Tony… Ma
non so se…”
Ulfredo aveva cambiato idea. Non se la sentiva
più. Tutto questo gli sembrava una buffonata. Addirittura un‟agenzia funebre… Pareva una gabbia di
matti. L‟omone però non gli lasciò il tempo di
pensare.
“Bene. Io sono Gastone Bovini, il titolare. Pur65
troppo oggi ho molti appuntamenti e vado di fretta,
quindi non mi dilungherò e passerò subito
all‟offerta, anzi alle offerte che ho da proporle.
Questo è il nostro catalogo, tutti in appartamento
pulito, riservato, signorile. Una cosa tranquilla e discreta.”
Ulfredo arrossì violentemente. Il respiro si fece
affannoso e la voce gli uscì sotto forma di un rantolo rauco.
“Io veramente… Non so… Io credo… Forse dovrei…”
Gastone Bovini sorrise e avvicinò la sua grossa
testa a quella di Ulfredo. Poteva sentirne il fiato
addosso. Aveva un odore dolciastro, un non so ché
di putrefatto, di marcio. Strani borbottii uscivano
dal rotondo ventre. Ulfredo si sentiva male, voleva
essere lontano da lì, voleva…
“Non si preoccupi… Freddy… So come vanno
queste cose, ho esperienza nel settore… Prima volta eh? Devo dirle che molti padri di famiglia si rivolgono a me, per, diciamo così, iniziare il proprio
figlio alla vita. Guardi qui nel catalogo, mi sono
permesso di consigliarle alcuni annunci. In questo
periodo va molto di moda il bizzarro, il sesso alternativo… E lei mi pare uno in cerca di forti emozioni… Mi lasci dire che per superare il blocco iniziale occorre una terapia d‟urto.”
Gastone proruppe in una grassa risata. Ulfredo
sudava copiosamente. Cercò di non guardare gli
annunci che gli stavano sfilando sotto gli occhi, ma
ormai si sentiva in trappola, e iniziò a leggere, frastornato, i trafiletti cerchiati in rosso.
Ti piacerebbe diventare uno schiavo sottomesso
di una padrona autoritaria? Autentica dominatrice
abituata a impartire ordini, seleziona soggetti ido66
nei a dure pratiche di sottomissione. Ti voglio raffinato ma che adora umiliarsi in privato, amante
della frusta, dei tacchi a spillo e ottimo linguista.
Amo essere scopata in tutte le posizioni e dappertutto. Ho 40 anni, sono divorziata, depilata e
aperta a tutto. Adoro essere osservata in pose
sconce e lo dimostrerò ai tuoi occhi vogliosi. Gradito singolo ma anche coppia, con lei veramente
porca.
Travestito in privato, depilata, molto femminile,
ricerca singoli, anche solo passivi, per esaudire
ogni loro fantasia. Mi piace indossare biancheria
sexy, calze a rete e tacchi a spillo. Sono molto docile, lussuriosa, bramosa di essere posseduta e sono
sana. Amo usare la lingua, e non solo per parlare.
Dopo avere letto gli annunci Ulfredo ebbe la
tentazione di fuggire. Strane immagini gli rimbalzavano in testa, con la Pisacchini e il suo elisir della vita, e iniziò ad avere dei conati di vomito
nell‟immaginarsi in quelle situazioni. Ma dove
l‟aveva mandato Antonio?
“Io… Io….Veramente non saprei… Mi sembrano un po‟ eccessivi… Io…” riuscì a balbettare,
verde in volto.
“Troppo forte? E questo è niente! Comunque ho
qui anche un annuncio, per così dire, normale.”
continuò giulivo Gastone “È appena arrivato. Roba
di classe.”
Ho conosciuto molte persone, ma tra di loro mai
il mio principe azzurro. Vuoi provarmi? Sono disponibile per intriganti incontri, molto conturbanti.
Sono calda, morbida, affamata e disposta a tutto
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pur di soddisfare i tuoi desideri. Se vuoi affogare
tra le dolci pieghe del mio corpo, non hai che da
contattarmi e io arriverò.
Ulfredo era ancora frastornato e Gastone Bovini
aveva fretta di concludere.
“Senta… Freddy… Lei può scegliere senza fretta. Io le ho fatto leggere quattro annunci. Questa sera se ne va al punto di incontro, là prende contatto
con gli inserzionisti e dopo può decidere e quindi
fissare l‟appuntamento in una delle nostre alcove.
Ora però mi deve scusare, ma ho altri clienti. La saluto.”
Detto questo, Gastone fece uscire bruscamente
uno stordito Ulfredo, il quale non si era ancora reso
conto esattamente di quello che gli stava succedendo. Si diresse barcollando, come un ubriaco, verso
la porta. Nel negozio erano entrati altri clienti,
quelli che Gastone stava aspettando. Tra le nebbie
che lo avvolgevano, Ulfredo vide uno strano ometto sorridente che inforcava un walkman e agitava le
mani in aria, seguito da un uomo massiccio dai
lunghi capelli. Non lo degnarono di uno sguardo e
si infilarono nel retrobottega. Ulfredo cercò di uscire, ma andò a sbattere contro la vetrina. Poi il ragazzo baffuto all‟esterno gli aprì la porta e fu finalmente all‟aperto. Borbottò un saluto e si avviò
incerto lungo la strada. Riuscì a compiere solo pochi passi e un rigurgito di vomito, represso fino ad
allora, lo colse e la colazione finì sul marciapiede.
Iniziò a tremare: ora aveva paura, in che cosa si era
cacciato? La sua vita tranquilla, dove sarebbe andata a finire? Maledetti ormoni! Stasera si sarebbe
chiuso in casa, con i suoi libri e i suoi gatti, si sarebbe nascosto, forse scappato, ma non in quel luogo no, non ci avrebbe mai messo piede.
68
5. RICORDO DI UN DISEGNO
Invece ci era andato, per disperazione, per dimenticare Francesca… E adesso si trovava legato
ad un letto, nudo, sovrastato dalla minacciosa figura di Armido Strossi. Come da ragazzino, quando
Carlo Alberto Zinna, il bullo della classe, figlio del
direttore della banca, lo picchiava. In due lo tenevano fermo, mentre Carlo Alberto lo riempiva di
schiaffi. Allora Romella! Sei proprio una Romella,
fai schifo! Era terribilmente magro da ragazzino e
gli altri ne approfittavano. Intorno si radunava una
piccola folla e tutti ridevano, e a volte gli sputavano.
“Non sono una Romella...” riuscì a sussurrare.
Armido lo guardò torvo, senza capire.
La Tv continuava ad andare. Marcellus era sodomizzato da Zed.
Vuoi lottare? Vuoi proprio lottare? Benone, a
me piace lottare...
Ulfredo sentiva la testa pesante, gli sembrava di
essere immerso in una materia molle e sdrucciolevole, scavando lunghe gallerie. Doveva farlo, gli
sembrava di averlo fatto per tutta la vita. Gli sembrò di incontrare un punto più resistente, di faticare,
e poi di riuscire a distruggerlo.
Adesso ne era fuori, finalmente, ma dinanzi a lui
c‟era solo un mostro che urlava, che lo sollevava,
carpendolo alla sicurezza di quelle caverne.
“Prof. ? Non c’è il quarto?”
“Prof. ? Non c’è il fantastico?”
“Prof. ? Fanno schifo, dove li ha trovati?”
69
“Prof.? Posso scrivere una storia che ho in
mente? Non c’entra niente, ma è bellissima!”
“Prof.? Posso scrivere una storia che mi è capitata?”
“Prof.? Non c’è il quinto?”
La confusione regnava sovrana, e Ulfredo era
sopraffatto dalle urla. Voleva dire qualcosa, ma la
lingua non si muoveva, era pesante, gonfia.
“Prof.? Non c’è il tema libero? Il tema libero è
più democratico, accontenta tutti!”
“Il tmmm... ibero... libero!” riuscì a urlare Ulfredo.
“Libero? Dovresti marcire in galera. Pervertito!
Corruttore di minorenni! Pornografo! Mi hai insospettito fin dal primo momento che ti ho sentito
parlare. E quel disegno poi… Mi ribolle il sangue
solo a ricordarlo!”
Armido osservava quella sgraziata figura sotto
di lui e cercava di ricondurre quell‟immagine al
colloquio avuto solo il giorno prima.
70
6.
ARMIDO
Armido osservava sconsolato i gambi di sedano,
la spremuta di carote e una poltiglia bianca che sua
nuora chiamava mozzarella light: quella doveva essere la sua colazione.
“Ma papà, c‟è anche la marmellata di prugne per
il tuo intestino, è molto gustosa, soprattutto su questo pane ai cereali!” aveva cinguettato sua nuora.
Armido non capiva perché dovesse mangiare
quella roba. La colazione era il pasto più importante della giornata e lui aveva bisogno di energie. Ci
volevano caffè, latte, biscotti, uova e magari anche
pane e salame come faceva suo padre. E per la circolazione un bicchiere di vino e uno spicchio
d‟aglio. Non capiva perché continuasse a chiamarlo
papà. Mica era suo padre lui. Suo figlio era lì, davanti a lui, dietro un foglio di giornale. Annuiva
mentre sua moglie chiocciava su varie amenità.
“Papà, devi mangiare! Ancora non hai toccato
nulla!”
“Non ho molta fame stamattina…” sorrise Armido pregustando la colazione al bar che avrebbe
consumato in seguito.
“Ma papà, non mangi quasi nulla a colazione.
Così non va, forse è meglio chiamare il medico…”
Le paperelle sul grembiule della nuora gli danzavano davanti, irritandolo. Stava per risponderle
malamente, quando arrivò Angelo, suo nipote. Portava un libro, cosa molto strana per lui, che di solito
aveva in mano il lettore CD.
“Non si legge a tavola, Angelo!”
71
“Mamma non è un libro, è matematica. Oggi
quello stronzo di Sanbernardo interroga e sono sicuro che mi cappella…”
Il foglio di giornale si abbassò improvvisamente
e uno sguardo severo fulminò Angelo.
“Che cosa sono questi termini! E poi non si studia alla mattina. Che cosa hai fatto tutto ieri?”
“Ma caro, è stato tutto il pomeriggio a studiare
con quel ragazzo, Roberto.”
Armido storse la bocca. Roberto Mozzarelli era
il più grosso idiota della città, dopo suo nipote naturalmente. Bastava guardare come andavano vestiti, con quelle magliette strette e quei pantaloni larghi, i capelli tinti e gli orecchini. Sembravano dei
finocchi. Ai suoi tempi ci si vestiva così solo per
carnevale e se uno aveva dei grilli per la testa veniva mandato in collegio.
“Mhhh… Sarà…” rispose nuovamente il foglio
di giornale “Oggi comunque il nonno verrà al ricevimento con il professore di Storia, quel… Come si
chiama?”
“Fredo!”
“Ma no! Si chiama Ulfredo Romella. È una persona così distinta e gentile. Ma te la senti davvero
di andarci, papà?”
“Certo che me la sento!” affermò Armido alzandosi da tavola “Non sono mica un povero vecchio
come credete… Ahi! Quel materasso che hai messo
è troppo morbido, figuriamoci che io durante la
guerra dormivo sui sassi…”
Il giornale calò nuovamente sulla tavola.
“Papà, ho sentito che vorresti comprare dei regali per le feste, ma lo sai che non c‟è bisogno di nulla, abbiamo tutto. Già ci fai questi favori con Angelo… Non comprare nulla, che con la tua pensione…
Sai, stavo appunto leggendo che gli interessi…”
72
Armido si allontanò dal tavolo. Non gliene fregava niente di interessi, inflazione e costo del denaro. Lui voleva arrivare al bar a fare una colazione
decente.
“Allora nonno, ci vediamo dopo?”
Armido si voltò e annuì con la testa. Sì, purtroppo si sarebbero rivisti dopo.
Cercò di uscire in fretta per evitare di incontrare
quella vecchia pettegola della signora Elena. Armido non sopportava la signora Elena. Era rimasta
vedova da pochi anni e già si dava alla bella vita.
Tutte le sere usciva a giocare a carte o a ballare,
tutta agghindata e truccata che pareva una poco di
buono. Armido aveva perso sua moglie già da dieci
anni, ma ancora onorava la sua memoria e non avrebbe certo ceduto alle lusinghe di quella vecchia
strega.
“Buongiorno signor Armido, sempre di buonora
esce?”
Armido ebbe un moto di rabbia. Quella vecchia
arpia se ne stava dietro alla porta a spiarlo, ne era
sicuro. Appena lui usciva, faceva scattare la sua
trappola. Indossava una vestaglia di raso rosa, una
specie di turbante in testa ed era vistosamente truccata, anche se le rughe, anziché essere coperte, risaltavano ancora di più e il suo viso pareva un pezzo di formaggio ammuffito.
“Buongiorno signora Elena!” rispose sfoggiando
un radioso sorriso.
“Ogni giorno che passa la trovo sempre più in
forma.”
“È la vita sana che conduco. A letto presto e
passeggiate corroboranti. Ma anche lei mi sembra
in ottima forma…” Armido ammiccò un sorrisetto
e le strizzò l‟occhio “…Nonostante le sue bravate
notturne…”
73
“Eh che cosa vuole mai…” rise la signora Elena
“Ormai il mio povero marito non me lo riporta indietro nessuno e piuttosto che rimanere in casa a
piangere vado un po‟ a distrarmi. Cose innocenti, si
capisce, un ballo, una partita a carte. A noi anziani
basta poco, mica come questi giovani di adesso!
Anzi volevo chiederle se stasera potesse venire anche lei, c‟è un ballo che mi hanno detto…”
“No guardi signora Elena, proprio no, come le
ho già spiegato altre volte, io non sono il tipo. Proprio no.”
Il viso di Armido si fece serio. La signora Elena
sospirò.
“Lo so, lei è ancora legato al ricordo, ma vedrà
che con il tempo… Il tempo è la migliore cura e…”
Armido la interruppe spazientito.
“Signora Elena io dovrei andare: sono già in ritardo. Oggi devo andare anche al ricevimento scolastico per mio nipote. La saluto.”
Detto questo se ne andò, lasciando la vecchia
rompiballe con la bocca aperta nel vano tentativo di
trattenerlo ancora. Armido era un osso duro però, e
non si faceva irretire facilmente.
Si era trovato un posto tranquillo dove leggere il
giornale. Non gli piaceva stare al bar, in mezzo alla
confusione, alla maleducazione, per cui portava via
caffè e brioches, si comprava il giornale e veniva al
parco. Il freddo non era un problema, tonificava.
Sul giornale leggeva notizie sempre peggiori, ogni
giorno che passava. Un figlio uccide i genitori, una
povera vecchietta derubata della pensione, ladri che
terrorizzano una onesta famiglia nel cuore della
notte, pirata della strada uccide bambino, retata di
prostitute, droga. Che mondo era quello in cui vi74
vevano, non c‟era proprio più moralità. Ma lui avrebbe tenuto duro e non era il solo, per fortuna.
Gettò le briciole avanzate ai piccioni, che si precipitarono verso di lui. Improvvisamente alcune urla spaventarono i poveri pennuti che svolazzarono
via, impauriti. Armido si girò e vide un gruppo di
sbandati che stavano schiamazzando. Drogati, pensò. Ormai avevano occupato tutti i parchi cittadini e
non si poteva più passeggiare tranquillamente.
“Pensare che dovrebbero essere il regno dei
bambini, e invece guarda che teppaglia” bofonchiò.
“… Cazzo!… Merda… Vaffanculo!”
Armido ascoltò le imprecazioni e si adirò: anche
le parolacce doveva ascoltare. Mondo infame. Comunque alla televisione, queste parole erano una
routine, nessuno ci faceva più caso. Come nessuno
faceva alle nudità di certe vallette… Armido osservò una figura femminile che se ne stava in disparte,
seduta su una panchina vicino al drappello di teppisti. Magra come uno spaventapasseri, i capelli sul
viso, due stivali con le zeppe e teneva una sigaretta
con mano talmente malferma, che non riusciva
quasi a portarla alla bocca. Una drogata e probabilmente si prostituiva per procurarsi le dosi, pensò
Armido. E probabilmente diffondeva L‟AIDS.
Gente così non avrebbero dovuta farla circolare.
Finalmente il gruppetto si disperse e tutto tornò
tranquillo. Stava per addentare la sua seconda brioche, quando i suoi piccioni vennero nuovamente disturbati da una serie di stridule grida.
“Piccioncini! Fermatevi, devo finire la mia colazione!”
Un essere immondo si era fermato davanti alla
sua panchina, aveva raccolto un piccione morto da
terra e se lo stava mangiando facendo svolazzare
penne dappertutto. Era disgustoso. Un ragazzetto
75
obeso, con la faccia butterata, tutto stracciato e
sporco. Lo fissava con due occhietti divertiti.
“Delizioso, ne vuoi anche tu?” gli domandò
“No? Preferisci quella brioche? Fa sentire…”
Quella cosa molliccia gli strappò un pezzo del
suo delizioso bombolone alla crema. Armido ebbe
la tentazione di reagire, in fondo era un expoliziotto, ma poi ci ripensò. Non doveva scendere
al loro livello, nonostante una bella ripulita a questi
parchi ci sarebbe stata bene. Ma questa gente era
protetta, facevano quello che volevano e se provavi
a toccarli ti processavano e dicevano che eri razzista.
“Meglio il piccione, è più frollo, sarà morto da
almeno tre giorni.” concluse il ciccione e si congedò salutandolo.
Armido lo seguì con lo sguardo fino a una coppia di altri sbandati.
“Che schifo quella specie di subumani, bisognerebbe proprio fare qualcosa” pensò.
Uno dei tre spinse avanti gli altri due straccioni
e guardò nella sua direzione.
“… Cazzo hai da guardare!” gli urlò da lontano.
Armido si trattenne e osservò il suo povero
bombolone. In un impeto di rabbia lo fece a pezzi e
li gettò ai piccioni, che forse li meritavano di più
che non quelli. Ripiegò il giornale di malumore e
guardò l‟orologio: mancava poco all‟orario di ricevimento, doveva affrettarsi alla scuola.
“Che cosa sarebbe questo???”
Armido alzava raramente la voce, ma in questo
caso il suo urlo fece girare tutti, nella sala insegnanti. I baffi gli tremavano per la rabbia, mentre
guardava quello stupido insegnante di storia dal
nome assurdo che cercava di calmarlo.
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“Si calmi signor Strossi, si calmi… Si tratta di
una ragazzata… Avrà avuto anche lei la sua età…
Non avrei voluto nemmeno avvertire la famiglia,
ma il Preside ha insistito. Alla Prof. Pisacchini non
abbiamo detto nulla, ma sono sicuro che si farà
quattro risate…”
“Non mi importa nulla, del Preside, della Prof.
Pisacchini, di lei…” rispose Armido con la voce alterata “Qui si tratta di mio nipote, uno Strossi…”
Armido diede una sonora pacca sulla nuca del
nipote. Che fosse un cretino, lo sapeva già, ma pure
un pervertito, alla sua età. Era quella maledetta
scuola, con tutti questi ideali di libertà, queste idee
innovative, gli insegnanti come questo Romella,
che pure lo difendevano e che magari ne erano
complici. Ai suoi tempi bastonate ci sarebbero state, non psicologi e consulenti adolescenziali.
“Signor Strossi, la prego… Non può… In fondo
che avrà mai fatto?”
Armido guardò il prof. Ulfredo Romella con occhi fiammeggianti. E quello aveva il coraggio di
chiamarsi professore? Uno straccione ecco quello
che era. La barba incolta, la camicia spiegazzata, i
jeans sdruciti… Che squallore! Che valori potevano
insegnare questi cosiddetti docenti?
“Che cosa avrà mai fatto? Lei forse trova che
uno schifoso e perverso disegno pornografico sia
una cosa da nulla? Ho già parlato una volta con la
prof. Pisacchini e devo dire che certe cose se le va a
cercare… A quasi cinquant‟anni vestirsi come una… Però qualcuno deve averlo spinto a fare una
cosa del genere, dove avrà trovato l‟idea?”
“Signor Strossi, certi giornali circolano fra i ragazzi, è normale, mi ricordo che anch‟io…”
“Non è normale, è questo il vostro errore
nell‟educazione!”
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Armido sentiva il cuore accelerare in maniera
esagerata. Ora stava urlando piuttosto forte e un
brusio si stava levando dagli altri tavoli della sala.
Tutti lo guardavano male. Il nipote stava cercando
di nascondere la testa sotto il banco, per la vergogna.
“Ma signor Strossi, il disegno è talmente caricato che diventa comico. Vede? È la caricatura di una
donna, con queste curve esagerate e il seno che pare uscire dal foglio… È la parodia del carattere esuberante ed entusiasta della Pisacchini, una sorta
di presa in giro del modo appassionato con cui insegna. Vede, come scriveva Freud, il ragazzo intendeva…”
Ulfredo non riuscì a finire la frase. Il dito indice,
con cui indicava i vari aspetti dell‟opera d‟arte del
nipote, venne stretto in una morsa dalla mano di
Armido.
“Prof. Romella, se è questo che voi intendete per
educazione, allora le dico che non ci siamo. Questa
conversazione finisce qui e mio nipote se ne va subito a casa. Anche se dubito che con quei due incapaci di genitori si risolva qualcosa: comunque sono
i suoi genitori e vanno informati. La saluto! E tu tira fuori quella testa, razza di rammollito, deficiente,
pervertito!”
Armido trascinò il nipote seguito da un sottofondo di disapprovazione, lasciando Ulfredo che si
massaggiava la mano indolenzita. Appena fuori
Angelo tentò di dire qualcosa, ma Armido lo zittì.
“Tu taci! Adesso prendi quel motorino e te ne
vai a casa. Il disegno lo tengo io e stasera ne discuteremo, ora ho da fare!”
Angelo tentò di protestare, ma un ceffone lo ridusse a più miti consigli e con gli occhi lucidi si
avviò mestamente verso il motorino. Armido cercò
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di calmarsi e si allontanò. Non era tutta colpa di
Angelo, in fondo. Tutte queste ragazzine, vestite
come sgualdrine, tacchi altissimi, minigonne con lo
spacco, calze indecenti, seni in fuori, trucco pesante, sigaretta e parolacce in bocca: non c‟era molta
differenza tra il disegno di Angelo e quello che si
vedeva in giro. Mentre rimuginava, intravide il terzetto di tossici incrociati poche ore prima al parco,
che stava litigando a suon di parolacce e bestemmie.
“Ecco, lo sapevo! Gira la droga anche qui a
scuola! Quei maledetti drogati sono arrivati fin
qui…” sibilò tra i denti.
Si fermò appoggiandosi al muro e respirando
profondamente. Doveva calmarsi, aveva un compito da eseguire e la professionalità era necessaria.
Guardò l‟orologio e si accorse di essere lievemente
in ritardo, quindi si rialzò e affrettò il passo in direzione dell‟agenzia.
Arrivò con soli dieci minuti di ritardo. Gastone,
lo sguardo indagatore, se ne stava fuori ad osservare attentamente tutti quelli che passavano. Ad un
passante, la cosa avrebbe potuto risultare alquanto
strana, visto l‟insegna sopra di lui: AGENZIA FUNEBRE BOVINI GASTONE FU GASTONE FU
GASTONE. Restauriamo lapidi e casse. Saldi e usato sicuro. Un buontempone aveva aggiunto Paperone all‟ultimo Gastone. Si poteva pensare che Gastone se ne stesse fuori a prendere le misure delle
casse, per eventuali clienti. Infatti più d‟uno, passando, si toccava le palle, per scaramanzia. Armido
diceva, in modo più colorito, i marroni. In realtà
fuori dal negozio sostava uno dei figli di Gastone
III, Gastone IV il primogenito. Controllava chi en79
trava e che cosa voleva. Quando Armido arrivò,
Gastone IV fece un impercettibile movimento con i
baffi, segnalando di aspettare ad entrare.
In quel momento infatti, uscì dalla porta un capellone muscoloso seguito da una specie di pappone munito di walkman e stivali a punta. Armido li
guardò schifato e si scansò, lasciandoli passare.
Purtroppo, frequentando questi ambienti, c‟era
sempre il rischio di incontrare questi delinquenti di
mezza tacca, si trattava di inconvenienti del mestiere. Quando Armido entrò Gastone III stava discutendo con il figlio minore.
“Armido, vecchio mio! Oggi è il tuo giorno fortunato. Ti avevo chiamato per un lavoro di routine,
una ronda… Ma proprio adesso mi è capitata
un‟urgenza, per un servizio completo, anzi due! E
tu sei la persona giusta!”
80
7.
IL VESTITO
Jules parlò nuovamente dalla TV.
La situazione è dunque questa. Di norma, voi
due rotti in culo dovreste essere morti come polli
fritti. Ma è capitato che questa faccenda sia successa mentre sono in un periodo di transizione.
Non voglio ammazzarvi, voglio aiutarvi.
“Due lavori…” mormorò Armido.
Strina, accucciata in un angolo della stanza, tremava coprendosi il viso; Armido si girò e le si avvicinò minacciosamente.
“Se sapessi che mia figlia fa la puttana... ma non
hai una famiglia, un padre? Che cosa direbbero se ti
vedessero così?”
Una famiglia. Qualche mese fa Strina era tornata
a casa. La madre l‟aveva accolta in lacrime, dispensandola di baci e abbracci. Sapeva che lei aveva
frequentato le strade, i locali malfamati, aveva
svolto, come si dice, il mestiere più antico del
mondo. e si drogava. Ma tutto ciò non le importava: la sua cara figlia era a casa e questo le bastava.
Il padre aveva reagito diversamente.
“Una puttana in casa mia non ce la voglio!” aveva tuonato, rifiutandosi di guardare la figlia.
“Ma caro, è pentita ora. Anche la Bibbia dice
che bisogna accogliere il figliol prodigo.”
Povera mamma, sempre pronta a difenderla.
Quello era stato il loro ultimo incontro: pochi mesi
dopo era morta. Lei non era nemmeno potuta andare al suo funerale perché suo padre non l‟aveva avvertita. Le mancava molto.
81
“Non mi interessa! Una puttana resta sempre
una puttana!”
“Papà!” intervenne allora Strina “Il mestiere me
l‟hai insegnato tu. Dicevi che ero bravissima…
“Copriti!” le intimò con la pistola.
Strina osservò il suo vestito nero, gettato su una
sedia. Com‟era elegante quando lo indossava, ieri
sera…
82
8.
MACELLO PRIVÈ
“Hei, visitatela! È arrivata Gretta Garbo.”
Strina non fece caso alla battuta di Tatta e si sedette senza dire una parola.
“Strina, che ti è caspitata? Devi fulminare qualcuno? Guarda che qui siamo tutti di boccabuoni.
Non c‟è bisogno di carnevalarti, vai bene anche al
naturale!”
Tatta scoppiò in una fragorosa risata, immediatamente imitato da tutti gli altri seduti al tavolo.
Cruccio lo guardò e infilò entrambi i mignoli nelle
orecchie.
“Con tutte le stronzate che stai sparando mi si
sono riempite gli auricolari. Di merda!” disse, ringhiando beffardamente.
Tatta lo guardò con aria di sufficienza.
“Andiamo Cruccio, non ti crucciare che sei già
abbastanza mostrobrutto. Dopo ti si riempie la fronte di affluenti fognari...”
Cruccio si sedette ignorando un‟altra raffica di
risate dirette nei suoi confronti. Guardò Strina e
sorrise. Era proprio combinata bene stasera. Indossava un vestito nero, corto e aderente, i capelli erano pettinati con cura e acconciati in una piccola coda tenuta insieme da un grazioso fiocchetto. Stasera
sarebbe cominciata la loro rivincita nei confronti di
quella banda di pezzenti: Strina non poteva fallire,
era il suo lasciapassare per una vita diversa, non più
da perdente. Intorno la musica, il chiasso e il fumo
erano opprimenti. Si trovavano nel Disco Underground della discoteca Il Macello Privè, un loca83
laccio punto di ritrovo di molti delinquenti locali,
dove droga e puttane giravano senza posa. Ogni
tanto c‟era una retata e il locale veniva chiuso, per
poi riaprire poco dopo. C‟erano quattro piani o livelli, di cui tre sotterranei. Sopra si trovava il Disco
Liscio, poi a scendere Il Disco Night, il Disco
Dance e infine, nelle profondità più oscure, il Disco
Underground. Ogni piano aveva il suo affezionato
pubblico. La zona Underground era frequentata da
tossici, spacciatori, punk, metallari, satanisti, anarchici e varia umanità e non passava serata che non
scoppiassero risse e tafferugli. Era anche uno dei
ritrovi serali degli Schizzati Frenici, luogo ideale
per lo spaccio. Quella sera era in programma una
esibizione teatral-musicale del gruppo Punk-Trash
Frattaglie Urbane, e si aspettava una serata piuttosto movimentata. La particolarità del Macello era la
presenza, nella zona dei bagni, di alcune stanzette,
ufficialmente sgabuzzini per gli inservienti, dove
scambisti, inserzionisti e puttane dell‟agenzia di
Gastone, avevano i primi contatti. Era qui che
Cruccio e Strina avrebbero incontrato il loro cliente.
“Fate posto al caposanto, impolveratevi i piedi
via da qui!” gracchiò la voce di Trancio.
Locco era arrivato, seguito dalla Trinità. Tutti si
scansarono e fecero ala attorno a lui. La Trinità rimase in piedi. Locco fissò uno ad uno i suoi uomini, soffermandosi più a lungo su Cruccio. Le luci si
riflettevano sui tondi occhiali di Locco, provocando
un potente riverbero che accecava il povero Cruccio. Lui comunque sostenne lo sguardo, per tutta la
durata dell‟inquisizione visiva. L‟unica variazione
nei freddi lineamenti di Locco, era dovuta al pulsare della luce riflessa sulla lucida pelle. Una lieve
increspatura delle labbra anticipò l‟inizio del discorso.
84
“Cruccio… Oggi tu e Tatta avete compiuto un
bel lavoro di squadra con gli islamici. Me ne compiaccio. Per tutti e due.” Lo sguardo si spostò su
Tatta, che sorrise vacuamente “Stasera aggiungerò
un nuovo passo al Vangelo e voglio che tutti voi lo
impariate a memoria.”
A queste parole tutti si drizzarono in piedi, assumendo un‟espressione severa: era un momento
importante, per la tradizione degli Schizzati Frenici. Cruccio rimase a sedere, ma Tanghero lo afferrò
per un braccio e, emettendo un gutturale grugnito,
lo costrinse ad alzarsi. Quando ebbe l‟attenzione di
tutti, Locco continuò.
“Gli uomini del Saladino hanno invaso il nostro
territorio, hanno infranto il patto. Quindi io dico
che pure noi infrangeremo il patto. Da questo deriva il seguente insegnamento: le regole, altrui, sono
fatte per essere infrante. Questo è il nuovo motto.
Ma attenzione!” Locco alzò il tono di voce guardando freddamente Cruccio “Solo le regole altrui.
Le nostre, e sottolineo nostre, sono sacre. E la pena
per chi le infrange, voi tutti la conoscete.”
Tutti si guardarono e annuirono. Cruccio si rimise a sedere, sorseggiando la sua birra. Strina lo imitò, cercandone gli occhi: aveva paura. Il discorso di
Locco la aveva terrorizzata. Se avesse scoperto
l‟intrigo… Iniziò a tirare calci ai piedi di Cruccio
perché voleva andarsene.
“Perché mi dai calci?” sbottò Cruccio,
all‟ennesimo colpo di una Strina alla disperata ricerca della sua attenzione, senza capirne le intenzioni.
“Che cosa?” si irritò Strina della sua stupidità.
“I piedi! Mi stai calciando i piedi!”
“Non ti ho dato nessun calcio al piede!”
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“Invece sì, ho sentito un colpo e il piede si è
spostato!”
“Può darsi, ma non l‟ho fatto apposta!”
Strina fremeva: possibile che non capisse il suo
messaggio? Intanto l‟attenzione degli altri si era
spostata su di loro.
“E allora perché l‟hai fatto?” insistette Cruccio.
“L‟ha fatto perché vuole fare un po‟ di solasolo
con te, piccioncino mio. Meglio di solo e basta come fai di solito!”
Tatta si era avvicinato e aveva iniziato a scarmigliare la cresta di capelli, di cui Cruccio andava orgoglioso. Fece per alzarsi e replicare, ma Tanghero,
ubbidendo a un cenno di Locco, lo costrinse a sedere.
“Basta litigare!” tuonò Locco “Dobbiamo, dovete, essere uniti, soprattutto dopo stamattina. Forse
ci aspetterà una guerra con il Saladino.”
Tutti annuirono in modo grave.
“Comunque per stasera avete ricevuto la vostra
quota da smerciare ed è ora di iniziare a lavorare: a
buon rendere. Ci vediamo domani al parco.”
Detto ciò, tutti si alzarono e si sparpagliarono
nel locale. L‟ultimo fu Cruccio, che prima di andarsene si fermò a fissare Locco.
“Hai qualcosa da dirmi Cruccio?”
“Io… No, no… Tutto a posto, ci vediamo domani.”
“E tu, Strina?”
Strina si agitò. Locco non le rivolgeva mai la parola, non le chiedeva mai nulla. Da sempre era considerata una semplice proprietà di Cruccio, come il
suo giubbotto. Strina non riuscì a sopportare il suo
freddo sorriso e abbassò lo sguardo, mentre Cruccio la trascinava via.
86
“E mi raccomando…” urlò Locco mentre già si
confondevano tra la folla “Prima il dovere e poi
il… piacere!”
Armido osservò la sala con occhio clinico. Macello Privè lo chiamavano. Sarebbe stato meglio
chiamarlo Il Porcile. La musica era passabile, almeno in quella sala, Il Disco Liscio: gli ricordava la
giovinezza, ma l‟ambiente lasciava piuttosto a desiderare. Tutte quelle signore sue coetanee, vestite
in modo indecoroso, che ballavano come forsennate: alla loro età dovevano stare a casa, alla sera.
Che vergogna, la sua povera moglie non avrebbe
mai fatto simili cose.
“Signor Armido, lei qui?”
Armido si voltò e si trovò davanti un mascherone pieno di stucco che assomigliava molto alla signora Elena, la sua petulante vicina. Indossava un
vestito aderente in lamé e si reggeva in precario
equilibrio su un paio di scarpe rosse dagli alti tacchi a spillo. Armido pensò che tutto il belletto che
aveva spalmato addosso, servisse a tenerla insieme
e che come minimo si sarebbe sfaldata al primo
colpo di vento, tanto era impettita nello sforzo di
restare in piedi strizzata in quel festone colorato
che indossava.
“Signor Armido, lei mi deve subito concedere
questo ballo!” cinguettò la signora Elena.
“No. Mi scusi signora Elena, ma sono qui solo di
passaggio… Aspetto gente, sarà per un‟altra volta.”
“Ma signor Armido…” tentò di replicare, ma lui
se ne era già andato.
Armido era infuriato. Non gli piaceva venire in
quel posto, ma si trattava di lavoro e non si poteva
evitare. Avrebbe dovuto aspettarsi che quella vecchia arpia frequentasse certi locali. E adesso era
obbligato a scendere all‟inferno, al livello inferiore,
87
passando attraverso tutti gli altri. Superò il Disco
Night, con le sue luci soffuse e ambigue e arrivò al
Disco Dance. Numerosi giovani stavano dimenandosi, immersi in un ritmo ipnotico di luci e musica.
Gli venne in mente suo nipote. Oggi il padre aveva
riso alla vista di quello schifoso disegno prodotto
dalla sua mente perversa. La madre poi, dopo una
serie di trilli isterici e vane minacce, gli aveva chiesto che cosa voleva per cena e se aveva bisogno di
soldi.
“Papà, sono ragazzate. Si trova nell‟età dello
sviluppo, sai gli ormoni… Sei stato giovane anche
tu, e anch‟io, se ti ricordi.”
“Io alla sua età già lavoravo e non avevo tempo
neanche di pensarle certe cose. Io non ti ho allevato
così, tu queste cose non le facevi perché io non le
permettevo!”
“E chi ti dice che non le abbia fatte di nascosto!”
aveva ribattuto suo figlio, protetto dal solito giornale.
Armido represse un moto di rabbia al ricordo
della discussione serale. Due ragazzi si stavano
contorcendo proprio davanti ai suoi occhi: lui cercava di metterle le mani sui fianchi, lei rideva, fingendo di divincolarsi, e si esibiva in movimenti osceni del bacino, avvicinandolo a quello di lui. La
sua maglietta era talmente aderente che
l‟abbondante seno pulsava come libero al movimento ritmico dei fianchi. Armido distolse lo
sguardo, turbato. Se Angelo frequentava certe ragazze, era evidente il perché aveva disegnato
quell‟oscenità. Stava per scendere all‟ultimo livello, quando lo vide. Era Angelo, là, in mezzo alla pista, avvinghiato a quelle ragazze, e stava pure fumando, magari una canna. Armido divenne rosso
dalla rabbia e strinse i pugni guardando a terra. Professionalità ci voleva; se voleva moralizzare dove88
va seguire le regole: la rabbia e l‟anarchia erano per
i delinquenti e i teppisti. Sarebbe sceso per prendere le consegne e lasciato perdere Angelo. A lui avrebbe pensato in seguito. Quando riaprì gli occhi,
non lo vide più. Al suo posto c‟era un altro ragazzo,
simile a lui, come lo erano tutti quanti là dentro,
simili. Si precipitò verso le scale: doveva recuperare la razionalità, c‟era un lavoro da compiere.
Ulfredo, inguainato in un elegante, ma troppo
largo, completo prestatogli da Sanbernardo, si trovò
immerso nel frastuono della balera.
“Forza signori! Sempre più veloci. E dopo avremo l‟Alli Galli. Fategliela vedere ai quei giovani
di sotto!”
La cantante dell‟Orchestra Gianni e Max urlava,
facendo rimbombare la voce direttamente nella testa di Ulfredo. Gridava talmente, che da sotto la
microgonna si potevano scorgere le corde vocali
vibrare: un incredibile effetto speciale. Rischiò più
volte di essere travolto da scatenate coppie di ballerini ottantenni, che sorridevano nelle loro dentiere e
lo prendevano in giro.
“Largo ai giovani!”
Ulfredo desiderava essere a casa, sul suo divano,
con i suoi video, i suoi libri, i suoi gatti e Federica.
Era turbato, aveva il terrore che qualcuno lo riconoscesse e lo smascherasse. Tutta questa gente attorno a lui gli ricordava il terribile nonno di Angelo
e la scenata di stamattina. Forse domani il preside
lo avrebbe convocato, forse sarebbe stato accusato
di traviare i giovani e forse avrebbero scoperto la
sua vita segreta, le sue frequentazioni. Se lo scoprivano al Macello Privè… Gli parve addirittura di
scorgere Armido Strossi, in mezzo a tutte quelle
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facce sorridenti, con il suo cipiglio arcigno, ma
l‟immagine scomparve quasi subito. Fu colpito più
volte da gomitate, testate e calci, e più volte fu tentato di uscire, ma con molto coraggio riuscì ad avvicinarsi al bar, dove aveva il primo appuntamento.
Arrivò al bancone e iniziò a guardarsi intorno. Vide
solo persone dai sessanta anni in su e perlopiù uomini.
“Che cosa prende?” gli chiese il barista, vedendolo titubante.
“Ah, beh… Io… Una… Una Coca” rispose Ulfredo, cercando di vincere l‟imbarazzo.
Rimase a sorbire la bibita per qualche minuto,
sentendo gli occhi del barista e di tutta la sala puntati su di lui. Una fitta allo stomaco lo costringeva a
stare piegato in modo innaturale.
“Dia il numero segnato su questi biglietti al barista della sala, e lui le dirà tutto” gli aveva spiegato
Gastone Bovini. “La guiderà al suo appuntamento.
Ogni contatto, un biglietto diverso. Ogni colore,
una sala diversa.”
Dopo un quarto d‟ora di indicibile sofferenza,
non ne poté più.
“Sono il… Numero… Mhhh… Due…” bisbigliò
ad occhi bassi, porgendo il primo biglietto.
“Che cosa?” gli rispose il barista alzando la voce.
Ulfredo avvampò, ma non ebbe bisogno di ripetere. L‟uomo, scorgendo il biglietto, sorrise e annuì
con la testa.
“La sta già aspettando alla stanza numero due, di
fianco ai bagni. Le hanno spiegato come funziona,
vero?”
Ulfredo fece un cenno con il capo e, imbarazzato, si diresse in fretta verso la toelette. Aveva
l‟impressione che tutti, nella sala, stessero seguen90
do i suoi movimenti.
All‟interno, i bagni brillavano di un lucidissimo
rosa shocking. L‟aroma deodorante non copriva del
tutto il melange di sottofondo a base di disinfettante, sudore ed escrementi. Di fianco ai cubicoli dei
gabinetti, in una rientranza, si trovavano tre porte
contrassegnate dai numeri uno, due e tre. Lui doveva entrare nella due e di nuovo fu assalito dai
crampi allo stomaco, dal sudore e il cuore gli batteva furiosamente; come davanti alla porta di Francesca, forse peggio, un misto di eccitazione e repulsione. Dall‟interno giungevano voci e rumori soffocati. Non sapeva che fare e, tremante, si appoggiò
alla porta che si spalancò di colpo, proiettandolo
all‟interno in uno sgraziato balletto. Si fermò tenendosi alla maniglia. La stanza appariva squallida,
arredata con un paio di materassi, un armadietto di
metallo, una sedia, un calendario erotico e uno
specchio. La fievole luce di una lampadina, che
pendeva sbilenca dal soffitto, lasciava intravedere
un uomo nudo, sdraiato su uno dei pagliericci. Il
viso era completamente coperto dall‟enorme deretano di una flaccida donna che gli sedeva praticamente addosso, dandogli le spalle, e le cui mani erano appoggiate al pube di lui. La donna offriva un
penoso spettacolo con l‟eccesso adiposo che pendeva cadente, spremuto nella striminzita biancheria
intima che indossava: un completo rosso con reggicalze, mutandine e reggiseno forati al punto giusto.
Un‟altra donna, coperta solo da un velo nero, stava
in piedi davanti a loro, in posa estatica.
“Schifoso, ti piacciono i miei aromi? E la tua
troia che cosa aspetta? Mhhh… Sento troppi stimoli, non resisto più… Dai…”
L‟entrata di Ulfredo interruppe ulteriori esternazioni. La donna, visto l‟intruso, si alzò in ginocchio
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scoprendo la faccia dell‟uomo.
“Ah! Fai attenzione!” disse l‟uomo rivolto alla
cicciona che, nell‟alzarsi bruscamente, si era dimenticata si staccare le mani dal suo pube.
Ulfredo quasi lanciò un urlo. L‟uomo, pur con i
lineamenti stravolti e con i capelli arruffati e umidicci, rivelò essere Antonio Sanbernardo.
“Ma… Ma, Antonio… Che cosa fai qui?” balbettò Ulfredo, inorridito da quella visione.
“Ulfredo, non è possibile! Ma tu che cosa fai
qui?”
“Io sarei il numero… Due… Ho seguito il tuo
consiglio, io… Ho anche il tuo vestito…”
“Ulfredo! Ulfredo mio, anche tu qui?” urlò la
donna velata “Sei tornato per gustare il mio nettare? Non puoi più fare a meno… Vieni, vieni a perderti nella mia nera steppa!”
“Ma Antonio, la Pisacchini… Anche lei?” balbettò Ulfredo, riconoscendo la voce che giungeva
da sotto il velo.
“Me l‟ha chiesto lei” tentò di giustificarsi Sanbernardo. “Diceva che voleva rivivere le forti emozioni dell‟altra notte…”
Intanto la grassona si era alzata e si stagliava in
tutto il suo traboccante splendore. Si avvicinò ad
Ulfredo finché i cadenti capezzoli, che sfuggivano
dai fori del minuscolo reggiseno, non gli finirono
praticamente in mano.
“È un vostro amico, un altro schifoso pervertito?
Bene, un porco in più. Vieni maiale, fammi vedere
l‟impianto…” gli disse cercando di sbottonargli i
pantaloni.
“Sì, vieni!” urlò invasata l‟incontinente Pisacchini, e per l‟emozione un ruscello iniziò a sgorgarle dal ventre.
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Mentre Sanbernardo cercava di raggiungere Ulfredo, ostacolato dalla cicciona, questi guadagnò
l‟uscita e, sconvolto, scappò finché non si ritrovò in
mezzo alla sala da ballo, con le coppie che gli volteggiavano pericolosamente vicino. Doveva andare
a casa, decise.
“Tu devi essere Locco, il mio contatto. La descrizione corrisponde.”
La figura di Armido, in posa marziale mentre si
lisciava i baffi, si rifletté nei piccoli occhiali del capo degli Schizzati Frenici. Locco socchiuse appena
gli occhi e osservò il nuovo venuto: cappello,
sciarpa, cappotto e mustacchi; e cent‟anni almeno.
Non si poteva certo dire che Sciacca avesse mandato la prima scelta, ma per quell‟idiota di Cruccio
sarebbe bastato. Le apparenze sono ingannevoli…,
recitava il Vangelo… Ma non sempre, continuava
però. Trancio sembrò percepire il pensiero del capo.
“Hei, ma chi ci hanno spedizionato? Un fucksimile di Terminator? Sfarzo Negro?” disse alzando
il dito medio verso Armido e provocando l‟ilarità
generale.
Armido squadrò lo strano quartetto, cercando di
mantenere il controllo. Quel posto pieno di fumo e
di giovinastri straccioni e strafatti, stava duramente
provando la sua pazienza. Che razza di incarico gli
avevano affidato? Sarebbe stato meglio gli avessero
chiesto di far esplodere quella tana di sorci.
“Sono venuto per sistemare la falla” sospirò
Armido, recitando il solito copione. “Indicatemela.”
Locco annuì in silenzio congiungendo le mani e
increspò lievemente le labbra verso l‟alto.
“E la nostra ira si abbatterà come una spada su
di lui. Una merda era e una merda ritornerà!”
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“Polvere era e polvere ritornerà” ribatté Armido. “Ma non siamo qui per discutere sull‟essenza
della vita.”
Locco depose le mani sul tavolo e lo guardò maligno. Nessuno, nemmeno un esterno, si doveva
permettere di criticare il suo Vangelo.
“Flinstone, torna da Wilma!” sbraitò Trancio,
mentre Tanghero, grugnendo, si era fatto avanti.
“Spero che ti piacciano i sorci, perché adesso te
ne facciamo vedere tanti… Verdi!”
Tanghero, con inaspettata rapidità, aveva afferrato Armido per il bavero, ma lì si era fermato, in
quanto una canna metallica, spuntata da sotto il
cappotto, si era infilata in una delle sue enormi narici. Le labbra di Locco si incresparono nuovamente, stavolta verso il basso; anche Tapino, che finora
non aveva fatto altro che sorridere, divenne serio.
Locco riunì nuovamente le punta delle dita e guardò Trancio.
“Indicategliela!” ordinò.
Ulfredo si era immerso nell‟ovattata atmosfera
del Disco Night. Alcuni bicchieri, offerti dal barista
di sopra, l‟avevano calmato e convinto a proseguire. Se ne stava rilassato su un comodo divanetto
appartato, in compagnia di un altro bicchiere e di
una suadente melodia che gli accarezzava le orecchie. Sullo sfondo una ragazza si stava esibendo in
un languido spogliarello. Di fianco a lui si trovava
il suo secondo appuntamento, una donna tozza dai
ruvidi lineamenti. Indossava una gonna di pelle sotto il ginocchio e stivali da cavallerizza dal tacco
piatto, che accentuando il basso bacino e le corte
gambe, la facevano assomigliare a un nano travestito. La camicia nera e trasparente, lasciava intrave94
dere un corpetto maculato, scarsamente riempito
dal misero seno. La vistosa apertura anteriore della
gonna, permetteva di osservare le sue orrende calze
marroni a maglie larghe, tanto larghe che parevano
squarciate. Ulfredo aveva caldo e la donna, con pose da mantide, gli stava appiccicata, sussurrandogli
nell‟orecchio. Poteva così sentire il suo fiato caldo
e dall‟odore dolciastro, e osservare con minuzia di
particolari i suoi numerosi peli e brufoli. Sembrava
un adolescente, precocemente incanutito, alle prese
con la prima barba. La sua bocca, impiastricciata di
rossetto, si muoveva in continuazione, senza alcuna
posa.
“Io accetto solo persone di classe, tra i miei
schiavi. Non ti porterò di là, nelle stanze. Prima ti
faccio un colloquio poi, se passi l‟esame, andremo
a divertirci in un ambiente più raffinato.”
Samantha, così si faceva chiamare, gli caricò
una gamba sulle ginocchia, facendolo sussultare.
“Ti piace la pelle, Freddy? Senti come odora
questo. Annusa.” gli disse indicandogli lo stivale
“Ha pure un buon sapore: dovresti assaggiare…”
Samantha afferrò la testa di Ulfredo e lo costrinse ad appoggiare la bocca sullo stivale. Il sapore era
amaro e si fece pure male a un labbro: non gli pareva granché come sensazione. Nel frattempo, Samantha aveva estratto un lungo bocchino e si era
accesa una sigaretta, proiettando nell‟aria morbide
volute di fumo azzurrognolo.
“Prendi il posacenere e tienilo all‟altezza della
mia bocca! È seccante doversi allungare.”
Ulfredo ubbidì, ma la cosa iniziava ad annoiarlo.
Aveva bisogno di bere un altro di quei cocktail, per
scacciare il sapore amaro della pelle. Sentiva un
certo pizzicore al naso: il fumo della sigaretta, unito all‟odore dolciastro emanato da Samantha, sta95
vano evidentemente irritando le sue mucose, così
delicate.
“Sono ansiosa di provare il mio frustino su di te.
Sono certa che diventerai un ottimo schiavo. Mi farai divertire, sembri un bambolotto… Un bambolotto che soddisferà ogni mio capriccio, si prostrerà
ai miei piedi e…”
Samantha non terminò la frase. Ulfredo proruppe in un potente starnuto e soffiò tutta la cenere che
aveva in mano, sul viso di lei.
“Brutto stronzo, mi bruciano gli occhi! Vaffanculo! Pezzo di merda!”
Ulfredo si alzò in fretta e si diresse verso il bar
pulendosi il naso con le mani, mentre Samantha
stava spalmandosi il trucco per tutta la faccia, nel
tentativo di togliersi la cenere dagli occhi, piangendo e imprecando. Quella Samantha, pensò Ulfredo
era veramente noiosa e pure maleducata: meglio
Federica. Si sarebbe concesso un altro bicchiere e
quindi sarebbe sceso al Disco Dance, per il suo terzo appuntamento.
“Forza popolo di merda, stasera ne abbiamo un
bel po‟ da darvi!”
Giovanni Rotti, detto Jonny Rotto, cantante dei
Frattaglie Urbane e un tempo membro degli
Schizzati Frenici, aprì il concerto della serata. Immediatamente si scatenò una bolgia infernale a base
di rumori assordanti, urla, spintoni, salti, calci, pugni, testate, sputi e schizzi di liquidi di varia origine. Locco se ne stava tranquillo al suo tavolo circondato dalla Trinità, mentre Armido iniziava a dare segni di impazienza, guardandosi attorno allibito.
“Le indicazioni me le avete date e io adesso me
ne vado. A riparare la falla. Anche se qui ci sarebbe
96
bisogno di una bella colata di cemento.”
Nella confusione, una ragazza gli finì tra le
braccia. Indossava un buffo vestito di raso con una
ampia gonna ornata da un enorme fiocco, calze nere strappate ad arte, anfibi, una cresta di capelli rossi e vari piercing.
“Hei nonno! Perché non mi porti a succhiare il
gelato?” gli urlò in un orecchio.
Armido si adirò.
“Ma non ti vergogni! Vai a casa a succhiare il
latte piuttosto, piccola puttanella!”
“Ma succhiatelo tu, stronzo! Io preferisco qualcos‟altro!”
“Succhiami la canna, uscirà la panna…” cantava
Jonny Rotto nel frattempo. Lo spettacolo aveva
raggiunto il culmine. Jonny immerse le mani in un
secchio pieno di rifiuti ed escrementi semisolidi di
varia origine, ci sputò dentro e iniziò a dipingersi
strani segni in volto e sul corpo, in una sorta di
strampalato rituale. Infine alzò le braccia impiastricciate, lanciò un urlo e si gettò planando sul
pubblico, ricoperto di escrementi vari. Ci furono
grida e risate e, mentre il gruppo continuava a suonare, fu afferrato da alcuni ragazzi e scaraventato
lontano. Finì esattamente sul tavolo di Locco, lordandolo per bene.
“Locco, quanto tempo! Sei ancora più brutto di
quando ti ho lasciato! Come dice il Vangelo: non è
bello ciò che è bello, ma ciò che è brutto è brutto.”
Locco si tolse gli occhiali, li pulì con le mani e
se li rimise più sporchi di prima.
“Recita anche: di mamme ce ne è una sola, ma
di padri non si sa. Come nel tuo caso, Jonny Rotto
in culo!” strillò, perdendo la sua solita flemma.
A quel punto, Tanghero afferrò Jonny per il collo e cercò di buttarlo a terra, ma lui gli premette
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sulla faccia una mano cosparsa di disgustoso materiale organico, asfissiandolo temporaneamente.
Tanghero mollò la presa, tossendo furiosamente.
“Qui siamo nel mio elemento!”
Jonny rise e scappò inseguito da tutta la Trinità.
Locco rimase impassibile al tavolo mentre Armido,
esasperato, ne approfittò per allontanarsi da
quell‟inferno. Raggiunse il bagno, inseguito da urla
selvagge. Voleva rimettersi in ordine prima di rientrare a casa anche se, tra fumo, sputi e merda, i vestiti avrebbe fatto meglio a buttarli. Saltando chiazze di vomito e bottiglie rotte, aprì la prima porta
che trovò aperta e vi trovò un letto su cui due figure
avvinghiate stavano fornicando. A quella vista Armido si incazzò sul serio.
Ulfredo incontrò il terzo appuntamento, al bar
del Disco Dance, che si stava premendo un fazzoletto sul naso. Vicino a lei, una familiare figura
brizzolata teneva un sacchetto di ghiaccio su di un
occhio.
“Boschi!” urlò Ulfredo a cui, dopo svariati bicchieri, non importava più di essere riconosciuto
“Vecchio porco, anche tu qui?”
Boschi non rispose ma, alla vista di Ulfredo, si
allontanò velocemente, perdendosi tra la folla danzante.
“Unno! Unno dove te ne vai? Torna qui, non abbiamo ancora finito!” gli urlò dietro la ragazza, con
morbida voce da contralto, anche se alterata dal
fazzoletto. Poi si girò verso Ulfredo, guardandolo
malamente. Era una ragazza alta, anche se portava
almeno trenta centimetri di tacco, ed elegantemente
vestita. Maglietta aderente, lunga e avvolgente
gonna nera che metteva in risalto deliziosi fianchi,
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e lucidi stivaletti a punta. Il trucco e i capelli sembravano opera di una professionista: nulla a che vedere con Samantha.
“E tu chi saresti?” gli domandò seccata.
“Io sarei…” rispose allegramente Ulfredo ordinando un altro bicchiere “…Il numero tre. Sto cercando il mio appuntamento…”
Lei lo guardò dubbiosa, esaminandolo per alcuni
secondi, poi fece spallucce e lo prese per mano.
“Andiamo, qui c‟è troppa confusione!”
Ulfredo si lasciò trascinare in bagno. Cercò debolmente di protestare, ma ormai i bicchieri bevuti,
il cui contenuto gli restava ignoto, non si contavano
più sulle dita delle mani e lui trovava tutto molto
buffo. Gli sembrava di vivere nel film Tutto in una
notte, del suo mito Martin Scorsese, e trovava che
la realtà fosse molto più divertente della fantasia. I
suoi libri e i suoi gatti erano lontanissimi e non aveva più tanta voglia di tornare da loro, così come
non era più preoccupato di che cosa sarebbe successo l‟indomani a scuola con Angelo, Antonio,
l‟Unno e la Pisacca.
I bagni riprendevano l‟arredamento della sala,
con intelaiature metalliche intrecciate e luci psichedeliche, ma conservavano l‟inconfondibile odore di
merda. Entrarono in una delle stanzette a lato, la
numero tre. La ragazza, che disse di chiamarsi
Jenny, iniziò a spogliarsi in fretta. Quando si tolse
le mutandine, Ulfredo si soffermò ad osservare, con
curiosità, la cosa che gli pendeva tra le gambe.
Jenny indossava una elegante guepiere di pizzo nero, che faceva risaltare in maniera grottesca il suo
piccolo pene. Lo sguardo insistito e sorridente di
Ulfredo dovette colpire nel segno, perché Jenny,
istintivamente, incrociò le gambe.
“Che cosa guardi? Questo è solo un dettaglio, io
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sono molto più donna di quelle smorfiose là fuori.
Chiedilo al tuo amico Unno. Lui è un vero maschio, un bruto come piace a me. Mi ha presa e
posseduta con la forza, lo sentivo dentro di me
mentre mi urlava oscenità. A me piace essere maltrattata da un rude maschione, mi fa sentire più
femmina. Io do loro quello che non ricevono più
dalle loro donne. Poi è arrivato quel vecchio bavoso e ha rovinato tutto!”
Jenny si toccò il naso, leggermente gonfio. Ulfredo se ne stava in piedi, senza ascoltare quello
che lei gli diceva e fantasticando nel suo mondo di
carta e celluloide. Ora era finito in Pulp Fiction e
se ne stava con la donna del Boss.
“Adesso rilassati che ti faccio il mio numero
preferito” continuò imperterrita Jenny. “Ma tieniti
stretto: il risucchio ti può far cadere!”
Detto questo si inginocchiò e, servendosi della
sua bianca dentatura, iniziò letteralmente a strappargli i bottoni della patta. Ad ogni bottone strappato, Jenny lanciava un ruggito. Ulfredo osservava
la scena incuriosito. Cercò di associarla a qualche
libro o film, ma non gli venne in mente nulla e trovò la cosa alquanto comica, perché lui si considerava un grande esperto e credeva di aver già visto,
su pellicola o nella fantasia, tutto quanto fosse possibile vedere nella vita. Allora si produsse in una
serie di risate, a cui seguirono conati di vomito,
finché non rigettò. Sulla testa di Jenny.
Quando Ulfredo arrivò al Disco Underground,
Jonny Rotto stava planando, carico di letame, in
mezzo al pubblico. Mentre il cantante dei Frattaglie Urbane scompariva nel trambusto, venne spintonato e più volte rischiò di cadere ma, imperterri100
to, cercò di raggiungere il bar. La testa gli pulsava e
un senso di angoscia lo opprimeva. Ricordava confusamente di aver vomitato, ne sentiva ancora il sapore acido in bocca. Adesso però voleva farsi un
altro bicchierino per vincere le sensazioni sgradevoli. Raggiunto il banco, stava per ordinare, quando
una voce vagamente familiare lo chiamò.
“Hei, io ti conosco! Sei quello del libro, il tipo
che mi ha telefonato…” gli disse una prosperosa
ragazza.
Ulfredo la guardò, cercando confusamente di associare il volto, ad un nome.
“Ma chi sei?”
Ulfredo le si avvicinò barcollando, cercandole di
metterle le mani sulle spalle, ma qualcuno lo afferrò per il colletto della camicia e lo immobilizzò
contro il muro.
“Brutto stronzo, sei pure ubriaco! Non ti è bastato venire a rompere a casa di Francesca? Io ti faccio
un culo così se non lasci in pace la mia ragazza!”
Le nebbie che stazionavano nel cervello di Ulfredo si diradarono improvvisamente, lasciando posto al terrore. Era la Tirelli, in tenuta da motociclista, pantaloni di pelle e giubbotto, e non sembrava
ben disposta nei suoi confronti. Come una furia iniziò a stringergli il collo e la mancanza d‟aria fece
vedere a Ulfredo ben sei mani che lo soffocavano e
tre teste ghignanti su di lui. Improvvisamente le tre
bocche, contorte in un ghigno satanico, si aprirono
per lanciare un unico grido e le sei mani lasciarono
la presa. La Tirelli saltellava tenendosi una gamba
e una scheletrica ragazza, con un aderente abito nero che ne lasciava intravedere l‟intera ossatura, afferrò Ulfredo trascinandolo lontano. Si fermarono
solo quando furono dentro ai bagni. Ulfredo protestò.
“Ma dove mi vuoi portare? Che cosa vuoi?”
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“Ti ho portato al sicuro, dove quella là non ti farà del male. Non sopporto le prepotenze e quella
stronza una volta ci ha provato con me, facendomi
un livido sul braccio.”
“Ma io devo vedere una persona, devo tornare…”
“Vai allora! Bel modo di ringraziare chi ha preso
le tue difese.”
La ragazza lasciò la debole presa e incrociò le
braccia, offesa. Aveva un viso sottile e affilato e
corrugava esageratamente le labbra, tanto da assomigliare a un roditore. Ulfredo ebbe un sussulto.
Adesso che la osservava meglio, così debole e minuta, la trovò molto carina. E poi lo aveva veramente salvato da quella virago. Il cuore iniziò a
battergli forte. Forse il destino gli aveva mandato
un segnale, forse si trattava della donna della sua
vita, quella che aveva sempre desiderato.
“Senti, sei con qualcuno? Io avrei un appuntamento, ma tanto non so nemmeno chi sia. Ho solo
un numero… Vedi, è il numero quattro.”
“Anch‟io avrei un appuntamento, ma è in ritardo
e…”
La ragazza si bloccò improvvisamente.
“Oh mio dio, il numero quattro! Sei… Sei
Freddy?”
“Sì, ma…”
“Sono io il tuo appuntamento!”
Armido, uscendo finalmente dal Macello Privè,
decideva di percorrere a piedi i due chilometri che
lo separavano da casa, sperando che la puzza di cui
gli abiti erano impregnati si stemperasse all‟aria.
Ulfredo stava assaporando le dolci carezze della
misteriosa ragazza in nero, nella stanza numero
quattro, perdendosi in romantici sogni d‟amore;
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Strina non capiva perché quello strano tipo si perdesse tanto nei preliminari: quando avrebbe voluto
scopare? Lei non era abituata a tutti quei baci e
quello puzzava pure; Cruccio si avvicinò al cliente
di Strina e, prima che se ne accorgesse, gli iniettò
una dose. Strina sussultò, mentre Freddy crollò a
terra, stordito.
“È venuto ancora prima di entrare e mi ha schizzato addosso, questo stronzo!”
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9.
IL LAVORO È FINITO
Strina osservò la macchia sul vestito. La guardò
e si lasciò andare ad un sorriso amaro.
“Peccato, era proprio un bel vestito…” mormorò
tenendolo stretto.
Armido le si avvicinò. Strina era appoggiata al
letto e singhiozzava sommessamente. La prese per
un braccio e nel far questo toccò il corpo di Ulfredo, che lo guardò con gli occhi sbarrati. Un moto di
repulsione lo assalì e con il dorso della mano colpì
il volto del cadavere in modo che non lo guardasse
più. Poi tornò ad occuparsi di Strina. Si sfilò la cintura e la strinse attorno al collo della ragazza, che
non oppose resistenza: meglio farlo in modo pulito,
aveva versato anche troppo sangue. Alzò il volume
della TV, era ancora Jules che parlava.
Forse l’uomo giusto sei tu e io sono il pastore
ed è il mondo ad essere malvagio ed egoista. Ma
questa merda non è la verità. La verità è che tu sei
debole. E io sono la tirannia degli uomini malvagi.
ma io mi sforzo, faccio del mio meglio per essere
un pastore.
Armido uscì dall‟ascensore. All‟interno erano
accucciati due viados, con due fori in testa e due
nell‟enorme petto al silicone.
“Maledetti pervertiti” pensò Armido. “Nonno mi
hanno chiamato. E volevano farmi lo sconto. Se la
sono cercata.”
Passando davanti alla portineria salutò la signora
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Russo che sembrò non notarlo. Anche lei doveva
essere eliminata.
“Gentile signora, la saluto cortesemente e mi dispiace molto che non potremo più rivederci.”
La signora Russo aveva il cellulare all‟orecchio,
e lo ignorò completamente.
“Sì, sì… Ah, ma dai? Ho capito… Sì?”
“Signora? Scusi...” insistette Armido. Per lui
l‟educazione era tutto.
“Ma dai, sì? Mhhh…”
La signora non si mosse, continuando a concentrare tutta l‟attenzione sul cellulare.
“Signora?”
Nulla.
”Signoraaa!!!”
Nulla.
“Signoooraaaaaaa!!!!!!”
La signora Russo finalmente si girò e, sempre
tenendo l‟orecchio al cellulare, disse seccata:
“Scusa un attimo… Sì? Che cosa vuole? Stavo
telefonando! Non c‟è bisogno di essere così maleducati, insomma!” rispose stizzita.
“Addio signora” rispose Armido con un ringhio.
E fece partire il colpo.
Si fermò a osservarla. Anche per lei, come per
Cruccio, si era dischiuso il terzo occhio: il parto era
stato un po‟ difficoltoso, pensò Armido, visto tutto
il sangue uscito. Forse uccidere la portinaia era stato un eccesso, ma il lavoro era lavoro e non poteva
permettere che lo riconoscesse. Se lavorava in quello stabile, anche lei aveva un po‟ di colpa. Avrebbe
potuto cercarsi un altro lavoro, in un posto più rispettabile.
Con la signora Russo erano diventati sei i lavori
portati a termine nella giornata. Strina gli aveva facilitato il compito, rimanendo in ginocchio ad a105
spettare il colpo coprendosi con il vestito e poi, in
fondo, non aspettava altro. Il dilemma morale non
esisteva: Armido aveva posto fine alle sofferenze di
quella disgraziata. Ulfredo neanche si era accorto di
quello che gli stava succedendo ed era morto con il
sorriso da ebete sulle labbra. Per lui valeva lo stesso discorso della signora Russo: se l‟era cercata.
Poi aveva dovuto eliminare due signore incontrate in ascensore. Di quelle il mondo avrebbe fatto
sicuramente a meno. Erano feccia, né carne né pesce, né uomo né donna. Che roba, che mondo!
Ora l‟aspettava un rischioso percorso in autobus
per tornare a casa. Se avesse incontrato un altro autista maleducato, poteva scapparci il settimo lavoro… Gli sfuggì un sorriso: forse avrebbe potuto tirare sul prezzo stavolta, in fondo aveva fatto gli
straordinari. E si allontanò canticchiando il suo
motivo preferito: Nessuno mi può giudicare,
nemmeno tu…
Il giorno dopo, Armido era seduto sulla sua solita panchina a leggere il giornale, circondato dai
piccioni. Le notizie che si leggevano ultimamente
avevano il potere di farlo infuriare, ma informarsi
era necessario.
Papà, leggi un bel romanzo. Lo sai che ti agiti
se leggi il giornale.
Stupido figlio. Lavoro e televisione. Partite, talk
show, quiz e reality. Un‟ameba. Lui lo sapeva che
chi comandava era ben contento se gli uomini si riducevano a idioti sorridenti. Per questo le notizie
erano brutte, per scoraggiare l‟informazione. Invece l‟informazione era tutto, teneva vivo il ricordo.
Non riconosceva più il mondo. Corruzione, prostituzione, delinquenza, uomini che andavano con
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uomini, addirittura li sposavano, uomini che andavano con travestiti, sesso dappertutto, anche in parlamento. Delinquenti osannati in TV, papponi e
puttane. E secondo suo figlio, erano modelli da seguire, gente furba. No, non era più il suo mondo.
Provò una fitta di nostalgia per un mondo più ordinato, dove gli uomini erano uomini e le donne erano donne. Ma quel giorno almeno una buona notizia c‟era.
Strage in un condominio. Sei morti, tutti legati
al mondo della droga e della prostituzione. Si pensa ad un regolamento di conti.
“Beh, finché si ammazzano fra di loro…” aveva
commentato suo figlio a colazione.
Armido aveva sollevato il capo e sorriso.
“Già, finalmente una buona notizia: ci voleva
per iniziare bene la giornata!”
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INDICE
9
1. L‟appartamento
19
2. Cruccio e Strina
36
3. L‟uomo sul letto
38
4. Ulfredo
69
5. Ricordo di un disegno
71
6. Armido
81
7. Il vestito
83
8. Macello Privè
104 9. Il lavoro è finito
Stampato in Italia
nel settembre 2010 per conto di
LibertàEdizioni