72. La Corsa

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72. La Corsa
“La Corsa”
di M.A.
C'è una cosa nuova nella mia vita. Questa cosa è la corsa. Non è divertente. E'
faticosa. Molto.
Corro nel bosco di Capodimonte, ci arrivo dalla porta di Miano, quella che dà sul
Bellaria. Si racconta che qui, nell'Ottocento, venivano le famiglie borghesi
napoletane a prendere l'aria buona. Nelle curve di Miano, infatti, c'è sempre il
fresco e ancora oggi, nelle nebbie dei gas di scarico, si sente un improbabile
vento di pulizia. Accanto alla porta di Bellaria c'è una vecchia clinica per malati
mentali. Si chiama Villa Russo. Oggi ci sono una decina di malati storici, mezzo
depressi. Talvolta li vedi passeggiare nei viali del bosco. Hanno un passo
leggerissimo e la testa snodata. Di loro mi spaventano gli occhi, che non si
abbassano mai. All'ingresso del bosco attacco il mio i-pod, seleziono la playlist
che in genere allestisco a casa, mescolando ritmi da disco dance degli anni
Settanta (I will survive) con canzonacce italiane da night (Tutto il resto è noia).
Prima di partire, però, vado a fare la pipì sotto la quercia, nel viale a sinistra. Qui
trovo sempre un grappolo di siringhe infilate nella corteccia. Poi torno sul
sentiero, avvio il cronometro e comincio la mia corsa. Faccio il viale centrale su
self control di raf, poi svolto a destra e salgo verso la statua greca; attacca bruci
la città di irene grandi e imbocco il castagneto, poi la salita verso la porta di
mezzo. Qui, dopo dieci minuti, comincio a sentire i bulloni delle ginocchia che si
allentano e lo sfrigolìo delle ossa, che scoppiettano come la legna sul fuoco. E' il
momento della nebbia negli occhi. Ecco perchè ho messo qui I will survive e poi
i Village People e poi Good Night Moon.
Sulla porta di mezzo ho fatto già quattro chilometri e corro da ormai venti
minuti. Ho un tamburo in petto, sulla salita ho incrociato, lungo la loro discesa,
altri corridori. Ci sono anziani in forma e giovani in sovrappeso; ci sono coppie
che passeggiano mano nella mano e qui provo un misto di tenerezza e rabbia.
La porta di mezzo apre la vista a quattro vie che scendono verso valle e
separano, a mezzo bosco, la reggia dai castagneti. Oltrepasso la porta di mezzo
e rotolo verso il museo, arrivo alla porta dei ponti rossi, sovrasto la città, a destra
il centro direzionale, a sinistra il tondo della basilica.
In fondo c'è il mare e nella curva giurerei, ogni volta, di sentirne l'odore.
Il mare, come la corsa, lo sento sulla pelle. Io sono tutto carne. E tutto vivo sulla
carne. E' questo il punto. Io sento ogni cosa addosso, il sale del mare e il sole sul
sale. Il sudore sulla corsa e i piedi che bollono, i muscoli che stringono tesi l'osso
e lo tengono dritto. Io sulla pelle sento le incoerenze della vita. E sai perchè?
Perchè come tutti quelli che si ostinano a vestire una tuta e a correre un'ora,
scegliendo la fatica come "divertimento", ho il culto della coerenza, della mia
ferrea necessità di collegare il fare al sentire, il mio gesto al mio odore.
La coerenza, per me, è stare in quello che sento.
Quando supero il museo e torno alla porta di mezzo, corro da 45 minuti e il più
è fatto. Imbocco una discesa verso Miano e qui sciolgo le briglia e caracollo
come da bambini quando ci lanciavamo sulle dune e ci rotolavamo convinti della
loro morbidezza. Sulla penultima curva, c'è Ligabue, con Niente paura e mi apre
lo stomaco con questo grido asciutto che sento davvero. Non ho paura, non ho
alcuna paura se non quella di vivere per sempre rabbioso di una rabbia viva e
cruda, non la rabbia di una ferita che non solo si è ricucita ma ha addirittura
mangiato la sua cicatrice; la rabbia, piuttosto, dell'ingiustizia perchè non si può
vivere senza amore.
Quando corro ormai da cinquantasei minuti e me ne mancano quattro e poco più
di mezzo chilometro alla fine della prova, sul Bellaria, spunta improvvisa e
impertinente una salitella. La prima volta mi fregò e mi tagliò le gambe ma la
vinsi col fiatone; da allora non mi frega più. Su quel poggio parte la colonna
sonora di Rocky, con quel suo inno isterico, e qui mi gaso, penso che vivrò
sempre così, sempre forte, sempre teso nei muscoli, sempre aspro sulla salita,
con i denti stretti e una smorfia selvatica sotto la faccia tonda, che la natura ha
voluto beffardamente montarmi sul collo.
Arrivo sempre in cima, dopo dieci chilometri e dopo un'ora.
A pezzi ma intatto.