Ophthalmic Diseases and Healthcare Management in

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Ophthalmic Diseases and Healthcare Management in
Suppl. al n. 14/2013 di www.pharmastar.it
Congress News
OphThALMIC DISEASES and hEALThCARE
MANAgEMENT IN DEVELOpINg COuNTRIES
Roma, 15-16 novembre 2012
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Congress News
Registrazione al Tribunale di Milano
n° 516 del 6 settembre 2007
Direttore Responsabile
Danilo Magliano
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Un ringraziamento per l’editing degli articoli al dottor Sergio Primitivo, Oculista AMOA.
Servizio scientifico offerto alla Classe Medica da MSD (Italia) S.r.l.
Questa pubblicazione riflette i punti di vista e le esperienze degli autori e non necessariamente quelli della MSD (Italia) S.r.l
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Indice
Introduzione
p.   4
CATARATTA
Consigli per l’organizzazione di un’unità oftalmologica Piet Paul Marie-Andrée Noé
Cataratta nei Paesi in via di sviluppo: patogenesi ed epidemiologia Gabriella Parente
Training professionale per lo staff locale della chirurgia della cataratta Massimo Di Maita
Una via indiana per aumentare il Catarat Surgery Rate Vincenzina Mazzeo Simonini
Tecniche chirurgiche per l’intervento di cataratta Luca Avoni
Chirurgia della cataratta: indicazioni per la Faco o la Sics Alessandro Pezzola
p.   5
p.   6
p.   8
p.   9
p.   9
p. 11
LA SICS step by step
Anestesia e set strumentale per la Sics Piet Paul Marie-Andrée Noé
Costruzione del tunnel e apertura della capsula anteriore Giuseppe Gaiba
Sutura o non sutura? Alessandro Mularoni
p. 12
p. 13
p. 15
GLAUCOMA
Epidemiologia del glaucoma Mario Angi
Differenze tra i glaucomi, confronto tra Paesi sviluppati e PVS Andrea Perdicchi
Come porre diagnosi di glaucoma? Quale ruolo per l’hi-tech? Marco Centofanti
Ruolo della trabeculoplastica laser. Selettiva o non selettiva? Michele Figus, Chiara Posarelli
p. 16
p. 17
p. 18
p. 20
chirurgia del GLAUCOMA
La trabeculectomia è il gold standard in Africa? Maria Papadopoulos
Ruolo del ciclodiodo e della ciclocoagulazione circolare ad ultrasuoni Roberto Carassa
Gestione del glaucoma congenito Maria Papadopoulos
La gestione e la chirurgia del glaucoma a Lubumbashi, Congo Gabrielle Chenge
p. 22
p. 23
p. 25
p. 26
25° ANNIVERSARio del MECTIZAN DONATION PROGRAM
Cecità fluviale: epidemiologia e caratteristiche cliniche Kisito Ogoussan
I 25 anni del Mectizan Donation Program: spianare la strada all’eliminazione
dell’oncocercosi nel 21° secolo Benedetta Nicastro
La distribuzione di Mectizan in Togo Charles Kondi Agb
p. 28
p. 30
p. 31
suggerimenti e gestione operativa
La politica sanitaria nella cooperazione internazionale decentrata Cecile Kyenge
Priorità sanitarie nei Paesi con risorse limitate: il pacchetto sanitario
minimo Augusto Cosulich
Come preparare un progetto nei Paesi in via di sviluppo Mario Angi
Come mettere a punto un’unità oftalmologica Piet Paul Marie-Andrée Noé
Il corso della Medicus Mundi Italia: un’esperienza d’insegnamento Vincenzina Mazzeo
La raccolta fondi nella cooperazione internazionale: l’esperienza di Cbm Italia Luciano Miotto
Far crescere le associazioni con il fundraising: l’esperienza di Amoa onlus Irene Severini
p. 33
p. 34
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p. 40
p. 41
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Introduzione
Amoa (Associazione medici oculisti per l’Africa) onlus ha organizzato per il secondo anno consecutivo
un congresso sulla gestione delle patologie oculari nei Paesi in via di sviluppo (PVS). L’evento è nato
per festeggiare il 25° anniversario del programma di donazione dell’ivermectina (Mectizan), farmaco
distribuito gratuitamente dall’azienda farmaceutica MSD, che ha permesso il controllo e, in alcune
regioni dell’America Centrale, l’eliminazione dell’oncocercosi, patologia parassitaria detta anche
‘cecità fluviale’. Il congresso ha trattato anche due malattie molto diffuse come la cataratta e il glaucoma.
Il problema della cataratta è ancora la prima causa di cecità, nonostante la percentuale dei ciechi
sia notevolmente diminuita grazie a iniziative come ‘Vision 2020: the right to sight’ e al maggior impegno
da parte dei governi locali nell’appoggiare campagne di prevenzione e cura della cecità.
Grande importanza è stata data alla tecnica Sics (Small Incision Cataract Surgery), molto diffusa nei PVS
perché molto economica e rapida sia nell’esecuzione sia nel recupero visivo da parte del paziente.
L’altra malattia molto diffusa nei PVS e in particolare in Africa è il glaucoma, seconda causa di cecità
al mondo dopo la cataratta e prima causa di cecità irreversibile. Va ricordato, inoltre, che è ancora alta
in tutto il mondo la percentuale di casi di glaucoma non diagnosticati (si parla di un caso su due anche
in Italia). Per risolvere il problema diagnostico nei PVS occorre integrare il trattamento del glaucoma
all’interno di iniziative già esistenti sulle malattie oculari, dal momento che non esiste ancora
uno strumento singolo che permetta, da solo, di porre diagnosi di glaucoma. Un lungo dibattito è stato
dedicato alla terapia sia laser sia chirurgica del glaucoma e, seppure non si sia giunti a una conclusione
unanime, la trabeculectomia da un punto di vista chirurgico e la trabeculoplastica da un punto di vista
medico sono state le tecniche ritenute più utili in un contesto come quello dei PVS.
L’ultima parte del congresso ha trattato temi organizzativi e di cooperazione internazionale. Ne è emerso
un quadro variegato: se, da una parte, il nostro Paese è in prima linea nella cooperazione internazionale
in oftalmologia, con 140 progetti in tutto il mondo, gestiti in primo luogo da Cbm Italia e poi da Amoa
e Iapb, è altresì vero che esiste una costellazione di piccole associazioni che contano sulla generosità
dei donatori. Si tratta di una realtà a volte frammentata, priva di coordinamento o di una visione
strategica di lungo periodo e spesso legata all’iniziativa del singolo. Iniziative come quella di Amoa
ed MSD sono volte a creare una rete tra coloro che operano sul territorio, in modo da non disperdere
le forze e realizzare un progetto organico, articolato e che possa durare nel tempo.
Mi si conceda un ringraziamento e un augurio. Il ringraziamento va a MSD Italia per il sostegno
organizzativo ed economico e ai relatori che si sono prestati a confrontarsi sia professionalmente
sia umanamente, a titolo gratuito. E l’augurio che faccio a tutti i professionisti del settore è di
diventare il più presto possibile inutili, nel senso che i PVS non siano più tali, ma siano diventati Paesi
con la stessa disponibilità di risorse dei Paesi sviluppati, non più bisognosi dell’assistenza fornita
dai progetti di cooperazione internazionale.
Gian Luca Laffi
Presidente dell’Associazione medici oculisti per l’Africa (Amoa)
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CATARATTA
Consigli per l’organizzazione
di un’unità oftalmologica
Piet Paul Marie-Andrée Noé
Oculista presso l’ospedale di Kabgayi, Gitarama, Rwanda
2011
*2012
2010
2009
2008
2007
* da gennaio a giugno
2006
2011
*2012
2010
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
00
1996
10000
10000
2005
20000
20000
In ospedale
Interventi sul campo
Totale
2004
30000
30000
2003
40000
40000
Interventi chirurgici
(in ospedale/sul campo)
2002
50000
50000
4500
4500
4000
4000
3500
3500
3000
3000
2500
2500
2000
2000
1500
1500
1000
1000
500
500
00
2001
Consultazioni (in ospedale/sul campo)
2000
60000
60000
autorità locali, chiese, staff dei centri sanitari ecc.).
Ma il fattore più importante è fare un intervento di
buona qualità, a prezzi accessibili. Questo secondo
obiettivo si può perseguire organizzando unità chirurgiche itineranti, evitando così al paziente i costi
del trasporto, applicando tariffe differenziate in base
al reddito, offrendo il pagamento a rate e, non da
ultimo, evitando la corruzione. È altresì importante
che il team oculistico sia responsabile e motivato e
che il chirurgo della cataratta sia sempre disponibile.
Un esempio virtuoso è quello dell’unità oculistica
dell’ospedale di Kabgayi, che ha organizzato un sistema di chirurgia itinerante della cataratta inviando
personale sul campo in 15 distretti su 30 del Rwanda.
Il modello di intervento prevede diverse fasi. Innanzitutto ci si mette in contatto con le autorità locali,
illustrando lo scopo della campagna e definendone
i vari aspetti, tra cui quelli economici; si passa quindi
alla sensibilizzazione dell’utenza, facendo pubblicità
alla radio, nelle chiese e presso i centri sanitari; si
invia poi il personale nei centri sanitari dei distretti
per la fase di screening, in cui si visitano da 150 a 300
pazienti al giorno e si identificano i casi da operare
presso l’ospedale del distretto, dove si eseguono da
150 a 250 interventi a settimana. Da quando è stato
avviato questo programma sul campo, nel 2009, sono
aumentati notevolmente sia il numero delle visite e
delle consultazioni (arrivate a 50 mila all’anno) sia
quello degli interventi, che nel 2011 sono stati più
di 4.000 e hanno fatto da volano a un aumento delle
operazioni anche negli ospedali centrali (figura 1).
1999
In Africa, il numero di interventi di cataratta per milione di individui eseguiti in un anno (Cataract surgery rate) è molto basso: inferiore a 500 (circa 300
in Rwanda) contro 4.000-6.000 nei Paesi occidentali
e 1.500-3.000 in India e altri Paesi asiatici in via di
sviluppo. Ciò è dovuto alla presenza di molteplici
barriere che frenano l’accesso alla chirurgia, in parte
legate ai pazienti e in parte all’unità oculistica. Tra
le prime, vi sono barriere culturali o legate alla comunità (per esempio paura, discriminazione verso
le donne, a cui i mariti non danno il denaro necessario, l’età avanzata e altri ancora), di tipo economico
(mancanza di soldi per andare in ospedale e pagare
le cure) e anche di tipo informativo (pochi sanno che
la cataratta è operabile; incertezza sui costi e sui
risultati dell’intervento). Tra le seconde, invece, ci
sono problemi legati allo staff (per esempio il fatto
che il chirurgo non sia sempre presente rappresenta
un deterrente) così come il costo elevato dell’intervento, la scarsità di informazioni fornite ai pazienti
e, talora, la bassa qualità della chirurgia praticata.
Come abbattere questi ostacoli e attrarre più pazienti? Bisogna, innanzitutto fare una sorta di ‘social marketing’, migliorare la sostenibilità economica
dell’intervento e cambiare la mentalità e l’atteggiamento dello staff sanitario. Per esempio, bisogna
dare informazioni precise ai pazienti e ai loro familiari sul costo della chirurgia, la durata della degenza,
la prognosi e i risultati attesi, nonché usare canali
di comunicazione molteplici (annunci in radio, poster appesi nei luoghi pubblici, coinvolgimento di
La chirurgia sul campo genera un'ampia domanda e promuove l'immagine dell'unità oculistica
Figura 1 Andamento temporale delle consultazioni e degli interventi di cataratta presso l’unità oculistica
dell’ospedale di Kabgayi.
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L’intervento viene eseguito con la tecnica della microincisione manuale (Sics), che ha per i pazienti gli
stessi vantaggi della facoemulsificazione (Faco): non
crea praticamente astigmatismo, non dà problemi
di sutura e permette una riabilitazione precoce. In
più, rispetto alla Faco, la Sics ha un costo inferiore,
richiede strumentazione semplice e poco costosa,
consente un turnover elevato dei pazienti (fino a otto
interventi all’ora) e va bene per tutti i tipi di cataratta.
Per fare buona pubblicità, e creare quindi un effetto di
propagazione della domanda, è essenziale fornire un
intervento di alta qualità, che si ottiene eseguendo la
cheratometria e l’ecobiometria A-scan pre-operatorie,
garantendo la sterilità con guanti nuovi per ogni paziente e un’iniezione intracamerulare di cefuroxime,
avendo a disposizione un vitrectomo portatile e sottoponendo i pazienti a un follow-up adeguato, con visite
di controllo il giorno dopo la chirurgia e 14 giorni dopo;
sono fondamentali, naturalmente, anche un’adeguata
selezione dei pazienti, un training continuo del personale e la manutenzione degli strumenti. Infine, è
importante una valutazione degli esiti dell’intervento,
fattibile oggi con software dedicati, e, in caso di risultato negativo, l’analisi delle cause dell’insuccesso, che
può essere dovuto a una selezione inadeguata dei casi,
a complicanze o a problemi di rifrazione.
Cataratta nei Paesi in via di sviluppo:
patogenesi ed epidemiologia
Gabriella Parente
Oculista di Amoa onlus
La cataratta e la degenerazione maculare senile
sono le più importanti cause di danno visivo e di
cecità in tutto il mondo. Entrambe le condizioni,
come è noto, sono strettamente legate all’invecchiamento e comprenderne i meccanismi patogenetici può essere utile per prevenire o ritardare
l’esordio della malattia.
Il cristallino è una lente che ha la funzione di trasmettere, filtrare e focalizzare i raggi sulla retina
e che deve la sua trasparenza a un’alta concentrazione e un orientamento molto regolare di alcune proteine strutturali: le α, β e γ cristalline. La
componente cellulare della lente è costituita da un
unico strato di cellule epiteliali situate sulla sua superficie anteriore, sotto la capsula, che si dividono
attivamente e nella zona equatoriale si differenziano in cellule allungate, le quali, a loro volta, si
trasformano in fibre anucleate che si compattano
all’interno del cristallino.
La cataratta è dovuta a una progressiva opacizzazione del cristallino legata a variazioni strutturali della
lente o a un’alterazione della sua omeostasi. Può
essere dovuta, per esempio, a un’alterazione della
densità proteica a causa dell’aggregazione delle
proteine o, al contrario, a fenomeni di degradazione
delle proteine danneggiate che si accumulano nel
corso della vita. Questa disomogeneità determina
un’alterazione dell’indice di rifrazione della lente e,
quindi, fenomeni di light-scattering che ne riducono
la trasparenza. Inoltre, si può avere un’inibizione
del differenziamento delle cellule epiteliali che, invece di trasformarsi in fibre, migrano verso il polo
posteriore della lente e lì proliferano, dando origine
a una cataratta posteriore subcapsulare.
L’eziologia della cataratta ben si concilia con la teoria dell’invecchiamento basata sui radicali liberi,
in base alla quale l’invecchiamento e le patologie
ad esso correlate, tra cui anche la cataratta, sono il
risultato di un danno cellulare indotto dalle specie
reattive dell’ossigeno (ROS), i radicali liberi, prodotti per il 90% dai mitocondri, ma anche di origine esogena. Tra le fonti esterne di ROS vi sono
il fumo di tabacco, la radiazione solare e i combustibili organici. Il cristallino, di per sé, è dotato di
meccanismi di difesa contro i ROS: potenti sistemi
antiossidanti costituiti principalmente da vitamina
C (presente in concentrazioni 30-50 volte superiori
a quella plasmatica), ma anche vitamina E, carotenoidi, glutatione e alcuni minerali come il selenio.
Si è ipotizzato, dunque, che la cataratta possa essere legata a un fallimento di questi sistemi protettivi e si è pensato alla possibilità di rallentare
l’invecchiamento del cristallino e prevenire la malattia per via farmacologica, aumentando le difese
antiossidanti della lente. Già nel 2001, lo studio
AREDS ha dimostrato l’efficacia di dosi elevate
(circa 10 volte la dose giornaliera raccomandata)
di un mix di vitamine (C, E, A più il suo precursore
betacarotene) e zinco nel ridurre del 25% la progressione a 5 anni della malattia. Lo stesso trial,
tuttavia, non ha mostrato benefici nella riduzione
del rischio di sviluppare la cataratta.
Se non è possibile prevenirla agendo sull’età, che è
il principale fattore di rischio, si può tuttavia inter-
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Cause di cecità nel mondo
Non determinate
21%
Cataratta
51%
Tracoma
3%
Retinopatia diabetica
1%
Errori refrattivi
3%
Cecità infantile
4%
Opacità corneali
4%
glaucoma
8%
AMD: degenerazione maculare senile
AMD
5%
Fonte: Oms 2010
Figura 1
venire sugli altri fattori di rischio come il fumo, che
triplica il rischio di cataratta nucleare perché è una
fonte esogena di ROS e provoca una deplezione
degli antiossidanti endogeni, oltre all’accumulo di
alcuni minerali come cadmio e piombo all’interno
della lente. Anche l’esposizione ai raggi UV è un
moderato fattore di rischio, soprattutto se avviene
in età molto precoce, così come l’utilizzo di combustibili organici, che è molto diffuso nei Paesi in
via di sviiluppo (PVS). Diversi studi epidemiologici
mostrano come la combustione di carbone e legna, molto utilizzata nei PVS a scopo domestico,
sia responsabile di affezioni respiratorie e anche
di un aumento del rischio di cataratta. Altro fattore di rischio è, poi, la compresenza di patologie
sistemiche quali diabete, ipertensione, stati di
grave disidratazione e diarrea, obesità e di patologie oculari come la miopia o l’utilizzo di terapie
prolungate con cortisone. Infine, anche la genetica
sembra avere una certa importanza, sebbene non
sia stato individuato un gene specifico associato
allo sviluppo della malattia, ma è probabile che
siano invece coinvolti più loci. Gli studi di genetica
potrebbero aiutarci a individuare le popolazioni
più a rischio di sviluppare la cataratta, che potrebbero quindi modificare quei comportamenti (come
il fumo e l’esposizione agli UV) noti per contribuire
all’opacizzazione del cristallino.
Ma quanto è importante, oggi, il problema della
cataratta? In base a stime recenti (2010) dell’Organizzazione mondiale della sanità, questa malattia è la prima causa di cecità in tutto il mondo
(figura 1) e le prospettive per il futuro sono quelle
di un aumento della sua prevalenza. Nei prossimi
20 anni, infatti, si prevede un incremento di circa un terzo della popolazione mondiale e, nello
stesso arco di tempo, un raddoppio del numero
degli ultra 65enni. È facile immaginare, dunque,
che in parallelo aumenterà notevolmente anche
l’incidenza della cataratta, e con essa la necessità
di implementare campagne per facilitare l’accesso
alla chirurgia. Il problema riguarderà sia i Paesi
sviluppati, dove i sistemi sanitari si stanno già
organizzando in tal senso, sia, soprattutto, i PVS,
dove, alle note difficoltà di accesso all’intervento,
si sommano anche fattori ambientali e genetici che
concorrono ad aumentare la frequenza della malattia. È per questo che, già nel 1999, l’International agency for the prevention of blindness (Iapb),
ha lanciato l’iniziativa globale ‘Vision 2020: the
right to sight’, mirata a eliminare le cause di cecità
evitabile entro il 2020. Eliminare la cecità dovuta
alla cataratta è una delle maggiori sfide del 21°
secolo a livello di salute pubblica ed è indubbio
che il peso maggiore per risolvere il problema sarà
sostenuto soprattutto dai PVS.
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Training professionale per lo staff locale
della chirurgia della cataratta
Massimo Di Maita
Oculista di Amoa onlus
In Etiopia ci sono circa 1,2 milioni di abitanti affetti da cecità, nella stragrande maggioranza dei
casi (circa un milione) dovuta a cause evitabili, e
c’è un solo oculista per milione di abitanti, mentre le strutture oculistiche al di fuori della capitale
Addis Abeba sono poche o addirittura assenti. Per
migliorare il quadro, l’Associazione medici oculisti
per l’Africa (Amoa) ha avviato nel 2010 un progetto
quinquennale nel sud dell’Etiopia, la zona più povera del Paese, nella cittadina di Dubbo presso il St.
Mary Hospital, su richiesta dello stesso ospedale.
Gli obiettivi chiave dell’iniziativa di Amoa sono in
primo luogo fornire assistenza diretta con i propri
operatori alla popolazione locale (come tutte le altre
organizzazioni affini) di natura sia ambulatoriale sia
chirurgica, ma anche addestrare personale locale
e poi collaborare con le istituzioni accademiche e
governative del Paese ospite.
Innanzitutto, si è allestito un ambulatorio stabile,
aperto 365 giorni l’anno, provvisto di tutto il necessario per una visita oculistica completa e presso il
quale vengono distribuiti occhiali (donati da privati
o associazioni come i Lions) e farmaci (antibiotici,
colliri, anti-glaucoma ecc., forniti gratuitamente da
diverse aziende farmaceutiche), anche in assenza
del personale Amoa, non presente costantemente
sul posto. Si è poi attrezzata una piccola sala operatoria all’interno di una dental room, comprando
in loco un modestissimo microscopio operatorio
e facendo arrivare gli strumenti chirurgici per gli
interventi di cataratta e glaucoma, forniti sempre
da Amoa. Si è quindi avviato uno screening sul territorio (nelle scuole, nei villaggi e nelle piccole comunità) con l’ausilio di lampade a fessura portatili,
tonometri portatili e ottotipi.
Sul fronte del training del personale locale, sono
stati selezionati alcuni infermieri tra i dipendenti
del St. Mary Hospital, poi affiancati al personale
Amoa che ha fornito loro l’addestramento teorico
e pratico ambulatoriale necessario per potersi avvicinare all’oftalmologia. Valutando con attenzione
la loro competenza, la loro attenzione e il loro interesse, gli infermieri selezionati sono stati quindi
introdotti nella sala operatoria per familiarizzare
con le conoscenze e le procedure della chirurgia
oftalmica, sempre nel rispetto della giurisdizione
locale, che richiede agli infermieri un titolo perché
possano esercitare legalmente sul paziente qualsiasi atto chirurgico e non (figura 1). In Etiopia, in
particolare, gli infermieri possono specializzarsi
in oftalmologia con un anno di studio e con altri 3
anni diventare chirurghi della cataratta e delle palpebre. Amoa ha anche dato il supporto economico
per la formazione di un infermiere specializzato per
il 2012 e di un altro per il 2013, in modo da garantire la presenza costante di un elemento, seppure
non oculista, scelto e sostenuto economicamente
da Amoa, ma integrato all’interno dell’ospedale,
nel quale certamente rimarrà a esercitare, essendo
già dipendente della struttura.
Nel contempo, l’associazione ha stabilito un rapporto molto stretto di collaborazione con l’Università di
Addis Abeba, e precisamente con la banca degli occhi della clinica oculistica, con la quale si è siglato
un contratto che prevede l’invio ciclico presso il St.
Mary Hospital di specializzandi in oftalmologia, al
fine di garantire una presenza permanente nell’area
e la possibilità per questi medici di avere un contratto d’impiego da parte dell’ospedale. In questo
modo, Amoa spera, nell’arco di 5 anni, di riuscire
ad avere almeno un oculista e un paio di chirurghi
esperti in cataratta operanti in questa struttura.
Figura 1 Addestramento del personale locale in sala
operatoria presso il St. Mary Hospital di Dubbo,
in Etiopia.
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Una via indiana per aumentare
il Catarat Surgery Rate
Vincenzina Mazzeo Simonini
Medicus Mundi Italia
In India, così come negli altri Paesi in via di sviluppo
(PVS), la cataratta è la prima causa di cecità evitabile
e l’incidenza della malattia è in crescita. Per combattere il problema e aumentare il Cataract Surgery
Rate, cioè il numero di interventi di cataratta per
milione di individui eseguiti in un anno, alcune delle
strutture sanitarie impegnate nel progetto ‘Vision
2020: the right to sight’ hanno adottato un sistema
capillare di reclutamento dei pazienti sul territorio,
basato sulla creazione di missioni (chiamate ‘camp’)
itineranti. Il Sankara Eye Care Institute, che raggruppa 9 ospedali oftalmici distribuiti in varie aree del
Paese, invia il proprio personale nei villaggi della
zona a fare la selezione dei casi da operare, che vengono poi trasportati in pullman fino all’ospedale.
L’intervento si esegue in genere in day hospital; solo
coloro che abitano troppo lontano vengono trattenuti per una notte. Una volta arrivati al centro, i pazienti
vengono preparati per la chirurgia, visitati di nuovo
dagli oculisti, lavati, puliti, sottoposti alle valutazioni pre-operatorie del caso, come la biometria per il
calcolo del potere diottrico del cristallino artificiale
da impiantare, e quindi operati con la tecnica della
‘Small incision sutureless cataract surgery’ (Siscs).
La procedura prevede la creazione di un tunnel a
tenuta ottenuto con una microincisione manuale e
un’estrazione extracapsulare con impianto di lentina
intraoculare. Dopo l’intervento, i pazienti vengono
rivestiti, a metà pomeriggio si serve il tè, vengono
loro fornite tutte le istruzioni post-operatorie necessarie, alle 18.30 cenano e, infine, vengono dimessi
e riportati a casa con il pullman la sera stessa o,
eventualmente, il mattino successivo. Con questo
sistema, presso il Sankara Eye Hospital di Coimbatore (Tamil Nadu), per esempio, cinque chirurghi
che intervengono su 10 tavoli operatori riescono a
effettuare fino a 200 interventi al giorno. Si tratta,
insomma, di un preciso protocollo estremamente
produttivo, grazie al quale il Sankara Eye Care Institute, nel periodo 2011-2012, è riuscito ad aumentare del 17% il numero di interventi praticati presso
otto dei propri centri.
Tecniche chirurgiche per l’intervento
di cataratta
Luca Avoni
Dirigente U.O. Oculistica Ospedale Maggiore di Bologna,
Responsabile della Banca delle Cornee dell’Emilia Romagna
La chirurgia della cataratta, è, come noto, antichissima e si praticava già ai tempi degli Egizi, intorno
al 2700 a.C., con la reclinatio lentis. Nel 1961 Krawicz ha introdotto l’estrazione intracapsulare (Icce),
seguita poi dall’estrazione extracapsulare (Ecce) e
dalla facoemulsificazione (Faco).
La reclinatio lentis è una tecnica nella quale veniva
introdotto un ago all’interno dell’occhio e si spostava il cristallino in camera vitrea, con tutte le possibili
complicanze del caso (da quelle infettive a quelle flogistiche); a volte, tuttavia, la procedura funzionava
e si è mantenuta in uso a lungo, fino al Medioevo.
Nel 1947 Harold Ridely ebbe la prima intuizione
geniale di sostituire il cristallino asportato con
un’altra lente per non lasciare l’occhio afachico,
impiantando il primo cristallino artificiale. Alcuni
piloti di aereo che avevano combattuto durante la
II Guerra Mondiale avevano schegge del parabrezza
dell’aereo all’interno degli occhi, senza reazioni di
alcun tipo. Si pensò allora che il materiale dei parabrezza potesse essere compatibile con l’utilizzo
intraoculare e in effetti lo era, tant’è vero che per
molti decenni è stato l’unico impiegato per la costruzione dei cristallini artificiali.
Altra intuizione pioneristica è stata quella dell’oculista americano Charles Kelman, padre della Faco,
che alla fine degli anni ‘60, andando dal dentista,
ebbe l’idea di utilizzare gli ultrasuoni anche nell’intervento di cataratta, per emulsionare il cristallino
e aspirare il materiale emulsificato senza dover
praticare una grossa incisione.
La Icce, che prevede la rimozione del cristallino e
della sua capsula in toto, è una tecnica in cui si
pratica un’ampia incisione corneale, seguita dall’estrazione della lente con pinze, erisigrafo o crioestrattori, e quindi dalla sutura della ferita. Anche
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se oggi è usata per lo più per la rimozione delle
cataratte sublussate, questa tecnica è stata quella
di scelta dalla fine degli anni ’60 fino ai primi anni
’80, dopodiché ha perso progressivamente popolarità. È, infatti, più invasiva rispetto ad altre, con un
maggior rischio di complicanze e con lo svantaggio
dell’assenza di supporto capsulare in caso si decida
di impiantare una lentina intraoculare (Iol).
Successivamente alla Icce è stata introdotta la Ecce,
prima nella variante convenzionale, in cui si pratica
un taglio grande (10-12 mm), e poi in quella caratterizzata da una microincisione (Sics). La Ecce convenzionale prevede un’ampia incisione corneale, seguita
dall’iniezione di viscoelastico in camera anteriore e
poi da una capsuloressi; si effettua quindi l’idrodissezione, si asporta il nucleo e si aspirano le masse
residue, dopodiché si procede a impiantare la Iol nel
sacco e poi si sutura la ferita. La Sics non è altro che
una variante della Ecce in cui si fa una sutura nel retto
superiore, si pinza la congiuntiva a circa 8 mm dal
limbus e si passa quindi la sutura nel retto superiore.
Si esegue poi una peritomia congiuntivale da ore 11
a ore 2, si inseriscono le forbici nello spazio subperitomiale e si scolla la congiuntiva, esponendo la sclera. Molto importante, poiché in seguito non si danno
punti di sutura, è creare un tunnel sclero-corneale
a tenuta, che consente di effettuare una ferita autochiudente creando un taglio sclerale esterno su un
piano differente da quello interno. In particolare, si
utilizza un bevel-up angolato, facendo un’incisione
perpendicolare alla sclera al 50% dello spessore, a
2 mm dal limbus, creando un tunnel sclerale di 6-7
mm parallelo alla superficie oculare, estendendolo
per circa 2 mm in cornea chiara senza entrare in camera anteriore. Per favorire l’estrazione del nucleo,
inoltre, il tunnel deve avere l’apertura dentro la cornea più larga di quella sclerale. Il completamento del
tunnel si ottiene aprendo la camera anteriore con un
tagliente e iniettandovi visocoelastico. La successiva
capsuloressi può essere curvilinea (circa 6 mm) oppure triangolare e si può fare con ago. Si passa quindi
all’idrodissezione. Per mobilizzare il nucleo e separarlo dalla corteccia si usa una cannula di Simcoe,
irrigando all’interno del sacco e posteriormente al
nucleo finché il polo superiore del nucleo stesso
emerge dal sacco in camera anteriore. Si forma un
piano di clivaggio tra il nucleo e l’iride finché la lente
è totalmente in camera anteriore. Per l’estrazione del
nucleo, occorre accertarsi dell’adeguata dimensione del taglio sclerale in rapporto alle dimensioni del
nucleo stesso, bisogna poi tenere la sclera vicina al
taglio con una pinza congiuntivale, inserire la cannula dietro al nucleo a ore 6 favorendone l’espulsione
attraverso il tunnel tramite l’irrigazione (si può usare
anche viscoeleastico prima dell’estrazione per evitare
danni all’endotelio) e ci si può aiutare esercitando
una leggera contropressione con la cannula (figura 1).
Dopo aver aspirato le masse residue corticali con
la cannula, si riforma la camera anteriore con aria,
si prende la lente con una pinza e la si inserisce
nel sacco capsulare. Per la chiusura della ferita occorre rimuovere l’aria o il viscoelastico, mentre il
tunnel, come ricordato sopra, non richiede sutura.
Si pratica infine un’iniezione sottocongiuntivale di
desametasone e gentamicina.
L’attuale tecnica standard è, tuttavia, la Faco, che
prevede la creazione di un tunnel di dimensioni differenti rispetto alla Sics (1,8, 2,2 e 2,8 mm), l’introduzione del viscoelastico in camera anteriore, la
capsuloressi, l’idrodissezione, la facoemulsificazione della cataratta, l’aspirazione delle masse e, da
ultimo, l’impianto della lente artificiale.
La Faco è oggi preferita alla Sics nei Paesi industrializzati per la sua maggiore sicurezza, per l’incisione più piccola e per il minore rischio infettivo. Nei
PVS, tuttavia, l’estrazione extracapsulare è stata
ed è ancora la tecnica di prima scelta, soprattutto
grazie al minor costo della strumentazione e dei
materiali. Le cose, però, stanno cambiando. Grazie
alla riduzione dei costi delle attrezzature, la Faco
potrebbe prendere sempre più piede a scapito della
Ecce anche in queste zone del mondo.
Figura 1 Estrazione del nucleo durante l’intervento di Sics.
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Chirurgia della cataratta:
indicazioni per la Faco o la Sics
Alessando Pezzola
Una sola vita onlus
Le tecniche chirurgiche oggi più in uso su scala
mondiale per l’intervento di cataratta sono la chirurgia extracapsulare con microincisione (Sics) e
la facoemulsificazione (Faco). Gli studi clinici dimostrano che i risultati delle due metodiche sono
abbastanza sovrapponibili sia in termini di recupero di acuità visiva sia di complicanze. Ognuna ha
pro e contro (tabella 1), ma, se si valuta il rapporto
costi-benefici, appare chiaro che in una realtà come
quella dei Paesi in via di sviluppo (PVS) la Sics è
in genere preferibile alla Faco, perché più veloce e
fino a 10 volte meno costosa, a parità di efficacia
e sicurezza.
velocemente estraendo tutta la cataratta, con l’aspirazione della corticale in tempi brevissimi. Al contrario, in caso di cataratta intumescente, ipermatura
e pediatrica, entrambe le tecniche sono valide, anche se il facoemulsificatore permette una maggiore
rapidità di esecuzione, a patto che non sia presente
un nucleo centrale duro e gommoso (come accadde
talora nella cataratta ipermatura) che potrebbe creare problemi. In Indonesia, dove Una sola vita onlus
ha attivato un progetto di cooperazione, è frequente
la cataratta post-uveitica dell’adolescente, per la
quale le tecniche extracapsulari come la Sics sono
molto più indicate rispetto alla Faco.
Dal punto di vista delle indicazioni, invece, la Faco
ha alcuni limiti nel trattamento della cataratta molto
dura, che costituisce il 70-80% dei casi di cataratta
in questi Paesi; inoltre, tale tecnica non è indicata
in presenza di una cataratta sublussata, mentre la
Sics non è adatta alla cataratta collosa, che si fatica
a estrarre con l’uncino.
Va ricordato che in Africa, spesso, l’oculista si trova di fronte a cataratte complicate in occhi molto
delicati per quanto concerne capsula, legamento e
strutture oculari, perché, a parità di spessore corneale sclerale, le cornee africane e anche asiatiche
sono più fragili (e quelle asiatiche anche più piccole) rispetto a quelle europee.
In caso di cataratta dura, grossa e consistente, la
Sics è più facile della Faco perché l’impiego del
facoemulsificatore è complesso, mentre l’utilizzo
dell’uncino permette di eseguire l’intervento molto
Bisogna ricordare, infine, che nelle missioni brevi
nei PVS è necessario cercare di non lasciare mai
dietro di sé complicanze, specie se, terminata la
missione, non c’è personale locale che possa seguire questi pazienti, i quali non potranno essere
sottoposti a un’ulteriore chirurgia né a una terapia
medica, perché non possono sostenere nemmeno
il costo di un antinfiammatorio (necessario, per
esempio, nel caso di un nucleo caduto dal vitreo)
o di un antiglaucoma. Se si sceglie di insegnare
la Faco, è consigliabile iniziare con i casi più facili
e, soprattutto, iniziare dalla fine del caso chirurgico (teach ‘from the end’) perché, ad esempio, la
rottura di una capsula non rappresenta un grosso
problema verso la fine dell’intervento, al momento
dell’inserzione del cristallino artificiale, ma è ben
più complicata da gestire se si verifica all’inizio,
durante la fase di idrodissezione.
Sics e Faco a confronto
Sics
Faco
PRO
PRO
Procedura facile; non richiede sutura;
piccola incisione; molto economica;
non necessita di autoclave;
possibilità di usare strumenti monouso;
facile da insegnare
CONTRO
Richiede dissezione congiuntivale; frown incision;
strumentazione delicata; non molto ‘attraente’ (?)
Tecnica moderna, ben conosciuta;
vitrectomia anteriore
CONTRO
Costosa; necessita di autoclave; lenti pieghevoli;
tirocinio difficile
Tabella 1 I vantaggi e gli svantaggi della Sics e della Faco.
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LA SICS step by step
Anestesia e set strumentale per la Sics
Piet Paul Marie-Andrée Noé
Oculista presso l’ospedale di Kabgayi, Gitarama, Rwanda
Per l’intervento di Sics possono essere praticati
diversi tipi di anestesia locale (retrobulbare, peribulbare, sottotenoniana e topica) ciascuno con dei
pro e dei contro e, in alcuni casi specifici, anche
l’anestesia generale (tabella 1).
Alcuni, tuttavia, sono migliori di altri. Presso l’ospedale di Kabgayi, in Rwanda, di solito si impiega l’anestesia retrobulbare che è molto semplice
e dà un blocco totale anche se non mancano le
complicanze. La peribulbare e la sottotenoniana
presentano meno rischi, ma in Africa sono meno
utilizzate. L’anestesia topica non è adatta a setting
con un alto volume di interventi e necessita di una
buona comunicazione con il paziente (che spesso,
in contesti come Kabgayi, non parla la stessa lingua
del medico) per cui non è mai utilizzata. L’anestesia generale si usa, invece, nei pazienti con ritardo
mentale e nei casi di cataratta congenita.
Il blocco retrobulbare si pratica iniettando con
un ago da 23G da 2,5 a 5 ml di xilocaina al 2% e
ialuronidasi 25 UI/ml al paziente in posizione seduta o supina. A volte è necessario anche il blocco
facciale (con la tecnica di O’Briens) e in tal caso
la procedura riguarda la parte sotto orbitale; bisogna, inoltre, esercitare una delicata pressione
sull’occhio e fare molta attenzione a evitare l’iniezione endovascolare.
La strumentazione necessaria per l’intervento
comprende, innanzitutto, un telo sterile su cui
sono poste le coperture del microscopio, la pinza
per il retto superiore e il porta aghi con filo di sutura, le pinze da fissazione e le forbici congiuntivali. Servono quindi un cauterio con un terminale
sferico per la cauterizzazione dei vasi episclerali
e una lama da 15 con rispettivo portalama per la
prima fase dell’incisione sclerale del tunnel. Si
utilizzano poi uno specifico tipo di bisturi per la
seconda fase dell’incisione del tunnel e il cheratotomo per la perforazione della camera anteriore
(la terza fase), per poi iniettare le sostanze viscoelatiche. Servono quindi un cistotomo o pinze
per capsuloressi, una cannula da idrodissezione
(da 25G con un’angolazione di 45°), un uncino di
Sinskey per ottenere il prolasso del nucleo nella
camera anteriore, un manico per irrigazione per
l’estrazione del nucleo, una cannula di Simcoe
per l’aspirazione della corteccia e, infine, un
forcipe per l’impianto della lente intraoculare e
forbici intraoculari per la capsulotomia; alla fine
si pratica un’iniezione intracamerulare di cefuroxime e si iniettano desametasone e gentamicina a
livello sottocongiuntivale, soprattutto in caso di
edema. Inoltre, specie se il chirurgo è alle prime
armi, è consigliabile utilizzare i calibri per misurare tutte le distanze.
Tipi di anestesia locale praticabili per la Sics
TIPO DI ANESTESIA LOCALE
PRO
CONTRO
Retrobulbare
Veloce
Semplice
Completa
Complicanze possibili:
emorragia retrobulbare
tossicità dell’anestetico
perforazione del globo
Peribulbare
Meno rischi di complicanze
Meno completa
Sottotenoniana
Meno rischi
Meno veloce
Più chemosi
Topica
Meno rischi
Necessaria una buona
comunicazione con il paziente
Impossibile con alti volumi
Tabella 1 Vantaggi e svantaggi dei diversi tipi di anestesia locale praticabili per la Sics.
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Costruzione del tunnel
e apertura della capsula anteriore
Giuseppe Gaiba
Direttore Oculistica Ospedale di Faenza (Ra)
Negli interventi di cataratta, una chirurgia tecnologicamente avanzata determina un recupero più rapido del paziente. Nei Paesi in via di sviluppo (PVS)
questo risultato va ottenuto al minor costo possibile, con strumenti semplici, con poche complicanze
e con la possibilità di far eseguire l’intervento a
personale locale.
Se è vero, quindi, che la Faco è attualmente ritenuta il gold standard, la Sics, una forma di Ecce
molto avanzata che permette di ottenere risultati comparabili alla Faco, rappresenta senz’altro
un’eccellente alternativa che soddisfa tutte le
condizioni sopra esposte. Questa tecnica è sempre più diffusa nei PVS perchè molto economica e
rapida sia nell’esecuzione sia nel recupero visivo
da parte del paziente.
Se si analizzano le statistiche, si vede che da
quando è stata ufficialmente introdotta ad oggi,
ogni anno il numero di pazienti operati è andato
aumentando, da 16 mila a oltre 50 mila all’anno.
Per ottenere i risultati voluti è necessaria una notevole precisione e, anche per i chirurghi più esperti,
è da prevedere una piccola curva di apprendimento.
Nell’ambito di questa metodica, l’incisione e la costruzione del tunnel sono di importanza essenziale.
Costruzione del tunnel
Le attuali linee guida per ottenere un’incisione il più
possibile autochiudente e anastigmogena, prevedono di centrare, se possibile, l’incisione sul meri-
diano più refrattivo; dicono, inoltre, che un’incisione più lunga produce un maggiore astigmatismo,
mentre un’incisione posteriore ne limità l’entità.
I tunnel sclerali, in generale, riducono l’astigmatismo indotto e forniscono una superficie più ampia
di guarigione, per cui sono più stabili dal punto di
vista refrattivo. Le linee guida affermano, inoltre,
che solo la creazione di un tunnel sclero-corneale
corretto, esteso per circa 1-2 mm in cornea chiara,
porta a una ferita autochiudente.
Le tipologie di incisione che meglio rispondono a
queste esigenze sono due:
• la prima è la frown incision, cioè un solco parabolico convesso verso il limbus con il centro a 1,52 mm dietro al limbus e una corda di circa 6-7 mm
di lunghezza (figura 1).
• La seconda è la straight scratch incision, un taglio
dritto di 5-6,5 mm di lunghezza a 1,5 mm dal limbus, con estensioni a entrambe le estremità che si
proiettano posteriormente creando delle tasche
laterali. La linea dell’incisione deve essere fatta
abitualmente a ore 12 e la dimensione desiderata
del bordo esterno va misurata in modo preciso
con un calibro e segnata dietro al limbus.
Una cauterizzazione sclerale prima della creazione
del tunnel è utile per evitare l’ipoema pre- e postoperatorio. Per incidere il tunnel servono strumenti
Figura 1 La frown incision.
13
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ben affilati e l’incisione può essere facilitata stabilizzando la sclera con pinze chirurgiche idonee, da
usare con grande attenzione sui bordi dell’incisione
per evitare danni al tunnel. Naturalmente, il piano
di incisione deve essere parallelo al piano sclerocorneale. Il chirurgo dovrà valutare la profondità
dell’incisione sclero-corneale in base al grado di
penetrazione del tagliente rotondo (crescent knife)
durante l’incisione. Se si rimane troppo in superficie, infatti, si rischia di creare una lesione del bordo superiore, mentre se si va troppo in profondità
nella sclera si potrebbe creare una perforazione
verso l’angolo della camera anteriore (un’entrata
prematura), che potrebbe poi portare a complicanze
come trauma irideo, iridodialisi, prolasso irideo e la
mancata chiusura del tunnel. Un’eventuale entrata
prematura si può gestire facendo una dissezione
più superficiale all’estremità opposta del tunnel e,
alla fine, suturando la ferita.
Quanto deve essere grande il tunnel? La pianificazione delle sue dimensioni dipende dalla stima
delle dimensioni del nucleo. Un nucleo immaturo in un paziente giovane necessita di un tunnel
più piccolo (può avere le stesse dimensioni della
lente intraoculare), mentre un nucleo grande in
un paziente di età avanzata generalmente ha bisogno di un tunnel molto esteso, con un’apertura
che arriva a 8-9 mm, e ciò fa capire le possibili
difficoltà di esecuzione di una tale apertura con
caratteristiche autochiudenti.
Apertura della capsula anteriore
L’apertura della capsula anteriore può essere effettuata in tre modi: una capsuloressi curvilinea;
una capsulotomia can opener ( con tante incisioni
successive ad ‘apriscatole’); una tecnica envelope.
Quando si utilizza la capsuloressi, occorre effettuare un’apertura molto larga perché, chiaramente,
occorre sempre permettere al nucleo di prolassare
con facilità in camera anteriore. Se ciò non dovesse
avvenire, occorre effettuare due incisioni rilassanti
laterali, che però aumentano leggermente il rischio
di avere una complicanza e, comunque, tolgono
gran parte della sicurezza di aver effettuato una
ressi curvilinea. L’apertura in casi difficili può essere effettuata con l’uso di un colorante, di solito
il blu di metilene facilmente reperibile.
L’incisione can opener prevede l’uso di un cistotomo che effettua una serie di aperture contigue
(ad apriscatole); è molto semplice da effettuare,
ma implica un maggiore rischio di fughe e di complicanze posteriori.
Infine, la tecnica envelope è caratterizzata da
un’apertura superiore ‘a busta’, un ottimo compromesso che permette di far fuoriuscire nuclei di
ogni dimensione in modo rapido e con protezione
endoteliale; questa tecnica è quella prescelta dal
dottor Henning, autore di oltre 250 mila interventi
ed esperto mondiale di Sics.
In ogni caso, aperture ampie e precise, l’uso di sostanze viscoelastiche e un’accurata idrodissezione
permetteranno di ridurre i rischi di complicanze.
Sutura o non sutura?
Alessandro Mularoni
Oculista di Amoa onlus
Nella chirurgia della cataratta il successo del risultato è determinato dall’efficacia e dalla sicurezza della
tecnica usata, dai risultati visivi, ma anche da tempi
operatori e costi. Le tecniche chirurgiche esaminate,
la Sics (estrazione extracapsulare della cataratta con
una piccola incisione) e la Faco (facoemulsificazione)
non prevedono di routine l’uso della sutura, influendo positivamente sul risultato visivo, sui costi e sulla
durata dell’intervento. È necessario, però, specificare che prima di concludere l’intervento è opportuno verificare la buona tenuta del tunnel sclerale o
corneale. In caso contrario, è necessario apporre la
sutura, per evitare di dover riportare il paziente in
sala operatoria nei giorni successivi, rendendo vano
il tempo risparmiato nell’atto chirurgico.
Confrontando le due tecniche chirurgiche è evidente
come la Faco sia più costosa e meno rapida rispet-
to alla Sics, ma può risultare sorprendente come
lavori scientifici, condotti in India (Gogate et al.,
2010) e in Nepal (Ruit et al., 2007) con casistiche
molto numerose, rivelino che la Faco e la Sics siano
praticamente sovrapponibili in termini di efficacia,
sicurezza e risultato visivo (figura 1). In particolare,
da questi studi emerge come non vi siano differenze
statisticamente significative tra le due tecniche, sia
in termini di acuità visiva postoperatoria, naturale
e corretta, sia in termini di perdita di cellule endoteliali corneali. Inoltre, uno studio condotto presso
l’Aravind Eye Hospital di Madurai (Haripriya et al.,
2012) evidenzia che la frequenza di complicanze
intraoperatorie è bassa ed equivalente nella Sics
e nella Faco, se eseguite da mani esperte, mentre
è significativamente più alta nella Faco nel caso di
chirurghi in training e ciò rende la Sics una tecnica
più sicura per i chirurghi ancora inesperti. Tutti que-
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sti dati confermano l’importanza e la validità della
Sics non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma tutte
percentuale di pazienti (%)
90
85,2%
le volte in cui il chirurgo oculista si trova davanti
a cataratte molto dense, con nuclei duri e larghi.
88,9%
80
Faco
Sics
70
53,7%
60
50
31,5%
40
30
14,8%
20
10
0
20/20-20/60
20/20-20/30
9,3%
20/20
Acuità visiva post-operatoria non corretta a 6 mesi
Figura 1 Confronto di efficacia tra Faco e Sics nello studio di Ruit et al., in Nepal.
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gLAuCOMA
Epidemiologia del glaucoma
Mario Angi
Presidente Cbm Italia onlus
Il glaucoma può essere definito come un insieme
di patologie oculari caratterizzate da un’accelerata
perdita di assoni nel nervo ottico e può essere suddiviso a seconda dell’aspetto anatomico dell’angolo irido-corneale in glaucoma ad angolo aperto (la
forma più frequente, responsabile di oltre il 60%
dei glaucomi dell’adulto) o glaucoma ad angolo
chiuso. Segni clinici caratteristici della malattia
sono l’aumento dell’escavazione del nervo ottico
e il restringimento progressivo del campo visivo,
che può portare alla cecità nei casi più gravi.
La diagnosi precoce del glaucoma è essenziale per
prevenire la diminuzione della vista e la cecità, ma
la malattia presenta alcune difficoltà diagnostiche
in quanto la misura della pressione endoculare e
del rapporto tra superficie del disco e superficie
dell’escavazione sono variabili continue, senza
punti netti di separazione tra condizione normale
e patologica per poter discriminare tra occhi normali e glaucomatosi. Inoltre, il difetto del campo
visivo molto spesso non è rilevabile prima che il
30% delle fibre del nervo ottico sia già in atrofia.
Altra difficoltà è che il test di misura è soggettivo e
non è facile somministrarlo ai bambini dei Paesi in
via di sviluppo (PVS), dove il concetto di risposta a
uno stimolo non è così automatico.
Delle patologie oculari, il glaucoma è senza dubbio
tra quelle a maggiore impatto. È, infatti, la seconda
causa di cecità al mondo, dopo la cataratta, e la
più frequente causa di cecità irreversibile, oltre ad
avere il secondo punteggio più alto dell’indice DALY
(che valuta gli anni di vita persi a causa di una mor-
talità precoce o dell’insorgenza di disabilità a causa
della malattia) per organi di senso dopo la cataratta.
Va ricordato, peraltro, che l’importanza relativa
delle diverse malattie oculari come causa di cecità
non è uguale in tutto il mondo. Nei Paesi sviluppati,
infatti, la prima causa di cecità evitabile è la degenerazione maculare senile (associata soprattutto
all’invecchiamento della popolazione), mentre il
glaucoma occupa il secondo posto, con il 18% dei
casi. Nei PVS, invece, la principale responsabile della perdita completa della vista è la cataratta, seguita
di nuovo dal glaucoma (12%), il cui impatto tende
ad aumentare anche grazie alla progressiva riduzione di prevalenza e di incidenza di altre malattie
oculari come il tracoma e l’oncocercosi.
In ogni caso, le stime mondiali di prevalenza del
glaucoma indicano numeri elevati: nel 2010 le persone affette dalla malattia erano circa 60 milioni,
cifra che secondo le proiezioni dovrebbe aumentare
a circa 80 milioni entro il 2020; inoltre, è previsto
un aumento anche dei casi di cecità bilaterale provocata dal glaucoma, che nel 2010 erano 8,4 milioni
(di cui 4,5 dovuti a glaucoma ad angolo aperto) e
saliranno a 11,2 milioni entro il 2020.
C’è, dunque, molto da fare, sia sul fronte della diagnosi sia su quello della terapia, soprattutto in aree
come Africa e Cina, dove la prevalenza del glaucoma
ad angolo aperto è più elevata e, nel caso delle popolazioni africane, può essere fino a quattro volte
superiore rispetto a quelle caucasiche (figura 1).
Oltre alla razza africana, altri fattori di rischio di glaucoma ad angolo aperto sono: l’età, responsabile di un
prevalenza del glaucoma
25
India
Europa
Cina
America Latina
Africa
Giappone
prevalenza (%)
20
15
10
5
0
42,5
47,5
52,5
57,5
62,5
Età
67,5
72,5
77,5
82,5
87,5
Figura 1 Prevalenza del glaucoma ad angolo aperto per età e regione.
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aumento esponenziale del rischio in tutte le popolazioni; la pressione endoculare, un fattore che permette di
diagnosticare e, quindi, di controllare la progressione
del glaucoma, se si abbassa in maniera significativa;
i difetti refrattivi, per cui si ha un aumento del rischio
in presenza sia di ipermetropia sia di miopia elevata;
uno spessore corneale ridotto; un diametro elevato
del nervo ottico. Per altri fattori quali il diabete e l’ipertensione, la correlazione con il glaucoma non è confermata, mentre l’attività fisica ha un effetto protettivo
perché aumenta la perfusione oculare.
Nel caso del glaucoma ad angolo chiuso, la razza
più colpita sono gli asiatici (87% dei casi al mondo),
il rischio cresce proporzionalmente con l’età, e non
esponenzialmente come nel glaucoma ad angolo
aperto, e aumenta nei casi con ipermetropia; inoltre, il sesso più colpito è quello femminile e tra i
fattori di rischio rientra anche la familiarità.
Va ricordato, infine, che è ancora alta in tutto il
mondo la percentuale di casi di glaucoma non diagnosticati (si parla di un caso su due anche in Italia)
e che c’è tuttora una notevole discrepanza tra diagnosi clinica e dati epidemiologici. Secondo recenti
studi includenti il campo visivo, la prevalenza del
glaucoma sarebbe di circa il 4-5% in Europa e quasi
doppia in Africa. Appare, quindi, quanto mai indicato uno screening della malattia, soprattutto nelle
popolazioni a rischio.
Differenze tra i glaucomi,
confronto tra paesi sviluppati e pVS
Andrea Perdicchi
AO Sant’Andrea, Università La Sapienza, Roma
Il glaucoma ad angolo aperto è una delle cause
principali di cecità nel mondo. Diversi studi di popolazione hanno calcolato la prevalenza di questa
patologia, evidenziando differenze marcate tra Paesi
industrializzati e Paesi in via di sviluppo (PVS) e nelle
diverse etnie. I dati epidemiologici mostrano che la
prevalenza del glaucoma ad angolo aperto è nettamente superiore nelle persone di colore rispetto ai
bianchi (ispanici e non ispanici), che il 25% dei pazienti oltre i 40 anni affetti da glaucoma è rappresentato dagli afro-americani e che ci sono circa 10 mila
pazienti glaucomatosi ogni milione di africani.
In Africa, il glaucoma ad angolo aperto è solitamente più invalidante che in altre regioni perché
i valori di pressione intraoculare sono mediamente più elevati rispetto a quelli delle altre etnie e la
progressione della malattia è più rapida. Inoltre, le
condizioni socioeconomiche portano a una diagnosi
più tardiva, spesso già accompagnata da una perdita visiva monoculare.
Un lavoro pubblicato nel 2006 sul Journal of the
National Medical Association ha valutato la prevalenza del glaucoma ad angolo aperto in soggetti
di origine africana residenti in otto Paesi differenti: Santa Lucia, Stati Uniti, Inghilterra, Barbados,
Ghana, Tanzania, Nigeria e Sudafrica. Il glaucoma
è risultato significativamente meno frequente in
Sudafrica, Nigeria, Tanzania e negli Stati Uniti che
nel Ghana, a Santa Lucia e a Barbados, così come
nelle popolazioni afro-caraibiche trasferitesi a Londra piuttosto che in quelle residenti alle Barbados
o a Santa Lucia. Non sono emerse differenze significative di distribuzione tra i sessi, come accade,
invece, in altre popolazioni (figura 1).
Differenze etniche nella prevalenza del glaucoma
25
prevalenza
Prevalenza(%)
(%)
20
15
10
5
0
<30
30-39
40-49
50-59
60-69
70-79
>80
Santa Lucia
Regno Unito
Sudafrica (aree urbane)
Ghana
Baltimora (Stati Uniti)
Tanzania
Barbados
Sudafrica (Zulu)
Nigeria
Età
(anni)
Età
(anni)
Figura 1 Prevalenza del glaucoma ad angolo aperto in soggetti di origine africana residenti in otto Paesi diversi.
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Si è dunque cercato di comprendere il perché delle
differenze di prevalenza del glaucoma tra i ceppi africani trasferiti in Paesi industrializzati e quelli del
Paese d’origine. Uno degli aspetti più interessanti
è l’estrema diversificazione genetica degli africani,
in quanto l’aplotipo di questa razza è estremamente
variabile. Tale variabilità si associa alla deriva genetica legata alla migrazione nei Paesi più industrializzati, la quale ha fatto sì che la frequenza degli alleli
responsabili del rischio di sviluppo di glaucoma ad
angolo aperto, caratteristica genetica di partenza,
possa essersi modificata in seguito all’incrocio con
le popolazioni dei Paesi ospitanti. Un dato interessante è che, ad esempio, gli africani trasferitisi in
America provengono per lo più da Paesi dell’Africa
Occidentale, come il Ghana, dove la prevalenza del
glaucoma è simile a quella degli abitanti dell’isola
di Santa Lucia, nella quale c’è una minore contaminazione con altre popolazioni grazie alla sua natura
insulare. Questa potrebbe essere una spiegazione
dell’alta prevalenza del glaucoma ad angolo aperto
tra gli afro-caraibici e fa supporre che sia proprio il
contatto e la commistione genetica con altre popolazioni ad aver modificato nel tempo la prevalenza
della malattia negli africani trasferiti in Paesi diversi
da quelli di origine. Gli autori dello studio concludono che la genetica svolge un ruolo essenziale nelle
differenze osservate di prevalenza della malattia in
popolazioni appartenenti alla stessa etnia , ma aggiungono anche che fattori ambientali (come l’esposizione al sole e la vicinanza all’Equatore), nonché
differenze di tipo socioeconomico, possono influire
sulla prevalenza del glaucoma.
Un altro aspetto importante è quello delle differenze anatomiche tra le razze. Uno studio retrospettivo su 807 occhi di 410 pazienti affetti
da glaucoma e appartenenti a diverse etnie ha
dimostrato come i soggetti di origine africana abbiano uno spessore corneale centrale e un’isteresi corneale più bassi (rispettivamente 529,3 μ
e 8,7 mmHg) rispetto agli ispanici (544,7 μ e
9,4 mmHg) e ai bianchi (549,9 μ e 9,8 mmHg). Anche i pazienti di origine giapponese presentano
uno spessore corneale ridotto rispetto a quello
di cinesi, filippini, ispanici e caucasici (anche se
superiore rispetto a quello degli afro-americani)
e ciò forse giustifica perché il glaucoma a bassa
pressione abbia un’incidenza maggiore in Giappone rispetto ad altri Paesi asiatici.
Quanto all’Europa, anche nel Vecchio continente
si registrano differenze di prevalenza del glaucoma da regione a regione, legate a una certa diversificazione genetica di base tra una popolazione
e l’altra, alla deriva genetica, alla commistione
legata alle guerre e ai movimenti migratori. In
particolare, uno studio uscito quest’anno sul
Journal of Glaucoma mostra che al primo posto
si colloca la Germania (18%), dove si registra una
maggiore incidenza della malattia nel sesso maschile, osservata anche in Spagna, in cui i maschi
affetti da glaucoma sono quasi una volta e mezzo
più numerosi delle donne. I Paesi europei dove
la prevalenza della malattia è inferiore sono,
invece, Francia e Regno Unito (rispettivamente
3,4% e 3,3%) mentre in Italia il dato si attesta
intorno al 3,8%.
Come porre diagnosi di glaucoma?
Quale ruolo per l’hi-tech?
Marco Centofanti
Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ e Fondazione Bietti
La maggior parte della popolazione mondiale risiede nei Paesi in via di sviluppo (PVS), dove, di conseguenza, è concentrata anche la maggior parte dei
soggetti glaucomatosi. Nei PVS la probabilità che
la malattia venga diagnosticata in questi pazienti è
estremamente bassa: circa del 10% (contro il 50%
circa dei Paesi sviluppati) e anche meno nelle aree
più povere e remote del mondo.
Le opzioni possibili per evidenziare i casi di glaucoma
sono lo screening, che presenta una buona specificità
a spese della sensibilità, e la diagnosi, che, al contrario, ha una buona sensibilità a spese della specificità.
Attualmente, i principali strumenti di screening
sono tre test a bassa tecnologia: la tonometria,
l’esame del disco e la perimetria, ciascuno con alcuni svantaggi. La perimetria, per esempio, richiede
tempo, una strumentazione sofisticata e operatori
ben addestrati, per cui è decisamente poco adatta
a una realtà come quella dei PVS, mentre la tonometria deve tener conto della distribuzione della
pressione intraoculare in quella data popolazione e
l’esame del disco presenta difficoltà sia strumentali
sia culturali. Resta ancora da capire, quindi, quale sia il singolo test o gruppo di test migliore per
lo screening del glaucoma ad angolo aperto. Un
passo avanti per il futuro potrebbe venire dall’utilizzo della telemedicina, come evidenziato da un
recente studio australiano pubblicato su Clinical
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Telemedicina per la diagnosi di glaucoma
Strumenti
Sen (%)
Spec (%)
NPV (%)
PPV (%)
Convenzionali
IOP
VCDR
VF
42,2
69,8
91,1
93,6
94,2
92,2
15,6
28,0
27,4
98,0
99,0
99,7
Telemedicine friendly
IOP
VCDR
VF
35,6
67,4
91,1
94,2
93,6
93,6
16,6
25,3
31,5
97,8
98,9
99,7
Sen: sensibilità; Spec: specificità; NPV: valore predittivo negativo; PPV: valore predittivo positivo; IOP: pressione intraoculare;
VCDR: vertical cup-to-disc ratio; VF: campo visivo.
Tabella 1 Confronto tra i test convenzionali e telemedicina in uno studio australiano eseguito in aree rurali.
and Experimental Ophtalmology. Lo studio è stato
effettuato in aree rurali, dove ci sono molte difficoltà
nella reperibilità di medici e di strumentazioni, e
prevedeva l’impiego della perimetria a duplicazione
di frequenza (FDT), della tonometria a soffio e di
una fundus camera non midriatica. I dati sono stati
raccolti non da medici, ma da personale infermieristico o tecnico residente nel luogo e poi inviati
elettronicamente a specialisti dei centri urbani per
un secondo parere e un confronto con i dati ottenuti
da test convenzionali eseguiti da uno specialista.
Il confronto ha mostrato una buona concordanza
dei risultati in termini di sensibilità, specificità,
valore predittivo positivo e valore predittivo negativo (tabella 1), per cui gli autori concludono che la
telemedicina potrebbe essere una delle risposte al
problema della diagnostica nei PVS, offrendo una
soluzione promettente in termini sia di rapporto
costo-efficacia sia di efficacia clinica.
Un’altra possibile soluzione potrebbe venire da
una perimetria particolare, messa a punto dal Moorfields Eye Hospital di Londra, il Moorfields Motion
Displacement Test (MDT), che ha il vantaggio di attivare il sistema magnocellulare e si può eseguire con
il semplice ausilio di un computer, anche portatile.
Si tratta di un test di multilocalizzazione che viene
presentato sullo schermo di un computer standard a
una distanza di 30 cm; al paziente si chiede di fissare un punto centrale e cliccare con il mouse ogni volta che vede una linea muoversi. I perimetri attualmente disponibili sul mercato sono relativamente
costosi e poco accessibili. Invece, il Moorfields MDT
è un test a basso costo e facilmente trasportabile,
che potrebbe essere di grossa utilità e importanza
per i PVS. Al momento il Moorfields MDT offre due
strategie: un test di soprasoglia (ESTA) per lo screening e un test di soglia (WEBS) progettato per un’indagine più dettagliata in ambiente ospedaliero. Gli
algoritmi ESTA e WEBS sono attualmente in corso di
validazione in uno studio internazionale coordinato
dal Moorfields Hospital, a cui collabora anche la
Fondazione Bietti di Roma e volto a confrontare la
precisione diagnostica dell’MDT con quella della
perimetria automatizzata standard (SAP), dell’FDT
e dell’Heidelberg Edge Perimeter (HEP).
Sul fronte diagnostico, è noto che per fare diagnosi
precoce c’è bisogno di strumentazione particolare,
ad alta tecnologia. È risaputo che apparecchiature
costose come l’oftalmoscopio a scansione laser, il
polarimetro a scansione laser e la tomografia a coerenza ottica forniscono una valutazione quantitativa del danno strutturale con un’alta sensibilità. Nei
PVS, tuttavia, la prima necessità è quella di avere
strumenti a basso costo, che possano funzionare
indipendentemente dalla fornitura di energia elettrica; in moltissimi di questi Paesi, infatti, l’elettricità
non è disponibile con continuità. Inoltre, si sa che
le risorse necessarie per porre diagnosi di glaucoma
differiscono a seconda dello stadio della malattia.
Se per diagnosticare un glaucoma in fase avanzata,
già sintomatico, bastano pochi esami di base, eseguibili anche da un medico di base, che danno un’alta certezza diagnostica, per fare diagnosi precoce
sono necessari, invece, strumenti ad alta tecnologia
e specialisti esperti della malattia.
Nei PVS, tuttavia, dove già il numero di oculisti
disponibili è molto basso (uno ogni 500 mila persone in Africa, uno ogni 200 mila in Asia e uno
su 100 mila in India), la diagnosi precoce, non è,
purtroppo, una priorità e l’hi-tech non è il primo
aiuto per combattere il glaucoma. Piuttosto, un
obiettivo realistico da perseguire è riuscire a identificare i pazienti con malattia avanzata, e lo si può
fare facilmente effettuando un esame completo
dell’occhio e insegnando anche ai non oculisti a
fare la tonometria, la gonioscopia e la valutazione
del disco ottico. Uno studio relativo ai Paesi asiatici, per esempio, ha evidenziato che per quanto
riguarda il glaucoma le maggiori necessità di ricerca e a livello di campagne sono una migliore
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identificazione dei pazienti che si rivolgono a un
ospedale e un migliore addestramento degli oculisti sia sul fronte della diagnosi sia su quello della
terapia. Dunque, per affrontare la questione della
diagnosi nei PVS occorre integrare il trattamento
del glaucoma all’interno di iniziative già esistenti
sulle malattie oculari, insegnare a fare un esame
completo della vista di routine, avviare programmi
solo una volta che sono state acquisite le competenze e cercare di organizzare degli screening a
livello della popolazione. In un quadro di questo
tipo, il ruolo dell’hi-tech è ancora di là da venire.
Ruolo della trabeculoplastica laser.
Selettiva o non selettiva?
Michele Figus, Chiara Posarelli
Clinica Oculistica Universitaria di Pisa
La trabeculoplastica è una metodica introdotta nel
trattamento del glaucoma nel 1979 da Wise e Witter. In passato veniva realizzata utilizzando l’argonlaser, da qui il nome Alt (Argon laser trabeculoplasty). Nel 1995, Mark Latina ha introdotto l’utilizzo
di un laser ND-Yag pulsato, selettivo per le cellule
trabecolari, per cui la procedura è stata rinominata
in Slt (Selective laser trabeculoplasty).
Nei Paesi in via di sviluppo (PVS), la trabeculoplastica trova scarsa diffusione, sia essa eseguita con la
tecnica convenzionale (Alt) o con la variante più moderna, selettiva (Slt). In questi Paesi, infatti, ci sono
difficoltà oggettive di accesso alle cure, perché la
maggior parte dei servizi oculistici si trova nei centri
urbani, mentre gran parte della popolazione vive in
zone rurali e deve affrontare lunghi spostamenti per
andare a farsi visitare. Inoltre, i farmaci antiglaucoma
sono gravati da costi elevati e le strumentazioni e il
personale sono limitati. Un altro ostacolo sta nel fatto
che, a differenza dell’intervento per la cataratta, in
cui si ha un immediato recupero visivo, il trattamento
per il glaucoma previene il deterioramento, ma non
consente un recupero della acuità visiva persa, per
cui i pazienti non notano un miglioramento; anzi, il
trattamento inizialmente può anche peggiorare la visione. Non è sorprendente, quindi, che in queste aree
la trabeculoplastica sia poco accettata e praticata.
Eppure questa procedura offre diversi vantaggi:
quasi sempre, per esempio, permette di ottenere
una riduzione della pressione intraoculare (PIO) superiore al 20%, in alcuni casi addirittura superiore
al 30%, senza dover fare affidamento sulla compliance, ed è noto che la mancanza di compliance
è particolarmente significativa quando i pazienti,
come spesso accade nei PVS, accedono poco o nulla
ai servizi medici, per problemi di tipo personale,
finanziario o legati allo stile di vita.
Ma, tra Alt e Slt, qual è preferibile? L’effetto termico
causato dal laser è indipendente dalla lunghezza
d’onda del laser stesso; piuttosto, è funzione della
quantità di energia che in un determinato lasso di
tempo raggiunge le strutture della camera anteriore. Nella tabella 1 sono messe a confronto le caratteristiche della Alt con quelle dell’Slt.
Il meccanismo d’azione della trabeculoplastica non
è ancora del tutto chiarito. Si sa che nella Alt si ha un
danno termico diffuso, responsabile di una coagulazione delle fibre collagene e una morte generalizzata
Confronto tra Alt e Slt
Caratteristica
Alt
Slt
Fisica
514 nm, trattamento continuo,
durata msec
532 nm, trattamento pulsato,
durata 3 nsec
Selettività
Nessuna, danno diffuso
al trabecolato
Selettiva per le cellule
pigmentate del trabecolato
Energia necessaria
per il trattamento
20-40 Watt/180°
< 1% dell’energia necessaria
per la Alt
Danno collaterale
Formazione di sinechie
periferiche anteriori rara
Formazione di sinechie
periferiche anteriori possibile
Dimensione dello spot
e centratura
Piccolo (50 μ), va centrato in modo Ampio (400 μ), non centrato
preciso sul trabecolato anteriore
in modo preciso
Tabella 1
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delle cellule trabecolari. Il rimaneggiamento e la cicatrizzazione conseguenti portano all’apertura degli
spazi trabecolari e, quindi, a un aumento della facilità di deflusso dell’umore acqueo. Nella Slt, invece, il
danno termico è focalizzato e provoca una rottura dei
melanosomi e una lisi cellulare mirata, che dà avvio
alla liberazione di citochine e mediatori dell’infiammazione, nonché a un turnover della matrice extracellulare che si traduce in un incremento dello scarico
dell’umore acqueo. Uno studio in vitro del 2010 di
Alvarado e collaboratori, pubblicato sull’American
Journal of Ophtalmology, ha evidenziato che l’Slt ha
un effetto simile a quello delle prostaglandine sulla
permeabilità delle cellule del canale di Schlemm, in
quanto la liberazione di citochine indotta dal laser
comporta una rottura delle giunzioni serrate tra le
cellule, facilitando il deflusso dell’umore acqueo
dalla camera anteriore verso il canale.
Dal punto di vista dell’efficacia, è noto da tempo
che Alt e Slt danno risultati sovrapponibili in termini di effetto ipotonizzante e che l’infiammazione post-trattamento è sostanzialmente analoga.
È stato anche dimostrato che i pazienti sottoposti
ad Alt possono essere ritrattati con l’Slt ottenendo
un’ulteriore riduzione della PIO. Inoltre, uno studio
randomizzato recente in cui si sono confrontati i risultati ottenibili con le due tecniche ha dimostrato
che con entrambe circa il 60% dei pazienti raggiunge
una riduzione della PIO a un anno di oltre il 20%, con
risultati superiori, quindi, a quelli dei betabloccanti
e simili a quelli delle prostaglandine. La trabeculoplastica laser può tranquillamente sostituire la
terapia medica anche in termini di outcome a lungo termine (5 anni), sebbene in alcuni pazienti sia
talora necessario ripetere la procedura.
La Alt è un trattamento molto semplice, veloce,
senza effetti negativi sull’acuità visiva, è più facile
da trovare rispetto all’Slt (quanto meno nei Paesi
industrializzati, non necessariamente nei PVS), ma
ha lo svantaggio di poter essere ripetuta solo due
volte; inoltre, provocando un certo danno termico, può causare minimi effetti collaterali in alcuni
pazienti. L’Slt è altrettanto facile e veloce, ma necessita di una strumentazione dedicata, il che ne
limita enormemente la diffusione; ha, tuttavia, il
vantaggio enorme di essere un trattamento estremamente ripetibile anche in soggetti che hanno
già fatto una Alt ed è assolutamente priva di effetti
collaterali. Anche nelle Preferred Practice Patterns
dell’American Academy of Ophtalmology la trabeculoplastica viene suggerita come terapia iniziale in
pazienti selezionati o, come alternativa, per quelli
che possono avere difficoltà di accesso alle cure
mediche, che hanno problemi a instillarsi il collirio o che non tollerano i farmaci. Uno studio molto
recente, uscito nel settembre 2012 sul Journal of
Glaucoma, evidenzia che l’Slt ottiene gli stessi risultati della terapia medica in termini di riduzione
pressoria, ma nel primo caso si riesce a mantenere
la PIO target con un unico trattamento, mentre con
la terapia farmacologica possono essere necessari
più step per ottenere la stessa efficacia.
Oggi, dunque, la giusta domanda da porsi non è più
‘quale laser utilizzare?’, quanto, piuttosto, ‘quale paziente trattare?’ ed ‘è meglio farlo nelle fasi
precoci della malattia o in quelle più avanzate?’.
Uno studio tedesco pubblicato nel maggio scorso
su Ophtalmologe conclude che perfino nei pazienti
già in terapia massimale con farmaci ipotonizzanti,
l’Slt ha le potenzialità per ridurre ulteriormente la
PIO per almeno un anno, ritardando così l’intervento chirurgico. Questo lavoro indica, dunque, che la
trabeculoplastica può avere un senso non solo nel
glaucoma iniziale o nell’ipertensione oculare, ma
anche nel glaucoma in stadi più avanzati.
La selezione dei pazienti è, comunque, fondamentale. L’Slt può essere appropriata per i pazienti con
glaucoma ad angolo aperto primario, in alcune forme secondarie come l’esfoliativo e il pigmentario
non controllate con la terapia medica, nei pazienti
la cui compliance è dubbia, in quelli che non possono permettersi le medicine, in quelli intolleranti
ai farmaci e in quelli già sottoposti a una Alt senza
un pieno successo. L’Slt non è, invece, adatta nei
glaucomi uveitici e in quelli neovascolari, traumatici, congeniti o giovanili, così come nel glaucoma
ad angolo chiuso (primario o secondario) e in caso
di visualizzazione inadeguata del trabecolato.
Dal punto di vista economico, uno studio apparso
la primavera scorsa su Archives of Ophtalmology
ha evidenziato che l’Slt diventa meno costosa di
un trattamento con la maggior parte delle prostaglandine di marca dopo solo un anno di terapia,
mentre occorrono rispettivamente 13 e 40 mesi perché diventi più conveniente rispetto al latanoprost
generico e al timololo generico.
Una maggiore diffusione della trabeculoplastica sarebbe quindi auspicabile tanto nei Paesi industrializzati quanto nei PVS, dove c’è molta frustrazione tra
gli oculisti impegnati nel trattamento del glaucoma,
legata anche alle difficoltà di poter visitare periodicamente i pazienti. Da questo punto di vista, un trattamento come l’Slt, somministrabile una-due volte
all’anno, risolverebbe il problema della compliance e
potrebbe rivoluzionare il trattamento della malattia.
Pertanto, si può pensare di utilizzare in prima battuta o una trabeculoplastica laser o una terapia medica
oppure una combinazione di entrambe. Purtroppo,
in molti PVS la trabeculoplastica spesso non è ancora disponibile e ciò rappresenta un grosso problema,
perché questa tecnica potrebbe risolvere la questione cruciale della difficoltà di accesso alle cure.
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CHIRURGIA DEL GLAUCOMA
La trabeculectomia
è il gold standard in Africa?
Maria Papadopoulos
Glaucoma Unit, Moorfieds Eye Hospital
Per gold standard si intende generalmente qualcosa
la cui qualità è assolutamente ineccepibile, superiore, un punto di riferimento con cui confrontare
altre cose della stessa categoria; per esempio, in
ambito oculistico, il tonometro ad applanazione di
Goldmann è il gold standard nella misurazione della
pressione intraoculare. Nel caso della chirurgia, i
criteri che l’intervento gold standard deve soddisfare sono efficacia (nel caso del glaucoma deve
abbassare la pressione), sicurezza (deve dare poche complicanze), semplicità (deve essere usato
in tutto il mondo), rapidità, costo contenuto e la
capacità di superare la prova del tempo (la tecnica
della goniotomia, per esempio, non ha subito modifiche negli ultimi 70 anni).
La trabeculectomia è stata eseguita per la prima
volta nel 1967 dall’oculista greco Koryllo e poi perfezionata, nel 1968, dall’inglese Cairns. Da allora,
la trabeculectomia è divenuta il gold standard e la
tecnica filtrante più diffusa al mondo. Nel corso degli anni ha subito diverse modifiche, perché, nonostante la sua efficacia, le frequenti complicanze – a
lungo il tallone d’Achille di questa tecnica – hanno
spinto alcuni chirurghi a ritornare alla chirurgia non
penetrante come prima scelta, altri, per fortuna, a
lavorare per renderla più sicura. Così, per esempio,
il passaggio dal flap congiuntivale a base limbus
a quello a base fornice ha fatto sì che il rischio di
formazione di una bozza cistica passasse dal 90%
al 29%, oltre a ridurre notevolmente l’insorgenza
di blebiti ed endoftalmiti.
Per parlare di trabeculectomia in Africa, bisogna
tener presente il contesto: si tratta principalmente
di casi di glaucoma ad angolo aperto, che insorgono a un’età precoce, caratterizzati da pressioni
intraoculari molto elevate e da una rapida velocità di progressione. Inoltre, la diagnosi è spesso
tardiva (tra il 29 e il 52% dei pazienti è cieco al
momento della prima visita) e il follow-up è difficoltoso (solo il 19% dei pazienti si presenta alla
visita di controllo a 6 e a 12 mesi) per varie ragioni: scarsa consapevolezza della malattia, necessità di fare una terapia cronica che non porta
a un miglioramento dell’acuità visiva e anzi, nel
caso di trattamento chirurgico può causare addirittura un peggioramento temporaneo. L’efficacia
della terapia medica, poi, può essere vanificata da
molti fattori: al di là della scarsa compliance del
paziente, i colliri hanno un costo elevato, non sono
esenti da effetti collaterali e la loro reperibilità non
è sempre agevole. Si potrebbe prendere in considerazione l’uso dell’argon laser trabeculoplastica
come trattamento di prima scelta; questa tecnica,
tuttavia, è molto costosa e richiede la disponibilità
di assistenza tecnica. Un’altra opzione è la ciclofotocoagulazione, tecnica sicura e ben accetta dal
paziente, ma poco efficace (solo il 48% dei pazienti
trattati raggiunge valori pressori accettabili).
Altra possibilità è ricorrere al trattamento chirurgico
con la trabeculectomia. In Africa, però, quest’intervento presenta percentuali di successo più basse rispetto a quelle dei Paesi sviluppati perché è
meno efficace nei soggetti di razza nera, richiede un
follow-up costante e ravvicinato (in alcuni studi condotti sulla trabeculectomia in Africa, fino all’80%
dei pazienti non si è presentato ai controlli successivi), non è privo di complicanze e ciò rappresenta
un ostacolo all’accettazione della chirurgia. Inoltre,
nella popolazione africana, soprattutto nei giovani adulti, la reazione cicatriziale può essere molto
accentuata e un eventuale uso di antimetaboliti è
limitato da difficoltà di conservazione del prodotto
(che, se non adeguatamente refrigerato, perde di
efficacia) e dal costo elevato, mentre l’uso dei raggi
beta – tecnica semplice, rapida e di buona efficacia
a lungo termine – riduce il rischio di fallimento, ma
aumenta quello di insorgenza della cataratta.
Infine, in questo momento, è difficile poter pensare
di eseguire la chirurgia non penetrante, perché si
tratta di tecniche particolarmente difficili o, a causa
dei costi elevati, di utilizzare impianti drenanti.
In conclusione, la trabeculectomia può essere considerata la tecnica chirurgica gold standard anche
in Africa, probabilmente in combinazione con la
trabeculoplastica anziché col trattamento medico,
nonostante ciò, non è ancora molto diffusa, sia per
il numero limitato di chirurghi disponibili, i quali,
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tra l’altro, non hanno molta confidenza con questa
tecnica e sono spaventati dalle possibili complicanze, sia per fattori culturali che portano i pazienti
a non accettare di sottoporsi a un intervento chirurgico. Questi problemi potrebbero essere risolti migliorando le capacità tecniche dei chirurghi,
dando loro più fiducia in sé stessi, permettendo
loro di viaggiare nel resto del continente africano
per curare il più alto numero di pazienti possibile,
spiegando ai pazienti in maniera esaustiva ed accurata a cosa serve il trattamento e cosa dovranno
attendersi dalla chirurgia.
Ruolo del ciclodiodo e della
ciclocoagulazione circolare ad ultrasuoni
Roberto Carassa
Centro Italiano Glaucoma, Milano
Nei Paesi in via di sviluppo (PVS) l’utilizzo o il tentativo di utilizzare strategie alternative non chirurgiche per ridurre la pressione intraoculare nei pazienti glaucomatosi può essere di sicuro interesse.
Tra queste, la ciclofotocoagulazione e la ciclocoagulazione ad ultrasuoni, di recente introduzione,
possono essere una possibile alternativa alla chirurgia, anche se il loro ruolo, è tuttora oggetto di
discussione nei Paesi occidentali.
I trattamenti ciclodistruttivi sono stati introdotti
molti anni fa con l’intento di ridurre la produzione di umore acqueo provocando una distruzione
selettiva dei corpi ciliari. Il capostipite è stato la
ciclocriocoagulazione, che tuttavia comportava
una serie di problematiche infiammatorie, addirittura con conseguenze abbastanza drammatiche
per la funzione visiva; per questo sono stati fatti
diversi tentativi di miglioramento della tecnica e
oggi, a livello clinico, quella che ha sostituito la
ciclocriocoagulazione è, sicuramente, la ciclofotocoagulazione. Verso la fine degli anni Novanta si è
tentato di introdurre gli ultrasuoni nel settore dei
trattamenti ciclodistruttivi, inizialmente con scarsi
successi e molti effetti collaterali; solo di recente
è stata introdotta una nuova tecnica – la ciclocoagulazione circolare – che ne prevede l’impiego. La
ciclofotocoagulazione è oggi il trattamento di elezione per la ciclodistruzione e può essere eseguita
con diverse modalità, da quella transpupillare, in
realtà mai impiegata perché non permette di visualizzare i processi ciliari, a quella trans-sclerale non
a contatto, a contatto o endobulbare.
Tra le varie modalità, la ciclofotocoagulazione a
contatto, o ciclodiodo, è risultata quella vincente
grazie al fatto che, poggiando una sonda sopra
la superficie dell’occhio, si riesce a trasmettere
energia al corpo ciliare in modo ottimale rispetto a quanto accade nella tecnica non a contatto,
dove il backscattering di energia dà luogo a una
serie di problematiche molto meno controllabili
rispetto alla tecnica a contatto. In quest’ultima, le
lunghezze d’onda utilizzabili permettono un ottimo
assorbimento da parte della melanina del corpo
ciliare ma, soprattutto, devono avere un’ottima
trasmissione attraverso la sclera. Inoltre, bisogna
ricordare che lo strumento per praticarla è compatto e facilmente trasportabile.
Dal punto di vista tecnico, l’intervento è molto semplice. L’anestesia può essere sottocongiuntivale o
peribulbare, molto più raramente retrobulbare. Si
deve, quindi, posizionare la base della sonda tangenzialmente al limbus permettendo così di avere
il puntale in zaffiro della sonda a 1,5 mm posteriormente al limbus; solo in alcuni tipi di occhio
(glaucoma congenito o dimorfismo) è opportuno
visualizzare il corpo ciliare con transilluminazione
o con UBM. La sonda deve creare un’indentazione
e migliorare la trasmissione; quindi, utilizzando da
18 a 24 spot sui 360°, evitando in genere le ore 3
e le ore 9 per non creare danni alle arterie ciliari
lunghe che potrebbero dare problematiche corneali, viene emessa energia con 1,8-2 W per 2 secondi in ogni spot. In genere, si evita il trattamento
nel quadrante superiore al fine di preservarlo per
eventuali trattamenti successivi. L’intervento può
anche essere ripetuto, ma non prima di 3-4 settimane. La variabilità del successo del trattamento
è legata a svariati fattori, che sono in molti casi
poco controllabili.
Il trattamento non ha in realtà una reale standardizzazione: si possono usare differenti numeri di
spot, differente energia per spot e non si ha sempre
la certezza di posizionare la sonda correttamente. Inoltre, i processi ciliari che vengono coagulati
tendono col tempo a riprodursi e, di conseguenza,
la produzione di umor acqueo tende progressivamente a ripristinarsi, con risultati molto diversi da
un paziente all’altro. Uno studio di Bloom e collaboratori, pubblicato nel 1997 su Ophtalmology,
23
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dimostra che in circa il 60% degli occhi trattati,
a distanza di quasi 2 anni, si ottengono un calo
pressorio superiore al 30% e una pressione sotto i
22 mmHg. Nel 2005, Lai et al. hanno condotto uno
studio utilizzando la ciclofotocoagulazione come
trattamento primario, dimostrando che è possibile
ottenere valori di pressione inferiori a 21 mmHg nel
92% dei casi, utilizzando, però, una terapia medica
di supporto. Pertanto, nei PVS, la difficoltà di reperire e utilizzare i farmaci sicuramente limita o,
comunque, porta a mettere in discussione l’uso di
questi tipi di tecniche in modo diffuso.
Un altro aspetto da considerare riguarda il confronto tra ciclofotocoagulazione e impianti drenanti. Gli studi disponibili mostrano che il risultato
pressorio è pressoché sovrapponibile con le due
tecniche; tuttavia, gli impianti drenanti hanno un
successo più duraturo nel tempo e non provocano
evidenti differenze di acuità visiva, contrariamente
ai trattamenti ciclodistruttivi che possono causare
riduzione del visus fino al 30% dei casi e, addirittura, perdita totale nell’8%. Inoltre, la ciclofotocoagulazione può portare a ipotoni permanenti fino
al 4% dei casi e tisi bulbare nell’1-3%. Nello studio
di Lai, il 38% dei pazienti ha avuto un calo visivo,
in parte legato alla cataratta, in parte alla malattia
di base, ma certamente la riduzione del visus è
una problematica da tener presente, soprattutto
nei PVS dove il paziente difficilmente accetta un
calo della vista come conseguenza di un trattamento. Per questi motivi, l’American Academy of
Ophthalmology, in un suo report, ha codificato la
ciclofotocoagulazione come un trattamento da utilizzare nei glaucomi refrattari in cui hanno fallito
sia la trabeculectomia sia gli impianti drenanti.
Un’alternativa possibile è l’endociclofotocoagulazione, molto più complessa e in genere associata a
trattamenti chirurgici come la facoemulsificazione
o la chirurgia vitreo-retinica. Il successo di questa
metodica è probabilmente superiore rispetto alla
media ottenuta con i trattamenti transclerali, ma
i problemi di perdita della vista restano anche in
questo caso.
Al fine di ridurre tali problematiche, è stata di recente introdotta la ciclocoagulazione ad ultrasuoni circolare, che ha il grosso vantaggio di essere
estremamente standardizzata rispetto alla ciclofotocoagulazione. In questa tecnica, una sonda
formata da sei elementi piezoelettrici emette energia sonora altamente focalizzata che dà luogo alla
ciclodistruzione. Il vantaggio dell’energia sonora
rispetto a quella laser sta nel fatto che, mentre
l’efficacia del laser dipende esclusivamente dalla
pigmentazione e dall’assorbimento a carico del
corpo ciliare, quella dell’energia sonora no. Il trattamento viene eseguito in anestesia peribulbare o
generale e prevede il posizionamento di una coppa
di suzione su cui viene inserita la sonda con gli
elementi piezoelettrici, vengono predefiniti i settori da trattare, la durata del trattamento e di ogni
singolo impulso (che va dai 3 ai 6 secondi), si può
così avviare il trattamento premendo un pedale.
Purtroppo, i dati di letteratura sull’utilizzo di questa tecnica sono molto limitati, per cui il successo
di tale trattamento rimane un grosso punto interrogativo. Uno studio pubblicato nel 2011 mostra
come, da valori iniziali di 35 mmHg si è arrivati
alla fine del follow-up a 28 mmHg, che è un calo
significativo, ma certamente non eccezionale dal
punto di vista clinico.
In conclusione (tabella 1), si può dire che la ciclofotocoagulazione ha il grosso vantaggio di poter
essere praticata a livello ambulatoriale, a un costo
contenuto, con uno strumento portatile e con una
tecnica molto veloce ed estremamente semplice.
Di contro, mostra grande variabilità di risultati,
permette di arrivare a pressioni finali sicuramente più alte rispetto a quelle ritenute oggi il target
nel glaucoma e non è scevra da complicanze. Per
Ciclofotocoagulazione e ciclocoagulazione circolare a US a confronto
CICLOFOTOCOAGULAZIONE
CICLOCOAGULAZIONE CIRCOLARE A US
• Praticabile in ambulatorio
• Tecnica nuova, ancora poco studiata
• Rapida e veloce
• Procedura estremamente standardizzata
• Strumento portatile
• Meno complicanze e infiammazioni
• Efficace a costi contenuti
post-operatorie
• Ampia variabilità di risultati
• PIO finali medio-alte
• Complicanze
Tabella 1 Confronto tra vantaggi e svantaggi della ciclofotocoagulazione e della ciclocoagulazione circolare a ultrasuoni.
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quanto riguarda la ciclocoagulazione circolare a ultrasuoni, purtroppo si tratta di una tecnica ancora
acerba, in fase di studio. Tuttavia, è sicuramente
una procedura estremamente standardizzata e
con percentuali di complicanze inferiori rispetto
al ciclodiodo. Quale sarà il suo ruolo all’interno
della gestione del glaucoma e soprattutto la sua
applicabilità nei PVS è ancora da verificare.
Gestione del glaucoma congenito
Maria Papadopoulos
Glaucoma Unit, Moorfieds Eye Hospital
Il glaucoma infantile differisce dal glaucoma dell’adulto per modalità di presentazione, evoluzione e
gestione. È una condizione patologica la cui cronicità, nei bambini, assume un’importanza aggiuntiva poiché si ha bisogno di una prospettiva a lungo
termine. Essendo una condizione rara, è necessario
che sia gestita da centri specializzati e da chirurghi
esperti che lavorino in equipe con pediatri, genetisti, ortottisti e anestesisti. Inoltre, è fondamentale,
per la sua gestione, stabilire un rapporto di fiducia
sia con i bambini sia con i genitori.
Nei Paesi in via di sviluppo (PVS), il glaucoma è una
causa piuttosto comune di cecità infantile, anche
perché le famiglie hanno spesso poca consapevolezza della malattia, hanno paura dell’intervento
chirurgico, hanno difficoltà a raggiungere luoghi
lontani dove si trovano i pochi centri specializzati
e non rispettano il giusto follow-up.
Dal punto di vista clinico, è caratterizzato dalla
classica triade formata da fotofobia, lacrimazione
e blefarospasmo. Inoltre, i bambini affetti da glaucoma si strofinano spesso gli occhi, presentano
opacizzazione della cornea, miopia progressiva e,
tardivamente, strabismo.
La misurazione della pressione endoculare nel bambino è di difficile esecuzione. Attualmente, il compito è facilitato dal tonometro I-care che permette
di misurare la pressione con relativa facilità e in
modo attendibile (anche se, rispetto al tonometro
di Goldmann, riporta valori tanto più alti quanto
più alta è la pressione o spessa la cornea), senza
anestesia, a bambino sdraiato o in piedi.
Nei bambini affetti da glaucoma, l’obiettivo del
trattamento è conservare la funzionalità visiva
per tutta la vita sia con il controllo della pressio-
ne intraoculare sia con il trattamento dell’ambliopia e dei difetti di refrazione (con gli occhiali). Il
controllo della pressione si può ottenere con la
terapia medica (latanoprost è stato il primo farmaco a poter essere usato nei bambini, mentre
brimonidina può essere usata solo dai 6 anni in su)
e con la terapia chirurgica (mediante goniotomia,
trabeculotomia, trabectome, trabeculectomia, impianti drenanti, ciclocoagulazione, sclerectomia
profonda). La chirurgia dell’angolo trova indicazione principale nel glaucoma congenito primario,
ma può anche funzionare in quello secondario; la
goniotomia richiede una chiara visualizzazione
dell’angolo irido-corneale e lascia intatta la congiuntiva, a differenza della trabeculotomia che,
però può essere eseguita in presenza di cornea
opaca. Entrambe le tecniche hanno un’alta percentuale di successo; inoltre, la razza non è un
fattore di rischio per il fallimento dell’intervento.
La chirurgia filtrante (trabeculectomia) inizialmente
non ha dato risultati incoraggianti; la percentuale di
successo è poi aumentata con l’introduzione dell’uso degli antimetaboliti, che ha portato, però, anche
a un aumento delle complicanze. Può essere eseguita in caso di fallimento della chirurgia dell’angolo o
in associazione alla trabeculotomia e, come prima
scelta, nella maggior parte dei glaucomi secondari,
eccetto in quelli uveitici e nel glaucoma dell’afachico. In questi ultimi due casi sono, invece, indicati gli
impianti drenanti, introdotti da Molteno nel 1973,
che, però, sono gravati da una percentuale elevata
di complicanze (ipotonia).
Infine, si può ricorrere alla ciclocoagulazione che
può essere limitata ai casi chirurgici ad alto rischio
e agli occhi ciechi e dolenti.
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La gestione e la chirurgia del glaucoma
a Lubumbashi, Congo
Gabrielle Chenge
Servizio di oftalmologia, Clinica universitaria di Lubumbashi
Lubumbashi è la seconda città principale della Repubblica Democratica del Congo, nella provincia
di Katanga. La popolazione è di circa 2 milioni di
abitanti e la lingua ufficiale è il francese, mentre il
kiswahili è la lingua locale.
La clinica oculistica dell’ospedale universitario della città ha effettuato uno studio su un campione
di 30 soggetti glaucomatosi con un età media di
59 anni, considerando come pressione intraoculare alta valori superiori a 21 mmHg. Oltre il 63%
dei pazienti si era rivolto al centro a causa di una
diminuzione della vista, più del 25% a causa di
dolore e lacrimazione e circa il 15% per un controllo di routine. Il 26,5% dei pazienti, soprattutto
soggetti di sesso maschile, presentava già una cecità legale e la pressione intraoculare era più alta
negli occhi destri rispetto a quelli sinistri. Il 63,4%
dei pazienti aveva un rapporto cup/disc (C/D) di
0,8-1,0. La maggior parte dei pazienti ha ricevuto
un trattamento medico, solo poco più del 10% è
stato sottoposto a chirurgia (figura 1). Gli africani,
in genere, hanno una paura folle del trattamento
chirurgico e appena glielo si prospetta, soprattutto
quando non sentono dolore e hanno una buona
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
87%
73%
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57%
26,5%
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Di
m
visione, preferiscono recarsi da un altro oculista
che dica loro qualcosa di diverso.
Il trattamento chirurgico è indicato quando c’è stato un fallimento della terapia medica e quando il
rapporto C/D è inferiore a 0,8, perché la chirurgia
non è senza rischi e i chirurghi possono temere di
perdere la loro reputazione quando intervengono
su malati glaucomatosi. Inoltre, si tratta di pazienti
difficili da convincere ed è difficile anche ottenere
il consenso informato; rispetto all’intervento di
cataratta, quello per il glaucoma presenta in generale maggiori difficoltà.
I pazienti vengono preparati somministrando Diamox compresse e pilocarpina collirio 2% ogni 10
minuti prima dell’intervento. Si pratica quindi un’anestesia retrobulbare e sedazione. Dopo la trabeculectomia tradizionale, si è purtroppo visto ipertono
nel primo anno in oltre l’80% dei casi. Un’altra possibilità è la trabeculectomia modificata, con resezione del lembo sclerale e iridectomia basale, che
si pensa fornisca risultati migliori rispetto alla trabeculectomia classica. I nostri pazienti rimangono
ricoverati finché la camera anteriore è ben formata,
perché hanno problemi enormi di trasporto, di spo-
PIO: pressione intraoculare
Figura 1 Descrizione complessiva dei malati glaucomatosi esaminati presso l’ospedale di Lubumbashi.
26
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stamenti e anche di disciplina personale. L’accesso
alle cure è molto modesto e i costi sono piuttosto
alti; i controlli, inoltre, sono irregolari. In genere,
dopo un primo tempo, i pazienti devono pagare il
consulto e molto spesso non sono in grado di farlo;
inoltre, si tratta di solito di malati non autosufficienti per via della loro cecità e dunque dipendenti da
un familiare, spesso un bambino. Quando i pazienti
non sono in grado di far fronte alle spese mediche,
in genere non ritornano e iniziano una sorta di ‘vagabondaggio terapeutico’, alla ricerca di soluzioni
miracolistiche, rifugiandosi, per esempio, nella
medicina tradizionale o in quella cinese.
Per ovviare a questi problemi occorre promuovere
campagne di informazione e di divulgazione attraverso i media, affinché siano possibili lo screening
e la diagnosi precoce della malattia. Tutto ciò richiede fondi e occorrerà anche attrezzare i servizi
di oftalmologia perché possano offrire ai pazienti
un migliore servizio diagnostico. Inoltre, c’è bisogno di organizzazioni che possano sovvenzionare
l’assistenza medica e chirurgica dei glaucomatosi, e
occorre adottare la tecnica chirurgica meno costosa
e che sia più adatta alla razza nera.
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25° ANNIVERSARIO
DEL MECTIZAN DONATION pROgRAM
Cecità fluviale:
epidemiologia e caratteristiche cliniche
Kisito Ogoussan
Associate Director Onchocerciasis - Mectizan Donation Program
L’oncocercosi, o cecità fluviale, è una malattia tropicale parassitaria causata da un verme nematode,
una filaria della specie Onchocerca volvulus, trasmessa all’uomo e ad altri animali dalla puntura di
una mosca infetta del genere Simulium, che funge
da vettore. Le larve di quest’insetto sono in grado di
svilupparsi solamente nei fiumi con correnti veloci,
dove l’acqua è più ricca di ossigeno, e ciò spiega
perché la patologia sia diffusa lungo le aree fluviali dell’America del Sud e, soprattutto, dell’Africa.
L’oncocercosi è causata, in realtà, dalle microlarve del parassita che, una volta morte, provocano
un’infiammazione responsabile a lungo andare di
lesioni cutanee e oculari, ma anche neurologiche.
Il 99% delle persone colpite si trova in Africa, mentre l’1% circa in America Latina e nello Yemen. La
malattia è endemica in 36 Paesi e si stima che 120
milioni di persone siano a rischio e 37 milioni siano
già infettate. Tra i soggetti malati, 6,5 milioni hanno
dermatite e prurito, più di mezzo milione ha una
compromissione visiva e 270 milioni sono miopi.
Dal punto di vista della presentazione clinica,
a livello cutaneo la malattia si manifesta con la
presenza di noduli sottocutanei e una dermatite
cronica caratterizzata da prurito intenso, spesso altamente debilitante, ma anche con atrofia e
perdita d’elasticità, con un progressivo raggrinzimento della pelle. Si possono poi avere depigmentazione cutanea e desquamazione con aree
iperpigmentate (la cosidetta pelle a macchia di
leopardo o d’elefante o di lucertola) e anche elefantiasi a livello dei genitali.
Tuttavia, la complicanza più seria dell’oncocercosi
è rappresentata dall’interessamento oculare. Le
microfilarie, infatti, invadono tutte le parti dell’occhio, causando un’infiammazione dell’intero bulbo
oculare. In genere, la manifestazione più comune è
una congiuntivite associata a fotofobia e in alcuni
casi può comparire anche una cheratite sclerosante,
che può evolversi e causare un’opacizzazione della
cornea, provocando danni permanenti alla funzione
visiva, o una cheratite puntata (figura 1).
Complicanze oculari dell'oncocercosi
A
b
C
D
Figura 1 Lesioni oculari provocate dalle microfilarie a livello del segmento anteriore. A) cheratite puntata;
B) primi segni della cheratite sclerosante; C) e D) progressione della cheratite sclerosante che porta a opacizzazione
totale della cornea.
28
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A livello del segmento posteriore, la presenza della
larva provoca abitualmente una corioretinite progressiva, più frequentemente a partire dalla periferia, e un’infiammazione cronica che porta all’atrofia ottica. L’interessamento della retina e del
nervo ottico può portare a una riduzione del campo
visivo fino alla cecità. Globalmente, si stima che
l’oncocercosi abbia reso cieche circa 500 mila persone e abbia provocato gravi deficit visivi ad altre
800 mila. Inoltre, la malattia è ritenuta responsabile
di 40 mila nuovi casi di cecità.
Che cosa si può fare dal punto di vista degli interventi per combatterla? Una delle possibilità è uccidere il vettore, l’altra è uccidere la microfilaria. Sul
primo fronte, nel 1974 l’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms), in collaborazione con altre tre
agenzie dell’Onu, ha lanciato un programma di controllo dell’oncocercosi (Ocp) nell’Africa occidentale, volto a proteggere la popolazione di 11 Paesi
mediante la dispersione di insetticidi con mezzi
aerei sulle zone di riproduzione della mosca. Il costo dell’operazione è stato stimato intorno ai 700
milioni di dollari. Nel 1987, con l’avvio della donazione di ivermectina (Mectizan) da parte di Merck
& Co. si è passati dal controllo esclusivo del vettore
al controllo anche delle microfilarie, combinando la
dispersione degli insetticidi con il trattamento con
questo chemioterapico. L’Ocp, costoso e fonte di
grave inquinamento ambientale, è terminato ufficialmente nel dicembre 2002 ed è riuscito a fermare
la trasmissione della malattia in tutti i Paesi partecipanti, tranne la Sierra Leone, dove le operazioni
sono state interrotte da una guerra civile decennale.
Intanto, nel 1995 l’Oms, assieme a varie Ong, il settore privato (Merck & Co.), diversi Paesi donatori e
alcune agenzie dell’Onu, ha lanciato una seconda
campagna, il Programma africano per il controllo
dell’oncocercosi (Apoc), per combattere la cecità
fluviale anche nel resto dell’Africa, una partnership
più ampia che coinvolge 19 Paesi partecipanti, tra
cui Uganda, Tanzania e Guinea Equatoriale. In questi Paesi, il trattamento di massa con ivermectina è
stato affiancato dal larvicidio del vettore con insetticidi sicuri per l’ambiente, che è stato fatto per 2-3
anni e terminato nel 2005, mentre nelle altre nazioni interessate dal programma il controllo del vettore
non è era fattibile o conveniente economicamente.
Per quanto riguarda il controllo delle microfilarie, il
farmaco ivermectina si è dimostrato uno strumento utile ed efficace per il controllo e l’eliminazione
dell’oncocercosi su vasta scala. La sua distribuzione viene effettuata grazie al supporto dei Ministeri
della Salute dei Paesi in cui la malattia è endemica,
di varie organizzazioni non governative, dell’Ngdo
Network per il controllo dell’oncocercosi e di diversi programmi tra cui l’Apoc, il Programma per
l’eliminazione dell’oncocercosi per l’America Latina
(Oepa) e il Mectizan Donation Program.
L’Oepa è un’iniziativa regionale lanciata nel 1991,
volta a ridurre la morbidità e la trasmissione
dell’oncocercosi in sei Paesi dell’America Latina
(Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico
e Venezuela) dove ci sono circa 500 mila persone
a rischio. Il programma, che coinvolge alcune Ong,
Merck & Co., la Paho (Pan american health organisation) e i Cdc (Center for disease control and prevention) di Atlanta, si basa sulla somministrazione
di massa di ivermectina ogni 6 mesi, con l’obiettivo
di raggiungere un copertura minima dell’85% della
popolazione a rischio. L’iniziativa ha avuto successo, in quanto non ci sono più nuovi casi di cecità
attribuibili all’oncocercosi nella regione e tutte le
lesioni oculari attribuibili alla malattia sono state
eliminate in 9 dei 13 foci presenti sul territorio.
Nei Paesi coperti dall’Apoc, invece, la popolazione
a rischio è di 115 milioni di abitanti. Il programma,
ancora in corso, prevede la somministrazione annuale di ivermectina, effettuata grazie alla partecipazione attiva di membri delle comunità interessate
dal programma. Il fine ultimo dell’iniziativa, prolungata fino al 2015, è arrivare a trattare più di 90
milioni di persone nei Paesi interessati e prevenire
oltre 40 mila casi di cecità fluviale ogni anno.
Quest’anno, su PLoS, è stato pubblicato uno studio realizzato in Mali e in Senegal che ha fornito la
prova di principio della fattibilità dell’eradicazione
dell’oncocercosi tramite il trattamento con ivermectina nei foci endemici in Africa. Inoltre, la valutazione epidemiologica dell’impatto della distribuzione
del farmaco nel continente africano mostra che in
12 aree la patologia è stata probabilmente eliminata, che in altre è vicina all’eliminazione e in altre
ancora si stanno facendo buoni progressi in quella
direzione (figura 2).
L’Apoc ha ottenuto questo risultato rafforzando il
sistema sanitario attraverso la formazione, a livello
locale, di personale sanitario e di soggetti addetti
alla distribuzione del farmaco, tramite la fornitura di
supporto logistico (veicoli, moto, computer ecc.), oltre che mettendo in campo altri interventi collaterali
come la distribuzione di vitamina A e di zanzariere
impregnate di insetticida, nonché implementando
l’assistenza oftalmologica (per esempio, per l’individuazione dei casi di cataratta) e la fornitura di
moduli didattici alle facoltà di medicina.
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Impatto della distribuzione di ivermectina in Africa
Eliminazione probabilmente
già raggiunta (12 siti:
7,4 milioni di persone)
Vicino all’eliminazione
Buon progresso verso
l’eliminazione
Valutazione dei risultati
insufficiente
Figura 2 Valutazione epidemiologica dell’impatto della distribuzione di ivermectina per il trattamento
dell’oncocercosi nel continente africano.
I 25 anni del Mectizan Donation program:
spianare la strada all’eliminazione
dell’oncocercosi nel 21° secolo
Benedetta Nicastro
Policy & Communication Manager, MSD Italia
Avviato nel 1987 da Merck & Co. con la decisione,
visionaria per l’epoca, di fornire gratuitamente
l’ivermectina – unico trattamento farmacologico
efficace per l’oncocercosi – a tutti coloro che ne
avessero avuto bisogno e per tutto il tempo necessario, il Mectizan Donation Program (MDP) ha
festeggiato nel 2012 i 25 anni di attività. Si tratta del più longevo programma, tuttora in corso, di
donazione di un farmaco e della prima partnership
pubblico-privato attuata nel settore, e ora presa in
prestito come modello anche da diverse agenzie di
cooperazione internazionale.
Fino ad oggi, il programma ha distribuito 750 milioni di trattamenti, corrispondenti a 3 miliardi e
mezzo di compresse, per un valore commerciale
stimato di oltre 5 milioni di dollari, raggiungendo
ogni anno 110 milioni di persone nei Paesi dove la
malattia è endemica.
Grazie a questo progetto, nel 2008 la Colombia ha
annunciato l’eradicazione dell’oncocercosi, mentre
Ecuador e Venezuela hanno concluso la fase di di-
stribuzione e di trattamento di massa, e sono ora
in una fase di controllo. Dei 13 Paesi dell’America
Latina in cui era presente la malattia, 11 sono attualmente in fase di controllo. Grazie alla strategia
implementata in questa regione, dove si è passati a
una somministrazione semestrale invece di quella
annuale, il 34% della popolazione non è più a rischio di contrarre la cecità fluviale.
Il MDP ha anche dato la spinta allo sviluppo di
una strategia per la somministrazione dei trattamenti all’interno delle comunità, grazie alla quale
volontari non retribuiti e adeguatamente formati,
distribuiscono essi stessi i farmaci. Se in America
Latina l’obiettivo eradicazione è stato, di fatto,
raggiunto, in molti Paesi Africani, specialmente
quelli dove la situazione politica è più instabile e
le infrastrutture sono più scarse, c’è ancora molta
strada da fare. Tuttavia, secondo l’Organizzazione
mondiale della sanità, l’oncocercosi cesserà di essere una minaccia per le popolazioni che ne sono
affette già nel 2020.
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La distribuzione di Mectizan in Togo
Charles Kondi Agb
Ministro della Salute del Togo
Il Togo è un piccolo Paese africano in cui vivono 6,7
milioni di persone (il 35% delle quali al di sotto della soglia di povertà), concentrate soprattutto vicino
ai numerosi corsi d’acqua presenti. Il sistema sanitario ha un’organizzazione piramidale a tre livelli e
il territorio è suddiviso in 40 distretti sanitari.
In Togo, l’ivermectina (Mectizan) è utilizzata per
combattere l’oncocercosi ma anche le filariosi linfatiche (figura 1), malattie che, oltre agli effetti negativi sulla salute, hanno un pesante impatto sociale
ed economico. La distribuzione del farmaco, donato
gratuitamente da Merck & Co., è iniziata nel 1988 e
fino al 1996 è stata fatta da equipe itineranti nelle
aree con una prevalenza di oncocercosi superiore
al 40%. Nel 1996 è stato avviato un trattamento di
massa, in cui la distribuzione è stata affidata direttamente alle comunità interessate e a operatori
sanitari volontari non pagati, o pagati pochissimo,
con una somministrazione porta a porta che ha raggiunto anche villaggi con meno di 2000 abitanti. Nel
2000 si è iniziato a utilizzare ivermectina anche per
il trattamento della filariasi linfatica, in particolare
è stata distribuita in associazione con albendazolo
(fornito gratuitamente da GlaxoSmithKline) alle popolazioni residenti nelle aree in cui sono endemiche
entrambe le malattie. Nel 2010, il trattamento di
massa contro la filariasi è stato sospeso perché si è
verificato che nei sette distretti in cui le due patologie sono coendemiche, la filariasi è stata eradicata,
mentre da allora a oggi è continuata la distribuzione
del famaco per il controllo dell’oncocercosi.
Come funziona la catena di distribuzione di ivermectina? Ogni anno, il Togo invia un rapporto sul trattamento effettuato per quell’anno e una richiesta
di fornitura del farmaco per l’anno successivo. La
domanda viene esaminata e approvata dall’Oms e
dal Mectizan Donation Program, che provvede quindi all’invio del farmaco via nave. Una volta arrivato,
il prodotto viene distribuito dagli operatori sanitari
appositamente formati, oltre che sulla dispensazione, anche sugli eventi avversi della cura e su come
redigere i rapporti sulla copertura del trattamento.
Vi sono naturalmente una supervisione da parte
dei vari livelli delle strutture sanitarie per rilevare
e risolvere eventuali problemi che possono presentarsi, nonché un controllo e un monitoraggio
dell’impatto di questa distribuzione.
Dal 1997 ad oggi sono state ricevute e distribuite oltre 117 milioni di compresse di ivermectina e
nel 2011 sono state raggiunte e trattate più di 2,5
milioni di persone, dunque più di un terzo della popolazione interessata, con un’ottima copertura sia
geografica sia terapeutica (figura 1).
Per rafforzare i risultati, si lavora in collaborazione
con le nazioni immediatamente confinanti (Ghana e
Benin) sincronizzando la distribuzione di ivermectina e si affianca la somministrazione del farmaco
Status delle malattie trattate con ivermectina in Togo
Oncocercosi
Distribuzione
dell’oncocercosi
• Mappatura eseguita nel 1976
• La malattia è endemica in 32 distretti su 40
• È raggiunto il 90% del territorio
• L’80% della popolazione è a rischio
Filariosi linfatica
Distribuzione
della filariosi
linfatica
• Mappatura eseguita dal 1998- 2000
• La malattia è endemica in sette distretti
• 1,3 milioni di persone a rischio
• I sette distretti sono co-endemici
Distretti endemici
Figura 1
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Copertura geografica e terapeutica
100
Copertura
geografica
90
Copertura
terapeutica
80
Copertura (%)
70
60
50
40
30
20
10
0
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
Figura 2 Copertura geografica e terapeutica del trattamento con ivermectina contro l’oncocercosi in Togo.
ad altre attività quali la mobilitazione e la sensibilizzazione sociale e la sorveglianza entomologica.
L’impatto della distribuzione
di ivermectina è stato
100
notevole, in particolare sul fronte della filariasi lin90
fatica. Sul fronte dell’oncocercosi
, si è avuto un calo
significativo della prevalenza della microfilaremia,
80 50% nel 1998 a meno del
che è passata da più del
5% nel 2010 in 29 dei 32 distretti dove la malattia
è endemica. Inoltre, 70
gli indici di trasmissione da
parte dei vettori sono passati da più di 1000 nel
60
1997 meno di 100 nel 2007. Per il 2013 il Ministero
della Salute ha pianifi
50cato una nuova valutazione
dell’impatto degli interventi e della possibilità di
sospendere la distribuzione
di massa del farma40
co. Relativamente alla filariasi, si è ottenuta una
30
riduzione ancora maggiore
della microfilaremia,
la cui prevalenza è oggi inferiore all’1%. La distri20
buzione di massa di ivermectina
per il trattamento
della microfiariasi, come sopra riportato, è stata
10
interrotta in tutte le aree
endemiche nel 2010, implementando un monitoraggio della situazione per
0
i successivi 5 anni. Nel 2011 si è registrato nuovamente un aumento della prevalenza della malattia e
i ricercatori e le autorità sanitarie stanno cercando
di capirne le ragioni. In ogni caso, il Togo è il primo
Paese dell’Africa subsahariana ad aver sospeso la
distribuzione massiccia della medicina contro la
filariosi linfatica e prevede di raggiungere entro il
2015 i suoi obiettivi di eradicazione della malattia.
Quali sono le lezioni apprese in questi anni? Innanzitutto, che le chiavi per il successo sono una buona
collaborazione fra i programmi di lotta contro la fi-
lariasi linfatica e quelli contro l’oncocercosi, abbinata alla partnership con le due aziende che hanno
fornito gratuitamente i farmaci (Merck e GSK), con i
centri di ricerca come i Cdc di Atlanta, con le Ong e
con altri partner. Senza dimenticare la partecipazione di incalcolabile valore degli operatori sanitari locali, che, con il loro entusiasmo, senza guadagnare
alcunché, consentono la realizzazione e il successo
di campagne come quella di distribuzione di massa
di ivermectina.
Nonostante questi successi, comunque, sono ancora molte le sfide che Paesi come il Togo devono
affrontare per evitare la recrudescenza di patologie
come l’oncocercosi e la filariasi linfatica. Occorre,
per esempio, sincerarsi che non vi sia una ripresa
della trasmissione di queste malattie una volta finita la distribuzione di massa, bisogna continuare a
sincronizzare le attività di trattamento dell’oncocercosi e di sorveglianza della filariasi con i Paesi vicini
ed è necessario mobilizzare risorse per la valutazione entomologica, in modo da mantenersi aggiornati
sullo status dei vettori. In alcune zone l’oncocercosi
pare eliminata, tuttavia ci sono ancora aree dove la
prevalenza della malattia è elevata, nonostante i
tanti anni di trattamento; bisogna quindi insistere
ancora e continuare a lottare. Una delle sfide è poi
capire quando si potrà interrompere definitivamente il trattamento di massa contro la malattia, e con
quale protocollo e quali strumenti si potrà misurare
l’arresto della trasmissione. Eliminare rapidamente
l’oncocercosi dal Togo resta uno degli obiettivi principali delle autorità sanitarie del Paese.
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SUGGERIMENTI E GESTIONE OPERATIVA
La politica sanitaria nella cooperazione
internazionale decentrata
Cecile Kyenge
Oculista presso il Poliambulatorio privato. Check up Centre, Modena e Ministro per l’Integrazione
Quando si parla di cooperazione, è bene ricordare
che vi sono diverse modalità di intervento. Esistono, per esempio, la cooperazione bilaterale, in cui
l’intervento è fatto dal governo centrale di un Paese
donatore ‘sviluppato’ verso il governo centrale di
un Paese in via di sviluppo (PVS) beneficiario, per
motivi sia egoistici sia altruistici, la cooperazione
multilaterale, effettuata da un’agenzia internazionale (per esempio la Fao) a favore di un PVS per
motivi umanitari, e la cooperazione multibilaterale, un insieme di interventi condotti da organismi
internazionali, impiegando risorse principalmente
destinate dal Paese donatore affinché siano impiegate in determinate aree o per specifiche finalità.
Un’altra forma di cooperazione è la cosiddetta cooperazione non governativa, che comprende la vasta
serie di interventi condotti a fini di solidarietà internazionale da soggetti privati senza fini di lucro e si
differenzia da quella pubblica in quanto trova fondamento sulla dimensione etico-sociale dell’azione
cooperativa, risultando così autonoma e slegata da
direttive e priorità politiche. Tra gli aspetti positivi
di questa modalità di intervento vi sono un’analisi dettagliata dei bisogni della comunità locale, un
rapporto immediato e diretto con la comunità locale,
senza dover passare per il filtro del governo locale, che spesso diventa un handicap, un approccio
multiculturale e quindi più aperto alla comprensione della diversità e della realtà locale, la flessibilità
nell’azione e lo sviluppo delle risorse umane in loco
con il trasferimento di know how. Di contro, tra gli
aspetti negativi, ci sono una sterile contrapposizione
con la cooperazione governativa, spesso ideologica,
una maggiore attenzione al progetto che alla politica
di cooperazione, con una scarsa azione di lobby, una
marcata dipendenza dai fondi pubblici e una scarsa
capacità di corretta gestione finanziaria delle risorse.
La nascita della cooperazione non governativa ha
stimolato un forte dibattito in merito agli strumenti con cui fare cooperazione, anche in ambito governativo. Infatti, i risultati limitati ottenuti dalla
cooperazione governativa hanno portato a un ripensamento dell’attività di cooperazione e all’adozione di nuovi strumenti, più flessibili e più capaci
di sapere rispondere alle esigenze. Ed è proprio da
questo dibattito che è nata una un’ulteriore e nuova
forma di cooperazione: la cooperazione decentrata e il partenariato, che passano da un ente locale
del Paese donante a un altro ente locale del PVS
beneficiario, per arrivare direttamente alla società
civile di questo Paese. La cooperazione decentrata
è quindi caratterizzata da un approccio ‘bottom-up’
e si sviluppa tra i diversi livelli di organizzazione
della società civile e istituzionale, permettendo il
passaggio da un rapporto verticistico e di assistenza (approccio top-down), tipico della cooperazione
governativa, a uno orizzontale di uguaglianza tra i
partner, favorendo così i processi democratici. È in
quest’ambito che sono nati progetti di cooperazione che hanno coinvolto città, province, comuni e regioni dei Paesi sia del Nord sia del Sud del mondo,
in un’ottica di uguaglianza e parità.
Questa nuova modalità di cooperazione presenta
diversi vantaggi. Secondo l’Unione Europea (Ue),
consente uno sviluppo migliore in quanto dà maggiore attenzione ai bisogni e alle priorità delle popolazioni, rafforza la società civile dando maggiore potere politico agli attori decentrati e ai gruppi
svantaggiati e persegue uno sviluppo basato sul
gioco democratico dei gruppi sociali, economici e
politici locali. In questo senso, l’obiettivo ultimo di
tale forma di cooperazione è una maggiore equità
e sostenibilità nello sviluppo territoriale. Inoltre,
la cooperazione decentrata risulta più funzionale
di quella governativa nel rispondere con maggiore
efficacia alle problematiche locali.
L’Ue ha disciplinato la cooperazione decentrata con
propri regolamenti (il Regolamento del Consiglio
Europeo del 17 luglio 1998 n. 1659/98 e il Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del
13 maggio n. 955/2002), che indicano diversi soggetti quali attori principali di tale forma di cooperazione e molteplici ambiti di intervento (tabella 1).
I fattori di successo della cooperazione decentrata
vanno ricercati nel rispetto dei valori locali, in un’adeguata (nei tempi e nei modi) ‘rivoluzione culturale’,
nel ricorso ai giovani per introdurre innovazioni, nella
mobilitazione di forme di risparmio locale, nell’educazione scolastica e nella formazione professionale
capillare, nello sviluppo di una progressiva democrazia locale e, infine, nell’organizzazione territoriale
(vie di comunicazione, luoghi di scambio ecc.)
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Soggetti e ambiti di intervento della cooperazione decentrata
Soggetti
Ambiti di intervento
•Poteri pubblici locali
• Organizzazioni non governative
• Associazioni professionali
• Gruppi d’iniziativa locali
•Cooperative
•Sindacati
• Organizzazioni di donne e di giovani
• Istituti di insegnamento e di ricerca
•Chiese
• Organizzazioni delle popolazioni indigene
•Qualsiasi associazione non governativa in grado
di fornire un contributo allo sviluppo
•Sostegno alle politiche di decentramento
politico e amministrativo
•Promozione dei processi di democrazia
partecipativa
•Sostegno delle politiche di tutela delle fasce di
popolazione a maggior rischio e delle minoranze
specie nei territori rurali
•Sostegno delle politiche di tutela del patrimonio
ambientale e culturale
• Pianificazione e gestione dei servizi sul territorio
•Creazione di ambienti favorevoli alla crescita di
forme associative di tipo cooperativistico e di
micro, piccole e medie imprese
•Promozione di sistemi creditizi equi e sostenibili
•Creazione di centri di formazione professionale
e specialistica per la crescita dell’occupazione
Tabella 1 Soggetti e ambiti di intervento della cooperazione decentrata indicati nei regolamenti Ue.
I possibili fattori di fallimento sono, invece, insiti
nell’assenza della gestione degli interventi da parte
della comunità locale (emblematico è il caso delle
università private in Congo, che sfuggono a qualunque controllo istituzionale, e della presenza di
medici non riconosciuti dagli ordini professionali
locali, che operano in strutture private senza nessun
tipo di controllo sulla competenza e sull’offerta di
cura ai pazienti), nell’assenza di momenti educativi e formativi, nella mancanza, spesso, di analisi
economico-finanziarie del progetto, nella scarsa
professionalità dei cooperanti, in possibili forme di
‘presunzione’ del personale espatriato e, da ultimo,
nella presenza di forme di corruzione a tutti i livelli.
In prospettiva, la cooperazione decentrata dovrà evolversi nella direzione di combattere la
povertà realizzando profitto. A tale scopo, si
impongono una valutazione dei fattori di successo e di fallimento, una stima adeguata della
sostenibilità economica, oltre che ambientale e
istituzionale, dei progetti di cooperazione, l’individuazione e sensibilizzazione delle imprese
etiche dei Paesi del Nord del mondo, l’apertura
di un dialogo con i giovani potenziali imprenditori dei PVS, associata a un’azione di stimolo
nei loro confronti, e, infine, l’individuazione di
tecnologie adatte e accessibili per i PVS, tanto
più in ambito sanitario.
Priorità sanitarie nei Paesi con risorse
limitate: il pacchetto sanitario minimo
Augusto Cosulich
Medico esperto di cooperazione sanitaria internazionale
In tema di salute, una delle priorità per i Paesi in via
di sviluppo (PVS) è quella di dotarsi di un pacchetto
sanitario minimo. Con questo termine s’intende la
combinazione di misure sanitarie minime che ogni
nazione dovrebbe garantire gratuitamente ai suoi
abitanti, a prescindere da età, sesso e condizioni
economiche, religiose, politiche, etniche ecc., affinché possano avere una vita sana. Questo concetto è
strettamente correlato all’impatto di una malattia e
alla disponibilità di risorse (tra cui rientrano anche
i donatori internazionali e altri partner).
Il pacchetto è spesso inserito nei programmi di lotta
alla povertà e consiste in una combinazione di servizi
preventivi, curativi, riabilitativi, con alcune priorità
assolute. Tra queste, vi sono le malattie potenzialmente letali (come l’infezione da HIV, la tubercolosi,
la malaria ecc.), quelle che causano disabilità e tutte
le condizioni che in vario modo possono ostacolare lo
sviluppo economico (malattie della povertà). Inoltre,
conditio sine qua non di questo pacchetto è la sua
sostenibilità nel tempo dal punto di vista non solo
finanziario, ma anche politico e gestionale.
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La prevenzione deve comprendere i programmi vaccinali, servizi per la salute riproduttiva e sessuale,
servizi di clinica antenatale e programmi contro le
patologie infettive come HIV, malaria, tubercolosi,
per le quali, tanto più in contesti come i PVS, la prevenzione è fondamentale. Altrettanto importante è la
promozione di uno stile di vita sano nelle comunità e
nei villaggi, per proteggere quanto più possibile la
popolazione dal rischio di contrarre queste malattie.
Naturalmente, occorre garantire a chi si è ammalato un
servizio di diagnosi e cure di buona qualità per tutte
le principali patologie (trasmissibili e non) frequenti
nell’area. Molto importante è la presenza di servizi
di maternità affidabili, con un efficiente sistema di
invio, perché un buon servizio sanitario deve essere in
grado di riferire per un parto cesareo una donna entro
2 ore dall’inizio del travaglio. Devono, inoltre, essere
presenti servizi di riabilitazione per condizioni fisiche
e neurologiche, quali ad esempio la poliomielite.
Anche se il quadro è molto diverso da Paese a Paese, purtroppo molti PVS non sono ancora in grado
di offrire ai propri abitanti un pacchetto sanitario
minimo e alcuni sono ben lontani dal raggiungere
questo obiettivo, per svariate ragioni. Tra queste, vi
sono l’instabilità politica o sociale, la scarsa ‘good
governance’ e, soprattutto, la scarsità di fondi messi a disposizione dai governi locali, che non sono
sufficientemente impegnati su questo fronte e si
basano ancora pesantemente sul supporto e sull’aiuto esterno offerto da programmi come il Global
Fund o il Pepfar. Inoltre, il tentativo di raggiungere
i tre obiettivi di sviluppo del millennio (Millenium
Development Goals) definiti dall’Onu in materia di
salute (ridurre di due terzi la mortalità infantile, ri-
durre di tre quarti la mortalità materna e arrestare la
diffusione dell’HIV/AIDS, della malaria e delle altre
malattie infettive più importanti) ha un impatto non
del tutto positivo, perché porta a una concentrazione delle risorse per lo più su malaria, tubercolosi
e AIDS, distogliendo i fondi da altre condizioni comunque importanti. C’è, infine, il problema della resistenza ai farmaci contro le malattie trasmissibili,
che ha certamente implicazioni di primo piano sia
a livello locale sia internazionale, visto che viviamo
ormai in un mondo globalizzato.
Chi si occupa di cooperazione deve tenere presente
che per i PVS è ancora valida la ‘legge inversa dell’assistenza sanitaria’ basata su questi quattro principi:
1) le popolazioni ricche hanno maggiore accesso ai
servizi sanitari pubblici rispetto a quelle povere; 2)
la copertura vaccinale è di importanza fondamentale
perché è strettamente correlata con lo stato di salute
e di benessere di una popolazione, ma purtroppo in
molti PVS è ancora bassa; 3) in questi Paesi, chi è
povero e si ammala spesso non ha accesso alle cure e
ha il doppio delle probabilità di ricorrere all’autocura
o di rivolgersi a un guaritore tradizionale e, addirittura, una probabilità 10 volte maggiore rispetto a
un cittadino di un Paese ricco di non fare assolutamente niente e aspettare fatalmente che gli eventi
maturino; 4) cosa forse ancora peggiore, chi, pur essendo povero, si rivolge al sistema sanitario locale,
spesso deve pagare di tasca propria le prestazioni
erogate se il Paese in cui vive non è in grado di offrire il pacchetto sanitario minimo, rischiando così
di impoverirsi ulteriormente e mettere ancora più a
repentaglio nel futuro la propria salute e quella della
propria famiglia.
Come preparare un progetto
nei Paesi in via di sviluppo
Mario Angi
Presidente Cbm Italia onlus
Nel 2009 anche l’Italia, tramite l’istituzione della
Commissione nazionale per la prevenzione della
cecità, costituita a Roma il 9 ottobre, è entrata a
far parte del programma ‘Vision 2020: the right to
sight’ che punta a eliminare entro il 2020 le principali cause di cecità evitabile nel mondo. Tra i compiti della Commissione vi è il monitoraggio delle
iniziative di cooperazione internazionale svolte da
associazioni ed enti italiani (pubblici, non profit e
privati) per la prevenzione della cecità nei Paesi in
via di sviluppo (PVS) e nelle aree povere, in armonia con le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tale compito è stato affidato
a Cmb Italia onlus, che nel 2011 ha proceduto al
censimento dei progetti, identificandone 140. Altro
compito della Commissione era lo sviluppo di linee
guida per la prevenzione delle menomazioni della
vista e linee di indirizzo per la conduzione di progetti di prevenzione della cecità e dell’ipovisione in
campo internazionale. Lo scorso anno Cbm Italia,
in collaborazione con il Ministero della salute e con
l’Oms (nelle persone, rispettivamente, di Francesco
Cicogna e Silvio Paolo Mariotti) ha partecipato alla
stesura di tali linee, che saranno presto diffuse e
che prevedono sei punti principali (tabella 1).
Il primo passo è definire le premesse del progetto. Si
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Linee di indirizzo
1 Premesse del progetto
2Stipulare il contratto
3Formazione del personale
4Beni da donare
5 Spedizione dei beni
6Codice etico e buona gestione
Tabella 1 I sei punti chiave delle linee di indirizzo per
la conduzione di progetti di prevenzione della cecità e
dell’ipovisione in campo internazionale.
suggerisce, innanzitutto, di intervenire solo su richiesta di un partner locale, per cercare di non imporre
le nostre visioni di cooperazione alle popolazioni destinatarie. Nello stesso tempo, bisogna valutare la
solidità del partner, cercando possibilmente di averne uno istituzionale anziché privato, che sia riconosciuto dal governo (opportuno chiedere una lettera di
avvallo istituzionale del partner). Sia il partner sia chi
vuole aiutare devono essere in grado di fornire garanzie di sufficiente disponibilità economica; è inutile,
infatti, far partire un progetto senza avere le risorse
adeguate per portarlo avanti. Occorre poi valutare
l’idoneità della proposta in termini di collocazione
geografica e bacino d’utenza, verificando se non ci
sono già altri progetti simili in corso nella stessa
zona e se non possa esservi conflitto di interessi del
partner (rischio di uso privato di risorse donate ai poveri). Un progetto oculistico che comprende una sala
operatoria attrezzata necessita di un bacino d’utenza
grande (non meno di 80-100 mila abitanti) e quindi,
se si investe nel comprare un microscopio operatorio, lampade a fessura e altri strumenti per allestire
un centro oculistico di secondo livello in un villaggio
di 10 mila abitanti, si sprecano risorse preziose, in
quanto le attrezzature rimarranno sottoutilizzate.
Infine, è opportuno contattare l’Ambasciata italiana e
la Diocesi per informarsi sulla situazione politica del
luogo e sull’eventuale presenza di tensioni etniche e
religiose, e per aumentare l’afflusso di pazienti informando la popolazione del nuovo progetto oculistico
tramite la rete delle parrocchie e le radio locali.
Il secondo punto è stipulare un contratto, cioè predisporre una scrittura privata in cui siano indicati in modo
preciso nome del progetto, nomi e indirizzi del partner
e del donatore, responsabile legale, chi riceve la proprietà dei beni, chi si occupa di fare manutenzione,
tempi di realizzazione, clausole risolutive ed eventuali
penali, struttura organizzativa dell’ospedale e competenze della direzione, risultati attesi e piano pluriennale, verificando la validità degli accordi sul luogo.
Il terzo punto, molto importante, è l’addestramento
del personale. Occorre curare sin dall’inizio l’adde-
stramento degli operatori locali, attraverso corsi
di formazione riconosciuti dallo Stato che devono
avere una validità legale. I corsi possono essere
offerti come premio a medici e infermieri, che in
questo modo si legano al progetto di cooperazione.
Non bisogna, invece, invitare in Europa il personale
locale, perché il confronto con la nostra realtà fa sì,
di regola, che quasi tutti cerchino in qualche modo
di restare all’estero. È importante fornire, se non
c’è, un accesso Internet via satellite o pagando la
connessione telefonica, perché questo diventa un
punto qualificante del progetto. Infine, bisogna introdurre da subito i principi di controllo di qualità.
Altro punto essenziale riguarda i beni da donare, i
quali sono ciò che permette al progetto di partire. Bisogna donare solo strumenti utili, revisionati e con un
manuale d’uso tradotto nella lingua locale, evitando
apparecchiature ad alta tecnologia come ad esempio facoemulsificatori di ultima generazione (che il
personale locale non sarebbe in grado di usare) o kit
consumabili monouso (troppo costosi). Prevedere da
subito un registro per inventariare i beni donati, uno
per pagina, con la data di donazione e la firma di ricezione di chi prende in carico il bene. Questo consente,
nel tempo, di effettuare controlli di ciò che si dona e
di registrare interventi di manutenzione, la frequenza
di ricambio di pezzi e la dismissione del bene.
Occorre poi assicurarsi che assieme al materiale donato vi sia una ricca dotazione di ricambi, le lampadine debbono – ove possibile – passare da filamento
a incandescenza a led e ci devono essere fusibili e
indirizzi dove rifornirsi di ricambi. Servono anche
stabilizzatori di corrente (per strumenti più delicati
con componenti elettroniche) e spine compatibili con
il Paese dove si va. È necessario conoscere la data di
fabbricazione degli strumenti, la marca e la disponibilità temporale dei pezzi di ricambio per ogni modello (è inutile e dannoso donare uno strumento se i
ricambi non sono reperibili). Da ultimo, è importante
istruire le infermiere e i tecnici sulla manutenzione
e tropicalizzare gli strumenti donati. Per esempio,
all’interno di alcuni microscopi operatori portatili
costruiti per la cooperazione è presente un dispenser antimicotico, per evitare la formazione di funghi.
La spedizione dei beni è il quinto aspetto da considerare, ed è spesso un punto dolente. Bisogna preparare
bene la ‘packing list’, con una descrizione completa di
ciascun apparecchio, indicando nome, marca, numero
di serie, peso e dimensione ed è prudente spedire
la packing list in anticipo al partner locale, per fargli
verificare che non ci siano problemi in dogana. Bisogna possibilmente imballare un solo strumento per
cassa, ponendo un numero progressivo su ognuna, ed
è essenziale avere imballaggi idonei per il trasporto, a
prova di caduta e umidità, perché il corriere rimborsa
solo cifre simboliche in caso di danneggiamenti. Le
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casse devono essere di dimensioni ridotte (massimo
50x50x70) e peso, contenuto (se troppo grandi, è
difficoltoso farle entrare nelle jeep o nei piccoli aerei
delle linee locali). Se possibile, inoltre, bisognerebbe
essere presenti alla loro apertura e alla posa in opera
degli strumenti.
Ultimo punto delle linee di indirizzo, non trascurabile, è quello del codice etico e di buona gestione del
progetto. È sempre necessario garantire la qualità
dell’intervento e non puntare sulla quantità: ciò che
viene fatto, deve essere fatto bene. Bisogna poi dare
spazio ai medici locali, senza creare il mito del medico occidentale che arriva sul posto come un deus
ex machina; è, invece, importante e motivante per
il personale del posto che i pazienti e i familiari gli
attribuiscano parte del merito di ciò che è stato fatto.
Non si deve, inoltre, eseguire uno screening senza
poter offrire poi un servizio. Per esempio, non si può
fare una ricerca dell’ambliopia senza prevedere di
dare gli occhiali ai bambini trovati positivi, così come
non si può non operare la cataratta ai pazienti ai quali è stata diagnosticata. Bisogna mettere dall’inizio
le regole di comportamento in chiaro, per iscritto.
Infine, nessun servizio va offerto gratuitamente (concetto fondamentale nella cooperazione sostenibile),
a meno di non avere un certificato di indigenza del
paziente redatto da un’autorità super partes come
il direttore dell’ospedale. È fondamentale anche registrare sempre con chiarezza e precisione entrate
e uscite, senza mescolarle, e fare frequenti controlli
incrociati tra incassi e numeri di visite, di interventi
e di farmaci distribuiti, al fine di evitare ruberie e
piccoli trucchi, frequenti, per appropriarsi di denaro.
Infine, bisogna verificare le statistiche per valutare
che nel servizio dato ci sia una corretta proporzione
fra i sessi (in termini di rapporto maschi/femmine)
età, etnie e religioni, per identificare e rimuovere sul
nascere ogni possibile forma di discriminazione.
Come mettere a punto un’unità
oftalmologica
Piet Paul Marie-Andrée Noé
Oculista presso l’ospedale di Kabgayi, Gitarama, Rwanda
Per sviluppare un'unità oftalmologica in Africa
è necessario porsi tre obiettivi. Innanzitutto, bisogna essere in grado di offrire una chirurgia di
elevata qualità, nel caso della cataratta con una
percentuale di insuccessi inferiore al 5% e, di
converso, una percentuale altissima di casi con
esiti positivi, superiore al 90%. Bisogna poi avere
volumi sufficientemente ampi (un obiettivo ragionevole è almeno 1000-1500 interventi di cataratta
all'anno per ogni oculista). Infine, terzo obiettivo
irrinunciabile è la sostenibilità economica, con
un recupero dei costi del 100% e, idealmente, un
avanzo extra del 20% per ampliare la struttura.
La sostenibilità, tuttavia, è legata anche all'acquisizione di un'autonomia per quanto riguarda
i servizi clinici, la gestione del programma (senza
dipendere da risorse umane esterne) e le entrate
(senza dover dipendere da finanziamenti esterni
per una cifra superiore a quella dei costi).
Come raggiungere questi obiettivi? Per offrire una
chirurgia di alta qualità occorre fare sempre la cheratometria prima dell’intervento, usare buone tecniche chirurgiche, non accettare alcun compromesso
sul fronte della sterilità, disporre di un vitrectomo,
fare un follow-up adeguato, selezionare bene i pazienti, sottoporre il personale a un training continuo
e fare una buona manutenzione degli strumenti.
Per avere grossi volumi bisogna saper attrarre i
pazienti utilizzando mezzi adeguati di comunicazione e marketing, nonché offrendo una chirurgia di
buona qualità, avere sempre almeno un oculista disponibile, poter predisporre un sistema di chirurgia
itinerante, usare una tecnica chirurgica appropriata
come la Sics e far sì che la sala operatoria abbia
almeno due tavoli operatori, cinque infermiere e
sei set di strumenti per ogni oculista.
Perché il tutto sia sostenibile, diverse sono le voci
importanti (tabella 1).
In primo luogo, è importante applicare un tariffario
differenziato a seconda della disponibilità econoSostenibilità dell’unità oftalmologica
•Prezziario differenziato in base
alla disponibilità dei pazienti
•Aumento della produttività
(numero di interventi per oculista)
•Organizzazione di un sistema
di chirurgia itinerante
•Staff dedicato a lungo termine
•Leadership e atteggiamento
•Edificio, infrastruttura, sede
Tabella 1 Elementi importanti per garantire
la sostenibilità dell’unità oftalmologica.
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mica di chi afferisce al centro. I pazienti in genere possono essere divisi in quattro categorie: un
piccolo gruppo (5%) in grado di pagare qualunque
cifra pur di essere curato ed, eventualmente, anche di andare all’estero per questo, un 40% circa in
grado di pagare una somma ragionevole (un mese
di stipendio), un 35% in grado di pagare, ma solo
con tariffe agevolate, e un 20% che non può pagare
nulla. Ai fini della sostenibilità, bisognerebbe riuscire a guadagnare dai primi due gruppi per sponsorizzare e ripagare il costo dell'intervento per i più
poveri. Presso l’ospedale di Kabgayi per esempio,
si applicano due prezziari diversi: uno per i pazienti normali (con un’assicurazione sanitaria di base)
e un secondo, più elevato, per i pazienti privati,
che pagano di più per ripagare le spese degli altri.
Per questi ultimi i costi sono in genere solo di 20
centesimi di euro per un consulto normale, 8 euro
per la Sics e 5 centesimi di euro per ogni notte di
degenza contro 30 euro per la visita, 120 euro per
l’intervento di Faco e 18 euro a notte per la degenza
in camera privata, anziché nel dormitorio.
Inoltre, il centro deve riuscire a essere molto produttivo. A tale scopo, bisogna calcolare il costo
totale dell'erogazione dei servizi, che è pari alla
somma dei costi fissi e di quelli variabili. I primi
sono quelli di gestione del centro, soprattutto gli
stipendi del personale, che rappresentano la voce
di spesa maggiore e in un ospedale normale ammontano a circa il 70% del totale; i costi variabili
consistono, invece, nel costo del materiale, che è
proporzionale al numero di interventi praticati. Il
costo di ogni intervento di cataratta è pari al costo fisso diviso il numero di interventi di cataratta,
più il costo di un’unità di materiale consumato. Si
deve cerare di ridurre il costo unitario dell'intervento aumentando il numero possibile di operazioni e
cercando, nel contempo, di spendere meno per i
materiali di consumo. Da notare che il costo totale
per il paziente comprende anche altre voci come
il trasporto, il cibo, il numero di visite in ospedale
prima dell’intervento. Il centro è responsabile anche
di questo e deve quindi cercare di mantenere basso
il costo totale a carico del paziente operando subito
dopo la diagnosi, in modo da dimettere in fretta
i pazienti. Il costo del materiale di consumo può
essere abbattuto facendo acquisti intelligenti, per
esempio ordinando grandi quantitativi, usando materiali che possano essere risterilizzati, anziché usa
e getta, e sfruttando le risorse il meglio possibile
(per esempio un solo flacone di viscoelastico ogni
due o tre pazienti). In tal modo, quando i numeri
sono ampi, si riesce ad abbattere il costo dell'intervento. Tuttavia, i grandi volumi non devono andare
a discapito della qualità: l'obiettivo è sempre quello
di operare il maggior numero di pazienti nel modo
migliore. Il costo unitario dell’intervento di cataratta è anche uno strumento per misurare l'efficienza
del centro, la sua produttività e il livello di qualità.
Anche il capitolo risorse umane ha la sua importanza ai fini della produttività. Sono importanti la formazione continua del personale, un orario di lavoro
regolare e abbastanza lungo per consentire l’accesso di più pazienti, l'assegnazione delle mansioni
(un oculista non deve fare ciò che può essere fatto
dagli infermieri) e anche una job description molto
accurata, affinché il personale sappia esattamente
cosa ci si aspetta da loro, quale sia il loro ruolo e
sia quindi un po' più responsabilizzato; inoltre, è
essenziale programmare la forza lavoro anche in
base al carico di lavoro e retribuire in modo adeguato il personale perché sia efficiente e motivato,
offrendogli magari anche altre forme di incentivo,
al di là di quello strettamente economico.
È ovvio che contano molto anche la leadership e
l'atteggiamento. Per essere riconosciuto come leader, il direttore del centro deve puntare alla ricerca dell’eccellenza, ma anche essere disponibile a
cambiare, imparare e lavorare sodo. Il personale del
centro deve essere compassionevole, focalizzato
sul paziente, sempre disponibile e, ovviamente, anche concentrato più sul far crescere l'organizzazione che il proprio stipendio. L’oculista, soprattutto,
dovrebbe cambiare mentalità e passare da un’ottica
di alti margini di guadagno, pochi interventi e un
compenso per ogni prestazione a un’altra in cui i
margini sono bassi, si opera tanto e si percepisce
uno stipendio fisso.
Un altro punto chiave riguarda l’infrastruttura, che
deve essere tale da consentire di lavorare in modo
efficiente ed essere ben bilanciata in termini di numero di ambulatori, sale operatorie e numero di letti.
Inoltre, è importantissimo che il centro sia situato in
una zona idonea e sia di facile accesso. Un’unità oculistica è un servizio di secondo/terzo livello e deve
quindi poter servire un bacino d'utenza di 500 milaun milione di abitanti. Se il centro viene costruito in
una zona rurale, dove vivono poche persone sparse
qua e là, è chiaro che sarà sottoutilizzato e non sarà
facile attirare abbastanza pazienti paganti per poter
raggiungere la sostenibilità finanziaria.
Per implementare un’unità oculistica servono poi
molte altre cose, tra cui, per esempio, un luogo in
cui riporre le cartelle cliniche, un magazzino, forniture di strumenti e apparecchiature, una farmacia
centralizzata e, idealmente, anche un laboratorio
di ottica per produrre direttamente gli occhiali
prescritti ai pazienti. Bisogna poi pensare alla manutenzione, alla sicurezza, alla pulizia del centro,
alla logistica, alla registrazione dei pazienti e, da
ultimo, assicurare la presenza di qualcuno in grado
di seguire la contabilità.
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Il corso della Medicus Mundi Italia:
un’esperienza d’insegnamento
Vincenzina Mazzeo
Medicus Mundi Italia
La Medicus Mundi Italia, è parte di un’organizzazione non governativa internazionale, ha sede a
Brescia e tiene dal 1988 in questa città, un corso
di aggiornamento in medicina tropicale diretto a
medici, odontoiatri ed operatori sanitari (infermieri,
ostetriche, biologi, fisioterapisti, farmacisti ecc.)
interessati a partecipare a progetti sanitari nei Paesi in via di sviluppo (PVS). Il corso, della durata
di 3 settimane ( 105 ore), tratta svariati argomenti
(tabella 1), tra cui anche l’oftalmologia tropicale
con 4 ore di lezione.
Materie del corso di aggiornamento in malattie
tropicali
•Programmi di vaccinazioni nei PVS
•Malnutrizione
•Emergenze chirurgiche e ostetriche nei PVS
•Lebbra e tubercolosi
•Malaria
•HIV
•Malattie sessualmente trasmesse
•Parassitologia nei PVS
•Oculistica nei PVS
•Dermatologia nei PVS
•Anemie nei PVS
•Farmaci di base
•Tecniche di laboratorio di base
•Volontariato, cooperazione e sviluppo
•Legislazione sulla cooperazione internazionale
Tabella 1 Argomenti principali trattati nel corsi di
aggiornamento in malattie tropicali organizzati da
Medicus Mundi Italia.
Dal 2004, il corso è accreditato al Ministero e dà ora
diritto all’acquisizione di 50 crediti Ecm, il massimo
di quanto il Ministero attribuisce nel campo della
formazione. La presente statistica si basa sulle notizie richieste al momento della domanda d’iscrizione
che comprende, oltre ai dati anagrafici e di scolarizzazione, la conoscenza di lingue straniere, le pregresse esperienze e la propria disponibilità a partecipare a progetti di assistenza. Dalla sua istituzione
a oggi, vi hanno partecipato in totale 393 discenti, di
cui 167 già con un’esperienza di cooperazione inter-
nazionale alle spalle, che hanno evidentemente sentito la necessità di tornare ad aggiornarsi. Tra tutti i
partecipanti, 201 conoscevano una lingua straniera
(oltre all’italiano), 160 ne conoscevano due o tre e
tre ne conoscevano ben quattro, mentre 29 non ne
conoscevano nessuna. Complessivamente, il corso
è stato frequentato finora per il 54% da medici e
per il 40% da infermieri professionali, seguiti da
ostetriche (3%), biologi (1%), tecnici di laboratorio
(1%) e altre figure professionali.
Dopo i primi 2 anni, il corso è stato gestito in collaborazione con la Cattedra di Malattie infettive
tropicali dell’Università di Brescia e quindi per un
certo periodo è stato riservato ai soli medici, per poi
essere nuovamente aperto anche agli infermieri e
agli altri operatori sanitari.
Le specialità dei medici partecipanti sono le più svariate: si va dai medici di base agli infettivologi, dai
ginecologi ai pediatri, dai neurologi agli psichiatri e
altro ancora; pochi gli oculisti: dall’avvio ad oggi, infatti, solo tre hanno preso parte al corso. Tenuto conto dell’eterogeneità dei discenti e del tempo ridotto a
disposizione, le ore del corso dedicate all’oculistica
sono, da sempre, suddivise in una parte ‘generica’ e
una più ‘specifica’. Nella prima si affronta la diagnosi differenziale dell’occhio rosso, e delle principali
patologie oculari, si spiega quali sono i farmaci oculistici essenziali e qual è il bagaglio minimo di strumentazione necessaria, tra cui apparecchi a basso
costo come una piccolissima lampada a fessura portatile una lampada di Wood, entrambe a pile, alcuni
strumenti non più in uso nei nostri ospedali come
cauteri monopolari a pila, divaricatori palpebrali e
strumentario dismesso, ma potenzialmente ancora
utili in realtà con poche risorse a disposizione, come
quelle dei PVS. Si passa poi a alla parte più specifica,
definendo il concetto di cecità e ipovisione con i relativi dati epidemiologici, basati sulle stime dell’Oms
sulle cause principali di cecità e danno visivo a livello
regionale e globale. In particolare si fa riferimento al
programma ‘Vision 2020: the right to sight’, per poi
descrivere nei dettagli più specifici le patologie più
frequenti nelle diverse aree geografiche mondiali.
Segue, talvolta fuori orario, una piccola parte pratica
con visione dello strumentario minino. Nella seduta
di chiusura del corso viene fornito a tutti i partecipanti un Cd che contiene tutte le presentazioni e, nello
specifico dell’oculistica, anche una bibliografia di
riferimento generica e specifica comprensiva dei rife-
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rimenti su come reperire la strumentazione di base.
Nel prossimo futuro Medicus Mundi Italia, tramite
Internet, intende avviare un’indagine per avere un
feeback dai partecipanti sul corso e sulla sua utilità
alle luce delle esperienze eventualmente effettuate
nelle missioni internazionali, con l’obiettivo di rendere il programma sempre più mirato e funzionale
alle esigenze degli iscritti.
La raccolta fondi nella cooperazione
internazionale: l’esperienza di Cbm Italia
Luciano Miotto
Direttore nazionale Cbm Italia onlus
Nella cooperazione internazionale, prerequisito
per la sostenibilità nel tempo dei progetti e della
conseguente raccolta dei fondi ad essi destinati è
che ogni flusso di donazioni e contributi verso il
progetto e i suoi beneficiari sia sempre controbilanciato da un flusso opposto di informazioni dal
campo verso i donatori/finanziatori sull’avanzamento del progetto stesso e sui risultati previsti e
ottenuti, affinché chi lo sostiene abbia tutti gli elementi per poter pensare di aver ‘speso’ bene i suoi
soldi e per una giusta causa. Inoltre, per alimentare
un rapporto empatico con i donatori, che rinforzi
la conoscenza e la fiducia nell’organizzazione, è
opportuno avere bilanci certificati, buoni standard
qualitativi, una carta di valori interna, politiche di
integrità e linee guida sulla protezione dei minori:
tutti prerequisiti essenziali per un’Ong, così come
la capacità di trasmettere concretamente la propria
professionalità, la propria efficienza ed efficacia, la
capacità di amministrare bene le risorse ricevute e
la trasparenza nel rendicontare. Occorre poi considerare che esistono diverse tipologie di finanziatori (enti sovranazionali, come Onu, Ue ecc., enti
nazionali, aziende, fondazioni, associazioni), che
richiedono perciò approcci diversi, perché diverse sono le motivazioni a donare e i parametri di
giudizio di ciascuno. A prescindere dalla tipologia,
però, donare è un’esigenza primaria che dà gioia e
soddisfazione intrinseca all’individuo. Rafforzare
la soddisfazione dei nostri donatori attraverso una
comunicazione tempestiva ed empatica dei risultati
ottenuti dai beneficiari della donazione è la chiave
di volta della raccolta fondi.
Christian blind mission (Cbm) è un’Ong internazionale con 11 soci nazionali, che gestisce 115 milioni
di donazioni all’anno e oltre 600 programmi attivi
in più di 60 Paesi svantaggiati. Il sogno condiviso
dei suoi membri è che nessuno debba diventare o
rimanere cieco o disabile solo perché non ha acces-
so alle cure in quanto povero o nato in un Paese
svantaggiato. La forza dell’associazione risiede
nella sua esperienza ultracentenaria (è stata fondata nel 1908), nel fatto di avere partner come l’Organizzazione mondiale della sanità e, soprattutto,
nella fedeltà alla causa e nella fiducia in Cbm dei
donatori persone fisiche, che si traduce in donazioni
e lasciti. Questo è essenziale perché i programmi di
lotta alla cecità, per radicare e diventare sostenibili, richiedono tempi lunghi. Invece, i programmi
di enti governativi e aziende sono di norma annuali, qualche volta biennali e al massimo triennali. È
raro avere alleati che si impegnino a lungo termine
sui programmi di lotta alla cecità. Fanno eccezione
i Lions, con l’iniziativa ‘Sight First’, la campagna della Standard Chartered Bank ‘Seeing is Believing’ e
alcune aziende farmaceutiche. Per riuscire a sostenere nel lungo periodo programmi protratti nel tempo occorrono, quindi, alleati di lungo periodo o una
raccolta fondi da privati che copra almeno il 70-80%
del totale delle donazioni raccolte; inoltre, si deve
gestire la propria organizzazione creando fondi di
riserva, perché, naturalmente, ci sono anni ‘grassi’
e anni ‘magri’, e in questi ultimi i progetti devono
comunque essere alimentati. Cbm Italia può contare
su un totale di 500 mila donatori privati, costruito in
circa 12 anni di attività. Sono tante piccole gocce di
solidarietà che, tutte insieme, formano un ‘possente
oceano’ in grado di finanziare tutti i progetti in corso.
I tempi non sono facili: stiamo entrando nel sesto
anno di crisi globale internazionale e non sappiamo
quando finirà. Nonostante la crisi, i donatori privati
hanno permesso a Cbm di superare il traguardo di
11 milioni di cataratte eseguite, di aiutare nel 2011
36 milioni di persone, di fare 844.674 interventi
chirurgici oftalmici lo scorso anno e, soprattutto,
di guardare al futuro con serenità. Il mondo è cambiato e non sarà più lo stesso, ma Cbm, assieme ad
altre Ong, sarà sempre in prima linea al fianco delle
persone a rischio di cecità e disabilità.
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Far crescere le associazioni con il
fundraising: l’esperienza di Amoa onlus
Irene Severini
Fundraiser di Amoa onlus
L’Associazione medici oculistici per l'Africa (Amoa)
è nata dall’incontro tra due persone, Gianluca Laffi, di Bologna, e Babacar Serge, senegalese, entrambi all’epoca specializzandi in oculistica, che
hanno deciso insieme di creare un ponte tra Italia
e Senegal costruendo un centro oftalmologico a
M’Bour. All'inizio il progetto sembrava irrealizzabile, ma, grazie a una forte determinazione, al
coinvolgimento di diversi colleghi e anche alla collaborazione del governo senegalese, l’11 novembre 1995 il centro ha aperto le porte e ha iniziato
la sua attività ambulatoriale (figura 1).
A 17 anni da allora, Amoa è cresciuta costantemente, ha superato la spinta iniziale che l'ha fatta
nascere ed è andata sempre più consolidandosi.
Oggi quest’associazione è presente in sette Paesi
africani (Cameroun, Etiopia, Madagascar, Rwanda,
Senegal, Togo, Zimbawe) con 11 progetti in ambito
sanitario, oltre che in Italia, dove porta avanti progetti rivolti all’inserimento dei migranti e alla sensibilizzazione dei cittadini. Per lungo tempo i progetti
di Amoa sono stati finanziati e la vita stessa dell'associazione è stata garantita unicamente dai soci e
dai volontari, che hanno permesso all'associazione
di crescere. L’obiettivo è ora quello di raggiungere
un consolidamento e darsi una struttura, basandosi
non più solo sul lavoro dei volontari, senza, tuttavia, perdere la sua identità e quella spinta empatica
iniziale che l'ha fatta nascere e crescere. Per raggiungere tale obiettivo, Amoa ha deciso di seguire
parallelamente tre percorsi differenti: ideazione e
realizzazione di strategie di fundraising, affinché
l'associazione abbia stabilità nel tempo; completamento e coordinamento dell'attività dei volontari,
fondamentale per la realizzazione di iniziative sul
territorio; impegno sul fronte della comunicazione,
mirando a un rinnovamento dell'immagine di Amoa
e a un ampliamento del target di riferimento.
Perché il fundraising abbia successo è essenziale, innanzitutto, semplificare la vita al donatore,
per esempio attivando la domiciliazione bancaria
delle donazioni con RID. In secondo luogo, perché la raccolta fondi funzioni, è importante che
l’associazione abbia un’immagine forte e chiara.
Per Amoa questo ha significato rifare il sito web,
rinnovare il materiale informativo, preparando
brochure di presentazione dell'associazione
ma anche relative a specifici progetti, nonché
reimpostare la comunicazione verso i donatori,
decidendo che cosa dire, come dirlo e, soprattutto, quando. L’esperienza di successo di una
charity anglosassone presa a modello ha insegnato quanto sia importante avere visibilità sul
territorio al fine di ottenere nuovi soci e nuove
donazioni, e ciò significa dare la massima visibilità agli eventi dell’associazione, ottenuta sia tra-
Il centro oftalmologico di M’bour (Senegal)
Figura 1 Due immagini del centro oftalmologico di M’Bour, in Senegal, con la cui apertura Amoa onlus ha iniziato la
sua attività.
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mite la creazione di una check list, che permette
un'organizzazione sempre più fluida ed efficiente
dell'evento stesso, sia svolgendo attività di ufficio stampa, con una comunicazione capillare sul
territorio in cui l'evento ha luogo, sia attraverso
le relazioni con i media partner e le istituzioni.
Il potenziamento del marchio e della visibilità
devono andare, naturalmente, di pari passo con
l'efficienza dell'associazione. A tal fine, Amoa si è
data un regolamento interno, uno strumento estremamente agile e utile, che serve anche a dare agli
operatori indicazioni specifiche su tematiche diverse, per esempio informazioni sulle assicurazioni
sanitarie necessarie nel Paese in cui è attivo un
determinato progetto, su come redigere un format
sullo stato del progetto stesso e sulle necessità rilevate in loco, al fine di fornire aggiornamenti regolari
sullo stato di avanzamento del programma, fino a
come scrivere diari da pubblicare sul sito. Un terzo
insegnamento importante mutuato dall’esperienza anglosassone è, infatti, la necessità assoluta
di trasparenza e, da questo punto di vista, i diari
rappresentano un strumento di restituzione, che
permette ad Amoa di rendere conto ai donatori del
valore concreto del loro contributo.
Una delle sfide che Amoa dovrà ora affrontare è
quella di inserire poco a poco una pianificazione
strategica che guardi al medio-lungo periodo, evitando le dispersioni di risorse e quella creatività un
po’ anarchica che a volte caratterizza le fasi iniziali dell'associazionismo. Questo percorso porterà
Amoa a strutturarsi, senza perdere la propria identità e quella spinta empatica iniziale che l’ha fatta
nascere, crescere e ottenere la stima e la collaborazione di partner importanti come MSD Italia, tra
le aziende, e Cbm Italia, tra le Ong.
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©Benedetta Nicastro
OPHT-1082061-0000-SAFL-PU-05/2015
www.msd-italia.it
www.contattamsd.it
www.univadis.it
[email protected]
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