Ophthalmic Diseases and Healthcare Management in
Transcript
Ophthalmic Diseases and Healthcare Management in
Suppl. al n. 14/2013 di www.pharmastar.it Congress News OphThALMIC DISEASES and hEALThCARE MANAgEMENT IN DEVELOpINg COuNTRIES Roma, 15-16 novembre 2012 Merck-12.indd 1 15/05/13 17:28 Congress News Registrazione al Tribunale di Milano n° 516 del 6 settembre 2007 Direttore Responsabile Danilo Magliano Editore MedicalStar Via San Gregorio, 12 - 20124 Milano [email protected] www.medicalstar.it tel. 02 29404825 Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata o riprodotta anche parzialmente senza l’autorizzazione dell’Editore. Stampa Litograf-arti Grafiche S.n.c. Avvertenze per i lettori L’Editore declina ogni responsabilità derivanti da errori od omissioni in merito a dosaggio o impiego di medicinali o dispositivi medici eventualmente citati negli articoli e invita il lettore a controllare personalmente l’esattezza delle informazioni, facendo riferimento alla bibliografia relativa. Un ringraziamento per l’editing degli articoli al dottor Sergio Primitivo, Oculista AMOA. Servizio scientifico offerto alla Classe Medica da MSD (Italia) S.r.l. Questa pubblicazione riflette i punti di vista e le esperienze degli autori e non necessariamente quelli della MSD (Italia) S.r.l www.msd-italia.it www.contattamsd.it www.univadis.it [email protected] 2 Merck-12.indd 2 15/05/13 17:28 Indice Introduzione p. 4 CATARATTA Consigli per l’organizzazione di un’unità oftalmologica Piet Paul Marie-Andrée Noé Cataratta nei Paesi in via di sviluppo: patogenesi ed epidemiologia Gabriella Parente Training professionale per lo staff locale della chirurgia della cataratta Massimo Di Maita Una via indiana per aumentare il Catarat Surgery Rate Vincenzina Mazzeo Simonini Tecniche chirurgiche per l’intervento di cataratta Luca Avoni Chirurgia della cataratta: indicazioni per la Faco o la Sics Alessandro Pezzola p. 5 p. 6 p. 8 p. 9 p. 9 p. 11 LA SICS step by step Anestesia e set strumentale per la Sics Piet Paul Marie-Andrée Noé Costruzione del tunnel e apertura della capsula anteriore Giuseppe Gaiba Sutura o non sutura? Alessandro Mularoni p. 12 p. 13 p. 15 GLAUCOMA Epidemiologia del glaucoma Mario Angi Differenze tra i glaucomi, confronto tra Paesi sviluppati e PVS Andrea Perdicchi Come porre diagnosi di glaucoma? Quale ruolo per l’hi-tech? Marco Centofanti Ruolo della trabeculoplastica laser. Selettiva o non selettiva? Michele Figus, Chiara Posarelli p. 16 p. 17 p. 18 p. 20 chirurgia del GLAUCOMA La trabeculectomia è il gold standard in Africa? Maria Papadopoulos Ruolo del ciclodiodo e della ciclocoagulazione circolare ad ultrasuoni Roberto Carassa Gestione del glaucoma congenito Maria Papadopoulos La gestione e la chirurgia del glaucoma a Lubumbashi, Congo Gabrielle Chenge p. 22 p. 23 p. 25 p. 26 25° ANNIVERSARio del MECTIZAN DONATION PROGRAM Cecità fluviale: epidemiologia e caratteristiche cliniche Kisito Ogoussan I 25 anni del Mectizan Donation Program: spianare la strada all’eliminazione dell’oncocercosi nel 21° secolo Benedetta Nicastro La distribuzione di Mectizan in Togo Charles Kondi Agb p. 28 p. 30 p. 31 suggerimenti e gestione operativa La politica sanitaria nella cooperazione internazionale decentrata Cecile Kyenge Priorità sanitarie nei Paesi con risorse limitate: il pacchetto sanitario minimo Augusto Cosulich Come preparare un progetto nei Paesi in via di sviluppo Mario Angi Come mettere a punto un’unità oftalmologica Piet Paul Marie-Andrée Noé Il corso della Medicus Mundi Italia: un’esperienza d’insegnamento Vincenzina Mazzeo La raccolta fondi nella cooperazione internazionale: l’esperienza di Cbm Italia Luciano Miotto Far crescere le associazioni con il fundraising: l’esperienza di Amoa onlus Irene Severini p. 33 p. 34 p. 35 p. 37 p. 39 p. 40 p. 41 3 Merck-12.indd 3 15/05/13 17:28 Introduzione Amoa (Associazione medici oculisti per l’Africa) onlus ha organizzato per il secondo anno consecutivo un congresso sulla gestione delle patologie oculari nei Paesi in via di sviluppo (PVS). L’evento è nato per festeggiare il 25° anniversario del programma di donazione dell’ivermectina (Mectizan), farmaco distribuito gratuitamente dall’azienda farmaceutica MSD, che ha permesso il controllo e, in alcune regioni dell’America Centrale, l’eliminazione dell’oncocercosi, patologia parassitaria detta anche ‘cecità fluviale’. Il congresso ha trattato anche due malattie molto diffuse come la cataratta e il glaucoma. Il problema della cataratta è ancora la prima causa di cecità, nonostante la percentuale dei ciechi sia notevolmente diminuita grazie a iniziative come ‘Vision 2020: the right to sight’ e al maggior impegno da parte dei governi locali nell’appoggiare campagne di prevenzione e cura della cecità. Grande importanza è stata data alla tecnica Sics (Small Incision Cataract Surgery), molto diffusa nei PVS perché molto economica e rapida sia nell’esecuzione sia nel recupero visivo da parte del paziente. L’altra malattia molto diffusa nei PVS e in particolare in Africa è il glaucoma, seconda causa di cecità al mondo dopo la cataratta e prima causa di cecità irreversibile. Va ricordato, inoltre, che è ancora alta in tutto il mondo la percentuale di casi di glaucoma non diagnosticati (si parla di un caso su due anche in Italia). Per risolvere il problema diagnostico nei PVS occorre integrare il trattamento del glaucoma all’interno di iniziative già esistenti sulle malattie oculari, dal momento che non esiste ancora uno strumento singolo che permetta, da solo, di porre diagnosi di glaucoma. Un lungo dibattito è stato dedicato alla terapia sia laser sia chirurgica del glaucoma e, seppure non si sia giunti a una conclusione unanime, la trabeculectomia da un punto di vista chirurgico e la trabeculoplastica da un punto di vista medico sono state le tecniche ritenute più utili in un contesto come quello dei PVS. L’ultima parte del congresso ha trattato temi organizzativi e di cooperazione internazionale. Ne è emerso un quadro variegato: se, da una parte, il nostro Paese è in prima linea nella cooperazione internazionale in oftalmologia, con 140 progetti in tutto il mondo, gestiti in primo luogo da Cbm Italia e poi da Amoa e Iapb, è altresì vero che esiste una costellazione di piccole associazioni che contano sulla generosità dei donatori. Si tratta di una realtà a volte frammentata, priva di coordinamento o di una visione strategica di lungo periodo e spesso legata all’iniziativa del singolo. Iniziative come quella di Amoa ed MSD sono volte a creare una rete tra coloro che operano sul territorio, in modo da non disperdere le forze e realizzare un progetto organico, articolato e che possa durare nel tempo. Mi si conceda un ringraziamento e un augurio. Il ringraziamento va a MSD Italia per il sostegno organizzativo ed economico e ai relatori che si sono prestati a confrontarsi sia professionalmente sia umanamente, a titolo gratuito. E l’augurio che faccio a tutti i professionisti del settore è di diventare il più presto possibile inutili, nel senso che i PVS non siano più tali, ma siano diventati Paesi con la stessa disponibilità di risorse dei Paesi sviluppati, non più bisognosi dell’assistenza fornita dai progetti di cooperazione internazionale. Gian Luca Laffi Presidente dell’Associazione medici oculisti per l’Africa (Amoa) 4 Merck-12.indd 4 15/05/13 17:28 CATARATTA Consigli per l’organizzazione di un’unità oftalmologica Piet Paul Marie-Andrée Noé Oculista presso l’ospedale di Kabgayi, Gitarama, Rwanda 2011 *2012 2010 2009 2008 2007 * da gennaio a giugno 2006 2011 *2012 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998 1997 00 1996 10000 10000 2005 20000 20000 In ospedale Interventi sul campo Totale 2004 30000 30000 2003 40000 40000 Interventi chirurgici (in ospedale/sul campo) 2002 50000 50000 4500 4500 4000 4000 3500 3500 3000 3000 2500 2500 2000 2000 1500 1500 1000 1000 500 500 00 2001 Consultazioni (in ospedale/sul campo) 2000 60000 60000 autorità locali, chiese, staff dei centri sanitari ecc.). Ma il fattore più importante è fare un intervento di buona qualità, a prezzi accessibili. Questo secondo obiettivo si può perseguire organizzando unità chirurgiche itineranti, evitando così al paziente i costi del trasporto, applicando tariffe differenziate in base al reddito, offrendo il pagamento a rate e, non da ultimo, evitando la corruzione. È altresì importante che il team oculistico sia responsabile e motivato e che il chirurgo della cataratta sia sempre disponibile. Un esempio virtuoso è quello dell’unità oculistica dell’ospedale di Kabgayi, che ha organizzato un sistema di chirurgia itinerante della cataratta inviando personale sul campo in 15 distretti su 30 del Rwanda. Il modello di intervento prevede diverse fasi. Innanzitutto ci si mette in contatto con le autorità locali, illustrando lo scopo della campagna e definendone i vari aspetti, tra cui quelli economici; si passa quindi alla sensibilizzazione dell’utenza, facendo pubblicità alla radio, nelle chiese e presso i centri sanitari; si invia poi il personale nei centri sanitari dei distretti per la fase di screening, in cui si visitano da 150 a 300 pazienti al giorno e si identificano i casi da operare presso l’ospedale del distretto, dove si eseguono da 150 a 250 interventi a settimana. Da quando è stato avviato questo programma sul campo, nel 2009, sono aumentati notevolmente sia il numero delle visite e delle consultazioni (arrivate a 50 mila all’anno) sia quello degli interventi, che nel 2011 sono stati più di 4.000 e hanno fatto da volano a un aumento delle operazioni anche negli ospedali centrali (figura 1). 1999 In Africa, il numero di interventi di cataratta per milione di individui eseguiti in un anno (Cataract surgery rate) è molto basso: inferiore a 500 (circa 300 in Rwanda) contro 4.000-6.000 nei Paesi occidentali e 1.500-3.000 in India e altri Paesi asiatici in via di sviluppo. Ciò è dovuto alla presenza di molteplici barriere che frenano l’accesso alla chirurgia, in parte legate ai pazienti e in parte all’unità oculistica. Tra le prime, vi sono barriere culturali o legate alla comunità (per esempio paura, discriminazione verso le donne, a cui i mariti non danno il denaro necessario, l’età avanzata e altri ancora), di tipo economico (mancanza di soldi per andare in ospedale e pagare le cure) e anche di tipo informativo (pochi sanno che la cataratta è operabile; incertezza sui costi e sui risultati dell’intervento). Tra le seconde, invece, ci sono problemi legati allo staff (per esempio il fatto che il chirurgo non sia sempre presente rappresenta un deterrente) così come il costo elevato dell’intervento, la scarsità di informazioni fornite ai pazienti e, talora, la bassa qualità della chirurgia praticata. Come abbattere questi ostacoli e attrarre più pazienti? Bisogna, innanzitutto fare una sorta di ‘social marketing’, migliorare la sostenibilità economica dell’intervento e cambiare la mentalità e l’atteggiamento dello staff sanitario. Per esempio, bisogna dare informazioni precise ai pazienti e ai loro familiari sul costo della chirurgia, la durata della degenza, la prognosi e i risultati attesi, nonché usare canali di comunicazione molteplici (annunci in radio, poster appesi nei luoghi pubblici, coinvolgimento di La chirurgia sul campo genera un'ampia domanda e promuove l'immagine dell'unità oculistica Figura 1 Andamento temporale delle consultazioni e degli interventi di cataratta presso l’unità oculistica dell’ospedale di Kabgayi. 5 Merck-12.indd 5 15/05/13 17:28 L’intervento viene eseguito con la tecnica della microincisione manuale (Sics), che ha per i pazienti gli stessi vantaggi della facoemulsificazione (Faco): non crea praticamente astigmatismo, non dà problemi di sutura e permette una riabilitazione precoce. In più, rispetto alla Faco, la Sics ha un costo inferiore, richiede strumentazione semplice e poco costosa, consente un turnover elevato dei pazienti (fino a otto interventi all’ora) e va bene per tutti i tipi di cataratta. Per fare buona pubblicità, e creare quindi un effetto di propagazione della domanda, è essenziale fornire un intervento di alta qualità, che si ottiene eseguendo la cheratometria e l’ecobiometria A-scan pre-operatorie, garantendo la sterilità con guanti nuovi per ogni paziente e un’iniezione intracamerulare di cefuroxime, avendo a disposizione un vitrectomo portatile e sottoponendo i pazienti a un follow-up adeguato, con visite di controllo il giorno dopo la chirurgia e 14 giorni dopo; sono fondamentali, naturalmente, anche un’adeguata selezione dei pazienti, un training continuo del personale e la manutenzione degli strumenti. Infine, è importante una valutazione degli esiti dell’intervento, fattibile oggi con software dedicati, e, in caso di risultato negativo, l’analisi delle cause dell’insuccesso, che può essere dovuto a una selezione inadeguata dei casi, a complicanze o a problemi di rifrazione. Cataratta nei Paesi in via di sviluppo: patogenesi ed epidemiologia Gabriella Parente Oculista di Amoa onlus La cataratta e la degenerazione maculare senile sono le più importanti cause di danno visivo e di cecità in tutto il mondo. Entrambe le condizioni, come è noto, sono strettamente legate all’invecchiamento e comprenderne i meccanismi patogenetici può essere utile per prevenire o ritardare l’esordio della malattia. Il cristallino è una lente che ha la funzione di trasmettere, filtrare e focalizzare i raggi sulla retina e che deve la sua trasparenza a un’alta concentrazione e un orientamento molto regolare di alcune proteine strutturali: le α, β e γ cristalline. La componente cellulare della lente è costituita da un unico strato di cellule epiteliali situate sulla sua superficie anteriore, sotto la capsula, che si dividono attivamente e nella zona equatoriale si differenziano in cellule allungate, le quali, a loro volta, si trasformano in fibre anucleate che si compattano all’interno del cristallino. La cataratta è dovuta a una progressiva opacizzazione del cristallino legata a variazioni strutturali della lente o a un’alterazione della sua omeostasi. Può essere dovuta, per esempio, a un’alterazione della densità proteica a causa dell’aggregazione delle proteine o, al contrario, a fenomeni di degradazione delle proteine danneggiate che si accumulano nel corso della vita. Questa disomogeneità determina un’alterazione dell’indice di rifrazione della lente e, quindi, fenomeni di light-scattering che ne riducono la trasparenza. Inoltre, si può avere un’inibizione del differenziamento delle cellule epiteliali che, invece di trasformarsi in fibre, migrano verso il polo posteriore della lente e lì proliferano, dando origine a una cataratta posteriore subcapsulare. L’eziologia della cataratta ben si concilia con la teoria dell’invecchiamento basata sui radicali liberi, in base alla quale l’invecchiamento e le patologie ad esso correlate, tra cui anche la cataratta, sono il risultato di un danno cellulare indotto dalle specie reattive dell’ossigeno (ROS), i radicali liberi, prodotti per il 90% dai mitocondri, ma anche di origine esogena. Tra le fonti esterne di ROS vi sono il fumo di tabacco, la radiazione solare e i combustibili organici. Il cristallino, di per sé, è dotato di meccanismi di difesa contro i ROS: potenti sistemi antiossidanti costituiti principalmente da vitamina C (presente in concentrazioni 30-50 volte superiori a quella plasmatica), ma anche vitamina E, carotenoidi, glutatione e alcuni minerali come il selenio. Si è ipotizzato, dunque, che la cataratta possa essere legata a un fallimento di questi sistemi protettivi e si è pensato alla possibilità di rallentare l’invecchiamento del cristallino e prevenire la malattia per via farmacologica, aumentando le difese antiossidanti della lente. Già nel 2001, lo studio AREDS ha dimostrato l’efficacia di dosi elevate (circa 10 volte la dose giornaliera raccomandata) di un mix di vitamine (C, E, A più il suo precursore betacarotene) e zinco nel ridurre del 25% la progressione a 5 anni della malattia. Lo stesso trial, tuttavia, non ha mostrato benefici nella riduzione del rischio di sviluppare la cataratta. Se non è possibile prevenirla agendo sull’età, che è il principale fattore di rischio, si può tuttavia inter- 6 Merck-12.indd 6 15/05/13 17:28 Cause di cecità nel mondo Non determinate 21% Cataratta 51% Tracoma 3% Retinopatia diabetica 1% Errori refrattivi 3% Cecità infantile 4% Opacità corneali 4% glaucoma 8% AMD: degenerazione maculare senile AMD 5% Fonte: Oms 2010 Figura 1 venire sugli altri fattori di rischio come il fumo, che triplica il rischio di cataratta nucleare perché è una fonte esogena di ROS e provoca una deplezione degli antiossidanti endogeni, oltre all’accumulo di alcuni minerali come cadmio e piombo all’interno della lente. Anche l’esposizione ai raggi UV è un moderato fattore di rischio, soprattutto se avviene in età molto precoce, così come l’utilizzo di combustibili organici, che è molto diffuso nei Paesi in via di sviiluppo (PVS). Diversi studi epidemiologici mostrano come la combustione di carbone e legna, molto utilizzata nei PVS a scopo domestico, sia responsabile di affezioni respiratorie e anche di un aumento del rischio di cataratta. Altro fattore di rischio è, poi, la compresenza di patologie sistemiche quali diabete, ipertensione, stati di grave disidratazione e diarrea, obesità e di patologie oculari come la miopia o l’utilizzo di terapie prolungate con cortisone. Infine, anche la genetica sembra avere una certa importanza, sebbene non sia stato individuato un gene specifico associato allo sviluppo della malattia, ma è probabile che siano invece coinvolti più loci. Gli studi di genetica potrebbero aiutarci a individuare le popolazioni più a rischio di sviluppare la cataratta, che potrebbero quindi modificare quei comportamenti (come il fumo e l’esposizione agli UV) noti per contribuire all’opacizzazione del cristallino. Ma quanto è importante, oggi, il problema della cataratta? In base a stime recenti (2010) dell’Organizzazione mondiale della sanità, questa malattia è la prima causa di cecità in tutto il mondo (figura 1) e le prospettive per il futuro sono quelle di un aumento della sua prevalenza. Nei prossimi 20 anni, infatti, si prevede un incremento di circa un terzo della popolazione mondiale e, nello stesso arco di tempo, un raddoppio del numero degli ultra 65enni. È facile immaginare, dunque, che in parallelo aumenterà notevolmente anche l’incidenza della cataratta, e con essa la necessità di implementare campagne per facilitare l’accesso alla chirurgia. Il problema riguarderà sia i Paesi sviluppati, dove i sistemi sanitari si stanno già organizzando in tal senso, sia, soprattutto, i PVS, dove, alle note difficoltà di accesso all’intervento, si sommano anche fattori ambientali e genetici che concorrono ad aumentare la frequenza della malattia. È per questo che, già nel 1999, l’International agency for the prevention of blindness (Iapb), ha lanciato l’iniziativa globale ‘Vision 2020: the right to sight’, mirata a eliminare le cause di cecità evitabile entro il 2020. Eliminare la cecità dovuta alla cataratta è una delle maggiori sfide del 21° secolo a livello di salute pubblica ed è indubbio che il peso maggiore per risolvere il problema sarà sostenuto soprattutto dai PVS. 7 Merck-12.indd 7 15/05/13 17:28 Training professionale per lo staff locale della chirurgia della cataratta Massimo Di Maita Oculista di Amoa onlus In Etiopia ci sono circa 1,2 milioni di abitanti affetti da cecità, nella stragrande maggioranza dei casi (circa un milione) dovuta a cause evitabili, e c’è un solo oculista per milione di abitanti, mentre le strutture oculistiche al di fuori della capitale Addis Abeba sono poche o addirittura assenti. Per migliorare il quadro, l’Associazione medici oculisti per l’Africa (Amoa) ha avviato nel 2010 un progetto quinquennale nel sud dell’Etiopia, la zona più povera del Paese, nella cittadina di Dubbo presso il St. Mary Hospital, su richiesta dello stesso ospedale. Gli obiettivi chiave dell’iniziativa di Amoa sono in primo luogo fornire assistenza diretta con i propri operatori alla popolazione locale (come tutte le altre organizzazioni affini) di natura sia ambulatoriale sia chirurgica, ma anche addestrare personale locale e poi collaborare con le istituzioni accademiche e governative del Paese ospite. Innanzitutto, si è allestito un ambulatorio stabile, aperto 365 giorni l’anno, provvisto di tutto il necessario per una visita oculistica completa e presso il quale vengono distribuiti occhiali (donati da privati o associazioni come i Lions) e farmaci (antibiotici, colliri, anti-glaucoma ecc., forniti gratuitamente da diverse aziende farmaceutiche), anche in assenza del personale Amoa, non presente costantemente sul posto. Si è poi attrezzata una piccola sala operatoria all’interno di una dental room, comprando in loco un modestissimo microscopio operatorio e facendo arrivare gli strumenti chirurgici per gli interventi di cataratta e glaucoma, forniti sempre da Amoa. Si è quindi avviato uno screening sul territorio (nelle scuole, nei villaggi e nelle piccole comunità) con l’ausilio di lampade a fessura portatili, tonometri portatili e ottotipi. Sul fronte del training del personale locale, sono stati selezionati alcuni infermieri tra i dipendenti del St. Mary Hospital, poi affiancati al personale Amoa che ha fornito loro l’addestramento teorico e pratico ambulatoriale necessario per potersi avvicinare all’oftalmologia. Valutando con attenzione la loro competenza, la loro attenzione e il loro interesse, gli infermieri selezionati sono stati quindi introdotti nella sala operatoria per familiarizzare con le conoscenze e le procedure della chirurgia oftalmica, sempre nel rispetto della giurisdizione locale, che richiede agli infermieri un titolo perché possano esercitare legalmente sul paziente qualsiasi atto chirurgico e non (figura 1). In Etiopia, in particolare, gli infermieri possono specializzarsi in oftalmologia con un anno di studio e con altri 3 anni diventare chirurghi della cataratta e delle palpebre. Amoa ha anche dato il supporto economico per la formazione di un infermiere specializzato per il 2012 e di un altro per il 2013, in modo da garantire la presenza costante di un elemento, seppure non oculista, scelto e sostenuto economicamente da Amoa, ma integrato all’interno dell’ospedale, nel quale certamente rimarrà a esercitare, essendo già dipendente della struttura. Nel contempo, l’associazione ha stabilito un rapporto molto stretto di collaborazione con l’Università di Addis Abeba, e precisamente con la banca degli occhi della clinica oculistica, con la quale si è siglato un contratto che prevede l’invio ciclico presso il St. Mary Hospital di specializzandi in oftalmologia, al fine di garantire una presenza permanente nell’area e la possibilità per questi medici di avere un contratto d’impiego da parte dell’ospedale. In questo modo, Amoa spera, nell’arco di 5 anni, di riuscire ad avere almeno un oculista e un paio di chirurghi esperti in cataratta operanti in questa struttura. Figura 1 Addestramento del personale locale in sala operatoria presso il St. Mary Hospital di Dubbo, in Etiopia. 8 Merck-12.indd 8 15/05/13 17:28 Una via indiana per aumentare il Catarat Surgery Rate Vincenzina Mazzeo Simonini Medicus Mundi Italia In India, così come negli altri Paesi in via di sviluppo (PVS), la cataratta è la prima causa di cecità evitabile e l’incidenza della malattia è in crescita. Per combattere il problema e aumentare il Cataract Surgery Rate, cioè il numero di interventi di cataratta per milione di individui eseguiti in un anno, alcune delle strutture sanitarie impegnate nel progetto ‘Vision 2020: the right to sight’ hanno adottato un sistema capillare di reclutamento dei pazienti sul territorio, basato sulla creazione di missioni (chiamate ‘camp’) itineranti. Il Sankara Eye Care Institute, che raggruppa 9 ospedali oftalmici distribuiti in varie aree del Paese, invia il proprio personale nei villaggi della zona a fare la selezione dei casi da operare, che vengono poi trasportati in pullman fino all’ospedale. L’intervento si esegue in genere in day hospital; solo coloro che abitano troppo lontano vengono trattenuti per una notte. Una volta arrivati al centro, i pazienti vengono preparati per la chirurgia, visitati di nuovo dagli oculisti, lavati, puliti, sottoposti alle valutazioni pre-operatorie del caso, come la biometria per il calcolo del potere diottrico del cristallino artificiale da impiantare, e quindi operati con la tecnica della ‘Small incision sutureless cataract surgery’ (Siscs). La procedura prevede la creazione di un tunnel a tenuta ottenuto con una microincisione manuale e un’estrazione extracapsulare con impianto di lentina intraoculare. Dopo l’intervento, i pazienti vengono rivestiti, a metà pomeriggio si serve il tè, vengono loro fornite tutte le istruzioni post-operatorie necessarie, alle 18.30 cenano e, infine, vengono dimessi e riportati a casa con il pullman la sera stessa o, eventualmente, il mattino successivo. Con questo sistema, presso il Sankara Eye Hospital di Coimbatore (Tamil Nadu), per esempio, cinque chirurghi che intervengono su 10 tavoli operatori riescono a effettuare fino a 200 interventi al giorno. Si tratta, insomma, di un preciso protocollo estremamente produttivo, grazie al quale il Sankara Eye Care Institute, nel periodo 2011-2012, è riuscito ad aumentare del 17% il numero di interventi praticati presso otto dei propri centri. Tecniche chirurgiche per l’intervento di cataratta Luca Avoni Dirigente U.O. Oculistica Ospedale Maggiore di Bologna, Responsabile della Banca delle Cornee dell’Emilia Romagna La chirurgia della cataratta, è, come noto, antichissima e si praticava già ai tempi degli Egizi, intorno al 2700 a.C., con la reclinatio lentis. Nel 1961 Krawicz ha introdotto l’estrazione intracapsulare (Icce), seguita poi dall’estrazione extracapsulare (Ecce) e dalla facoemulsificazione (Faco). La reclinatio lentis è una tecnica nella quale veniva introdotto un ago all’interno dell’occhio e si spostava il cristallino in camera vitrea, con tutte le possibili complicanze del caso (da quelle infettive a quelle flogistiche); a volte, tuttavia, la procedura funzionava e si è mantenuta in uso a lungo, fino al Medioevo. Nel 1947 Harold Ridely ebbe la prima intuizione geniale di sostituire il cristallino asportato con un’altra lente per non lasciare l’occhio afachico, impiantando il primo cristallino artificiale. Alcuni piloti di aereo che avevano combattuto durante la II Guerra Mondiale avevano schegge del parabrezza dell’aereo all’interno degli occhi, senza reazioni di alcun tipo. Si pensò allora che il materiale dei parabrezza potesse essere compatibile con l’utilizzo intraoculare e in effetti lo era, tant’è vero che per molti decenni è stato l’unico impiegato per la costruzione dei cristallini artificiali. Altra intuizione pioneristica è stata quella dell’oculista americano Charles Kelman, padre della Faco, che alla fine degli anni ‘60, andando dal dentista, ebbe l’idea di utilizzare gli ultrasuoni anche nell’intervento di cataratta, per emulsionare il cristallino e aspirare il materiale emulsificato senza dover praticare una grossa incisione. La Icce, che prevede la rimozione del cristallino e della sua capsula in toto, è una tecnica in cui si pratica un’ampia incisione corneale, seguita dall’estrazione della lente con pinze, erisigrafo o crioestrattori, e quindi dalla sutura della ferita. Anche 9 Merck-12.indd 9 15/05/13 17:28 se oggi è usata per lo più per la rimozione delle cataratte sublussate, questa tecnica è stata quella di scelta dalla fine degli anni ’60 fino ai primi anni ’80, dopodiché ha perso progressivamente popolarità. È, infatti, più invasiva rispetto ad altre, con un maggior rischio di complicanze e con lo svantaggio dell’assenza di supporto capsulare in caso si decida di impiantare una lentina intraoculare (Iol). Successivamente alla Icce è stata introdotta la Ecce, prima nella variante convenzionale, in cui si pratica un taglio grande (10-12 mm), e poi in quella caratterizzata da una microincisione (Sics). La Ecce convenzionale prevede un’ampia incisione corneale, seguita dall’iniezione di viscoelastico in camera anteriore e poi da una capsuloressi; si effettua quindi l’idrodissezione, si asporta il nucleo e si aspirano le masse residue, dopodiché si procede a impiantare la Iol nel sacco e poi si sutura la ferita. La Sics non è altro che una variante della Ecce in cui si fa una sutura nel retto superiore, si pinza la congiuntiva a circa 8 mm dal limbus e si passa quindi la sutura nel retto superiore. Si esegue poi una peritomia congiuntivale da ore 11 a ore 2, si inseriscono le forbici nello spazio subperitomiale e si scolla la congiuntiva, esponendo la sclera. Molto importante, poiché in seguito non si danno punti di sutura, è creare un tunnel sclero-corneale a tenuta, che consente di effettuare una ferita autochiudente creando un taglio sclerale esterno su un piano differente da quello interno. In particolare, si utilizza un bevel-up angolato, facendo un’incisione perpendicolare alla sclera al 50% dello spessore, a 2 mm dal limbus, creando un tunnel sclerale di 6-7 mm parallelo alla superficie oculare, estendendolo per circa 2 mm in cornea chiara senza entrare in camera anteriore. Per favorire l’estrazione del nucleo, inoltre, il tunnel deve avere l’apertura dentro la cornea più larga di quella sclerale. Il completamento del tunnel si ottiene aprendo la camera anteriore con un tagliente e iniettandovi visocoelastico. La successiva capsuloressi può essere curvilinea (circa 6 mm) oppure triangolare e si può fare con ago. Si passa quindi all’idrodissezione. Per mobilizzare il nucleo e separarlo dalla corteccia si usa una cannula di Simcoe, irrigando all’interno del sacco e posteriormente al nucleo finché il polo superiore del nucleo stesso emerge dal sacco in camera anteriore. Si forma un piano di clivaggio tra il nucleo e l’iride finché la lente è totalmente in camera anteriore. Per l’estrazione del nucleo, occorre accertarsi dell’adeguata dimensione del taglio sclerale in rapporto alle dimensioni del nucleo stesso, bisogna poi tenere la sclera vicina al taglio con una pinza congiuntivale, inserire la cannula dietro al nucleo a ore 6 favorendone l’espulsione attraverso il tunnel tramite l’irrigazione (si può usare anche viscoeleastico prima dell’estrazione per evitare danni all’endotelio) e ci si può aiutare esercitando una leggera contropressione con la cannula (figura 1). Dopo aver aspirato le masse residue corticali con la cannula, si riforma la camera anteriore con aria, si prende la lente con una pinza e la si inserisce nel sacco capsulare. Per la chiusura della ferita occorre rimuovere l’aria o il viscoelastico, mentre il tunnel, come ricordato sopra, non richiede sutura. Si pratica infine un’iniezione sottocongiuntivale di desametasone e gentamicina. L’attuale tecnica standard è, tuttavia, la Faco, che prevede la creazione di un tunnel di dimensioni differenti rispetto alla Sics (1,8, 2,2 e 2,8 mm), l’introduzione del viscoelastico in camera anteriore, la capsuloressi, l’idrodissezione, la facoemulsificazione della cataratta, l’aspirazione delle masse e, da ultimo, l’impianto della lente artificiale. La Faco è oggi preferita alla Sics nei Paesi industrializzati per la sua maggiore sicurezza, per l’incisione più piccola e per il minore rischio infettivo. Nei PVS, tuttavia, l’estrazione extracapsulare è stata ed è ancora la tecnica di prima scelta, soprattutto grazie al minor costo della strumentazione e dei materiali. Le cose, però, stanno cambiando. Grazie alla riduzione dei costi delle attrezzature, la Faco potrebbe prendere sempre più piede a scapito della Ecce anche in queste zone del mondo. Figura 1 Estrazione del nucleo durante l’intervento di Sics. 10 Merck-12.indd 10 15/05/13 17:28 Chirurgia della cataratta: indicazioni per la Faco o la Sics Alessando Pezzola Una sola vita onlus Le tecniche chirurgiche oggi più in uso su scala mondiale per l’intervento di cataratta sono la chirurgia extracapsulare con microincisione (Sics) e la facoemulsificazione (Faco). Gli studi clinici dimostrano che i risultati delle due metodiche sono abbastanza sovrapponibili sia in termini di recupero di acuità visiva sia di complicanze. Ognuna ha pro e contro (tabella 1), ma, se si valuta il rapporto costi-benefici, appare chiaro che in una realtà come quella dei Paesi in via di sviluppo (PVS) la Sics è in genere preferibile alla Faco, perché più veloce e fino a 10 volte meno costosa, a parità di efficacia e sicurezza. velocemente estraendo tutta la cataratta, con l’aspirazione della corticale in tempi brevissimi. Al contrario, in caso di cataratta intumescente, ipermatura e pediatrica, entrambe le tecniche sono valide, anche se il facoemulsificatore permette una maggiore rapidità di esecuzione, a patto che non sia presente un nucleo centrale duro e gommoso (come accadde talora nella cataratta ipermatura) che potrebbe creare problemi. In Indonesia, dove Una sola vita onlus ha attivato un progetto di cooperazione, è frequente la cataratta post-uveitica dell’adolescente, per la quale le tecniche extracapsulari come la Sics sono molto più indicate rispetto alla Faco. Dal punto di vista delle indicazioni, invece, la Faco ha alcuni limiti nel trattamento della cataratta molto dura, che costituisce il 70-80% dei casi di cataratta in questi Paesi; inoltre, tale tecnica non è indicata in presenza di una cataratta sublussata, mentre la Sics non è adatta alla cataratta collosa, che si fatica a estrarre con l’uncino. Va ricordato che in Africa, spesso, l’oculista si trova di fronte a cataratte complicate in occhi molto delicati per quanto concerne capsula, legamento e strutture oculari, perché, a parità di spessore corneale sclerale, le cornee africane e anche asiatiche sono più fragili (e quelle asiatiche anche più piccole) rispetto a quelle europee. In caso di cataratta dura, grossa e consistente, la Sics è più facile della Faco perché l’impiego del facoemulsificatore è complesso, mentre l’utilizzo dell’uncino permette di eseguire l’intervento molto Bisogna ricordare, infine, che nelle missioni brevi nei PVS è necessario cercare di non lasciare mai dietro di sé complicanze, specie se, terminata la missione, non c’è personale locale che possa seguire questi pazienti, i quali non potranno essere sottoposti a un’ulteriore chirurgia né a una terapia medica, perché non possono sostenere nemmeno il costo di un antinfiammatorio (necessario, per esempio, nel caso di un nucleo caduto dal vitreo) o di un antiglaucoma. Se si sceglie di insegnare la Faco, è consigliabile iniziare con i casi più facili e, soprattutto, iniziare dalla fine del caso chirurgico (teach ‘from the end’) perché, ad esempio, la rottura di una capsula non rappresenta un grosso problema verso la fine dell’intervento, al momento dell’inserzione del cristallino artificiale, ma è ben più complicata da gestire se si verifica all’inizio, durante la fase di idrodissezione. Sics e Faco a confronto Sics Faco PRO PRO Procedura facile; non richiede sutura; piccola incisione; molto economica; non necessita di autoclave; possibilità di usare strumenti monouso; facile da insegnare CONTRO Richiede dissezione congiuntivale; frown incision; strumentazione delicata; non molto ‘attraente’ (?) Tecnica moderna, ben conosciuta; vitrectomia anteriore CONTRO Costosa; necessita di autoclave; lenti pieghevoli; tirocinio difficile Tabella 1 I vantaggi e gli svantaggi della Sics e della Faco. 11 Merck-12.indd 11 15/05/13 17:28 LA SICS step by step Anestesia e set strumentale per la Sics Piet Paul Marie-Andrée Noé Oculista presso l’ospedale di Kabgayi, Gitarama, Rwanda Per l’intervento di Sics possono essere praticati diversi tipi di anestesia locale (retrobulbare, peribulbare, sottotenoniana e topica) ciascuno con dei pro e dei contro e, in alcuni casi specifici, anche l’anestesia generale (tabella 1). Alcuni, tuttavia, sono migliori di altri. Presso l’ospedale di Kabgayi, in Rwanda, di solito si impiega l’anestesia retrobulbare che è molto semplice e dà un blocco totale anche se non mancano le complicanze. La peribulbare e la sottotenoniana presentano meno rischi, ma in Africa sono meno utilizzate. L’anestesia topica non è adatta a setting con un alto volume di interventi e necessita di una buona comunicazione con il paziente (che spesso, in contesti come Kabgayi, non parla la stessa lingua del medico) per cui non è mai utilizzata. L’anestesia generale si usa, invece, nei pazienti con ritardo mentale e nei casi di cataratta congenita. Il blocco retrobulbare si pratica iniettando con un ago da 23G da 2,5 a 5 ml di xilocaina al 2% e ialuronidasi 25 UI/ml al paziente in posizione seduta o supina. A volte è necessario anche il blocco facciale (con la tecnica di O’Briens) e in tal caso la procedura riguarda la parte sotto orbitale; bisogna, inoltre, esercitare una delicata pressione sull’occhio e fare molta attenzione a evitare l’iniezione endovascolare. La strumentazione necessaria per l’intervento comprende, innanzitutto, un telo sterile su cui sono poste le coperture del microscopio, la pinza per il retto superiore e il porta aghi con filo di sutura, le pinze da fissazione e le forbici congiuntivali. Servono quindi un cauterio con un terminale sferico per la cauterizzazione dei vasi episclerali e una lama da 15 con rispettivo portalama per la prima fase dell’incisione sclerale del tunnel. Si utilizzano poi uno specifico tipo di bisturi per la seconda fase dell’incisione del tunnel e il cheratotomo per la perforazione della camera anteriore (la terza fase), per poi iniettare le sostanze viscoelatiche. Servono quindi un cistotomo o pinze per capsuloressi, una cannula da idrodissezione (da 25G con un’angolazione di 45°), un uncino di Sinskey per ottenere il prolasso del nucleo nella camera anteriore, un manico per irrigazione per l’estrazione del nucleo, una cannula di Simcoe per l’aspirazione della corteccia e, infine, un forcipe per l’impianto della lente intraoculare e forbici intraoculari per la capsulotomia; alla fine si pratica un’iniezione intracamerulare di cefuroxime e si iniettano desametasone e gentamicina a livello sottocongiuntivale, soprattutto in caso di edema. Inoltre, specie se il chirurgo è alle prime armi, è consigliabile utilizzare i calibri per misurare tutte le distanze. Tipi di anestesia locale praticabili per la Sics TIPO DI ANESTESIA LOCALE PRO CONTRO Retrobulbare Veloce Semplice Completa Complicanze possibili: emorragia retrobulbare tossicità dell’anestetico perforazione del globo Peribulbare Meno rischi di complicanze Meno completa Sottotenoniana Meno rischi Meno veloce Più chemosi Topica Meno rischi Necessaria una buona comunicazione con il paziente Impossibile con alti volumi Tabella 1 Vantaggi e svantaggi dei diversi tipi di anestesia locale praticabili per la Sics. 12 Merck-12.indd 12 15/05/13 17:28 Costruzione del tunnel e apertura della capsula anteriore Giuseppe Gaiba Direttore Oculistica Ospedale di Faenza (Ra) Negli interventi di cataratta, una chirurgia tecnologicamente avanzata determina un recupero più rapido del paziente. Nei Paesi in via di sviluppo (PVS) questo risultato va ottenuto al minor costo possibile, con strumenti semplici, con poche complicanze e con la possibilità di far eseguire l’intervento a personale locale. Se è vero, quindi, che la Faco è attualmente ritenuta il gold standard, la Sics, una forma di Ecce molto avanzata che permette di ottenere risultati comparabili alla Faco, rappresenta senz’altro un’eccellente alternativa che soddisfa tutte le condizioni sopra esposte. Questa tecnica è sempre più diffusa nei PVS perchè molto economica e rapida sia nell’esecuzione sia nel recupero visivo da parte del paziente. Se si analizzano le statistiche, si vede che da quando è stata ufficialmente introdotta ad oggi, ogni anno il numero di pazienti operati è andato aumentando, da 16 mila a oltre 50 mila all’anno. Per ottenere i risultati voluti è necessaria una notevole precisione e, anche per i chirurghi più esperti, è da prevedere una piccola curva di apprendimento. Nell’ambito di questa metodica, l’incisione e la costruzione del tunnel sono di importanza essenziale. Costruzione del tunnel Le attuali linee guida per ottenere un’incisione il più possibile autochiudente e anastigmogena, prevedono di centrare, se possibile, l’incisione sul meri- diano più refrattivo; dicono, inoltre, che un’incisione più lunga produce un maggiore astigmatismo, mentre un’incisione posteriore ne limità l’entità. I tunnel sclerali, in generale, riducono l’astigmatismo indotto e forniscono una superficie più ampia di guarigione, per cui sono più stabili dal punto di vista refrattivo. Le linee guida affermano, inoltre, che solo la creazione di un tunnel sclero-corneale corretto, esteso per circa 1-2 mm in cornea chiara, porta a una ferita autochiudente. Le tipologie di incisione che meglio rispondono a queste esigenze sono due: • la prima è la frown incision, cioè un solco parabolico convesso verso il limbus con il centro a 1,52 mm dietro al limbus e una corda di circa 6-7 mm di lunghezza (figura 1). • La seconda è la straight scratch incision, un taglio dritto di 5-6,5 mm di lunghezza a 1,5 mm dal limbus, con estensioni a entrambe le estremità che si proiettano posteriormente creando delle tasche laterali. La linea dell’incisione deve essere fatta abitualmente a ore 12 e la dimensione desiderata del bordo esterno va misurata in modo preciso con un calibro e segnata dietro al limbus. Una cauterizzazione sclerale prima della creazione del tunnel è utile per evitare l’ipoema pre- e postoperatorio. Per incidere il tunnel servono strumenti Figura 1 La frown incision. 13 Merck-12.indd 13 15/05/13 17:28 ben affilati e l’incisione può essere facilitata stabilizzando la sclera con pinze chirurgiche idonee, da usare con grande attenzione sui bordi dell’incisione per evitare danni al tunnel. Naturalmente, il piano di incisione deve essere parallelo al piano sclerocorneale. Il chirurgo dovrà valutare la profondità dell’incisione sclero-corneale in base al grado di penetrazione del tagliente rotondo (crescent knife) durante l’incisione. Se si rimane troppo in superficie, infatti, si rischia di creare una lesione del bordo superiore, mentre se si va troppo in profondità nella sclera si potrebbe creare una perforazione verso l’angolo della camera anteriore (un’entrata prematura), che potrebbe poi portare a complicanze come trauma irideo, iridodialisi, prolasso irideo e la mancata chiusura del tunnel. Un’eventuale entrata prematura si può gestire facendo una dissezione più superficiale all’estremità opposta del tunnel e, alla fine, suturando la ferita. Quanto deve essere grande il tunnel? La pianificazione delle sue dimensioni dipende dalla stima delle dimensioni del nucleo. Un nucleo immaturo in un paziente giovane necessita di un tunnel più piccolo (può avere le stesse dimensioni della lente intraoculare), mentre un nucleo grande in un paziente di età avanzata generalmente ha bisogno di un tunnel molto esteso, con un’apertura che arriva a 8-9 mm, e ciò fa capire le possibili difficoltà di esecuzione di una tale apertura con caratteristiche autochiudenti. Apertura della capsula anteriore L’apertura della capsula anteriore può essere effettuata in tre modi: una capsuloressi curvilinea; una capsulotomia can opener ( con tante incisioni successive ad ‘apriscatole’); una tecnica envelope. Quando si utilizza la capsuloressi, occorre effettuare un’apertura molto larga perché, chiaramente, occorre sempre permettere al nucleo di prolassare con facilità in camera anteriore. Se ciò non dovesse avvenire, occorre effettuare due incisioni rilassanti laterali, che però aumentano leggermente il rischio di avere una complicanza e, comunque, tolgono gran parte della sicurezza di aver effettuato una ressi curvilinea. L’apertura in casi difficili può essere effettuata con l’uso di un colorante, di solito il blu di metilene facilmente reperibile. L’incisione can opener prevede l’uso di un cistotomo che effettua una serie di aperture contigue (ad apriscatole); è molto semplice da effettuare, ma implica un maggiore rischio di fughe e di complicanze posteriori. Infine, la tecnica envelope è caratterizzata da un’apertura superiore ‘a busta’, un ottimo compromesso che permette di far fuoriuscire nuclei di ogni dimensione in modo rapido e con protezione endoteliale; questa tecnica è quella prescelta dal dottor Henning, autore di oltre 250 mila interventi ed esperto mondiale di Sics. In ogni caso, aperture ampie e precise, l’uso di sostanze viscoelastiche e un’accurata idrodissezione permetteranno di ridurre i rischi di complicanze. Sutura o non sutura? Alessandro Mularoni Oculista di Amoa onlus Nella chirurgia della cataratta il successo del risultato è determinato dall’efficacia e dalla sicurezza della tecnica usata, dai risultati visivi, ma anche da tempi operatori e costi. Le tecniche chirurgiche esaminate, la Sics (estrazione extracapsulare della cataratta con una piccola incisione) e la Faco (facoemulsificazione) non prevedono di routine l’uso della sutura, influendo positivamente sul risultato visivo, sui costi e sulla durata dell’intervento. È necessario, però, specificare che prima di concludere l’intervento è opportuno verificare la buona tenuta del tunnel sclerale o corneale. In caso contrario, è necessario apporre la sutura, per evitare di dover riportare il paziente in sala operatoria nei giorni successivi, rendendo vano il tempo risparmiato nell’atto chirurgico. Confrontando le due tecniche chirurgiche è evidente come la Faco sia più costosa e meno rapida rispet- to alla Sics, ma può risultare sorprendente come lavori scientifici, condotti in India (Gogate et al., 2010) e in Nepal (Ruit et al., 2007) con casistiche molto numerose, rivelino che la Faco e la Sics siano praticamente sovrapponibili in termini di efficacia, sicurezza e risultato visivo (figura 1). In particolare, da questi studi emerge come non vi siano differenze statisticamente significative tra le due tecniche, sia in termini di acuità visiva postoperatoria, naturale e corretta, sia in termini di perdita di cellule endoteliali corneali. Inoltre, uno studio condotto presso l’Aravind Eye Hospital di Madurai (Haripriya et al., 2012) evidenzia che la frequenza di complicanze intraoperatorie è bassa ed equivalente nella Sics e nella Faco, se eseguite da mani esperte, mentre è significativamente più alta nella Faco nel caso di chirurghi in training e ciò rende la Sics una tecnica più sicura per i chirurghi ancora inesperti. Tutti que- 14 Merck-12.indd 14 15/05/13 17:28 sti dati confermano l’importanza e la validità della Sics non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma tutte percentuale di pazienti (%) 90 85,2% le volte in cui il chirurgo oculista si trova davanti a cataratte molto dense, con nuclei duri e larghi. 88,9% 80 Faco Sics 70 53,7% 60 50 31,5% 40 30 14,8% 20 10 0 20/20-20/60 20/20-20/30 9,3% 20/20 Acuità visiva post-operatoria non corretta a 6 mesi Figura 1 Confronto di efficacia tra Faco e Sics nello studio di Ruit et al., in Nepal. 15 Merck-12.indd 15 15/05/13 17:28 gLAuCOMA Epidemiologia del glaucoma Mario Angi Presidente Cbm Italia onlus Il glaucoma può essere definito come un insieme di patologie oculari caratterizzate da un’accelerata perdita di assoni nel nervo ottico e può essere suddiviso a seconda dell’aspetto anatomico dell’angolo irido-corneale in glaucoma ad angolo aperto (la forma più frequente, responsabile di oltre il 60% dei glaucomi dell’adulto) o glaucoma ad angolo chiuso. Segni clinici caratteristici della malattia sono l’aumento dell’escavazione del nervo ottico e il restringimento progressivo del campo visivo, che può portare alla cecità nei casi più gravi. La diagnosi precoce del glaucoma è essenziale per prevenire la diminuzione della vista e la cecità, ma la malattia presenta alcune difficoltà diagnostiche in quanto la misura della pressione endoculare e del rapporto tra superficie del disco e superficie dell’escavazione sono variabili continue, senza punti netti di separazione tra condizione normale e patologica per poter discriminare tra occhi normali e glaucomatosi. Inoltre, il difetto del campo visivo molto spesso non è rilevabile prima che il 30% delle fibre del nervo ottico sia già in atrofia. Altra difficoltà è che il test di misura è soggettivo e non è facile somministrarlo ai bambini dei Paesi in via di sviluppo (PVS), dove il concetto di risposta a uno stimolo non è così automatico. Delle patologie oculari, il glaucoma è senza dubbio tra quelle a maggiore impatto. È, infatti, la seconda causa di cecità al mondo, dopo la cataratta, e la più frequente causa di cecità irreversibile, oltre ad avere il secondo punteggio più alto dell’indice DALY (che valuta gli anni di vita persi a causa di una mor- talità precoce o dell’insorgenza di disabilità a causa della malattia) per organi di senso dopo la cataratta. Va ricordato, peraltro, che l’importanza relativa delle diverse malattie oculari come causa di cecità non è uguale in tutto il mondo. Nei Paesi sviluppati, infatti, la prima causa di cecità evitabile è la degenerazione maculare senile (associata soprattutto all’invecchiamento della popolazione), mentre il glaucoma occupa il secondo posto, con il 18% dei casi. Nei PVS, invece, la principale responsabile della perdita completa della vista è la cataratta, seguita di nuovo dal glaucoma (12%), il cui impatto tende ad aumentare anche grazie alla progressiva riduzione di prevalenza e di incidenza di altre malattie oculari come il tracoma e l’oncocercosi. In ogni caso, le stime mondiali di prevalenza del glaucoma indicano numeri elevati: nel 2010 le persone affette dalla malattia erano circa 60 milioni, cifra che secondo le proiezioni dovrebbe aumentare a circa 80 milioni entro il 2020; inoltre, è previsto un aumento anche dei casi di cecità bilaterale provocata dal glaucoma, che nel 2010 erano 8,4 milioni (di cui 4,5 dovuti a glaucoma ad angolo aperto) e saliranno a 11,2 milioni entro il 2020. C’è, dunque, molto da fare, sia sul fronte della diagnosi sia su quello della terapia, soprattutto in aree come Africa e Cina, dove la prevalenza del glaucoma ad angolo aperto è più elevata e, nel caso delle popolazioni africane, può essere fino a quattro volte superiore rispetto a quelle caucasiche (figura 1). Oltre alla razza africana, altri fattori di rischio di glaucoma ad angolo aperto sono: l’età, responsabile di un prevalenza del glaucoma 25 India Europa Cina America Latina Africa Giappone prevalenza (%) 20 15 10 5 0 42,5 47,5 52,5 57,5 62,5 Età 67,5 72,5 77,5 82,5 87,5 Figura 1 Prevalenza del glaucoma ad angolo aperto per età e regione. 16 Merck-12.indd 16 15/05/13 17:28 aumento esponenziale del rischio in tutte le popolazioni; la pressione endoculare, un fattore che permette di diagnosticare e, quindi, di controllare la progressione del glaucoma, se si abbassa in maniera significativa; i difetti refrattivi, per cui si ha un aumento del rischio in presenza sia di ipermetropia sia di miopia elevata; uno spessore corneale ridotto; un diametro elevato del nervo ottico. Per altri fattori quali il diabete e l’ipertensione, la correlazione con il glaucoma non è confermata, mentre l’attività fisica ha un effetto protettivo perché aumenta la perfusione oculare. Nel caso del glaucoma ad angolo chiuso, la razza più colpita sono gli asiatici (87% dei casi al mondo), il rischio cresce proporzionalmente con l’età, e non esponenzialmente come nel glaucoma ad angolo aperto, e aumenta nei casi con ipermetropia; inoltre, il sesso più colpito è quello femminile e tra i fattori di rischio rientra anche la familiarità. Va ricordato, infine, che è ancora alta in tutto il mondo la percentuale di casi di glaucoma non diagnosticati (si parla di un caso su due anche in Italia) e che c’è tuttora una notevole discrepanza tra diagnosi clinica e dati epidemiologici. Secondo recenti studi includenti il campo visivo, la prevalenza del glaucoma sarebbe di circa il 4-5% in Europa e quasi doppia in Africa. Appare, quindi, quanto mai indicato uno screening della malattia, soprattutto nelle popolazioni a rischio. Differenze tra i glaucomi, confronto tra paesi sviluppati e pVS Andrea Perdicchi AO Sant’Andrea, Università La Sapienza, Roma Il glaucoma ad angolo aperto è una delle cause principali di cecità nel mondo. Diversi studi di popolazione hanno calcolato la prevalenza di questa patologia, evidenziando differenze marcate tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo (PVS) e nelle diverse etnie. I dati epidemiologici mostrano che la prevalenza del glaucoma ad angolo aperto è nettamente superiore nelle persone di colore rispetto ai bianchi (ispanici e non ispanici), che il 25% dei pazienti oltre i 40 anni affetti da glaucoma è rappresentato dagli afro-americani e che ci sono circa 10 mila pazienti glaucomatosi ogni milione di africani. In Africa, il glaucoma ad angolo aperto è solitamente più invalidante che in altre regioni perché i valori di pressione intraoculare sono mediamente più elevati rispetto a quelli delle altre etnie e la progressione della malattia è più rapida. Inoltre, le condizioni socioeconomiche portano a una diagnosi più tardiva, spesso già accompagnata da una perdita visiva monoculare. Un lavoro pubblicato nel 2006 sul Journal of the National Medical Association ha valutato la prevalenza del glaucoma ad angolo aperto in soggetti di origine africana residenti in otto Paesi differenti: Santa Lucia, Stati Uniti, Inghilterra, Barbados, Ghana, Tanzania, Nigeria e Sudafrica. Il glaucoma è risultato significativamente meno frequente in Sudafrica, Nigeria, Tanzania e negli Stati Uniti che nel Ghana, a Santa Lucia e a Barbados, così come nelle popolazioni afro-caraibiche trasferitesi a Londra piuttosto che in quelle residenti alle Barbados o a Santa Lucia. Non sono emerse differenze significative di distribuzione tra i sessi, come accade, invece, in altre popolazioni (figura 1). Differenze etniche nella prevalenza del glaucoma 25 prevalenza Prevalenza(%) (%) 20 15 10 5 0 <30 30-39 40-49 50-59 60-69 70-79 >80 Santa Lucia Regno Unito Sudafrica (aree urbane) Ghana Baltimora (Stati Uniti) Tanzania Barbados Sudafrica (Zulu) Nigeria Età (anni) Età (anni) Figura 1 Prevalenza del glaucoma ad angolo aperto in soggetti di origine africana residenti in otto Paesi diversi. 17 Merck-12.indd 17 15/05/13 17:28 Si è dunque cercato di comprendere il perché delle differenze di prevalenza del glaucoma tra i ceppi africani trasferiti in Paesi industrializzati e quelli del Paese d’origine. Uno degli aspetti più interessanti è l’estrema diversificazione genetica degli africani, in quanto l’aplotipo di questa razza è estremamente variabile. Tale variabilità si associa alla deriva genetica legata alla migrazione nei Paesi più industrializzati, la quale ha fatto sì che la frequenza degli alleli responsabili del rischio di sviluppo di glaucoma ad angolo aperto, caratteristica genetica di partenza, possa essersi modificata in seguito all’incrocio con le popolazioni dei Paesi ospitanti. Un dato interessante è che, ad esempio, gli africani trasferitisi in America provengono per lo più da Paesi dell’Africa Occidentale, come il Ghana, dove la prevalenza del glaucoma è simile a quella degli abitanti dell’isola di Santa Lucia, nella quale c’è una minore contaminazione con altre popolazioni grazie alla sua natura insulare. Questa potrebbe essere una spiegazione dell’alta prevalenza del glaucoma ad angolo aperto tra gli afro-caraibici e fa supporre che sia proprio il contatto e la commistione genetica con altre popolazioni ad aver modificato nel tempo la prevalenza della malattia negli africani trasferiti in Paesi diversi da quelli di origine. Gli autori dello studio concludono che la genetica svolge un ruolo essenziale nelle differenze osservate di prevalenza della malattia in popolazioni appartenenti alla stessa etnia , ma aggiungono anche che fattori ambientali (come l’esposizione al sole e la vicinanza all’Equatore), nonché differenze di tipo socioeconomico, possono influire sulla prevalenza del glaucoma. Un altro aspetto importante è quello delle differenze anatomiche tra le razze. Uno studio retrospettivo su 807 occhi di 410 pazienti affetti da glaucoma e appartenenti a diverse etnie ha dimostrato come i soggetti di origine africana abbiano uno spessore corneale centrale e un’isteresi corneale più bassi (rispettivamente 529,3 μ e 8,7 mmHg) rispetto agli ispanici (544,7 μ e 9,4 mmHg) e ai bianchi (549,9 μ e 9,8 mmHg). Anche i pazienti di origine giapponese presentano uno spessore corneale ridotto rispetto a quello di cinesi, filippini, ispanici e caucasici (anche se superiore rispetto a quello degli afro-americani) e ciò forse giustifica perché il glaucoma a bassa pressione abbia un’incidenza maggiore in Giappone rispetto ad altri Paesi asiatici. Quanto all’Europa, anche nel Vecchio continente si registrano differenze di prevalenza del glaucoma da regione a regione, legate a una certa diversificazione genetica di base tra una popolazione e l’altra, alla deriva genetica, alla commistione legata alle guerre e ai movimenti migratori. In particolare, uno studio uscito quest’anno sul Journal of Glaucoma mostra che al primo posto si colloca la Germania (18%), dove si registra una maggiore incidenza della malattia nel sesso maschile, osservata anche in Spagna, in cui i maschi affetti da glaucoma sono quasi una volta e mezzo più numerosi delle donne. I Paesi europei dove la prevalenza della malattia è inferiore sono, invece, Francia e Regno Unito (rispettivamente 3,4% e 3,3%) mentre in Italia il dato si attesta intorno al 3,8%. Come porre diagnosi di glaucoma? Quale ruolo per l’hi-tech? Marco Centofanti Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ e Fondazione Bietti La maggior parte della popolazione mondiale risiede nei Paesi in via di sviluppo (PVS), dove, di conseguenza, è concentrata anche la maggior parte dei soggetti glaucomatosi. Nei PVS la probabilità che la malattia venga diagnosticata in questi pazienti è estremamente bassa: circa del 10% (contro il 50% circa dei Paesi sviluppati) e anche meno nelle aree più povere e remote del mondo. Le opzioni possibili per evidenziare i casi di glaucoma sono lo screening, che presenta una buona specificità a spese della sensibilità, e la diagnosi, che, al contrario, ha una buona sensibilità a spese della specificità. Attualmente, i principali strumenti di screening sono tre test a bassa tecnologia: la tonometria, l’esame del disco e la perimetria, ciascuno con alcuni svantaggi. La perimetria, per esempio, richiede tempo, una strumentazione sofisticata e operatori ben addestrati, per cui è decisamente poco adatta a una realtà come quella dei PVS, mentre la tonometria deve tener conto della distribuzione della pressione intraoculare in quella data popolazione e l’esame del disco presenta difficoltà sia strumentali sia culturali. Resta ancora da capire, quindi, quale sia il singolo test o gruppo di test migliore per lo screening del glaucoma ad angolo aperto. Un passo avanti per il futuro potrebbe venire dall’utilizzo della telemedicina, come evidenziato da un recente studio australiano pubblicato su Clinical 18 Merck-12.indd 18 15/05/13 17:28 Telemedicina per la diagnosi di glaucoma Strumenti Sen (%) Spec (%) NPV (%) PPV (%) Convenzionali IOP VCDR VF 42,2 69,8 91,1 93,6 94,2 92,2 15,6 28,0 27,4 98,0 99,0 99,7 Telemedicine friendly IOP VCDR VF 35,6 67,4 91,1 94,2 93,6 93,6 16,6 25,3 31,5 97,8 98,9 99,7 Sen: sensibilità; Spec: specificità; NPV: valore predittivo negativo; PPV: valore predittivo positivo; IOP: pressione intraoculare; VCDR: vertical cup-to-disc ratio; VF: campo visivo. Tabella 1 Confronto tra i test convenzionali e telemedicina in uno studio australiano eseguito in aree rurali. and Experimental Ophtalmology. Lo studio è stato effettuato in aree rurali, dove ci sono molte difficoltà nella reperibilità di medici e di strumentazioni, e prevedeva l’impiego della perimetria a duplicazione di frequenza (FDT), della tonometria a soffio e di una fundus camera non midriatica. I dati sono stati raccolti non da medici, ma da personale infermieristico o tecnico residente nel luogo e poi inviati elettronicamente a specialisti dei centri urbani per un secondo parere e un confronto con i dati ottenuti da test convenzionali eseguiti da uno specialista. Il confronto ha mostrato una buona concordanza dei risultati in termini di sensibilità, specificità, valore predittivo positivo e valore predittivo negativo (tabella 1), per cui gli autori concludono che la telemedicina potrebbe essere una delle risposte al problema della diagnostica nei PVS, offrendo una soluzione promettente in termini sia di rapporto costo-efficacia sia di efficacia clinica. Un’altra possibile soluzione potrebbe venire da una perimetria particolare, messa a punto dal Moorfields Eye Hospital di Londra, il Moorfields Motion Displacement Test (MDT), che ha il vantaggio di attivare il sistema magnocellulare e si può eseguire con il semplice ausilio di un computer, anche portatile. Si tratta di un test di multilocalizzazione che viene presentato sullo schermo di un computer standard a una distanza di 30 cm; al paziente si chiede di fissare un punto centrale e cliccare con il mouse ogni volta che vede una linea muoversi. I perimetri attualmente disponibili sul mercato sono relativamente costosi e poco accessibili. Invece, il Moorfields MDT è un test a basso costo e facilmente trasportabile, che potrebbe essere di grossa utilità e importanza per i PVS. Al momento il Moorfields MDT offre due strategie: un test di soprasoglia (ESTA) per lo screening e un test di soglia (WEBS) progettato per un’indagine più dettagliata in ambiente ospedaliero. Gli algoritmi ESTA e WEBS sono attualmente in corso di validazione in uno studio internazionale coordinato dal Moorfields Hospital, a cui collabora anche la Fondazione Bietti di Roma e volto a confrontare la precisione diagnostica dell’MDT con quella della perimetria automatizzata standard (SAP), dell’FDT e dell’Heidelberg Edge Perimeter (HEP). Sul fronte diagnostico, è noto che per fare diagnosi precoce c’è bisogno di strumentazione particolare, ad alta tecnologia. È risaputo che apparecchiature costose come l’oftalmoscopio a scansione laser, il polarimetro a scansione laser e la tomografia a coerenza ottica forniscono una valutazione quantitativa del danno strutturale con un’alta sensibilità. Nei PVS, tuttavia, la prima necessità è quella di avere strumenti a basso costo, che possano funzionare indipendentemente dalla fornitura di energia elettrica; in moltissimi di questi Paesi, infatti, l’elettricità non è disponibile con continuità. Inoltre, si sa che le risorse necessarie per porre diagnosi di glaucoma differiscono a seconda dello stadio della malattia. Se per diagnosticare un glaucoma in fase avanzata, già sintomatico, bastano pochi esami di base, eseguibili anche da un medico di base, che danno un’alta certezza diagnostica, per fare diagnosi precoce sono necessari, invece, strumenti ad alta tecnologia e specialisti esperti della malattia. Nei PVS, tuttavia, dove già il numero di oculisti disponibili è molto basso (uno ogni 500 mila persone in Africa, uno ogni 200 mila in Asia e uno su 100 mila in India), la diagnosi precoce, non è, purtroppo, una priorità e l’hi-tech non è il primo aiuto per combattere il glaucoma. Piuttosto, un obiettivo realistico da perseguire è riuscire a identificare i pazienti con malattia avanzata, e lo si può fare facilmente effettuando un esame completo dell’occhio e insegnando anche ai non oculisti a fare la tonometria, la gonioscopia e la valutazione del disco ottico. Uno studio relativo ai Paesi asiatici, per esempio, ha evidenziato che per quanto riguarda il glaucoma le maggiori necessità di ricerca e a livello di campagne sono una migliore 19 Merck-12.indd 19 15/05/13 17:28 identificazione dei pazienti che si rivolgono a un ospedale e un migliore addestramento degli oculisti sia sul fronte della diagnosi sia su quello della terapia. Dunque, per affrontare la questione della diagnosi nei PVS occorre integrare il trattamento del glaucoma all’interno di iniziative già esistenti sulle malattie oculari, insegnare a fare un esame completo della vista di routine, avviare programmi solo una volta che sono state acquisite le competenze e cercare di organizzare degli screening a livello della popolazione. In un quadro di questo tipo, il ruolo dell’hi-tech è ancora di là da venire. Ruolo della trabeculoplastica laser. Selettiva o non selettiva? Michele Figus, Chiara Posarelli Clinica Oculistica Universitaria di Pisa La trabeculoplastica è una metodica introdotta nel trattamento del glaucoma nel 1979 da Wise e Witter. In passato veniva realizzata utilizzando l’argonlaser, da qui il nome Alt (Argon laser trabeculoplasty). Nel 1995, Mark Latina ha introdotto l’utilizzo di un laser ND-Yag pulsato, selettivo per le cellule trabecolari, per cui la procedura è stata rinominata in Slt (Selective laser trabeculoplasty). Nei Paesi in via di sviluppo (PVS), la trabeculoplastica trova scarsa diffusione, sia essa eseguita con la tecnica convenzionale (Alt) o con la variante più moderna, selettiva (Slt). In questi Paesi, infatti, ci sono difficoltà oggettive di accesso alle cure, perché la maggior parte dei servizi oculistici si trova nei centri urbani, mentre gran parte della popolazione vive in zone rurali e deve affrontare lunghi spostamenti per andare a farsi visitare. Inoltre, i farmaci antiglaucoma sono gravati da costi elevati e le strumentazioni e il personale sono limitati. Un altro ostacolo sta nel fatto che, a differenza dell’intervento per la cataratta, in cui si ha un immediato recupero visivo, il trattamento per il glaucoma previene il deterioramento, ma non consente un recupero della acuità visiva persa, per cui i pazienti non notano un miglioramento; anzi, il trattamento inizialmente può anche peggiorare la visione. Non è sorprendente, quindi, che in queste aree la trabeculoplastica sia poco accettata e praticata. Eppure questa procedura offre diversi vantaggi: quasi sempre, per esempio, permette di ottenere una riduzione della pressione intraoculare (PIO) superiore al 20%, in alcuni casi addirittura superiore al 30%, senza dover fare affidamento sulla compliance, ed è noto che la mancanza di compliance è particolarmente significativa quando i pazienti, come spesso accade nei PVS, accedono poco o nulla ai servizi medici, per problemi di tipo personale, finanziario o legati allo stile di vita. Ma, tra Alt e Slt, qual è preferibile? L’effetto termico causato dal laser è indipendente dalla lunghezza d’onda del laser stesso; piuttosto, è funzione della quantità di energia che in un determinato lasso di tempo raggiunge le strutture della camera anteriore. Nella tabella 1 sono messe a confronto le caratteristiche della Alt con quelle dell’Slt. Il meccanismo d’azione della trabeculoplastica non è ancora del tutto chiarito. Si sa che nella Alt si ha un danno termico diffuso, responsabile di una coagulazione delle fibre collagene e una morte generalizzata Confronto tra Alt e Slt Caratteristica Alt Slt Fisica 514 nm, trattamento continuo, durata msec 532 nm, trattamento pulsato, durata 3 nsec Selettività Nessuna, danno diffuso al trabecolato Selettiva per le cellule pigmentate del trabecolato Energia necessaria per il trattamento 20-40 Watt/180° < 1% dell’energia necessaria per la Alt Danno collaterale Formazione di sinechie periferiche anteriori rara Formazione di sinechie periferiche anteriori possibile Dimensione dello spot e centratura Piccolo (50 μ), va centrato in modo Ampio (400 μ), non centrato preciso sul trabecolato anteriore in modo preciso Tabella 1 20 Merck-12.indd 20 15/05/13 17:28 delle cellule trabecolari. Il rimaneggiamento e la cicatrizzazione conseguenti portano all’apertura degli spazi trabecolari e, quindi, a un aumento della facilità di deflusso dell’umore acqueo. Nella Slt, invece, il danno termico è focalizzato e provoca una rottura dei melanosomi e una lisi cellulare mirata, che dà avvio alla liberazione di citochine e mediatori dell’infiammazione, nonché a un turnover della matrice extracellulare che si traduce in un incremento dello scarico dell’umore acqueo. Uno studio in vitro del 2010 di Alvarado e collaboratori, pubblicato sull’American Journal of Ophtalmology, ha evidenziato che l’Slt ha un effetto simile a quello delle prostaglandine sulla permeabilità delle cellule del canale di Schlemm, in quanto la liberazione di citochine indotta dal laser comporta una rottura delle giunzioni serrate tra le cellule, facilitando il deflusso dell’umore acqueo dalla camera anteriore verso il canale. Dal punto di vista dell’efficacia, è noto da tempo che Alt e Slt danno risultati sovrapponibili in termini di effetto ipotonizzante e che l’infiammazione post-trattamento è sostanzialmente analoga. È stato anche dimostrato che i pazienti sottoposti ad Alt possono essere ritrattati con l’Slt ottenendo un’ulteriore riduzione della PIO. Inoltre, uno studio randomizzato recente in cui si sono confrontati i risultati ottenibili con le due tecniche ha dimostrato che con entrambe circa il 60% dei pazienti raggiunge una riduzione della PIO a un anno di oltre il 20%, con risultati superiori, quindi, a quelli dei betabloccanti e simili a quelli delle prostaglandine. La trabeculoplastica laser può tranquillamente sostituire la terapia medica anche in termini di outcome a lungo termine (5 anni), sebbene in alcuni pazienti sia talora necessario ripetere la procedura. La Alt è un trattamento molto semplice, veloce, senza effetti negativi sull’acuità visiva, è più facile da trovare rispetto all’Slt (quanto meno nei Paesi industrializzati, non necessariamente nei PVS), ma ha lo svantaggio di poter essere ripetuta solo due volte; inoltre, provocando un certo danno termico, può causare minimi effetti collaterali in alcuni pazienti. L’Slt è altrettanto facile e veloce, ma necessita di una strumentazione dedicata, il che ne limita enormemente la diffusione; ha, tuttavia, il vantaggio enorme di essere un trattamento estremamente ripetibile anche in soggetti che hanno già fatto una Alt ed è assolutamente priva di effetti collaterali. Anche nelle Preferred Practice Patterns dell’American Academy of Ophtalmology la trabeculoplastica viene suggerita come terapia iniziale in pazienti selezionati o, come alternativa, per quelli che possono avere difficoltà di accesso alle cure mediche, che hanno problemi a instillarsi il collirio o che non tollerano i farmaci. Uno studio molto recente, uscito nel settembre 2012 sul Journal of Glaucoma, evidenzia che l’Slt ottiene gli stessi risultati della terapia medica in termini di riduzione pressoria, ma nel primo caso si riesce a mantenere la PIO target con un unico trattamento, mentre con la terapia farmacologica possono essere necessari più step per ottenere la stessa efficacia. Oggi, dunque, la giusta domanda da porsi non è più ‘quale laser utilizzare?’, quanto, piuttosto, ‘quale paziente trattare?’ ed ‘è meglio farlo nelle fasi precoci della malattia o in quelle più avanzate?’. Uno studio tedesco pubblicato nel maggio scorso su Ophtalmologe conclude che perfino nei pazienti già in terapia massimale con farmaci ipotonizzanti, l’Slt ha le potenzialità per ridurre ulteriormente la PIO per almeno un anno, ritardando così l’intervento chirurgico. Questo lavoro indica, dunque, che la trabeculoplastica può avere un senso non solo nel glaucoma iniziale o nell’ipertensione oculare, ma anche nel glaucoma in stadi più avanzati. La selezione dei pazienti è, comunque, fondamentale. L’Slt può essere appropriata per i pazienti con glaucoma ad angolo aperto primario, in alcune forme secondarie come l’esfoliativo e il pigmentario non controllate con la terapia medica, nei pazienti la cui compliance è dubbia, in quelli che non possono permettersi le medicine, in quelli intolleranti ai farmaci e in quelli già sottoposti a una Alt senza un pieno successo. L’Slt non è, invece, adatta nei glaucomi uveitici e in quelli neovascolari, traumatici, congeniti o giovanili, così come nel glaucoma ad angolo chiuso (primario o secondario) e in caso di visualizzazione inadeguata del trabecolato. Dal punto di vista economico, uno studio apparso la primavera scorsa su Archives of Ophtalmology ha evidenziato che l’Slt diventa meno costosa di un trattamento con la maggior parte delle prostaglandine di marca dopo solo un anno di terapia, mentre occorrono rispettivamente 13 e 40 mesi perché diventi più conveniente rispetto al latanoprost generico e al timololo generico. Una maggiore diffusione della trabeculoplastica sarebbe quindi auspicabile tanto nei Paesi industrializzati quanto nei PVS, dove c’è molta frustrazione tra gli oculisti impegnati nel trattamento del glaucoma, legata anche alle difficoltà di poter visitare periodicamente i pazienti. Da questo punto di vista, un trattamento come l’Slt, somministrabile una-due volte all’anno, risolverebbe il problema della compliance e potrebbe rivoluzionare il trattamento della malattia. Pertanto, si può pensare di utilizzare in prima battuta o una trabeculoplastica laser o una terapia medica oppure una combinazione di entrambe. Purtroppo, in molti PVS la trabeculoplastica spesso non è ancora disponibile e ciò rappresenta un grosso problema, perché questa tecnica potrebbe risolvere la questione cruciale della difficoltà di accesso alle cure. 21 Merck-12.indd 21 15/05/13 17:28 CHIRURGIA DEL GLAUCOMA La trabeculectomia è il gold standard in Africa? Maria Papadopoulos Glaucoma Unit, Moorfieds Eye Hospital Per gold standard si intende generalmente qualcosa la cui qualità è assolutamente ineccepibile, superiore, un punto di riferimento con cui confrontare altre cose della stessa categoria; per esempio, in ambito oculistico, il tonometro ad applanazione di Goldmann è il gold standard nella misurazione della pressione intraoculare. Nel caso della chirurgia, i criteri che l’intervento gold standard deve soddisfare sono efficacia (nel caso del glaucoma deve abbassare la pressione), sicurezza (deve dare poche complicanze), semplicità (deve essere usato in tutto il mondo), rapidità, costo contenuto e la capacità di superare la prova del tempo (la tecnica della goniotomia, per esempio, non ha subito modifiche negli ultimi 70 anni). La trabeculectomia è stata eseguita per la prima volta nel 1967 dall’oculista greco Koryllo e poi perfezionata, nel 1968, dall’inglese Cairns. Da allora, la trabeculectomia è divenuta il gold standard e la tecnica filtrante più diffusa al mondo. Nel corso degli anni ha subito diverse modifiche, perché, nonostante la sua efficacia, le frequenti complicanze – a lungo il tallone d’Achille di questa tecnica – hanno spinto alcuni chirurghi a ritornare alla chirurgia non penetrante come prima scelta, altri, per fortuna, a lavorare per renderla più sicura. Così, per esempio, il passaggio dal flap congiuntivale a base limbus a quello a base fornice ha fatto sì che il rischio di formazione di una bozza cistica passasse dal 90% al 29%, oltre a ridurre notevolmente l’insorgenza di blebiti ed endoftalmiti. Per parlare di trabeculectomia in Africa, bisogna tener presente il contesto: si tratta principalmente di casi di glaucoma ad angolo aperto, che insorgono a un’età precoce, caratterizzati da pressioni intraoculari molto elevate e da una rapida velocità di progressione. Inoltre, la diagnosi è spesso tardiva (tra il 29 e il 52% dei pazienti è cieco al momento della prima visita) e il follow-up è difficoltoso (solo il 19% dei pazienti si presenta alla visita di controllo a 6 e a 12 mesi) per varie ragioni: scarsa consapevolezza della malattia, necessità di fare una terapia cronica che non porta a un miglioramento dell’acuità visiva e anzi, nel caso di trattamento chirurgico può causare addirittura un peggioramento temporaneo. L’efficacia della terapia medica, poi, può essere vanificata da molti fattori: al di là della scarsa compliance del paziente, i colliri hanno un costo elevato, non sono esenti da effetti collaterali e la loro reperibilità non è sempre agevole. Si potrebbe prendere in considerazione l’uso dell’argon laser trabeculoplastica come trattamento di prima scelta; questa tecnica, tuttavia, è molto costosa e richiede la disponibilità di assistenza tecnica. Un’altra opzione è la ciclofotocoagulazione, tecnica sicura e ben accetta dal paziente, ma poco efficace (solo il 48% dei pazienti trattati raggiunge valori pressori accettabili). Altra possibilità è ricorrere al trattamento chirurgico con la trabeculectomia. In Africa, però, quest’intervento presenta percentuali di successo più basse rispetto a quelle dei Paesi sviluppati perché è meno efficace nei soggetti di razza nera, richiede un follow-up costante e ravvicinato (in alcuni studi condotti sulla trabeculectomia in Africa, fino all’80% dei pazienti non si è presentato ai controlli successivi), non è privo di complicanze e ciò rappresenta un ostacolo all’accettazione della chirurgia. Inoltre, nella popolazione africana, soprattutto nei giovani adulti, la reazione cicatriziale può essere molto accentuata e un eventuale uso di antimetaboliti è limitato da difficoltà di conservazione del prodotto (che, se non adeguatamente refrigerato, perde di efficacia) e dal costo elevato, mentre l’uso dei raggi beta – tecnica semplice, rapida e di buona efficacia a lungo termine – riduce il rischio di fallimento, ma aumenta quello di insorgenza della cataratta. Infine, in questo momento, è difficile poter pensare di eseguire la chirurgia non penetrante, perché si tratta di tecniche particolarmente difficili o, a causa dei costi elevati, di utilizzare impianti drenanti. In conclusione, la trabeculectomia può essere considerata la tecnica chirurgica gold standard anche in Africa, probabilmente in combinazione con la trabeculoplastica anziché col trattamento medico, nonostante ciò, non è ancora molto diffusa, sia per il numero limitato di chirurghi disponibili, i quali, 22 Merck-12.indd 22 15/05/13 17:28 tra l’altro, non hanno molta confidenza con questa tecnica e sono spaventati dalle possibili complicanze, sia per fattori culturali che portano i pazienti a non accettare di sottoporsi a un intervento chirurgico. Questi problemi potrebbero essere risolti migliorando le capacità tecniche dei chirurghi, dando loro più fiducia in sé stessi, permettendo loro di viaggiare nel resto del continente africano per curare il più alto numero di pazienti possibile, spiegando ai pazienti in maniera esaustiva ed accurata a cosa serve il trattamento e cosa dovranno attendersi dalla chirurgia. Ruolo del ciclodiodo e della ciclocoagulazione circolare ad ultrasuoni Roberto Carassa Centro Italiano Glaucoma, Milano Nei Paesi in via di sviluppo (PVS) l’utilizzo o il tentativo di utilizzare strategie alternative non chirurgiche per ridurre la pressione intraoculare nei pazienti glaucomatosi può essere di sicuro interesse. Tra queste, la ciclofotocoagulazione e la ciclocoagulazione ad ultrasuoni, di recente introduzione, possono essere una possibile alternativa alla chirurgia, anche se il loro ruolo, è tuttora oggetto di discussione nei Paesi occidentali. I trattamenti ciclodistruttivi sono stati introdotti molti anni fa con l’intento di ridurre la produzione di umore acqueo provocando una distruzione selettiva dei corpi ciliari. Il capostipite è stato la ciclocriocoagulazione, che tuttavia comportava una serie di problematiche infiammatorie, addirittura con conseguenze abbastanza drammatiche per la funzione visiva; per questo sono stati fatti diversi tentativi di miglioramento della tecnica e oggi, a livello clinico, quella che ha sostituito la ciclocriocoagulazione è, sicuramente, la ciclofotocoagulazione. Verso la fine degli anni Novanta si è tentato di introdurre gli ultrasuoni nel settore dei trattamenti ciclodistruttivi, inizialmente con scarsi successi e molti effetti collaterali; solo di recente è stata introdotta una nuova tecnica – la ciclocoagulazione circolare – che ne prevede l’impiego. La ciclofotocoagulazione è oggi il trattamento di elezione per la ciclodistruzione e può essere eseguita con diverse modalità, da quella transpupillare, in realtà mai impiegata perché non permette di visualizzare i processi ciliari, a quella trans-sclerale non a contatto, a contatto o endobulbare. Tra le varie modalità, la ciclofotocoagulazione a contatto, o ciclodiodo, è risultata quella vincente grazie al fatto che, poggiando una sonda sopra la superficie dell’occhio, si riesce a trasmettere energia al corpo ciliare in modo ottimale rispetto a quanto accade nella tecnica non a contatto, dove il backscattering di energia dà luogo a una serie di problematiche molto meno controllabili rispetto alla tecnica a contatto. In quest’ultima, le lunghezze d’onda utilizzabili permettono un ottimo assorbimento da parte della melanina del corpo ciliare ma, soprattutto, devono avere un’ottima trasmissione attraverso la sclera. Inoltre, bisogna ricordare che lo strumento per praticarla è compatto e facilmente trasportabile. Dal punto di vista tecnico, l’intervento è molto semplice. L’anestesia può essere sottocongiuntivale o peribulbare, molto più raramente retrobulbare. Si deve, quindi, posizionare la base della sonda tangenzialmente al limbus permettendo così di avere il puntale in zaffiro della sonda a 1,5 mm posteriormente al limbus; solo in alcuni tipi di occhio (glaucoma congenito o dimorfismo) è opportuno visualizzare il corpo ciliare con transilluminazione o con UBM. La sonda deve creare un’indentazione e migliorare la trasmissione; quindi, utilizzando da 18 a 24 spot sui 360°, evitando in genere le ore 3 e le ore 9 per non creare danni alle arterie ciliari lunghe che potrebbero dare problematiche corneali, viene emessa energia con 1,8-2 W per 2 secondi in ogni spot. In genere, si evita il trattamento nel quadrante superiore al fine di preservarlo per eventuali trattamenti successivi. L’intervento può anche essere ripetuto, ma non prima di 3-4 settimane. La variabilità del successo del trattamento è legata a svariati fattori, che sono in molti casi poco controllabili. Il trattamento non ha in realtà una reale standardizzazione: si possono usare differenti numeri di spot, differente energia per spot e non si ha sempre la certezza di posizionare la sonda correttamente. Inoltre, i processi ciliari che vengono coagulati tendono col tempo a riprodursi e, di conseguenza, la produzione di umor acqueo tende progressivamente a ripristinarsi, con risultati molto diversi da un paziente all’altro. Uno studio di Bloom e collaboratori, pubblicato nel 1997 su Ophtalmology, 23 Merck-12.indd 23 15/05/13 17:28 dimostra che in circa il 60% degli occhi trattati, a distanza di quasi 2 anni, si ottengono un calo pressorio superiore al 30% e una pressione sotto i 22 mmHg. Nel 2005, Lai et al. hanno condotto uno studio utilizzando la ciclofotocoagulazione come trattamento primario, dimostrando che è possibile ottenere valori di pressione inferiori a 21 mmHg nel 92% dei casi, utilizzando, però, una terapia medica di supporto. Pertanto, nei PVS, la difficoltà di reperire e utilizzare i farmaci sicuramente limita o, comunque, porta a mettere in discussione l’uso di questi tipi di tecniche in modo diffuso. Un altro aspetto da considerare riguarda il confronto tra ciclofotocoagulazione e impianti drenanti. Gli studi disponibili mostrano che il risultato pressorio è pressoché sovrapponibile con le due tecniche; tuttavia, gli impianti drenanti hanno un successo più duraturo nel tempo e non provocano evidenti differenze di acuità visiva, contrariamente ai trattamenti ciclodistruttivi che possono causare riduzione del visus fino al 30% dei casi e, addirittura, perdita totale nell’8%. Inoltre, la ciclofotocoagulazione può portare a ipotoni permanenti fino al 4% dei casi e tisi bulbare nell’1-3%. Nello studio di Lai, il 38% dei pazienti ha avuto un calo visivo, in parte legato alla cataratta, in parte alla malattia di base, ma certamente la riduzione del visus è una problematica da tener presente, soprattutto nei PVS dove il paziente difficilmente accetta un calo della vista come conseguenza di un trattamento. Per questi motivi, l’American Academy of Ophthalmology, in un suo report, ha codificato la ciclofotocoagulazione come un trattamento da utilizzare nei glaucomi refrattari in cui hanno fallito sia la trabeculectomia sia gli impianti drenanti. Un’alternativa possibile è l’endociclofotocoagulazione, molto più complessa e in genere associata a trattamenti chirurgici come la facoemulsificazione o la chirurgia vitreo-retinica. Il successo di questa metodica è probabilmente superiore rispetto alla media ottenuta con i trattamenti transclerali, ma i problemi di perdita della vista restano anche in questo caso. Al fine di ridurre tali problematiche, è stata di recente introdotta la ciclocoagulazione ad ultrasuoni circolare, che ha il grosso vantaggio di essere estremamente standardizzata rispetto alla ciclofotocoagulazione. In questa tecnica, una sonda formata da sei elementi piezoelettrici emette energia sonora altamente focalizzata che dà luogo alla ciclodistruzione. Il vantaggio dell’energia sonora rispetto a quella laser sta nel fatto che, mentre l’efficacia del laser dipende esclusivamente dalla pigmentazione e dall’assorbimento a carico del corpo ciliare, quella dell’energia sonora no. Il trattamento viene eseguito in anestesia peribulbare o generale e prevede il posizionamento di una coppa di suzione su cui viene inserita la sonda con gli elementi piezoelettrici, vengono predefiniti i settori da trattare, la durata del trattamento e di ogni singolo impulso (che va dai 3 ai 6 secondi), si può così avviare il trattamento premendo un pedale. Purtroppo, i dati di letteratura sull’utilizzo di questa tecnica sono molto limitati, per cui il successo di tale trattamento rimane un grosso punto interrogativo. Uno studio pubblicato nel 2011 mostra come, da valori iniziali di 35 mmHg si è arrivati alla fine del follow-up a 28 mmHg, che è un calo significativo, ma certamente non eccezionale dal punto di vista clinico. In conclusione (tabella 1), si può dire che la ciclofotocoagulazione ha il grosso vantaggio di poter essere praticata a livello ambulatoriale, a un costo contenuto, con uno strumento portatile e con una tecnica molto veloce ed estremamente semplice. Di contro, mostra grande variabilità di risultati, permette di arrivare a pressioni finali sicuramente più alte rispetto a quelle ritenute oggi il target nel glaucoma e non è scevra da complicanze. Per Ciclofotocoagulazione e ciclocoagulazione circolare a US a confronto CICLOFOTOCOAGULAZIONE CICLOCOAGULAZIONE CIRCOLARE A US • Praticabile in ambulatorio • Tecnica nuova, ancora poco studiata • Rapida e veloce • Procedura estremamente standardizzata • Strumento portatile • Meno complicanze e infiammazioni • Efficace a costi contenuti post-operatorie • Ampia variabilità di risultati • PIO finali medio-alte • Complicanze Tabella 1 Confronto tra vantaggi e svantaggi della ciclofotocoagulazione e della ciclocoagulazione circolare a ultrasuoni. 24 Merck-12.indd 24 15/05/13 17:28 quanto riguarda la ciclocoagulazione circolare a ultrasuoni, purtroppo si tratta di una tecnica ancora acerba, in fase di studio. Tuttavia, è sicuramente una procedura estremamente standardizzata e con percentuali di complicanze inferiori rispetto al ciclodiodo. Quale sarà il suo ruolo all’interno della gestione del glaucoma e soprattutto la sua applicabilità nei PVS è ancora da verificare. Gestione del glaucoma congenito Maria Papadopoulos Glaucoma Unit, Moorfieds Eye Hospital Il glaucoma infantile differisce dal glaucoma dell’adulto per modalità di presentazione, evoluzione e gestione. È una condizione patologica la cui cronicità, nei bambini, assume un’importanza aggiuntiva poiché si ha bisogno di una prospettiva a lungo termine. Essendo una condizione rara, è necessario che sia gestita da centri specializzati e da chirurghi esperti che lavorino in equipe con pediatri, genetisti, ortottisti e anestesisti. Inoltre, è fondamentale, per la sua gestione, stabilire un rapporto di fiducia sia con i bambini sia con i genitori. Nei Paesi in via di sviluppo (PVS), il glaucoma è una causa piuttosto comune di cecità infantile, anche perché le famiglie hanno spesso poca consapevolezza della malattia, hanno paura dell’intervento chirurgico, hanno difficoltà a raggiungere luoghi lontani dove si trovano i pochi centri specializzati e non rispettano il giusto follow-up. Dal punto di vista clinico, è caratterizzato dalla classica triade formata da fotofobia, lacrimazione e blefarospasmo. Inoltre, i bambini affetti da glaucoma si strofinano spesso gli occhi, presentano opacizzazione della cornea, miopia progressiva e, tardivamente, strabismo. La misurazione della pressione endoculare nel bambino è di difficile esecuzione. Attualmente, il compito è facilitato dal tonometro I-care che permette di misurare la pressione con relativa facilità e in modo attendibile (anche se, rispetto al tonometro di Goldmann, riporta valori tanto più alti quanto più alta è la pressione o spessa la cornea), senza anestesia, a bambino sdraiato o in piedi. Nei bambini affetti da glaucoma, l’obiettivo del trattamento è conservare la funzionalità visiva per tutta la vita sia con il controllo della pressio- ne intraoculare sia con il trattamento dell’ambliopia e dei difetti di refrazione (con gli occhiali). Il controllo della pressione si può ottenere con la terapia medica (latanoprost è stato il primo farmaco a poter essere usato nei bambini, mentre brimonidina può essere usata solo dai 6 anni in su) e con la terapia chirurgica (mediante goniotomia, trabeculotomia, trabectome, trabeculectomia, impianti drenanti, ciclocoagulazione, sclerectomia profonda). La chirurgia dell’angolo trova indicazione principale nel glaucoma congenito primario, ma può anche funzionare in quello secondario; la goniotomia richiede una chiara visualizzazione dell’angolo irido-corneale e lascia intatta la congiuntiva, a differenza della trabeculotomia che, però può essere eseguita in presenza di cornea opaca. Entrambe le tecniche hanno un’alta percentuale di successo; inoltre, la razza non è un fattore di rischio per il fallimento dell’intervento. La chirurgia filtrante (trabeculectomia) inizialmente non ha dato risultati incoraggianti; la percentuale di successo è poi aumentata con l’introduzione dell’uso degli antimetaboliti, che ha portato, però, anche a un aumento delle complicanze. Può essere eseguita in caso di fallimento della chirurgia dell’angolo o in associazione alla trabeculotomia e, come prima scelta, nella maggior parte dei glaucomi secondari, eccetto in quelli uveitici e nel glaucoma dell’afachico. In questi ultimi due casi sono, invece, indicati gli impianti drenanti, introdotti da Molteno nel 1973, che, però, sono gravati da una percentuale elevata di complicanze (ipotonia). Infine, si può ricorrere alla ciclocoagulazione che può essere limitata ai casi chirurgici ad alto rischio e agli occhi ciechi e dolenti. 25 Merck-12.indd 25 15/05/13 17:28 La gestione e la chirurgia del glaucoma a Lubumbashi, Congo Gabrielle Chenge Servizio di oftalmologia, Clinica universitaria di Lubumbashi Lubumbashi è la seconda città principale della Repubblica Democratica del Congo, nella provincia di Katanga. La popolazione è di circa 2 milioni di abitanti e la lingua ufficiale è il francese, mentre il kiswahili è la lingua locale. La clinica oculistica dell’ospedale universitario della città ha effettuato uno studio su un campione di 30 soggetti glaucomatosi con un età media di 59 anni, considerando come pressione intraoculare alta valori superiori a 21 mmHg. Oltre il 63% dei pazienti si era rivolto al centro a causa di una diminuzione della vista, più del 25% a causa di dolore e lacrimazione e circa il 15% per un controllo di routine. Il 26,5% dei pazienti, soprattutto soggetti di sesso maschile, presentava già una cecità legale e la pressione intraoculare era più alta negli occhi destri rispetto a quelli sinistri. Il 63,4% dei pazienti aveva un rapporto cup/disc (C/D) di 0,8-1,0. La maggior parte dei pazienti ha ricevuto un trattamento medico, solo poco più del 10% è stato sottoposto a chirurgia (figura 1). Gli africani, in genere, hanno una paura folle del trattamento chirurgico e appena glielo si prospetta, soprattutto quando non sentono dolore e hanno una buona 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 87% 73% 63% 57% 26,5% ico to me d ur gic o en to ch ir sin ist ro Tra tta m oc ch io de str o PIO oc ch io leg ale PIO tin ro u Co n tro llo di 13% Ce cit à gla uc om a e el ed lac rim az ion ie Do lor ed ell av isi on e 17% Tra tta me n 27% zio n inu Di m visione, preferiscono recarsi da un altro oculista che dica loro qualcosa di diverso. Il trattamento chirurgico è indicato quando c’è stato un fallimento della terapia medica e quando il rapporto C/D è inferiore a 0,8, perché la chirurgia non è senza rischi e i chirurghi possono temere di perdere la loro reputazione quando intervengono su malati glaucomatosi. Inoltre, si tratta di pazienti difficili da convincere ed è difficile anche ottenere il consenso informato; rispetto all’intervento di cataratta, quello per il glaucoma presenta in generale maggiori difficoltà. I pazienti vengono preparati somministrando Diamox compresse e pilocarpina collirio 2% ogni 10 minuti prima dell’intervento. Si pratica quindi un’anestesia retrobulbare e sedazione. Dopo la trabeculectomia tradizionale, si è purtroppo visto ipertono nel primo anno in oltre l’80% dei casi. Un’altra possibilità è la trabeculectomia modificata, con resezione del lembo sclerale e iridectomia basale, che si pensa fornisca risultati migliori rispetto alla trabeculectomia classica. I nostri pazienti rimangono ricoverati finché la camera anteriore è ben formata, perché hanno problemi enormi di trasporto, di spo- PIO: pressione intraoculare Figura 1 Descrizione complessiva dei malati glaucomatosi esaminati presso l’ospedale di Lubumbashi. 26 Merck-12.indd 26 15/05/13 17:28 stamenti e anche di disciplina personale. L’accesso alle cure è molto modesto e i costi sono piuttosto alti; i controlli, inoltre, sono irregolari. In genere, dopo un primo tempo, i pazienti devono pagare il consulto e molto spesso non sono in grado di farlo; inoltre, si tratta di solito di malati non autosufficienti per via della loro cecità e dunque dipendenti da un familiare, spesso un bambino. Quando i pazienti non sono in grado di far fronte alle spese mediche, in genere non ritornano e iniziano una sorta di ‘vagabondaggio terapeutico’, alla ricerca di soluzioni miracolistiche, rifugiandosi, per esempio, nella medicina tradizionale o in quella cinese. Per ovviare a questi problemi occorre promuovere campagne di informazione e di divulgazione attraverso i media, affinché siano possibili lo screening e la diagnosi precoce della malattia. Tutto ciò richiede fondi e occorrerà anche attrezzare i servizi di oftalmologia perché possano offrire ai pazienti un migliore servizio diagnostico. Inoltre, c’è bisogno di organizzazioni che possano sovvenzionare l’assistenza medica e chirurgica dei glaucomatosi, e occorre adottare la tecnica chirurgica meno costosa e che sia più adatta alla razza nera. 27 Merck-12.indd 27 15/05/13 17:28 25° ANNIVERSARIO DEL MECTIZAN DONATION pROgRAM Cecità fluviale: epidemiologia e caratteristiche cliniche Kisito Ogoussan Associate Director Onchocerciasis - Mectizan Donation Program L’oncocercosi, o cecità fluviale, è una malattia tropicale parassitaria causata da un verme nematode, una filaria della specie Onchocerca volvulus, trasmessa all’uomo e ad altri animali dalla puntura di una mosca infetta del genere Simulium, che funge da vettore. Le larve di quest’insetto sono in grado di svilupparsi solamente nei fiumi con correnti veloci, dove l’acqua è più ricca di ossigeno, e ciò spiega perché la patologia sia diffusa lungo le aree fluviali dell’America del Sud e, soprattutto, dell’Africa. L’oncocercosi è causata, in realtà, dalle microlarve del parassita che, una volta morte, provocano un’infiammazione responsabile a lungo andare di lesioni cutanee e oculari, ma anche neurologiche. Il 99% delle persone colpite si trova in Africa, mentre l’1% circa in America Latina e nello Yemen. La malattia è endemica in 36 Paesi e si stima che 120 milioni di persone siano a rischio e 37 milioni siano già infettate. Tra i soggetti malati, 6,5 milioni hanno dermatite e prurito, più di mezzo milione ha una compromissione visiva e 270 milioni sono miopi. Dal punto di vista della presentazione clinica, a livello cutaneo la malattia si manifesta con la presenza di noduli sottocutanei e una dermatite cronica caratterizzata da prurito intenso, spesso altamente debilitante, ma anche con atrofia e perdita d’elasticità, con un progressivo raggrinzimento della pelle. Si possono poi avere depigmentazione cutanea e desquamazione con aree iperpigmentate (la cosidetta pelle a macchia di leopardo o d’elefante o di lucertola) e anche elefantiasi a livello dei genitali. Tuttavia, la complicanza più seria dell’oncocercosi è rappresentata dall’interessamento oculare. Le microfilarie, infatti, invadono tutte le parti dell’occhio, causando un’infiammazione dell’intero bulbo oculare. In genere, la manifestazione più comune è una congiuntivite associata a fotofobia e in alcuni casi può comparire anche una cheratite sclerosante, che può evolversi e causare un’opacizzazione della cornea, provocando danni permanenti alla funzione visiva, o una cheratite puntata (figura 1). Complicanze oculari dell'oncocercosi A b C D Figura 1 Lesioni oculari provocate dalle microfilarie a livello del segmento anteriore. A) cheratite puntata; B) primi segni della cheratite sclerosante; C) e D) progressione della cheratite sclerosante che porta a opacizzazione totale della cornea. 28 Merck-12.indd 28 15/05/13 17:28 A livello del segmento posteriore, la presenza della larva provoca abitualmente una corioretinite progressiva, più frequentemente a partire dalla periferia, e un’infiammazione cronica che porta all’atrofia ottica. L’interessamento della retina e del nervo ottico può portare a una riduzione del campo visivo fino alla cecità. Globalmente, si stima che l’oncocercosi abbia reso cieche circa 500 mila persone e abbia provocato gravi deficit visivi ad altre 800 mila. Inoltre, la malattia è ritenuta responsabile di 40 mila nuovi casi di cecità. Che cosa si può fare dal punto di vista degli interventi per combatterla? Una delle possibilità è uccidere il vettore, l’altra è uccidere la microfilaria. Sul primo fronte, nel 1974 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), in collaborazione con altre tre agenzie dell’Onu, ha lanciato un programma di controllo dell’oncocercosi (Ocp) nell’Africa occidentale, volto a proteggere la popolazione di 11 Paesi mediante la dispersione di insetticidi con mezzi aerei sulle zone di riproduzione della mosca. Il costo dell’operazione è stato stimato intorno ai 700 milioni di dollari. Nel 1987, con l’avvio della donazione di ivermectina (Mectizan) da parte di Merck & Co. si è passati dal controllo esclusivo del vettore al controllo anche delle microfilarie, combinando la dispersione degli insetticidi con il trattamento con questo chemioterapico. L’Ocp, costoso e fonte di grave inquinamento ambientale, è terminato ufficialmente nel dicembre 2002 ed è riuscito a fermare la trasmissione della malattia in tutti i Paesi partecipanti, tranne la Sierra Leone, dove le operazioni sono state interrotte da una guerra civile decennale. Intanto, nel 1995 l’Oms, assieme a varie Ong, il settore privato (Merck & Co.), diversi Paesi donatori e alcune agenzie dell’Onu, ha lanciato una seconda campagna, il Programma africano per il controllo dell’oncocercosi (Apoc), per combattere la cecità fluviale anche nel resto dell’Africa, una partnership più ampia che coinvolge 19 Paesi partecipanti, tra cui Uganda, Tanzania e Guinea Equatoriale. In questi Paesi, il trattamento di massa con ivermectina è stato affiancato dal larvicidio del vettore con insetticidi sicuri per l’ambiente, che è stato fatto per 2-3 anni e terminato nel 2005, mentre nelle altre nazioni interessate dal programma il controllo del vettore non è era fattibile o conveniente economicamente. Per quanto riguarda il controllo delle microfilarie, il farmaco ivermectina si è dimostrato uno strumento utile ed efficace per il controllo e l’eliminazione dell’oncocercosi su vasta scala. La sua distribuzione viene effettuata grazie al supporto dei Ministeri della Salute dei Paesi in cui la malattia è endemica, di varie organizzazioni non governative, dell’Ngdo Network per il controllo dell’oncocercosi e di diversi programmi tra cui l’Apoc, il Programma per l’eliminazione dell’oncocercosi per l’America Latina (Oepa) e il Mectizan Donation Program. L’Oepa è un’iniziativa regionale lanciata nel 1991, volta a ridurre la morbidità e la trasmissione dell’oncocercosi in sei Paesi dell’America Latina (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela) dove ci sono circa 500 mila persone a rischio. Il programma, che coinvolge alcune Ong, Merck & Co., la Paho (Pan american health organisation) e i Cdc (Center for disease control and prevention) di Atlanta, si basa sulla somministrazione di massa di ivermectina ogni 6 mesi, con l’obiettivo di raggiungere un copertura minima dell’85% della popolazione a rischio. L’iniziativa ha avuto successo, in quanto non ci sono più nuovi casi di cecità attribuibili all’oncocercosi nella regione e tutte le lesioni oculari attribuibili alla malattia sono state eliminate in 9 dei 13 foci presenti sul territorio. Nei Paesi coperti dall’Apoc, invece, la popolazione a rischio è di 115 milioni di abitanti. Il programma, ancora in corso, prevede la somministrazione annuale di ivermectina, effettuata grazie alla partecipazione attiva di membri delle comunità interessate dal programma. Il fine ultimo dell’iniziativa, prolungata fino al 2015, è arrivare a trattare più di 90 milioni di persone nei Paesi interessati e prevenire oltre 40 mila casi di cecità fluviale ogni anno. Quest’anno, su PLoS, è stato pubblicato uno studio realizzato in Mali e in Senegal che ha fornito la prova di principio della fattibilità dell’eradicazione dell’oncocercosi tramite il trattamento con ivermectina nei foci endemici in Africa. Inoltre, la valutazione epidemiologica dell’impatto della distribuzione del farmaco nel continente africano mostra che in 12 aree la patologia è stata probabilmente eliminata, che in altre è vicina all’eliminazione e in altre ancora si stanno facendo buoni progressi in quella direzione (figura 2). L’Apoc ha ottenuto questo risultato rafforzando il sistema sanitario attraverso la formazione, a livello locale, di personale sanitario e di soggetti addetti alla distribuzione del farmaco, tramite la fornitura di supporto logistico (veicoli, moto, computer ecc.), oltre che mettendo in campo altri interventi collaterali come la distribuzione di vitamina A e di zanzariere impregnate di insetticida, nonché implementando l’assistenza oftalmologica (per esempio, per l’individuazione dei casi di cataratta) e la fornitura di moduli didattici alle facoltà di medicina. 29 Merck-12.indd 29 15/05/13 17:28 Impatto della distribuzione di ivermectina in Africa Eliminazione probabilmente già raggiunta (12 siti: 7,4 milioni di persone) Vicino all’eliminazione Buon progresso verso l’eliminazione Valutazione dei risultati insufficiente Figura 2 Valutazione epidemiologica dell’impatto della distribuzione di ivermectina per il trattamento dell’oncocercosi nel continente africano. I 25 anni del Mectizan Donation program: spianare la strada all’eliminazione dell’oncocercosi nel 21° secolo Benedetta Nicastro Policy & Communication Manager, MSD Italia Avviato nel 1987 da Merck & Co. con la decisione, visionaria per l’epoca, di fornire gratuitamente l’ivermectina – unico trattamento farmacologico efficace per l’oncocercosi – a tutti coloro che ne avessero avuto bisogno e per tutto il tempo necessario, il Mectizan Donation Program (MDP) ha festeggiato nel 2012 i 25 anni di attività. Si tratta del più longevo programma, tuttora in corso, di donazione di un farmaco e della prima partnership pubblico-privato attuata nel settore, e ora presa in prestito come modello anche da diverse agenzie di cooperazione internazionale. Fino ad oggi, il programma ha distribuito 750 milioni di trattamenti, corrispondenti a 3 miliardi e mezzo di compresse, per un valore commerciale stimato di oltre 5 milioni di dollari, raggiungendo ogni anno 110 milioni di persone nei Paesi dove la malattia è endemica. Grazie a questo progetto, nel 2008 la Colombia ha annunciato l’eradicazione dell’oncocercosi, mentre Ecuador e Venezuela hanno concluso la fase di di- stribuzione e di trattamento di massa, e sono ora in una fase di controllo. Dei 13 Paesi dell’America Latina in cui era presente la malattia, 11 sono attualmente in fase di controllo. Grazie alla strategia implementata in questa regione, dove si è passati a una somministrazione semestrale invece di quella annuale, il 34% della popolazione non è più a rischio di contrarre la cecità fluviale. Il MDP ha anche dato la spinta allo sviluppo di una strategia per la somministrazione dei trattamenti all’interno delle comunità, grazie alla quale volontari non retribuiti e adeguatamente formati, distribuiscono essi stessi i farmaci. Se in America Latina l’obiettivo eradicazione è stato, di fatto, raggiunto, in molti Paesi Africani, specialmente quelli dove la situazione politica è più instabile e le infrastrutture sono più scarse, c’è ancora molta strada da fare. Tuttavia, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’oncocercosi cesserà di essere una minaccia per le popolazioni che ne sono affette già nel 2020. 30 Merck-12.indd 30 15/05/13 17:28 La distribuzione di Mectizan in Togo Charles Kondi Agb Ministro della Salute del Togo Il Togo è un piccolo Paese africano in cui vivono 6,7 milioni di persone (il 35% delle quali al di sotto della soglia di povertà), concentrate soprattutto vicino ai numerosi corsi d’acqua presenti. Il sistema sanitario ha un’organizzazione piramidale a tre livelli e il territorio è suddiviso in 40 distretti sanitari. In Togo, l’ivermectina (Mectizan) è utilizzata per combattere l’oncocercosi ma anche le filariosi linfatiche (figura 1), malattie che, oltre agli effetti negativi sulla salute, hanno un pesante impatto sociale ed economico. La distribuzione del farmaco, donato gratuitamente da Merck & Co., è iniziata nel 1988 e fino al 1996 è stata fatta da equipe itineranti nelle aree con una prevalenza di oncocercosi superiore al 40%. Nel 1996 è stato avviato un trattamento di massa, in cui la distribuzione è stata affidata direttamente alle comunità interessate e a operatori sanitari volontari non pagati, o pagati pochissimo, con una somministrazione porta a porta che ha raggiunto anche villaggi con meno di 2000 abitanti. Nel 2000 si è iniziato a utilizzare ivermectina anche per il trattamento della filariasi linfatica, in particolare è stata distribuita in associazione con albendazolo (fornito gratuitamente da GlaxoSmithKline) alle popolazioni residenti nelle aree in cui sono endemiche entrambe le malattie. Nel 2010, il trattamento di massa contro la filariasi è stato sospeso perché si è verificato che nei sette distretti in cui le due patologie sono coendemiche, la filariasi è stata eradicata, mentre da allora a oggi è continuata la distribuzione del famaco per il controllo dell’oncocercosi. Come funziona la catena di distribuzione di ivermectina? Ogni anno, il Togo invia un rapporto sul trattamento effettuato per quell’anno e una richiesta di fornitura del farmaco per l’anno successivo. La domanda viene esaminata e approvata dall’Oms e dal Mectizan Donation Program, che provvede quindi all’invio del farmaco via nave. Una volta arrivato, il prodotto viene distribuito dagli operatori sanitari appositamente formati, oltre che sulla dispensazione, anche sugli eventi avversi della cura e su come redigere i rapporti sulla copertura del trattamento. Vi sono naturalmente una supervisione da parte dei vari livelli delle strutture sanitarie per rilevare e risolvere eventuali problemi che possono presentarsi, nonché un controllo e un monitoraggio dell’impatto di questa distribuzione. Dal 1997 ad oggi sono state ricevute e distribuite oltre 117 milioni di compresse di ivermectina e nel 2011 sono state raggiunte e trattate più di 2,5 milioni di persone, dunque più di un terzo della popolazione interessata, con un’ottima copertura sia geografica sia terapeutica (figura 1). Per rafforzare i risultati, si lavora in collaborazione con le nazioni immediatamente confinanti (Ghana e Benin) sincronizzando la distribuzione di ivermectina e si affianca la somministrazione del farmaco Status delle malattie trattate con ivermectina in Togo Oncocercosi Distribuzione dell’oncocercosi • Mappatura eseguita nel 1976 • La malattia è endemica in 32 distretti su 40 • È raggiunto il 90% del territorio • L’80% della popolazione è a rischio Filariosi linfatica Distribuzione della filariosi linfatica • Mappatura eseguita dal 1998- 2000 • La malattia è endemica in sette distretti • 1,3 milioni di persone a rischio • I sette distretti sono co-endemici Distretti endemici Figura 1 31 Merck-12.indd 31 15/05/13 17:28 Copertura geografica e terapeutica 100 Copertura geografica 90 Copertura terapeutica 80 Copertura (%) 70 60 50 40 30 20 10 0 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Figura 2 Copertura geografica e terapeutica del trattamento con ivermectina contro l’oncocercosi in Togo. ad altre attività quali la mobilitazione e la sensibilizzazione sociale e la sorveglianza entomologica. L’impatto della distribuzione di ivermectina è stato 100 notevole, in particolare sul fronte della filariasi lin90 fatica. Sul fronte dell’oncocercosi , si è avuto un calo significativo della prevalenza della microfilaremia, 80 50% nel 1998 a meno del che è passata da più del 5% nel 2010 in 29 dei 32 distretti dove la malattia è endemica. Inoltre, 70 gli indici di trasmissione da parte dei vettori sono passati da più di 1000 nel 60 1997 meno di 100 nel 2007. Per il 2013 il Ministero della Salute ha pianifi 50cato una nuova valutazione dell’impatto degli interventi e della possibilità di sospendere la distribuzione di massa del farma40 co. Relativamente alla filariasi, si è ottenuta una 30 riduzione ancora maggiore della microfilaremia, la cui prevalenza è oggi inferiore all’1%. La distri20 buzione di massa di ivermectina per il trattamento della microfiariasi, come sopra riportato, è stata 10 interrotta in tutte le aree endemiche nel 2010, implementando un monitoraggio della situazione per 0 i successivi 5 anni. Nel 2011 si è registrato nuovamente un aumento della prevalenza della malattia e i ricercatori e le autorità sanitarie stanno cercando di capirne le ragioni. In ogni caso, il Togo è il primo Paese dell’Africa subsahariana ad aver sospeso la distribuzione massiccia della medicina contro la filariosi linfatica e prevede di raggiungere entro il 2015 i suoi obiettivi di eradicazione della malattia. Quali sono le lezioni apprese in questi anni? Innanzitutto, che le chiavi per il successo sono una buona collaborazione fra i programmi di lotta contro la fi- lariasi linfatica e quelli contro l’oncocercosi, abbinata alla partnership con le due aziende che hanno fornito gratuitamente i farmaci (Merck e GSK), con i centri di ricerca come i Cdc di Atlanta, con le Ong e con altri partner. Senza dimenticare la partecipazione di incalcolabile valore degli operatori sanitari locali, che, con il loro entusiasmo, senza guadagnare alcunché, consentono la realizzazione e il successo di campagne come quella di distribuzione di massa di ivermectina. Nonostante questi successi, comunque, sono ancora molte le sfide che Paesi come il Togo devono affrontare per evitare la recrudescenza di patologie come l’oncocercosi e la filariasi linfatica. Occorre, per esempio, sincerarsi che non vi sia una ripresa della trasmissione di queste malattie una volta finita la distribuzione di massa, bisogna continuare a sincronizzare le attività di trattamento dell’oncocercosi e di sorveglianza della filariasi con i Paesi vicini ed è necessario mobilizzare risorse per la valutazione entomologica, in modo da mantenersi aggiornati sullo status dei vettori. In alcune zone l’oncocercosi pare eliminata, tuttavia ci sono ancora aree dove la prevalenza della malattia è elevata, nonostante i tanti anni di trattamento; bisogna quindi insistere ancora e continuare a lottare. Una delle sfide è poi capire quando si potrà interrompere definitivamente il trattamento di massa contro la malattia, e con quale protocollo e quali strumenti si potrà misurare l’arresto della trasmissione. Eliminare rapidamente l’oncocercosi dal Togo resta uno degli obiettivi principali delle autorità sanitarie del Paese. 32 Merck-12.indd 32 15/05/13 17:28 SUGGERIMENTI E GESTIONE OPERATIVA La politica sanitaria nella cooperazione internazionale decentrata Cecile Kyenge Oculista presso il Poliambulatorio privato. Check up Centre, Modena e Ministro per l’Integrazione Quando si parla di cooperazione, è bene ricordare che vi sono diverse modalità di intervento. Esistono, per esempio, la cooperazione bilaterale, in cui l’intervento è fatto dal governo centrale di un Paese donatore ‘sviluppato’ verso il governo centrale di un Paese in via di sviluppo (PVS) beneficiario, per motivi sia egoistici sia altruistici, la cooperazione multilaterale, effettuata da un’agenzia internazionale (per esempio la Fao) a favore di un PVS per motivi umanitari, e la cooperazione multibilaterale, un insieme di interventi condotti da organismi internazionali, impiegando risorse principalmente destinate dal Paese donatore affinché siano impiegate in determinate aree o per specifiche finalità. Un’altra forma di cooperazione è la cosiddetta cooperazione non governativa, che comprende la vasta serie di interventi condotti a fini di solidarietà internazionale da soggetti privati senza fini di lucro e si differenzia da quella pubblica in quanto trova fondamento sulla dimensione etico-sociale dell’azione cooperativa, risultando così autonoma e slegata da direttive e priorità politiche. Tra gli aspetti positivi di questa modalità di intervento vi sono un’analisi dettagliata dei bisogni della comunità locale, un rapporto immediato e diretto con la comunità locale, senza dover passare per il filtro del governo locale, che spesso diventa un handicap, un approccio multiculturale e quindi più aperto alla comprensione della diversità e della realtà locale, la flessibilità nell’azione e lo sviluppo delle risorse umane in loco con il trasferimento di know how. Di contro, tra gli aspetti negativi, ci sono una sterile contrapposizione con la cooperazione governativa, spesso ideologica, una maggiore attenzione al progetto che alla politica di cooperazione, con una scarsa azione di lobby, una marcata dipendenza dai fondi pubblici e una scarsa capacità di corretta gestione finanziaria delle risorse. La nascita della cooperazione non governativa ha stimolato un forte dibattito in merito agli strumenti con cui fare cooperazione, anche in ambito governativo. Infatti, i risultati limitati ottenuti dalla cooperazione governativa hanno portato a un ripensamento dell’attività di cooperazione e all’adozione di nuovi strumenti, più flessibili e più capaci di sapere rispondere alle esigenze. Ed è proprio da questo dibattito che è nata una un’ulteriore e nuova forma di cooperazione: la cooperazione decentrata e il partenariato, che passano da un ente locale del Paese donante a un altro ente locale del PVS beneficiario, per arrivare direttamente alla società civile di questo Paese. La cooperazione decentrata è quindi caratterizzata da un approccio ‘bottom-up’ e si sviluppa tra i diversi livelli di organizzazione della società civile e istituzionale, permettendo il passaggio da un rapporto verticistico e di assistenza (approccio top-down), tipico della cooperazione governativa, a uno orizzontale di uguaglianza tra i partner, favorendo così i processi democratici. È in quest’ambito che sono nati progetti di cooperazione che hanno coinvolto città, province, comuni e regioni dei Paesi sia del Nord sia del Sud del mondo, in un’ottica di uguaglianza e parità. Questa nuova modalità di cooperazione presenta diversi vantaggi. Secondo l’Unione Europea (Ue), consente uno sviluppo migliore in quanto dà maggiore attenzione ai bisogni e alle priorità delle popolazioni, rafforza la società civile dando maggiore potere politico agli attori decentrati e ai gruppi svantaggiati e persegue uno sviluppo basato sul gioco democratico dei gruppi sociali, economici e politici locali. In questo senso, l’obiettivo ultimo di tale forma di cooperazione è una maggiore equità e sostenibilità nello sviluppo territoriale. Inoltre, la cooperazione decentrata risulta più funzionale di quella governativa nel rispondere con maggiore efficacia alle problematiche locali. L’Ue ha disciplinato la cooperazione decentrata con propri regolamenti (il Regolamento del Consiglio Europeo del 17 luglio 1998 n. 1659/98 e il Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 maggio n. 955/2002), che indicano diversi soggetti quali attori principali di tale forma di cooperazione e molteplici ambiti di intervento (tabella 1). I fattori di successo della cooperazione decentrata vanno ricercati nel rispetto dei valori locali, in un’adeguata (nei tempi e nei modi) ‘rivoluzione culturale’, nel ricorso ai giovani per introdurre innovazioni, nella mobilitazione di forme di risparmio locale, nell’educazione scolastica e nella formazione professionale capillare, nello sviluppo di una progressiva democrazia locale e, infine, nell’organizzazione territoriale (vie di comunicazione, luoghi di scambio ecc.) 33 Merck-12.indd 33 15/05/13 17:28 Soggetti e ambiti di intervento della cooperazione decentrata Soggetti Ambiti di intervento •Poteri pubblici locali • Organizzazioni non governative • Associazioni professionali • Gruppi d’iniziativa locali •Cooperative •Sindacati • Organizzazioni di donne e di giovani • Istituti di insegnamento e di ricerca •Chiese • Organizzazioni delle popolazioni indigene •Qualsiasi associazione non governativa in grado di fornire un contributo allo sviluppo •Sostegno alle politiche di decentramento politico e amministrativo •Promozione dei processi di democrazia partecipativa •Sostegno delle politiche di tutela delle fasce di popolazione a maggior rischio e delle minoranze specie nei territori rurali •Sostegno delle politiche di tutela del patrimonio ambientale e culturale • Pianificazione e gestione dei servizi sul territorio •Creazione di ambienti favorevoli alla crescita di forme associative di tipo cooperativistico e di micro, piccole e medie imprese •Promozione di sistemi creditizi equi e sostenibili •Creazione di centri di formazione professionale e specialistica per la crescita dell’occupazione Tabella 1 Soggetti e ambiti di intervento della cooperazione decentrata indicati nei regolamenti Ue. I possibili fattori di fallimento sono, invece, insiti nell’assenza della gestione degli interventi da parte della comunità locale (emblematico è il caso delle università private in Congo, che sfuggono a qualunque controllo istituzionale, e della presenza di medici non riconosciuti dagli ordini professionali locali, che operano in strutture private senza nessun tipo di controllo sulla competenza e sull’offerta di cura ai pazienti), nell’assenza di momenti educativi e formativi, nella mancanza, spesso, di analisi economico-finanziarie del progetto, nella scarsa professionalità dei cooperanti, in possibili forme di ‘presunzione’ del personale espatriato e, da ultimo, nella presenza di forme di corruzione a tutti i livelli. In prospettiva, la cooperazione decentrata dovrà evolversi nella direzione di combattere la povertà realizzando profitto. A tale scopo, si impongono una valutazione dei fattori di successo e di fallimento, una stima adeguata della sostenibilità economica, oltre che ambientale e istituzionale, dei progetti di cooperazione, l’individuazione e sensibilizzazione delle imprese etiche dei Paesi del Nord del mondo, l’apertura di un dialogo con i giovani potenziali imprenditori dei PVS, associata a un’azione di stimolo nei loro confronti, e, infine, l’individuazione di tecnologie adatte e accessibili per i PVS, tanto più in ambito sanitario. Priorità sanitarie nei Paesi con risorse limitate: il pacchetto sanitario minimo Augusto Cosulich Medico esperto di cooperazione sanitaria internazionale In tema di salute, una delle priorità per i Paesi in via di sviluppo (PVS) è quella di dotarsi di un pacchetto sanitario minimo. Con questo termine s’intende la combinazione di misure sanitarie minime che ogni nazione dovrebbe garantire gratuitamente ai suoi abitanti, a prescindere da età, sesso e condizioni economiche, religiose, politiche, etniche ecc., affinché possano avere una vita sana. Questo concetto è strettamente correlato all’impatto di una malattia e alla disponibilità di risorse (tra cui rientrano anche i donatori internazionali e altri partner). Il pacchetto è spesso inserito nei programmi di lotta alla povertà e consiste in una combinazione di servizi preventivi, curativi, riabilitativi, con alcune priorità assolute. Tra queste, vi sono le malattie potenzialmente letali (come l’infezione da HIV, la tubercolosi, la malaria ecc.), quelle che causano disabilità e tutte le condizioni che in vario modo possono ostacolare lo sviluppo economico (malattie della povertà). Inoltre, conditio sine qua non di questo pacchetto è la sua sostenibilità nel tempo dal punto di vista non solo finanziario, ma anche politico e gestionale. 34 Merck-12.indd 34 15/05/13 17:28 La prevenzione deve comprendere i programmi vaccinali, servizi per la salute riproduttiva e sessuale, servizi di clinica antenatale e programmi contro le patologie infettive come HIV, malaria, tubercolosi, per le quali, tanto più in contesti come i PVS, la prevenzione è fondamentale. Altrettanto importante è la promozione di uno stile di vita sano nelle comunità e nei villaggi, per proteggere quanto più possibile la popolazione dal rischio di contrarre queste malattie. Naturalmente, occorre garantire a chi si è ammalato un servizio di diagnosi e cure di buona qualità per tutte le principali patologie (trasmissibili e non) frequenti nell’area. Molto importante è la presenza di servizi di maternità affidabili, con un efficiente sistema di invio, perché un buon servizio sanitario deve essere in grado di riferire per un parto cesareo una donna entro 2 ore dall’inizio del travaglio. Devono, inoltre, essere presenti servizi di riabilitazione per condizioni fisiche e neurologiche, quali ad esempio la poliomielite. Anche se il quadro è molto diverso da Paese a Paese, purtroppo molti PVS non sono ancora in grado di offrire ai propri abitanti un pacchetto sanitario minimo e alcuni sono ben lontani dal raggiungere questo obiettivo, per svariate ragioni. Tra queste, vi sono l’instabilità politica o sociale, la scarsa ‘good governance’ e, soprattutto, la scarsità di fondi messi a disposizione dai governi locali, che non sono sufficientemente impegnati su questo fronte e si basano ancora pesantemente sul supporto e sull’aiuto esterno offerto da programmi come il Global Fund o il Pepfar. Inoltre, il tentativo di raggiungere i tre obiettivi di sviluppo del millennio (Millenium Development Goals) definiti dall’Onu in materia di salute (ridurre di due terzi la mortalità infantile, ri- durre di tre quarti la mortalità materna e arrestare la diffusione dell’HIV/AIDS, della malaria e delle altre malattie infettive più importanti) ha un impatto non del tutto positivo, perché porta a una concentrazione delle risorse per lo più su malaria, tubercolosi e AIDS, distogliendo i fondi da altre condizioni comunque importanti. C’è, infine, il problema della resistenza ai farmaci contro le malattie trasmissibili, che ha certamente implicazioni di primo piano sia a livello locale sia internazionale, visto che viviamo ormai in un mondo globalizzato. Chi si occupa di cooperazione deve tenere presente che per i PVS è ancora valida la ‘legge inversa dell’assistenza sanitaria’ basata su questi quattro principi: 1) le popolazioni ricche hanno maggiore accesso ai servizi sanitari pubblici rispetto a quelle povere; 2) la copertura vaccinale è di importanza fondamentale perché è strettamente correlata con lo stato di salute e di benessere di una popolazione, ma purtroppo in molti PVS è ancora bassa; 3) in questi Paesi, chi è povero e si ammala spesso non ha accesso alle cure e ha il doppio delle probabilità di ricorrere all’autocura o di rivolgersi a un guaritore tradizionale e, addirittura, una probabilità 10 volte maggiore rispetto a un cittadino di un Paese ricco di non fare assolutamente niente e aspettare fatalmente che gli eventi maturino; 4) cosa forse ancora peggiore, chi, pur essendo povero, si rivolge al sistema sanitario locale, spesso deve pagare di tasca propria le prestazioni erogate se il Paese in cui vive non è in grado di offrire il pacchetto sanitario minimo, rischiando così di impoverirsi ulteriormente e mettere ancora più a repentaglio nel futuro la propria salute e quella della propria famiglia. Come preparare un progetto nei Paesi in via di sviluppo Mario Angi Presidente Cbm Italia onlus Nel 2009 anche l’Italia, tramite l’istituzione della Commissione nazionale per la prevenzione della cecità, costituita a Roma il 9 ottobre, è entrata a far parte del programma ‘Vision 2020: the right to sight’ che punta a eliminare entro il 2020 le principali cause di cecità evitabile nel mondo. Tra i compiti della Commissione vi è il monitoraggio delle iniziative di cooperazione internazionale svolte da associazioni ed enti italiani (pubblici, non profit e privati) per la prevenzione della cecità nei Paesi in via di sviluppo (PVS) e nelle aree povere, in armonia con le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tale compito è stato affidato a Cmb Italia onlus, che nel 2011 ha proceduto al censimento dei progetti, identificandone 140. Altro compito della Commissione era lo sviluppo di linee guida per la prevenzione delle menomazioni della vista e linee di indirizzo per la conduzione di progetti di prevenzione della cecità e dell’ipovisione in campo internazionale. Lo scorso anno Cbm Italia, in collaborazione con il Ministero della salute e con l’Oms (nelle persone, rispettivamente, di Francesco Cicogna e Silvio Paolo Mariotti) ha partecipato alla stesura di tali linee, che saranno presto diffuse e che prevedono sei punti principali (tabella 1). Il primo passo è definire le premesse del progetto. Si 35 Merck-12.indd 35 15/05/13 17:28 Linee di indirizzo 1 Premesse del progetto 2Stipulare il contratto 3Formazione del personale 4Beni da donare 5 Spedizione dei beni 6Codice etico e buona gestione Tabella 1 I sei punti chiave delle linee di indirizzo per la conduzione di progetti di prevenzione della cecità e dell’ipovisione in campo internazionale. suggerisce, innanzitutto, di intervenire solo su richiesta di un partner locale, per cercare di non imporre le nostre visioni di cooperazione alle popolazioni destinatarie. Nello stesso tempo, bisogna valutare la solidità del partner, cercando possibilmente di averne uno istituzionale anziché privato, che sia riconosciuto dal governo (opportuno chiedere una lettera di avvallo istituzionale del partner). Sia il partner sia chi vuole aiutare devono essere in grado di fornire garanzie di sufficiente disponibilità economica; è inutile, infatti, far partire un progetto senza avere le risorse adeguate per portarlo avanti. Occorre poi valutare l’idoneità della proposta in termini di collocazione geografica e bacino d’utenza, verificando se non ci sono già altri progetti simili in corso nella stessa zona e se non possa esservi conflitto di interessi del partner (rischio di uso privato di risorse donate ai poveri). Un progetto oculistico che comprende una sala operatoria attrezzata necessita di un bacino d’utenza grande (non meno di 80-100 mila abitanti) e quindi, se si investe nel comprare un microscopio operatorio, lampade a fessura e altri strumenti per allestire un centro oculistico di secondo livello in un villaggio di 10 mila abitanti, si sprecano risorse preziose, in quanto le attrezzature rimarranno sottoutilizzate. Infine, è opportuno contattare l’Ambasciata italiana e la Diocesi per informarsi sulla situazione politica del luogo e sull’eventuale presenza di tensioni etniche e religiose, e per aumentare l’afflusso di pazienti informando la popolazione del nuovo progetto oculistico tramite la rete delle parrocchie e le radio locali. Il secondo punto è stipulare un contratto, cioè predisporre una scrittura privata in cui siano indicati in modo preciso nome del progetto, nomi e indirizzi del partner e del donatore, responsabile legale, chi riceve la proprietà dei beni, chi si occupa di fare manutenzione, tempi di realizzazione, clausole risolutive ed eventuali penali, struttura organizzativa dell’ospedale e competenze della direzione, risultati attesi e piano pluriennale, verificando la validità degli accordi sul luogo. Il terzo punto, molto importante, è l’addestramento del personale. Occorre curare sin dall’inizio l’adde- stramento degli operatori locali, attraverso corsi di formazione riconosciuti dallo Stato che devono avere una validità legale. I corsi possono essere offerti come premio a medici e infermieri, che in questo modo si legano al progetto di cooperazione. Non bisogna, invece, invitare in Europa il personale locale, perché il confronto con la nostra realtà fa sì, di regola, che quasi tutti cerchino in qualche modo di restare all’estero. È importante fornire, se non c’è, un accesso Internet via satellite o pagando la connessione telefonica, perché questo diventa un punto qualificante del progetto. Infine, bisogna introdurre da subito i principi di controllo di qualità. Altro punto essenziale riguarda i beni da donare, i quali sono ciò che permette al progetto di partire. Bisogna donare solo strumenti utili, revisionati e con un manuale d’uso tradotto nella lingua locale, evitando apparecchiature ad alta tecnologia come ad esempio facoemulsificatori di ultima generazione (che il personale locale non sarebbe in grado di usare) o kit consumabili monouso (troppo costosi). Prevedere da subito un registro per inventariare i beni donati, uno per pagina, con la data di donazione e la firma di ricezione di chi prende in carico il bene. Questo consente, nel tempo, di effettuare controlli di ciò che si dona e di registrare interventi di manutenzione, la frequenza di ricambio di pezzi e la dismissione del bene. Occorre poi assicurarsi che assieme al materiale donato vi sia una ricca dotazione di ricambi, le lampadine debbono – ove possibile – passare da filamento a incandescenza a led e ci devono essere fusibili e indirizzi dove rifornirsi di ricambi. Servono anche stabilizzatori di corrente (per strumenti più delicati con componenti elettroniche) e spine compatibili con il Paese dove si va. È necessario conoscere la data di fabbricazione degli strumenti, la marca e la disponibilità temporale dei pezzi di ricambio per ogni modello (è inutile e dannoso donare uno strumento se i ricambi non sono reperibili). Da ultimo, è importante istruire le infermiere e i tecnici sulla manutenzione e tropicalizzare gli strumenti donati. Per esempio, all’interno di alcuni microscopi operatori portatili costruiti per la cooperazione è presente un dispenser antimicotico, per evitare la formazione di funghi. La spedizione dei beni è il quinto aspetto da considerare, ed è spesso un punto dolente. Bisogna preparare bene la ‘packing list’, con una descrizione completa di ciascun apparecchio, indicando nome, marca, numero di serie, peso e dimensione ed è prudente spedire la packing list in anticipo al partner locale, per fargli verificare che non ci siano problemi in dogana. Bisogna possibilmente imballare un solo strumento per cassa, ponendo un numero progressivo su ognuna, ed è essenziale avere imballaggi idonei per il trasporto, a prova di caduta e umidità, perché il corriere rimborsa solo cifre simboliche in caso di danneggiamenti. Le 36 Merck-12.indd 36 15/05/13 17:28 casse devono essere di dimensioni ridotte (massimo 50x50x70) e peso, contenuto (se troppo grandi, è difficoltoso farle entrare nelle jeep o nei piccoli aerei delle linee locali). Se possibile, inoltre, bisognerebbe essere presenti alla loro apertura e alla posa in opera degli strumenti. Ultimo punto delle linee di indirizzo, non trascurabile, è quello del codice etico e di buona gestione del progetto. È sempre necessario garantire la qualità dell’intervento e non puntare sulla quantità: ciò che viene fatto, deve essere fatto bene. Bisogna poi dare spazio ai medici locali, senza creare il mito del medico occidentale che arriva sul posto come un deus ex machina; è, invece, importante e motivante per il personale del posto che i pazienti e i familiari gli attribuiscano parte del merito di ciò che è stato fatto. Non si deve, inoltre, eseguire uno screening senza poter offrire poi un servizio. Per esempio, non si può fare una ricerca dell’ambliopia senza prevedere di dare gli occhiali ai bambini trovati positivi, così come non si può non operare la cataratta ai pazienti ai quali è stata diagnosticata. Bisogna mettere dall’inizio le regole di comportamento in chiaro, per iscritto. Infine, nessun servizio va offerto gratuitamente (concetto fondamentale nella cooperazione sostenibile), a meno di non avere un certificato di indigenza del paziente redatto da un’autorità super partes come il direttore dell’ospedale. È fondamentale anche registrare sempre con chiarezza e precisione entrate e uscite, senza mescolarle, e fare frequenti controlli incrociati tra incassi e numeri di visite, di interventi e di farmaci distribuiti, al fine di evitare ruberie e piccoli trucchi, frequenti, per appropriarsi di denaro. Infine, bisogna verificare le statistiche per valutare che nel servizio dato ci sia una corretta proporzione fra i sessi (in termini di rapporto maschi/femmine) età, etnie e religioni, per identificare e rimuovere sul nascere ogni possibile forma di discriminazione. Come mettere a punto un’unità oftalmologica Piet Paul Marie-Andrée Noé Oculista presso l’ospedale di Kabgayi, Gitarama, Rwanda Per sviluppare un'unità oftalmologica in Africa è necessario porsi tre obiettivi. Innanzitutto, bisogna essere in grado di offrire una chirurgia di elevata qualità, nel caso della cataratta con una percentuale di insuccessi inferiore al 5% e, di converso, una percentuale altissima di casi con esiti positivi, superiore al 90%. Bisogna poi avere volumi sufficientemente ampi (un obiettivo ragionevole è almeno 1000-1500 interventi di cataratta all'anno per ogni oculista). Infine, terzo obiettivo irrinunciabile è la sostenibilità economica, con un recupero dei costi del 100% e, idealmente, un avanzo extra del 20% per ampliare la struttura. La sostenibilità, tuttavia, è legata anche all'acquisizione di un'autonomia per quanto riguarda i servizi clinici, la gestione del programma (senza dipendere da risorse umane esterne) e le entrate (senza dover dipendere da finanziamenti esterni per una cifra superiore a quella dei costi). Come raggiungere questi obiettivi? Per offrire una chirurgia di alta qualità occorre fare sempre la cheratometria prima dell’intervento, usare buone tecniche chirurgiche, non accettare alcun compromesso sul fronte della sterilità, disporre di un vitrectomo, fare un follow-up adeguato, selezionare bene i pazienti, sottoporre il personale a un training continuo e fare una buona manutenzione degli strumenti. Per avere grossi volumi bisogna saper attrarre i pazienti utilizzando mezzi adeguati di comunicazione e marketing, nonché offrendo una chirurgia di buona qualità, avere sempre almeno un oculista disponibile, poter predisporre un sistema di chirurgia itinerante, usare una tecnica chirurgica appropriata come la Sics e far sì che la sala operatoria abbia almeno due tavoli operatori, cinque infermiere e sei set di strumenti per ogni oculista. Perché il tutto sia sostenibile, diverse sono le voci importanti (tabella 1). In primo luogo, è importante applicare un tariffario differenziato a seconda della disponibilità econoSostenibilità dell’unità oftalmologica •Prezziario differenziato in base alla disponibilità dei pazienti •Aumento della produttività (numero di interventi per oculista) •Organizzazione di un sistema di chirurgia itinerante •Staff dedicato a lungo termine •Leadership e atteggiamento •Edificio, infrastruttura, sede Tabella 1 Elementi importanti per garantire la sostenibilità dell’unità oftalmologica. 37 Merck-12.indd 37 15/05/13 17:28 mica di chi afferisce al centro. I pazienti in genere possono essere divisi in quattro categorie: un piccolo gruppo (5%) in grado di pagare qualunque cifra pur di essere curato ed, eventualmente, anche di andare all’estero per questo, un 40% circa in grado di pagare una somma ragionevole (un mese di stipendio), un 35% in grado di pagare, ma solo con tariffe agevolate, e un 20% che non può pagare nulla. Ai fini della sostenibilità, bisognerebbe riuscire a guadagnare dai primi due gruppi per sponsorizzare e ripagare il costo dell'intervento per i più poveri. Presso l’ospedale di Kabgayi per esempio, si applicano due prezziari diversi: uno per i pazienti normali (con un’assicurazione sanitaria di base) e un secondo, più elevato, per i pazienti privati, che pagano di più per ripagare le spese degli altri. Per questi ultimi i costi sono in genere solo di 20 centesimi di euro per un consulto normale, 8 euro per la Sics e 5 centesimi di euro per ogni notte di degenza contro 30 euro per la visita, 120 euro per l’intervento di Faco e 18 euro a notte per la degenza in camera privata, anziché nel dormitorio. Inoltre, il centro deve riuscire a essere molto produttivo. A tale scopo, bisogna calcolare il costo totale dell'erogazione dei servizi, che è pari alla somma dei costi fissi e di quelli variabili. I primi sono quelli di gestione del centro, soprattutto gli stipendi del personale, che rappresentano la voce di spesa maggiore e in un ospedale normale ammontano a circa il 70% del totale; i costi variabili consistono, invece, nel costo del materiale, che è proporzionale al numero di interventi praticati. Il costo di ogni intervento di cataratta è pari al costo fisso diviso il numero di interventi di cataratta, più il costo di un’unità di materiale consumato. Si deve cerare di ridurre il costo unitario dell'intervento aumentando il numero possibile di operazioni e cercando, nel contempo, di spendere meno per i materiali di consumo. Da notare che il costo totale per il paziente comprende anche altre voci come il trasporto, il cibo, il numero di visite in ospedale prima dell’intervento. Il centro è responsabile anche di questo e deve quindi cercare di mantenere basso il costo totale a carico del paziente operando subito dopo la diagnosi, in modo da dimettere in fretta i pazienti. Il costo del materiale di consumo può essere abbattuto facendo acquisti intelligenti, per esempio ordinando grandi quantitativi, usando materiali che possano essere risterilizzati, anziché usa e getta, e sfruttando le risorse il meglio possibile (per esempio un solo flacone di viscoelastico ogni due o tre pazienti). In tal modo, quando i numeri sono ampi, si riesce ad abbattere il costo dell'intervento. Tuttavia, i grandi volumi non devono andare a discapito della qualità: l'obiettivo è sempre quello di operare il maggior numero di pazienti nel modo migliore. Il costo unitario dell’intervento di cataratta è anche uno strumento per misurare l'efficienza del centro, la sua produttività e il livello di qualità. Anche il capitolo risorse umane ha la sua importanza ai fini della produttività. Sono importanti la formazione continua del personale, un orario di lavoro regolare e abbastanza lungo per consentire l’accesso di più pazienti, l'assegnazione delle mansioni (un oculista non deve fare ciò che può essere fatto dagli infermieri) e anche una job description molto accurata, affinché il personale sappia esattamente cosa ci si aspetta da loro, quale sia il loro ruolo e sia quindi un po' più responsabilizzato; inoltre, è essenziale programmare la forza lavoro anche in base al carico di lavoro e retribuire in modo adeguato il personale perché sia efficiente e motivato, offrendogli magari anche altre forme di incentivo, al di là di quello strettamente economico. È ovvio che contano molto anche la leadership e l'atteggiamento. Per essere riconosciuto come leader, il direttore del centro deve puntare alla ricerca dell’eccellenza, ma anche essere disponibile a cambiare, imparare e lavorare sodo. Il personale del centro deve essere compassionevole, focalizzato sul paziente, sempre disponibile e, ovviamente, anche concentrato più sul far crescere l'organizzazione che il proprio stipendio. L’oculista, soprattutto, dovrebbe cambiare mentalità e passare da un’ottica di alti margini di guadagno, pochi interventi e un compenso per ogni prestazione a un’altra in cui i margini sono bassi, si opera tanto e si percepisce uno stipendio fisso. Un altro punto chiave riguarda l’infrastruttura, che deve essere tale da consentire di lavorare in modo efficiente ed essere ben bilanciata in termini di numero di ambulatori, sale operatorie e numero di letti. Inoltre, è importantissimo che il centro sia situato in una zona idonea e sia di facile accesso. Un’unità oculistica è un servizio di secondo/terzo livello e deve quindi poter servire un bacino d'utenza di 500 milaun milione di abitanti. Se il centro viene costruito in una zona rurale, dove vivono poche persone sparse qua e là, è chiaro che sarà sottoutilizzato e non sarà facile attirare abbastanza pazienti paganti per poter raggiungere la sostenibilità finanziaria. Per implementare un’unità oculistica servono poi molte altre cose, tra cui, per esempio, un luogo in cui riporre le cartelle cliniche, un magazzino, forniture di strumenti e apparecchiature, una farmacia centralizzata e, idealmente, anche un laboratorio di ottica per produrre direttamente gli occhiali prescritti ai pazienti. Bisogna poi pensare alla manutenzione, alla sicurezza, alla pulizia del centro, alla logistica, alla registrazione dei pazienti e, da ultimo, assicurare la presenza di qualcuno in grado di seguire la contabilità. 38 Merck-12.indd 38 15/05/13 17:28 Il corso della Medicus Mundi Italia: un’esperienza d’insegnamento Vincenzina Mazzeo Medicus Mundi Italia La Medicus Mundi Italia, è parte di un’organizzazione non governativa internazionale, ha sede a Brescia e tiene dal 1988 in questa città, un corso di aggiornamento in medicina tropicale diretto a medici, odontoiatri ed operatori sanitari (infermieri, ostetriche, biologi, fisioterapisti, farmacisti ecc.) interessati a partecipare a progetti sanitari nei Paesi in via di sviluppo (PVS). Il corso, della durata di 3 settimane ( 105 ore), tratta svariati argomenti (tabella 1), tra cui anche l’oftalmologia tropicale con 4 ore di lezione. Materie del corso di aggiornamento in malattie tropicali •Programmi di vaccinazioni nei PVS •Malnutrizione •Emergenze chirurgiche e ostetriche nei PVS •Lebbra e tubercolosi •Malaria •HIV •Malattie sessualmente trasmesse •Parassitologia nei PVS •Oculistica nei PVS •Dermatologia nei PVS •Anemie nei PVS •Farmaci di base •Tecniche di laboratorio di base •Volontariato, cooperazione e sviluppo •Legislazione sulla cooperazione internazionale Tabella 1 Argomenti principali trattati nel corsi di aggiornamento in malattie tropicali organizzati da Medicus Mundi Italia. Dal 2004, il corso è accreditato al Ministero e dà ora diritto all’acquisizione di 50 crediti Ecm, il massimo di quanto il Ministero attribuisce nel campo della formazione. La presente statistica si basa sulle notizie richieste al momento della domanda d’iscrizione che comprende, oltre ai dati anagrafici e di scolarizzazione, la conoscenza di lingue straniere, le pregresse esperienze e la propria disponibilità a partecipare a progetti di assistenza. Dalla sua istituzione a oggi, vi hanno partecipato in totale 393 discenti, di cui 167 già con un’esperienza di cooperazione inter- nazionale alle spalle, che hanno evidentemente sentito la necessità di tornare ad aggiornarsi. Tra tutti i partecipanti, 201 conoscevano una lingua straniera (oltre all’italiano), 160 ne conoscevano due o tre e tre ne conoscevano ben quattro, mentre 29 non ne conoscevano nessuna. Complessivamente, il corso è stato frequentato finora per il 54% da medici e per il 40% da infermieri professionali, seguiti da ostetriche (3%), biologi (1%), tecnici di laboratorio (1%) e altre figure professionali. Dopo i primi 2 anni, il corso è stato gestito in collaborazione con la Cattedra di Malattie infettive tropicali dell’Università di Brescia e quindi per un certo periodo è stato riservato ai soli medici, per poi essere nuovamente aperto anche agli infermieri e agli altri operatori sanitari. Le specialità dei medici partecipanti sono le più svariate: si va dai medici di base agli infettivologi, dai ginecologi ai pediatri, dai neurologi agli psichiatri e altro ancora; pochi gli oculisti: dall’avvio ad oggi, infatti, solo tre hanno preso parte al corso. Tenuto conto dell’eterogeneità dei discenti e del tempo ridotto a disposizione, le ore del corso dedicate all’oculistica sono, da sempre, suddivise in una parte ‘generica’ e una più ‘specifica’. Nella prima si affronta la diagnosi differenziale dell’occhio rosso, e delle principali patologie oculari, si spiega quali sono i farmaci oculistici essenziali e qual è il bagaglio minimo di strumentazione necessaria, tra cui apparecchi a basso costo come una piccolissima lampada a fessura portatile una lampada di Wood, entrambe a pile, alcuni strumenti non più in uso nei nostri ospedali come cauteri monopolari a pila, divaricatori palpebrali e strumentario dismesso, ma potenzialmente ancora utili in realtà con poche risorse a disposizione, come quelle dei PVS. Si passa poi a alla parte più specifica, definendo il concetto di cecità e ipovisione con i relativi dati epidemiologici, basati sulle stime dell’Oms sulle cause principali di cecità e danno visivo a livello regionale e globale. In particolare si fa riferimento al programma ‘Vision 2020: the right to sight’, per poi descrivere nei dettagli più specifici le patologie più frequenti nelle diverse aree geografiche mondiali. Segue, talvolta fuori orario, una piccola parte pratica con visione dello strumentario minino. Nella seduta di chiusura del corso viene fornito a tutti i partecipanti un Cd che contiene tutte le presentazioni e, nello specifico dell’oculistica, anche una bibliografia di riferimento generica e specifica comprensiva dei rife- 39 Merck-12.indd 39 15/05/13 17:28 rimenti su come reperire la strumentazione di base. Nel prossimo futuro Medicus Mundi Italia, tramite Internet, intende avviare un’indagine per avere un feeback dai partecipanti sul corso e sulla sua utilità alle luce delle esperienze eventualmente effettuate nelle missioni internazionali, con l’obiettivo di rendere il programma sempre più mirato e funzionale alle esigenze degli iscritti. La raccolta fondi nella cooperazione internazionale: l’esperienza di Cbm Italia Luciano Miotto Direttore nazionale Cbm Italia onlus Nella cooperazione internazionale, prerequisito per la sostenibilità nel tempo dei progetti e della conseguente raccolta dei fondi ad essi destinati è che ogni flusso di donazioni e contributi verso il progetto e i suoi beneficiari sia sempre controbilanciato da un flusso opposto di informazioni dal campo verso i donatori/finanziatori sull’avanzamento del progetto stesso e sui risultati previsti e ottenuti, affinché chi lo sostiene abbia tutti gli elementi per poter pensare di aver ‘speso’ bene i suoi soldi e per una giusta causa. Inoltre, per alimentare un rapporto empatico con i donatori, che rinforzi la conoscenza e la fiducia nell’organizzazione, è opportuno avere bilanci certificati, buoni standard qualitativi, una carta di valori interna, politiche di integrità e linee guida sulla protezione dei minori: tutti prerequisiti essenziali per un’Ong, così come la capacità di trasmettere concretamente la propria professionalità, la propria efficienza ed efficacia, la capacità di amministrare bene le risorse ricevute e la trasparenza nel rendicontare. Occorre poi considerare che esistono diverse tipologie di finanziatori (enti sovranazionali, come Onu, Ue ecc., enti nazionali, aziende, fondazioni, associazioni), che richiedono perciò approcci diversi, perché diverse sono le motivazioni a donare e i parametri di giudizio di ciascuno. A prescindere dalla tipologia, però, donare è un’esigenza primaria che dà gioia e soddisfazione intrinseca all’individuo. Rafforzare la soddisfazione dei nostri donatori attraverso una comunicazione tempestiva ed empatica dei risultati ottenuti dai beneficiari della donazione è la chiave di volta della raccolta fondi. Christian blind mission (Cbm) è un’Ong internazionale con 11 soci nazionali, che gestisce 115 milioni di donazioni all’anno e oltre 600 programmi attivi in più di 60 Paesi svantaggiati. Il sogno condiviso dei suoi membri è che nessuno debba diventare o rimanere cieco o disabile solo perché non ha acces- so alle cure in quanto povero o nato in un Paese svantaggiato. La forza dell’associazione risiede nella sua esperienza ultracentenaria (è stata fondata nel 1908), nel fatto di avere partner come l’Organizzazione mondiale della sanità e, soprattutto, nella fedeltà alla causa e nella fiducia in Cbm dei donatori persone fisiche, che si traduce in donazioni e lasciti. Questo è essenziale perché i programmi di lotta alla cecità, per radicare e diventare sostenibili, richiedono tempi lunghi. Invece, i programmi di enti governativi e aziende sono di norma annuali, qualche volta biennali e al massimo triennali. È raro avere alleati che si impegnino a lungo termine sui programmi di lotta alla cecità. Fanno eccezione i Lions, con l’iniziativa ‘Sight First’, la campagna della Standard Chartered Bank ‘Seeing is Believing’ e alcune aziende farmaceutiche. Per riuscire a sostenere nel lungo periodo programmi protratti nel tempo occorrono, quindi, alleati di lungo periodo o una raccolta fondi da privati che copra almeno il 70-80% del totale delle donazioni raccolte; inoltre, si deve gestire la propria organizzazione creando fondi di riserva, perché, naturalmente, ci sono anni ‘grassi’ e anni ‘magri’, e in questi ultimi i progetti devono comunque essere alimentati. Cbm Italia può contare su un totale di 500 mila donatori privati, costruito in circa 12 anni di attività. Sono tante piccole gocce di solidarietà che, tutte insieme, formano un ‘possente oceano’ in grado di finanziare tutti i progetti in corso. I tempi non sono facili: stiamo entrando nel sesto anno di crisi globale internazionale e non sappiamo quando finirà. Nonostante la crisi, i donatori privati hanno permesso a Cbm di superare il traguardo di 11 milioni di cataratte eseguite, di aiutare nel 2011 36 milioni di persone, di fare 844.674 interventi chirurgici oftalmici lo scorso anno e, soprattutto, di guardare al futuro con serenità. Il mondo è cambiato e non sarà più lo stesso, ma Cbm, assieme ad altre Ong, sarà sempre in prima linea al fianco delle persone a rischio di cecità e disabilità. 40 Merck-12.indd 40 15/05/13 17:28 Far crescere le associazioni con il fundraising: l’esperienza di Amoa onlus Irene Severini Fundraiser di Amoa onlus L’Associazione medici oculistici per l'Africa (Amoa) è nata dall’incontro tra due persone, Gianluca Laffi, di Bologna, e Babacar Serge, senegalese, entrambi all’epoca specializzandi in oculistica, che hanno deciso insieme di creare un ponte tra Italia e Senegal costruendo un centro oftalmologico a M’Bour. All'inizio il progetto sembrava irrealizzabile, ma, grazie a una forte determinazione, al coinvolgimento di diversi colleghi e anche alla collaborazione del governo senegalese, l’11 novembre 1995 il centro ha aperto le porte e ha iniziato la sua attività ambulatoriale (figura 1). A 17 anni da allora, Amoa è cresciuta costantemente, ha superato la spinta iniziale che l'ha fatta nascere ed è andata sempre più consolidandosi. Oggi quest’associazione è presente in sette Paesi africani (Cameroun, Etiopia, Madagascar, Rwanda, Senegal, Togo, Zimbawe) con 11 progetti in ambito sanitario, oltre che in Italia, dove porta avanti progetti rivolti all’inserimento dei migranti e alla sensibilizzazione dei cittadini. Per lungo tempo i progetti di Amoa sono stati finanziati e la vita stessa dell'associazione è stata garantita unicamente dai soci e dai volontari, che hanno permesso all'associazione di crescere. L’obiettivo è ora quello di raggiungere un consolidamento e darsi una struttura, basandosi non più solo sul lavoro dei volontari, senza, tuttavia, perdere la sua identità e quella spinta empatica iniziale che l'ha fatta nascere e crescere. Per raggiungere tale obiettivo, Amoa ha deciso di seguire parallelamente tre percorsi differenti: ideazione e realizzazione di strategie di fundraising, affinché l'associazione abbia stabilità nel tempo; completamento e coordinamento dell'attività dei volontari, fondamentale per la realizzazione di iniziative sul territorio; impegno sul fronte della comunicazione, mirando a un rinnovamento dell'immagine di Amoa e a un ampliamento del target di riferimento. Perché il fundraising abbia successo è essenziale, innanzitutto, semplificare la vita al donatore, per esempio attivando la domiciliazione bancaria delle donazioni con RID. In secondo luogo, perché la raccolta fondi funzioni, è importante che l’associazione abbia un’immagine forte e chiara. Per Amoa questo ha significato rifare il sito web, rinnovare il materiale informativo, preparando brochure di presentazione dell'associazione ma anche relative a specifici progetti, nonché reimpostare la comunicazione verso i donatori, decidendo che cosa dire, come dirlo e, soprattutto, quando. L’esperienza di successo di una charity anglosassone presa a modello ha insegnato quanto sia importante avere visibilità sul territorio al fine di ottenere nuovi soci e nuove donazioni, e ciò significa dare la massima visibilità agli eventi dell’associazione, ottenuta sia tra- Il centro oftalmologico di M’bour (Senegal) Figura 1 Due immagini del centro oftalmologico di M’Bour, in Senegal, con la cui apertura Amoa onlus ha iniziato la sua attività. 41 Merck-12.indd 41 15/05/13 17:28 mite la creazione di una check list, che permette un'organizzazione sempre più fluida ed efficiente dell'evento stesso, sia svolgendo attività di ufficio stampa, con una comunicazione capillare sul territorio in cui l'evento ha luogo, sia attraverso le relazioni con i media partner e le istituzioni. Il potenziamento del marchio e della visibilità devono andare, naturalmente, di pari passo con l'efficienza dell'associazione. A tal fine, Amoa si è data un regolamento interno, uno strumento estremamente agile e utile, che serve anche a dare agli operatori indicazioni specifiche su tematiche diverse, per esempio informazioni sulle assicurazioni sanitarie necessarie nel Paese in cui è attivo un determinato progetto, su come redigere un format sullo stato del progetto stesso e sulle necessità rilevate in loco, al fine di fornire aggiornamenti regolari sullo stato di avanzamento del programma, fino a come scrivere diari da pubblicare sul sito. Un terzo insegnamento importante mutuato dall’esperienza anglosassone è, infatti, la necessità assoluta di trasparenza e, da questo punto di vista, i diari rappresentano un strumento di restituzione, che permette ad Amoa di rendere conto ai donatori del valore concreto del loro contributo. Una delle sfide che Amoa dovrà ora affrontare è quella di inserire poco a poco una pianificazione strategica che guardi al medio-lungo periodo, evitando le dispersioni di risorse e quella creatività un po’ anarchica che a volte caratterizza le fasi iniziali dell'associazionismo. Questo percorso porterà Amoa a strutturarsi, senza perdere la propria identità e quella spinta empatica iniziale che l’ha fatta nascere, crescere e ottenere la stima e la collaborazione di partner importanti come MSD Italia, tra le aziende, e Cbm Italia, tra le Ong. 42 Merck-12.indd 42 15/05/13 17:28 Merck-12.indd 43 15/05/13 17:28 ©Benedetta Nicastro OPHT-1082061-0000-SAFL-PU-05/2015 www.msd-italia.it www.contattamsd.it www.univadis.it [email protected] Merck-12.indd 44 15/05/13 17:28