09 carnevali - Richard e Piggle

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09 carnevali - Richard e Piggle
176 C. Carnevali, C. Rosso: L’analisi di due adolescenti tra aggressività e contenimento
L’analisi di due adolescenti
tra aggressività e contenimento
CINZIA CARNEVALI, CHIARA ROSSO
Con l’ausilio di alcuni frammenti clinici, ci proponiamo di esplorare l’evoluzione della relazione transferale-controtransferale nel trattamento di
due pazienti adolescenti in cui abbiamo riscontrato situazioni traumatiche
precoci. E., di diciassette anni, e K., di sedici, sono giunte alla nostra osservazione per la presenza di disadattamento sociale e ritiro a tinta depressiva
associati ad una ripetuta tendenza nel procurarsi tagli in vari parti del
corpo.
In questi due casi, come in altri seguiti in precedenza in diversi anni di
esperienza clinica, appartenenti all’area delle patologie narcisistiche bordeline e a quella dei “pazienti eterogenei” di cui parla D. Quinodoz (2004), si è
rilevato un grave difetto di simbolizzazione riconducibile, attraverso il
lavoro analitico e la ricostruzione anamnestica, ad una perturbata relazione
materno-primaria. L’esperienza analitica ha reso necessario affrontare un
percorso accidentato in cui la modalità transferale, che indichiamo come
“transfert primitivo preverbale” secondo una dimensione percettivo-visiva,
ci è sembrata dominante rispetto a quella basata sulla parola, soprattutto
nelle fasi iniziali del trattamento. Nell’atmosfera del campo analitico ci ha
colto di sorpresa l’essere investiti a più riprese da quella che potremmo definire una “nube di frammenti psichici” in cerca di contenitore. Sulla base
della nostra esperienza tale fenomeno può tradursi, nell’analista, in sensazioni percettive di caldo o freddo, di vertigine o in uno stato mentale di impotenza nel conservare un definito confine del sé. Rispetto alle pazienti di cui
ci occupiamo, possiamo pensare ad un difetto del contenitore originario che
non ha consentito il formarsi di una sufficiente rêverie materno-infantile
primaria, in grado di permettere uno scambio trofico e significativo per lo
sviluppo del sé.
In queste due adolescenti, le bizzarìe dell’abbigliamento nonché le calibrate incisioni della cute potrebbero far pensare che il deficit iniziale del contenitore si sia tradotto anche in una fragilità dell’involucro-pelle. Incidere,
forare col piercing, tatuare, sembra rinviare ad una esaltazione della sensorialità tattile onde saggiare la differenza tra l’interno e l’esterno. Il sangue
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che sgorga dal taglio, con l’erotizzazione del dolore che ne consegue, le rassicura circa la consistenza di un contenuto avvolto da un involucro, alla
ricerca continua di una effimera frontiera tra il sé e il non sé.
La storia clinica delle pazienti ci informa che K. ha avuto una madre
troppo presente e inadeguata. La fantasia circa la sua pelle è quella di averla
trasparente, sottile come quella di un neonato...
E., d’altra parte, ha avuto una madre eccessivamente assente. Si veste
di nero, in modo informe, e numerosi lacci di cuoio borchiati e chiodati le cingono il corpo. Un corpo armato contro gli assalti interni? Si potrebbe trattare di assalti provenienti da un Super-io arcaico e sadico che “fora”, “taglia”
inchioda il vero sé, rivendicandone il possesso. A questo proposito Bollas
(2001) parla della possibilità del verificarsi di una trasformazione maligna
attraverso la quale il soggetto sente la propria soggettività distrutta dall’oggetto. Questo viene avvertito come una sorta di omicidio interno a sé.
Per le nostre pazienti, il difetto di cure materne primarie e la mancata
risposta emotivo-supportiva da parte del loro entourage, pensiamo abbia
realizzato una situazione traumatogena da cui risulta un vuoto, vedi un
disfunzionamento dell’apparato psichico con interruzione del linguaggio
simbolico.
Alcuni aspetti della loro vita psichica, infatti, non avrebbero potuto
essere rappresentati e, di conseguenza, integrati nella soggettività. Ci riferiamo anche ad aree inconsce non soggette a rimozione di cui rimangono
tracce mestiche, riguardanti la “memoria implicita”, come descritto da Mancia (2002).
Queste parti psichiche non integrabili, “mute”, pur tuttavia presenti,
sarebbero all’origine di una scissione all’interno dell’Io. L’individuo scinderebbe la propria soggettività, privandosi delle sue connessioni emotive
interne in una sorta di “sterilizzazione” degli affetti, onde evitare la turbolenza emotiva che riattiverebbe l’area traumatica traducendosi in un vissuto
agonico intollerabile. Pensiamo, anche, a frammenti di oggetti-sé e non-sé
confusi e intricati che realizzano uno scenario fantasmatico e nebuloso.
In un contesto del genere, quando vi sia una inadeguata “simbolizzazione primaria” (Roussillon,1999) prevalgono meccanismi di scissione e di
identificazione proiettiva rispetto a quelli di rimozione, il che si ricollega al
concetto di “pictogramma”(P. Aulagnier, 1994) attraverso il quale si indica
il tentativo di integrare le primitive esperienze corporee, percettive ancora
non mentalizzate. Già Freud (1922) metteva in luce una modalità di pensiero non verbale, più vicina ai processi inconsci.
Nel corso dell’analisi si è cercato di favorire la costruzione di un “contenitore protomentale” (Hautmann 1993) per la bonifica degli elementi beta
secondo l’ottica bioniana e l’elaborazione degli elementi “balfa” secondo il
pensiero di Ferro (2002). Infine, attraverso l’esperienza condivisa più autentica (Bolognini 2002), ci si è rese disponibili per la crescita di aspetti immaturi della psiche delle pazienti. Per questo pensiamo sia stato importante
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tollerare in seduta la sensazione di essere invase da qualcosa di estraneo, da
aspetti criptici dotati di potere inquietante. Rimanere recettive significa
ammalarsi un poco fino all’attivarsi di “microsindromi” (Spadoni 1987)
dovute all’invasione di questi elementi arcaici, tirannici, fusionali.
Del resto ciò che non è dicibile non può che essere trasmesso secondo
una modalità concreta che fa sperimentare quanto le pazienti non hanno
potuto vedere o sentire di sé, ma di cui avvertono le tracce. L’analista
diventa “lo specchio del negativo del sé del paziente” (Roussillon, 1999) in
una sorta di rovesciamento paradossale del transfert. Egli diviene anche il
precursore della raffigurabilità. D’altra parte il complesso cammino verso la
raffigurabilità (Botella 2004) riguardo al percorso di mentalizzazione-simbolizzazione, può implicare reazioni somatiche nell’analista che vanno da
aspetti sensoriali (cinestesico-visivo) a momenti di confusione, con rischio di
passaggio all’atto fino a transitori disturbi di identità e disorientamento psichico (Giaconia e Racalbuto, 1997). Si è bombardati dalle numerose identificazioni proiettive in atto e dai meccanismi di scissione, correndo il rischio
di sviluppare contro- resistenze per la difficoltà nel sopportare vissuti
depressivi, di rifiuto o persecutori. L’intento analitico è quello, comunque, di
accogliere questi frammenti del sé non integrati tollerandone innanzitutto
il non senso.
Caso di E.
Si tratta di una analisi durata un paio d’anni ancora in corso al
momento di questa stesura. Nella storia di E. vi è una infanzia senza elementi di rilievo fino al periodo delle scuole elementari. A quell’epoca,
nascono due fratellini gemelli e si inasprisce un conflitto coniugale che porta
alla separazione dei genitori. Ella presenta un disagio crescente che viene
probabilmente sottovalutato. Si isola in classe, è mutacica e fa fatica ad
apprendere. Sembra vi sia un rallentamento, a tratti un’inibizione dello sviluppo cognitivo/emotivo da cui pare riprendersi in modo spontaneo. Sintomi
simili si ripresentano all’età di 15 anni, accompagnati dalla comparsa di
tagli sulle braccia. La situazione allarma i genitori che richiedono il mio
aiuto.
Quando E. entra in studio, mi colpisce di primo acchito un intenso vissuto di sofferenza. Parla a monosillabi, il viso appare contratto in una chiusura innaturale e
sembra sul punto di piangere, benché non riesca a sciogliersi, durante tutto il colloquio… Si descrive come molto indipendente, da sempre. “I miei genitori avevano i loro
problemi e non mi sentivo di raccontargli delle mie cose”…mi dice.
Mi parla dei suoi tagli. È da un anno che ha cominciato…non sa perché ma,
dopo, si sente meglio. Il peso che è dentro di lei appare più sopportabile. “Io non ho
fatto niente, eppure mi devo punire” mi dice. Piange tutti i giorni e pensa alla morte
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come l’unica soluzione. Mi fa capire vagamente di aver fatto qualche tentativo in quel
senso ma, per il momento, non vuole essere più esplicita. Mi sento molto coinvolta
emotivamente dalla sofferenza di E. che tra l’altro “mi inchioda” alla poltrona incantandomi con uno sguardo ad un tempo rassegnato e determinato. Sento che sta saggiando le mie reazioni dinnanzi alle sue fantasie di morte. Approfitto del suono del
campanello che mi annuncia la venuta del padre a fine seduta per “riprendermi”,
uscendo dallo studio (e dal raggio del suo sguardo).
Rientrata, avverto che quella sensazione di paralisi mi ha lasciato. Dico ad E.
con calore: “Hai fatto molto bene a venire da me, io credo che sicuramente moriremo,
ma non sappiamo quando e, nell’attesa, vediamo cosa possiamo fare”. E. sorride e
appare quasi sollevata.
In questa fase iniziale, il transfert che emerge è di tipo percettivo/visivo.
E. si esprime principalmente attraverso il corpo, qui “arenato” nello studio
analitico come un relitto al termine di un naufragio. Il suo sguardo, poi, a
tratti veicola un richiesta di aiuto e, ad altri, mi sembra essere un “raggio
esplorante/intrusivo”, che mi “inchioda” alla mia poltrona. Se osservo ciò che
succede tra noi in quel primo contatto, direi che l’arrivo del padre alla fine
dell’incontro mi ha consentito, facendomi allontanare dallo studio, di sottrarmi alla paralisi del pensiero e di uscire da una sorta di “incantamento”.
Riprendendo la necessaria distanza, ho potuto dar forma alla mia proposta
di aiuto nei confronti di E. e forse trovare le parole adeguate in grado di toccarla.
Dopo altri incontri coi genitori e la paziente, inizio una presa in carico
a ragione di tre sedute settimanali, vis à vis.
Durante le prime settimane di terapia la paziente sta preferibilmente
in silenzio, mettendomi a dura prova. È un momento questo, che chiamerei
“iconografico”. E. disegna in seduta e, talvolta, mi porta o mi descrive disegni fatti a casa. Il tema dominante è quello della morte: abbondano dettagli
sanguinolenti, funerei, dissacranti. Nei suoi disegni campeggiano cimiteri,
corpi impiccati, fiamme… Il colore è bandito, dominano i grigi e i neri, così
come di nero e grigio E. si veste costantemente.
E. frequenta, all’insaputa dei genitori, che le lasciano una grande
libertà (direi anche in balìa di sé stessa), un gruppo di ragazzi che suonano
in un piccolo complesso musicale itinerante. Essi conducono una vita assai
marginale, fanno notevole consumo di alcool e saltuariamente di droghe.
E. si è legata in special modo ad R., la giovane cantante del gruppo, alcolista e con seri problemi caratteriali. Nelle descrizioni di E., ella appare
coperta di piercing e di tatuaggi e adotta comportamenti estremi ed autolesivi. R. sembra vissuta come il suo doppio: E. appare pericolosamente affascinata dalla distruttività dell’amica e vive, attraverso di lei, una certa mortificazione che qualcosa la trattiene dall’infliggersi autonomamente.
La relazione con me sta prendendo sempre più corpo e credo abbia bisogno di una mamma-analista che sia testimone del pericolo che lei corre poiché adesso sa che c’è un salvagente disponibile…
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Utilizza una seduta per fare un disegno nel quale viene evocata la morte nelle
sue varie declinazioni. Prende tempo, rifinisce i dettagli con attenzione e cura. Lo commentiamo insieme.
A: Mi sembra che ti piaccia disegnare queste cose
P: Sì, è divertente disegnare tutto ciò…. Dopo mi sento meglio…..
A: La morte…ce n’è molta nel disegno, ci pensi spesso?
P: Sì…
A: Ci hai mai provato?
P: Sì…ma mi hanno fermato (gli amici di R.) Ci ho provato l’estate scorsa con
una overdose di eroina, poi loro sono intervenuti. Generalmente non mi “faccio” perché non sopporto l’ago in vena.
A: Ho l’impressione che adesso ti lasci vivere, come se aspettassi qualcosa..
P: Sì, aspetto una seconda occasione
(Penso tra me e me, una seconda occasione di morte o vita?)
A: Se vieni qui da me forse, da qualche parte, non hai del tutto voglia di morire
e desideri essere aiutata
P: Sì, ma penso che nessuno ce la faccia ad aiutarmi.
A: Ti immagino un po’ come un castello in cui per entrare bisogna trovare la combinazione segreta…
E. sorride.
Il disegno colpisce per la violenza che affiora. Tuttavia, ho l’impressione
che E. rincari un po’ la dose onde spiare le mie reazioni: mi parla con un certo
compiacimento ed indubbia erotizzazione degli elementi mortiferi in esso
rappresentati. Se il disegno segna la misura del suo precario stato emotivo,
è anche un indicatore della nostra relazione. (Trovo importante, tra l’altro,
che mi abbia confidato il suo tentativo di suicidio).
Mi sembra che, nel suo modo di descrivermelo, vi sia un primo abbozzo
di condivisione e, nel contempo, ella esprima il suo aggrapparsi ad un aspetto
difensivo non potendosi ancora fidare della mia “funzione contenente”.
Ripensando anche a ciò che è emerso nei colloqui con i genitori, mi
paiono condensarsi nei disegni, e più tardi nei sogni, i lutti della sua famiglia, lutti sussurrati o idealizzati e tuttavia probabilmente non elaborati.
È evocativo ciò che scrive A. Ferruta (2001) sui lutti inelaborati:
“…(essi) inducono a vivere l’emergenza di conflitti che, poi, invece esplodono
come violenze adolescenziali o come situazioni di ritiro, chiusura, difficoltà
a studiare…in una configurazione di morte psichica intesa come una mancanza di contatto con i desideri vitali di base fatti propri dal soggetto.”
Col proseguire del trattamento, E. comincia pian piano ad ampliare la
sua modalità comunicativa. Vi è uno spazio crescente per la parola e il collegamento con le emozioni. Inizia la fase del “disgelo”.
A questo proposito riporto un frammento di una seduta particolarmente
significativa.
E. arriva con un’ espressione chiusa e ostile sul volto e sembra aspettare che io
in qualche modo la solleciti.
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A: Mi sembri contrariata.
P: Sì!! (Per la prima volta alza il tono di voce, quasi “vomita”un lungo discorso
concitato e infarcito di parolacce) Ce l’ho con tutti! Tutti mi stanno addosso (forse ci
rientro un po’ anch’io…), perché ho rivisto un c … di amica, adesso mio padre vuole
che io vada in vacanza con la sua famiglia, questa estate. Questi però vanno di sera
a dei ricevimenti e io dovrei andarci tutta “agghindata”, praticamente travestita!!”
(senza il suo consueto abbigliamento che comprende cinture con borchie, anfibi e
catene - penso -).
Prosegue piangendo a dirotto con insulti diretti al padre e rimproveri alla
madre, alludendo alla loro separazione.
Rimango in silenzio, accogliendo questo sfogo, ho come l’impressione di
un uragano che mi investa a cui segue una sensazione liberatoria. Mi sembra che si sia sciolto qualcosa, l’intensa rabbia nei confronti del padre che lei
riesce ad esprimere dà l’avvio ad una nuova dimensione nella nostra relazione analitica; la temperatura del transfert si riscalda ed è come se E. emergesse da un lungo periodo di incubazione, dopo aver saggiato la mia tenuta
e resistenza. È anche la prima volta che esprime la rabbia e la sofferenza per
la separazione dei genitori. Ho l’impressione adesso che lo sguardo, un
tempo “intrusivo/penetrante di E. che cercava a forza uno spazio per annidarsi e salvare qualcosa di sé all’interno di me come analista “congelando”
la mia personalità e utilizzandomi solo come corpo ospitante, diventi attento
e sensibile anche ai miei movimenti emotivi. E. sembra, allora, più in grado
di contenere e tollerare i propri aspetti distruttivi depositati in me cominciando a familiarizzarsi con la mutevolezza del mondo interno.
In questa fase dell’analisi calano gli atti autolesivi e in un movimento di
interiorizzazione, i disegni cedono il passo ad una vita onirica fino ad allora
inespressa. Ho la sensazione che si consolidi la fiducia di E. nei miei confronti. Diminuendo la paura di ciò che le accade dentro è meno spinta “all’evacuazione”, come avveniva per certi disegni, e può cominciare a permettersi
di entrare nella dimensione “narrativa” dei sogni, pur essendo questi gravidi
di elementi terrifici, persecutori in cui ricorrono immagini vampiresche.
Se aumenta la temperatura transferale ed emergono sentimenti di rabbia, vi è però il rischio che questa rabbia possa essere distruttiva e che E.
cada nelle spire di una madre/analista soffocante, “risucchiante” e “vampirizzante”. Una fantasia che sembra indicare proiettivamente paura che una
eccessiva avidità svuoti e uccida la mamma analista.
Ecco che, allora, E. comincia a saltare frequentemente la seduta che
segue quella particolarmente “calda”. Sembra difficile, ad un tratto, mantenere le tre sedute: la seduta saltata avrebbe il senso di una separazione nella
fusionalità dei due incontri. Forse, mentre sento che con E. si sta stabilendo
un buon transfert materno, avverto nel contempo la sua paura di veder sorgere elementi pericolosamente seduttivi.
Sono un’analista/mamma che la contiene, ma che ne è della potente
rivalità edipica che si risveglia?
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Tuttavia, in questa fase mi sembra possibile interpretare e vedere accolte
le mie interpretazioni riguardo ad alcuni aspetti inaffrontabili fino ad allora.
Assisto pian piano a piccole modificazioni: sono diminuite le cinture con
borchie, qualche indumento di colore comincia a far capolino spezzando la
“nera divisa”.
Caso di K.
Nel caso di K., un’adolescente con condotte devianti e autolesive che la
difendono da una profonda depressione, la sensazione, fin dal primo incontro, è stata quella di percepire uno sguardo onnipotente, quasi mi facesse
una radiografia e la facesse alla stanza. Nulla le sfuggiva.
Mentre in silenzio girovagava per lo studio, toccando libri, oggetti, ho
avvertito una percezione corporea di forte calore e disagio, in seguito pensata come l’esito dell’identificazione proiettiva di uno “scottante” sentimento
di vergogna. Mi sentivo dominata e controllata da una posizione difensiva
maniacale. K. si poneva in alto, molto in alto, rispetto a me, che collocava
molto in basso, pur evitando il mio sguardo. Nello stesso tempo mi faceva
tenerezza questa ragazzina dai capelli lunghi rossi, un po’ “Pippi Calzelunghe”, un pò streghina, delicata e impaurita, a volte silenziosa con lo sguardo
spento, e altre volte esplosiva, come a fuggire o controreagire a qualcosa di
persecutorio e terrorizzante.
Ad un tratto si siede davanti a me ed esclama. “Non voglio essere spiata, non
voglio venire qui, mi costringono i miei genitori, mi opprimono.” Mi mostra i segni dei
tagli nella pelle bianchissima. Sapevo che si era tagliata i polsi, un tentativo di suicidio espressione di un’ultima speranza di essere compresa e soccorsa.
Sento l’urgenza del suo bisogno d’accoglimento, mi viene l’immagine di un bimbo
piccolo che allunga le manine per aggrapparsi, per non cadere nel vuoto, più regressivamente avverto una fantasia di reinfetazione, un bisogno di incistarsi con lo
sguardo, nel corpo-mente dell’analista.
Mi racconta che è rimasta giorni interi a letto, nemmeno per lavarsi si poteva toccare, si sentiva come scuoiata a causa della sua pelle fragilissima e dice: “Come quella
di mia madre, che puzza di cadavere”.
Con molto tatto e pazienza cerco di mantenermi ricettiva, ma con sorpresa mi
sento invasa da una strana sensazione di vuoto, di appannamento, quasi di vertigine
e mi viene da tenermi ferma alla sedia.
Successivamente, mi sono interrogata su quella sensazione di vuoto, sulla sensazione di un oggetto morto interno, vuoto che forse ha a che fare con un primitivo
oggetto mortifero persecutorio.
Dopo essersi ancora aggirata per la stanza in stato di agitazione, come un’anima
in pena, si siede e con parole taglienti attacca la madre dicendo: “…è falsa, non è vero
che si preoccupa per me, ride se piango, c’è una totale incompatibilità, ed è sempre
uguale, non cambia nulla”. Rivelando così il timore di non trovare in me qualcuno
che la protegga dal suo sconforto e dai pericoli esterni e che anch’io possa ridere di lei.
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Poi abbassa gli occhi che tornano spenti. Mi pare si senta senza via d’uscita.
Allora le dico che se lei lo desidera ed è disposta a incontrarmi forse riuscirà ad aprire
una nuova via e a sentirsi meno impotente. Ad un tratto mi chiede come ho scritto il
suo nome, vuole vedere. Mi dice che il suo nome è particolare e correggendomi dice che
non ha la C ma la K.
La madre, una donna rigida, dotata di scarsa autostima e spiccata vulnerabilità narcisistica, ha voluto darle quel nome perché, rimasta incinta
sedicenne, dovette interrompere gli studi. Il suo desiderio era solo di studiare il tedesco e andare in Germania, e non di avere una bambina. Il padre,
rimasto orfano di madre a 5 anni, fu abbandonato dal proprio padre a causa
del lavoro e affidato alla governante. Egli soffrì di cocenti sentimenti di umiliazione, prima di riunirsi al padre e alla nuova famiglia da lui formata. Presenta un’evidente patologia narcisistica con nascosti tratti aggressivi.
La necessità di K è di sentirsi contenuta, di trovare un contatto che
l’aiuti a fronteggiare angosce di perforazione, di esplosione-frammentazione.
Ha una gran paura che non ci sia posto per lei dentro di me e che io non
possa comprenderla, se sbaglio una lettera del suo nome.
Nel corso delle sedute successive prendiamo sempre più coscienza di un
aspetto del sé infantile, che ha dovuto ritirarsi, isolato come una letterina,
la K, che fa parte del suo nome, ma non si integra con le altre letterine. Si
manifesta un soggetto che non ha rapporti con oggetti significativi, come
fosse esistente da sola, senza contatti. Emerge più chiara la sua angoscia di
sentirsi fragile e di essere dimenticata perché lei è una “K”, identificata ad
un polo duro, tedesco, la “K” che non ha legami.
Fase iconografica
Dopo alcuni mesi dall’avvio dell’analisi (a tre sedute), segue un periodo
di ostinati silenzi in cui prevalgono le proiezioni degli oggetti-parziali persecutori presenti nel suo mondo interno, che la attaccano e le rubano la possibilità di un buon rapporto. Ai protratti silenzi di K. nel corso delle sedute
si accompagna la produzione di disegni. Nei colori usati predominano tinte
forti: il giallo e il rosso, il giallo come dominante nel vestire, il rosso, come
sono rossi i suoi capelli.
Nel corso di questi mesi il comportamento di K. in seduta è fortemente
oppositivo, si chiude in un mutismo che mi fa pensare ad un modo di nascondersi per non essere vista, di ritirarsi per difesa.
Al tempo stesso mi fa sentire svalutata e avverto in lei un forte sentimento di odio insieme a un’ansia “scottante”. K. mette costantemente alla
prova la mia sopravvivenza psichica e la mia capacità contenitiva. Sperimento attraverso le mie sensazioni corporee ciò che lei ha sperimentato nella
sua primitiva relazione materna. I silenzi sono carichi di odio e di impulsi
ad “uccidere” la mia presenza. Mi sento oppressa, incapace di pensare, un
senso di costrizione insopportabile e di ansia mi disorientano. I sentimenti
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di odio di K. sembrano consentirle di reagire all’angoscia di invasione-penetrazione, proveniente da una madre sadica preedipica, ma anche di difendersi dall’angoscia di separazione, dal sentimento di vuoto e di crollo, che
l’aggrediscono quando esce dalla confusione (angoscia di cambiamento catastrofico).
Da parte mia, subisco l’attacco alla mia capacità di pensare e, solo alla
fine delle sedute, recuperata la possibilità di riflessione, ritrovo pienamente
me stessa, in grado di affrontare la seduta successiva con un assetto analitico adeguato.
A volte salta le sedute. Quando ritorna mi accorgo di essere trepidante
e dipendente, forse per l’identificazione proiettiva della sua parte dipendente e ho la sensazione spiacevole di brancolare nel buio, di non “sentirla”,
nonostante la sensorialità, riconosciuta come espressione del Sé, mi avesse
dato in precedenza la possibilità di agganciarla.
Al contempo K. nega il suo dolore di abbandono e perdita con l’investimento narcisistico di un’immagine autosufficiente e idealizzata.
In una seduta dopo la pausa pasquale, all’inizio della quale l’avevo percepita
molto triste, notando dei fogli bianchi sulla scrivania e dei colori, comincia a disegnare il suo primo pensiero-immagine.
Lo descrive come: “Un occhio con una lacrima appena accennata, nella sua
pupilla è disegnato un teschio… il riverbero della morte”.
Mi guarda per vedere la mia reazione, la sento in attesa di un mio commento,
allora le dico che non deve essere piacevole sentire dentro di sé uno sguardo disperato
che ha a che fare con la morte.
È particolarmente inquietante pensare ad un Super-io mortifero, di origine soprattutto materna, che i traumi infantili precoci hanno contribuito a
costituire. Un Super-io sadico, che intensifica la colpa e spinge ad un comportamento punitivo ed autopunitivo (Harold P. Blum 2000), che ha procurato rottura del senso di fiducia e lasciato labili tracce di speranza.
Seguono sedute difficili, di attacco all’analisi ritenuta insufficiente, tentativo di ristabilire una modalità totalmente simbiotica. Controtransferalmente, sento che viene messo a rischio, non solo il mio amor proprio ma il
mio stesso equilibrio mentale e fisico. Avverto tutta la violenza e immagino
quanto K. stia lottando contro il suo bisogno di dipendere da me e il terrore
di sentirsi aggredita da un oggetto-materno persecutore, annientante la sua
individuazione.
Quando, dopo una seduta saltata, la madre mi avvisa di aver trovato un cappio
nella soffitta, alla seduta successiva avanzo un’interpretazione.
K.: Non sono venuta per dispetto nei confronti di mia madre e anche di mio
padre, burattino manovrato da lei. È egoista, non dà niente, mi taglia la gonna…i
vestiti, con mia madre non voglio stare, l’unica soluzione è andare via…mi sminuisce
sempre, non so perché...
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A: È per questo dolore, questa rabbia che vorresti vendicarti e punirla, saltando
le sedute. Ma forse mi stai dicendo di fare attenzione, di aiutarti a non fare tagli, come
tua madre, a non tagliare la possibilità del legame che stiamo costruendo insieme.
Comunque, qualsiasi cosa succeda, sai che puoi tornare, questo è un posto per te.
Rassicurata dalle mie parole, alla seduta successiva avviene un cambiamento. All’inizio rimane in silenzio, poi comincia a disegnare qualcosa equivalente ad un flusso associativo, dice Hautmann (2003) “…forme iconiche
precedono, anzi permettono, il formarsi della prima pellicola del pensiero”.
Il disegno consente l’apertura di nuovi scenari di partecipazione e dialogo da cui far scaturire l’interpretazione (Boccara, Ferruta, Riefolo, 2005).
Così K. esprime tutta la sua ambivalenza nei confronti miei e dell’analisi,
dando sfogo all’odio verso la madre che la vuole sottomettere; colorando con
un evidenziatore giallo tutto il foglio bianco, tracciando delle linee gialle che
poi riempie di colore.
Infine al centro, disegna un bamboccio-bambina piccola, contornato da
un cerchietto che sta per essere inglobato da un’entità occhio-bocca con filamenti simili a denti di balena o, più minacciosamente, di pescecane. La
balena mi sembra bonificare l’immagine terribile di un Super-io materno
preedipico, divorante e castrante. Potrebbe contenere la sua angoscia e il suo
sgomento.
Il Sé nucleare, scisso, chiuso dentro il cerchietto, evita il contatto in
quanto terrorizzato da un legame oppressivo. La rabbia esplode, per istinto
di sopravvivenza, contro un senso di intrusività annientante, di violenza
insopportabile.
K: La mamma mi ha punita, togliendomi la possibilità di fare la festa per il mio
compleanno, la odio, è stupida come un pezzo di legno, falsa, non capisce che così è
peggio.
Comincia a fare dei tagli e dei buchi al foglio.
A: Deve essere molto doloroso e mortificante subire la punizione della mamma e
non trovare l’aiuto del babbo, è come venissero a mancare entrambi, ti puoi sentire
molto sola, disperata e impotente.
K.: Vorrei morire, scomparire, così la mamma si prenderebbe un bello spavento,
si sentirebbe in colpa a vita.
A: Il senso di impotenza ti spaventa, forse anche la mamma è spaventata, per
paura diventa aggressiva e l’aggressività fa sentire in colpa; è un circolo vizioso da
cui bisogna uscire.
K.: Una volta le volevo bene, ma ora c’è solo odio.
A: L’odio è anche utile per distinguerti da lei, per non confonderti con lei, tu puoi
cambiare.
L’ascolto partecipe del senso di impotenza, di dolore e di odio ne consente il contenimento e restituisce un senso di comprensione e di speranza.
K. comincia a pensare che se la madre non può cambiare, lei sì, può diven-
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tare meno debole. Il pescecane allora si trasforma in balena. Penso alla
favola di Pinocchio che mi consente di raffigurarmi le diverse rappresentazioni che, nella complessità dei movimenti transferali, può assumere l’analista. Quella di contenitore-pancia della balena, entro cui si nutre e cresce la
bimba-Pinocchio o quella di una presenza buona, come la fata Turchina, che
le vuol bene e non la lascia sola a rischio di perdere il contatto con la realtà;
una presenza idealizzata che la protegge dagli oggetti persecutori con cui è
ancora confusa e che lei vuole uccidere, per uccidere una parte di sé immaginata mostruosa.
Il transfert permette al soggetto di comunicare all’analista, quale nuovo
oggetto di investimento, le tracce dei legami con i suoi oggetti interni, sempre presenti, investiti di amore e di odio. (L’analista offre una vera disponibilità di accoglimento, una messa a disposizione della sua passività attiva,
della sua “cavità materna”, Bokanowski 2004).
Si può pensare ora che “Il sorprendente timore di essere uccisa dalla
madre” (Carloni-Nobili 1975), per quanto fantastico e proiettivo, può essere
una risposta all’ostilità inconscia che la bambina effettivamente intuisce.
La neonata, per via empatica, può cogliere i segni dell’originaria ostilità e vi
reagisce. In questi bambini non desiderati si produce “una frattura nella loro
volontà di vivere e si sviluppa una propensione a morire” (Ferenczi 1973).
Fase interpretativa, associazioni verbali e sogni
K. è ancora in difficoltà ad accettare la dipendenza dalle sedute, si lascia
un po’ più libera di parlare, nonostante una vocina fastidiosa la critichi sempre e la colpevolizzi.
In una seduta, all’inizio della primavera, in cui entra con un giornale femminile,
mi parla di due sogni. Nel primo sogno K. è dentro un castello. C’è un direttore tirannico che le mette soggezione. È accompagnata dai genitori che ad un tratto scompaiono, lei procede, ma è come si trovasse in un collegio, non c’è più il senso delle sue
cose. Prova un senso di annientamento. Ad un tratto le si appanna la vista, non ha le
lenti a contatto, è angosciata, tornano i mostri. In una seconda scena compare la
madre. K. racconta: “C’è mia madre che si spaventa perché vede la figlia morta…è
morta perché la treccia le entra dentro il corpo…è terribile”. Invitandola ad aggiungere sue associazioni, le chiedo: “…e questa treccia?”. Risponde: “Sembra una corda,
entra dentro la schiena, come un coltello che la uccide, mi fa pensare a Harry Potter.
È un giovane mago, rimasto orfano dei genitori, c’è qualcuno che lo insegue e lo vuole
uccidere, ma lui riesce sempre a salvarsi perché l’amore dei genitori lo protegge…”.
Le dico: “Nella solitudine, per il dolore della perdita dei genitori protettivi, si appannano gli occhi, possono tornare i mostri, la treccia sembra raffigurare qualcosa di confuso fra te, i tuoi capelli e i capelli propaggine della mamma, è un aspetto negativo,
duro, tagliente”.
Penso ad un aspetto della mamma-intrusiva che mette sempre occhio-naso nelle
sue cose e le taglia. Per questo sente il bisogno di ricostruire dei genitori protettivi,
una mamma-analista con cui stare in contatto, ritrovare le lenti a contatto.
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Le dico: “…Se stiamo vicino, a contatto, in due come i due occhi, vediamo
meglio, procediamo meglio”. Prosegue la seduta parlando dei genitori che con lei
“sbagliano tutto”, come volessero uccidere la bambina che desidera crescere, diventare donna.
Il secondo sogno, recuperato alla fine della seduta, diviene un messaggio straziante e chiaro. K. dice: “C’è la figlia, la luce si spegne, lei è morta”. Le rispondo: “Mi
stai comunicando il pericolo che senti, di cadere in disperazione, di soccombere come
una bambina piccola senza una mamma, ma non sei morta e mi stai chiedendo di
aiutarti”. La mamma la fa sempre sentire piccola, una nullità, la sminuisce per dominarla e legarla simbioticamente a lei, (treccia = cordone ombelicale = appendice fallica), la risucchia e la lascia a terra come una fogliolina morta. K: “Mi uccide quando
agisce così”.
K. racconta che la madre ha sempre deciso per lei, con la collusione
del padre, dal quale si sente tradita. Le nega il diritto di parlare, vestire
come desidera, le taglia i vestiti per costringerla ad indossare gli abiti
decisi da lei. Sente l’attacco annientante la propria alterità. Sconforto e
rabbia la spingono a volte a vestirsi in modo “trasgressivo estremo”; è una
trasgressività che, in seduta, la porta per lunghi periodi a essere mutacica
e ribelle.
Tuttavia la relazione tiene ed emergono, così, lontani ricordi di un lungo
ricovero in ospedale della madre. Ora capisce la malattia della madre e le
proprie angosce di un crollo depressivo (Winnicott, 1963). Riconosce il dolore
del lutto dei genitori, della perdita della mamma. K., però, sta scoprendo una
mamma anch’essa piccola, angosciata dalla separazione, che si sente inadeguata al ruolo di madre e piena di rabbia. Un dato reale che la porta, nel
transfert, a proiettare sull’analista il fantasma di una mamma assassina
che l’analisi permetterà di riconoscere. È un ritrovamento particolarmente
doloroso, la cui conoscenza suscita contemporaneamente delle resistenze
non solo in K. ma anche, in me, probabilmente toccata in una “macchia cieca”
(Guignard, 2002).
In seguito, insieme ai ricordi, emergerà in K. la percezione di fantasie
suicide inconsce presenti nella madre stessa, insieme ad un affiorare di
ricordi analoghi anche in me. È un momento di condivisione empatica particolarmente toccante che favorirà il graduale riconoscimento della nuova,
autentica relazione che si è creata tra noi.
Siamo al termine del 2° anno di analisi, K. sente di poter star bene in
seduta, compaiono disegni di fiori come espressione di nascita della sua individualità e sboccio della femminilità. Racconta di aver conosciuto un ragazzino che, di nascosto dalla madre, continua a frequentare. L’ultima seduta
prima della pausa estiva, mi saluta con un grazie ed uno sguardo diverso,
sorridente e affettivo. La trasformazione dello sguardo segnala un cambiamento, una migliore differenziazione dall’oggetto, un rapporto meno drammatico e di possibile convivenza.
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Alcune riflessioni conclusive
La relazione transferale primitiva, soprattutto all’origine, ci ha richiesto una funzione di contenimento che abbiamo via via cercato di sviluppare
e modulare nei confronti di pazienti per le quali abbiamo colto l’immagine
di un sé nucleare, quasi fossero neonate premature in cerca di un “contenitore protomentale” (Hautmann 1993) e di “un’incubatrice” accogliente.
Entrambe le pazienti ci hanno suscitato la sensazione/percezione di
aver di fronte una bambina piccola, dai confini incerti, nel corpo di un’adolescente. A tratti le manifestazioni controtransferali sono consistite in percezioni sensoriali di consistenza quasi allucinatoria (Ferruta A. 2005).
La presenza di una mente in grado di accogliere gli aspetti più fragili e
non rappresentabili delle pazienti ha favorito il processo trasformativo ed
abbiamo visto come, nel lavoro analitico, l’utilizzazione delle immagini rappresenti una tappa verso la simbolizzazione, una nuova “pellicola di pensiero” (Hautmann, 1978) che può consentire la riparazione del sé.
Si è riattualizzata una primitiva forma di rapporto tra contenitore e
contenuto laddove non vi erano ancora i presupposti per un pensiero strutturato e la conseguente narrabilità.
Entrambe le adolescenti hanno stabilito con noi un transfert di tipo narcisistico. La trasformazione di esso ci ha esposto al rischio di una relazione di
transfert negativo la cui distruttività poteva scoppiare da un momento all’altro tenendoci costantemente sulla corda ed in stato di sollecita apprensione.
Sul piano controtransferale ci hanno fatto provare ciò che loro hanno
sentito, ma non mentalizzato. Si è, quindi, dovuto faticosamente ristabilire
una nuova relazione che facesse vivere in parallelo, a paziente e analista, gli
aspetti frammentati, immaturi, traumatici, espulsi dal loro vissuto infantile.
Potremmo azzardare un avvicinamento tra le raffigurazioni drammatiche che le pazienti ci offrono e l’idea del pittogramma, intesa come: “un’immagine sensoriale che sedimenta qualcosa di doloroso e inesprimibile” (P.
Aulagnier e Ferro 2002). All’immagine” fissa”, che congela le emozioni, la
nostra funzione analizzante, nei suoi momenti più riusciti, può imprimere
un movimento vivificante trasformandola in una “scena” che diventa interpretabile (Donnet 2001). Ci sembra allora che si crei una nuova associazione
di significati, per après coup, tra ciò che prima era solo percepibile (transfert
tattile-visivo), poi raffigurabile (i disegni) e, infine, narrabile (i sogni).
A nostro avviso è stata importante l’apertura a nuovi modi di pensare e
di porgere l’interpretazione.
Al di là di specifiche interpretazioni, abbiamo sviluppato una“funzione
interpretante” attenta a fenomeni intra- e intersoggettivi in grado di
ampliare la capacità di ricevere e contenere. Sappiamo, infatti, come, trattandosi di adolescenti, l’interpretazione vada somministrata con una certa
cautela perché non risuoni come qualcosa di vuoto, inutilizzabile o si configuri addirittura come una ripetizione dell’intrusività traumatica.
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In una fase più avanzata dell’analisi, con il consolidamento della relazione analitica, la nascita di un sentimento di fiducia e la maggiore accettazione del setting, sono divenuti interpretabili ulteriori movimenti transferali. In E. è stato centrale rivivere nel transfert la collera nei confronti del
padre, l’aver fatto esperienza, interiorizzandola, della sopravvivenza dell’oggetto analista ai suoi attacchi distruttivi. In K., analogamente, l’affiorare
dell’odio verso la madre ha permesso che avvenisse una distinzione chiarificatrice tra il fantasma persecutorio di madre sadica e l’analista accogliente
e protettiva in grado di resistere alla sua distruttività.
Lo schiacciamento procurato al Sé di K., da parte dell’oggetto persecutorio, si riproduceva nel transfert come vissuto di terrore e dolore terribile
al quale non ci si poteva sottrarre se non con la morte (vita mea, mors tua o
viceversa) e uccisione della relazione.
L’aggressività, espressa anche dal pianto di rabbia per l’impotenza,
prima ancora del riconoscimento del dolore, va considerata come difesa reattiva rispetto al fortissimo bisogno di dipendenza e all’impulso fortemente
vendicativo, qualche volta ammesso dalle due giovani pazienti, come gusto
di ‘farla pagare’ alla propria madre (madre analista nel transfert).
Grazie all’analisi, l’identificazione con una “mamma figlicida” e con una
“figlia assassinata”o viceversa, lascia il passo ad un altro tipo di identificazione, stavolta più positiva e vivificante.
Dall’esperienza di rispecchiamento, che permette un recupero narcisistico, è fiorita una dimensione creativa della femminilità senza che quest’ultima annulli la soggettività.
Pensiamo ai tagli e al sentimento di inadeguatezza che sorgeva nel confronto con l’identità di donna adulta e in cui incombeva il fantasma di una
femminilità negativa (la madre oggetto inadeguato persecutorio). I tagli, la
pelle bianca lacerata e sanguinante possono rappresentare le precoci ferite
inferte dalla madre (madre preedipica dallo sguardo pietrificante-castrante)
e veicolano anche il vissuto di vergogna nell’essersi sentite bimbe indifese
che gli eventi traumatici possono “incidere” e “marchiare”.
La comparsa dei colori nell’abbigliamento di E. e di fiori multicolori nei
disegni di K. ci appaiono come espressione di una nascente pelle e identità
del Sé, riconosciuto anche nella sua differenziazione femminile. Possiamo
ravvisare un riconoscimento della relazione positiva ed una minore persecutorietà.
Riassunto
Le Autrici esplorano l’evoluzione della relazione transferale-controtransferale
in due adolescenti con vissuti traumatici precoci, focalizzando l’attenzione sull’asse
trauma-aggressività nelle sue numerose declinazioni. In queste pazienti, un difetto
del contenitore originario, che si traduce in una fragilità dell’involucro pelle, porta
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ad una perturbata capacità di simbolizzazione collegata ad una rêverie maternoinfantile probabilmente insufficiente.
Le incisioni, i piercing e i tatuaggi rinviano ad una esaltazione della sensorialità tattile onde saggiare la differenza tra interno ed esterno alla ricerca delle frontiere tra il Sé e il non Sé. Nel lavoro analitico, il controtransfert delle Autrici è messo
inizialmente a dura prova per lo sviluppo di un transfert primitivo non verbale che
si struttura secondo una modalità percettivo visiva. In seguito, il transfert narcisistico che si è andato delineando, attraverso l’emergere dei sentimenti di rabbia e
aggressività contenuti da una “funzione interpretante”, può approdare ad una relazione terapeutica “riparativa” in grado di resistere agli attacchi distruttivi.
Parole chiave: transfert-controtransfert, rêverie materno-infantile, contenitore
originario, transfert primitivo non verbale, attacchi distruttivi.
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Cinzia Carnevali, psicoanalista SPI/IPA
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Chiara Rosso, psicoanalista SPI/IPA
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