catechesi - Vicariatus Urbis
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I SANTI DELL’ARCICONFRATERNITA DEI BOLOGNESI IN ROMA Note di storia e di spiritualità San Giovanni apostolo ed evangelista L’arciconfraternita sorse nel 1575 per iniziativa di un gruppo di bolognesi residenti in Roma, per l’accoglienza dei pellegrini di quell’Anno Santo e fu approvata dal papa bolognese Gregorio XIII (Ugo Boncompagni) dapprima oralmente e poi con bolla scritta l’anno seguente (1° aprile 1576). Il papa preoccupato per la buona riuscita del Giubileo, il primo dopo il Concilio di Trento, fece molto affidamento sulle confraternite per dare un’immagine di Roma riformata e più spirituale. Egli assegnò come patrono alla confraternita non un santo bolognese, come si usava per le confraternite regionali, ma San Giovanni Apostolo ed Evangelista, forse per evidenziare il legame con Roma (è infatti uno dei titolari della cattedrale di Roma); le assegnò di conseguenza un vincolo speciale con la basilica di San Giovanni a Porta Latina, dove si celebrava il 6 maggio la festa del «martirio di san Giovanni», che l’apostolo avrebbe subito a Roma, ma dal quale sarebbe scampato. Secondo la tradizione, infatti, fu l’unico degli apostoli a non morire subendo il martirio, ma per morte naturale, in età veneranda. Secondo il Nuovo Testamento, Giovanni, il discepolo prediletto di Gesù e fratello di Giacomo «Maggiore» (erano figli di Zebedeo), dopo la risurrezione di Gesù fu il primo assieme a Pietro a ricevere da Maria Maddalena l’annuncio del sepolcro vuoto, il primo a giungervi, ma il secondo ad entrarvi dopo Pietro (Gv 20, 1-8). Dopo l’Ascensione gli Atti Chiesa dei Santi Giovanni Evangelista e Petronio dei degli Apostoli ce lo mostrano accanto a Pietro nella Bolognesi in Roma (XVI secolo), facciata su Via del guarigione dello storpio al tempio di Gerusalemme e Mascherone nel discorso al Sinedrio, a seguito del quale fu incarcerato assieme a Pietro (At 3). Attorno al 53 si trovava a Gerusalemme, dove incontrò Paolo assieme a Pietro e a Giacomo (Minore) «le colonne della Chiesa» (Gal 2, 9). In seguito si trasferì a Efeso, come testimonia Ireneo di Lione (Smirne 130 – Lione 202: «La Chiesa di Efeso, che Paolo fondò e a cui Giovanni rimase fino all’epoca di Traiano, è testimone veritiera della tradizione degli apostoli»: Contro le eresie, III, 3, 4) e dove scrisse il Vangelo. Ma con la persecuzione Domiziano (81-96), nel 95 fu condotto a Roma e condannato a morire in una giara di olio bollente, dalla quale però uscì – come detto – miracolosamente indenne. A 1 parlarcene è ancora un testimone antichissimo, Tertulliano di Cartagine, attorno al 200: «Se poi vai in Italia, trovi Roma, da dove possiamo attingere anche noi l’autorità degli apostoli. Quanto è felice quella Chiesa, alla quale gli apostoli profusero tutta intera la dottrina insieme con il loro sangue, dove Pietro è configurato al Signore nella passione, dove Paolo è incoronato della stessa morte di Giovanni il Battista, dove l’apostolo Giovanni, immerso senza patirne offesa in olio bollente, è condannato all’esilio in un’isola» (La prescrizione contro gli eretici, 36). Il luogo assegnato dalla tradizione al martirio di Giovanni è la Porta Latina (fra Porta San Sebastiano e Porta Metronia), appena all’interno della cinta delle Mura Aureliane, dove sorse (fine del V secolo) una memoria vicino basilica di San Giovanni a Porta Latina, poi sostituita nel 1509 dall’attuale tempietto ottagonale, San Giovanni in oleo, tutto affrescato nel XVI secolo. San Giovanni fu quindi confinato nell’isola di Patmos, dove ricevette visioni e scrisse l’Apocalisse. Alla morte di Domiziano (96) tornò ad Efeso, ove morì vecchissimo nel 104 e dove venne sepolto in una tomba, attorno alla quale nel IV secolo fu costruito un martyrion, nel V una chiesa e nel VI da Giustiniano una grandiosa basilica di cui sono ancora visibili le rovine. L’interesse della Chiesa romana del Cinquecento per le memorie degli apostoli e dei martiri è la stessa per noi oggi: la fede cristiana è stata tramandata da Cristo fino a noi da una tradizione ininterrotta e questo è uno dei fondamenti della sua credibilità. Papa Gregorio XIII assegnando san Giovanni come patrono ai Bolognesi volle indurli a condividere la sua stessa sollecitudine per la Chiesa, che al tempo del Concilio di Trento doveva ritrovare la sua purezza e santità attingendo alle fonti della spiritualità: il Vangelo. San Giovanni è ritenuto autore, oltre che di un Vangelo e dell’Apocalisse, di tre Lettere, la prima delle quali parla del mistero di Dio come luce e amore e, di conseguenza, della Chiesa: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio» (1 Gv 4,7). Queste parole sono la base della spiritualità non solo della nostra, ma di tutte le confraternite. San Petronio, vescovo Come abbiamo accennato prima, è strano che il papa, bolognese, non abbia scelto per l’Arciconfraternita dei Bolognesi un santo della tradizione cittadina ed è altrettanto comprensibile che, nonostante ciò, esso si sia subito sviluppato il culto a San Petronio, il santo bolognese per antonomasia. Per capire le ragioni dell’uno e dell’altro fenomeno, dobbiamo vedere brevemente chi è questo santo. Petronio non fu il primo vescovo di Bologna (lo fu san Zama, alla fine del III sec.), ma quello che consolidò l’organizzazione territoriale e spirituale della Chiesa bolognese. È un personaggio storicamente accertato, di cui parlano due autori coevi (del V secolo), Eucherio di Lione e Gennadio di Marsiglia. Era figlio di un Petronio, vicario di Spagna e prefetto del pretorio nelle Gallie, che rinunciò agli agi e alle ricchezze della famiglia e della condizione di nascita per abbracciare il sacerdozio. Pare sia stato educato in un monastero, come a quel tempo tutti i rampolli delle famiglie patrizie cristiane, probabilmente a Lérins, in Provenza, attorno al 410. Petronio fu vescovo di Bologna dal 432, succedendo a Felice, sino al 450 circa. A quel tempo la chiesa bolognese era fortemente legata a quella di Milano, e nel secolo precedente sant’Ambrogio aveva visitato la città, l’aveva ricostruita, scoperto i corpi e promosso il culto dei santi martiri Vitale e Agricola: vedremo che alcuni tratti della personalità di Ambrogio vennero in seguito attribuiti anche a Petronio. Di lui possediamo una lettera, che egli scrisse probabilmente il giorno della sua ordinazione episcopale e che ce ne fa intravvedere il programma pastorale: egli si propone di impegnare ogni energia affinché, indipendentemente dalla sua incapacità, possa far fruttificare il «denaro ricevuto da Dio», ossia il suo popolo, affinché questo non si accontenti di essere ascoltatore della parola di Dio, ma di incarnarla nella propria vita. 2 Egli è ricordato come il fondatore del complesso monastico di Santo Stefano, detto Sancta Hierusalem, forse a seguito di un viaggio in Terrasanta, e come il costruttore degli edifici chiesastici più importanti di Bologna. Alla morte, verso il 450, fu sepolto qui, dove si affermò un culto (l’Elenco Renano, del V secolo, lo ricorda come santo assieme al predecessore Felice), limitato per molti secoli alla sola chiesa di sepoltura. Solo in seguito alla ricognizione (inventio) delle reliquie ad opera del vescovo Enrico il 4 ottobre 1141, il suo culto si diffuse alla città e diocesi e si verificavano guarigioni di infermi che si bagnavano alle acque del pozzo che scaturiva sotto l’altare del santo. Nello stesso XII secolo fu composta una vita in latino e nel XIII una in volgare, dove ai dati storici si mescolano molti tratti agiografici che rispecchiano piuttosto i problemi del secolo di composizione. Ad esempio, il fatto che san Petronio vi sia consacrato vescovo direttamente dal papa, rispecchierebbe il desiderio di autonomia della diocesi di Bologna dalla sede metropolitana di Ravenna. Inoltre, l’attribuzione a Petronio del titolo defensor civitatis che era stato attributo piuttosto di sant’Ambrogio di Milano, indica il desiderio dei bolognesi di avere un santo civico tutto loro. Infine, l’attribuzione a Petronio del merito di aver ricostruito le mura della città distrutte dall’imperatore Teodosio, è piuttosto un ricordo della tragica esperienza vissuta pochi anni prima della demolizione delle mura urbiche per ordine di Federico Barbarossa, impegnato nella lotta contro i Comuni padani. Domenico Zampieri, detto il Domenichino, Madonna in trono col Bambino, angeli musicanti e i santi Giovanni Evangelista e Petronio, olio su tela, cm 430 x 278. Già pala maggiore della chiesa dei Bolognesi, ora alla Galleria Nazionale l’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. Nel 1284 san Petronio fu proclamato protettore di Bologna (aggiungendosi a san Pietro apostolo, ai santi «moderni» Domenico di Guzman e Francesco di Assisi – fondatori dei due ordini mendicanti che a Bologna avevano i loro centri propulsori nell’Università – e Ambrogio di Milano). Il suo culto divenne il culto ufficiale del Comune dalla metà del XIII secolo: il Comune offriva la cera per l’altare del santo, la sua festa era regolata dagli statuti comunali ed era di riposo dal lavoro, gli era dedicato un quartiere («borgo di san Petronio»), molte corporazioni di arti e mestieri lo invocano come patrono e come garante di pace sociale e, soprattutto, nel 1388 il Comune decise di innalzargli una grandiosa basilica civica, distinta dalla cattedrale, con la facciata sulla piazza principale, uno dei capolavori del gotico italiano. Anche la tradizione iconografica ha rappresentato l’immagine che del santo vescovo si aveva nei secoli: nel XIII e XIV egli tiene in mano il modellino di Bologna perché si riconosceva in lui il costruttore di edifici pubblici e soprattutto della cinta muraria che difendeva la città e ne esaltava l’autonomia; in età barocca sono invece frequenti le composizioni in cui Petronio, assieme agli altri patroni di Bologna, impetra l’intercessione della Vergine contro guerre, pestilenze e terremoti: la città, in mano o ai piedi del santo, forma sempre con quest’ultimo un binomio inscindibile. L’attaccamento al patrono si radicò talmente che i bolognesi finirono per identificarsi con lui al punto di essere detti «petroniani» e Petronio fu in maniera crescente preso a simbolo della «libertà» cittadina in contrapposizione ai poteri centrali: dopo quello imperiale, quello papale. Deve quindi sorprendere meno che l’Arciconfraternita dei Bolognesi a Roma, istituita da un papa bolognese, non 3 si sia subito fregiata del patronato di san Petronio, perché è possibile che il papa abbia voluto escludere ogni possibile lettura politica. Ciò comunque non impedì che un culto così profondamente radicato nella pietà e nella coscienza dei bolognesi non emergesse: ben presto si celebrò la festa liturgica di san Petronio il 4 ottobre; già nel 1592 si scelse quel giorno per la liberazione di un prigioniero, secondo il privilegio di Gregorio XIII (che prima era fissato il 6 maggio); nel 1629 Petronio appare accanto a Giovanni nella celebre pala maggiore del Domenichino; da quel momento nei documenti ufficiali (visite apostoliche ecc.) appare il doppio titolo e a volte solo quello di san Petronio; le cronache riportano il 4 ottobre come una occasione per fastose feste barocche con addobbi nelle vie prospicienti, fuochi artificiali e il vino nuovo che fuorusciva dalla Fontana del Mascherone in Via Giulia. I testi liturgici della riforma del Concilio Vaticano II hanno privilegiato la prospettiva della Chiesa locale, di cui il vescovo è il simbolo principale (Bologna è stato uno dei laboratori della riforma conciliare con il card. G. Lercaro, don G. Dossetti ecc.). La prima lettura (tratta da At 2), richiamata dalla colletta, ci riportano alla prima comunità di Gerusalemme, dove i cristiani «perseveravano nella dottrina degli apostoli e nella frazione del pane»: così deve essere anche della Chiesa di Bologna, edificata dal suo santo pastore e che ora gode della sua protezione. Il richiamo che ne deriva anche ai bolognesi in Roma è non solo la fedeltà alle tradizioni della città natale, ma la piena comunione con la Chiesa locale di Roma, dove si incarna l’unica Chiesa di Cristo, con una partecipazione alle sue iniziative di culto, di catechesi, di ecumenismo e di carità. Santa Caterina da Bologna, vergine A Bologna Caterina de’ Vigri è detta «la santa» per antonomasia. Bolognese per nascita (nel 1413) e per parte di madre (Benvenuta Mammolini), vi morì il 9 marzo 1463. Trascorse la giovinezza alla corte estense di Ferrara (città di origine del padre Giovanni, funzionario ducale) dove fu educata alle lettere e all’arte (era letterata, pittrice e musicista) e formata alla spiritualità della devotio moderna che propugnava una riforma interiore e personale come stimolo della riforma della Chiesa. A 13 anni nel 1426 scelse la vita religiosa, unendosi a un gruppo di donne guidate da Lucia Mascheroni, che praticavano la vita comune senza obbligo di voti e senza regola: si trattava di una forma di vita apostolica molto moderna per i tempi e infatti il gruppo fu bel presto obbligato ad aderire alla regola delle clarisse entrando nel monastero del Corpus Domini. Questo subito divenne un centro spirituale molto celebre a Ferrara, grazie anche a Caterina, che fu maestra delle novizie, per le quali scrisse il trattato Le Marcantonio Franceschini, Santa Caterina da Bologna, sette armi spirituali. La sua spiritualità è di netta 1712 ca, olio su tela. Roma, Chiesa dei Bolognesi, Pala impronta francescana: povertà, penitenza, ubbidienza, dell’altare di sinistra. umiltà, sapienza, carità e preghiera. Molto ascoltata in comunità, fu ripiena di doni mistici che ne aumentavano la fama di santità ancora in vita. Nel 1546 fu chiamata come badessa del nuovo monastero del Corpus Domini a Bologna, che resse fino alla morte e che fu uno dei centri del movimento di rinnovamento spirituale degli ordine religiosi noto come «Osservanza». Morta il 9 marzo 1463, attorniata dalle consorelle, il suo corpo continuò, anche dopo la sepoltura nel monastero, a emanare un odore soave e presso la sua tomba si verificarono alcune 4 guarigioni. Dissepolto dopo diciotto giorni, il corpo non solo era incorrotto, ma possedeva ancora elasticità e traspirava un sudore odoroso. Oggi il suo corpo perfettamente seduto su uno scanno si può vedere al centro di un’adorna cappella appositamente allestita. Quest’ultimo particolare rappresenta anche l’elemento più noto e popolare della sua iconografia, presente nella pala d’altare a lei dedicato nella nostra chiesa. Si tratta però non di un elemento curioso o macabro, bensì della testimonianza che la santa volle perpetuare delle estasi che viveva in vita: in esse infatti Gesù Bambino le permetteva di essere toccato, abbracciato e baciato e lei aspirava il profumo della sua carne divina; così l’incorruzione e il profumo della carne della santa sono il ricordo della carne incorruttibile del Signore che ci ha salvati. Ne seguì un culto vastissimo che univa sia il popolo sia le classi superiori. Ma il regolare processo di canonizzazione si aprì solo nel 1669 per concludersi il 22 maggio 1712, in cui furono proclamati santi da Clemente XI anche Pio V, Andrea Avellino e Felice da Cantalice. I confratelli bolognesi vi parteciparono in numero di duecentocinquanta, giungendo a San Pietro in solenne processione preceduti dal vessillo con l’immagine della santa dipinta in oro davanti alle altre. A santa Caterina era devoto anche Prospero Lambertini, bolognese, arcivescovo di Bologna e papa Benedetto XIV (1740-1758) che si recò nella chiesa dei bolognesi il 9 marzo 1741 nel primo anno di pontificato e in seguito altre volte. Al culto di questa santa è legata la devozione, introdotta dalla stessa Caterina, della recita di 40 Ave Maria e di altrettante benedizioni dal 29 novembre al 23 dicembre, in preparazione al Natale, ancora praticata nella nostra chiesa all’inizio del XX secolo grazie alla diffusione di pubblicazioni devote. Non si può concludere la rassegna delle devozioni senza citare quella alla Madonna di San Luca, antica festa bolognese della Beata Vergine della Guardia, di cui in confraternita si conserva la riproduzione secentesca dell’antica icona medievale collocata nella caratteristica fioriera, imitazione di quella utilizzata a Bologna per la processione nella settimana dell’Ascensione. Infine una devozione che, come la precedente, si aggiunse nel XVII secolo, è quella di San Giuseppe, venerato come il patrono della buona morte e di cui è rappresentato il Transito nella pala dell’altare destro. Certamente dovette influire sulla diffusione della devozione il fatto che un altro papa bolognese, Gregorio XV, nel 1621 abbia esteso la solennità di San Giuseppe a tutta la Chiesa il 19 marzo. Madonna di San Luca, olio su tela, XVII secolo; Macchina, XIX secolo. Roma, Chiesa dei Bolognesi. Fabrizio Capanni 5