1 Uno Scoutismo normale per ragazzi speciali

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1 Uno Scoutismo normale per ragazzi speciali
Uno Scoutismo normale per ragazzi speciali
Dott.ssa Anna Contardi
Coordinatrice nazionale Associazione Italiana Persone Down
«Per confortare coloro che aspirano a diventare capi, vorrei smentire il diffuso preconcetto che per essere
un buon capo un uomo debba essere un individuo perfetto o un pozzo di scienza. Non è affatto vero. Egli deve semplicemente essere un uomo/ragazzo cioè deve avere in se stesso lo spirito del ragazzo e deve essere in
grado di porsi fin dall’inizio su un piano giusto rispetto ai ragazzi. Deve rendersi conto delle esigenze, delle
prospettive e dei desideri delle differenti età della vita del ragazzo, deve occuparsi di ciascuno dei suoi ragazzi individualmente piuttosto che della massa. Infine, per ottenere i migliori risultati è necessario che faccia nascere lo spirito di corpo nelle singole individualità dei suoi ragazzi» (Baden-Powell, Il libro dei capi).
Premessa
Mi sembrava importante iniziare così, per esprimere la fusione delle mie due esperienze: come capo dentro lo scoutismo per più di ventiquattro anni e come professionista nel mio lavoro. Ci tengo a dire che il mio
incontro con persone con disabilità nello scoutismo è avvenuto ben prima che cominciassi ad occuparmi di
persone con disabilità per professione.
Il mio primo incontro con una ragazza che aveva una disabilità intellettiva, è avvenuto a 19 anni quando
svolgevo il servizio di capo reparto. La famiglia mi chiese se ero disposta ad accettarla in reparto. Con
l’incoscienza dei 19 anni e la convinzione che per fare il capo non bisognava essere un pozzo di scienza, risposi affermativamente. Lì è cominciato l’incontro, che è continuato negli anni e a cui poi si è unita la professione.
Voglio condividere oggi con voi alcune riflessioni che nascono non soltanto dalla mia esperienza personale e professionale, ma anche dai tanti incontri che ho avuto con altri capi, con cui ci siamo confrontati negli ultimi 30 anni, prima semplicemente raccontandoci le nostre storie, poi man mano affinando il pensiero
intorno a quest’argomento.
Scoutismo ed handicap: Perché?
Le scelte operate nel tempo
L’inserimento di bambini e giovani in situazione di handicap nello scoutismo è una realtà da molti anni,
coincide più o meno con gli anni dell’inserimento dei disabili nella scuola di tutti, cioè l’inizio degli anni
‘70. Prima di allora, esistevano le unità MT (“Malgrado Tutto”) costituite da sole persone disabili e nate nella realtà di istituti specializzati. L’inserimento dei bambini e dei ragazzi nei gruppi è cominciato man mano
che iniziavano le esperienze nelle scuole: allora, alcune famiglie hanno cominciato ad avvicinarsi ai gruppi e
alle parrocchie.
Le scelte ideali e ideologiche
Ma perché e quali sono le scelte che l’Agesci ha operato nel tempo e che ci hanno portato a ciò? Provo a
ricordare quelle che nella mia esperienza di capo - ho lasciato l’Associazione da 8-9 anni - sono state dal
punto di vista di scelta ideale ed ideologica, tappe fondamentali.
All’inizio degli anni Ottanta, nei documenti, in Agesci, si parlava di educazione all’accoglienza e di educazione per tutti, due scelte fondamentali della nostra Associazione che volevano dire in concreto: scegliamo
di accogliere, scegliamo di aprire le porte a tutti. Poi, c’è stata la scelta di essere nel territorio, sempre di più
si è cercato di prestare attenzione all’esperienza incarnata nel territorio. Le zone sempre di più hanno tenuto
presente il confronto con il territorio. Questa scelta che apparentemente potrebbe sembrare non immediatamente correlata con la presenza di bambini con disabilità, nel nostro scoutismo, in realtà ci chiama molto in
causa rispetto al tema.
A seconda delle statistiche, la percentuale di bambini con disabilità in età scolastica è tra l’1 e il 2%. Significa che nei nostri quartieri ci sono necessariamente bambini o ragazzi con handicap e se al vostro gruppo
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scout nessuno si è mai affacciato a chiedere: “Posso entrare nel gruppo scout?”, c’è qualcosa che non funziona. Non vuol dire che sulla porta c’è scritto: “Vietato entrare agli handicappati”, ma in qualche misura questo
messaggio fuori c’è. Perché qualcuno non vi ha avvicinato?
La scelta di essere nel territorio ci fa interrogare molto fortemente rispetto a quest’argomento perché ci fa
domandare perchè il territorio non viene a noi in questa sua componente, se non dobbiamo rendere più visibile il nostro essere accoglienti e per tutti nel territorio.
La scelta politica e cristiana dei capi nel Patto associativo mi sembra dia poi ampi riferimenti sul perché
dobbiamo andare incontro alla realtà dei bambini e dei ragazzi con disabilità nello scoutismo: chiamiamole
in qualche misura, i riferimenti ideali e ideologici che fanno sì che oggi siamo qui.
Ne vale la pena?
Le motivazioni educative
Poi ci sono le valenze educative: perché ne vale la pena? perché io mi pongo il problema che un bambino,
un ragazzo con disabilità possa essere nello scoutismo?
Intanto, ci sono alcune valenze educative specifiche per questo bambino. La prima è che lo scoutismo non
è solo un luogo dove si va per socializzare, che poi non vuol dire soltanto stare in mezzo ad un gruppo, ma
può essere un’esperienza fortemente educativa per lui . Ci sono alcuni dei temi dell’educazione scout che se
sono significativi per tutti, lo sono ancora di più per una persona con disabilità. Ne cito solo tre che mi sembra che siano quelli che ci saltano più agli occhi.
Uno dei cardini della proposta scout è l’educazione all’autonomia ed alla responsabilità. È importante per
tutti, ma pensate quanto questa cosa diventi importante per persone con disabilità, in modo particolare quelle
con disabilità intellettiva che sono circa il 67% dei disabili e che poi probabilmente sono anche quelle che si
rivolgono in maggioranza allo scoutismo. Nella crescita verso l'autonomia, un bambino con handicap incontra due tipi di ostacoli: da una parte le difficoltà legate al suo deficit, dall'altra gli atteggiamenti di paura e
le ambivalenze dell'ambiente che interferiscono con il suo grado di autonomia potenziale, raggiungibile pur
nella situazione di svantaggio. Spesso i genitori, ma anche la gente in genere che il bambino incontra, talvolta gli stessi operatori e insegnanti, sviluppano nei suoi confronti un atteggiamento assistenziale e protettivo che ne limita l'acquisizione di indipendenza .
Sembra quasi che si voglia compensare con maggiore affetto ed atteggiamenti più permissivi il disagio per il
deficit o che a causa di esso il bambino venga complessivamente ritenuto incapace e quindi bisognoso di
assistenza e di qualcuno che operi al posto suo in ogni occasione.
Scatta di fatto questo meccanismo: “siccome non sei capace di fare una cosa, proietto questa incapacità su
tutte le cose, per cui ti sostituisco in tutto. Tu a scuola non sei capace di fare le moltiplicazioni a 3 cifre ed
allora ti faccio anche lo zainetto.” Le due cose non sono esattamente la stessa cosa; non è che se non sa fare
le moltiplicazioni a 3 cifre, non sa neanche mettere i libri nello zainetto a scuola..
Dall’altra parte succede anche che se io, persona cosiddetta normale, sto di fronte ad una persona con disabilità e non riesco ad interpretarla ed a capirla, in qualche misura vivo un disagio perché non riesco a specchiarmi nella persona che ho davanti. Potrei colmare questo disagio soltanto aggiustandola e facendola diventare uguale a me; ma in presenza di un handicap, nella quasi totalità dei casi è impossibile. Allora, cerco
di compensare questo mio disagio con un sacco di coccole, con un’esplosione di tipo affettivo e spesso anche
questo diventa un meccanismo di impedimento nei confronti dell’autonomia possibile.
La conquista dell’autonomia per una persona con disabilità è importantissima, perché è un requisito per la
sua vita adulta. La vita si è allungata tantissimo anche per le persone con disabilità. Negli anni Quaranta
l’aspettativa di vita per un bambino sindrome di Down era 12 anni, oggi è 62 anni. Significa che andiamo
verso una società dove ci saranno sempre più persone disabili adulte e, quindi, possedere una certa autonomia è garanzia di un futuro qualitativamente migliore per tutte loro. Mi sta a cuore il tema dell’autonomia per
le persone disabili: sono convinta che esista un’autonomia possibile per tutti che assume significati diversi
per persone diverse. Quindi, lo scoutismo, che ha un progetto educativo in tal senso è particolarmente adeguato perchè propone un percorso di autonomia e di responsabilità.
Una seconda caratteristica del metodo scout mi fa pensare che vale la pena di inserire un bambino con
difficoltà. In tutte le branche esiste un cammino personale ed uno comunitario; c’è una progressione,
un’attenzione alla crescita dell’individuo fusa ed integrata in una crescita della comunità; contemporaneamente sempre, un’attenzione al gruppo e una al singolo. Pensate quanto ciò sia importante per un ragazzo
che ha un passo diverso dagli altri. Ci sono tanti altri luoghi dove può essere inserito nel tempo libero, ad
esempio nello sport, ma non è possibile sempre avere questi due cammini che vanno avanti insieme. Nel me-
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todo scout invece lo dichiariamo: facciamo una progressione personale ed un cammino comunitario. Il fatto
che ce lo siamo posti per tutti fa sì che il gioco valga ancora di più per lui.
Terza questione: la pluralità dei linguaggi. Molto spesso una persona con disabilità ha uno dei suoi linguaggi deficitario. Ad esempio, chi ha una disabilità intellettiva può avere difficoltà di linguaggio verbale,
qchi ha una disabilità motoria può avere una ridotta capacità di linguaggio del corpo. Ma qual è quella realtà
giovanile dove tu parli con tanti linguaggi? Ai tempi miei, erano i boys scout! Nello scoutismo il fatto di non
usare solo il linguaggio verbale, fa parte del metodo. Usiamo il linguaggio verbale, il gioco, l’espressione, la
manualità: usiamo veramente tanti linguaggi. Una persona che ha un linguaggio deficitario, sicuramente può
trovare un modo di esprimersi.
Ho allora deciso che per Pierino, ragazzo con disabilità, vale la pena di entrare negli scout, non ho dubbi.
Però per gli altri vale la pena? Sicuramente la presenza di un ragazzo con disabilità nello scoutismo insegna
ad essere più accoglienti, più tolleranti. Se ci fermassimo qui, però, rischieremmo una dichiarazione di buonismo e soprattutto, mi sembra che avremmo visto troppo poco di quanto questo tipo di esperienza ci può dare. In realtà, inserire un bambino con disabilità nello scoutismo, avendo voglia che lui ci stia, riconoscendo la
sua identità, stimola e provoca maggiori opportunità educative e, quindi, fa salire di qualità la proposta educativa per tutti, perché suscita un’attenzione alla diversità di tutti.
Ecco un paio di esempi che possono aiutare a farmi capire.
Al campo di reparto sono abituata a proporre le Olimpiadi, si corre, si gioca, si salta. Poiché quest’anno c’è
Giuliano, che è in sedia a rotelle, bisogna che mi inventi che nelle Olimpiadi ci siano anche dei giochi dove
non si corre né si salta e, quindi, inserisco la pesca nel laghetto e il tiro con l’arco. A questo punto, Guido,
bambino che non ha disabilità, ma è solo grasso ed arrivava sempre per ultimo, vince il tiro con l’arco ed ha
il suo successo. Che cosa è successo in questo reparto? La presenza di un ragazzo disabile mi ha obbligato ad
essere attenta ad una diversità più diversa, ha aperto uno spazio per le piccole diversità degli altri.
Un altro esempio di esperienza vissuta sulla mia pelle: riunione di clan nel quale c’è Lucia che ha una disabilità intellettiva, sul tema: “Essere operatori di pace”. Non posso pensare di proporre una discussione mettendoci intorno ad un tavolo e parlare, per cui mi invento di dividere il clan a coppie e di chiedere ad ogni
coppia di simulare una situazione di pace e di violenza che hanno vissuto o che viene in mente a loro. Anche
Lucia fa la sua scenetta con gli altri ed anche tutti quelli del mio clan che normalmente, quando discutevamo
in modo classico, mi dicevano sempre: “Sono d’accordo con lui” esprimono così il loro pensiero. Che cosa è
successo? Affrontare un tema apparentemente complesso con una modalità diversa per dare uno spazio alla
persona disabile, ne ha creato di nuovi per tutti. Fondamentalmente la presenza di una persona con disabilità
ti provoca e da spazi per la migliore qualità della proposta per tutti.
Le domande ricorrenti
Ci sono alcune domande che ricorrono nelle conversazioni coi capi.
I CAPI
Siamo abbastanza preparati? Che tipo di preparazione ci serve?
È importante ricordarsi sempre qual è il nostro ruolo ed in che punto della catena degli interventi stiamo.
Il ruolo del volontariato e quindi della nostra Associazione è quella di chi, usando la classificazione
dell’Ottanta dell’OMS, opera sull’handicap, non sulla disabilità, né sul danno; se usiamo l’ICF, operiamo
non sul rischio di emarginazione, ma sulla potenzialità di partecipazione. Però, né nell’uno né nell’altro caso
stiamo andando ad operare sul danno o malattia e sulla disabilità, perché di questo e dell’eventuale difficoltà
funzionale se ne occuperanno semmai a vario livello i professionisti del settore. Interveniamo sul rischio di
emarginazione o sulla crescita di partecipazione.
La nostra attenzione va focalizzata quindi su quali sono le competenze necessarie per giocare questo ruolo.
No ai capi professionisti
Non servono capi con una professionalità specifica in questo settore. Non bisogna correre rischi di onnipotenza, ma dobbiamo capire quello che possiamo fare e stare in questo ruolo. Non dobbiamo nemmeno sentirci frustrati se un ragazzino disabile, che non sapeva leggere, alla fine dell’anno non ha imparato a leggere
con i cartelloni: sarebbe un obiettivo assurdo e non nostro. Non posso neanche pensare di trovare da qualche
parte delle ricette che valgano sempre, peggio ancora delle ricette che valgano per tipologia di handicap. Fa-
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cendo il capo devo accettare il rischio di sbagliare, anche perché altrimenti non vado da nessuna parte; e lo
devo accettare anche per gli altri ragazzi, devo accettare di tornare sui miei errori, migliorare, guardare avanti. Nè ci serve il “capo per lui”, cioè il capo di sostegno. Pensare alla presenza di un capo di sostegno in unità, snaturerebbe di molto la situazione. Il che non esclude che in alcune situazioni io abbia bisogno di un capo che si occupi del ragazzo in modo personalizzato, ma non ho necessità di un capo che professionalmente
assuma questo ruolo in modo stabile; semmai che all’interno della staff, tutti siano consapevoli dei suoi bisogni.
Quali competenze?
Quale tipo di competenza può essere importante nella preparazione dei capi? Qualche volta forse ci servirebbero un paio di occhiali che ci aiutino a riconoscere le persone aldilà dell’handicap. Dobbiamo imparare a
leggere i comportamenti che non capiamo non in chiave handicap, giustificandoli cioè con la sola presenza di
una disabilità, ma andando a cercare chi e che cosa c’è dietro quel comportamento.
Ecco due esempi. Durante una consulenza professionale arrivo a fine pomeriggio in un laboratorio dove
lavoravano alcuni ragazzi disabili e vedo un ragazzo, che peraltro abitava lì vicino, che si porta via tutte le
sue cose personali. Chiedo all’istruttore: “Perché fa così?” Questi mi risponde: “Perché è Giorgio!” (cioè è
una persona con handicap, che razza di domanda mi fai?). Provo a pensare che invece forse lui mi sta dicendo qualcosa. Guardo intorno nel laboratorio e non ci sono spazi personali dove lasciare i propri oggetti; ci
sono scaffali comuni, attaccapanni, ma non c’è niente di personale e concludo: “Forse lui mi sta dicendo che
vuole uno spazio suo”. Allora mi viene un’idea: domani mattina porto degli scatoloni di cartone, li foderiamo
con i ragazzi, ci mettiamo i nomi e vediamo se lui lascia le sue cose. Il giorno dopo Giorgio ha lasciato le sue
cose nello scatolone. Era tipicamente una situazione in cui fondamentalmente era stato letto un comportamento attraverso l’handicap senza guardare la persona ed i suoi bisogni.
Un altro episodio. Una volta venne da me un capo scout chiedendo una consulenza per un bambino con
Sindrome Down in reparto, che, passato dal branco dove stava molto bene, non voleva mai giocare.
“All’inizio della riunione di reparto si siede in un angolo e guarda noi che giochiamo a palla avvelenata.” Io
gli domando: “Ma gli hai spiegato le regole?” In realtà, il problema era proprio questo. Lui non giocava non
perché era un bambino con sindrome di Down, ma perché avendo una disabilità intellettiva invece di sintetizzare le regole vedendo gli altri giocare come facevano gli altri bambini, aveva semplicemente bisogno che
qualcuno gliele spiegasse in modo semplice e comprensibile per lui. Il capo non si era posto questa domanda
la conclusione era stata: lo fa perché ha la sindrome di Down..
Un’altra cosa importante che dovremmo tener presente: nell’incontro con una persona con disabilità, bisogna che impariamo a vedere chi è e quello che sa fare questa persona, invece di chi non è o che cosa non sa
fare. Per aiutare le persone a crescere, ci interessa sapere dove possiamo poggiare i piedi per guardare in alto.
Nelle persone con disabilità ci sono cose che non possono fare, ma che potranno imparare a fare e cose che
non sanno fare e che non potranno fare mai. Focalizzare l’attenzione su quello che non c’è, rischia di forzare
anche una nostra visione negativa di quella persona; invece, portare la nostra attenzione su quello che c’è ,
implica guardare le potenzialità di una persona e poterle utilizzare per farle entrare meglio nella comunità,
nella realtà degli altri e nella sua crescita.
Dobbiamo poi imparare a riconoscere la diversità per valorizzarla. Non dobbiamo fare finta che la disabilità
non ci sia, perché c’è ed intanto, la devo vedere e riconoscere. Non è vero che siamo tutti uguali: siamo tutti
uguali e tutti diversi. Il che vuol dire riconoscere la diversità e scoprire cosa alcune persone con disabilità ci
insegnano con la loro esperienza di vita. Alcuni anni fa Roberto Benigni scrisse una lettera molto carina
all’Associazione Italiana Persone Down dopo aver girato Jhonny Stecchino con un ragazzo con sindrome di
Down. Ringraziava molto Alessandro per aver fatto quest’esperienza e non solo perché era bravo come attore, ma perché gli aveva insegnato una cosa. Quando la mattina chiamava Alessandro sul set, lui gli rispondeva sempre: “Ora no, devo finire il mio cappuccino”. Così Benigni raccontava “L’ho fatto anch’io nel mio ultimo film che ho appena finito di girare con gli americani e funzionava. Invece di correre nervoso mi finivo il
mio cappuccino e poi lavoravo meglio. Mi hai insegnato anche a godermi il mio cappuccino.” Aveva imparato da Alessandro alcune priorità e tempi diversi che magari nella nostra frenesia spesso ci dimentichiamo.
Un altro aspetto importante della preparazione dei capi è imparare ad osservare per capire. Vi ricordate
“Ask the boy” ? Molto spesso si tende a non guardare, a dare subito delle interpretazioni, mentre invece, una
delle cose che bisogna fare è riflettere: se io vedo un comportamento che mi crea disagio, una situazione che
non capisco, provo a ricostruire che cosa è successo prima per capire veramente che cosa vuol dire questa situazione. Molto spesso quando la gente viene da me con un problema, invece di dare risposte, rivolgo domande, cerco di condividere un’osservazione del contesto prima di interpretare e dare una risposta.
E la Coca?
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Per quanto riguarda i nostri contesti organizzativi, sicuramente è fondamentale la progettazione in comunità capi. Il confronto è fondamentale per interpretare quanto succede: se condivido la mia osservazione con
persone, anche se non sono la mia staff, posso essere molto aiutata ad interpretare i comportamenti. E’ chiaro
inoltre che bisogna in Coca fare un progetto sugli inserimenti anche in termini di età. Se io ho due bambini
con disabilità che passano dal branco al reparto quest’anno, forse mi devo porre la domanda se qualcun altro
mi chiede di far entrare un ragazzino in reparto, se è il caso o non è il caso. Devo pensare ad una progettazione dei percorsi in senso interbranca, così come si dovrebbe fare, in teoria, anche con gli altri ragazzini.
Ma la competenza più importante per inserire bene un bambino con disabilità nello scoutismo è la conoscienza del metodo. Credo sia fondamentale che i capi conoscano e sappiano usare il metodo, questa, secondo me, è una competenza su cui non si può transigere. Saper usare il metodo nella sua globalità vuol dire saper usare e scegliere gli strumenti in modo intenzionale, elastico, creativo. Non posso essere un capo terapista che non sa nulla di metodo scout e pensare di essere il miglior capo per un bambino disabile. Forse sono
il miglior terapista, ma non il miglior capo.
IL GRUPPO
Come preparare l’entrata di una persona con disabilità?
È importante preparare all’accoglienza della diversità non all’arrivo di Pierino. Se ad un gruppo dico:
“Ragazzi, guardate arriva un bambino speciale...”, siccome spesso l’immaginario è peggio della realtà, probabilmente loro si faranno un’immagine anche distorta di questa persona. Allora facciamogliela conoscere,
poi magari ne parliamo.
Quello che veramente è importante è preparare il gruppo in generale all’accoglienza della diversità. Cosa
voglio dire? Se ho un reparto composto di uomini duri che di fronte ad un bambino che piange al primo
campo perché ha lasciato la mamma, gli ridono appresso e lo legano al palo, forse quello non è un reparto
molto accogliente per un bambino handicappato, non lo è neanche per gli altri! Non è un reparto attento alla
diversità.
Un elemento di storia ci aiuta a capire quanto questo sia vero. Quando c’erano ancora poche esperienze
di ragazzini con handicap nello scoutismo credo che, non a caso, i primi inserimenti di persone disabili siano
stati nei gruppi misti. Perché proprio nei gruppi misti? Non perché i capi fossero più bravi, ma perché, avendo dovuto già affrontare il problema della diversità maschio-femmina, erano gruppi dove si era già allenati
alla diversità, al fatto che i giochi dovessero essere di tipo diverso, che i linguaggi dovessero essere di tipo
diverso e, quindi, era oggettivamente più facile inserire un bambino handicappato in un’unità mista, piuttosto
che in una unità monosessuale.
Che cosa vuol dire prepararsi all’accoglienza della diversità? Se ancora non avete un bambino con handicap e vi volete domandare se il vostro gruppo è pronto, provate a pensare se l’unità considera la diversità delle persone che ci sono dentro capace di cambiare il suo modo di fare attività e così via. Non posso fare lo
stesso Grande Gioco ogni anno perché i ragazzi cambiano, non posso mangiare sempre pasta se ho un ragazzo con l’intolleranza al glutine ma posso scoprire nuove ricette col riso,….
Ci possono essere poi dei momenti in cui sarà necessario parlare in modo esplicito di Pierino, delle sue
capacità e delle sue difficoltà, a volte coinvolgendolo direttamente e su questo io sono dell’idea che le cose
vadano sempre dette in modo chiaro e vero.
Ma se siamo tanti in reparto…
Un problema fondamentale è quello dei numeri, riferito sia ai ragazzi in unità, sia alle persone disabili
contemporaneamente nella stessa unità. Non ci sono ricette, eccetto quelle che B.-P. stesso ha detto: “io posso tenere un reparto di 16 ragazzi, voi siete più bravi di me e potete tenerne il doppio”. Questa regola vale
anche per le persone disabili. È chiaro che se inserisco un disabile in un’unità di cinquanta persone, avrà difficoltà enormi di orientamento nel gruppo: un gruppo troppo numeroso non è facilmente accogliente, ma, secondo me, non è accogliente neanche per gli altri.
Sul numero delle persone disabili in unità, credo che non ci sia una regola, però fermatevi a riflettere in
comunità capi perché troppe persone nella stessa unità creano difficoltà nell’avere l’attenzione necessaria da
parte vostra, ma anche per poter promuovere una vera integrazione nel gruppo.
IL RAGAZZO, I RAGAZZI
E’ il caso per lui?...
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Credo si debba cercare di capire quali siano i parametri su cui valutiamo che questa esperienza valga la pena di essere vissuta per quel ragazzo. Alcuni mi dicono: ma se non potrà mai fare il capo..e se non può fare il
caposquadriglia..Ma ci poniamo davvero queste domande con gli altri? Il mio personale parametro è: qualsiasi situazione di benessere è un indicatore che mi dice di sì. Se un ragazzino è contento di stare in branco
ed è il suo massimo che può esprimere, vale la pena qualsiasi sia il tempo che rimarrà in branco. È chiaro che
non ci basta che ci sia: nella valutazione dell’efficacia e dell’intervento del metodo, per lui dobbiamo tener
presente che costruiamo un percorso educativo, ci poniamo alcune tappe di progressione personale.
L’età
Si discute molto sul problema dell’età: si tende, soprattutto con i ragazzi con disabilità intellettiva, a tenerli in unità per tempi più lunghi degli altri. Anche qui sono solo i capi a valutare le situazioni, però come
linea generale, credo sia assolutamente opportuno tener presente che una persona che ha una disabilità intellettiva e quindi forse un età intellettiva inferiore, ha comunque la sua età anagrafica, il suo sviluppo fisico ed
emozionale; ne consegue che, come si fa spesso nella scuola, si può ritardare di un anno il passaggio al gruppo di età superiore, però non ha nessun senso tenere un quattordicenne in branco perché lui fisicamente sarà
un quattordicenne e, quindi, vivrà una situazione di disagio e così gli altri, anche se gli piacciono i giochi del
branco. Avrà difficoltà ad identificarsi con quel gruppo e gli altri lo vedranno come un diverso più diverso,
perché non solo ha una disabilità, ma ha anche un’età lontana dalla loro.
Nello stesso modo dobbiamo tener presente che anche per un ragazzo con disabilità intellettiva verrà il
momento della partenza, della Sua partenza.
Ma un bambino con un handicap grave…
Sulla gravità ci sarebbe tantissimo da dire. Io sono una persona con un handicap grave su un tetto di una
casa perché soffro di vertigini e sono una persona totalmente abile dietro la scrivania.Molto spesso sono i
contesti a definire la condizione di gravità.
In ogni inserimento bisogna osservare, valutare le persone che hanno gravi difficoltà, fare anche delle
prove per verificare insieme se ce la facciamo noi e gli altri. Si tratta, a volte, di valutare la possibilità di partecipazioni ad alcune attività in modo ridotto. Una volta nel mio gruppo abbiamo avuto in reparto una persona molte grave fisicamente, con notevoli bisogni di assistenza fisica; per lei fare 15 giorni di campo voleva
dire fisicamente distruggerla, oltre ad avere difficoltà di assistenza adeguata per un periodo così lungo per
cui abbiamo deciso che ne faceva solo metà prevedendo in quel periodo attività in cui potesse realmente partecipare. I progetti vanno fatti con le persone e per le persone.
È chiaro che per noi e per una persona che entra nello scoutismo dovrebbe essere possibile condividere un
cammino che abbia dentro tutti gli ingredienti dello scoutismo. Non si fa un inserimento solo nelle riunioni,
se non c’è la possibilità o non c’è la condivisione della scelta di partecipare anche alle attività, alle uscite ed
ai campi, a volte in maniera ridotta, forse lo scoutismo non è la proposta adatta. La nostra proposta ha caratteristiche particolari, dove il tempo lungo aiuta proprio i ragazzi con maggiori difficoltà a trovare le loro modalità di comunicazione. Spesso è molto più difficile inserire un ragazzo con gravi problemi in una riunione
piuttosto che inserirlo in un’uscita, dove hai dei tempi anche di recupero, tempi lunghi per trovare gli spazi
per comunicare.
A proposito dei genitori
Per quanto riguarda il rapporto con i genitori, mi preme ricordare una grande realtà di fatto: una famiglia
con un disabile molto probabilmente in tanti contesti si è già presa una sportellata in faccia. Ci sono stati nella sua vita, alcune situazioni in cui quando ha dichiarato quali erano le difficoltà di suo figlio qualcuno le ha
chiuso la porta. Ci possono essere persone che all’inizio sono un po’ ritrose nel dire tutto perché hanno paura
di ricevere un altro rifiuto. Quando noi ci accorgiamo che c’è un ragazzino che ha dei problemi, dobbiamo
cercare un dialogo con la famiglia, magari facendo quest’introduzione: “Sono molto contento che Lucio stia
con noi in reparto. Siccome voglio che lui stia sempre meglio, mi aiuta a capire questa difficoltà che noi abbiamo osservato?” Ci deve essere prima un’affermazione chiara di scelta e di condivisione che non faccia
spaventare, e poi possiamo andare avanti.
Un discorso simile vale anche per il rapporto con i professionisti, che molto spesso prescrivono di mandare il ragazzo agli scout. Questo non vuol dire che sempre sappiano cos’è lo scoutismo. Anche lì manteniamo
una relazione in cui ognuno fa la sua parte ed insieme si procede.
Le attività
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A volte ci poniamo la domanda: ma condiziona le attività… È chiaro che il metodo scout ha una grandissima ricchezza. Se lo usiamo tutto, troviamo molte soluzioni ; se ne usiamo solo dei pezzi, più stringiamo,
più diventiamo rigidi nell’applicazione del metodo. Se pensiamo di fare lo stesso grande gioco tutti gli anni,
indipendentemente dai bambini che cambiano, ovviamente queste attività diventeranno sempre più difficili
da condividere con tutti. Sicuramente Pierino condizionerà le attività: questo non vuol dire che necessariamente saranno attività brutte o limitanti, ma diverse da quelle dell’anno passato. L’equilibrio può essere raggiunto se pensiamo alla presenza di Pierino tra di noi teoricamente organizzata in tre tempi: quello in cui lui
è protagonista, quello in cui lui è partecipante, quello in cui lui è spettatore.
Non è pensabile che un ragazzino con disabilità sia sempre protagonista, perché il suo essere protagonista
necessita delle attenzioni speciali. Vuol dire che nella programmazione di una riunione, ci saranno alcuni
momenti che lo vedono al centro dell’attenzione con un ruolo che è suo, che io ho pensato e costruito su chi
è lui, ci saranno degli altri momenti in cui parteciperà e sarà inserito nel contesto e ci saranno degli altri momenti in cui sarà spettatore.
Se io gioco su tutti e tre i tempi, è più facile sempre tener presenti le esigenze di Pierino e le esigenze degli altri ragazzi. È chiaro che io non potrò mai avere un ragazzino disabile sempre protagonista, ma neanche
un ragazzino disabile sempre spettatore.
Un esempio. Una persona su sedia a rotelle in un clan. Vuol dire che il clan non fa più strada? Nella logica dei tre tempi, potremo avere un’uscita del clan in cui si va in barca e lui rema insieme agli altri: è un protagonista; un’uscita in cui si fa strada su una mulattiera e spingeremo la sedia a rotelle: lui sarà partecipante.
Infine, possiamo pensare che se il clan ha proprio bisogno di andare in cima alla montagna o gli si dice che
quella volta non può venire o si va su una montagna che può essere raggiunta in funivia, lui sarà spettatore.
Questo vuol dire che il clan ha trovato un modo di fare strada nel rispetto di Pierino e del clan.
Lo scoutismo è un metodo che ha dei principi e degli strumenti chiari, ma ha bisogno di capi creativi .
Più lo siamo, più giochiamo su queste differenze, più riusciremo ad avere uno scoutismo davvero aperto a
tutti.
«In principio la terra era tutta sbagliata. Renderla più abitabile fu una bella faticata.
Per passare i fiumi non c’erano i ponti, non c’erano sentieri per salire sui monti.
Ti volevi sedere? Neanche l’ombra di panchetto.
Cascavi dal sonno? Non esisteva il letto.
Per non pungersi i piedi né scarpe né stivali.
Se ci vedevi poco non trovavi gli occhiali.
Per fare una partita non c’erano palloni, mancava la pentola e il fuoco per cuocere i maccheroni. Anzi a
guardar bene mancava anche la pasta.
Non c’era nulla di niente, zero via zero e basta.
C’erano solo gli uomini con due braccia per lavorare e agli errori più grossi si poté rimediare.
Da correggere però ne restano ancora tanti riboccatevi le maniche c’è lavoro per tutti quanti.»
(La storia universale - G.Rodari)
E allora diamoci da fare! Il mio slogan è : “Le persone disabili nello scoutismo per uno scoutismo
migliore per tutti.”
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