Scansione del tempo e calendario: l`esempio - CISADU

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Scansione del tempo e calendario: l`esempio - CISADU
Alessandro Lupo
Scansione del
tempo e
calendario:
l’esempio
mesoamericano
corso di laurea in
Teorie e pratiche dell’antropologia
anno accademico 2002-2003
S
Edizioni Lettere e Filosofia - La Sapienza
Alessandro Lupo
Scansione del tempo e calendario:
l’esempio mesoamericano
Corso di laurea in
Teorie e pratiche dell'antropologia
Anno accademico 2002-2003
Edizioni della Facoltà di Lettere e Filosofia
La Sapienza - Roma
Edizione a cura di Biblink Service
marchio di Biblink s.r.l.
v.le XXI Aprile 63 - Roma
Indice
1.
Introduzione
pag. 3
2.
L’anno “vago” di 365 giorni
pag. 5
3.
Il calendario rituale di 260 giorni
pag. 6
4.
Il periodo di 52 anni
pag. 10
5.
I cicli di Venere, di Marte e della Luna
pag. 13
6.
Il “computo lungo”
pag. 15
7.
Il tempo e lo spazio
pag. 17
NOTE
pag. 23
OPERE CITATE
pag. 25
1. Introduzione
L’imminente fine del “secondo millennio” mette in evidenza una qualità del nostro come di tutti i calendari che, nella concezione apparentemente secolarizzata del tempo che vige
nella società occidentale contemporanea, passa spesso in secondo piano rispetto alla sua più
manifesta funzione cronometrica: la capacità di conferire alle diverse unità in cui il continuum
temporale viene suddiviso significati e valori peculiari, quando non del tutto unici. Il fatto
che una data priva di qualsiasi corrispondenza con qualsivoglia fenomeno naturale - astronomico, geologico, climatico, ecc. -, oltre che di controversa collocazione1, induca il Papa a
pronunciarsi rassicurando i fedeli circa la continuità della vita sul pianeta e spinga le polizie
di più paesi (Italia e Israele in testa) a dispiegare ingenti mezzi per prevenire eventuali atti di
violenza pubblici, dimostra efficacemente come i calendari, oltre a servire alla scansione e alla misurazione del tempo, siano dei poderosi strumenti con cui gli uomini conferiscono al
succedersi degli eventi ordine, senso e valore, riuscendo così a “orientarsi in un mondo altrimenti opaco” (Geertz 1987: 340), quando non del tutto incomprensibile e vano.
Ben di rado, nella storia dell’umanità, o forse mai, la cronometria è stata un’attività
neutra, isolabile dal complesso di saperi, credenze, modelli di comportamento e principi
etici che costituiscono il quadro ideologico di ogni gruppo sociale. Lo studio comparato
dei diversi sistemi calendarici passati e presenti dimostra anzi come essi si siano costantemente evoluti a partire da iniziali esigenze di carattere simbolico (o “religioso”; Hubert &
Mauss 1951: 96). Proprio per ovviare all’angoscia generata dalla percezione dell’irreversibilità del tempo e della vanità dell’esistenza, secondo Edmund Leach (1973) sarebbero
sorti i “pregiudizi religiosi” cui si deve l’unificazione (ingiustificata sul piano logico) di
avvenimenti ricorrenti e avvenimenti che non si ripetono, permettendo di inserire i secondi nella griglia concettuale dei primi e di rendere psicologicamente accettabile l’esperienza dell’entropia e dell’irreversibilità dell’esistenza (cfr. Pocock 1964: 310-311).
Con questo non si vuole certo sostenere che, anche presso i popoli più arcaici, la scansione del tempo non abbia avuto primarie finalità pratiche, riguardanti l’efficace svolgimento
delle attività produttive e sociali. Anche in tali casi, tuttavia, i pur rudimentali calendari in vigore hanno immancabilmente rivelato di possedere la fondamentale capacità di distinguere e
connotare le suddivisioni temporali, conferendo alle diverse unità in cui il tempo viene scomposto una natura disomogenea, che già Hubert e Mauss definirono “qualitativa” (1951; cfr.
Gell 1992: 291). Nelle società tradizionali, prive di scrittura e internamente poco differenziate,
non è dato rinvenire un’idea astratta di tempo, quale flusso uniforme, continuo ed omogeneo
che può essere misurato prescindendo dagli eventi sociali che di fatto ne scandiscono l’esperienza (v. Hallpike 1984). Rispetto ai Nuer del Sudan, ad esempio, che fondano la propria concezione del tempo essenzialmente sulle relazioni con l’ambiente (basate sulla pastorizia e l’agricoltura) e sui rapporti sociali, Evans-Pritchard ha osservato che “il calendario è una relazione tra un ciclo di attività e un ciclo concettuale, e i due cicli non possono separarsi [...] Il tempo
è per essi una relazione fra le attività” (1979: 149). Quanto più uniformi saranno le attività dei
membri di un gruppo, tanto meno essi avvertiranno la necessità di elaborare un sistema di
computo del tempo che ne trascenda la specificità; non è infatti un caso che le forme più
astratte e sistematiche di cronometria siano sorte laddove la differenziazione delle attività sociali ha favorito un sistema generale di coordinazione temporale (v. Pocock 1964: 306).
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Le testimonianze storiche ed etnografiche confermano un po’ ovunque il nesso tra l’aumento della complessità sociale, la diversificazione delle attività produttive e lo sviluppo delle conoscenze calendariche. Tuttavia, non è lecito affermare che l’evoluzione di queste ultime
sia scaturita primariamente da esigenze di tipo pratico: troppo numerosi sono gli esempi di
sistemi calendarici sovradimensionati rispetto ai fabbisogni cronometrici delle società che li
hanno prodotti. Tanto più che, nelle forme più elaborate, raramente la conoscenza e l’impiego dei calendari si sono estesi al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, venendo anzi
spesso a costituirsi come un sapere esoterico il cui possesso è in grado di conferire autorità e
potere (v. Gell. 1992: 303-313). Non solo; nel momento in cui una delle principali funzioni dei
calendari consiste nel “qualificare” gli eventi, attribuendo loro significato, il controllo di questo significato diventa una questione di primissimo piano, sul piano politico, che consente di
dare o sottrarre legittimità a chi di quegli eventi è o è stato protagonista.
Tra i numerosi esempi di sistemi calendarici cui le osservazioni esposte fin qui possono riferirsi, tanto rispetto a contesti “primitivi” quanto ad altri più complessi, quello mesoamericano appare come uno dei più significativi. Esso non soltanto rappresenta una
delle massime realizzazioni intellettuali dei popoli nativi delle Americhe, ma illustra assai
bene la preminenza che in tanti casi l’attribuzione di senso alle scansioni temporali assume rispetto alla loro pura misurazione, o quanto meno la tendenza a ricondurre l’accurata
registrazione dei più diversi fenomeni che ricorrono nella natura a sistemi esplicativi di
portata universale, capaci di stabilire, se non ferree leggi causali, quantomeno illuminanti
relazioni di corrispondenza. Il calendario mesoamericano ha accompagnato passo passo,
sin dal loro sorgere, le grandi civiltà che dominarono Messico, Honduras, Belize e Guatemala (cioè l’area culturale denominata Mesoamerica) fino alla conquista europea: la sua
ideazione risale probabilmente al primo millennio avanti Cristo, ad opera dalle popolazioni del Messico sudorientale (gli Olmechi della costa del Golfo, gli Zapotechi di Monte
Albán), che parallelamente svilupparono la numerazione vigesimale e la scrittura ideografica, e si accompagna allo straordinario interesse con cui da sempre gli abitanti della
Mesoamerica osservarono e registrarono il ciclico ripetersi dei fenomeni astronomici, facendo del computo del tempo uno dei pilastri della loro religione e della loro ideologia;
esso servì alle élites per orientare la propria condotta, registrare le proprie gesta e legittimare il proprio potere; fu la principale chiave di lettura delle più svariate tipologie di
eventi, sia storici sia naturali, tanto da sopravvivere per oltre quattro secoli ai tentativi di
estirpazione messi in atto dai rappresentanti della croce e della corona; e se ancor oggi in
diverse comunità indigene è possibile osservarne la sopravvivenza accanto al calendario
gregoriano, è proprio perché questo non ne ha soppiantato che in minima parte le funzioni originarie (v. Colby & Colby 1981; Lipp 1991; Tedlock 1992). Verosimilmente ispirato a
motivazioni di carattere sacro, esso ebbe il suo principale impiego nella divinazione, nella
scansione dell’attività cerimoniale e nella registrazione di eventi dinastici e politici (nascite, accessioni al trono, conquiste, ecc.). Il che rende conto della sua complessità, del tutto
sproporzionata alle sole esigenze di misurazione del tempo: “il sapere calendarico scaturiva dall’osservazione dei cieli e soprattutto dal calcolo matematico, con il quale si pretendeva di sviscerare le leggi e le sequenze delle diverse azioni divine. L’uomo aspirava a
trovare le relazioni causali; le cercava nei diversi cicli temporali; immaginava la regolarità
universale dietro l’apparente indeterminatezza della volontà degli dèi; si attribuiva la ca4
pacità di deviare i misteri del destino attraverso l’osservazione degli eventi celesti e terreni e dell’intreccio delle combinazioni matematiche” (López Austin 1997: 26-27).
Al di sotto della complessità esteriore, tuttavia, il sistema calendarico mesoamericano
aveva una struttura tutto sommato abbastanza semplice, nonché coerente, consistendo in
un insieme di cicli di diversa durata che scorrevano paralleli. Come ha rilevato recentemente Alberto M. Cirese, la chiave del sistema consisteva in “un calcolo a modulo n”, capace di produrre “un universo sterminato, ma retto da una regola unica, per la cui applicazione
basta la sola conoscenza dei valori da assegnare ogni volta ad n. Ed è una lista assai breve:
13, 20, 20, 18, 365, 9” (1994: 327, corsivo dell’A.). Non diversamente da quanto avviene nei
sistemi calendarici di numerose società arcaiche o “primitive”, l’unità di misura di questo
sistema era il giorno, non avendo i popoli mesoamericani strumenti che permettessero di
misurare unità di tempo di minor durata. Inoltre, nei loro calcoli essi non utilizzavano le
frazioni e i decimali, dimodoché l’integrazione dei diversi cicli avveniva attraverso la combinazione dei loro multipli, che produceva unità di tempo maggiori. Ciò che ha suscitato lo
stupore e l’ammirazione di non pochi studiosi è il fatto che i calendari mesoamericani rivelano un’accuratissima conoscenza dei movimenti dei corpi celesti, la cui osservazione avveniva però senza l’ausilio di strumenti ottici, ma utilizzando traguardi e marcatori naturali e artificiali, come montagne, monumenti ed edifici sacri, che permettevano di registrarne con estrema precisione il passaggio per lo zenit e il sorgere e il tramonto in corrispondenza di determinati punti dell’orizzonte (Aveni 1991). Tutto ciò superando gli ostacoli
frapposti all’osservazione da un clima tropicale che, specie in certe regioni, riduceva drasticamente i periodi di visibilità dei fenomeni celesti (basti pensare che, nei bassopiani maya, il cielo è coperto da nubi per una consistente parte dell’anno; Thompson 1994: 182). Per
registrare i risultati delle proprie osservazioni ed effettuare i calcoli matematici su cui si basava il calendario, i popoli mesoamericani si avvalsero di un sistema di notazione vigesimale fatto di punti e linee (in area maya, anche di un simbolo avente un valore simile allo
“zero”; v. infra 6.), oltre che di vari sistemi di scrittura, da quelli ideografici ad altri propriamente fonetici, come fra i Maya (cfr. Marcus 1976; Schele & Freidel 1990).
2. L’anno “vago” di 365 giorni
Pur con alcune non irrilevanti differenze locali, in tutta la Mesoamerica il calendario
si articolava in due sistemi di computo o cicli distinti e paralleli. Uno era quello corrispondente all’anno solare (detto xihuitl dagli Aztechi e haab dai Maya)2, composto da 18
“mesi” di 20 giorni ciascuno3, cui venivano aggiunti 5 giorni intercalari, reputati infausti:
ognuno dei 365 giorni della somma risultante era contraddistinto da un numero (da 1 a
20) e dal nome del “mese”, esattamente come nel nostro calendario (1 gennaio, 2 gennaio... 30 settembre, 1 ottobre... ecc.). In nahuatl, la lingua degli Aztechi, le più ricorrenti
designazioni dei “mesi” (che potevano avere più di un nome) erano le seguenti: 1) Atlcahualo “si ferma l’acqua”, 2) Tlacaxipehualiztli “scorticamento di uomini”, 3) Tozoztontli
“piccola veglia”, 4) Huey tozoztli “grande veglia”, 5) Toxcatl “cosa secca”, 6) Etzalcualiztli
“pasto di etzalli (pietanza di mais e fagioli freschi)”, 7) Tecuilhuitontli “piccola festa dei si5
gnori”, 8) Huey tecuilhuitl “gran festa dei signori”, 9) Miccailhuitontli “piccola festa dei
morti”, 10) Huey miccailhuitl “grande festa dei morti”, 11) Ochpaniztli “spazzamento”, 12)
Pachtontli “piccolo pachtli (Tillandsia usneoides, parassita arboreo)”, 13) Hueypachtli “grande
pachtli”, 14) Quecholli “becco a spatola rosa (Ajaja ajaja Lin.)”, 15) Panquetzaliztli “levata
delle bandiere”, 16) Atemoztli “caduta dell’acqua”, 17) Tititl “contrazione”, 18) Izcalli “rinascita”; i 5 giorni aggiuntivi erano detti Nemontemi “completare invano” (cfr. Caso 1967:
35-37; 1971; Nicholson 1971: 432-433)4.
Questo anno di 365 giorni viene spesso chiamato “vago”, in quanto risulta più breve
dell’esatta durata dell’anno astronomico; tuttavia, contrariamente a quanto avviene nel
moderno calendario gregoriano con il bisestile, i popoli mesoamericani non pare abbiano
mai adottato l’uso di compensare lo sfasamento intercalando un giorno ogni quattro anni
(pratica che avrebbe creato gravi squilibri nella corrispondenza dell’anno solare con gli altri cicli di cui si dirà fra breve); di conseguenza, il calendario basato sull’anno vago accumulava 25 giorni di ritardo ogni 100 anni astronomici.
Gli studiosi moderni hanno molto discusso intorno all’atteggiamento dei popoli mesoamericani nei confronti di questo sfasamento temporale: se per un verso vi è concordia circa il
fatto che i Maya ne tenessero esattamente conto, pur senza praticare alcun “aggiustamento”,
le opinioni divergono riguardo agli Aztechi e gli altri popoli del Messico centrale, che secondo alcuni avrebbero provveduto (anche se s’ignora in che modo) a mantenere la sincronia del
calendario solare con le stagioni, mentre per altri avrebbero lasciato che esso accumulasse col
tempo un consistente ritardo5. In effetti, sull’anno solare si basavano le principali cerimonie
religiose, molte delle quali erano legate alle attività di sussistenza e alle stagioni, e venivano
celebrate per lo più al termine di ogni “mese” di 20 giorni. I nomi di alcuni dei “mesi” aztechi rivelano la chiara ispirazione ecologico-stagionale della loro denominazione, alludendo
all’inizio o alla fine della stagione piovosa (atemoztli e atlcahualo), alle caratteristiche generali
del clima (toxcatl) o ai prodotti stagionali (etzalcualiztli). Tuttavia, come sarà presto evidente,
l’occasionale intercalazione di un giorno extra sarebbe stata in profondo contrasto con gli
stessi principî ispiratori del complesso intreccio dei cicli calendarici mesoamericani, le cui finalità primarie non erano certo di pura misurazione del tempo astronomico.6
3. Il calendario rituale di 260 giorni
L’altro ciclo, noto come “computo dei giorni” (tonalpohualli in nahuatl, tzolkin in maya), di somma importanza divinatoria e rituale, era composto da 260 giorni, ciascuno indicato dalla combinazione di un numero da 1 a 13 con uno di 20 simboli o “nomi” calendarici. Per i popoli del Messico centrale, fra cui gli Aztechi, questi simboli erano, nell’ordine: Cipactli “alligatore”, Ehecatl “vento”, Calli “casa”, Cuetzpallin “lucertola”, Coatl “serpente”, Miquiztli “morte”, Mazatl “cervo”, Tochtli “coniglio”, Atl “acqua”, Itzcuintli “cane”, Ozomatli “scimmia”, Malinalli “erba ritorta”, Acatl “canna”, Ocelotl “giaguaro”,
Cuauhtli “aquila”, Cozcacuauhtli “avvoltoio”, Ollin “movimento”, Tecpatl “selce”, Quiahuitl
“pioggia”, Xochitl “fiore”7; al giorno “1 alligatore” seguivano così quelli “2 vento”, “3 casa”, “4 lucertola”, ecc., fino a “13 canna”, dopodiché la serie dei numeri ricominciava dal
6
14º segno, con “1 giaguaro”, e così via di seguito; perché si ripresentasse la data “1 alligatore” doveva trascorrere una sequenza completa di 13 x 20 = 260 combinazioni differenti.
Le prime testimonianze archeologiche di questo ciclo rituale di 260 giorni risalgono al
VI secolo a.C. e precedono nettamente quelle del calendario “solare” di 365 giorni (Marcus
1976; Edmonson 1988; Aveni 1993: 241-242), a riprova che anche in Mesoamerica la nascita
del calendario si accompagnò a istanze di carattere innanzitutto rituale e divinatorio e non
meramente a esigenze cronometriche. Quanto ai processi logici che avrebbero portato alla
creazione di un simile ciclo, che non ha alcuna apparente corrispondenza con i più cospicui
fenomeni naturali, sono state formulate diverse ipotesi, nessuna delle quali si è per ora affermata in maniera definitiva. Tra di esse, alcune si rifanno a considerazioni di ordine astronomico, come il fatto che 260 giorni si approssimano alla durata media (263 gg.) della visibilità di Venere tra due occultamenti (Aveni 1991: 172-173; 1993: 235), oppure che essi coincidono con il periodo che - alla latitudine di due importanti insediamenti dei periodi preclassico e classico (rispettivamente Izapa e Copán) - intercorre tra i due passaggi annuali del sole per lo zenit (il 30 aprile e il 13 agosto), un fenomeno cui in Mesoamerica si tributava grande attenzione (Malmström 1973; 1997; cfr. Broda 1993); a questa seconda supposizione è stato però obiettato che, stando alle testimonianze archeologiche, il calendario rituale ebbe origine altrove e prima del fiorire di entrambi questi centri. Altre ipotesi prendono in considerazione la crescita e la maturazione del mais, che in certe parti della Mesoamerica ha una
durata pressoché equivalente, ma si scontrano con la forte variabilità regionale del fenomeno, in netto contrasto con la generale diffusione del calendario rituale. Alla luce dell’etnografia contemporanea, sembra meritare maggior credito l’ipotesi “biologica”, in base alla
quale il ciclo di 260 giorni avrebbe avuto come modello la durata della gestazione umana:
diversi tra i gruppi indigeni che ancora utilizzano il calendario rituale, infatti, ne offrono
una lettura fortemente antropocentrica, equiparando chiaramente la durata del calendario
con la gravidanza e creando “un’esplicita connessione [...] tra il cosmo esterno e il microcosmo umano interno” (Tedlock 1992a: 93; cfr. Earle & Snow 1985; Furst 1986; Aveni 1993: 233;
Bricker & Bricker 1998: 196). Quale che ne sia stata l’origine prima, è assai probabile che il
ciclo di 260 giorni abbia acquisito la sua straordinaria importanza cosmologica proprio in
ragione della molteplicità di corrispondenze che esso rivelava di possedere con fenomeni
appartenenti a più ordini del reale: astronomici, numerologici, agricoli e fisiologici.
Nel processo di semantizzazione del flusso temporale di cui il calendario rituale era il
prodotto e il riflesso, a ognuno dei 20 simboli o nomi e dei 13 numeri venivano (e vengono
tuttora) assegnate valenze specifiche e distinte, in base alle forze e agli esseri extraumani loro
associati. I sacerdoti specializzati esercitavano il proprio sapere appunto nel determinare le
risultanti dell’intreccio, della sovrapposizione e del contrasto dei diversi influssi che erano
creduti succedersi nel tempo, onde permettere di orientare l’azione umana nel modo più
propizio e di intraprendere le necessarie iniziative rituali. In particolare, si credeva che la
connotazione calendarica di certi periodi (come la “tredicina”, l’anno vago, il ciclo di 52 anni,
ecc.) s’imprimesse sulle restanti unità (i giorni) che li componevano. Il ciclo di 260 giorni era
così suddiviso in 20 “tredicine”: il segno di volta in volta corrispondente al primo dei 13 numerali estendeva il proprio influsso sui restanti 12 giorni della serie, che pure avevano ciascuno una specifica valenza. Nel caso degli Aztechi, ad esempio, ci sono pervenuti due “libri” calendarici preispanici, detti tonalamatl “libri dei giorni” (il Codice Borbonico e il Tonala7
Figura 1 - Da Caso, A. 1971 “Calendrical Systems of Central Mexico (p. 337), in R. Wauchope, (acura di)
Handbook of the Middle American Indians, vol. 10, pp. 333-348. Austin: Univerity of Texas Press
matl Aubin), le cui pagine contengono la sequenza delle 20 “tredicine”, a partire da “1 alligatore” fino a “1 coniglio”: ognuna era retta da una o più divinità, che estendevano il proprio
influsso sull’intero periodo (figura 1; da Caso 1971: 337).
Nelle pagine di questi libri, oltre agli dèi che sovrintendevano al complesso di ogni “tredicina”, venivano altresì indicati - accanto alle singole date rituali - i 13 dèi (affiancati da altrettanti volatili)8 che corrispondevano ad ognuno dei numeri, chiamati “signori del giorno”
(tonalteuctin)9. Ma non basta: a questi si affiancavano, in una ininterrotta sequenza parallela,
altri nove dèi (in parte coincidenti con quelli diurni) chiamati “signori della notte” (yohualteuctin)10; con ogni verosimiglianza, i 13 dèi diurni stavano a indicare gli influssi derivanti dai
13 livelli celesti sovrastanti la superficie terrestre, mentre i 9 dèi notturni rappresentavano i 9
livelli in cui erano suddivisi gli inferi. Riguardo alla peculiarità di questa concezione degli influssi divini, vale forse la pena ricordare che, alla fine del secolo scorso, lo studioso tedesco
8
Eduard Seler (1990-1998, I: 194) interpretò i 13 dèi diurni e i 9 notturni come le “ore” in cui
pensava che i sacerdoti precolombiani suddividessero il dì e la notte; l’ipotesi ci appare oggi
viziata da pregiudizi eurocentrici, che indussero Seler ad attribuire alla realtà culturale mesoamericana un concetto ad esso estraneo come quello di “ora”, ovvero di unità cronometrica dalla durata fissa; di fatto, i popoli precolombiani non disponevano di strumenti o tecniche adatti alla misurazione di unità di tempo più brevi del giorno e l’eventuale scomposizione di questo in sottounità avveniva con ogni probabilità individuando posizioni puntiformi
nel tragitto dei corpi celesti, non diversamente da quanto fanno tante altre popolazioni prive
di scrittura contemporanee, mesoamericane e non11.
La stretta associazione degli dèi con le cifre del calendario si faceva ancor più esplicita
tra i Maya, per i quali “i giorni erano dèi [...] O per la precisione ogni giorno è una coppia di
dèi, perché ogni giorno ha una combinazione numero + nome: come 1 Ik, 5 Imix, 13 Ahau - e
il numero è un dio e il nome un altro” (Thompson 1994: 173). Nel loro complesso sistema di
scrittura, i Maya giunsero ad antropomorfizzare i numeri, raffigurandoli nei bassorilievi e
nei codici come delle divinità chine sotto il peso del proprio fardello temporale: la loro concezione del tempo appare così discontinua, composta da una successione regolare di fasi dinamiche intervallate da fasi statiche, corrispondenti all’azione di trasporto del carico e alla pausa di riposo dei portatori divini (cfr. Aveni 1993: 240-243).
Chi esercitava l’uso divinatorio del calendario (in nahuatl tonalpouhque “enumeratore
dei giorni”, in maya ah kin “custode dei giorni”), doveva dunque saper trarre gli auspici districandosi tra gli innumerevoli e spesso contrastanti influssi di tutte le diverse entità extraumane che si succedevano nel tempo imprimendovi le proprie qualità: gli dèi patroni delle
“tredicine”, quelli corrispondenti ai 20 segni, i 13 dèi diurni che si susseguivano parallelamente ai numeri e infine i 9 dèi notturni. Il quarto libro della Historia general de las cosas de
Nueva España, redatta nel XVI secolo dal francescano Bernardino di Sahagún (1989), è tutto
dedicato alla “astrología judiciaria” azteca, ovvero alla disamina del valore dei segni calendarici: la “tredicina” “1 vento” era retta dal dio di questo fenomeno, Quetzalcoatl, e aveva valore
infausto; quella “1 selce”, sotto il dio solare e guerriero Huitzilopochtli, era prospera; quella
“1 morte”, sotto il dio dei destini Tezcatlipoca, era fausta; e così via. Ma i diversi giorni della
“tredicina”, pur subendo l’influsso del primo segno, potevano poi avere valenze del tutto
opposte, in base ad associazioni di carattere simbolico-mitologico: ad esempio chi fosse nato
nel giorno “2 coniglio”, nome calendarico della divinità del pulque (bevanda alcoolica ricavata dalla fermentazione del succo zuccherino dell’agave), avrebbe avuto un infelice destino di
ubriacone, benché la “tredicina” “1 cervo”, cui questa data apparteneva, avesse tutt’altro
orientamento, nel complesso prospero. Del tutto analoga era (ed è tuttora) la situazione fra i
Maya, in base a quanto mostrano le testimonianze ricavabili dagli almanacchi divinatorî di
epoca coloniale giunti fino a noi (noti come i “libri di Chilam Balam”) e quelle dell’etnografia
contemporanea, che illustrano in tutta la sua complessità il concreto funzionamento dell’arte
divinatoria basata sul calendario di 260 giorni (cfr. Colby & Colby 1981; Tedlock 1992a).
La centralità del calendario si rifletteva pienamente nel sistema onomastico degli antichi mesoamericani, in base al quale le persone, le divinità e le stesse componenti della
natura venivano designate mediante il segno del giorno della loro nascita (o presunta
creazione). Stando alle concezioni indigene della persona, le caratteristiche temperamentali, fisiche e lo stesso destino dipendevano dal tipo di dotazione spirituale che ognuno ri9
ceveva dagli dèi, identificata con una delle diverse “anime” che formavano l’individuo.
Presso gli Aztechi, questa “anima” veniva chiamata tonalli, termine che significava anche
“‘irradiazione solare’, ‘giorno’, ‘segno del giorno’, ‘destino della persona’” (López Austin
1984, II: 299), e si pensava che venisse insufflata nell’individuo subito dopo la nascita, allorché questi era sottoposto a una sorta di battesimo; qualora le valenze calendariche del
giorno in cui un neonato era venuto al mondo fossero risultate particolarmente infauste,
era possibile cercare di scongiurarne i perniciosi effetti posticipando il rito (sia pure di poco) a una data più propizia (v. López Austin 1984, I: 232): ad esempio, riferisce Sahagún
(1989: 244) che quanti fossero nati nella data “1 canna” “vivevano sempre sventurati, e
tutte le loro cose se le portava il vento [...] E per rimediare al male di coloro che nascevano
in questi giorni, gli indovini che intendevano quest’arte ordinavano che venissero battezzati nella settima casa [giorno] di questo segno [“tredicina”], che si chiama chiconquiahuitl
[“7 pioggia”]. Battezzandoli in questa casa dicevano che si rimediava al male del giorno
in cui erano nati, e acquistavano la buona fortuna perché dicevano che questa casa chiconquiahuitl era clemente”.
Proprio il segno “1 canna” richiama un celebre esempio di questo sistema di denominazione, riguardante il sovrano della città tolteca di Tollan, figura di primissimo piano della tradizione storico-mitologica mesoamericana del postclassico (secc. X-XVI): il suo nome
era Ce Acatl topiltzin Quetzalcoatl “1 canna nostro principe serpente piumato” e combinava
il nome del dio del vento, creatore degli uomini, delle arti e del calendario, con la data calendarica ad esso corrispondente. Ma esempi analoghi ce li offrono anche le lapidi e i codici pittografici di numerosissimi altri gruppi indigeni, dal re mixteco “8 cervo artiglio di giaguaro”, protagonista di buona parte delle vicende storiche raffigurate nel Codice Nuttall
(Caso 1965a), a molti dei protagonisti del mito di creazione dei Maya quiché, meglio noto
come Popol Vuh: basti ricordare i fratelli Hun Hunahpu “1 hunahpu”12 e Vucub Hunahpu “7
hunahpu” e i loro antagonisti ctonî Hun Came “1 morte” e Vucub Came “7 morte” (Tedlock
1985). Per finire, anche i principali aspetti della realtà materiale con cui l’uomo entrava
quotidianamente in relazione erano chiamati con nomi esoterici tratti dal calendario rituale, impiegati essenzialmente nell’attività magico-religiosa: il “Trattato delle superstizioni e
dei costumi pagani” redatto nel 1629 dal sacerdote-inquisitore Hernando Ruiz de Alarcón
rivela come, a più di un secolo dalla conquista spagnola, gli specialisti rituali nahua del
Messico centrale ancora chiamassero il mais chicome coatl “7 serpente”, la terra ce tochtli “1
coniglio”, gli strumenti da taglio ce tecpatl “uno selce”, ecc. (Ruiz de Alarcón 1984).
4. Il periodo di 52 anni
Nell’insieme, lo scorrere parallelo dei due cicli di 260 e 365 giorni permetteva di designare ogni singolo giorno con quattro indicatori: il numero della serie di 13 e il simbolo
della serie di 20 che costituivano il calendario rituale, più il numero della serie di 20 che
formava il “mese” (con l’eccezione dei 5 giorni nefasti conclusivi) e il nome di questo: nell’esempio maya illustrato da J. Eric S. Thompson (1994: 185-187), alla data rituale “13
Ahau” si affianca quella “solare” “18 Cumku”. Una maniera efficace per cogliere visiva10
Figura 2 - Da Thompson, J.E.S. 1994 (1954) La civiltà maya. Torino: Einaudi, p. 187
mente il funzionamento del sistema può essere quella di immaginare tutte queste serie come le ruote dentate di un grande ingranaggio, i cui denti corrispondono ai 13 numeri e ai
20 simboli del ciclo rituale e ai nomi “mensili” dei giorni (v. la figura 2, tratta da Thompson 1994: 187); si tratta ovviamente di una raffigurazione che non corrisponde affatto alla
concezione degli indigeni mesoamericani, che non solo non conoscevano la ruota (e men
che meno quella dentata), ma che per rappresentare il susseguirsi dei giorni avrebbero
semmai fatto ricorso ad altre figure geometriche, come si vedrà fra breve. Perché un giorno con la medesima denominazione globale potesse ripetersi, dovevano trascorrere 18.980
giorni, ovvero 73 cicli di 260 giorni e 52 cicli di 365 giorni. Era questo il periodo più lungo
all’interno del quale la denominazione dei giorni non presentasse ripetizioni.
Non solo, era anche il periodo in capo al quale il giorno iniziale (o quello finale) dell’anno “vago” - quello che gli dava il nome13 - si ripresentava con la stessa denominazione
rituale: infatti, poiché il minimo comune divisore dei due cicli di 365 e 260 giorni è 5, ne
deriva che l’anno “vago” poteva avere inizio solo in corrispondenza di quattro dei 20 simboli calendarici (20 / 5 = 4), corrispondenti con il 3°, l’8° il 13° e il 18° della serie, che gli
studiosi chiamano “portatori d’anno”; per gli Aztechi questi simboli erano “canna”, “selce”, “casa” e “coniglio”, mentre tra i Maya essi non furono ovunque gli stessi14. Questi
quattro “portatori d’anno” si susseguivano con numeri crescenti, fino a completare quattro volte la serie di 13 (4 x 13 = 52): se ad esempio prendiamo come punto di partenza
l’anno “1 selce”, la sequenza proseguiva con “2 casa”, “3 coniglio”, “4 canna”, “5 selce”,
11
ecc., fino al 52° “13 canna”, dopodiché ci si ritrovava nuovamente con un anno “1 selce”.
Questo modo di designare gli anni ha un largo impiego nei monumenti e nei documenti
pittografici che commemorano eventi rituali (come l’inaugurazione di monumenti o edifici sacri) o vicende storiche (come le conquiste militari), ove l’anno è indicato mediante la
sua data rituale; ad esempio, l’esatta datazione di alcune delle fasi di costruzione del tempio principale di Tenochtitlan, la capitale azteca, è stata resa possibile dal rinvenimento di
iscrizioni che recano i glifi “4 canna” e “3 casa”, corrispondenti rispettivamente al 1431 e
al 1469 (Matos 1987).
Il periodo di 52 anni era chiamato in nahuatl xiuhmolpilli “legatura degli anni” e aveva grande importanza religiosa per i popoli mesoamericani, in particolare per quelli dell’altopiano centrale del Messico, che al suo scadere celebravano cerimonie volte a scongiurare il pericolo che il mondo avesse fine. Gli Aztechi credevano infatti che tutte e quattro le ere (o “soli”) precedenti l’attuale fossero state distrutte in corrispondenza della fine
di uno di questi cicli dai cataclismi prodotti dalle diverse divinità che vi avevano regnato:
la prima èra, denominata “4 giaguaro”, simbolicamente legata alla terra e governata da
Tezcatlipoca, era finita quando innumerevoli giaguari (animali in cui questo dio spesso si
incarnava) avevano divorato gli uomini; la successiva era “4 vento” (dal simbolismo aereo), retta da Quetzalcoatl, era finita per lo scatenarsi di un vento impetuoso, che tutto
aveva spazzato via; l’era “4 pioggia”, retta dal dio del fulmine Tlaloc (connotata perciò da
valenze ignee), era finita sotto una pioggia di fuoco; l’era “4 acqua”, governata dalla dea
delle acque Chalchiuhtlicue (e dunque chiaramente legata alla simbologia idrica), era terminata con un diluvio; l’attuale quinta era, detta “4 movimento” e nuovamente connotata
in senso terrestre, ricadeva sotto l’influenza del dio eponimo degli Aztechi Huitzilopochtli e sarebbe finita con immani terremoti.
Pertanto, scaduto il cinquantaduesimo anno, la notte in cui le Pleiadi transitavano
per il meridiano (evento astronomico che nel XVI secolo aveva luogo intorno al 16 di novembre; Broda 1980: 292) gli Aztechi intraprendevano in massa elaborate attività rituali:
distruggevano il vasellame e i metates (macine litiche per il mais), spegnevano tutti i fuochi, pubblici e domestici, rinchiudevano le donne incinte nei granai (per paura che si trasformassero in creature mostruose, dette tzitzimime, e divorassero gli uomini), tenevano
svegli i bambini (che altrimenti si temeva si sarebbero trasformati in topi) e, al momento
della massima elevazione delle Pleiadi, i sacerdoti convenuti sulla montagnola di Huixachtlan, a sud di Tenochtitlan, accendevano il fuoco novello con due bastoncini (detti
mamalhuaztli, come l’omonima costellazione)15 sul petto di un prigioniero di guerra particolarmente valoroso, cui subito dopo strappavano il cuore; su questo fuoco venivano accese delle torce, che numerosi messaggeri portavano di corsa al tempio principale di Tenochtitlan e a tutti i principali centri della regione, fino a oltre 20 leghe di distanza; in tal
modo in ogni tempio, in ogni comunità e in ogni casa si accendevano grandi falò, tanto
che, dicono i testimoni, “pareva esser di giorno” (Sahagún 1989: 491). Al momento in cui
gli spettatori, rimasti in trepida attesa sul tetto delle loro case, scorgevano attraverso la fitta tenebra il primo fuoco che si sprigionava dalla collina di Huixachtlan, esplodevano in
grandi manifestazioni di gioia, autosacrificandosi e gettando il proprio sangue in direzione del fuoco appena acceso, onde contribuire così al mantenimento del flusso di energie
che sosteneva il divenire cosmico (cfr. Motolinia 1996: 164-165; Sahagún 1989: 488-492).
12
Il completamento del ciclo di 52 anni (che per i Nahua dell’altopiano centrale iniziava nell’anno “2 canna”) azzerava per così dire il calendario, riportandolo alla sua data iniziale. E tuttavia non era questo il periodo di più lunga durata in vigore tra gli Aztechi, che
prendevano in considerazione una misura ancora maggiore, formata da due serie di 52
anni (= 104); questa unità di tempo, detta huehuetiliztli “vecchiaia”, aveva un importante
significato astronomico e divinatorio, poiché comprendeva esattamente i multipli dell’anno tropico di 365 giorni (x 104), del calendario rituale di 260 giorni (x 146) e della rivoluzione sinodica di Venere, che ha una durata media di 584 giorni (x 65): in capo ai 37.960
giorni di questo mega-periodo, l’inizio di tutti e tre i cicli appena menzionati tornava ad
avere la stessa denominazione rituale.
5. I cicli di Venere, di Marte e della Luna
L’enorme attenzione che i sacerdoti prestavano ai fenomeni astronomici non si limitava, come si vede, ai moti solari, ma aveva tra i suoi oggetti privilegiati anche il pianeta
Venere, che fin dal passato più remoto costituì una delle principali figure del pantheon mesoamericano. Nell’altopiano centrale questo astro veniva tra l’altro identificato con Quetzalcoatl, il “serpente piumato”, dio barbuto del vento e delle fasi intermedie, dei passaggi
e degli annunci, creatore degli uomini e inventore delle arti, che nella sua manifestazione
mattutina annunciava lo spuntar del sole, mentre in quella vespertina lo accompagnava
nel tragitto notturno per il mondo dei morti16. Quanto ai Maya, essi attribuivano enorme
importanza alla sua prima apparizione come stella del mattino (corrispondente con la levata eliaca dopo la congiunzione inferiore) o come stella della sera (corrispondente con levata eliaca dopo la congiunzione superiore), collegandola strettamente alla guerra (in maniera per taluni aspetti simile a quanto avveniva con Marte nel mondo greco-romano): la
recente decifrazione delle iscrizioni monumentali dei principali centri maya del periodo
classico (IV-IX secc. d.C.), in cui sono registrate con esattezza le date di molte battaglie,
sembra rivelare come la pianificazione di molte iniziative belliche avvenisse in corrispondenza con le principali fasi del ciclo di Venere (Schele & Freidel 1990).
Lo stesso orientamento di non pochi edifici sacri maya, come il cosiddetto “Palazzo
del Governatore” di Uxmal o il celebre osservatorio astronomico di Chichén Itzá, detto il
“Caracol”, si basa sull’allineamento con i punti dell’orizzonte corrispondenti agli estremi
del moto apparente di Venere (Aveni 1991; 1993: 277-284). L’adeguamento dell’urbanistica
e dell’architettura ai fenomeni astronomico-calendariali, che è possibile rilevare in pressoché ogni centro della Mesoamerica, non era che una logica conseguenza della concezione
cosmologica che postulava la profonda interconnessione - e dunque la necessaria armonizzazione - di tutti i diversi piani del reale.
Oltre che dagli edifici e dalla loro disposizione spaziale, l’enorme rilevanza di Venere
è attestata dal notevole spazio che le è dedicato in molti dei codici pittografici pervenuti
sino a noi: ad esempio sei delle 78 pagine del Codice di Dresda, uno dei soli quattro “libri” preispanici maya oggi esistenti, sono composte da tabelle numeriche dedicate alla
minuziosa registrazione dei movimenti del pianeta (cfr. Satterthwaite 1965; Thompson
13
1972; Aveni 1991: 209-221; 1993). Ma anche alcuni fra i numerosi manoscritti pittografici
del Messico centrale, come il Codice Borgia, contengono raffigurazioni simboliche estremamente elaborate della periodica scomparsa di Venere, del suo viaggio negli inferi e della sua ricomparsa dopo le due congiunzioni (cfr. Seler 1980).
Il costante sforzo di cogliere nei ritmi del reale corrispondenze nascoste portò inoltre
gli astronomi maya a calcolare anche i movimenti periodici di Marte, di cui registrarono
con particolare attenzione le fasi di “moto retrogrado”, nelle quali il pianeta, sopravanzato dalla Terra nella rivoluzione intorno al sole, pare retrocedere nella sua parabola lungo
l’eclittica. Ancora una volta fu loro possibile stabilire delle connessioni aritmetiche con gli
altri cicli calendarici, in quanto i 780 giorni che intercorrono fra le metà di due periodi retrogradi marziani equivalgono esattamente a tre serie di 260 giorni (Aveni 1991: 221-226;
Bricker & Bricker 1998: 200-203).
Infine, tra i più appariscenti fenomeni astrali che attrassero l’attenzione dei sacerdotiindovini, non potevano mancare le fasi lunari e le eclissi. In mancanza di frazioni e decimali, fu estremamente difficile per gli astronomi indigeni combinare con gli altri cicli il
moto della luna, la cui parabola nel cielo tra l’altro segue percorsi ben più irregolari degli
altri corpi celesti fin qui considerati. Ciò nondimeno, attraverso molti decenni di osservazioni i Maya riuscirono a elaborare un sistema di notazioni lunari che alternava periodi di
29 e di 30 giorni e che permetteva, con alcuni accorgimenti ulteriori, di ottenere nel lungo
periodo un’ottima approssimazione alla durata media della lunazione: in termini decimali, il valore così calcolato risulta di 29,52592 giorni, di pochissimo inferiore rispetto a quello effettivo del mese sinodico, che è di 29,53059 giorni. Nelle innumerevoli iscrizioni calendariche contenute nei monumenti e negli oggetti maya del periodo classico (di cui si
dirà fra poco), i glifi posti alla fine (appartenenti alla cosiddetta “serie supplementare”)
servono a segnalare l’età in giorni della luna e il corrispondente dio “signore della notte”
(cfr. Thompson 1971; Satterthwaite 1965; Aveni 1991: 185-194; Bricker & Bricker 1998).
Quanto alle eclissi, avvertite da tutti i popoli mesoamericani come eventi carichi di
pericolo, in cui le divinità del sole e della luna rischiavano di essere divorate, i Maya seppero anche in questo caso calcolare la periodicità del fenomeno, che può verificarsi allorché vi sono una luna piena (e si avrà allora un’eclissi lunare) o una luna nuova (con un’eclissi solare) in concomitanza con il passaggio dell’orbita lunare per il piano dell’eclittica
(il cosiddetto “passaggio nodale”). Benché non tutte le eclissi effettivamente prodottesi
sul nostro pianeta fossero visibili dall’area maya, gli osservatori indigeni nondimeno scoprirono che i passaggi nodali hanno luogo con una ciclicità media di poco superiore a 173
giorni (173,31 per l’esattezza): otto pagine del già menzionato Codice di Dresda contengono una tabella con le previsioni delle possibili eclissi per un periodo di 33 anni. Ancora
una volta, la durata del ciclo in questione venne ricondotta al calendario rituale, in base al
fatto che tre di questi periodi di 173,3 giorni equivalgono a due volte 260 giorni (3 x 173,3
= 2 x 260 = 520 gg.) (cfr. Thompson 1971; Satterthwaite 1965; Aveni 1991: 197-209; Bricker
& Bricker 1998). Una volta di più, lo tzolkin conferma le sue straordinarie capacità di armonizzare i diversi ritmi riscontrabili nella natura: osserva giustamente Anthony Aveni
che “il numero 260 era fatto su misura per i Maya [...], intrecciato con così tanti fili temporali, divenne il grande tessuto della loro rilevazione del tempo” (1993: 237).
14
6. Il “computo lungo”
Tutti gli eventi naturali fin qui trattati, così come i cicli calendarici che vi si ispiravano,
hanno il carattere della circolarità: è anzi difficile non rimanere colpiti dall’attenzione e dalla sagacia profuse dai sacerdoti-astronomi mesoamericani nel cercare le chiavi aritmetiche
che permettessero loro di ricondurre i fenomeni più disparati a un unico grande pulsare
cosmico. E non v’è dubbio che il principio dell’“eterno ritorno”, l’idea del costante riproporsi di circostanze, influssi - e dunque avvenimenti - del passato, fosse uno dei motivicardine del pensiero mesoamericano. Una simile prospettiva “circolare” consente di predisporre (o quantomeno trovare) una collocazione certa e collaudata, e dunque rassicurante,
per ogni evento futuro; permette di scongiurare lo smarrimento e l’angoscia che sempre ingenera il manifestarsi dell’ignoto: non è forse questo ciò che accadde nel 1519, quando Cortés sbarcò sul suolo messicano? Dinanzi al fatto totalmente nuovo e straordinario della
comparsa di esseri dall’aspetto e dai poteri radicalmente diversi dai modelli conosciuti, l’élite azteca mise in campo i propri strumenti concettuali ed affrontò l’imprevisto in chiave
mitologica, leggendo gli avvenimenti - anche attraverso il calendario divinatorio - come il
riproporsi di un passato già in parte noto: l’anno dell’arrivo degli Spagnoli portava il nome
Ce Acatl “1 canna” e coincideva quindi con quello natale del mitico dio-sovrano dei Toltechi, Quetzalcoatl, oltre che con quello in cui - alla significativa età di 52 anni (un giro completo della “ruota” calendarica) - questi era partito verso oriente. Fu pertanto facile, sulla
base di questa coincidenza, dare rilievo ai diversi elementi che potevano favorire l’identificazione del condottiero castigliano con il dio barbuto del vento (tratto somatico tanto frequente per gli Spagnoli quanto raro per gli amerindiani), tra i cui simboli figurava una croce (poco importa se dissimile per proporzioni e significato da quella cristiana) e il cui annunciato ritorno era naturale aspettarsi avvenisse da oriente, nella stessa data “1 canna” che
ne aveva segnato l’avvento e la scomparsa (Sahagún 1989: 821; Cortés 1985: 52; cfr. Lafaye
1977: 219 ss.; López Austin 1989: 135-137; Gruzinski 1987: 21-25).
Questa tendenza al ripetersi della storia e al suo sfumare nel mito è una delle peculiarità della “storiografia” indigena che maggiori difficoltà hanno creato agli studiosi occidentali, impedendo loro - nell’esame delle iscrizioni, dei codici pittografici e delle stesse
testimonianze alfabetiche scritte in epoca coloniale - di separare dalle figure mitologiche i
personaggi in carne ed ossa loro omonimi, di distinguere questi fra loro, nonché di collocarli inequivocamente in precisi contesti cronologici. A quale delle molte sequenze di 52
anni assegnare l’anno in cui si diceva fosse avvenuto un certo fatto del passato? Un sistema che ripropone con scadenze relativamente brevi le medesime date non facilita certo la
corretta registrazione delle sequenze di eventi, tanto storici quanto naturali. E gli stessi
popoli mesoamericani che elaborarono il sistema calendarico basato sulla rotazione parallela dell’anno “vago” e del ciclo rituale di 260 giorni non mancarono di cogliere i problemi che questa circolarità produceva. In pratica, si presentava allora un inconveniente per
certi versi analogo all’attuale problema informatico soprannominato “millennium bug”,
che impedisce ai computer di vecchia generazione, programmati a registrare le date con
due sole cifre, di distinguere il 2000 dal 1900, rischiando di “far tornare indietro il tempo”
e di azzerare l’intero secolo trascorso: così come entrambi questi anni, se non si può assegnarli a secoli (e millenni, e così via) distinti, finiscono per essere identificati dal numero
15
“00”, analogamente anche per i Mesoamericani gli anni “1 selce” (o “9 coniglio”, ecc.) erano tutti uguali, diventando indistinguibili gli uni dagli altri.
Perciò, al fine di identificare in modo inequivoco le date, nella Mesoamerica meridionale venne precocemente elaborato - si pensa dagli Olmechi, con ulteriori perfezionamenti da parte dei Maya - un efficace sistema di notazione di tipo lineare, detto oggi “computo lungo”, indipendente dai due cicli di 365 e 260 giorni, che permetteva di registrare in
modo continuativo l’accumularsi dei giorni trascorsi da un punto di partenza convenzionalmente stabilito, in maniera analoga a quanto facevano i Romani partendo dalla fondazione dell’Urbe o di quanto si fa oggi rispetto alla nascita di Cristo. Questo “punto zero”
della registrazione del tempo corrispondeva al nostro 11 o 13 agosto 3113 a.C. (Aveni
1991: 166; 1993: 246)17; era perciò situato in un passato assai anteriore all’invenzione del
calendario ed era stato determinato a posteriori, verosimilmente in base a considerazioni
di tipo mitologico, cui non erano probabilmente estranee implicazioni di carattere astronomico: come si ricorderà, il giorno iniziale del “computo lungo” corrisponde infatti a
uno dei due passaggi annuali del sole per lo zenit alla latitudine di Izapa e di Copán
(Malmström 1997).
Pur essendo stato concepito diversi secoli prima del sorgere della civiltà maya e fuori
dai suoi confini (con ogni probabilità nella regione dell’Istmo di Tehuantepec), questo sistema ebbe la sua massima auge presso i centri maya dell’epoca classica (III-X secc. d.C.), i cui
monumenti sono costellati di iscrizioni con date del computo lungo, ma non si diffuse mai
fino ai popoli dell’Altopiano centrale; al momento della Conquista spagnola esso era ancora
in uso presso i soli Maya yucatechi, anche se il suo impiego nei monumenti era stato abbandonato da oltre sei secoli (Edmonson 1986: 9). Ciò nondimeno, come dimostra il suo sviluppo parallelo a quello della complessa scrittura ideografico-fonetica maya, esso costituisce
una delle più raffinate realizzazioni intellettuali delle civiltà amerindiane, che ci consente di
datare con somma precisione ogni evento celebrato nelle iscrizioni giunte sino a noi.
Il calcolo del tempo trascorso dal punto iniziale avveniva su base vigesimale ed aveva
come unità di misura il giorno: il cumulo complessivo dei giorni veniva registrato per
mezzo di tre simboli, che contrassegnavano rispettivamente l’unità (un punto), il cinque
(una linea) e il completamento della serie di venti (una conchiglia); quest’ultimo segno, che
permetteva di modificare il valore degli altri due a seconda dell’ordine in cui erano disposti, è stato equiparato al nostro “zero” (pur non avendo il significato di “nulla”) e rendeva
possibile l’impiego della notazione posizionale (dal basso in alto). In altre parole, un punto
in prima posizione aveva valore uno, in seconda aveva valore venti, e così via per multipli
di venti. Una curiosa eccezione riguardava il valore dato alla terza posizione, che non equivaleva a venti volte la quantità precedente, cioè 20 x 20 = 400, ma aveva valore 360 (= 18 x
20); ciò era probabilmente dovuto al desiderio di armonizzare il più possibile il computo
lungo con la durata dell’anno solare. Nelle iscrizioni maya vengono così annotati i singoli
giorni (kin), le “ventine” (uinal), gli insiemi di 360 giorni (tun; da non confondere con lo
haab, di 365) e i multipli vigesimali di questi ultimi, detti katun (360 x 20 = 7.200 gg.) e baktun (7.200 x 20 = 144.000 gg.). Particolare importanza era attribuita a quest’ultima quantità,
al completamento della quale avevano luogo importanti celebrazioni rituali. Da ultimo, le
iscrizioni registravano anche il nome del giorno in base al ciclo rituale di 260 giorni e all’anno solare, aggiungendovi spesso l’età della luna e il dio “signore della notte”.
16
Come si vede, si trattava di un sistema che, pur essendo nato dall’esigenza di permettere una cronologia di maggior respiro rispetto al ciclo calendarico di 52 anni, non rinunciava ad incorporare anche quest’ultimo. Anzi, laddove la necessità di economizzare spazio sconsigliava l’indicazione dell’intera serie e il contesto permetteva di interpretare in
maniera inequivoca una data, non di rado ci si limitava a segnalarla in forma abbreviata; è
quanto ad esempio avviene nell’architrave n. 24 di Yaxchilán, che reca la semplice notazione 5 Eb 15 Mac, corrispondente al 28 ottobre del 709 d.C. (Miller & Schele 1986: 186).
Tuttavia, malgrado la sua apparente natura lineare, anche il computo lungo non sottraeva la concezione del tempo maya al principio della circolarità: dalle epigrafi si ricava che dopo 13 baktun un’era cosmica era destinata a finire e un’altra sarebbe cominciata; il completamento dell’era attuale, iniziata nel 3113 a.C., era previsto avvenisse quando si fosse raggiunta
la data 13.0.0.0.0 4 Ahau 3 Kankin, corrispondente al 21 o 23 dicembre del 2012 (Schele & Frei
del 1990: 82; Bricker & Bricker 1998: 195). Questa chiusura escatologica del cerchio temporale
al termine di 1.872.000 giorni non implicava però che i Maya non proiettassero assai oltre
questa quantità (sia all’indietro, sia in avanti) la loro misurazione lineare del tempo; vi sono
infatti iscrizioni di contenuto mitologico che registrano date lontane milioni di anni: la massima unità di misura conosciuta, il kinchiltun, ancorché di rarissimo impiego, comprende
1.152.000.000 giorni (cfr. Satterthwaite 1965: 614; Rivera Dorado 1986: 115).
7. Il tempo e lo spazio
Da quanto illustrato finora risulta chiaramente come il sistema calendarico mesoamericano, con la sua straordinaria ricchezza e complessità, non mirasse semplicemente alla
registrazione e alla misurazione di fenomeni astronomici e quantità temporali. Esso era
un elaboratissimo sistema per conferire senso alla realtà e al succedersi degli eventi di cui
l’uomo era testimone: immaginando che ognuno di tali eventi dipendesse e scaturisse dagli influssi di forze ed esseri extraumani, gli specialisti rituali mesoamericani non solo assoggettavano l’esistenza a un rigido determinismo (in cui l’ordine sociale esistente trovava una giustificazione sovrannaturale inappellabile), ma per mezzo del sapere divinatorio
si attribuivano un poderoso strumentario conoscitivo; riprendendo il commento di Tzvetan Todorov, per essi il mondo, essendo sovradeterminato, “non poteva che essere sovrainterpretato” (1992: 80; cfr. anche Gruzinski 1987: 25).
In base a questa concezione, il vincolo tra spazio e tempo era indissolubile e la stessa
creazione del mondo era fatta coincidere con l’origine del calendario rituale: un mito cosmogonico azteco del XVI secolo riferisce come, contemporaneamente alla coppia umana
primordiale, gli dèi crearono i giorni e diedero agli uomini gli strumenti con cui praticare
la divinazione (Historia de los mexicanos 1985: 25); nel Libro de Chilam Balam de Chumayel, testo profetico maya yucateco di epoca tardo-coloniale che conserva inequivoci retaggi della cosmologia preispanica, si narra come la “nascita del uinal” (la serie dei 20 simboli calendarici) avesse preceduto e scandito quella di tutte le componenti dell’universo e come
il tempo avesse iniziato a scorrere allorché il dio creatore incominciò a “contare il mondo
intero con i suoi passi” (Edmonson 1986: 121-122).
17
In effetti, il fluire del tempo veniva concepito come “una successione di divinità, che
viaggiavano secondo turni rigorosi (l’ordine calendarico) allo scopo di diffondersi sulla
superficie terrestre, invadere e trasformare ogni cosa, imprimendovi ciascuna la propria
impronta, il proprio carattere e il proprio potere” (López Austin 1997: 27). Viaggio, passi,
impronte: non v’è da stupirsi se in un indovinello maya il tempo è definito “un uomo su
una strada”; soprattutto tenuto conto dell’identificazione terminologica e concettuale cui
conduce il fatto che uno stesso vocabolo, uinic, designi sia l’uomo sia il numero complessivo delle sue dita (20), che è anche quello dei simboli che compongono il uinal (Edmonson 1986: 50, 125; cfr. López Austin 1997: 57-58).
Il cammino delle divinità, la successione dei cui influssi scandiva e si identificava con
il trascorrere del tempo, passava attraverso l’interno dei pilastri (o alberi cosmici) che dai
quattro estremi cardinali separavano i tre piani del cosmo (cieli, superficie terrestre e
mondo infero), ognuno dei quali era a sua volta suddiviso in più livelli (13 per i cieli, 9
per gli inferi; v. López Austin 1994; 1997).
Diversi studiosi hanno tradotto graficamente questa concezione del cosmo in una
sorta di doppia piramide a gradini unita per la base: il moto degli astri, in primis il sole,
avrebbe così coinciso con il loro percorso diurno di ascesa e discesa per i 13 scalini celesti
e quello di discesa e ascensione per i 9 scalini ctonî (Thompson 1980: 243; Rivera Dorado
1986: 45). Per quanto suggestiva possa apparire questa interpretazione, specie considerata
la sua coincidenza con i modelli architettonici mesoamericani18, non abbiamo testimonianze che attestino la sua effettiva vigenza presso gli indigeni preispanici. Le rappresentazioni grafiche che questi ci hanno lasciato della propria idea del cosmo differiscono da quella
tridimensionale appena esposta e combinano in maniera estremamente efficace e sintetica
la dimensione spaziale e quella temporale. Comuni ad esse sono la bidimensionalità e la
quadripartizone dello spazio in quadranti, delimitati da punti intercardinali che coincidono con le posizioni del sorgere e del tramontare del sole in corrispondenza dei solstizi, allorché esso raggiunge il punto più settentrionale e più meridionale del suo apparente spostamento annuale nella volta celeste. Alla proiezione in piano della parabola del sole tra
questi quattro estremi paiono ispirarsi il glifo maya Kin, consistente in un fiore a quattro
petali di Plumeria e che riassume in sé i significati di “sole”, “giorno” e “tempo” (Thompson 1971: 142; Coggins 1980; Aveni 1991: 156), nonché il simbolo del calendario rituale azteco Ollin “movimento”, che campeggia al centro della celebre “Piedra del sol” e deriva direttamente da diagrammi o “ideogrammi” cosmici risalenti alle prime civiltà mesoamericane, come quelle olmeca e teotihuacana (Köhler 1982; Broda 1982; v. figura 3; da Seler
1990-1998, 5: 28 e Köhler 1982).
Ma gli esempi certamente più elaborati di questo schema di rappresentazione spaziotemporale li ritroviamo in due preziosi documenti pittografici preispanici, alle pagine 7576 del Codice di Madrid (di origine maya yucateca) e nella prima pagina del Codice Fejérváry-Mayer (proveniente dalla regione Mixteca-Puebla dell’Altopiano centrale). Data la
molto maggior ricchezza e complessità del secondo documento (pur nella evidente affinità di fondo), è solo su questo che concentreremo le considerazioni conclusive sul calendario nell’antica Mesoamerica (figura 4; da Seler 1990-1998, 5: 11), non senza segnalare che
un’analisi di questa stessa immagine compare nella recente traduzione italiana del volume di Aveni Gli imperi del tempo (1993: 305-313).
18
Figura 3 - Da Seler, E. 1990-1998 Collected Works in Mesoamerican linguistics and archaeology. Culver City (Cal.):
Labyrinthos, vol. 5, 1996, p. 28
Al centro del diagramma sta Xiuhtecuhtli, antico dio del fuoco associato con il centro“ombelico della terra”, primo dei nove dèi “signori della notte” che, come si ricorderà, si
susseguono ininterrottamente nel ciclo calendarico rituale; egli impugna un propulsore e
dei dardi e verso di lui convergono quattro fiotti di sangue provenienti dalle parti smembrate (testa, braccio, gamba e costato) di un individuo sacrificato. Ai lati del quadrato centrale compaiono altri quattro quadranti, ciascuno contenente un albero con ai lati due figure antropomorfe: sono le quattro direzioni dello spazio, ciascuna associata con uno degli alberi cosmici e con due dei restanti otto dèi “signori della notte”. Com’è usuale nell’arte mesoamericana, il diagramma è orientato lungo l’asse del percorso solare, con l’Est
davanti a chi guarda, e dunque verso l’alto: nel riquadro superiore, accanto al disco del
sole, compaiono il dio solare Piltzintecuhtli (a sinistra) e quello del sacrificio Itztli. Nel quadrante di sinistra, corrispondente al Nord, compaiono un albero spinoso sorgente da una
ciotola con strumenti penitenziali, accanto ai quali stanno il dio della pioggia Tlaloc (a sinistra) e quello terrestre Tepeyolohtli. Il riquadro inferiore corrisponde all’Ovest, denominato anche cihuatlampa “regione delle donne”, poiché si credeva che là andassero le anime
delle donne morte di parto (Sahagún 1989: 411); non stupisce quindi che ai lati del terzo
albero cosmico vi siano due dèe: quella delle acque Chalchiuhtlicue (a sinistra) e quella terrestre-lunare Tlazolteotl; ai piedi dell’albero che le separa, una figura scarnificata dotata di
artigli rappresenta le forze oscure e sotterranee che inghiottono il sole al tramonto. Nell’ultimo quadrante, a destra, corrispondente al Sud, accanto all’albero che spunta dalle
19
Figura 4 - Da Seler, E. 1990-1998 Collected Works in Mesoamerican linguistics and archaeology. Culver City (Cal.):
Labyrinthos, vol. 5, 1996, p. 11
fauci del mostro terrestre, vi sono il dio degli inferi Mictlantecuhtli (a sinistra) e quello del
mais maturo Centeotl.
Già la ripartizione di queste nove divinità nelle cinque principali direzioni dello spazio - i punti cardinali più il centro - costituisce una palese traduzione in termini spaziali
del susseguirsi temporale degli influssi divini. Ma un’ancor più esplicito contenuto temporale ha il resto del diagramma, costituito dalle bande colorate e punteggiate che incorniciano le quattro direzioni e formano un disegno simile a un fiore con otto petali diseguali, oltre che dai 20 simboli del calendario rituale, ripetuti due volte, lungo le bande e
negli interstizi fra i petali. Il numero di punti che separano i simboli calendarici disegnati
ai vertici delle bande è sempre 12, dimodoché, se si dà il valore di un punto anche ad
ognuno di questi simboli, appare chiaro come l’intero disegno formato dai contorni del
“fiore” altro non sia che un tonalpohualli, il ciclo di 260 giorni (= 13 x 20). Partendo dal primo segno della serie, “1 alligatore” - la cui testa stilizzata compare sopra l’angolo superiore destro del quadrato centrale - e percorrendo la banda punteggiata verso l’alto, ognuno
dei 12 punti seguenti corrisponderà a uno dei successivi giorni della “tredicina” (“2 vento”, “3 casa”, “4 lucertola”, ecc.), fino a giungere al primo giorno della “tredicina” successiva, “uno giaguaro”, e così via per il resto della sequenza, giungendo infine al punto di
partenza. L’intero spazio cosmico risulta così inscritto nel perimetro del “fiore” disegnato
dai venti segmenti del tonalpohualli, le “tredicine”, di cui sono rappresentati solo i simboli
22
del primo giorno, che dànno l’impronta anche ai 12 successivi: lo scorrere del tempo,
tradotto nella sequenza dei 260 giorni del ciclo divinatorio, può così esser visto come
un vero e proprio percorso che si dipana lungo le bande, quasi esse fossero dei sentieri
e i punti le impronte lasciate dai viandanti divini19.
Ma la raffigurazione della dinamica temporale non si esaurisce qui: nell’interstizio
a sinistra di ogni petalo sottile compare una seconda riproduzione dei venti simboli calendarici, incolonnati in quattro serie di cinque. Ognuna di queste colonne è associata
con la direzione cardinale contenuta nel petalo grande alla sua destra, cosicché non solo la sequenza delle “tredicine”, ma la stessa successione quotidiana dei singoli segni
calendarici corrisponde alla rotazione in senso antiorario degli influssi di ognuna delle
quattro regioni del cosmo. Se si segue sul diagramma la lista dei 20 simboli da “alligatore” a “fiore” (v. supra, 3.), si constata facilmente come a uno dell’Est (“alligatore”) ne
seguano uno del Nord (“vento”), uno dell’Ovest (“casa”) e uno del Sud (“lucertola”),
poi nuovamente uno dell’Est (“serpente”), ecc., secondo lo schema seguente (adattato
da Soustelle 1940: 82):
EST
Alligatore
Serpente
Acqua
CANNA
Movimento
NORD
Vento
Morte
Cane
Giaguaro
SELCE
OVEST
CASA
Cervo
Scimmia
Aquila
Pioggia
SUD
Lucertola
CONIGLIO
Erba ritorta
Avvoltoio
Fiore
Questa rotazione antioraria degli influssi riproduceva il movimento elicoidale con
il quale si pensava che le forze divine celesti e ctonie raggiungessero la superficie terrestre attraverso gli alberi cosmici (v. López Austin 1994; 1997: 50), e si proiettava anche
su durate di scala temporale maggiore, come gli anni solari. Il diagramma evidenzia
infatti, incorniciati da circoli sul dorso degli uccelli all’estremità dei petali minori, i
quattro segni calendarici in corrispondenza dei quali avevano inizio gli anni di 365
giorni: “coniglio”, “canna”, selce” e “casa” (evidenziati in maiuscolo nello schema).
Questi quattro “portatori”, oltre a contrassegnare singolarmente gli anni, inauguravano inoltre le quattro “tredicine” che, in sequenza, formavano lo xiuhmolpilli di 52 anni.
Tutti i principali cicli del computo calendarico vigente nell’Altopiano centrale sono
dunque rappresentati nella straordinaria sintesi grafica di questa illustrazione: il giorno (per mezzo del sole che sorge e della sua destinazione ctonia occidentale), le “tredicine” (raffigurate dai simboli del loro primo giorno), il tonalpohualli (corrispondente al
complesso delle bande puntiformi), l’anno “vago” (simboleggiato dai quattro punti
solstiziali corrispondenti ai petali sottili), le “tredicine” d’anni e lo xiuhmolpilli (raffigurati dai quattro simboli “portatori d’anno”).
In pratica, questo diagramma riassumeva in sé i presupposti cosmologico-ideologici e le finalità operative del sistema calendarico mesoamericano: per un verso esprimeva iconograficamente l’idea che non vi era spazio né momento del reale che non ricadesse sotto l’influenza delle forze extraumane, che non fosse espressione e frutto di
qualche disegno e che dunque fosse privo di un significato, per quanto nascosto - in al21
tre parole una concezione del mondo estremamente deterministica, ma proprio per questo
accessibile alla conoscenza di quanti fossero riusciti a svelarne la struttura soggiacente; per
un altro verso illustrava la convinzione che, tramite la conoscenza dell’ordine che regolava
le azioni divine, l’uomo potesse adeguarvi la propria condotta, sia preservandolo per mezzo delle pratiche rituali (si pensi alla giustificazione ideologica azteca dei sacrifici umani
come contributo al sostentamento delle divinità e, in ultima istanza, del cosmo), sia assecondandolo con iniziative che ne mettessero a frutto le qualità - ad esempio eludendo le
congiunture più sfavorevoli e convogliando verso i momenti calendaricamente più propizi
le iniziative di maggior impegno, dai “battesimi” alle campagne militari -, sia infine cercando in rari casi di modificarlo a proprio vantaggio, operando su di esso delle vere e proprie forzature - come quando, al fine di scongiurare il ripetersi delle carestie che sempre si
erano verificate in corrispondenza degli anni “1 coniglio”, nel 1507 Montezuma II fece slittare all’anno seguente, “2 canna”, l’inizio del ciclo di 52 anni, dovendo di conseguenza riplasmare la registrazione mitico-stroriografica del passato (Umberger 1981).
Quest’ultimo esempio di addomesticazione del tempo attraverso la manipolazione
del calendario ci ricorda che, pur essendo frutto di osservazioni astronomiche e calcoli
matematici miranti all’interpretazione religiosa della realtà, il calendario mesoamericano
fu anche uno strumento per mezzo del quale le élites governanti equiparavano l’ordine
sociale a quello cosmico, costruendo giustificazioni trascendenti al proprio potere e utilizzando la conoscenza del passato e le previsioni sul futuro per legittimare il proprio status
di garanti di tale ordine. Il tempo che veniva misurato grazie ai calendari non era né una
categoria astratta e neutra né una sequenza di eventi privi di senso: non diversamente da
quanto ha osservato Clifford Geertz (1987: 376) circa il calendario balinese, quello mesoamericano non serviva tanto a sapere “che giorno è”, ma “che tipo di giorno è”. Ma il significato delle diverse unità temporali non era determinato liberamente da qualsivoglia
membro della società; era bensì stabilito in massima parte dall’alto, in base alle istanze e
gli interessi di quanti detenevano l’autorità e fondavano quest’ultima proprio sul controllo della memoria e dei vaticini: se è vero che il tempo misurato con il calendario era profondamente “qualitativo”, la sua qualità era un bene troppo cruciale per non essere determinata da alcuni soltanto.
22
NOTE
* Una prima versione di questo testo è stata presentata il 10 marzo 1999 durante il Corso di formazione multidisciplinare per insegnanti su ‘L’orologio cosmico e il tempo dell’uomo. La questione del tempo tra filosofia e scienze’, organizzato a Venezia dalla Fondazione Giorgio Cini.
1 Basti ricordare che non solo vi è dissenso fra chi situa la scadenza il 31 dicembre 1999 e chi la
posticipa al 31 dicembre del 2000, ma che le stesse autorità religiose riconoscono non esservi alcuna certezza circa l’esatto punto di partenza del calcolo degli anni cristiani, che potrebbe differire sensibilmente dal computo attuale.
2 Nell’ambito di questo scritto si farà essenzialmente riferimento al calendario maya e a quello
azteco, che rappresentano le forme meglio documentate e studiate, nonché, nel primo caso, le
più complesse. Pur con significative differenze, che verranno segnalate, entrambi questi calendari avevano una struttura comune.
3 Anche se la durata di questi periodi non coincide con quella dei mesi lunari, il termine “mese”
non è improprio, in quanto essi venivano chiamati “lune” (metztli) dagli stessi Aztechi (Caso
1967: 34; 1971: 339).
4 Per quanto riguarda gli equivalenti mesi maya, erano così denominati: 1) Pop, 2) Uo, 3) Zip, 4)
Zotz, 5) Zec, 6) Xul, 7) Yaxkin 8), Mol, 9) Ch’en, 10) Yax, 11) Zac, 12) Ceh, 13) Mac, 14) Kankin, 15)
Muan, 16) Pax, 17) Kayab, 18) Cumku; a questi si sommavano i 5 giorni intercalari, detti Uayeb
(cfr. Satterthwaite 1965; Thompson 1994).
5 Una dettagliata argomentazione della prima posizione è illustrata da Caso (1967, 1971) e Broda
(1971, 1980, 1983); per una vigorosa difesa della seconda si veda invece Graulich (1990).
6 Non è certo questo l’unico caso di un calendario nel cui impiego gli aspetti numerologico-divinatorî prevalgono sui fenomeni celesti loro connessi: a Bali, ad esempio, la coincidenza tra i mesi “lunari” e le effettive fasi della luna non è sempre esatta (Howe 1981: 227), ma ciò che conta per gli attori
sociali, “quello che è ‘veramente reale’ è il nome [...] del giorno, la sua collocazione nella tassonomia trans-empirica dei giorni, non il suo riflesso epifenomenico nel cielo” Geertz (1987: 381).
7 Il significato dei 20 “nomi” maya equivalenti corrisponde solo in parte con quello dei simboli
aztechi e non è altrettanto certo; lo si può così riassumere: Imix “ceiba” o “mostro terrestre”, Ik
“alito”, Akbal “notte”, Kan “mais maturo”, Chicchan “serpente celeste”, Cimi “morte”, Manik
“cervo”?, Lamat “coniglio”?, Muluc “riunito”?, Oc “piede”, Chuen “artigiano”, Eb “nebbia”, Ben
“canna”?, Ix “giaguaro”, Men “saggio”, Cib “cera”, Caban “terra”, Etznab “strumento affilato”,
Cauac “tempesta” e Ahau “signore” (López Austin 1997: 51).
8 Circa la funzione e il significato dei 13 volatili nel calendario, si rinvia a Caso (1967, 1971) e
Kendall (1992).
9 Per gli Aztechi, la lista dei tredici dèi diurni era la seguente: 1. Xiuhtecuhtli (“signore dell’anno”,
dio del fuoco), 2. Tlaltecuhtli (“signore della terra”, dio della terra), 3. Chalchiuhtlicue (“colei che ha
la gonna di giada”, dea dell’acqua), 4. Tonatiuh (“sole”, dio del sole), 5. Tlazolteotl (“dea delle immondizie”, dea dell’amore), 6. Mictlantecuhtli (“signore della regione dei morti”, dio degli inferi),
7. Centeotl (“dio del mais”), 8. Tlaloc (“colui che giace sulla terra”[?], dio della pioggia), 9. Quetzalcoatl (“serpente piumato”, dio del vento e della creazione), 10. Tezcatlipoca (“specchio fumante”,
onnipotente dio dei destini), 11. Chalmecatecuhtli (“signore di Chalma”, dio infero del sacrificio),
12. Tlahuizcalpantecuhtli (“signore della regione dell’alba”, dio di Venere), 13. Citlalinicue (“colei
che ha la gonna di stelle”, dea celeste della via lattea) (v. Caso 1967, 1971; Nicholson 1971).
10 I 9 dèi notturni Aztechi (che ripetevano in gran parte quelli del giorno) erano: Xiuhtecuhtli, Itztli
(“ossidiana”, dio dei sacrifici), Piltzintecuhtli (“signore-prìncipe”, dio solare dei fiori e del piacere), Centeotl, Mictlantecuhtli, Chalchiuhtlicue, Tlazolteotl, Tepeyolohtli (“cuore della montagna”,
dio-giaguaro, manifestazione di Tezcatlipoca), Tlaloc (v. Caso 1967, 1971; Nicholson 1971).
11 Ho constatato personalmente la presenza di un metodo di suddivisione “puntiforme” del dì e
della notte tra i Huave di Oaxaca (Lupo 1981), che non si discosta da quello usato dai Maya
(Edmonson 1986: 8).
23
12 Hunahpu è uno dei venti segni del calendario rituale maya quiché, equivalente ad Ahau nel calendario maya yucateco.
13 Non sempre l’anno prendeva il nome dal suo giorno iniziale; in alcuni centri si sceglieva l’ultimo giorno prima dei 5 conclusivi (Caso 1971; Edmonson 1986; 1988).
14 Tra i Maya classici, i portatori d’anno erano Ik, Manik, Eb e Caban, mentre nello Yucatán del XVI
secolo essi corrispondevano a Kan, Muluc, Ix e Cauac (Thompson 1994: 174; Edmonson 1986: 10).
15 Secondo Aguilera (1994), che identifica il mamalhuaztli con le Iadi, era questa - e non le Pleiadi la costellazione il cui transito per il meridiano si aspettava per accendere il “fuoco nuovo”; altri
studiosi l’identificano invece con il cinto di Orione (Aveni 1991: 49).
16 Proprio al dualismo insito nelle apparizioni di Venere allude il secondo, più recondito significato del nome di Quetzalcoatl, che nel linguaggio esoterico noto come nahuallatolli “parola nascosta”, aveva il senso di “gemello prezioso”.
17 In base al tipo di correlazione adottato nel tradurre il computo lungo maya nel sistema di datazione cristiano, sussistono alcune discrepanze tra gli studiosi, alcuni dei quali situano questa
data iniziale l’11 o il 13 agosto del 3114 a.C. (cfr. Schele & Freidel 1990: 246, Bricker & Bricker
1998: 195).
18 Una coincidenza non meno suggestiva, ancorché affatto casuale, tra piramidi e calendario è
quella occorsa ad Alberto M. Cirese nell’elaborazione informatica di un programma che riproducesse sullo schermo del calcolatore il cicli calendarici maya; donde la constatazione che ruota
calendarica e piramide realizzano “in modalità superficialmente diverse ma intrinsecamente
identiche [...] la circolarità dell’infinito” e la domanda: “è illecito ritenere che la mente umana
possa cambiare anch’essa [come il calcolatore] un parametro, e realizzare così in una costruibile
piramide a gradini una non costruibile immagine di circolarità?” (Cirese 1994: 356).
19 Nell’analogo diagramma del Codice di Madrid, i petali più sottili del fiore formato dai 260 punti
contengono in effetti dei glifi che raffigurano impronte umane (v. Villacorta & Villacorta 1976:
374-377 [ringrazio Alfredo López Austin per avermi fornito questa indicazione bibliografica]).
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