Foglio di Lumen 20 - Associazione Lumen

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Foglio di Lumen 20 - Associazione Lumen
lumen
Il foglio di
Miscellanea 20
Anno 2008
Documenti
&
Ristampe
2
6
Il viaggio di Fabio Gori
(2a parte)
da Fabio Gori
10
Documenti & Ristampe
sono fascicoli speciali,
dedicati agli scritti rari
e di difficile
reperimento, che in
epoche diverse sono stati
compilati sul Carsolano
e sui territori limitrofi.
Nella selezione si tiene
conto anche di quel che è
utile per l’insegnamento
della storia locale nelle
scuole.
Una vacanza narrata in
versi
da Anonimo
17
Curiosità archivistiche sul
soggiorno di Benito Mussolini
a Campo Imperatore
Notizie da libri
dell’Ottocento
da Redazione
da Redazione
20
La leggenda della Madonna
dei Bisognosi in un’operetta
teatrale
25
da P. Paolo Gaspare Forcina
28
da Ignazio Carlo Gavini
34
Le dispute sul confine da
Oricola a Tufo di Carsoli
(1837)
36
da Richard Colt Hoare
All’interno
Q
uesto è il ventesimo numero de il foglio di
Lumen, per noi è un evento, così lo festeggiamo con qualche macchia di colore in copertina.
Apriamo il fascicolo con la ristampa (2a parte) del
viaggio di F. Gori nel Carseolano a metà Ottocento, per poi passare ad un opera in versi stilata
nei primi decenni del Seicento da un poeta
anonimo in vacanza a Vallinfreda (RM). Le sue
rime, a volte burlesche, tratteggiano gli aspetti
naturalistici delle nostre contrade e i caratteri dei
suoi abitanti. Seguono alcuni documenti riguardanti la permanenza di Benito Mussolini a Cam-
I primi giorni di guerra. Lettere di
combattenti nella Prima Guerra
Mondiale
da Redazione
da Redazione
Le rovine di
Carsioli a fine
Settecento
Le prime escursioni sui monti di
Pereto, Camerata Nuova e
Carsoli (1888-1891)
38
Cronache di
Carsoli nei ritagli
di giornale
da Redazione
40
Sulla Carboneria
nel Regno di
Napoli
da Redazione
nell’Ottocento come, ad esempio, una descrizione
geologica
del nostro territorio e di quelli limiCon la prossima dichiarazione dei redditi si
può destinare il 5 per mille dell’IRPEF alle trofi, la segnalazione di una strada che in epoca
associazioni di volontariato. Chi vuole so- romana avrebbe attraversato i monti Simbruini
stenere le nostre attività può firmare sotto la e le memorie di un viaggiatore inglese che, dopo
dicitura “Sostegno del volontariato, delle or- aver visitato il lago Fucino e le terre circostanti si
ganizzazioni non lucrative ecc.” E indicare fermò a vedere le rovine dell’antica Carsioli. A
il codice fiscale della Associazione Culturale
tutto questo abbiamo unito alcuni ritagli di giorLUMEN
nali
di primo Novecento. In particolare segna90021020665
liamo la ristampa di un’operetta teatrale ispirata
po Imperatore dove si descrive l’organizzazione alla storia della Madonna dei Bisognosi e le
della vigilanza al capo del fascismo e alcuni mo- lettere inviate alle famiglie dai combattenti la
menti che precedettero e seguirono la sua libera- Prima Guerra Mondiale.
zione. Altre notizie sono prese da libri editi
AVVISO AI LETTORI
Ristampa
Il viaggio di Fabio
Gori
(2a parte)
da Fabio Gori
1) Qui però è da notarsi che
la chiesa della Madonna
delle Celle di Carsoli ebbe il
titolo di cattedrale nel X
secolo. Attone, figlio di un
conte de’ marsi, fu eletto
vescovo con giurisdizione
sulle valli di Carsoli e di Nesce. V. Lucent. ad Ughell.
col. 1297. Ma il concilio
fiorentino abolì questo nuovo vescovato, e Vittore II
trasferì Attone alla sede di
Chieti.
Sotto: C.I.L., IX, n.
4071
2
Lumen
P
roseguiamo la ristampa del viaggio di
Fabio Gori, ricordando che la prima
parte è stata pubblicata nel n. 17 della
Miscellanea di Lumen.
[p. 126] FONTANA E TAVOLA DE’ 4
VESCOVI, RIOFREDDO, VALLINFREDA,
VIVARO, PETESCIA, POZZAGLIA, ORVINIO, NESPOLO, PAGANICO, COLLALTO,
POGGIO GINOLFO, PERETO E SANTUARIO DI N. D. DE’ BISOGNOSI
Al confine del territorio di Oricola con quelli di
Vivaro, Petescia e Collalto, si vede la Fontana e tavola de’ 4 vescovi così descritta da Giuseppe Lolli
in una Risposta sull’emissario del Fucino: «In questo tratto s’incontra la speciosa fontana de’
quattro vescovi con una speciosa mensa e suoi
cor [p. 127] rispondenti sedili di ottima pietra e
di ugual lavoro travagliata da mano maestra. In
ogni lato di essa fontana si vede scolpita una
mitra collo stemma e nome della sua rispettiva
diocesi. La sua rara combinazione merita di
esser riportata per l’accidental centro di un
quadruplicato confine che stabilisce a quattro
diversi vescovati, ove ognun di essi viene a confinar in quel lato in dove riconosce lo stemma
della sua mitra questi sono il vescovato de’
marsi (Oricola), quello di Tivoli (Vivaro), quello
di Sabina (Petescia) e quello di Rieti (Collalto).
Non di raro succede che o nel rimpiazzo di
qualcuno di que’ vescovi, o nell’incontro di
ritrovarsi tutti usciti
contemporaneamente in visita, sogliono in
tal caso appuntar fra
di loro un divoto convito in quel centro per
ivi complimentarsi e
desinar insieme nell’ugual dominio, in
dove il più curioso è di
vedersi tutti uniti col
restar ognuno a seder
dentro la diocesi del
suo vescovato». Ma
Il brano è tratto dalla sua opera Da
Roma a Tivoli e Subiaco, alla grotta di
Collepardo, alle valli dell’Amsanto ed al
lago Fucino, nuova guida storica,
artistica, geologica ed antiquaria edita
per la prima volta nel Giornale
Arcadico, n.s., tomo CLXXXII
(1863), pp. 126-140
dopo la nuova organizzazione della diocesi
sabina eseguita da pp. Gregorio XVI, essendo
Petescia passata nella diocesi tiburtina, al
presente nella medesima tavola non possono
aver luogo che i vescovi di Rieti, di Tivoli e de’
Marsi. E qui si noti che, secondo l’Ughelli
nell’Italia sacra, sì gli equi come i marsi vivendo
quasi misti fra i limitrofi monti, furono in
origine evangelizzati dal galileo s. Marco, il
quale creò un sol vescovo residente in Atina: ma
in appresso la diocesi fu divisa in due, in quella
cioè di Atina ed in quella de’ marsi, nella quale
[p. 128] vennero compresi per maggior comodo alcuni equicoli di queste contrade (1).
Verso RIOFREDDO vicino ad un antico ponte
della Valeria si scorge la chiesa di s. Giorgio di
architettura gotica e protetta da una torre. In
prossimità della strada appoggiati ad una maceria ho osservati due massi, in cui sono scolpiti
un animalaccio con coda arricciata ed un
cerchio con razzi, i quali simboli ho rimarcato in
molti luoghi in Sabina. Seguono a ridosso del
monte sulle frontiere attuali dello stato pontificio, e del governo di Arsoli e distretto di Tivoli,
VALLINFREDA e VIVARO, nel cui forte rinchiusosi con soli 25 uomini l’insorgente mastro
Lavinio (ch’esercitava l’arte del ferraio) resistè
nel 1799 a 1500 francesi che nel piano sottoposto aveano respinto un corpo d’insorgenti
dentro la macchia di Sesara ed ucciso uno de’
loro più valorosi condottieri Mariano Mariani!
Nella terra di PETESCIA si rientra nel regno,
ossia nel mandamento di Orvinio, sottoprefettura di Rieti, provincia di Perugia. Zampilla
incontro la famosa Acqua-Santa che in un grazioso poemetto latino di Carlo Valentini si asserisce sgorgare la mattina e la sera all’ora di
pranzo e di cena:
[p. 129] Ne mirare tamen certo si tempore manat,
Nam solet bis horis pellere quisque sitim.
Il fiume Rio, confluente di quello di Sesara, scorre fragoroso sotto scogli pittoreschi: gli sovrastano due montagne aguzze, sopra le quali si
affacciano MONTORIO IN VALLE e PIETRA-
FORTE, dove il quadro di s. Elena è opera di
Guido Reni. La ripa di Montorio presenta un
ciglione grosso e staccato che viene a bagnarsi nel
Rio. Forse era qui ’l confine degli equi e sabini.
Alla sponda opposta, dopo un’ aspra montagna
e sopra una larga valle, si possono visitare il
castello di POZZAGL1A (2), ed il capo del mandamento Canemorto che per decreto regio nel
1863 ha cambiato il nome in quello di ORVINIO perché ad alcuni antiquari è piaciuto di
situarvi Orvinium, quantunque non serbi il
suolo le vestigie di quella splendidissima città
sabina, come la chiama Dionisio lib. II, già abitata dagli aborigini e adorna del tempio di Minerva nell’acropoli. Ad altri antiquari è garbato di
collocare in Canemorto Caenina per la iscrizione rinvenuta sul vicino monte Brunetta e trasportata in casa Taschetti: [p. 130]
IOVI . CACVNO
R. C.
le quali ultime parole hanno spiegato Respublica
Caeninensium. Non essendovi prove più precise,
è meglio di non interloquire in tali questioni. Il
vasto palazzo dell’ex-feudatario Borghese (3)
ridotto ad uso di carceri, a granai, e sala di udienza giudiziale; la chiesa, dove osservai un
buon quadro de’ ss. Rocco e Sebastiano, e la
strada che fra due torri spaziosa si apre e traversa il comune, sono le cose più rimarchevoli.
Si spera che fra breve si possa venire in Orvinio
dalla Valeria e dalla Salaria per una via carrozzabile. È pittoresco il colle dirupato ed isolato,
su cui sorge l’eremitorio colla chiesa di s. Maria
di valle buona: un altro colle denominato Castellano ha sopraccapo le ruine di un castello: al sud
poi giganteggia su foschi monti la Brunetta, dove esiste una cava di alabastro cereo un po’
fragile. Ma è tempo di ricalcare le già stampate
orme. Valicato il fiume quasi dirimpetto a Petescia, o dove zampilla una fonte minerale, si può
entrare nella gola profonda e in sommo grado
pittoresca formata dagli alti monti Cervia e s.
Giovanni. Le varie forme, nelle quali si presentano i dirupi, e le molte grotte vaneggianti per
ogni lato riempiono lo spettatore di meraviglia.
Una caverna più grande [p. 131] dell’altre
aperta nel monte Cervia cova nel seno una
sorgente: ivi, secondo la relazione di due collaltesi fededegni, si è trovata qualche antica moneta d’argento, e dallo stesso speco alcuni anni
fa per due volte sboccò all’improviso un ruscello solfureo che andò a colorare il fiume.
Vedesi finalmente un rivo, dopo avere voltata la
mola di Collalto, precipitarsi nel mezzo della
gola, e verso il fine cascare strepitoso fra i macigni accatastati e rimescolarsi in una voragine
denominata Uriu sfonnàtu perché avendovi git-
tate grosse pietre raccomandate a corde lunghissime, non si è potuto mai toccare il fondo.
Essendo la descritta pantanella di Civita quasi
incontro al monte Cervia, non potrebbesi credere che abbia origine l’acqua solfurea da esso?
Sulla cima del monte s. Giovanni esiste una chiesuola colle rovine di un convento. Alla parte opposta sorge la punta del Cervia più alta di questa. Non si può adeguatamente descrivere a
parole l’effetto prodotto dai folti castagneti che
verdeggiano alle radici degli stessi monti e variato dalla visuale di molte balze, su cui siedono
i castelli chiamati TUFO, NESPOLO che ha nel
suo territorio cave di ligniti, S. LORENZO, RICETTO,COLLE GIOVE, PAGANICO e MARCETELLI. In mezzo ai quali ultimi nella contrada Obitu le rupi scisse dalla forza tellurica
sono nel mezzo flagellate dall’irrequieto corso
di un torrente. Precisamente poi vicino a Paganico nella contrada Pietrascritta esiste l’iscrizione scolpita in una larghissima lastra e già copiata dal Gudio: [p. 132]
2) Gli Orsini, i Conti, i Muti e
finalmente i Borghese sono
stati i feudatari di Pozzaglia.
Nella spaziosa valle sottoposta, da cui prese ’l nome
l’antico monastero e chiesa
di s. Maria, si trovano, secondo il Piazza, molti corpi
umani coperti con tegole o
in urne di pietra.
3) Prima i monaci di s. Maria in valle, poi i Muti, quindi
i Borghese hanno posseduto Canemorto col titolo
di ducato.
P. MVTTINIVS P. F. PATER
CLODIA. MATER
P. MVTTINIVS. P. F. SER. SABINI
Scendendo dal monte s. Giovanni si risale a
COLLALTO, dove si visita la fortezza erettavi
nel 1720 dal card. Francesco Barberini e munita con 30 cannoni, portati via dai francesi nel
1799. Spaziosa è la corte: una scala di pietra a
chiocciola ascende sul maschio. Oltre la campana per l’orologio, vi sono frequenti torrioni e
troniere per ogni lato e mura larghissime provviste di casotti per le sentinelle. Si additano
ancora le carceri e la stanza della tortura. In
somma si vede un bell’esempio di fortezza del
secolo passato. I principi Barberini sino al 1799
vi hanno mantenuto un castellano, l’ultimo de’
quali fu il distinto letterato sublacense Antonio
Palma, che da tale carica prese motivo di dedicare a D. Francesco Barberini figlio del principe D. Carlo la sua traduzione delle Favole Esopiche di Fedro, stampata in Roma sotto il nome
arcadico di Amalpe Laconio nel 1798, presso
Vincenzo Poggioli.
Prima de’ Barberini hanno posseduto il feudo
di Collalto i conti Mareri, Soderini e Zambeccari signori anche di Poggio Ginolfo. In Collalto termina la provincia di Perugia, la sottoprefettura di Rieti, ed il mandamento di Orvinio. Vi risiede un delegato straordinario di
Sopra: C.I.L., IX, n.
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Lumen
3
pubblica sicurezza, ed una compagnia di linea
affinchè non si rinnovellino gli atroci fatti che
andiamo ad esporre.
Nel giorno delle ceneri nel mese di febbraio
1861 [p. 133] un’accozzaglia di ladroni ed assassini in numero di circa 900 comandati da De
Christen, Giorgi, Chiavone e Luverà, unicamente per l’ingordigia della preda, provenienti
da Poggio Ginolfo, alle 3 pomeridiane assalirono Collalto. I più coraggiosi terrazzani (in numero di circa 18) riconoscendo tra loro i peggiori ladri del circondario si difesero per circa
due ore uccidendo non pochi aggressori; ma
terminate le munizioni, delle quali un carico
senza loro intesa era giunto sino al casino del
sig. Domenico Macchia, saltarono dalle mura e
diedersi alla fuga. Gli assalitori, ciò veduto,
ascesero sugli abbandonati spalti e colle scuri
atterrarono la porta. Il sig. arciprete D. Antonio
Latini uscì dalla chiesa parrocchiale col crocifisso in mano insieme al fratello dottor Bartolomeo. E mentre quest’ultimo sventolando un
bianco fazzoletto gridava pace, pace, un colpo di
archibugio lo stese esanime al suolo. Corse a tal
fatto la di lui sorella sig.a Bernardina onde soccorrere il fratello, ma ad essa ancora non si vergognarono i masnadieri di tirare una fucilata e
di ferirla! Gittarono poi a terra dalle mani
dell’arciprete il Cristo, prendendolo a schiaffi,
pugni e calci. Uccisero due contadini marito e
moglie, non risparmiando la vita neppure ad
una bambina di circa 15 mesi di loro figlia che
infilzarono sulla baionetta. Non si possono
quindi adeguatamente descrivere gli orrori che
commisero nel saccheggiare le ben fornite case
del castello. Basti ’1 dire, che lasciarono quasi
ignudi i poveri abitanti. Un tal Mari di Carsoli
dové pagare una forte multa se volle salva la
vita. Avendo però appreso che erano giunti a
Canemorto cir [p. 134] ca 1200 soldati con
quattro pezzi di cannone, fuggirono in Arsoli e
si diedero in mano ai gendarmi che li condussero in Roma. Fu allora che si videro molti di que’
mascalzoni marciare vestiti non solo cogli abiti
rubati ai collaltesi, ma anche colle gonnelle tolte
alle donne. Un vecchio dai canuti e lunghi capelli
appoggiato ad un bastone incedeva tra essi …
Di qual delitto non sei madre, o sacra Fame dell’oro?
La sullodata famiglia Latini ha illustrato questo
castello. Ivi nacque nel 1797 D. Carlo Latini
dottore nell’una e l’ altra legge, canonico della
cattedrale di Rieti e vicario generale della
diocesi di tal nome. Sopra molti altri suoi scritti
in prosa ed in versi gli procacciarono somma
lode Iuris civilis elementa stampati in Rieti da
Salvatore Trinchi nel 1830, e la Storia Sabina che
si conserva manoscritta nell’archivio della detta
4
Lumen
cattedrale. Morì in Rieti la notte del giorno 21
marzo 1841, festivo del patriarca s. Benedetto,
in onore del quale aveva composto poco prima
un classico panegirico. Il celebre cav. Angelo
Maria Ricci gli tessé un elogio storico, e fu
compianto da un’eletta schiera di poeti rietini,
come risulta dai componimenti pubblicati dal
Trinchi nello stesso anno.
Il rinomato professore di farmacia teoricopratica, collaboratore e preparatore di chimica
nella università romana, membro dell’ac [p.
135] cademia de’ nuovi Lincei, del collegio farmaceutico di Roma, dell’accademia reale
medica di Napoli, di quella di farmacia di
Brusselles ecc. Vincenzo Latini fratello del precedente nacque anch’esso in Collalto nel 1805.
Fra le numerose memorie ed analisi chimiche
da lui scritte e date alle stampe vanno rimarcate
le scoperte che fece sull’ammoniaca. I tribunali
criminale e militare di Roma a lui affidavano
sempre le più delicate indagini di venefìcio. Il
municipio romano di lui servivasi nelle analisi
de’ viveri, vini ed altri generi di tal fatta. Amico
ed emulo de’ celebri professori Antonio Chimenti e Pietro Peretti, non si fece mai sedurre
dall’orgoglio, dal fasto e dall’interesse. Il suo
corpo fu ognora tormentato dalla gotta, la sua
anima dai domestici dispiaceri per le successive
perdite de’ fratelli, di un figlio ventenne e della
consorte. Dopo 57 giorni di fiera malattia, durante la quale non poté pronunciar sillaba,
quantunque conservasse le facoltà intellettuali,
morì in Roma addì 3 giugno 1862. Una epigrafe dettata dal ch. p. Angelini gli fu apposta
sulla tomba nella chiesa di s. Lorenzo in Miranda
dal collegio de’ farmacisti.
Da Collalto verso sud-est si scende a POGGIO
GINOLFO, mandamento di Carsoli, già feudo
de’ conti Mareri, poi de’ Zambeccari, quindi de’
Savelli, in appresso de’ marchesi Marcellini e
Marciani, e degli Ottieri, situato in amena altura esposta a mezzogiorno e cinto da’ migliori
vigneti de’ contorni. I baroni Coletti vi posseggono uno splendido palagio, in cui si trattengono negli estivi calori.
Traghettato nuovamente il fiume, e lasciato a
sinistra Carsoli, si costeggiano tre altri confluenti chia [p. 136] mati Santumare, Cammaranu e
Scadrafoce, l’ultimo de’ quali prima che fosse deviato nel 1857 andava a sommergersi in uno
scoscendimento di monte eguale a quelli di
Cerreto, Arsoli, Cervara e Collepardo, e chiamato il Méuriu, La macchia di VILLA ROMANA e
VILLA SABINESE gitta l’ombra de’ cerri secolari sul Méuriu e sulla Vena di pimpa formata da
due laterali pareti calcaree e rossastre che rassembrano ad un grottone scoperchiato. Poco
lungi esposto al mezzogiorno si trova PERETO
ch’è il comune più popoloso di questa pianura,
ivi si visita la rocca già valida difesa de’ suoi baroni. Nella casa già Vendetti ed ora Camposecco fu apposta per bocca di un pozzo una corona civica scolpita nel marmo. L’ire de’ partiti
popolari funestarono questa terra nel 1860,
sfogandosi contro il sig. Luigi Mari di Carsoli
ch’era venuto a diporto e fu barbaramente ucciso e trascinato per le strade, benché fosse una
persona innocua e rispettabile. Ma la punizione
inflitta ai rei si spera che non farà più rinnovare
simili eccessi. Fin dal 1310 era Pereto feudo de’
Maccafani. Tra gli uomini illustri nati in questo
luogo vanno notati i vescovi de’ Marsi della detta famiglia Maccafani, Angelo (1466), Francesco (1470), Gabriele (1471) e Giacomo (1533), i
quali prelati con raro esempio si succederono
nella sede. È da rammentarsi ancora il famoso
teologo, nemico di Giovanni Huss, p. Antonio
Angelo da Pereto, eletto nell’anno 1405 generale dell’intero ordine de’ minori conventuali.
Il pontefice Giovanni XXIII lo inviò nunzio in
Inghilterra e gli diede le facoltà per dispensare
il grado di consanguineità fra Tommaso [p.
137] figlio di Enrico IIII e Margherita di Olan~
da figlia del conte Giovanni da Penafort.
Morì
nel 1421. Antonio ed Angiolo Vendetti da Pereto combatterono valorosamente sotto Marco
Antonio Colonna nella campagna di Valbisogna nel 1510, anzi in essa il secondo ottenne ’1
grado di capitano. Nella chiesa di s. Giovanni
Battista fu decorato con un famoso quadro nel
1600 l’altare del ss.mo Redentore dal sac.
Francesco Grassilli. E nella chiesa di s. Giorgio
nella cappella de’ Vendetti un altro buon quadro fu dipinto dal Bacicci: quivi pure giace il
corpo del martire Colombo estratto dalle catacombe di Roma.
Varie iscrizioni raccolte dal Vendetti si trovano
pubblicate ex schedis carsiolanis Amadutii dal
Mommsen loc. cit. al n. 5684 e segg.
PHILARGVRVS. VILICVS. CORRI
AED. LAR. D. S. P. F. C
Sta ora nel Museo vaticano in diis col. 1
IIEDIO. FLACCO
–
FIL. TR. MIL. II. LEG. X GEM
PRAEFECT. FABR. BIS
IIII. VIR. IVR. DIC. QVIN [p. 138]
II
ù
Q. AVILLIENVS. FEL ....
M. OLIVS. SECVNDV . . .
IIII. VIR. I. D
PARIETEM. BASILICAE. REF . . .
AB. FVNDAMENTIS. ET. ARCV . .
EX. D. D. P. P. F. C
Anche questa è nel museo vaticano mag. 1
Q. VARIO IVCANO SIVIRO
AVG. MART. PAT. COLNA
BRIVII CN ANN FRVM
POIVIT QVIX. ANN. LXXVIIII
MENS VIII DIES XV HOR IXX SI
CII SIB ET LOLLIAE MATIDIAE
COIVCI SVE EX COMMVNEPAV
ù
THORIA INGENVA
corona
H di quercia C
C. PETIDIO. PRIMIONI. MAG. MART.
Quest’altra iscrizione stava ai tempi del Feboni
fuori di Pereto verso Carsoli nella chiesa di s.
Pietro, ma in appresso la lesse il Cardinali negli
orti Maccafani: [p. 139]
Q. AVILLIENVS. Q. F. BASSVS
MAGISTER. IVNIVS
IIII. VIR. AED. POT
IIII. VIR. IVR. DIC
La montagna allato di Pereto chiamata anticamente di Carsoli sostiene sul vertice il famoso
santuario della Madonna del Monte o di Maria ss.
de’ bisognosi, dove si venera una statua della Vergine scolpita rozzamente in legno di olivo col
Bambino in braccio, la quale si vuole che da un
gentiluomo nomato Fausto e da un ebreo convertito fosse nell’anno 610 trasportata in Italia
da Siviglia per esimerla dagli oltraggi de’ saraceni invasori della Spagna. Dice una leggenda,
che posta la sculta effigie sul dorso ad una mula,
questa inciampando lasciasse impresse le ginocchia nel vivo sasso dove hanno costrutta una
edicola, e poi si andasse a fermare in mezzo ai
territorii di Pereto e Rocca di botte, fissando ivi
in perpetuo i contrastati confini, ed in luogo
dove Fausto ritrovò il figlio Procopio riputato
morto: che il monte in parola si chiamasse Terra
secca perché era sterile, ma al giungere della
statua «cambiò natura, si rivestì ad un tratto di
ameni arboscelli, di verdeggianti erbe, di vaghi
fiori e divenne fecondo ed abbondante»: e che
per i miracoli operati e per essere stato liberato
da una grave infermità il pontefice s. Bonifacio
IV venisse egli da Roma a consacrare il tempio
addì 11 giugno del 613. Nel [p. 140] giorno poi
5 novembre del 1724 il capitolo vaticano con solennissima pompa ed immenso concorso di popolo impose due corone d’oro sulle teste della
Vergine e del Bambino. La chiesa rimodernata
conserva nelle arcate l’indizio ch’era di architettura gotica: rimontano al 1488 gli affreschi nei
quali si ritrae tutta la leggenda del trasporto
della statua da Siviglia a questo monte, come la
raccontano a lungo il Feboni Hist. Mars. lib. III.
p. 211 e segg., ed il Corsignani Reggia Marsicana
lib. 1. c. 13.
Lumen
5
Ristampa
Una vacanza
narrata in versi
da Anonimo
L
e rime che seguono sono una rara descrizione poetica, con sfumature burlesche,
di Vallinfreda e della piana del Cavaliere, compilate da un verseggiatore che
ben conosce i luoghi. La familiarità con la zona è
dimostrata dal citare località solitamente ignorate
come Prugna o Camerata Vecchia.
[275]
1
Francesco Berni (Lamporecchio 1497(?)-Firenze
1535) letterato noto soprattutto per le sue rime
scanzonate e irriverenti,
nonché per le sue farse.
Satireggiò anche personaggi di rango come papa
Adriano VI e Pietro Aretino.
La sua opera più apprezzata è la versione in lingua
toscana dell’Orlando innamorato di Matteo Maria
Boiardo.
2
Antonio Bruni (Manduria
1593 - Roma 1635). Letterato dei primi decenni del
XVII secolo, pubblicò la
sua prima opera, La selva
di Parnaso, nel 1615. Fece
parte di molte accademie
tra le quali quella dei
Fantastici e degli Umoristi
di Roma. Notizie più dettagliate in M. De Filippis,
Antonio Bruni, 1593-1635,
in The Modern Language
Journal, 20, fasc. 3 (dicembre 1935), pp. 151157 e M. Ridola, Antonio
Bruni: seicentista salentino
e il suo mondo petico, s.l.
1955.
3
Il poeta si riferisce al bosco
di Sesera.
Sopra: frontespizio
dell’opera
Segnalazione bibliografica:
M. Sciò
6
Lumen
Al medesimo Signor Antonio
Bruni2
Ch’io descriva, tu brami, in foglio angusto
Il sito, e la natura de’ paesi;
Ov’io di villeggiar prendomi hor gusto
Di grafica io non so, né di Matesi
E se vidi talor qualche Cosmografo;
Non però l’arco a tale studio intesi.
Musa; tu che facesti esser Geografo
In buon Dioniso; e prima ancor facesti.
Omero, ancor che cieco, esser Topografo.
Io non t’invoco a queste ciance, a questi
Versi baioni miei, rozzi, e malfatti:
Ch’io so, che divenirvi a schifo havresti.
Hor se non vuoi venir Musa; e tu statti,
Manda almeno una fante; e manda quella,
Che spazza in casa, e rigoverna i piatti
Io so; che s’ella vuol, sa farsi bella:
E che s’abita, io sò; com’huom ragiona;
In cucina talor meglio, ch’in cella.
E so; che queste santi in Elicona
Talora alzano i drudi a maggior posto;
Che fatto non havria la lor padrona.
Io non diviserò; quanto discosto
Dal’Isole; che mal fortuna noma;
Questo castello, ov’io mi stò sia posto:
O se dia a Meroe, dia Rifei, dia Roma
Sia suo Clima, o diati: che ben sapete,
Che trenta miglia i’ son lontan da Roma.
Dirò sol; che di Sabo infra le mete;
Sotto l’ombra dell’Aquila Borghese.
[276] Vivo qui l’hore mie dolci, e quiete
D’una gran valle, in su la cima ascese;
Io non sò, se d’un colle, o se d’un monte;
Colui, che questa Terra a fondar prese.
Monti, che più superba hanno la fronte,
Cingon questo minor; fuor che per indi?
I versi sono estratti da Il terzo libro
delle opere burlesche aggiunto a quelle di
M. Francesco Berni [...], stampato da
Jacopo Broedelet MDCCXXVI, pp.
275-287.
Lo stampatore nel riproporre gli
scritti del Berni1 vi aggiunge i
componimenti di altri autori, alcuni
anonimi.
Onde vede il mattin sorger Fetonte.
Aperto il varco a la veduta è quindi:
Si ch’il tenero dì tosto ne siede,
Che vien da i Marsi; i quali a noi son gl’Indi.
D’una vasta campagna arbitro siede.
Il luogo quindi; e di colei nel’ seno
Un bosco immenso3, e formidabil vede.
Vede per molte miglia ivi il terreno
Vestite à brun; de le fronzute, e spesse
Antichissime piante, ond’egli è pieno
Piante annose vi son, boschi sol esse
Ch’hanno, vivendo, i secoli vitali
Vinto de Fauni, e de le Ninfe istesse.
Alcune impenetrabili a gli strali
Si stan d’Apollo: e gettano altre in terra
Picchiolate di raggi ombre ospitali.
Altrove il bosco in guisa tal si serra;
Che di ciascun, ch’a penetrarlo intenda;
Non sol coi piè, ma con le luci ha guerra.
Qui gli orsi, e i lupi, e l’altra schiera horrenda
De le fiere selvagge hanno i lor covi
Ne temon quì, che ’l cacciator gl’ offenda.
Sterpi, dumi, virgulti, arbuschi, e rovi,
Tra quest’ arbori fan sì gran matassa;
Ch’ a pena è, che la scure il bandol trovi.
Altrove il bosco si ritira; o lassa
Luoghi aperti, e pratelli; altrove in fieri
Tenebrosi valloni anco s’abbassa.
Irrigando lo van limpidi, e meri
[277] Fiumiciattoli, e rii; che sotto 1’ombra
Paiono a rimirarli argenti neri
Il vasto pian, che questo bosco ingombra;
Carsoli è detto; e di Carseoli il nome,
E ’l sito ancor ne le ruine adombra.
Parchè del bosco infra le verdi chiome,
Verso il cardine Eoo, vetuste mura
Veggionsi ancor; che dal’età fur dome.
Che sia questa Carseoli, ognun mi giura:
Ma nomata Carenza hoggi e dal volgo;
Che sciocca parmi allusone, e dura.
A la fama però fede io non tolgo:
E per saper la verità del fatto;
Perché meco non gli hò, liberi non volgo.
Ma sé non fu Carseoli in questo tratto;
Già che da lei si noma il luogo intorno:
Con qual’altro io non sò farne baratto.
Perch’ il castel, che del suo nome adorno,
Carsoli da la gente è chiamat’horà;
Fu’ chiamato così pur l’altro giorno.
Di questo nome il suo Signor l’honora;
Dico la gran COLONNA: e pria si disse
Le Celle; e pur le Celle è detto ancora.
E quel, che sopra ciò Cluverio scrisse;
Ch’Arsoli sia Carseoli; è mera ciancia;
Per le ragion, ch’io taccio, assai prolisse.
Però la quistion lasso in bilancia;
E mi serbo a parlarne allora, quando
Stassi al fuoco 1’inverno a piena pancia.
Hor del gran bosco a ragionar tornando;
Dico, ch’egli è superbo a par di quanti
Da la Fama hebber mai più chiaro bando.
D’ampiezza sì, non di bellezza i vanti
Cede al’immensa e favolosa Ardenna;
Inclito agon de i cavalieri erranti.
[278] Senza cimier, senza ferrata antenna,
Senza scudo m’ è dolce esser stat’ivi;
Ove armato fier Marte, e non accenna
Mille piagge in un giorno, e mille rivi;
Com’ in Ardenna al’ amator Petrarca;
Fors’altro, amor mi dimostrò pur quivi.
Dal bosco poi per breve pian si varca
A i colli ond’egli è cinto: e molti han d’essi
Di ville, o di castel la fronte carca.
Tra l’Orse, e ’1 loco, ond’han la porta i messi
Del dì; sorge il Vivaro; a cui da quello
D’uno antico vivaio il nome diessi.
Poscia con grande, e signorile ostello
Più sublime, e più lungi appar Collalto.
Quindi il Tufo, e Cinolfo, humil castello.
Dietro a lui Pietrasecca è posta in alto:
Indi le Celle, o vogli dir Carsoli,
Giacesi a pie de’ colli in sù lo smalto.
Gli omeri, e la cervice eretti ha soli
Sù la falda d’un poggio; e ’l resto giace
Per lo pian, come lui, detto Carsoli.
Colli a dentro s’innalza; e lui soggiace
Gemina villa; intra di cui si stende
Un lungo tratto, e d’arboscei ferace.
Dal monte Sainese il nome prende
L’una, e l’altra da Roma: Indi Pereto
Per la costa d’un monte al pian discende.
Tra l’ aurora e ’l meriggio un monte lieto
Nobil tempio4 sostien, sacro a colei;
Che tolse al miser’huom l’alto divieto.
Quella dich’io, ch’a noi d’asiglio rei
Aperse, Eva di gratia, il patrio Cielo:
Che più chiuso non sia, mercè di lei.
Si questo felicissimo Cibelo
Questa del vero Dio vergine madre.
[279] Di starsi elesse, e d’operar suo zelo.
Quindi facil n’ascolta; e con leggiadre
Opere di clemenza ognor n’invita,
Ad amar lui ch’è suo figliuolo, e padre
D’Iberia ella sen’ venne; e la romita
Stanza di questo monte horrido, et arso
Più d’ogn’altra le fu dolce, e gradita.
Ma come il volto suo fu quivi apparso;
O miracol gentil! quel luogo nudo
Di verdi piante in un balen fu sparso.
Dal lato a questo un monte alpestre, e crudo
Esce così repenti al ciel le spalle;
Che sol pensando a tanta ertezza, io sudo.
Un picciolo castel, che gli occhi falle,
Dal giogo pende; e di volersen gire
Minaccia ognor mazziculando a valle.
Camerata s’appella. E chi salire
Vuole in cima la sù; poter di dicoli,
Perché ripide vie gli convien’ire?
Bisogna scorticar tutti gli articoli,
E salirvi carpon; per veder poi
Due stalle immonde e due strozzati vicoli.
La Rocca de la botte appar di poi;
Anzi pur non appar: ch’un colle opposto
E cagion, che veder tu non la puoi.
Bene Oricola appar; ch’ebbe il suo posto
Dun poggetto ritondo in su ’l cocuzzolo.
Netto sì; com’è netta aia d’Agosto.
Sembra quel poggerel giusto un meluzzolo;
Sembra il gambo la Terra; o per dir meglio;
Una poppa egli sembra, ella il capuzzale.
Poi de la Prugna il diroccato, e veglio
Castello appar’, che già suo stato havia;
Hor de’ trofei del tempo anch’esso è speglio.
Alfin d’Apello in ver l’estrema via,
[280] Quel, che de le castella, ond’io ragiono,
Termina il cerchio; è Vallinfreda mia.
Ben degli altri a man destra anco vi sono;
Ma veder non si pon; perché soggetti
A i monti stan, si come scanno a trono.
L’ameno Arsoli è tal; che fra poggetti
D’uliveti, e di vigne azzurri, e verdi,
Sotto Oricola asconde i suoi diletti.
Pur tale è Riofreddo; il qual tu perdi
Tosto ch’ il pie ne traggi; e di lontano,
Per ravvisarlo, invan gli occhi disperdi.
Ben’ il monte che stassi a lui sovrano;
4
Il riferimento è al convento
della Madonna dei Bisognosi.
Sopra: antico
panorama di Poggio
Cinolfo
Lumen
7
5
Il riferimento è al bosco di
Sesera invaso dalla nebbia.
6
Sono omessi gli ultimi
sedici versi di p. 282, dove
si accenna all’ambiente
veneziano; e tutta p. 283
dove le rime descrivono
aspetti naturalistici dei
luoghi.
8
Lumen
E sacro estolle ad Eliabbe il giogo;
Vedesi a molte miglia indi lontano.
Hor da questo io lo miro, hor da quel luogo;
E sempre a vagheggiarlo i passi fermo:
E non per questo il mio talento sfogo.
Honoro il monte solitario, ed ermo:
Non sol però, ch’in cima a lui si scorge
Il sacro horror d’un venerabil’Ermo:
Ma perché dolce occasion mi porge,
Di contemplar la bella imagin donna;
A cui devoto ogni mio spirto assorge:
Te FRANCESCO dich’ io; stabil Colonna
Del purpureo Senato; il qual t’adorni
L’alma d’eterna, e più purpurea gonna.
Odo, ch’a quei sacrati alti soggiorni
Poggiar volesti, e riverir quel Divo;
Che non chiuse per morte anco i suoi giorni.
Ond’ io, che di mirarti hora son privo;
Miro i luoghi, ove fusti, e’n questa forma:
Nel desiderio mio contento vivo.
E come seco il mio pensier s’informa;
Quinci; dico; egli salse al gran cacume
E forse ancor ve ne riman qualch’orma.
[281] Qui stette, qui sedeo; di questo lume
Spirando attrasse, e più seren fé Giove:
Qui curvò l’alma, e le ginocchia al Nume.
Tal pensando io gioisco. Hora s’altrove
Benigno è il Ciel de suoi felici influssi;
Benignissimo certo ei qui gli piove.
Qui son l’aria, e ’1 terren lieve percussi
Da gli estiferi Soli; e i raggi loro
Puri d’ogni vapor vendono influlsi.
Smalti altrove il terren di crudel’oro
La Spera ardente; e i fiori uccida, e l’herba;
E fenda i campi, e faccia il popol moro.
Che qui nel Solistitio avvien, che serbe
Fede al’ herbe la terra, el’ herbe ai fiori;
Che gli portano ognor liete, e superbe.
Scaldan qui, ma non bruciano i calori:
E se bianche non son nostre bobolce:
Non paiono ancor’Indi habitatori.
Qui mormora sovente un’aura dolce,
Un’aura Zefiritide, e gentile;
Che la state ne tempra, e i sensi molce.
E mentre in Roma voi Luglio, e sestile
Soffrite; o miei diletti, ond’io sospiro;
Qui godendo io mi stò maggio, et aprile.
Vivo color d’Oriental zaffiro;
Che per nebbie natie mai non si turba;
Nel ciel s’accoglie a questo monte in giro.
Ben l’aria intorno adhora adhor conturba
L’alito de le valli atro, e fumoso;
Ma questa de le tre due, non è turba.
Quando l’Alba il terren fà rugiadoso.
Veggio di nebbia incappellati i monti;
E solo il monte mio starsene in toso.
Di Carsoli non veggio i luoghi conti:
Perché tutto il ricuopre un fumo bigio,
[282] Fino a gli ultimi suoi verdi orizzonti.
Sembra allor quel gran campo5 il lago Stigio;
O pure il mar canuto; in cui disperso
Veggiasi qui, e qui molto navigio.
Perch’il gran bosco, in questo mar sommerso
Trahe fuor le cime in varii luoghi, e finge
Strani vaselli, e di color diverso.
Non il minio le guance a lor dipinge;
Ne col mantello suo l’atra cicogna,
Ma il verde pappagal co ’l suo gli tinge.
Qual pare una galea di Catalogna,
Qual galea di Cristian, qual galea Turca,
Qual galeon, d’una città vergogna.
Questo pare un berton, qual pare un urca,
Quello una galeazza; onde la fame
Mai non si pasce a la marina lurca.
Evvi ancor più minuto altro barcame;
Grippi, schifi, caicchi, e le mie care
Gondole, ch’ad ognor convien, ch’io
brame […]6
[284] Di richezza sì nobile, e sì gaia
Fecondissimi son qui gli spineti;
Qual d’incensi seconda e la Pancaia.
Producono altre gemme altri dumeti;
Lazuletti ritondi, al gusto ingrati;
Che fanciullo i’ dicea Strozzicapreti:
E i calici vermigli; onde i rotati.
Bianchi, o rossi capei si spargon fuore
De i fior di Pesto, a Citerea sacrati.
Ne i sambuchi, e ne gli ebuli il nerore
Appar dell’ambre; e i cornioletti, e i faggi
Ingemma 1’Alabandico rossore.
Gli alberi per lo più son qui selvaggi:
E s’alcuni pur son d’altera schiatta;
Fannosi a mano a man bassi legnaggi.
Tra pianta, e pianta affinità contratta
Non è per nesti: e sempre acerbi i frutti
Hanno; perche 1’humor non beh gli allatta.
Peroché magri, e sitibondi, e asciutti;
Come dianzi i’ dicea; son questi campi:
E di ciottoli, e selci ingombri tutti.
Onde, quando i vestigi in loro stampi;
Se tre palmi da terra i piè non alzi;
Vien, che ne’ sassi adhora adhora inciampi.
Et io, ch’ognora vò per questi balzi;
Porto ormai rotti, e fracassati i piedi;
Benché di dura vacca io pur li calzi.
S’eran Pirra, e ’1 marito in queste sedi,
Quando gl’huomini tutti andaro al fondo;
Perch’ei co’ sassi si rifer gli heredi:
Un sol di questi campi era fecondo,
Per riparar tutta la morta gente;
E tutto far Vallinfredano il mondo:
Rotti nulla dimen dal curvo dente;
Benché lor non si dia letame, o cuoio;
[285] Rendon questi sasseti ampia semente:
Lentichie, et orzo, e questo, e quel cottoio
E picciol gran, de la seconda sorte;
Ma bellissimi farri; Angelo Loio.
Bacco in questo terren tien poca corte;
Non già per risparmiar quattro fogliette:
Com’ io figliuoli fanno hor de la Sorte.
Ma perché ha poca entrata; e non rimette
Tanto vino, che basti a la sua bocca:
E quello in Acri si trovò a le strette.
Aristofane qui non fé la Rocca
Nefelococcigia: ma tanti augelli
Ci volan pur, che non invan si scocca.
Ne sol pettieri, e castriche, e fringuelli,
E l’altra de gli augei minuta plebe
Saltando van per questi dumi, e quelli:
Ma gran copia di quaglie infra le glebe
Si sta pascendo; e con l’odor che spande;
Farebbe un sasso odorator non hebe.
Tra lor qualche allodetta ancor si prande,
O qualche starna: e tortore, e palombe
Stan sù le piante a camere locande.
Pochi nidi qui fansi a le colombe:
Sonvi ben molte ereste; e su ’l mattino
Chiamano il nuovo dì ben mille trombe.
Del bestiame cerbiatto, o capriolino;
Nulla cen’ è ma del caprino assai;
E del leporeo men, che del volpino.
Non c’è porci salvatichi: e se mai
Ne comparisce alcun, vengono altronde;
E si chiaman qua sù porci brodai.
De’ domestici poi; vien che n’abbonde
La campagna non sol; ma queste case
Di porcinaglia son tutte feconde.
Son questi terrazzani eterne base
[286] Di gravose fatiche: e le lor mani,
Del Sole, del lavor son fosche, e rase.
Stannosi tutto ’l dì per monti e piani,
Rompendo il ventre a la gran madre antica;
Per farle partorir furia di grani.
Hor sudan dell’aratro alla fatica;
Hor’ erpicano, hor sarchiano, et hor segano,
E col piè de cavai calcan la spica.
Fanno alcuni ’l pedante; e fuor congregano
A scuola per li campi i lor discipoli;
E corron dietro a quei, che si disgregano.
E come ben studiato hanno ad Erbipoli;
Gli rimenano poi, morto ch’è ’1 Sole,
A la diletta lor patria Stallipoli.
Di fatti nondimeno, e di parole
Son costoro amorevoli, e gentili;
Più che la lor condition non vuole.
Non con le teste infino a terra humili
Soglion far riverenza; o dire a scherzo
Parole ossequentissime, e servili.
Ma non sogliono giamai gabbare il terzo:
E ’l pronome secondo usano; e fanno
Via più con quel che i Cortigian co ’l terzo.
Ben sen de le cicute infra ’1 dittanno;
Fra l’ anguille degli angui; e fra le Stelle
Alcune nebulose ancor ven’ hanno.
Amano il forestier ma non di quelle
Nationi, ch’ognor con fieri dadi
Giuocano, Italia mia, de la sua pelle.
Franciosi in questa terra appaion radi.
E s’alcun cen’ appar; tosto a Mortana
Cacciato vien, pria che tre dì ci badi.
E se di starci alcun s’ostina e gara;
Rinega Francia, e vien Sanese; o pure
Fassi de la famiglia Sannazzara7 [?]
[287] Gl’Hispani ancor non men crudeli, e dure
Cagioni han qui d’inconsolabil duolo:
Che ci soffrono ognor mille sciagure.
Ed io pur l’altro dì viddi un figliuolo
D’ un contadin; che cavalcando giva
Un asino, e diceva; arri Spagnuolo.
Non occorre, cred’io ch’i vi descriva
La donnesca beltà; che d’ogni Venere.
E d’ogni gratia, e d’ogni culto è priva.
Di carni elle sarian candide, e tenere;
Ma scoperte la State a i Soli stannosi;
E l’inverno sepolte infra la cenere.
Non biacca, non cinabro al viso dannosi:
Non d’ angioli, o di nanfe unqua si sprizzano;
Ne qui pur di tai merci i nomi sannosi.
Le mamme a le somare anco no’ strizzano:
Perché non san; che quello humor puppevole;
Fa, che ’lustran le carni, e non avviziano.
Non si sbosean le ciglia; e con radevole
Cristallo non si mieton la peluria;
Che per le fronti lor nasce abbondevole.
Non fanno al crinco i ferri caldi ingiuria:
Non in anella, o in turbini l’avvolgono;
Ne ristringono in or la sua lussuria.
Ma ne le cuffie rustiche l’accolgono,
Confuso, hirto, negletto; e fin che mucido
Dentro a lor non si fa, mai non lo svolgono.
Ma perché a lungo ciò narro, e dilucido?
Brevemente dirò, che questo sesso
Tatto è qui rozzo e disadatto, e sucido.
Con tali habitatori in tal recesso
Men vivo o BRUNI mio; lieto, e contento;
E godo pur, com’ i’ vorrei, me stesso.
Uso i giorni, e le notti a mio talento:
Me stesso io servo, e pur me stesso io premio
[288] […]8
7
La lettura di questo termine è incerta.
8
Sono omessi i ventisei
versi finali di p. 288 indirizzati all’amico Antonio
Bruni.
Sopra: recente
panorama di Vivaro
Romano
Lumen
9
Documento
Curiosità
archivistiche sul
soggiorno di
Benito Mussolini a
Campo Imperatore
I documenti che trascriviamo sono
nell’Archivio Centrale di Stato,
segnatura: Alto Commissariato per le
Sanzioni Contro il Fascismo (Titolo I,
fasc. 65), b. 91.
da Redazione
1
Questa sottolineatura, e le
altre che seguiranno, sono
presenti nei documenti originali (n.d.r.).
S
ulla detenzione del duce a Campo Imperatore si è scritto molto e noi non abbiamo
la pretesa di aggiungere nulla di nuovo.
Vogliamo solo curiosare tra i racconti di
eventi molto studiati.
«LEGIONE TERRITORIALE DEI CARABINIERI
REALI DEL LAZIO
Stazione di Assergi
PROMEMORIA RISERVATO PERSONALE
Assergi lì 14 settembre 1943
AL COMANDO DEL GRUPPO DEI CARABINIERI
REALI AQUILA
AL COMANDO DELLA COMPAGNIA CARABINIERI
REALI AQUILA
OGGETTO: Relazione sulle operazioni compiute dai raparti tedeschi per la liberazione di
Mussolini nella giurisdizione della stazione di
Assergi.
Il giorno 12 settembre c.a.1
Segnalazione archivistica:
M. Sciò
10
Lumen
Potevano essere circa le ore 14,15 quando nel
cielo di Assergi apparvero undici alianti tedeschi rimorchiati da apparecchi a motore e due
aeroplani “Cicogne”, di cui uno atterrava nei
pressi del piazzale della base della funivia in
uno spazio di circa 50 metri ed un altro sul
piazzale antistante l’albergo di Campo Imperatore, ove atterravano pure sparsi qua e là gli
undici alianti, due dei quali si infransero contro
Monte Aquila, incidente questo che provocò
gravi lesioni ai componenti dei rispettivi equipaggi. Contemporaneamente ai movimenti aerei, procedevano lungo lo stradale, che attraversa i centri di Paganica, Camarda, Assergi, e
che conduce alla base della funivia, non meno
di 50 moto carrozzette blindate, con mitragliatrici al centro; oltre 40 tra camions e camionette
cariche di uomini armati ed equipaggiati, 15
autoblinde, trasportanti ciascuna un modesto
pezzo di artiglieria, non meno di 10 carri armati, pesanti, 3 camion croce rossa e una autoambulanza.
Considerevole era il materiale esplosivo autotrasportato.
La forza attaccante aerea e terrestre poteva
ascendere a non meno di 500 uomini.
Lo forze distribuite lungo lo stradale da Bazzano ad Assergi erano pure considerevoli.
Reparti motorizzati tedeschi attraversarono
l’abitato di Assergi verso le ore 14,20.
Innanzi procedevano le moto carrozzette
blindate. [2]
Subito dopo la curva che precede il chilometro
10, i tedeschi, montati sulle carrozzette, aprirono il fuoco contro la guardia forestale DI
TOCCO Pasqualino, di anni 40 circa, da Assergi, coniugato, con cinque figli minori, mentre
tentava di accorrere verso il posto di blocco per
porgere aiuto ai militari ivi addetti. La guardia
cadde a terra ferita al fianco destro avendogli
un colpo di mitraglia perforato da parte e parte
il fianco.
Il giorno 13 mattino, la guardia DI TOCCO
decedeva verso le ore 8 presso l’Ospedale civile
dell’Aquila.
Al sopraggiungere di tali reparti, i carabinieri
adibiti al servizio di sbarramento presso il posto
di blocco ed alloggiati in una palazzina prospiciente, vista l’impossibilità di poter far fronte
con le armi all’irruzione dei tedeschi, desistevano dal combattimento e, senza sparare colpo, si
accingevamo a disporre le armi quando il carabiniere NATALI Giovanni, che si trovava dietro
un angolo della palazzina stessa, usciva sulla
strada, ancora sotto il fuoco dei tedeschi e mortalmente colpito al petto da un colpo di mitraglia, decedeva poco dopo.
Mentre alcuni carabinieri riuscivano a sottrarsi
alla vista dei tedeschi, portando seco le armi, gli
altri le consegnavano dietro intimazione degli
stessi.
I moschetti carpiti dai tedeschi ai militari
dell’Arma furono da essi stessi spezzati, mentre
le pistole venivano asportate.
Le armi dello scrivente e quelle di cinque carabinieri con tutte le munizioni e quindici bombe
a mano sono state salvate.
salma del caduto sono state tributate massime
onoranze sia da parte dei militari di questa stazione, che da parte di questa popolazione.
Lo stesso, che era della stazione di Sassa, riposa
nel cimitero di Assergi .
Il giorno 13, tranne i funerali del carabiniere
NATALI Giovanni, di cui è stata già fatta
menzione, non c’è nulla da segnalare.
Giorno 14
L’appuntato FARIGNOLI Giuseppe, della stazione di S. Demetrio nei Vestini, capo servizio,
in quella circostanza è stato dai tedeschi portato
via per ignota destinazione.
Il carabiniere DE LITA Pasquale e carabiniere
OCCHIUZZI Onesto, il primo di questa stazione e il secondo di quella di Lucoli, venivano
feriti alle gambe da schegge di bombe a mano
lanciate dai tedeschi a traverso le finestre nell’interno della palazzina sita al posto di blocco.
Gli stessi, sebbene il loro stato non destò preoccupazione alcuna, sono [3] stati inviati la mattina del 13 all’Ospedale Civile dell’Aquila.
Verso le 16,30 da Campo Imperatore si alzava
l’apparecchio Cicogna diretto verso Roma che
recava a bordo la persona di Mussolini. Dopo
circa un quarto d’ora si alzava l’apparecchio che
aveva atterrato alla base della funivia recando a
bordo l’Ispettore Generale di P.S. Comm. GUELI Giuseppe e il Magg. Generale SOLETTI,
comandante Generale del Corpo degli agenti
di P.S. che era giunto in aliante portato dai tedeschi come ostaggio.
Al riguardo delle operazioni svoltesi nell’albergo di Campo Imperatore il Tenente FAIOLA Alberto, comandante di quel distaccamento, riferirà direttamente con suo rapporto.
Il deflusso dei tedeschi da Campo Imperatore è
avvenuto verso le ore 17 ed è terminato verso le
ore 19, 30, pernottando alla base della funivia,
da dove sono partiti il mattino del 13.
Nell’abitato di Assergi e Camarda, nonostante il
timore della popolazione, non si sono verificati
incidenti.
I funerali del carabiniere NATALI Giovanni si
sono svolti verso le ore 15 del giorno 13 e alla
Verso le ore 9, proveniente dall’Aquila, giungeva in Assergi una motocarrozzetta tedesca. I
militari che la occupavano chiedevano ad alcuni di Assergi dove fosse la caserma dei CC.RR.
Recativisi e trovatala chiusa, se ne andarono
chiedendo dove fosse il brigadiere comandante
la stazione. [4]
Nel pomeriggio, poco prima che avvenissero i
funerali della guardia forestale, transitavano
per Assergi, diretti a Campo Imperatore, due
camion ed una vettura tedesca.
Ne discendevano verso le ore 22, completamente carichi di materiale vario asportato da
Campo Imperatore, tra cui le armi automatiche del distaccamento con munizioni e indumenti personali dei militari che ancora ivi stazionavano.
IL BRIG. A PIEDI COMANDANTE LA STAZIONE
Pietro Carusi
P. C. C.
IL CAPO UFFICIO
Magg. Ruggero Ruggieri»
ù
«LEGIONE TERRITORIALE DEI CARABINIERI
REALI DEGLI ABRUZZI
Stazione di Pizzoli
Pizzoli, lì 15 luglio 1944
RELAZIONE SUL FUNZIONAMENTO DEL DISTACCAMENTO DEI CARABINIERI REALI E P.S. DI
CAMPO IMPERATORE DURANTE LA PERMANENZA
DI MUSSOLINI.
AL SIG. COMANDANTE DEL GRUPPO DEI CARABINIERI REALI DI A Q U I L A
Io sottoscritto vicebrigadiere a piedi ACCETTA
Giuseppe, in merito al funzionamento del distaccamento di guardia a Campo Imperatore a
Mussolini ed alla liberazione di questi da parte
dei tedeschi, riferisco quanto segue:
Il sopradetto distaccamento, quando la sera del
25 agosto giunse alla base della funivia del Gran
Sasso d’Italia, era così costituito:
Tenente CC.RR.
FAIOLA Alberto
Maresciallo
DE MURTAS Raffaele
Vice brigadiere
SANTORO Sergio
Sopra: memoriale
del brigadiere Carusi
Lumen
11
2
Il punto interrogativo è presente nel documento.
Sopra: elenco dei
militari addetti alla
sorveglianza di
Benito Mussolini
12
Lumen
Vicebrigadiere BELLINO Salvatore
TARTAGLIONE Tommaso
“
ACCETTA
Giuseppe
“
PETTINARI Primo
“
P.S. CARLI Carlo
“
da circa 43 carabinieri e 30 guardie di P.S. dei
quali non ricordo il nome.
L’armamento in dotazione era di due mitragliatrici, due fucili mitragliatori e le armi personali.
Ancora quella sera sconoscevamo lo scopo del
nostro servizio, solo si sapeva che sarebbe stato
servizio speciale della durata di circa dieci giorni.
L’indomani arrivarono due torpedoni, di cui
uno era della C.R.I. Vedemmo allora Mussolini
accompagnato dal maggiore dei CC.RR. Impellizzeri, dall’Ispettore Generale di Polizia Gueli, dal Tenente [2] CC.RR. Faiola Alberto, dal maresciallo maggiore CC.RR. Antichi Osvaldo, da
un appuntato di P.S. e dal carabiniere NAPOLI
Egidio. Provenivano dall’Idroscalo di Bracciano, dove erano giunti dall’Isola La Maddalena. In giornata stessa il Tenente Faiola prese il
comando del distaccamento ed il Maggiore col
Tenente partirono per Roma.
L’alloggio del personale fu disposto così: sottufficiali, carabinieri e guardie di P.S. alle case della
funivia; Mussolini, l’Ispettore generale di polizia, il Tenente, il Maresciallo maggiore, il maresciallo capo DAINO Oreste addetto all’Amministrazione del distaccamento, ed il carabiniere
di ordinanza alloggiarono al piccolo albergo
che è sito sul piazzale della base della funivia.
Questi ultimi erano tutti provenienti dalla
Maddalena.
Il servizio fu disposto così: maresciallo maggiore Antichi Osvaldo di guardia personale a Mus-
solini, un piantone fisso a questi (carabiniere
Grivetto), 9 tra carabinieri e guardie di P. S. di
sentinella attorno all’albergo per un raggio di
circa 100 metri ed una pattuglia sulla via di
accesso al piazzale.
Di notte venivano aggiunte 5 guardie alle
adiacenze dell’edificio; i sottufficiali d’ispezione
continua. L’ordine delle sentinelle era di impedire che persone estranee si avvicinassero all’albergo; quello della pattuglia di fermare e di
controllare le persone e le macchine che passassero sulla via di accesso al piazzale.
Fo presente che - con mia sorpresa - per circa
quattro giorni dall’arrivo di Mussolini, il servizio della funivia continuò a funzionare, poiché
ancora all’albergo Campo Imperatore alloggiavano una ventina di militari feriti e dei dilettanti?2 Per tale servizio conseguiva l’arrivo ancora
di qualche macchina privata e dal servizio automobilistico Aquila-Gran Sasso, e il funzionamento della stazione della funivia, amministrata dal direttore Simoncini di Aquila, da altro
personale addetto e dalla segretaria dell’albergo Magnanelli Flavia di Davide in Iutaro, nata a
Perugia di circa 30 anni moglie di un sottufficiale prigioniero in A.O. residente all’Aquila da
circa due anni quasi sempre in via Burri 28,
presso Centi [3] Anna, attualmente impiegata
presso codesta R. Prefettura.
In seguito fu sospeso il servizio funivistico e fu
permesso di rimanere solamente a pochi elementi del personale addetto alla funivia, al Direttore e alla segretaria che di tanto in tanto
venivano dall’Aquila.
In tale fase del servizio un ordine particolare
per il personale addetto alla guardia era d’impedire che Mussolini venisse esposto alla curiosità dei passanti, ed io non ebbi mai a notare
interferenza alcuna tra Mussolini ed estranei. Il
vitto, che gli si somministrava, era della stessa
qualità del personale; dormiva in una comoda
camera, gli era concessa l’audizione radiofonica
e l’uscita sul piazzale antistante all’albergo, dove s’intratteneva a colloquio coll’Ispettore, col
Tenente, coi due marescialli, tutti coabitanti, e
qualche rara volta col personale del distaccamento. Qualche volta ebbi anche io modo di
avvicinarlo ed in quelle circostanze mi espresse la
sua lamentela sulla qualità del vitto e il suo dolore
sulla rovina della Patria e mi palesò il peggioramento delle condizioni della sua salute.
Tengo a dire, non a scopo esibizionistico, che un
giorno, chiamato da Mussolini, questi ci disse
che mi avrebbe dovuto odiare quale uno dei
suoi più spietati carcerieri, perché avevo proposto alla punizione dei militari di guardia sorpresi a dormire, ma mi stimava perché, quale
vero carabiniere facevo il mio dovere. In tale
circostanza si parlò anche di politica. Mi manifestò un odio inestinguibile, non all’Inghilterra, perché questa nazione europea, ma a
Roosevelt che aveva trascinato la sua nazione in
una guerra che non urtava gli interessi di un
continente lontano dall’Europa e che col peso
delle sue armi aveva influito principalmente
sulla catastrofe dell’Italia. In altra occasione mi
palesò anche che la sua ira era rivolta principalmente non al Re e Badoglio, ma ai suoi stessi
più stretti collaboratori che erano stati i veri
traditori suoi e della Patria.
Mi permisi allora di dirgli che se lui, dopo la
conquista dell’Impero si fosse ritirato dal governo o avesse evitato altra guerra, sarebbe
rimasto nella storia uno dei più grandi benefattori del popolo [4] Italiano. Mi rispose che è
insito di qualsiasi uomo l’amore della grandezza e il senso del progresso.
Il 3 settembre venne l’ordine di trasferirci tutti
all’albergo Campo Imperatore. Alla base rimasero di servizio il maresciallo DE MURTAS e sei
carabinieri, di cui uno addetto al telefono. Ecco
ora la fase del Campo Imperatore.
I servizi di guardia disposti attorno e dentro
l’albergo, una guardia alla porta della stanza di
Mussolini. Il personale alloggiato nell’albergo.
Mentre alla base l’amministrazione del vitto era
stata affidata al sottufficiale addetto, lassù fu
permesso che il vitto per tutto il distaccamento
fosse confezionato dall’amministrazione dell’albergo e cioè dal direttore Simoncini che si recava all’albergo saltuariamente e dalla segretaria Magnanelli che stava permanentemente in
albergo; la pulizia era eseguita da due donne di
servizio dei paesi viciniori. Qui si notò che il
vitto, mentre diminuiva in quantità e qualità,
per noi, aumentava per i comandanti che,
avendo formata mensa a parte nella sala grande dell’albergo, mangiavano qualche volta assieme a Mussolini. Questi lassù usciva dall’albergo
meno frequente di laggiù, prima perché le sue
condizioni di salute erano peggiorate, secondo
perché spesso scendeva dal suo alloggio ad intrattenersi con 1’Ispettore, col tenente, coi due
marescialli e qualche volta con la stessa segretaria. Questa, a quanto ebbi modo di constatare,
era in cordiali rapporti con 1’Ispettore, col Tenente e coi due marescialli, coi quali tutti si
intratteneva spesso a colloquio ed a giuocare a
carte. Non frequenti erano i suoi incontri con
Mussolini. Approfittando della sua amicizia coi
dirigenti, aveva, negli ultimi giorni, assunto un
atteggiamento da padrona coi militari. Conosceva bene la lingua tedesca e qualche volta la vidi
al telefono a parlare in tedesco con l’Aquila. Dietro mia domanda rispose che parlava, con degl’amici, pure conoscitori della lingua tedesca.
Il giorno prima dell’arrivo della spedizione
tedesca per la liberazione di Mussolini la Magnanelli partì con due valigie per l’Aquila e quel
giorno era assente.
Poiché giorni prima dell’arrivo dei tedeschi all’albergo, dei borghesi e tra questi Antonelli Domenico abitante all’Aquila Via S. Giusta, 23,
maestro di sci, dietro domanda ai superiori io
venni a sapere che erano degli sciatori, scalatori
e conoscitori del Gran Sasso, venuti a prendere
accordi col comandante del distaccamento per
prossime istruzioni sciistiche ai militari e per
eventuale trasferimento di Mussolini per le
montagne. La mattina del 12 e cioè il giorno
della cattura sentii vagamente che nel pomeriggio il tenente e il maresciallo magg. avrebbero
dovuto portare Mussolini in una capanna di
pastori a molta distanza dall’albergo. Non seppi
il perché.
Aggiungo però che pochi giorni prima della
scesa dei tedeschi Mussolini cadde in un abbattimento fisico - morale e qualche giorno prima
tentò di suicidarsi, prima con la pistola del carabiniere addetto al suo piantonamento e poi non riuscitoci poiché il carabiniere accortosene,
glielo aveva impedito - tentò di tagliarsi le vene
dei polsi, facendo uso di una lametta da barba,
tentativo che venne impedito dallo stesso carabiniere.
La scesa dei tedeschi avvenne verso le ore 15
del 12 settembre. Approssimandosi l’atterraggio dei velivoli tedeschi, fu dato l’allarme dalle
sentinelle. La sorpresa, determinata dal fatto
che mai si supponeva che un attacco fosse venuto dall’aria, provocò tra i militari una grande
Sotto: Mussolini
accompagnato dai
militari tedeschi
lascia l’albergo di
Campo Imperatore
Lumen
13
L’Ispettore generale, il generale Soletti, accompagnato dai tedeschi, presero la funivia.
Noi rimasti liberi, l’indomani raggiungemmo
l’Aquila; il tenente coi due marescialli e un carabiniere presero la fuga alla volta di Fano.
Quanto sopra è ciò che ricordo, a tanti mesi di
distanza, sui fatti di Campo Imperatore.
Il Vicebrigadiere C C. RR.
F/to Accetta Giuseppe
P. C. C.
IL CAPO UFFICIO
Magg. Ruggero Ruggeri».
Sopra: Mussolini
circondato dai
militari tedeschi ed
italiani
14
Lumen
confusione. Tutti quelli che stavamo nell’interno corremmo alla finestra e agli accessi dell’albergo per prepararci all’attacco. Le sentinelle esterne, rimaste colpite pure dalla sorpresa,
attendevano l’ordine di far fuoco. Già 10 alianti, portanti ognuno 10 uomini armatissimi, ed
una cicogna erano atterrati presso l’albergo.
Quest’ultima portava un maggiore tedesco
comandante della spedizione ed in ostaggio il
generale di brigata di polizia Soletti. Anche i
tedeschi in un batter d’occhio avevano preso
già posto di combattimento. Contemporaneamente il tele [6] fonista della base telefonava che
una cicogna era scesa anche lì mentre un’autocolonna di tedeschi aveva già circondato la base
della funivia.
Anche i carabinieri di laggiù attendevano l’ordine. Il telefono fu subito interrotto dai tedeschi. Dopo mezz’ora di attesa, venimmo a sapere che l’Ispettore ed il Tenente erano venuti
nella determinazione di prendere accordi coi
capi della spedizione tedesca.
Per far ciò furono fatti penetrare nell’albergo i
comandanti della spedizione. L’entrata nell’albergo fu piantonata dai tedeschi. In seguito
venne l’ordine di lasciare ognuno il posto assegnato e di scendere a pianterreno dell’ albergo.
Tanti tedeschi penetrarono nell’edificio e poco
dopo Mussolini, accompagnato dagli ufficiali
tedeschi, dall’ ispettore di polizia e dal Generale
Soletti, scese le scale. Il Tenente Faiola era rimasto nella sala grande dell’albergo a conversare
con due ufficiali rimasti feriti nell’atterraggio
degli aerei, in un primo momento.
Nel frattempo i soldati tedeschi avevano incendiato gli alianti. Mussolini, dopo un breve commiato rivolto a noi tutti, accompagnato dal maggiore tedesco prese il volo sulla stessa cicogna. Sul
suo viso notai un mesto sorriso. Era il sorriso di
un uomo liberato da mano straniera e consapevole di aver trascinato nel baratro la Patria.
ù
«Appunti della signora Magnanelli Flavia segretaria dell’albergo di Campo Imperatore circa la permanenza colà e la liberazione di Mussolini (28 agosto-12 settembre 1943).
Noi sapevamo che una personalità sarebbe
giunta alla villetta situata alla base della stazione
inferiore del Gran Sasso d’Italia.
Il sabato 28 agosto nel pomeriggio, dopo i preparativi del mattino, giunse con una automobile della Croce Rossa, scortata dai carabinieri,
Mussolini. Il traffico alla stazione dovuto al movimento dell’albergo, era troppo, per poter impedire che un tale prigioniero fosse veduto, per
questo, dopo un giorno del suo arrivo, fu dato
l’ordine di chiudere l’albergo di C.I. Per ragioni
di sicurezza e di maggiore comodità, il giorno 6
settembre alle ore 5 pomeridiane, Mussolini fu
fatto salire, accompagnato dal tenente Faiola e
dall’Ispettore Gueli, contro suo desiderio, all’albergo dove fu sistemato nell’appartamento del
2° piano (dell’albergo) composto: dell’ingresso,
un salottino, una stanza da letto matrimoniale,
un bagno. L’appartamento arredato nel migliore dei modi, specie il salotto che fu trasformato in studio, affinché Mussolini potesse passarvi le sue ore, è intercomunicante con la stanza n. 203 che fu occupata dal soldato Grevetto
Francesco addetto ai suoi ordini (tipo semplice,
buono, silenzioso).
Mussolini trovò l’appartamento troppo bene
arredato secondo lui, non conforme (come disse) alle sue abitudini ed alle sue qualità di prigioniero, se tale si doveva considerarlo e per
questo tolse di sua mano, i tappeti che coprivano il pavimento dell’ingresso del salottino.
1. da rilevare che Mussolini era trattato con rispetto e cordialità da chi lo teneva in consegna,
tanto da dire le seguenti parole «Se sono prigioniero, trattatemi da tale, se non lo sono, voglio
andare a Rocca delle Caminate»;
2. al momento di salire sul carrello della funivia
egli disse al capo stazione della funivia: «È sicura
questa funivia, non per me che la mia vita è finita,
ma per questi che mi accom [2] pagnano».
Mussolini in seguito si trovò bene accomodato
nell’appartamento ed anche l’aria fine di montagna non portò alla sua salute, alquanto scossa,
nessun danno; mi sembrò anzi che ne traesse
giovamento.
Preferiva mangiare nel salottino, servito secondo il suo desiderio e con il miglior trattamento.
I suoi pasti erano quasi soltanto basati su riso in
bianco, uova, cipolla cotta, poca carne, latte e
frutta abbondantissima. Egli mangiava anche
tre kg di uva al giorno. Egli soleva alzarsi al mattino verso le ore 9 e dopo la piccola colazione
scandeva nella sala da pranzo dell’albergo a
conversare con l’Ispettore Gueli ed anche con il
tenente Faiola, che si spacciava per amico fidato
di Badoglio.
Gli piaceva ammirare, anche con l’aiuto di un
cannocchiale, il panorama meraviglioso della
catena montuosa del Gran Sasso che, in quelle
giornate di limpido azzurro e di sole, spiccava
maestosa e superba.
Alle 12 Mussolini saliva nel suo appartamento
per la seconda colazione, composta di quanto
sopra e verso le due scendeva abitualmente a
fare la sua passeggiata fuori dell’albergo accompagnato dal maresciallo Antichi, che era al suo
servizio personale da circa 8 anni.
Preferiva a volte passeggiare, a volte sedersi sui
muriccioli di fronte al piazzale dell’albergo.
Rientrava abitualmente verso le 4½ e qualche
volta, prima di salire in stanza, si sofferma a fare
qualche domanda a qualcuno degli agenti che
era in portineria.
Più tardi faceva chiamare l’ispettore Gueli perché salisse nel suo appartamento a conversare
con lui; Gueli diceva aver trascorso con Mussolini le sue più belle ore, data la profonda intelligenza di questi. Le loro conversazioni si
basavano, credo, più che altro sulla politica, ed
il momento attuale. [3] Gueli una sera a tavola,
mi riferì che Mussolini aveva consigliato a Hitler di fare, immediatamente dopo la caduta
della Francia, lo sbarco in Inghilterra, anche
sacrificando un milione di uomini. Hitler non
ascoltò tale consiglio e volle invece attaccare la
Russia che, secondo le parole di Mussolini, era
per la Germania una continua emorragia.
Egli parlava spesso anche dei tradimenti a lui
fatti, specie dalle persone da lui maggiormente
beneficate ed innalzate, tra queste nominava:
Grandi, Ciano e diversi ammiragli e generali.
Dopo il pranzo che egli faceva regolarmente
alle 19, scendeva di nuovo nella sala da pranzo
dell’albergo a giocare la sua abituale partita a
scopone (abitudine presa durante la prigionia)
con l’Ispettore Gueli, con il tenente Faiola, il
maresciallo Antichi ed un altro maresciallo. Egli
ascoltava la radio che era in albergo sia tedesca
che italiana, che americana o inglese.
Alle insolenze rivolte a lui restava impassibile.
Così, con qualche lieve variante, trascorreva i
giorni. Il giorno 9 settembre Mussolini fece
sapere per mezzo del suo attendente che si
sentiva male. Fu fatto salire a C. I. da Aquila il
tenete medico Masciocchi, il quale constatò, in
Mussolini, un leggero rincrudimento del suo
male (ulcera dello stomaco). Più volte egli accennava alla sua salute malferma, che egli diceva avere da ben 18 anni.
La sera del 10 settembre, notai un certo allarme
fra i gendarmi e due telefonate consecutive del
Prefetto Biancorosso a Gueli, dopo di che Gueli
scese verso le 19 di sera ad Aquila per conferire
con il Prefetto.
Intanto, in albergo, gli agenti facevano preparativi di armi e bombe a mano, come se si dovessero preparare ad un attacco. Furono perfino messe sentinelle vicino al rifugio Duca de-
Sopra: memoriale
della signora
Magnanelli;
a lato: il duce con Otto
Skorzeny, l’ufficiale
che diresse le
operazioni tedesche a
Campo Imperatore
Lumen
15
gli Abruzzi. Verso le 20 di sera, un aereo tutto
illuminato passò a molto bassa quota dall’albergo; io pensai ad un apparecchio germanico;
Mussolini più tardi disse trattarsi di un aereo
della Croce Rossa tedesca. [4] Verso le 10 di sera
risalì all’albergo Gueli. Seppi che non c’era
nulla di allarmante, soltanto si erano avvistate
delle truppe tedesche avanzare verso Aquila.
Il giorno 11 passò senza incidenti, Mussolini la
sera ascoltò regolarmente la radio e fra l’altro
sentì le clausule dell’armistizio fatto da Badoglio.
Risulta che la notte stessa, alle ore 3 del mattino,
Mussolini mandò una lettera al tenente Faiola
così concepita:
«In questi pochi giorni ho potuto capire che mi
sei veramente amico, sei un soldato e sai meglio
di me cosa significa cadere nelle mani del nemico. Ascoltando la radio Berlino ho sentito che in
una clausula d’armistizio c’è la mia consegna
vivo agli inglesi. Prima di subire tale umiliazione, ti prego di mandarmi la tua pistola».
Era questa una intenzione di uccidersi o di
avere un’arma per una eventuale difesa?
Il tenente ebbe questa lettera alle 3 del mattino
dal piantone che montava la guardia fuori dell’appartamento del Duce. Faiola si alzò ed andò a
confortare Mussolini, il quale sembra, a seconda
di quanto disse poi il tenente, abbia tentato di
tagliarsi anche le vene del polso con una lametta,
che egli avrebbe fatto in tempo a toglierli.
La mattina del giorno 12 trascorse normalmente; a colazione, che faceva sempre insieme all’Ispettore Gueli e Faiola, quest’ultimo, avendo
saputo dell’occupazione di Roma da parte dei
tedeschi, si meravigliava come mai le truppe
che erano a Roma non reagissero contro i tedeschi e disse anche: «Se qui verranno i tedeschi li
faremo tutti cadaveri e il Duce l’avranno morto;
La consegna che ha dato Badoglio è questa: Ai
tedeschi morto non vivo».
All’una e mezza circa un improvviso rombo di
motori, il tempo di vedere degli apparecchi
uno dietro l’altro che in brevissimo spazio alcuni atterravano nei piani circostanti l’albergo. Il
coraggioso tenente Faiola, accorgendosi dell’arrivo dei tedeschi, non sapeva più cosa fare, dava
l’impressione di un uomo fuori di sé, e se ne stava senza dare [5] nessun ordine; intanto dalla
porta della taverna saliva il generale Soletti, il
quale aveva dietro le sue spalle un fucile mitragliatore, tenutogli dal capitano tedesco comandante la spedizione di salvataggio. Questi chiese di Gueli che era restato in portineria e, trovatolo, la prima domanda fu: Il Duce è vivo o
morto? Vivo risposero Gueli e Faiola. Non fate
male al Duce, seguitò il capitano tedesco. Nel
frattempo tutti gli alianti tedeschi erano atterrati; erano 11 alianti ed una cicogna. I tedeschi
16
Lumen
circondarono subito l’albergo. Intanto Mussolini s’affaccia fuori dell’appartamento gridando
agli italiani e tedeschi: Fermi, non sparate, non
spargete altro sangue. Infatti non un solo colpo
è stato sparato.
I tedeschi, vedendo Mussolini, incominciarono
a gridare Duce Duce Duce.
Gueli e Faiola accompagnarono il capitano tedesco all’appartamento di Mussolini, il quale
stringe la mano e abbraccia il capitano. Il capitano tedesco informa Mussolini che la sua
famiglia è stata portata a Vienna e che, se lui
vuole, può in giornata raggiungere i suoi cari.
Mussolini esprime il desiderio di passare una
notte a Rocca delle Caminate.
Il capitano tedesco è oltremodo lieto per la
riuscita della cosa e dice che sono stati i primi
del mondo a fare un atterraggio di 2000 metri
in terreno così sfavorevole, ma almeno secondo
delle sue parole, sembra vi siamo stati costretti
per aver avuto sentore che gli inglesi volevano
fare tale tentativo.
Il Duce decide di portarsi con sé il generale di
polizia Soletti, il comm. Gueli e vorrebbe condurre anche il tenente Faiola, se non che questi
parla al Duce pregandolo di farlo restare, avendo egli moglie ed un figlio. Il Duce in tono piuttosto duro risponde: Resta, resta.
Per le 4½ tutto è pronto e il Duce esce dall’albergo per salire sulla cicogna, ma è investito dal
fuoco delle macchine fotografiche e di una macchina da presa. Prima di salire sulla cicogna,
egli stringe la mano a diversi soldati e rivolge
loro le seguenti parole: Vi rin [6] grazio assai,
mi ricorderò di tutti voi. Di tutto ciò la macchina di presa ha ripreso ogni dettaglio.
Il Duce sale sulla cicogna, con il capitano tedesco e il pilota. Tutti gli agenti e gli altri lo salutano romanamente gridando: «Duce Duce». In
un primo momento sembra che l’apparecchio
debba rovesciarsi, poi prende quota e si perde
in lontananza.
Il giorno seguente scendono ad Aquila i 100
poliziotti che erano a guardia di Mussolini, mentre il tenente, i marescialli ed altri sottoufficiali
restarono in albergo perché si era diffusa la voce
che questi sarebbero stati condotti prigionieri in
Germania. Il 14 i tedeschi vennero a prendersi
buona parte delle armi lasciate dai poliziotti.
Al sentire che vi erano i tedeschi alla base, che
sarebbero saliti all’albergo, il tenente e i marescialli fuggirono subito verso il Passo Adriano
(nella parte del Teramano), lasciando così in sospeso il conto all’albergo.
P. C. C.
IL CAPO UFFICIO
Maggiore Ruggero Ruggieri».
Ristampa
Notizie da libri
dell’Ottocento
La lettura dei libri stampati
nell’Ottocento riserva spesso gradite
sorprese utili allo studio dei nostri
territori.
da Redazione
I
l primo testo considerato è il tomo XV della
Biblioteca Italiana o sia Giornale di
Letteratura Scienza ed Arti, (1819) pp.
363-366. Qui troviamo una delle più
antiche descrizioni geologiche del Carseolano e di
alcune aree limitrofe.
[363] «Osservazioni naturali fatte in alcune
parti degli Appennini nell’Abruzzo ulteriore.
Memoria (inedita) del sig. BROCCHI.
Sopra: frontespizio
del primo volume
consultato
[…] Partii da Tivoli, e mi avviai su per la valle
dell’Aniene. Benché questa gola sia dall’uno e
dall’altro lato spalleggiata da montagne calcarie, nulladimeno si ravvisa ivi quanto generalmente è nelle altre vallate che sboccano nelle
pianure vulcaniche di questa parte d’Italia:
intendo dire che addossati alla roccia calcaria,
appaiono qua e là depositi di materie vulcanizzate, spinte, come io sono d’avviso, in questi
grandi interstizi dalle alluvioni del mare, che
sommergeva il continente, e da cui [364] sorsero quegli antichissimi vulcani che arsero in queste contrade.
Nella valle dell’Aniene si riconoscono siffatti
depositi ad intervalli più o meno ampi nelle
vicinanze di Tivoli, presso Vicovaro, segnatamente a Saccomuro, e li seguitai fin nella valle
di Cona in quel di Subiaco […]
Il fenomeno stesso compare ne’ contorni di
Arsoli, piccolo paese situato in capo ad una valle
trasversale lunga circa due miglia, che può dirsi
un ramo laterale di quella dell’Aniene. Molte
umili alture e gibbosità, che rimangono a
manca del torrente che la divide, sono vulcaniche, e constano di un lapillo bruniccio contenente squame di mica nera e particelle di
pirossena ma così decomposto che è nella
massima parte risolto in una terra che per
mancanza di miglior cosa usasi ne’ cementi in
cambio di pozzolana. Colà in una eminenza
detta il colle di S. Giovanni trovasi una roccia
parimente vulcanica, la quale presenta una
massa bruna, friabile, di sembianza terrosa,
seminata essa pure di squame di mica, e di
particelle di pirossena, e bucherata da cellule
d’irregolare figura. Per quest’ ultimo carattere,
e per non ravvisarsi soluzione di continuità
nella sua tessitura potrebbesi argomentare essere dessa una lava che abbia un tempo fluito,
ma niuna traccia di correnti di vera lava compatta ho saputo in que’ luoghi discernere.
Del rimanente le rocce ivi dominanti sono la calcaria apennina che costituisce la massa de’ monti,
e una arenaria giallastra o azzurrognola composta di grani di quarzo, e di squamette di mica
argentina uniti in cemento calcario, e contenente
zolloni rotondati della stessa roccia più solida.
Trovasi ivi eziandio una marna turchiniccia che
racchiude pezzi più o meno voluminosi di selenite, e che si adopera per fabbricarne mattoni. Lo
strato superficiale del suolo è in molti siti composto di una terra rossa di apparenza bolare, che
giudico provenire dal compiuto disfacimento del
lapillo vulcanico, al paro di quella che è tanto comune nella campagna di Roma ed in altri luoghi
del Lazio. Presso Arsoli sul pendio della [365]
montagna calcaria ove è il paese di Oricola havvi
un profondo avvallamento caratteriforme somigliante al così detto pozzo di Antullo presso Collepardo ne’ monti degli Ernici, e al decantato Pullo
di Molfetta in Puglia.
Se da Arsoli internandosi nel gruppo de’ monti
calcarei si prosegue il cammino verso Tagliacozzo, s’incontrano depositi vulcanici nel piano
del Cavaliere, il quale rimane fra le eminenze di
Oricola, e quelle di Carsoli. Essi constano del
summentovato lapillo bruno, che usasi nei
cementi ivi pure come pozzolana; ma nel luogo
ove era l’antica Carseoli, di cui non rimangono
adesso che scarsi e miserahili avanzi di muraglie, trovasi un tufa litoide di colore bruno cenericcio, e di fina grana terrosa, simile a quello
che ho detto rinvenirsi in Valle di Cona sotto
Subbiaco. I vestigi vulcanici mi accompagnarono fin presso Carsoli, e benché manifestassero
rocce di poca importanza, né abbia in verun
luogo adocchiato correnti di lava, era cosa
abbastanza interessante il vederli così dispersi
ne’ piani e nelle vallette intermedie alle eminenze calcarie.
Lumen
17
1
Un commercio analogo
esisteva a Pietrasecca di
Carsoli.
2
Nella nostra copia la lettura del numero del volume
non è chiara.
3
Il riferimento è a Trevi nel
Lazio (FR).
Sopra: frontespizio
del secondo volume
preso in esame
18
Lumen
La catena degli Apennini comincia oltre Carsoli
ad acquistare maggiore elevatezza, e da questo
paese fino al piano di Tagliacozzo presenta due
qualità di rocce, calcaria stratificata cioè, che è
dominante, ed arenaria giallognola, o bigioturchiniccia, la quale interpolatamente compare
in questo e in quel luogo. Che la prima spetti alla formazione secondaria non si può dubitarne,
ma rispetto all’altra, mi sembra che non vi sarebbe fondato motivo onde credere che sia
quella stessa arenaria terziaria, che trovasi in
tanti luoghi dell’Italia alla base degli Apennini,
accompagnata o dalla marna turchina, o da
sabbione siliceo-calcario con gusci di testacei
marini, o senza. Tale certamente non sembra
essere quella che incontrasi lungo il pendio
della montagna di Rocca Cerri per scendere a
Tagliacozzo, la quale ha molta analogia con la
grauwake, o pietra serena della Toscana nel colore turchiniccio chiaro, nella durezza, nella
grana fitta e minuta, e nella quantità di squamette di mica argentina; ma ciò che vieppiù
conferma questa analogia si è che a luogo a
luogo contiene strati e filoncelli di una sorta di
ardesia nera, simile al schiefer grauwake, che di
frequente accompagna l’arenaria di Fiesole.
Essa in tal caso sarebbe una roccia di transizione; ma non mi sono [366] mai a vero dire abbattuto di scorgere ad essa associata quella
calcaria nerastra e scintillante sotto 1’acciarino,
che va così spesso unita alla pietra serena della
Toscana, né altra roccia ho all’intorno veduto,
se non che la comunissima calcaria apennina.
Fra Tagliacozzo e le sponde del lago di Fucino
stendesi una spaziosa pianura, che offre una
delle più belle e pittoresche scene che occhio
possa mai vagheggiare, i siti montani. Una serie
di alpi a cui fanno corona deliziose colline
popolate da numerosi villaggi cinge intorno
quel piano, e le sottoposte campagne erano allora vestite di biondeggianti messi, e coperte in
parte, per quanto si stendeva lo sguardo, da un
tappeto di bianchi fiori di Pimpinella anisum, che
si coltiva in gran copia nelle campagne della
Scurcola, e i cui semi aromatici costituiscono un
lucroso ramo di commercio1 insieme col croco
che si raccoglie in molti territori, particolarmente in quello di Marliano».
ù
Il brano che segue è tratto dal Viaggio antiquario
alla villa di Orazio, a Subiaco, a Trevi, presso le
sorgenti dell’Aniene, di ANTONIO NIBBY, edito
nelle Memorie Romane di Antichità e di Belle
Arti, vol. 1882 [?], Pesaro 1827, pp. 78-81.
Si tratta di un testo curioso perché pone il tratto di
strada da Carsioli a Marrubio, riportato nella Tabula Peutingeriana, all’interno dei monti Simbruini e non secondo il noto itinerario della via
Valeria, per di più lo considera estraneo a questa
strada consolare.
«[78] [...] Ho notato di sopra che nella carta
peutingeriana è indicata questa città antica3 col
nome di Treblis, per Trebulis in ablativo, come
sovente in quella carta sono enunciati i nomi.
Dopo Treblis leggonsi in quell’itine [79] rario le
stazioni dette Carsulis, In Monte Grani, In Monte
Carbonario, Vignas, e Sublatio: la somiglianzà di
nome di questa ultima stazione con Sublaqueum
ha fatto credere che in questa parte del documento sia stato corrotto, ed io stesso prima di
visitare i luoghi inclinava ad ammettere questa
opinione; ma dopo aver veduto i siti, ho
riconosciuto che in tutto questo segmento della
carta peutingeriana, non solo è corretta la
direzione della via, ma sibbene i numeri delle
distanze, meno quella da Palestrina, o Preneste
a Trevi, e da Trevi a Carseoli. Essendo sul luogo,
mi sia lecito entrare in questa piccola digressione, tanto più interessante, che mentre dilucida
una questione di topografia, ha una relazione
stretta col viaggio del lago Fucino, del quale
tratterò nella sezione seguente. Fa di bisogno
però di premettere il segmento della carta non
alterato dalle osservazioni de’ moderni; ma tal
quale publicollo Marco Velsero, che il primo
mise alla luce questo documento importantissimo. La strada che indica è la via Prenestina
distesa fino a Marrubio, città principale de’
Marsi, sul lago Fucino, le cui rovine sono
tuttora visibili a s. Benedetto; quindi è una
strada affatto diversa dalla Valeria e dalla
Sublacense. Le stazioni sono così ordinate: XII
Gabios. XI Preneste. XI Treblis : qui sono accennate due direzioni, una a Carseoli posta sulla via
Valeria, onde si pone XV Carsuli: altra a
Marrubio, e si notano dopo Treblis VI In Monte
Grani. V In Monte Carbonario. V Vignas. V
Sublatio. VII Marubio. Ora il nodo di strade in
cui trovasi Trevi mise in gran confusione gli
eruditi che non visitarono i luoghi, e questa
confusione venne accresciuta, come ho indicato
di sopra, dal nome Sublatio, che presero per
Subiaco; quindi incerti sul modo di trarsene
fuori, conchiusero, che i nomi erano travolti.
Ma esiste una via che direttamente conduce da
Preneste a Treba; e due ne partono dopo questa
antica città per Carseoli, e per Marrubio, senza
che punto si tocchi Subiaco. La prima che è la
più corta per chi vuole andare da Roma a Trevi,
dopo Palestrina passa per Cave, l’osteria della
Bufala, s. Sebastiano, Gesù e Maria, il Piglio,
dopo di che trapassa il monte Acuto e per la
Madonna del monte discende al piano dell’Arcinazzo, e di là pel monte Carpineto discende
alla valle [80] dell’Aniene, e sale a Trevi: e
questa via conserva traccie molto visibili di
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ferma i privilegi del
vescovo di Anagni si
da appunto ad esso il
nome di Mons Granì:
et castri de Monte Grani
ecclesias: dunque la
stazione fu dove dopo
Filettino si passa la
falda di questo monte
per discendere a valle
Granara, ed ivi appunto coincidono le
sei miglia da Trevi.
Rinvenuta la stazione
In Monte Grani, facil[81] mente si trova
l’altra detta In monte
Carbonario, la quale per la distanza di cinque
miglia dalla precedente coincide colla cresta,
che oggi si appella di s. Antonio per una chiesuola diruta posta a pie di essa. Viene poi la
stazione Ad Vignas, indicata come cinque miglia
distante dalla precedente, e questa coincide
presso all’ingresso de’ campi Palentini dopo Capistrello. Alla distanza di altre sette miglia da
questo punto si nota Sublatio, nome che è stato lo
scoglio finora a ben comprendere l’andamento
di questa strada, perché venne confuso con Sublaqueum, o Subiaco: questa stazione coincide sotto Paterno, nel punto di riunione fra la via
tracciata finora, e la Valeria. Finalmente le sette
miglia che si notano da questo punto a Marrubio, oggi s. Benedetto, sono giuste. Così vengono tolte tutte le contraddizioni, e si conosce
bene l’andamento di un’antica via intermedia fra
la Prenestina, e la Valeria, che quantunque secondaria, e dovendo ad ogni costo traversare i
monti fra l’Aniene ed il Liri, seguì il corso più
regolare che fosse possibile. [...]».
ù
La notizia che segue riguarda Poggio Cinolfo, ed è
tratta da ANGELO SIGNORINI, L’archeologo nell’Abruzzo Ulteriore secondo [...], Aquila 1848, p.
87, nota a fondo pagina. Si accenna alla presenza
di una cava di marmi in questo paese, dove è noto il
dominio delle arenarie. Siamo difronte ad un errore? o abbiamo a che fare con qualche fabbricato di
epoca classica usato come cava di marmi?
essere antica. Essa però ha un corso non di
undici, ma di circa ventuno miglia da Palestrina, e perciò chiaramente si riconosce che al
trascrittore della carta sfuggì un X. Ho detto,
essere Trevi nel nodo di varie strade; infatti
oltre quella di Subiaco, che ho descritto, e l’altra
dell’Arcinazzo testé indicata, ne parte verso
Filettino un’altra, la quale poi si dirama in tre.
La prima a destra non sembra essere antica:
questa dopo aver passato le gole fra il monte
Cerasolo, e il monte Cantaro, traversa la Serra
di s. Antonio e pel villaggio detto la Meta,
raggiunge fra Canistro e Peschio Canale la valle
di Roveto, irrigata dal Liri. La seconda a sinistra
di questa suddividasi in due: quella a sinistra
conduce a Carseoli passando fra’ monti pel
campo del Ceraso, valle Bertina, Camerata, e
Rocca di Botte, seguendo il corso del fiume
Fioggio, che dopo Carseoli prende il nome di
Turano; e questo è il tronco di strada indicato
nella carta da Treblis a Carsulis come lungo XV
miglia; ma piuttosto dee leggersi XXV, tale
essendo all’incirca la distanza fra questi due
luoghi, seguendo questa strada. Rimane ora la
terza strada a destra della precedente, la quale
passa per valle Granara, la Serra di s. Antonio,
la Zoglietta, e scende pur essa, come la prima, a
raggiungere il Liri fra Canistro e Peschio Canale, donde poi rimontando il corso del Liri fino presso a Capistrello, e traversando i campi
Palentini, e il monte Penna, o Salviano, discende ad Avezzano, e di là poi per di sotto Paterno
volge all’antico Marrubio. Applichiamo a questo tronco i nomi delle stazioni e le distanze
indicate dalla carta. Dopo Trevi la prima stazione è In Monte Granì, e si pone sei miglia distante: il nome di valle Granara sarebbe un indizio per credere che gli antichi posero il nome
di Mons Grani alla punta più alta che la domina,
che è il monte Cantaro; ma v’ha di più: nella
bolla di Gregorio IX dell’anno 1337, che con-
«[…] Il Velino di Magliano co’suoi profondi
dirupi ed ossidi metallici, ci assicura delle sue
miniere anche d’oro, [...] In Ocre si rinviene il
travertino. Il Pico di Lecce, le montagne del
Curcurmello, del Tino, di Gioja, del Tufo, di
Ricetto hanno delle vene di carbon fossile. Morino di Valleroveto è noto per le sue miniere di
ferro; ed in Poggiocinolfo si cavano de’ marmi
bianchi appartenenti alla famiglia degli alabastri; [...]».
In alto a sinistra:
parte della Tabula
Peutingeriana con il
percorso discusso da
Nibby segnato dalle
frecce;
Sopra: frontespizio
del volume
contenente la notizia
su Poggio Cinolfo di
Carsoli
Lumen
19
Ristampa
La leggenda della
Madonna dei
Bisognosi in una
operetta teatrale
da P. Gaspare Paolo Forcina
I
Sopra: foto di Padre
Gaspare Paolo
Forcina
La segnalazione e le note
biografiche sono di P.
Nardecchia
20
Lumen
l P. Gaspare Paolo Forcina, nato a
Formia (LT) nel 1904, entrò nell’ordine
francescano nel 1923 quando era già
un abile carrettiere e fu ordinato sacerdote nel 1932. Ereditò un profondo amore a
san Francesco e alle opere francescane ed, esercitato per qualche tempo l’ufficio di Guardiano
in due conventi abruzzesi, si lanciò con il suo
forte temperamento alla predicazione semplice, vibrante e chiara, ricca di immagini e di episodi, entrando a contatto con ogni categoria di
persone.
Oltre che in Abruzzo, dove dal 1939 fu nominato Prefetto della Congregazione dei Missionari
Indigeni, tenne corsi di Sante Missioni e predicazione varia nel Lazio, in Campania, in Sicilia, nelle Marche e in Emilia. Il suo zelo lo portò anche a raggiungere i nostri emigrati in
Svizzera, in Germania, in Belgio e in Francia,
prima servendosi del carrettino, poi della bicicletta e di una modesta vettura, infine della sua
“autocappella”, un carro trasformato dal suo
ingegno in una cella ambulante, raggiungendo
in tal modo anche i luoghi impervi sui monti e
nelle campagne. Così lo ricorda il confratello P.
Benedetto Fedele (Nel XXV di un sacerdozio.
Ricordi ed esperienze, Napoli 1957, specie pp. 38,
42, 75): Con una volontà sempre ferma ed entusiasta,
noncurante delle difficoltà di ogni genere, si scriveva
dalla prima all’ultima parola i sermoni, che poi mandava letteralmente a memoria. (…) I suoi non erano
aridi e accademici sermoni, ma istruzioni catechistiche, apologetiche e agiografiche, illustrate quasi sempre da quadri a colori, proiettati sullo schermo mediante apposito obbiettivo luminoso. Convinto infatti della potenza dei vari mezzi di comunicazione
sociale, potenziò la sua attività anche con altoparlanti e dischi sonori. Su e giù per monti e per
piani, per valli e colline, per paesi e città, dappertutto,
nelle piazze e nei teatri, nelle vie e nelle case, negli
ospedali, nelle carceri e negli istituti filantropici, nelle
scuole e nelle chiese, egli portò la parola evangelica, il
conforto morale e materiale, la letizia francescana.
Trovò anche il tempo di scrivere una quarantina di opuscoli per lo più agiografici, prediligen-
Ristampiamo un’operetta teatrale del
francescano p. Gaspare Paolo
Forcina sulla leggenda di fondazione
del santuario della Madonna dei
Bisognosi.
La biografia dell’autore è liberamente
tratta da articoli pubblicati sul
bollettino Voce del Santuario (1970, I,
fasc. 1, p. 9; 1973, III, fasc. 9, p. 1;
1975, VI, fasc. 21, p. 15).
do i drammi sacri dialogati, che lasciavano una
forte impronta sull’intelligenza e sulla fantasia,
allietavano gli occhi e lo spirito, disponevano
soavemente le anime ad accogliere il seme della verità.
Tra un atto e l’altro, P. Gaspare saliva sul palco e
distribuiva al popolo già preparato il succo praticomorale-religioso dell’azione drammatica che si stava
svolgendo sotto i loro occhi incantati. Per noi è interessante il testo relativo alla leggenda di fondazione del santuario della Madonna dei Bisognosi, pubblicato sia in monografia sia a puntate nel 1970-71 sul relativo bollettino “Voce del
Santuario”, da lui diretto per sei anni. Dal 1969
infatti, col beneplacito dei Superiori, era passato a custodire questo antichissimo luogo di culto posto tra Pereto e Rocca di Botte, subentrando a p. Doroteo Bertoldi, che era stato per 40
anni zelante ed amato rettore, ormai trasferito
nella casa di riposo a Celano.
Per tenere inoltre desto il ricordo e accesa la
fede verso il santuario mariano della piana del
Cavaliere, rinomato in un’amplissima area geografica, P. Gaspare fece incidere anche un disco
sonoro, forse ancora conservato in qualche nostra casa. Venne anche profondamente colpito
dalla fede e dalla devozione delle buone popolazioni locali e fu lieto di prestare di tanto in
tanto servizio nelle parrocchie della zona. Morì
nell’agosto del 1975.
Degno di nota è anche l’incarico ricevuto dai
suoi superiori, dal vescovo di L’Aquila e dal
papa Pio XII, di organizzare e condurre nel
1953-54, con l’aiuto di alcuni confratelli, la Peregrinatio Mariae nell’arcidiocesi dell’Aquila, una
processione che toccò tutte le parrocchie urbane e suburbane di quel vasto territorio per suscitare la fede e spronare ad una più cosciente e generosa
pratica di vita cristiana l’intera popolazione, evento concomitante con le celebrazioni per il primo
centenario della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (vd. Il trionfo della
Madonna Pellegrina …, L’Aquila 1954).
Ancor prima però, nell’Anno Santo 1950, accompagnò in processione la statua della Vergine Santissima dei Bisognosi per le città e i
paesi della forania di Carsoli, evento così
commentato dall’allora parroco di Carsoli d.
Antonio Rosa (“Voce del Santuario”, 1999,
XXV, fasc. 92, pp. 7-8): Chi può raccontare le
preghiere, i canti, le veglie che tutti i fedeli tributarono in quell’occasione? La tristezza della guerra
appena conclusa, con i lutti, le rovine, i dolori, gli
stenti, le difficoltà della ricostruzione furono la
causa dirompente di un’esplosione di fede, di speranza, di gioia per tanto tempo prima distrutta dagli
eventi bellici e poi compressa dalle tristi conseguenze. In quel momento apparve evidente il singolare
titolo col quale si fregia la Madonna e cioè “dei
Bisognosi”.
PRIMO TEMPO
Filiale amore di Fausto per Maria Santissima
Scena prima: Fausto e Procopio
Fausto. Figlio, come stai? Come da queste parti?
Tua mamma dov’è?
Procopio. Sta ritornando a casa per l’altra strada. Impauriti per la forte tempesta siamo andati in Chiesa a raccomandare te e noi alla Madonna dei Bisognosi.
Faus. Bene. Io vado a ringraziarLa.
Proc. Hai vissuto momenti pericolosi anche tu?
Faus. Altroché! Ero con i compagni d’armi sul
naviglio per arginare l’avanzata dei Saraceni,
ed è mancato poco che la terribile bufera non ci
inghiottisse nei suoi spaventosi gorghi.
Proc. E ti sei gettato in mare?!
Faus. No, figlio; ho invocato la Madonna dei Bisognosi e Lei mi è apparsa e mi ha detto: «Tornate indietro, fedeli miei, poiché non potrete
oggi resistere all’impeto dei Saraceni». Ciò detto, Lei è scomparsa e la tempesta è cessata.
Proc. E vi siete messi in salvo tutti!
Faus. Per nulla. Il Generale non ha voluto credere all’apparizione e mi ha definito uomo vile
e visionario. Però, la sua incredulità ci è costata
cara! I Saraceni hanno riportato vittoria e molti
siamo stati fatti prigionieri; e... se sapessi...
quante sofferenze...!
Proc. Papà, ed ora come ti trovi qui, chi ti ha liberato?
Faus. La Madonna in persona!
Proc. Davvero!
Faus. Le ho detto piangendo: «Madre dei Bisognosi, soccorri alle mie necessità, salva il povero
e indegno Tuo servo».
Proc. Ed è venuta personalmente a liberarti?
Papa, sei un prediletto di Maria Santissima dei
Bisognosi!
Faus. Bontà del suo Cuore materno. Io vado a
ringraziarLa; tu, intanto, pensa come beneficare i poveri con quanto la Provvidenza ha messo
a nostra disposizione.
(esce)
Scena seconda: Procopio ed Ebreo
Proc. (passeggia e riflette). Il mio caro Papà è proprio devoto
della Madonna dei Bisognosi! Quale atto di
riconoscenza, per aver
avuto da Lei salva la
vita, ora vuole dare ai
poveri quanto abbiamo... Lo aiuterò ben
volentieri e la Celeste
Mamma, sono certo,
proteggerà anche me.
E b re o ( e n t r a n d o )
Buon giorno; ma, tuo
padre è impazzito?
Faus. Ma..., che dici,
Ebreo?
Ebreo Va per le vie offrendo denaro ai poveri e a
coloro che hanno bisogno di indumenti ed altri
oggetti, dice: Venite a casa mia, vi è provvidenza
per tutti... Sicuramente è malato di testa!
Proc. No, mio Signore, è beneficenza che fa in
ringraziamento alla Madonna dei Bisognosi
per averlo salvato da terribile sicura morte.
Ebreo Fissazione anche questa.
Proc. No, caro; è fissazione la tua che non vuoi
appartenere alla nostra unica vera santa religione, il cristianesimo.
Ebreo Io credo solo a quello che vedo; se la vostra Madonna veramente esiste, perché non si
lascia vedere anche da me?
Proc. Lo dirò a babbo e, sono certo, ti otterrà
una tanta grazia.
Ebreo Ci spero poco; ad ogni modo, diglielo
(guardando fuori). Ma, quegli non è tuo padre?
Proc. È lui, è lui, vado ad incontrarlo, (esce, l’ebreo
attende per salutare Fausto che subito entra).
Scena terza: Ebreo, Fausto e Voce
Ebreo (dandogli la mano) Oh Fausto, ho sentito
delle tue fortunose avventure, congratulazioni!
Faus. Avventure? Dì, piuttosto, pericoli di sicura
morte. Ora, però, ho bisogno di te, mi aiuti?
Ebreo In che cosa posso esserti utile?
Faus. Mi trovo nella più squallida miseria. Dovresti prestarmi una sommetta per poter
esercitare una qualsiasi lecita industria allo scopo di provvedere pane e vestiti per me e per i
miei cari.
Ebreo Volentieri; ma chi si renderà garante della restituzione? Tu hai la mania di dare tutto ai
poveri.
Sopra: la statua della
Madonna dei
Bisognosi prima del
restauro;
sotto: copertina del
testo teatrale
stampato a L’Aquila
nel 1971
Lumen
21
Faus. Prometterà per me la Protettrice Santa
Maria dei Bisognosi.
Ebreo (esplode in risata) Questa è bella. Se tu non
mi restituirai la somma, io reclamerò alla tua
Protettrice e la chiamerò in giudizio... Proprio
non mi sono sbagliato a giudicarti malato di testa.
Faus. No, caro, posso assicurarti che proprio
Lei, la buona Madonna dei Bisognosi, mi ha
detto: «Domanda all’Ebreo la somma che ti occorre ed offrigli la mia garanzia». Non mi accontenti?
Ebreo Quanto mi dici mi fa piacere, ma ho
ancora dei dubbi...
Faus. (congiunge le mani e prega) Mamma buona, l’amico a cui hai voluto che mi rivolgessi, vorrebbe favorirmi, vuole, però, sicura garanzia.
Voce Da pure francamente al caro Fausto quanto ti ha chiesto in prestito, perché io prometto
per lui, che ti restituirà sicuramente, nello spazio di un anno, il capitale e i frutti.
Ebreo Quando è così, ecco la somma, (tira di tasca
il portamonete e consegna la somma, mentre
dentro e fuori dal palco esplode un canto).
Evviva Maria
Degli abbisognosi,
Che gli occhi pietosi
Su tutti posò.
La storia ci narra
Che v’era in Siviglia
Devota famiglia
Che il Cielo esaltò.
Evviva ecc.
Or questa famiglia
A un bel simulacro
In tempio a Dio sacro
Ognor si recò.
Evviva ecc.
Si accese la guerra
Tra Turco e Cristiano,
L’iniquo Pagano
Vittoria portò.
Evviva ecc.
E Fausto allora
Fu fatto prigione:
Ei fece orazione,
Maria lo salvò.
Evviva ecc.
Con grande contento
Ritorna a Siviglia,
La buona famiglia
Maria ringraziò.
Evviva ecc.
Si fece a un ebreo
Dell’oro imprestare,
Col figlio pel mare
La vela spiegò.
Evviva ecc.
22
Lumen
SECONDO TEMPO
Amorosa fiducia di Fausto verso Maria Santissima
Scena prima: Ebreo, poi Saverio
Ebreo (entra con una cassetta tra le braccia)
Questa cassetta galleggiante nel mare, ha attirato la mia attenzione, incuriosito sono andato
a prenderla. Fatto strano, veniva proprio verso
di me. Cosa contiene? (l’apre) Uh, quanti soldi!
E questa lettera? (legge) «Mia cara Madonna
dei Bisognosi, essendo per scadere il tempo fissato per la restituzione della somma che l’Ebreo
mi prestò, dietro Tua garanzia , e nella impossibilità, almeno per ora, del mio ritorno in Siviglia, affido la somma chiusa in questa cassetta
alle onde del mare. Tu, o Mamma, tanto buona,
gliela farai giungere». (chiudendo la cassetta)
Ho capito, sono frutto del mio sudore, la moneta che prestai a Fausto; posso prenderla e
nasconderla dove voglio e senza scrupoli.
(mentre sta per uscire entra Saverio)
Saverio Buon giorno, amico, dove vai? Che
notizie abbiamo da Fausto? vero che è di ritorno? Poverino, prima di partire gli morì la moglie Elfusia, devotissima della Madonna come
lui; ora, dove è andato in cerca di fortuna, pare
gli sia morto anche il figlio Procopio.
Ebreo (ironico) Fausto non si perde di animo, c’è
la Madonna dei Bisognosi che lo protegge.
Saver. Ed è vero.
Ebreo S’immagini, lo dice lui! (esce)
Scena seconda: Saverio e Fausto
Saver. (guardando fuori) O Fausto, vieni vieni,
(quegli entra e si danno la mano) Tutto bene?
Faus. Meglio non parlarne. Economicamente le
cose non sono andate male, tanto che, a tempo
giusto, ho potuto restituire all’Ebreo la somma
prestatami e gli interessi maturati.
Saver. Procopio, intanto, non è tornato!
Faus. E neanche tornerà. (si commuove) Il viaggiò di andata è stato terribilmente avventuroso:
la nave, sospinta da vento contrario, invece di
proseguire per Levante, si è diretta verso il mare Ionio, si è immessa nell’Adriatico e ci ha costretti ad approdare nelle Puglie.
Saver. E Procopio è rimasto lì?
Faus. Volesse il cielo! Nel ritorno, dopo appena
un giorno di navigazione, si è scatenata altra furente tempesta e la nave, in procinto di sommergersi, ci ha scaraventati tutti nel mare.
Saver. Ed è perito il povero Procopio.
Faus. No. La Madonna dei Bisognosi, alla quale
mi raccomandai affranto dal dolore, mi ha
assicurato che lo rivedrò.
Saver. E quando? Dove?
Faus. (tirando di tasca un foglio) Ho scritto le
sue parole, per non dimenticarle e sia per mo-
strarle a quanti vorranno aiutarmi nella impresa che la buona Mamma vuole affidarmi.
(legge) «Fausto, io ti consolerò, di quanto tu mi
hai domandato, dopo lo spazio di molti mesi;
ma voglio che tu mi prometta, tornato che sarai
in patria, di levare l’immagine mia dalla chiesa
che tu sai e portarla in Italia, precisamente in
Abruzzo. Ivi giunto, la collocherai nella sommità di un monte detto Carsoli, perché in quei
paesi dove tu sei nato ed io sono stata venerata
sotto il nome di Maria dei Bisognosi, andranno
i Saraceni e deprederanno e profaneranno
templi ed edifici cristiani. Quando poi sarai
giunto con la mia Immagine sul monte Carsoli,
troverai ivi tuo figlio Procopio sano e salvo».
Saver. Farai tutto questo?
Faus. L’ho promesso e sono certo che la Celeste
e cara Madre mi aiuterà.
Saver. Ed io potrò esserti di aiuto e compagno di
viaggio?
Faus. Senz’altro, partiremo al più presto.
Saver. Intanto vado a casa e torno subito. (uscendo) Ecco l’Ebreo; verrà a congratularsi per
il tuo ritorno.
Faus. Ed a notificarmi la recezione della somma
prestatami.
Scena terza: Fausto, Ebreo e Voce
Ebreo Caro Fausto, ben tornato e felice; e lunga
permanenza fra noi. Hai forse, la possibilità di
restituirmi la sommetta che ti prestai? Il tempo
che fissammo per la restituzione pare sia scaduto già da mesi.
Faus. Mi meraviglio! Non l’hai ricevuta tramite
Maria Santissima dei Bisognosi alla quale spedii
tutto, capitale e interessi, entro una cassetta che
affidai alle onde del mare?
Ebreo (con alterigia) Tu, o cristiano, vuoi vendermi sogni a buon mercato: io niente ho ricevuto, devi darmi, fino all’ultimo centesimo,
capitale prestato ed interessi pattuiti.
Faus. Ma... Domando alla Madonna: (a mani
giunte) Mamma buona, non è giunta la moneta
che ti spedii per questo mio creditore?
Voce Iniquo Ebreo, come puoi tu negare di aver
ricevuto da Fausto, mio devoto, la moneta imprestatagli con mia sicurtà e i frutti di essa, se dentro
la tua grande casa, giù nel fondo, ora vi è la cassetta medesima, della quale Fausto ha narrato
quello che tu hai udito, con quella moneta presa
da te al lido del mare, vicino la tua villa, ed è a me
indirizzata, acciò per mano mia la ricevessi come
sicurtà di esso Fausto? Taci, bugiardo!
Ebreo (cadendo in ginocchio e piangendo) Perdonami, o Fausto; e, per amore a Maria Santissima dei Bisognosi, preparami a ricevere il santo
Battesimo e ascrivimi tra il numero dei devoti che
ti aiuteranno a portare nell’Abruzzo la sacra
Immagine.
Faus. Questa tua conversione è segno della
predilezione della Madonna anche per te.
Senz’altro sarai mio
compagno nel sottrarre al vandalismo dei Saraceni l’immagine di
Maria Santissima dei
Bisognosi. La porteremo dove Lei ci condurrà; e Le terremo compagnia per tutta la vita.
Ebreo E guai a chi vorrà
toccarcela! Eleviamole
un inno di filiale riconoscenza (dentro e
fuori del palco tutti
cantano).
Evviva Maria
Degli abbisognosi,
Che gli occhi pietosi
Su tutti posò.
Voleva l’iniquo
La somma negare,
Che l’onda del mare
Ad esso recò.
Evviva ecc.
E Fausto allora
Al tempio s’invia
Ricorre a Maria
Che tutto svelò.
Evviva ecc.
Intanto l’Ebreo,
Del fatto pentito,
Si die convertito,
La fede abbracciò.
Evviva ecc.
O Fausto caro,
Poi dice Maria,
Portatemi via
Qui più non starò.
Evviva ecc.
Sul monte Carsoli
Portatemi a volo,
Il vostro figliuolo
Trovar vi farò.
Evviva ecc.
TERZO TEMPO
Eroismo di Fausto e compagni per amore di Maria
Santissima.
Scena prima: Fausto e Procopio
Proc. (abbracciandosi con Fausto) Oh, Papà, che
sorpresa!
Sopra: il volto della
Madonna dei
Bisognosi dopo il
restauro e la
rimozione delle
parti eccedenti
Lumen
23
Faus. Lo sapevo che ti avrei incontrato, me lo
aveva assicurato la Madonna. Hai attraversato
momenti brutti, non è vero?
Proc. Per il momento meglio non parlarne; tu
come ti trovi qui?
Faus. Insieme ad altri devoti abbiamo portato
da Siviglia la Statua della Madonna dei Bisognosi.
Proc. E i Sivigliani l’hanno lasciata portar via?
Faus. L’abbiamo presa e caricata su di un naviglio all’insaputa di tutti. Immessici nel mar
Ionio, siamo usciti nell’Adriatico e siamo sbarcati a Francavilla a Mare.
Proc. E qui sopra come l’avete portata?
Faus. È un vero miracolo. A Francavilla l’abbiamo caricata sul dorso di una mula indomita e,
non sapendo la via per giungere in questa
località, ci siamo affidati alla protezione della
Vergine Madre di Dio.
Proc. Ed ora i tuoi compagni dove sono? E la
bestia?
Faus. La bestia è stata seppellita perché, appena
giunta in questa altura, si è accasciata ed è
morta. Già un duecento metri innanzi era caduta ginocchioni lasciando addirittura impressa nella pietra l’orma del ginocchio. I miei compagni vanno in giro studiando quale potrà essere il luogo più adatto per costruirvi una cappella alla Madonna dei Bisognosi.
Proc. Papà, il posto per la Cappella è quello dove la mula è morta. Me lo ha precisato la stessa
Santa Vergine che poc’anzi è partita da me.
Faus. Se è così, li vado a cercare onde tu possa
salutarli e felicitarli; poi mi trattengo alquanto
in visita alla cara Immagine.
Scena seconda: Procopio, Ebreo, Saverio
Proc. (guarda lontano) Che panorama bellissimo si ammira da questa altura; quanti paesi alle
falde dei monti circostanti; la Madonna non
poteva scegliere luogo più incantevole!
Ebreo (entrando) Finalmente ci siamo incontrati! (si danno la mano)
Saver. Hai saputo dello scopo della nostra
venuta in questo luogo? Rimarrai con noi a tenere compagnia alla Madonna dei Bisognosi?
Proc. Certo. Col tempo, e mediante il Materno
aiuto di Maria, qui faremo un grande Santuario
e chiameremo fedeli da ogni parte ad onorare e
domandare grazie alla Madonna dei Bisognosi.
Ebreo A me sembra già essersi realizzato un
grande miracolo. Questo monte, quando noi lo
abbiamo scalato, era arido e brullo, guardate ora,
è tutto ricoperto di arbusti, di erbe, di fiori...
Proc. Sì, sì, è vero.
Saver. Che meraviglia!
Ebreo Vado in cerca di Fausto. (mentre sta per
uscire) Oh, ecco che viene.
24
Lumen
Scena terza: Fausto e detti
Proc. (a Fausto che entra) Papà, guarda che
meraviglioso panorama!
Faus. Figlio e amici cari, non vi può essere alcun
dubbio, la Madonna dei Bisognosi vuole rimanere proprio in questa località. La notizia della
sua presenza in questo monte già si è divulgata.
Molti, infatti, si preparano a venirla a visitare.
Per amor suo i cittadini di Pereto e di Rocca di
Botte, da anni in disaccordo tra loro, hanno
deposto ogni rancore ed hanno fatto pace.
Saver. Ho sentito dire che il luogo dove è caduta
la mula, e nel quale sorgerà la Cappella, segnerà i confini d’ambo i paesi.
Ebreo. Non solo, diverse popolazioni, vicine e
lontane, stanno organizzandosi per venirci ad
aiutare nella costruzione della Cappella per la
cara Madonna dei Bisognosi e delle abitazioni
per noi che ne vogliamo essere i custodi.
Saver. Non sapete l’ultima? Papa Bonifacio IV,
nativo di queste zone e Pontefice solo da due
anni, cioè dal 608, avuto notizia dell’arrivo in
questo luogo della Sacra Immagine e, guarito
istantaneamente da malattia dichiarata inguaribile dai medici, ha deciso di venire in pellegrinaggio con tutta la Corte Pontificia e quanti sacerdoti e fedeli vorranno seguirlo.
Faus. Sarà un avvenimento straordinario e,
penso, il Santo Padre arricchirà di sante indulgenze questo luogo e lascerà offerte e disposizioni per l’ampliamento della fabbrica.
Proc. Pare di aver sentito che porterà processionalmente un grande Crocifisso ligneo e lo lascerà in dono a noi custodi della Madonna dei
Bisognosi.
Faus. Ottimamente, festeggiamo, cantiamo.
Tutti.
Evviva Maria
Degli abbisognosi,
Che gli occhi pietosi
su tutti posò.
E poi che è tra noi
La Madre beata,
La nostra avvocata
Per sempre sarà.
Evviva ecc...
A tutti fe’ grazie
Di notte e di giorno
Da lungi e d’intorno
A chi l’invocò.
Evviva ecc...
Noi pure, dolenti,
Davanti al tuo trono,
Chiediamo perdono,
Chiediamo pietà.
Evviva ecc...
Ristampa
Le prime
escursioni sui
monti di Pereto,
Camerata Nuova e
Carsoli (1888-1891)
I brani che seguono sono tratti da
Escursioni in Abruzzo, parte I, di
Ignazio Carlo Gavini, socio della
sezione romana del C.A.I., editi nel
1892, pp. 5-8.
Si parla delle prime escursioni
alpinistiche fatte sui nostri monti
dopo la costruzione della ferrovia
Roma-Sulmona.
da Ignazio Carlo Gavini
L
’autore, dopo aver descritto l’orografia
del confine laziale-abruzzese nel tratto
da monte Viglio ai monti Carsolani,
individua quattro itinerari
escursionistici descritti con cura.
«[5]
1) In Camerata fummo
gentilmente ospitati dal
nostro amico Crispino David, segretario comunale,
che però ha lasciato da
qualche tempo Camerata.
Ad ogni modo rivolgendosi
alle autorità si trova da
dormire presso gentilissime famiglie. Per guide, o
meglio portatori, sono
consigliabili Ciolli Luigi e
Lozzi Antonio.
Sopra: frontespizio
dell’opera;
sotto: l’ex osteria del
Cavaliere
PRIMA GIOGAIA
Monte Serra Secca (1.793 m.). La ferrovia che da
Roma va a Solmona, dopo aver percorso gran
parte della valle dell’Aniene, uscendo dalla
provincia di Roma, attraversa il Piano del Cavaliere (615 m.), dove sembra si riposi delle forti
pendenze superate. Il viaggiatore, che fin qui ha
oltrepassato montagne brulle e scoscese, alla vista
di quel piano, in gran parte coltivato, dalle cui
zolle spira la fecondità, prova un sentimento di
pace e di riposo, ma l’alpinista spinge lo sguardo
verso i monti che circondano l’altopiano e sente il
bisogno di salire e di conoscerli.
Filippo Ugolini, il nostro caro amico e collega,
rapito così presto al nostro affetto, fu il primo
dei nostri soci che salì e descrisse queste montagne, invogliando la nostra Sezione a promuovere gite sociali in quella regione, di cui aveva
riportato splendide fotografie; [6] infatti la
Serra Secca d’estate e d’inverno fu salita da
molti giovani, attratti dalla novità. Per chi
proviene da Roma, la Serra Secca è la prima
montagna a destra che si distingue per la sua
forma a pareti regolari e la cresta poco incurva-
ta; infatti la sua regolarità è visibile anche dal
Gianicolo da cui nell’inverno ho avuto campo
di osservare il versante S-0 quasi senza interruzione ricoperto di un bianco lenzuolo di neve.
La montagna in sulle prime potrebbe sembrar
monotona specialmente per chi ne giudichi
dall’aspetto che presenta in una pianta topografica, ma se ciò credo possibile si effettui
ascendendola d’estate, quando l’ammanto di
neve è scomparso, assolutamente credo impossibile d’inverno, quando anzi presenta una piacevole e variata salita.
Però d’inverno bisognerà scegliere le giornate
favorevoli per il buono stato della neve, acciò
non avvenga di affondare troppo, come accadde ai due colleghi Perelli e Fasoli, che il 14 dicembre 1890, arrivando sulla vetta, se non dettero prova di valentia, certamente provarono la
loro robustezza e perseveranza.
La Serra Secca si eleva sul Piano del Cavaliere
tra Pereto e Camerata Nuova in due versanti
regolarissimi ed ha la cresta, che comincia dal
convento di S. Maria dei Bisognosi (1040 m.), lievemente inclinata fino alla vetta, da cui poi
seguita per due chilometri in linea retta fino
alla cima di Vallevona, che è di pochi metri
superiore (1803 m.). Al di là scende subito la
montagna perdendo ogni forma e confondendosi con vari monticelli di nessuna importanza.
L’esser poco boscosa dà una certa allegria a
questo monte, la cui ascensione può dirsi davvero una passeggiata, e infatti noi partimmo da
Camerata Nuova (810 m.) (1) il 1° marzo 1891,
alle 7,10 antimeridiane, e con tutta la neve, dura
al punto da dover scavare parecchi gradini, alle
10,40 ci trovammo in cima. Eravamo in undici
soci e forse alcuno di questi, leggendo queste mie
note, ricorderà quanto fu divertente la salita, con
la neve così buona, in una giornata veramente
splendida, e con quanto entusiasmo fu salutato il
panorama che è dei più belli. La cresta c’invitava
a correre laggiù verso la Vallevona, ma vi rinunciammo per la ristrettezza delle ore.
Tranne la pianura del Cavaliere non si vedevano da ogni parte [7] che monti coi loro pennacLumen
25
convento e tenere l’unica strada fatta da noi in
discesa (4).
SECONDA GIOGAIA
2) Questo nome è una vera
ironia, giacché in questo
eremo tutto si conosce,
fuorché l'ospitalità.
3) Presso la stazione di
Cavaliere nella borgata omonima si trova un'osteria
dove c'è sempre qualche
cosa da mangiare; avvisando prima si può avere anche un discreto desinare.
4) Per le note su Pereto
vedi appresso nel capitolo
Fontecellese e Midia.
Sopra: carta degli
itinerari
26
Lumen
chi di neve sorgenti dalle valli nere e boscose.
Non ci pareva di star sopra una cima; sembrava
quella una tappa di una passeggiata che dovesse durare per giorni intieri attraverso quel mare inesauribile di boschi, di creste e di valli. Il
Pellecchia, il Gennaro, il Guadagnolo, il Costasele, l’Autore vicinissimo, il Tarino, il Camiciola,
il Midia, il Velino e tanti altri sembravano tutti
legati e ravvicinati in un accordo perché la nostra marcia continuasse ancora, mentre altre
cime indietro ad essi erano lì pronte a sbucar
fuori appena fossimo saliti più in alto. Ma torniamo alla narrazione.
Lasciammo la vetta alle 12¼ e scendemmo al
convento di S. M. dei Bisognosi (2), dove eravamo alle 3 pom., dopo aver seguito un sentiero incertissimo che costeggia la cresta boscosa e dirupata sul fianco S-0. Qui la neve era
appena terminata che cominciò il ghiaccio ad
attirare le nostre maledizioni, rendendo quasi
impraticabile la ripida mulattiera che scende a
Pereto. Di qui ci recammo alla stazione di Cavaliere, per pranzare ed aspettare il treno, impiegando in tutto dal convento 2 ore e ¼ (3).
Per la discesa dal convento si può prendere
anche un’altra mulattiera che scende forse più
direttamente a Cavaliere e che si ricongiunge
con la nuova carrozzabile di Rocca di Botte; ma
credo s’impieghi presso a poco lo stesso tempo.
L’ascensione della Serra Secca si può effettuare
anche da Pereto; converrà perciò salire al
Monte Fontecellese (1626 m.) e monte Midia
(1738 m.) Anche questa giogaia comincia sul
Piano del Cavaliere e sulla valle Carseolana: la
prima cima di qualche importanza è il Fontecellese che scende con la sua base su Pereto,
Carsoli e Colli. Specialmente nel tratto di ferrovia, che precede la galleria di Monte Bove, il
versante setten [8] trionale del Fontecellese appare imponente e selvaggio con i suoi faggeti, mentre il versante opposto, molto meno esteso, termina nel vallone Oppieto. Si potrà salire questo
monte da Roccacerro e da Colli per il versante N;
da Carsoli o Pereto per il versante S, perché ad
ogni modo è utile prendere la mulattiera che
mette in comunicazione Pereto con Roccacerro e
che sale fino alla cresta presso il monte Faito, altra
cima di questa giogaia.
Il Midia, continuazione del Fontecellese, è una
cima molto più importante ed è conosciuta da tutti
i montanari dei paesi vicini perché dicono che vi si
veda Roma; ha dei magnifici pascoli sopra i 1472
m. che rendono variata e comoda la salita.
Il compianto Filippo Ugolini, l’11 novembre
1888, fece un’escursione a questi due monti
smontando a Cavaliere e passando per Pereto
da cui salì le due cime. Questo itinerario merita
di essere riprodotto perché ci ricorda di quale
resistenza egli fosse dotato e quanto fosse esatto
nelle sue note:
11 novembre 1888
CAVALIERE-PERETO-FONTECELLESEMIDIA-PERETO-CAVALIERE
Partenza da Roma (in ritardo) ore 7 a.
Cavaliere
10,30
Pereto (per la campagna fino al primo ponte)
11,30
Partenza
11,45
Fontana Cellese
1,15 p.
Vetta Fontecellese
1,30
Fonte Ammazzacani
2,10
Vetta Midia
3,30
Capanna o Campo Secco
4, 30
Partenza
5
Pereto
6
Partenza
6,30
Cavaliere
7,30
Partenza (in ritardo)
9,15
Roma
12,25
Itinerario possibile in due o tre persone.
N. B. L’escursione riesce comodissima fatta in
un giorno e mezzo. In un giorno con comodo si
può fare l’escursione al solo monte Fontecellese
che è interessante o al solo Midia dalla parte di
Campo Secco. Il gruppo è bello e variato. Il panorama sui due monti molto esteso.
Guida raccomandabile, Francesco Vendetta,
ex-bersagliere, pratico dei monti, chiamati da
esso e dai pastori con differenti nomi. L. 2,50 al
giorno.
Per mangiare o per dormire (a Pereto) in due o
tre persone, da Michele Prassede, all’ingresso
del paese (poco raccomandabile).
Per molti, portare le provviste, e scrivere a F.
Vendetta per l’alloggio in diverse case particolari ed i comodi per cucinare e mangiare.
Senonché dovendo far la gita in un giorno da
Roma non torna mai conto smontare al Cavaliere per la enorme distanza e si deve preferire la
salita dalla parte di Colli e del Colle del Vento
perché più breve. Volendo poi far la gita in un
giorno e mezzo converrà sempre pernottare a
Carsoli dove si starà molto meglio che a Pereto.
La salita di monte Midia da Tagliacozzo riesce
divertentissima e comoda tanto che noi l’effettuammo in mezza giornata.
La mattina del 12 agosto 1891 Voltan ed io
partivamo alle 5,45 e ci recavamo a Roccacerro,
seguendo la tortuosa carrozzabile che gira sotto
il paese per valicare il colle del Vento, antico
passaggio della via Valeria. Giunti alle 7,15
facemmo colazione nella minuscola osteria di
Felicita Bianconi, dove quattro versi, scritti
come un epitaffio, avvertono di far prima i conti
con la saccoccia, e sono:
Per giuramento stabile / Di questa permanenza / Pubblico rispettabile / Giammai si fa credenza.
Mi sarebbe piaciuto di veder giurare quella
«permanenza» e m’immagino già quanto solenne dev’essere stato il momento fatale per gli
scrocconi!
Quest’osteria però, come l’alpinismo, ha finito
il suo periodo eroico ed ora vive sugli allori. Oh!
Davvero quelli erano i bei tempi, esclamava la
vecchia ostessa, quando passavano di qui le
vetture (5), prima che la ferrovia venisse a
rovinarci! Tutti di qui dovean passare, non c’era
scampo; e so io quanti signori ho fatto riscaldare a questo camino !
Procurammo di far capire alla vecchia come i
portati della civiltà rechino sempre danno a
qualcuno, e ripartimmo accompagnati dal signor Antonio Jacomini, che gentilmente si era
offerto a farci da guida sul Midia (ore 8,25).
Due mulattiere partono da Roccacerro e salgono ai pascoli, una a S del paese ed è quella che
generalmente seguono i muli che portano la legna a Tagliacozzo; l’altra più a N, verso il Colle
del Vento, preferibile per chi va a piedi. Ambedue queste strade si vedono benissimo dal paese.
Però il nostro duce, che conosce palmo a palmo
la sua montagna, ci fece salire per un sentiero
invisibile per la piccola macchia che lo ricopre e
che ci divertì assai esigendo una vera ginnastica
di braccia e di gambe. Basti dire che questo ripidissimo sentiero da capre sale direttamente
300 m. di dislivello, onde in un momento fummo ai pascoli. Qui si vede il cocuzzolo tondeggiante e boscoso del Midia sporgere fuori da
una serie di collinette, in gran parte ricoperte di
macchia, e la strada diviene deliziosa al punto
che ci sembra di camminare per una villa.
Brevi praticelli offrono tappeti ricchissimi di
folta erbetta sparsi di qualche ciottolone, subito
smosso dal mio entomologo amico; poi sentieruoli graziosi attraverso fitti boschetti, dove il
sole non penetra mai, e più su altissimi faggi che
tappezzano le loro radici con uno spesso strato
di foglie morte, le quali rendono meno sicuro il
passo. Il sentiero ci conduce in cresta, ma si
perde ed allora nel fittissimo bosco ci dirigiamo
verso la cima che non è molto lontana; infatti gli
alberi finiscono ed il cucuzzolo petroso apparisce con nostra soddisfazione pochi metri più su
(ore 10,20).
Non avremmo creduto mai che un panorama
così completo si potesse ammirare da questa
cima! Il nostro sguardo si volge impaziente ad
O verso Roma, di cui vediamo la pianura
aprirsi fra i Lucani, i Prenestini e i colli Albani;
siamo però persuasi che in giornate molto
limpide si possa vedere il caput mundi ed un bel
tratto del Tirreno. Volgendo a N sullo sfondo
appena visibile appariscono i Sabatini col lago
di Bracciano, quindi il Soratte ed il Cimino. Il
monte Navegna, il Terminillo e il gruppo dei
monti di Tornimparte chiudono la visuale a N;
quindi il Gran Sasso sbuca fuori alla sinistra del
Velino che s’innalza vicinissimo nella sua
imponenza. Oltre il lago di Fucino ad E, si
vedono il Sirente, la dirupata Serra di Celano e
la Maiella monotona nella sua forma di gran
collina solcata da molti valloni: i monti di Castel
di Sangro in una serie confusa di creste arrivano alla valle del Liri che mostra montagne
lontanissime e poco riconoscibili; quindi sorge
complicatissimo a S il gruppo dei Simbruini, fra
cui riconosciamo benissimo l’Autore.
Immagini il lettore tra quest’ampia cerchia che
sta all’orizzonte e la nostra modesta cima tutto
un mare burrascoso di creste, di profili dalle
tinte sempre svariate ed avrà l’idea di quanto
interesse e diletto offra un simile panorama,
unico forse nel suo genere.
La temperatura mite (17° C.) e l’ombra cortese
del bosco ci avrebbero trattenuto lassù molte
ore, ma alle 12,15 pom. dovemmo discendere
percorrendo la stessa strada della salita in
modo che alle 1,45 pom. fummo a Roccacerro e
alle 3 a Tagliacozzo [...]».
5) Vettura, in Abruzzo, significa bestia da cavalcare
o da soma.
Lumen
27
Ristampa
Le dispute sul
confine da Oricola
a Tufo di Carsoli
(1837)
Diverse volte ci siamo soffermati
sulle dispute di confine tra lo Stato
della Chiesa e il Regno di Napoli.
Riprendiamo l’argomento traendo
spunto da un memoriale1 edito nel
1837, che le riassume tutte per
l’intera frontiera.
da Redazione
Riofreddo e Vallinfreda, nello Stato Pontificio.
1
Il memoriale è corredato
da planimetrie che descrivono le singole controversie, ma non sono allegate al
testo consultato, così nella
ristampa abbiamo omesso i
relativi riferimenti (n.d.r.).
L
a planimetria che stampiamo illustra le
zone controverse; in alto sono indicate
le corrispondenze tra le zone in discussione (quelle segnate con i numeri
romani) e la relativa descrizione (in numeri arabi).
«[26]
Sopra: planimetria
delle zone contese
28
Lumen
CONTROVERSIA 16
Tra Oricola nel Regno (Provincia di Abruzzo
Ultra 2.°, Distretto di Avezzano), e le comuni di
I. Conforme a ciò che afferma Oricola, il confine comincia in Valle Orsina, percorre la schiena
del monte chiamato letto della Foresta, passa
tra [27] la macchia di Lantera e la strada di Rio
Freddo a Vallinfredda, pel passo di Giovannaccio, pel trivio al passo di Riccione e va in linea retta ad incontrare il Fosso Sesara nella
contrada detta le Pezze, dopo del quale punto
segue sempre il Fosso Sesara.
Pretendesi dalle comuni Pontificie che il confine, partendo dallo stesso punto di Valle Orsina,
passi per Valle Intermorta, pel piano di Gioja,
pel passo della strada Romana sopra Rio Torto,
per Prato Longo, per l’alto della Macchia Sesara, per Colle Ronchetta, pel ciglio di Colle
Sgaviglia, per l’alto del Colle che domina la
Valle Petricca o Francalea: sulla pianta, oltre
alle due linee di controversia, è altresì additata
quella del possesso con puntini più leggieri. È
questa una delle più intrigate controversie.
Ciascuna delle due parti allega e ribatte a
vicenda varii argomenti di antichi termini in
sostegno del confine da entrambe preteso, come occorrendo potrà vedersi dalla Differenza tra
la comunità di Vallinfredda Stato Pontificio, e l’università di Oricola nel Regno di Napoli.
II. V’ha un contratto del 1738, col quale i Priori
dell’università di Oricola, pel pagamento di 4o
scudi annui, concedevano alla comunità di
Riofreddo la facoltà di legnare nella macchia
della Terra di Oricola.
III. Con altro contratto del 1739 si convenne
che i naturali di Vallinfreda potessero legnare
nella selva di Sesara, pagando annui scudi 43
ad Oricola, il che prova 1’antico possesso che
questa università ne aveva.
IV. Da un estratto di perquisizione del catasto
del 1721 si ritraggono i nomi de’ naturali di
Riofreddo i quali possedevano beni nel territorio di Oricola.
Altro estratto del catasto del 1748 addita i
naturali medesimi, che possedevano beni in
Oricola, cioè nei luoghi detti Riotorto, o colle
Cacione, Piociariallo, Valle Orsina, Piano di
Gioja.
V’ha un altro estratto del catasto di Oricola de’
bonatenenti forestieri per l’anno 1748, il quale
mostra essersi pagata ad Oricola la bonatenenza da quelli di Riofreddo, i quali possedevano
beni in valle Orsina o Pennecari, Piano di Gioja,
Prato Longo, Pisciarello. [28]
V. Conservasi originale documento, da cui appare che quattro periti di Oricola in ottobre
1798 innanzi all’avvocato D. Giustino Picciolini, incaricato nel Real Nome della identificazione de’ confini del Regno collo Stato Pontifìcio,
fecero la lor deposizione, dopo di aver minutamente osservato tutti i punti del confine medesimo additando quanto segue.
Comincia la linea del confine nel punto dove
termina il territorio di Rocca di Botte, cioè nella
sommità del colle chiamato Serra Perticara o sia
colle Campanile, che resta alla banda meridionale dell’antica diruta chiesa di S. Brizio, dove è
una colonnetta dimostrante triplice confine tra
Oricola e Rocca di Botte dalla parte del Regno
ed Arsoli, Stato Pontificio. Indi la linea verso
ponente discende il colle, va alla valle chiamata
di Campanile, e da quella rettamente ad altro
termine fisso sopra altra collina presso alla valle
d’Oricola, dove trovasi altra colonnetta di termine tra questa terra ed Arsoli, continua per la
contrada chiamata piano di Capitillo e per una
valle in cui d’inverno escono delle fontanelle,
ed ascende ad un monte di second’ordine, nella
cui sommità trovasi altro termine fisso, e dove
finisce il territorio di Arsoli e comincia quello di
Rio Freddo, Stato Pontificio. Di là si dirige la
linea a tramontana, chiamandosi quella contrada Valle Orsina, dov’è un terreno i cui possidenti pagano ad Oricola la bonatenenza; passa
di poi per la contrada e per la valle dette entrambe di Pennicara, ed indi a quello del piano
di Gioja, dove parimenti son delle terre i cui
proprietarii pagano come sopra la bonatenenza a quella comunità. Scende la linea alla valle
chiamata Prato Longo, lasciando a man destra
il colle Cacione, e troncando la strada che dal
Regno mena a Roma, dove si fa la consegna de’
rei de’ due dominii; e continuando trovansi
altri terreni pei quali pagasi l’annua bonatenenza. Si va poi ad una valle dividente la
macchia del barone di Riofreddo (appartenente allo Stato Pontificio) dalla selva Sesara
pertinenza di Oricola, nella quale valle termina
un fosso chiamato Riotorto, e si unisce al fiumicello di Sesara, che lungo il suo letto, parimenti diretto a tramontana, forma confine de’
due dominii fino alla contrada Le pezze, dove
trovasi una colonnetta a due facce, e dove
terminando il territorio di Riofreddo, co-
mincia quello di Vallinfredda. Alla faccia
della colonnetta risguardante l’Occidente è impressa la
lettera V, cioè Vallinfredda, ed alla faccia
volta ad oriente la
lettera R, cioè Regno.
Seguita il confine [29]
lungo il corso tortuoso del detto fiume
Sesara sino al territorio di Vallinfredda,
dove comincia quella
della terra detta Vivaro appartenente al
dominio Pontificio, e
dove terminando il
territorio di Oricola,
segue quello di Poggio Ginolfi.
Si soggiunge che per
la forza della terra di
Vallinfredda era stata privata Oricola di una
parte della macchia Sesara, da che dalla
contrada Valle Ronchetta troncandosi il fiume
Sesara, que’ di Vallinfredda con linea diretta a
levante aveano invaso porzione della macchia
medesima posta a tramontana, cioè di Valli e
Coste della contrada Sgaviglia ed una parte
della contrada di Petricca, e che anche quei di
Vivaro aveano invaso le Valli e Colli seguenti
insino ad una collina alquanto smacchiata presso alla contrada Casetta di Stronata, dove comincia la pertinenza di Poggio Ginolfi.
Due de’ sopraddetti periti furono adoperati
per la pianta insieme con altri per parte di
Arsoli, Riofreddo e Vallinfredda.
Ø
OSSERVAZIONE
Tra le addotte ragioni è più grave quella che
giustifica per parte di Oricola il possesso de’
luoghi ne’ quali le due comuni Pontificie ottenevano a prezzo la facoltà di legnare; non che di
quei luoghi pei quali esse pagavano ad Oricola
la bonatenenza.
CONTROVERSIA 17
Tra Poggio Ginolfi nel Regno (Provincia di
Abruzzo Ultra 2.°, Distretto di Avezzano) e
Coll’Alto, nello Stato Pontificio.
I. Secondo Poggio Ginolfi, il confine dal
termine detto Quadruccia sotto Colle Martino
va verso ponente in linea retta al punto dove la
strada di Poggio Ginolfi a Coll’Alto interseca il
fosso de’Cesali e dell’Obaco presso la fontana
Sopra: cippo n. 373,
posto sulla sommità
di Morrone Forte 1°
tra Tufo di Carsoli e
Ricetto. La zona è
oggi nota come le
Pezzelle. Il termine è
spezzato vicino la
base. La posizione
attuale, anche se di
poco, non è quella
originaria;
sotto: frontespizio
del memoriale
Lumen
29
Sopra: cippo n. 343
posto all’inizio delle
Forme, all’interno del
letto del torrente
Sesera. È stato
recentemente
trasferito al museo
di Villa Garibaldi a
Riofreddo.
30
Lumen
Liberarli che indi
segue per la Valle
ratta o sia della Morte,
e per la diritta del fosso Liberni ossia dell’Acqua Viva, e giunto
alla confluenza col
fiume Torano, percorre la riva destra di
questo fiume sino alla
fontana a Notte o Annotte, detta altresì de’
quattro Vescovi.
La comune di Coll’Alto pretende che la
linea del confine della fontana de’quattro
Vescovi debba passare
per le creste di S. Angelo dette anche Serra, ed indi per le creste delle Civitelle, de’
Franconi, de’ Casali,
dell’Obaco e de’ Cesali infino al termine a pie di Colle Martino.
[30] II. Tra le carte trovasi una Differenza tra la
comunità del Vivaro, Stato Pontificio, e l’università di
Poggio Ginolfi del Regno di Napoli: carta che
occorrendo potrà riscontrarsi. Solo qui sembra
da osservarsi che in fine della detta carta trovasi
notato che le terre comprese nelle contrade di
Casali e li Franconi sono possedute da naturali
della terra del Poggio.
III. Dalla deposizione fatta in ottobre del 1798
innanzi all’avvocato D. Giustino Piccolini (incaricato nel Real Nome a raccorre lumi e documenti sulla confinazione del Regno) da tre periti recatisi sui luoghi, si ritrae quanto segue :
La confinazione di Poggio Ginolfi comincia allorché terminar dovrebbe quello di Oricola alla
sponda del fiume Sesara nella contrada che dicesi Cesa di Ciancone, e dove attacca il territorio del Vivaro appartenente allo Stato Ecclesiastico. Giusta il corso del mentovato fiume va
la linea di confinazione verso tramontana fra i
due dominii, cioè fra Poggio Ginolfi e il Vivaro,
lasciando a man destra la detta contrada Cesa di
Ciancone, una porzione della quale possedevasi dal Principe Borghese che pagava a Poggio
Ginolfi l’annua bonatenenza, e l’altra porzione
era giustamente tenuta da’ naturali del Vivaro
per l’estensione di circa un quarto di miglio. Il
fiume Sesara è parimenti linea di confinazione,
e verso tramontana conduce presso alla selva di
Poggio Ginolfi, la quale chiamasi Cerretina
dagli alberi di cerri che la formano, e dove
unendosi al fiumicello detto di Poggio, acquista
il nome di Torano. Quindi torce debolmente a
man sinistra, in un colla linea di confinazione, e
porta alla fonte chiamata A notte, indi alla contrada, detta S. Angelo, dove confluisce col Rio
d’Acquaviva. Ivi il confine, lasciando il Torano,
si volge a levante restando linea di confine il menzionato rio Acquaviva. Porta poi alla contrada
Valle Raina ed indi a quella dette li Franconi, al
fonte chiamato Liberani, e seguitando lo stesso
rio a formar confine lascia a destra (o sia al
Regno) la contrada macchiosa e sativa detta li
Casali, al cui piede possiede una porzione di selva il Barone di Coll’Alto che la tiene rivelata al
catasto della università di Poggio Ginolfi, e dove
trovasi un terreno di alcuni di Coll’Alto, i quali
pagavano a Poggio Ginolfi annua bonatenenza,
oltre i terreni posseduti da tempo immemorabile da’ naturali di Poggio Ginolfi. Continuando la linea retta dal detto rio si arriva ad un
monticello detto Colle delle Forche ossia Colle
della Colonnella, [31] ed ascendendo direttamente alla sua sommità si giugne ad una colonnetta, la quale forma triplice confine poiché in
quel punto terminando il territorio di Poggio
Ginolfi comincia quella di Carsoli per il Regno,
e continua l’altro di Coll’Alto per lo Stato Pontificio. Quest’ultima direzione è la più naturale,
la più giusta e la più incontrastabile, quantunque senz’alcuna ragione i naturali di Coll’Alto
pretendessero di occupare una parte della
mentovata contrada, facendo un circolo irregolare, contrario al buon senso, voltando la linea a
mezzo giorno e poi curvandola a levante sino
alla predetta colonnetta. In pie’ della deposizione mentovata trovasi notato che nel formarsi la
pianta, oltre gl’indicatori per Poggio Ginolfi, ne
furono altresì adoperati degli altri per Vivaro e
Petescia.
IV. Il signor Piccolini, con una lettera, che non
appare a chi sia diretta, data da Rocca di Botte
in ottobre del 1793, diceva d’aver i Cameratani
commesso attentato sui Cesali incontrastabili di
quel paese, coll’approvazione di D. Alessandro
Ricci geografo Pontificio; e se in effetti si fossero
fatte innovazioni, sarebbero queste state inutili,
perocché i paesani avrebbero sostenuto colla
forza il loro antichissimo dominio e possesso. E
soggiugneva esser suo parere che fossero le
cose rimaste nello stato attuale.
V. Potranno riscontrarsi occorrendo le copie
che si conservano: 1.° di un estratto del catasto
originale del 1698 della comune Pontificia di
Vivaro; 2.° di un estratto del catasto anche del
1698 della comune medesima riguardante alcuni pezzi di terreno; 3. di una fede d’intestazione di alcuni fondi, estratta dall’onciario
del 1744.
OSSERVAZIONE
V’ha principalmente in favore di Poggio Ginolfi la deposizione fatta nel 1798 da tre periti.
E dalla citata lettera del signor Piccolini vedesi il
suo parere di far rimanere le cose nello stato
attuale. [32]
CONTROVERSIA 18
Tra Carsoli nel Regno (Provincia di Abruzzo
Ultra 2.°, Distretto di Avezzano) e la comunità
di Nespolo nello Stato Pontificio.
I. Riconosce Carsoli per suo confine la linea che
passa pe’ seguenti punti: Colle delle forche
strada de’ Caprili sino al trivio colla strada delle
Fontanelle, continuando per la strada del Colle
della Guardia fino alla quercia della Corona,
sicché la contrada Caprili e Via Rosa sieno interamente comprese nel tenimento di Carsoli
Nespolo pretende che i fossi Perorese de’ Caprili e di Via Rosa sieno confine dividente il territorio delle due comuni.
La lettera A addita il confine preteso da
Nespolo, ed il B segna l’altro che pretende
Carsoli.2
II. La deposizione fatta innanzi all’incaricato
della identificazione de’ confini del Regno, avvocato D. Giustino Piccolini, da due periti in
ottobre del 1793, sulla confinazione della detta
università, offre quanto segue.
La linea del confine comincia dalla parte dello
Stato Pontificio, dove termina il territorio di
Poggio Ginolfi, nel colle detto delle Forche o sia
della Colonnella, dove trovasi una colonnetta
di figura sferica, alta circa un palmo e mezzo,
presso una strada a levante. Seguitando il confine sulla screma de’monti e come acqua pende,
resta la parte meridionale per Carsoli e la parte
a tramontana per Coll’Alto, e proseguendo la
strada, benché con piccole tortuosità, entrando
nel dominio ora dell’uno ora dell’ altro, giunge
la linea ad un capocroce nella contrada, detta
Pantano, verso levante per la screma de’ monti
arriva ad alcuni strati di tufo, dove trovansi
intagliate varie Croci, e dove appunto terminando il territorio di Coll’ Alto comincia quello
del Nespolo. Continuando la linea verso levante colla strada e la screma de’ monti, conduce ad un trivio, e scende per una strada che porta al Nespolo, ed il cui principio conduce alla
contrada già detta le Scalelle. Di là volgendosi la
linea a levante, su la stessa screma de’ monti per
la strada medesima trovasi il territorio della
terra del Tufo appartenente al Regno. Ma per
temporanee invasioni de’ naturali della terra
del Nespolo, i quali han profittato del suolo
boscoso, la linea si rivolge ora a mezzogiorno
per circa mezzo miglio, e meno per [33]
valli e colli ad una
colonnetta di pietra
sferica presso una
strada nella contrada
detta le Navicchie o
sia Colaguardia. Nella
detta colonnetta trovansi dalla parte di levante le lettere N.P.
O., cioè Nespolo, e
dalla parte di tramontana e ponente CELLE, cioè Carsoli che
da circa due secoli, lasciato il primo nome,
chiamasi col secondo.
Per antica tradizione
si sa essersi levata la
detta colonnetta dall’antico suo sito, e
messa clandestinamente dove or si trova, il che vien confermato altresì dal troncamento della linea naturale, e dall’osservarsi che
terminando in quel sito il territorio di Carsoli,
cominciando quello del Tufo, la linea di confine
di quel territorio rivolgesi immediatamente a
tramontana, tornando alla screma de’ monti ed
alla strada sopraddetta, dove poi si dirige altra
volta a levante. E per altra pruova si aggiugne
che trovandosi un fonte nella Valle di Pantano,
pretesa da Nespolo, paga alla cappella del SS.
Sagramento di Villa Sabinese, figlia di questa
università per donativo fattole da Carsoli, annui giulii venti per abbeverare i loro armenti
nel detto fonte.
III. V’ha una memoria la quale contiene alcune
notizie storiche, che occorrendo potranno riscontrarsi.
IV. Son comprese nel citato volume XVIII
alcune deposizioni di testimoni fatte nel 1722,
una descrizione di confine distesa da due
indicatori nel 1795, ed un estratto di perquisizione del catasto generale; le quali carte tutte risguardando la comune del Tufo, se ne farà
menzione nella controversia seguente che tratta appunto del confine di questo comune con
Nespolo e Ricetto.
V. Con una lettera, che appare scritta da Pescina
nel 1790 da Gianfrancesco Cambise al signor D.
Giustino Piccolini, dicesi mandarsi a costui una
copia della bolla di Pasquale II, estratta dall’archivio del Capitolo. Ma questa copia non si è
rinvenuta nelle carte.
VI. V’ha un estragiudiziale informo per le
rappresaglie commesse in settembre del 1795
2
Vedi nota 1.
Sopra: cippo n. 341
collocato lungo la
strada del Travetto,
tra Oricola e
Riofreddo.
Lumen
31
da un soldato della
Regia dogana di posto in Carsoli, a danno
di alcuni naturali di
Coll’Alto e Nespolo. Si
riconobbe che l’uno
de’ due poderi, dove
furono trovate pascolando le capre rappresagliate era propriamente nella contrada detta le Cese, e
trovavasi a circa dieci
canne sotto la strada,
ed a circa tredici sotto
la cima o sia screma di
monte dalla parte di
mezzogiorno del Regno; la quale scre[34] ma forma confine
di Coll’Alto nello Stato Pontificio e Carsoli,
e restò assodato esser
quel sito spettante alla
giurisdizione di Carsoli nel Regno. Si chiarì in
oltre che l’altro luogo dove erano stati rappresagliati i bovi nella contrada detta Colaguardia
era presso all’altra contrada detta Casavino, distante dal fosso delli Caprini, e sopra di esso circa dieci canne, e circa altre dieci canne distante
da una valletta a ponente che attacca alla detta
contrada Casavina. La qual valletta, che cala da
tramontana a mezzogiorno, e il detto fosso che
porta da ponente a levante eran confine di
Carsoli e Nespolo. Sicché si riconobbe che i bovi
erano stati rappresagliati in territorio di attual
possesso dello Stato Pontificio, benché compreso nella linea pretesa da Carsoli.
Vennero di poi restituiti i detti animali rappresagliati.
OSSERVAZIONE
La deposizione fatta dai due periti sulla confinazione nel 1798 contiene delle rilevanti notizie, e fa conoscere quanto sia salutare il provvedere in modo alla indicazione de’ confini da
non darsi luogo alla frode ed all’inganno.
CONTROVERSIA 19
Sopra: cippo n. 346
in località Calcarone,
tra Vivaro Romano
e Poggio Cinolfo di
Carsoli, lungo il
fosso Sesera,
versante laziale.
32
Lumen
Tra Tufo nel Regno (Provincia di Abruzzo Ultra
2.°, Distretto di Avezzano) e le comuni di Nespolo e Ricetto nello Stato Pontificio.
I. Secondo la comune di Tufo, comincia il confine al termine detto Perorese, e con linea tortuosa passa pel bivio formato dalla strada delle
Fontanelle con quella di Nespolo a Carsoli,
seguendo poi questa strada perviene alla
fontana della Selva, indi ad un altro bivio che da
Nespolo conduce a Carsoli ed a Caprini, dipoi
alla cima del colle del Castello, dopo di aver
lasciato la strada al bivio, ch’è appiè del suddetto colle verso sud; dal colle del Castello, giunto
alla fontana del Castello, si rivolge all’est sino al
confluente di due fossi, detto Confurco, va per
lo scrimone detto Proncolese o Proncolette, e
giunto al Pero Porcino passa pei seguenti punti:
Peschio delle femmine, Morrone, Monte Senile, Ara de’ Pizzoli, e dopo un assai tortuoso corso arriva alla sommità di Coll’Alto.
[35] I Pontificii pretendono che il confine sia
quello che comincia dal Perorese sino alla
quercia ch’è presso al bivio della strada, dove si
affiggono gli editti di Carsoli, dirigendosi sulla
via a Capo i Valloni di Pietra morta dov’è un
termine di quattro facce, indi alla sommità del
colle dei Valloni, al fosso di Vallicupi, al confluente del detto fosso col grande fosso de’ Valloni,
dove trovasi un altro termine, dopo di che segue la sinistra di quest’ultima sino al fosso Donato, percorre il Vallone, perviene all’alto di
Colle Stallino dove sono due sassi di pietra viva
attaccati insieme, e girando segue le schiene dei
colli, e per l’Ara Portilepre perviene al Coll’Alto.
II. Oltre alle dette differenze si ritraggono da
altre carte le seguenti.
Per parte del Tufo si ammette il termine a lato
della strada del Colle della guardia ossia da
Nespolo a Carsoli, a forma di colonnetta di
pietra bianca, alto once 11, e di un palmo di diametro con lettere incise dalla parte della strada
che va a Carsoli, o sia tra mezzogiorno e libeccio, CELLE cioè Carsoli, e dalla parte opposta
cioè fra tramontana e greco NPO cioè Nespolo,
come si è detto nella precedente controversia;
ma si afferma essere stato messo clandestinamente nel luogo dove trovasi, essendo anticamente situato nello scrimone detto Proncolese.
Nespolo e Ricetto adducono altro termine a capo di Valloni di Pietramorta, a quattro facce,
dove erano alcune lettere cancellate. Ma il Tufo
dice esser termine dividente il proprio territorio da quello di Carsoli.
Altri termini dicesi da Nespolo e Ricetto trovarsi sopra lo scrimone del colle de’ Valloni,
presso il fosso di Valle Cupi, colle lettere TO
verso greco e G dalla parte opposta. Ma per
parte di Tufo si afferma, come sopra, che dividano quel comune da Carsoli.
Similmente dal Tufo e da S. Lucia si afferma che
i due sassi posti sul colle Stallino sien termine
del rispettivo confine, negandosi che ivi giunga
il territorio di Ricetto. L’ultima sommità del
monte Coll’Alto è il triplice confine tra il Tufo, S.
Lucia e Ricetto, il che negasi da quest’ultimo
comune.
Le altre differenze sopra i nomi de’ luoghi ecc.
potranno, occorrendo, riscontrarsi nelle mentovate carte.
[36] III. Conservasi copia di uno strumento del
30 aprile 1728 col quale per togliersi tutte le discordie tra le confinanti comuni di Ricetto e
Tufo venne stipulato che rimanesse in pieno
vigore la sentenza emessa fin dall’anno 1579 da
due arbitri e giudici appositamente destinati, i
quali dopo aver bene esaminata la causa, additarono minutamente tutt’ i luoghi che dividevano Nespolo dal Tufo, che sono trascritti nel detto strumento. Ed i priori di Ricetto e del Tufo, in
nome delle comuni rispettive, dichiarando di
osservare inviolabilmente quell’antica sentenza, convennero che i primi consegnavano agli
altri la somma di ducati trentacinque per le bonetenenze decorse e non pagate, obbligandosi
di pagarle in avvenire, pe’ beni posseduti nel
territorio del Tufo. E perché i naturali di Ricetto pel passato avean fatto pascolare gli animali
in qualche luogo appartenente al Tufo, si convenne che per l’avvenire avrebbero potuto
parimente ciò fare, ma pe’ loro bestiami soltanto e non pe’ forestieri, e fino a tutta la contrada detta la Valle Rocca; in ricompensa di che
i massari di Ricetto obbligavansi di pagare ogni
anno in beneficio della venerabile compagnia
del SS. Sacramento del Tufo paoli dieci romani.
III. Nel precedente volume XVIII trovansi,
come di sopra abbiam detto trattando della
controversia precedente, alcune carte risguardanti il confine del Tufo con Nespolo e Ricetto,
di che si fa parola qui appresso.
V. Dalla deposizione di alcuni periti, fatta nel
1722 innanzi al Regio uditore D. Carlo Vincenti, sopra i luoghi detti Monte e Liprati delle
Pozzelle appartenenti al Tufo, si ritrae che il
detto luogo del Monte è un tratto di paese che
finisce nella sommità di esso chiamata Coll’Alto,
per la quale sommità secondo che si cammina
per linea retta Serra Serra dalla parte della
pendenza delle acque verso le Pozzelle, è territorio del Regno e della terra del Tufo, e secondo acqua pende verso la terra di Ricetto è
territorio dello Stato Pontificio. Il luogo poi detto li Prati delle Pozzelle è distante per linea retta
dallo Stato Ecclesiastico circa un terzo di miglio.
VI. V’ha altresì la copia d’uno strumento di
settembre del 1579, col quale furono parimenti
stabiliti i confini de’ territorii di Nespolo e Tufo.
VII. Dalla indicazione del confine della terra
del Tufo con Nespolo e Ricetto, fatta in luglio
del 1765 da due indicatori d’or [37] dine, del
Regio geografo D. Giovan Antonio Rizzi Zannone, specialmente da S. M. incaricati della descrizione generale del confine degli Abruzzi collo Stato Pontificio, si ritrae:
Che il territorio di
Tufo comincia nel
vallone detto delli
Pratali, estendendosi
il confine ai luoghi
detti fonte della Selva,
al Bivio dove comincia 1’altra strada che
mena a Caprili ed al
Poggio; indi la strada
che conduce al Tufo;
di poi al luogo detto
Colle del Castello, alla
fonte del Castello, alla
profondità della Confurca al luogo detto
Pero porcino, al Peschio delle femmine
appartenente al Tufo,
al luogo detto de’
Mozzoni alla macerie
dell’Uomo morto, la cui Serra a sinistra
appartiene a Nespolo, a diritta al Tufo; poscia al
colle chiamato Monte ienile o fenile, al Pozzo
detto de’ Zingari, alla Forcella pizzola ossia Aja
de’ pizzoli, al colle Coll’Alto, al Tufo nel cui
territorio resta inclusa l’aja detta Partilepre, e
finalmente alla selva di Giove rotondo, dove
finisce il territorio di Tufo e comincia quello del
fondo rustico chiamato col detto nome di Giove
rotondo sotto la villa di S. Lucia, appartenente
all’università di Rocca Verruti.
Notansi in fine di questa descrizione gl’indicatori in pianta che vi furono anche per parte di
Nespolo e di Ricetto.
VIII. Si conserva altresì in favore del Tufo un
estratto di perquisizione di catasto generale
della detta università, da cui appare esser comprese nel tenimento della medesima università
le contrade Fonte della selva, Pietromastri, Cesafura, Colle del castello, Confurca, Proncoletta, Fossa di S. Maria, Valarocca, Pozzo de’
zingari, Peschio delle femmine, Monte senile o
ienile, Puzzelle, Morroni, Monte pilozzo, Forcella di pizzoli o sia Aja de’ pizzoli, Costa porcina, colle Coll’Alto e Partilepre.
E che pagavasi alla università del Tufo la bonatenenza da coloro che possedevano terreni
presso ai confini colla terra di Nespolo e Ricetto, o nelle contrade sopraindicate.
OSSERVAZIONE
Anche per questa controversia vi sono molte
ragioni e documenti in favore della confinazione che pretende la comune del Tufo [...]»
Sopra: cippo n. 377,
oggi sulla sinistra
dell’ingresso della
chiesa parrocchiale
di Santa Lucia di
Giove Rotondo,
frazione di
Pescorocchiano (RI)
Lumen
33
Ristampa
I primi giorni di
guerra. Lettere di
combattenti nella
Prima Guerra
Mondiale
Le lettere che i militari sublacensi
inviarono alle famiglie nelle prime
settimane di guerra furono
pubblicate nel periodico Il Sacro
Speco di San Benedetto,sino al 1915.
I racconti sono quelli di tutti i
soldati, che messi di fronte all’orrore
della guerra, invocano a soccorso i
santi e la buona sorte.
da Redazione
1
I nomi delle località sono
sostituiti da puntini di sospensione. Non si evince in
alcun modo se questo avviene per iniziativa dei
curatori del periodico o di
una censura militare.
2
Per questa lettera e per le
seguenti cfr. Il Sacro Speco
di San Benedetto, 1915,
fasc. giugno, pp. 124-126.
L
a presenza di alcune lettere nel periodico
dei monaci benedettini di Subiaco mostra che il controllo dei mezzi d’informazione da parte della censura militare richiese tempo prima di essere pienamente operativo,
infatti la pubblicazione fu interrotta nel mese di
dicembre 1915. Questo è un esempio di come notizie
scomode si possono rintracciare in pubblicazioni a
carattere locale.
È probabile che gli scritti vennero ritoccati, almeno
nella forma, dai redattori e in alcuni casi sembra di
scorgere una tendenza alla censura o all’autocensura1, che investe i nomi delle località dove si svolgevano
i combattimenti.
ù
«2 Giugno 19152
Cara Madre. Vengo a darti mie notizie, ma non
ti allarmare. Provo gran dispiacere a dirti che
sono stato ferito al campo Austriaco. Sono
stato colpito il giorno 28 verso le 5 e mezza di
sera sopra il cuore ma non sono aggravato,
state tranquilli che per me è stata una grazia,
giacché col nostro reggimento del 42° siamo
stati i primi a fare delle avanzate. Non mi
dilungo, solo vi chiedo di ringraziare il nostro
S. Benedetto e S. Antonio che mi hanno
salvato per ora e che mi salvino alla fine di
questa gran guerra. State tranquilli e pregate
che il Signore ci liberi da ogni impedimento.
Io sono rassegnato e sempre mi faccio
coraggio.
Cara Madre. Ti dirò che qui siamo in ottime
condizioni e ringraziamo il Signore e S.
Benedetto che al mio valoroso battaglione ancora non ci sono toccate perdite. Stando in vedetta viddi correre verso di noi cinque soldati
Austriaci e appena li viddi gridai all’arme! e
tutti del battaglione ci mettemmo in guardia,
e quelli alzando i fazzoletti bianchi gridavano
non sparate non sparate, siamo vostri fratelli
evviva evviva, e noi allora lasciate le armi, e
quelli alzando le braccia venivano verso di noi.
Siamo andati loro incontro si buttarono a
terra dicendo; abbiamo fame, si sono arresi e
34
Lumen
li abbiamo accompagnati al comando. Pregate
S. Benedetto, accendete una candela al S.
Speco che il Santo Patrono mi è apparso in
sogno, e sembravami che fossi andato al S.
Speco a visitarlo a piedi scalzi.
Montenero 19.6.1915
Cara madre, non vi prendete pena del mio
tardare a scrivervi, su questi monti non si ha la
comodità della carta, ieri per combinazione
ebbi un foglietto di carta e una busta e ti scrivo
subito. Io sto bene, però non mi da coraggio di
raccontarvi quello che abbiamo passato, l’abbiamo proprio passata brutta, quando ritornerò racconterò tutto, siamo stati tre giorni
proprio male e in pericolo. Raccomandatemi
a S. Benedetto che spero di venirlo a ringraziare delle grazie che ho ricevuto. Accendete il
lume innanzi all’immagine di S. Benedetto
che sta in casa, e nel giorno del mio onomastico porterete una candela al mio Santo.
Cara Madre. Vengo ad avvertirti che non mi
scrivi più finché non ricevi un’altra mia; non ti
curare di sapere il perché. Spedisco un vaglia
di L. 15 che sarà così ripartito: L. 2 per una
messa al Patrono S. Benedetto che mi liberi da
ogni pericolo e che io sia sempre in grazia di
Dio, tanto io come tutti i combattenti; L. 1.50 a
beneficio dei carcerati della SS. Vergine di
Pompei che preghino la Madonna come
sopra; L. 1.50 a S. Antonio pel pane dei poveri
e L. 10 restano ..... Questi denari li mando non
avendo dove sciuparli. Adesso noi andiamo
un po’ indietro per riposare per un po’ di
tempo, e voi sempre raccomandatemi a S.
Benedetto.
20 Giugno 1915
Cara madre. Ti faccio sapere che il giorno 15 e 16
abbiamo fatto un’avanzata di dieci chilometri
per dare l’assalto ad un forte e siamo rimasti per
molto tempo sotto al fuoco dei cannoni, dovevamo essere tutti morti invece per grazia di Dio
e di S. Benedetto siamo rimasti sani: ora aspettiamo i grossi cannoni per poter ridurre al
silenzio i forti nemici e per potere avanzare con
più forza. Sono rimasti feriti R. e S. ma è roba da
niente; questa guerra non è come quella della
Libia, ma speriamo che S. Benedetto ci aiuti
sempre fino alla pace per ritornare sani e liberi
alle nostre case.
22 Giugno 1915
In questa parte dove ci troviamo noi è molto
fortificata non solo di cannoni, ma ci sono
anche delle mine. Mi sono trovato per la prima
volta sotto il fuoco, per me è stato il battesimo;
ho fatto voto a S. Benedetto che mi ha salvato, e
nel combattimento per essere più libero ho
buttato lo zaino; mandami la biancheria necessaria ma greve che qui fa freddo, e sono stato tre
notti allo scoperto e quasi senza dormire, e nel
pacco ci metti un po’ di ciambelle e di cioccolata
e anche un po’ di sicarette. Raccomandami
spesso a S. Benedetto, come prego io pure, e
anche a S. Antonio. Cara madre, fatti coraggio,
e non credere ai giornali ma solo quello che ti
mando a dire io. Il giorno del mio onomastico
sono stato di guardia in mezzo ad un bosco e mi
è caduta tanta di quella neve sopra. Ho anche
ricevuto le polveri delle rose di S. Benedetto; e
se voi che io sia salvo devi fare la santa comunione al S. Speco, e quando non ricevi notizie non
ti impressionare, perché allora non posso
scrivere, e non puoi sapere come mi trovo in
queste montagne.
5 Luglio3
Cara madre,
... Vi prego di raccomandarmi a S. Benedetto
che mi dia forza e salute e che mi scampi da ogni
pericolo, perché come si ammette è difficile
restar sempre salvi ... il giorno… abbiamo fatto
un’avanzata e vi è stata la grazia di S. Benedetto
solo che ci ha salvato. Pregate che un giorno ci
possiamo rivedere.
19 Luglio. Cara mamma, ... mi trovo all’ospedale
di... sono stato ferito leggermente, non vi
prendete timore perché è cosa da niente,
fammi però il piacere di far dire una messa a S.
Benedetto che mi ha salvato la vita.
12.7.915. Carissimi Genitori, … vi avverto di
non pensare male se in appresso tarderò a
scrivervi, ci troviamo tanto impicciati, sono
giorni che avanziamo, ma molto adagio … ora
ci troviamo a 50 metri dal famoso … che non si
può trovar la maniera di occuparlo perché è
tutta una gran massa di pietra … oggi si tenterà
un gran colpo … speriamo di poter riuscire,
speriamo che non succeda niente e S.
Benedetto mi scampi, a Lui ho affidata la mia
vita, e spero anzi son certo che non mi abbandonerà, come lo prova il fatto che vi dico. L’altro
giorno mentre si avanzava m’ero seduto sotto
un grosso abete per ripararmi dai colpi che mi
fischiavano da tutti i lati. Ad un certo punto
sento che scoppia una granata sopra di me, io
senza perder tempo faccio atto di alzarmi per
esser più riparato, non mi ero sollevato che
pochi centimetri che a un tratto mi sento
fischiare all’orecchio destro, era una scheggia
della granata che mi voleva colpire e fu veramente un miracolo, perché se m’era alzato
ancora un centimetro ero fritto. Ecco dunque
che S. Benedetto non mi abbandona, speriamo
che sia sempre così.
3
Per questo gruppo di lettere cfr. idem, fasc. agosto
1915, pp. 148-149.
4
Per questa lettera cfr.
idem, fasc. ottobre 1915,
pp. 197-198.
Un nostro Fratello converso richiamato alle armi e che
presentemente si trova nei campi di battaglia così
scrive4.
Il giorno otto Agosto fu il più brutto della mia
vita. Era verso l’una pomeridiana quando
cominciò il bombardamento di questo piccolo
paesetto … abitato soltanto da noi addetti al
corpo di Sanità. Il nemico che intendeva
cacciarci, cominciò a far piovere una vera grandine di proiettili insieme a granate. Nel mentre
che anche noi seguendo l’esempio degli altri,
volevamo fuggire, una granata scoppiò dietro
la casa ove stavamo, uccidendo un tenente
d’Artiglieria. Lo scoglio di riparo era distante,
pericoloso attraversare tanto terreno scoperto
sicché ci rassegnammo a stare in otto al pianterreno di quella casa! Una granata scoppiò sul
tetto fracassando ogni cosa; poco più sotto che
fosse scoppiata eravamo finiti; un’altra ne
scoppiò così vicina da gettar giù un angolo della
casa con qual raccapriccio nostro l’immagini
Lei; un momento dopo alla distanza di quattro
o cinque metri si vide un lampo tale da restarne
abbacinati e lo scoppio tremendo sentito a poca
distanza ci assordì per un buon tratto di tempo;
l’effetto fu una grandine di sassi, pallottole,
scheggie, tavole, fili elettrici; sembrava la fine
del mondo: cosa da non potersi immaginare se
non da chi l’ha veduta e intesa. Nessuno di noi
poteva aprir bocca tanto l’avevamo asciutta
asciutta e riarsa. Per buona fortuna quella mattina mi ero confessato e avevo ascoltato la S.
Messa e mi teneva più che mai cara la medaglia
di S. Benedetto ch’ella mi mandò. S. Benedetto
io invocava in quei terribili momenti e fu grazia
sua se in quel pianterreno non arrivò nemmeno una scheggia e il mio piccolo bagaglio non fu
toccato mentre il resto della casa e ogni cosa che
trovavasi in essa veniva crivellato letteralmente
da proiettili d’ogni sorta. Ringrazio tutti, S.
Benedetto e il mio protettore S. Pietro di tanto
bene a me concesso e li preghino acciocché in
avvenire si degnino conservarmi e proteggermi
nello stesso modo».
Lumen
35
Ristampa
Le rovine di
Carsioli a fine
Settecento
Mercoledì 18 maggio 1791 Richard
Colt Hoare transita per Carsoli e si
dirige verso Roma.
Giunto all’osteria del Cavaliere, va a
visitare le rovine di Carsioli.
da Richard Colt Hoare
L
Sopra: frontespizio
dell’opera
Traduzione: don Fulvio
Amici
36
Lumen
’opera a fianco citata (pubblicata solo
nel 1819) è utile per stralciare il brano
relativo ai luoghi a noi vicini. L’autore,
dopo aver visitato il lago Fucino, si
avvia verso Roma e, superata Rocca di Cerro ...:
«[378] [...] Lentamente ridiscesi al piccolo
villaggio di Colli vicino al quale notai alcuni
ben conservati resti della via Valeria, composti
di pietre piuttosto grandi, così pure i segni di
taglio nella roccia, che era stata asportata per
dare passaggio alla strada. Il mio passo qui fu
richiesto, in virtù dei privilegi baronali, o piuttosto per estorsione. Di qui io continuai a scendere, affianco al fiume, verso Carsoli, un centro insignificante, costruita sul fianco di una
collina, sovrastante il fiume, e sormontata da
un castello in rovina. Una lettera di raccomandazione per il canonico, don Bernardo Marj,
mi procurò un confortevole alloggio, e una accoglienza cordiale.
Mercoledì, 18 maggio. Il primo oggetto che attrasse la mia attenzione, lasciando Carsoli, fu
un vecchio miliario, vicino la chiesa del Carmine. Esso fu riprodotto da Fabretti, quando era
in condizioni più [379] integre; ma al presente io
potei solo riconoscere una singola lettera e due
cifre. Esso commemorava la risistemazione della
via Valeria per opera dell’imperatore Nerva, ed
era numerato XXXXI. […]
[383] Essendomi così sforzato, con osservazione
personale e l’informazione raccolta da differenti
scrittori, di accertare il sito reale delle varie stazioni sulla Via Valeria, procederò a descrivere il
mio viaggio lungo la linea del suo corso.
La piana di Carsoli è estesa, verdeggiante e ben
coltivata, ravvivata da numerosi villaggi, sparsi
sulle alture dalle quali è circondata. Mi distaccai
dalla via principale prendendo verso destra,
allo scopo di esaminare le rovine dell’antica
Carsoli; il sito di essa è ora ricoperto da vigne.
Ebbi modo di osservare, tuttavia, una parte
delle mura, costruite con pesanti blocchi di
pietra; così pure un tratto della Via Romana, la
pavimentazione della quale mantiene ancora le
tracce delle ruote dei carri. Notai anche alcuni
«[378] [...] I slowly descended to the small
village of Colle, near whici I noticed some fine
remains of the Via Valeria, composed of massive stones, as well as the marks of tools in the
rock, which was cut away to give passage to the
rod. My passo was here demanded, in virtue
of the baronial privileges, or rather extortions. From hence I continued descending, by
the side of the river, to Carsoli, an inconsiderable town, built on the declivity of a hill,
overhanging the river, and surmounted by a
ruined castle. A letter of recommendation to
the Canonico, Don Bernardo Marj, procured
me a comfortable lodging, and a cordial reception.
Wednesday, May 18. The first object which
attracted my attention, on leaving Carsoli, was
an old milliary, near the church of the Carmine. It was copied by Fabretti, when in a
more perfect [379] state; but at present I could only discover a single letter and two ciphers.
It commemorated the reparation of the Via
Valeria by the Emperor Nerva, and was numbered XXXXI. […]
[383] […] Having thus endeavoured, by personal observation, and the information collected
from dìfferent writers, to ascertain the local situation of the various stations on the Via Valeria,
I shall proceed to describe my journey along
the line of its course. The plain of Carsoli is extensive, verdant, and well cultivated, and enlivened by numerous villages, scattered on the
eminences with which it is surrounded. I diverged from the main road towards the right,
in order to examine the ruins of the ancient
Carsoli; the site of which is now overspread with
vineyards. I noticed, however, a part of the
walls, built of hage blocks of stone; and a
portion of the Roman Way, the pavement of
which still retains the traces of carriage wheels.
I saw also some fragments of aqueducts, and
the relics of a coarse tessellated pavement. I
regretted the injury done to a fine pedestal, in
one of the vineyards. It was ornamented with a
basso relievo, representing a sacrifice, con-
frammenti di acquedotti e quanto rimaneva di
una grossolana pavimentazione a tasselli. Mi
rammaricai per il danno fatto ad un bel piedistallo, in una delle vigne. Era adorno di bassorilievo, rappresentate un sacrificio, raffigurante tre personaggi e una vittima davanti l’altare.
Nel lato opposto un ramo di ulivo; nei due fianchi vi erano una patera e un vaso, o una coppa,
con un maiale scolpito al disotto. Conteneva
una scritta, le cui lettere erano finemente incise
ma ormai ridotte a SACR; cosicché non rimane
alcuna indicazione [384] a quale divinità questo
altare era all’origine dedicato.
Raggiunsi di nuovo la grande strada, alla Osteria del Cavaliere, dove trovai un piedistallo, che
mostrava questa iscrizione, ancora in buone
condizioni:
M × METILIO × SUCCESSO × M × METILL ×
REPENTINI × PATRONI × COLONIAE ×
FILIO × PATRONO × ORDINIS × AUGUSTALIUM × MARTINOR× COLLEGIUM × DENDROPHORUM × CARSIOLANORUM × PATRONO OB MERITA EIUS L × D × D × D×
Si tratta di un memoriale di gratitudine da
parte del Collegio o Compagnia dei Dendrophori, a Carsoli, nei confronti di Metilio Successus,
ecc. per la sua opera meritoria. Uno dei titoli
dato a questo personaggio, esattamente, PATRONUS . ORDINIS . AUGUSTALIUM . MARTINORUM è inusuale e sconosciuto ad ognuno dei
miei libri di riferimento ma l’erudito e infaticabile Muratori ha dato, io penso, una spiegazione razionale della parola MARTINORUM, che lui
legge MARTIANORUM. "Nam uti Sodales
Augustales, Flaviales, Claudiales, Antoniani,
ecc. ecc. ita in honorem Martianae Augustae,
sororis Trajani, instituti fuere Sodales Augustales Martiani. P. DXV. 2”.
Un po’ oltre l’Osteria del Cavaliere e [385] quasi
di fronte alla chiesa di S. Giorgio, una via si
diparte sulla destra in direzione di Arsoli e di
Subiaco. Qui c’era anche il diverticulum della Via
Valeria realizzato dall’Imperatore Nerone; e su
questa strada, o nelle vicinanze, c’erano le sorgenti delle Aquae Claudiae e Marciae, che erano
convogliate tramite acquedotti alla città imperiale. Subito dopo raggiunsi Rio Freddo, un
paese posto un po’ più in alto, dove le montagne ravvicinate formano uno stretto passo e la
strada serpeggia lungo i declivi di una profonda valle più in basso. A questo punto, che costituisce il confine dei territori Napoletani e pontifici, è eretta una casa doganale; io però non
ebbi a sperimentare né il fastidio né la cupidigia
che sono soliti in tali posti».
sisting of three figures, and a victim before the altar. On the
reverse was an olive
branch; and on the
two other sides were a
patera and a vase, or
beaker, with a swine
sculptured beneath.
It had borne an inscription, the letters
of which were finely
engraven, but now
reduced to SACR.; so that no indication [384] remain to what deity this altar was originally dedicated.
I rejoined the great road, at the Osteria del
Cavaliere, where I found a pedestal, bearing this
inscription, in good preservation;
M × METILIO × SVCCESSO × M × METILL ×
REPENTINI × PATRONI × COLONIAE ×
FILIO × PATRONO × ORDINIS × AVGVSTALIVM × MARTINOR × COLLEGIVM ×
DENDROPHORVM × CARSIOLANORVM ×
PATRONO OB × MERITA × EIVS L × D × D × D×
This is a memorial of gratitude from the College or Company of Dendrophori, at Carseoli, to
Metilius Successus, etc. for his meritorious
conduct. One of the titles given to this personage, namely,
PATRONVS, ORDINIS × AVGVSTALlVM ,
MARTINORVM
is unusual, and not noticed in any of my books
of reference; but the learned and indefatigable
Muratori has given, I think, a rational
explanation of the word MARTINORVM, which
he reads MARTIANORVM, Nam uti Sodales
Augustales, Flaviales, Claudiales, Antoniani,
etc. etc. ita in honorem Martianae Augustae,
sororis Trajani, instituti fuere Sodales Augustales Martiani. P. DXV. 2.
A little beyoad the Osteria del Cavaliere, and [385]
nearly apposite the church of St. Giorgio, a
road diverges on the right to Arsuli and
Subiaco. Here, also, was the diverticulum. of the
Via Valeria, made by the Emperor Nero; and
on this road, or near it, were the sources of the
Aquae Claudiae and Marciae, which were
conveyed by means of aqueducts to the imperial city. Soon afterwards I reached Rio
Freddo, a village situate on an eminence, where
the contracted mountains form a narrow pass,
and the road winds along the declivity of a deep
valley below. At this point, which is the boundary of the Neapolitan and Papal territories, a
custom-house is erected; but I neither experienced the trouble nor cupidity which are
usual in such establishments». [...]
Sopra: Civita di
Oricola (antica
Carsioli) in
un’immagine di
metà Novecento
Lumen
37
Ristampa
Cronache di
Carsoli nei ritagli
di giornale
Queste brevi notizie di cronaca sono
estratte dal Corriere della Marsica.
da Redazione
S
1
Corriere della Marsica, 1415 novembre 1908, p. 1.
2
Ivi, 21-22 novembre
1908, p. 1.
3
Ivi, 12-13 dicembre 1908,
p. 1.
Sopra: uno degli
articoli citati
38
Lumen
fogliando le pagine del Corriere della
Marsica abbiamo raccolto alcuni articoli
che tratteggiano la colorita vita di Carsoli
negli ultimi mesi del 1908.
«La sera dell’8 corrente [novembre], circa le ore
17, si è scatenato su Carsoli un tremendo uragano che è durato quasi per l’intera notte.
Le sorgenti del Turano si erano gonfiate in
modo straordinario. Abbiamo assistito al tremendo spettacolo di vedere allagate tutte le
campagne circostanti al fiume per molti metri e
l’acqua giungere persino all’abitato producendo gravi danni alle stalle ed alle cantine.
Soltanto chi avesse assistito a tale spettacolo si
sarebbe formato un’idea esatta dell’alluvione.
I lampi che ad ogni istante illuminavano la terra
per accrescere più sinistra l’oscurità, facevano
vedere i campi trasformati in laghi e sembrava
che tutto dovesse sommergere nelle acque. Il
rombo del tuono che si produceva a brevissimi
intervalli completava la scena desolante.
Di tanto in tanto si vedevano correre gruppi di
contadini con lanterne che si recavano, chi a
salvare il gregge, chi a salvare muli e cavalli e chi
a proteggere dall’inondazione le botti.
Soltanto all’una dopo la mezzanotte il cielo
incominciò a calmarsi.
Nella mattina il territorio è apparso tutto devastato e il danno maggiore si è avuto nei seminati
adiacenti ai fiumi.
Da circa 40 anni Carsoli non aveva più assistito
ad un simile spettacolo»1.
ù
«Il giorno 14 corrente [novembre] il Cav. Uff.
Colelli, in occasione del battesimo del suo bambino, al quale ha imposto il nome di Antonio in
omaggio alla memoria del suo genitore D.re
Cav. Antonio, convennero in sua casa le migliori famiglie ed i notabili del paese.
Alla simpatica festa intervennero il sig. Avv.
Gio:Battista Placidi, l’Avv. Marcangeli e famiglia, la Signora Marianna Mattei ved. Mary, il
sig. Adelfo Angelino e sua signora, il sig. Giovanni Scafi e famiglia, il sig. Luigi Petrocchi, si-
gnori Arnaldo ed Ovidio Tarantini, sig. Gaetano Paoni, sig. Emilio Del Mese, sig.na Maria
Angelini, sig. Alberto Munzi, Cav. Francesco
Talamo, signorina Laura De Angelis ed altri dei
quali omettiamo per brevità i nomi.
Il battesimo, per gentile mediazione dell’egregio Arciprete Don Proino Arcangeli, venne
fatto in casa.
La festa che riuscì cordialissima, dopo il consueto rinfresco innaffiato di buon champagne,
ebbe termine con danze»2.
ù
«CARSOLI, 6 [dicembre]. La mattina del 2
corrente Agostino Preti dell’età di anni i 60
doveva sposare in chiesa la signora D’Alessandro Maria di anni 75.
Molti curiosi si erano fermati, sin dalle prime
ore del mattino dinanzi alla chiesa di S. Vittoria
dove doveva celebrarsi il matrimonio.
Il Preti trovavasi nelle vicinanze della piazza
Corradino per accompagnarsi alla sposa ed aspettava il momento propizio per entrare in
chiesa inosservato.
Verso le ore sette la fidanzata veniva da porta
Napoli ed il pubblico accortosi della sua presenza incominciava a vociare e fischiare.
In più punti udivasi il suono di strumenti
assordanti ed in pochi secondi la popolazione
aveva invasa la chiesa e le vie adiacenti.
Il povero Preti, vista la mala parata, scoraggito si
allontanava dalla chiesa abbandonando la sposa.
Costei, vistasi sola, non riusciva a frenare l’ira, si
metteva a gridare e gesticolare pazzamente.
Il pubblico a tale scena gridando e schiamazzando, correva dietro il povero Preti, che non
sapeva dove salvarsi.
Intanto la sposa veniva accompagnata a casa da
alcune delle amiche che cercavano di consolarla facendole comprendere che, se lo sposalizio
ebbe così triste fine, ciò si doveva unicamente
alla dimostrazione popolare.
Noi siamo addolorati dell’inconveniuente avvenuto nella mattina del 2 corrente e facciamo
voti che la dimostrazione non abbia a ripetersi a
danno dei due colombi …»3.
«Nel mattino del 2 corrente, dall’una alle due,
diversi lupi sono calati dalle montagne del Tufo
e sono entrati nell’abitato di Carsoli dalla parte
della fortezza.
In via dei Merli si trovavano all’aperto, in vicinanza di alcune stalle, 127 pecore di proprietà di
Ferranti Bernardino e Ciccosanti Luigi.
I lupi si sono avventati contro il gregge scannando 18 animali, altrettanti ferendone.
In sul far del giorno in detta via si ritrovarono
soltanto 20 pecore mentre le altre erano fuggite
per i vicoli del paese. Una fu trovata in piazza,
nelle vicinanze della caserma dei RR. Carabinieri.
Nessuno ricorda che sia mai avvenuto un fatto
simile.
Data la quantità di pecore scannate e ferite i
lupi dovevano essere parecchi e devono avere
percorso parecchie vie dell’abitato.
Naturalmente il fatto ha impressionato moltissimo i proprietari di bestiame, tanto più che
di pieno giorno alcuni pastori hanno più volte
avvertito la presenza dei lupi nelle circostanti
campagne di Carsoli.
ù
Quest’oggi il vetturale del sig. Marco Bascianelli mentre passava col legno in piazza Corradino investì due ragazzi che fortunatamente
restarono illesi. Nella confusione urtò il banco
dell’orefice di Tagliacozzo sig. Achille D’Angelo
facendo cadere le vetrine contenenti oggetti
d’oro. Il danno risentito dal sig. D’Angelo si fa
ascendere a circa cento lire»4.
ù
«Carsoli 9 [novembre]. Il canonico don Giovanni Simonetti oltre le esperienze che fa per
conto della Cassa Rurale di Carsoli, relativmente a produzioni agricole, ne eseguisce alcune
anche per proprio conto, e nei suoi terreni.
Dopo alcune prove sperimentali, è riuscito ad
ottenere splendidi risultati.
Così in un terreno in contrada Ripe di questo
comune, della estensione di due ettari, ha
ottenuto in questo anno una produzione di
grano di 36 quintali per ettaro, contro 6, e al
massimo 10, avuti negli anni passati.
Detto terreno è di natura composto (silicioargillo-calcareo) colla parte superiore di circa
un ettaro completamente sterile, secondo il
detto dei contadini, e refrattario a qualunque
coltivazione, tanto che il granturco ed i fagioli
non vi si producevano affatto: e del grano, nei
pochi anni nei quali vi fu seminato, appena
appena si rifaceva la semente.
Il sig. Simonetti nel primo anno lo concimò con
perfosfato, cloruro di potassa e gesso e vi
seminò del grano. Il risultato del 1906 non fu
confortante sebbene a primavera vi avesse
somministrata una forte dose di nitrato di soda.
I contadini se ne burlavano e a conferma delle
loro idee, sostenevano che il terreno suddetto
era improduttivo e quasi biasimavano
l’iniziativa del Simonetti, il quale però convinto
che la scienza agraria non è una opinione, ma è
fondata su basi solide e che bisogna semplicemente saperla adattare alla natura delle terre e
dei luoghi, perseverò nella sua idea.
Il risultato ottenuto lo convinse che nel terreno
mancava la materia organica e che i concimi
chimici avrebbero operato in modo soddisfacente solo quando ad essi vi fosse aggiunta la
coltura delle leguminose che costituivano appunto la detta materia organica. In fatti vi seminò del trifoglio pratense e nell’ottobre 1906
ripetè la concimazione in modo più forte e vi
mise cinque quintali di perfosfato ad ettaro e un
quintale e mezzo di cloruro di potassa. È da notarsi che il gesso non era necessario perché il
terreno è di natura calcareo. La forte concimazione fece subito cambiare aspetto al terreno, e
quella terra, quasi sterile, produsse un trifoglio
bellissimo. Nel giugno del 1907 di quel terreno
fu venduto il taglio di erba a L. 20,00 la coppa
(milleduecento metri quadrati). Il secondo taglio non si poté fare per la grande siccità. Il Simonetti in quell’epoca sovesciò il trifoglio, e il
campo corrispose all’aspettativa poiché il grano
dalla nascita fino all’epoca della spigatura si
mantenne di un colore verde intenso, tanto che
il campo destò le meraviglie di tutti e nella produzione si ottennero 36 quintali all’ettaro.
Da tale esperimento risulta chiaramente che la
terra si può portare ad una fertilità massima
colle razionali concimazioni chimiche.
Lo scopo del Simonetti è quello di avviare il
paese al risorgimento agricolo sfatando così il
concetto volgare del contadino il quale sostiene
che le terre di questo estremo lembo dell’Abruzzo non si prestino alle razionali concimazioni chimiche. Allo stesso scopo il Simonetti
l’anno scorso dimostrò che la semina fatta a righe colla seminatrice Sack produce un quinto di
più di grano di quello seminato alla volata, col
solito aratro, e che si ha anche un risparmio di
lire 25 per ettaro. Seminò 4 chilogrammi e mezzo di grano e ottenne 40 covoni, mentre in una
eguale zona, dove seminò 12 chilogrammi di
grano raccolse 30 covoni.
Noi ci auguriamo che i contadini in genere, ed i
proprietari in ispecie, corrispondano alla utile
iniziativa del Simonetti e facciano omaggio alla
celebre frase di Ovidio che disse delle terre di
Carsoli:
Ad segetes tamen ingeniosus ager (ingegnoso per
le messi)».5
4
Ibidem.
ivi, 14-15 novembre 1908,
p. 1.
5
Lumen
39
Ristampa
Sulla Carboneria
nel Regno di
Napoli
da Redazione
L
a circolare diffusa in modo riservato
dal ministero della Giustizia e del Culto
lascia chiaramente intendere che le
prime attività della setta furono tollerate e che ebbero inizio ben prima del 1813.
«GABINETTO DEL MINISTRO
Circolare riservata
Napoli il 6 ottobre 1813
Il Gran-Giudice
Ministro della Giustizia, e del Culto
Agli Arcivescovi, a’ Vescovi, ed agli Ordinarj.
adunanze, composte per la più parte,
di nomini popolari, dette perciò de’ Carbonari,
cominciarono, non ha molto, a riunirsi in varj
luoghi del Regno. S(ua) M(aestà) non credette
vietarle, si perché è proprio di un Governo liberale il non vietare a’ cittadini alcun’azione indifferente, si perché l’oggetto di tali adunanze appariva non solo innocente, ma anche virtuoso.
Ma qualche fatto criminoso avvenuto ultimamente ha fatto conoscere che taluni malintenzionati, ammessi a tali adunanze, ove il maggior
numero è di gente ignorante e facile ad essere
illusa, hanno abusato di questo mezzo per
macchinare de’ complotti, tendenti a ladronecci, ad assassinj, a saccheggi di pubbliche casse. S.
M. ha creduto perciò necessario proibire
ALCUNE
Sopra: circolare
contro la Carboneria
Segnalazione archivistica di
M. Sciò
Pubblicazione della Associazione Culturale
Lumen (onlus)
67061 Pietrasecca di Carsoli (AQ)
via Luppa, 10
E-mail: [email protected]
Redazione: don Fulvio Amici, Luciano Del
Giudice, Claudio De Leoni, Sergio Maialetti, Paola Nardecchia e Michele Sciò.
Illustrazioni in copertina:
Copertina del bollettino La voce del Santuario
Immagini: S. Maialetti, M. Sciò, archivi
fotografici privati, web
Composizione: M. Sciò
40
Lumen
Sulla comparsa della società segreta
chiamata Carboneria nel primo
Ottocento si è molto discusso,
soprattutto per quanto riguarda gli
inizi della sua attività nel Regno
napoletano e sui rapporti con gli
ambienti murattiani.
siffatte unioni, divenute, per la esposta circostanza, oltremodo perniciose.
Io v’inculto di secondare efficacemente co’
mezzi della Religione le giuste mire del Governo, ispirati da avversione alle suddette adunanze, ove le persone ignoranti, sedotte da qualche
socio perverso, possono trovarsi impegnate in
azioni vietate dalla Società, egualmente che dalla Religione .
Avvertite però di portare in questo affare la più
grande riserva. Guardatevi di mai predicare
contro le dette adunanze, o di fare in pubblico
qualunque avvertimento. I mezzi da adoperare
non debbono essere che esortazioni individuali, fatte in segreto, opportunamente, e con prudenza. Ingiungete lo stesso segreto, e la stessa
condotta a’ Parochi, ed a’ Confessori, che crederete abbastanza prudenti per esser chiamati
a parte di questo incarico.
Riscontratemi del ricapito di questa mia, e di
tutto ciò che di mano in mano potrà occorrere.
Ogni rapporto su questa materia mi sarà
diretto in plico riservato a me solo.
Il Governo in questa occasione vi onora di una
gran fiducia. Son certo che vi corrisponderete
pienamente. Vi ripeto la mia perfetta stima».
NORME PER GLI AUTORI
L’Associazione Culturale Lumen pubblica scritti
di autori italiani e stranieri a carattere divulgativo, utili alla vita sociale e culturale della piana
del Cavaliere e dei territori limitrofi. Gli scritti
devono essere realizzati preferibilmente con
videoscrittura idonea all’ambiente IBM e compatibili (non Macintosh) e inviati agli indirizzi
dell’Associazione. La collaborazione si intende
a titolo totalmente gratuito. Gli autori sono
responsabili delle affermazioni contenute nei
loro scritti. Le bozze verranno corrette
internamente e non saranno allestiti estratti,
ma verranno inviate agli autori n. 2 copie del
fascicolo dove compare il loro articolo.
[Segue firma]
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periodo estivo.
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