Foglio di Lumen 20 - Associazione Lumen
Transcript
Foglio di Lumen 20 - Associazione Lumen
lumen Il foglio di Miscellanea 20 Anno 2008 Documenti & Ristampe 2 6 Il viaggio di Fabio Gori (2a parte) da Fabio Gori 10 Documenti & Ristampe sono fascicoli speciali, dedicati agli scritti rari e di difficile reperimento, che in epoche diverse sono stati compilati sul Carsolano e sui territori limitrofi. Nella selezione si tiene conto anche di quel che è utile per l’insegnamento della storia locale nelle scuole. Una vacanza narrata in versi da Anonimo 17 Curiosità archivistiche sul soggiorno di Benito Mussolini a Campo Imperatore Notizie da libri dell’Ottocento da Redazione da Redazione 20 La leggenda della Madonna dei Bisognosi in un’operetta teatrale 25 da P. Paolo Gaspare Forcina 28 da Ignazio Carlo Gavini 34 Le dispute sul confine da Oricola a Tufo di Carsoli (1837) 36 da Richard Colt Hoare All’interno Q uesto è il ventesimo numero de il foglio di Lumen, per noi è un evento, così lo festeggiamo con qualche macchia di colore in copertina. Apriamo il fascicolo con la ristampa (2a parte) del viaggio di F. Gori nel Carseolano a metà Ottocento, per poi passare ad un opera in versi stilata nei primi decenni del Seicento da un poeta anonimo in vacanza a Vallinfreda (RM). Le sue rime, a volte burlesche, tratteggiano gli aspetti naturalistici delle nostre contrade e i caratteri dei suoi abitanti. Seguono alcuni documenti riguardanti la permanenza di Benito Mussolini a Cam- I primi giorni di guerra. Lettere di combattenti nella Prima Guerra Mondiale da Redazione da Redazione Le rovine di Carsioli a fine Settecento Le prime escursioni sui monti di Pereto, Camerata Nuova e Carsoli (1888-1891) 38 Cronache di Carsoli nei ritagli di giornale da Redazione 40 Sulla Carboneria nel Regno di Napoli da Redazione nell’Ottocento come, ad esempio, una descrizione geologica del nostro territorio e di quelli limiCon la prossima dichiarazione dei redditi si può destinare il 5 per mille dell’IRPEF alle trofi, la segnalazione di una strada che in epoca associazioni di volontariato. Chi vuole so- romana avrebbe attraversato i monti Simbruini stenere le nostre attività può firmare sotto la e le memorie di un viaggiatore inglese che, dopo dicitura “Sostegno del volontariato, delle or- aver visitato il lago Fucino e le terre circostanti si ganizzazioni non lucrative ecc.” E indicare fermò a vedere le rovine dell’antica Carsioli. A il codice fiscale della Associazione Culturale tutto questo abbiamo unito alcuni ritagli di giorLUMEN nali di primo Novecento. In particolare segna90021020665 liamo la ristampa di un’operetta teatrale ispirata po Imperatore dove si descrive l’organizzazione alla storia della Madonna dei Bisognosi e le della vigilanza al capo del fascismo e alcuni mo- lettere inviate alle famiglie dai combattenti la menti che precedettero e seguirono la sua libera- Prima Guerra Mondiale. zione. Altre notizie sono prese da libri editi AVVISO AI LETTORI Ristampa Il viaggio di Fabio Gori (2a parte) da Fabio Gori 1) Qui però è da notarsi che la chiesa della Madonna delle Celle di Carsoli ebbe il titolo di cattedrale nel X secolo. Attone, figlio di un conte de’ marsi, fu eletto vescovo con giurisdizione sulle valli di Carsoli e di Nesce. V. Lucent. ad Ughell. col. 1297. Ma il concilio fiorentino abolì questo nuovo vescovato, e Vittore II trasferì Attone alla sede di Chieti. Sotto: C.I.L., IX, n. 4071 2 Lumen P roseguiamo la ristampa del viaggio di Fabio Gori, ricordando che la prima parte è stata pubblicata nel n. 17 della Miscellanea di Lumen. [p. 126] FONTANA E TAVOLA DE’ 4 VESCOVI, RIOFREDDO, VALLINFREDA, VIVARO, PETESCIA, POZZAGLIA, ORVINIO, NESPOLO, PAGANICO, COLLALTO, POGGIO GINOLFO, PERETO E SANTUARIO DI N. D. DE’ BISOGNOSI Al confine del territorio di Oricola con quelli di Vivaro, Petescia e Collalto, si vede la Fontana e tavola de’ 4 vescovi così descritta da Giuseppe Lolli in una Risposta sull’emissario del Fucino: «In questo tratto s’incontra la speciosa fontana de’ quattro vescovi con una speciosa mensa e suoi cor [p. 127] rispondenti sedili di ottima pietra e di ugual lavoro travagliata da mano maestra. In ogni lato di essa fontana si vede scolpita una mitra collo stemma e nome della sua rispettiva diocesi. La sua rara combinazione merita di esser riportata per l’accidental centro di un quadruplicato confine che stabilisce a quattro diversi vescovati, ove ognun di essi viene a confinar in quel lato in dove riconosce lo stemma della sua mitra questi sono il vescovato de’ marsi (Oricola), quello di Tivoli (Vivaro), quello di Sabina (Petescia) e quello di Rieti (Collalto). Non di raro succede che o nel rimpiazzo di qualcuno di que’ vescovi, o nell’incontro di ritrovarsi tutti usciti contemporaneamente in visita, sogliono in tal caso appuntar fra di loro un divoto convito in quel centro per ivi complimentarsi e desinar insieme nell’ugual dominio, in dove il più curioso è di vedersi tutti uniti col restar ognuno a seder dentro la diocesi del suo vescovato». Ma Il brano è tratto dalla sua opera Da Roma a Tivoli e Subiaco, alla grotta di Collepardo, alle valli dell’Amsanto ed al lago Fucino, nuova guida storica, artistica, geologica ed antiquaria edita per la prima volta nel Giornale Arcadico, n.s., tomo CLXXXII (1863), pp. 126-140 dopo la nuova organizzazione della diocesi sabina eseguita da pp. Gregorio XVI, essendo Petescia passata nella diocesi tiburtina, al presente nella medesima tavola non possono aver luogo che i vescovi di Rieti, di Tivoli e de’ Marsi. E qui si noti che, secondo l’Ughelli nell’Italia sacra, sì gli equi come i marsi vivendo quasi misti fra i limitrofi monti, furono in origine evangelizzati dal galileo s. Marco, il quale creò un sol vescovo residente in Atina: ma in appresso la diocesi fu divisa in due, in quella cioè di Atina ed in quella de’ marsi, nella quale [p. 128] vennero compresi per maggior comodo alcuni equicoli di queste contrade (1). Verso RIOFREDDO vicino ad un antico ponte della Valeria si scorge la chiesa di s. Giorgio di architettura gotica e protetta da una torre. In prossimità della strada appoggiati ad una maceria ho osservati due massi, in cui sono scolpiti un animalaccio con coda arricciata ed un cerchio con razzi, i quali simboli ho rimarcato in molti luoghi in Sabina. Seguono a ridosso del monte sulle frontiere attuali dello stato pontificio, e del governo di Arsoli e distretto di Tivoli, VALLINFREDA e VIVARO, nel cui forte rinchiusosi con soli 25 uomini l’insorgente mastro Lavinio (ch’esercitava l’arte del ferraio) resistè nel 1799 a 1500 francesi che nel piano sottoposto aveano respinto un corpo d’insorgenti dentro la macchia di Sesara ed ucciso uno de’ loro più valorosi condottieri Mariano Mariani! Nella terra di PETESCIA si rientra nel regno, ossia nel mandamento di Orvinio, sottoprefettura di Rieti, provincia di Perugia. Zampilla incontro la famosa Acqua-Santa che in un grazioso poemetto latino di Carlo Valentini si asserisce sgorgare la mattina e la sera all’ora di pranzo e di cena: [p. 129] Ne mirare tamen certo si tempore manat, Nam solet bis horis pellere quisque sitim. Il fiume Rio, confluente di quello di Sesara, scorre fragoroso sotto scogli pittoreschi: gli sovrastano due montagne aguzze, sopra le quali si affacciano MONTORIO IN VALLE e PIETRA- FORTE, dove il quadro di s. Elena è opera di Guido Reni. La ripa di Montorio presenta un ciglione grosso e staccato che viene a bagnarsi nel Rio. Forse era qui ’l confine degli equi e sabini. Alla sponda opposta, dopo un’ aspra montagna e sopra una larga valle, si possono visitare il castello di POZZAGL1A (2), ed il capo del mandamento Canemorto che per decreto regio nel 1863 ha cambiato il nome in quello di ORVINIO perché ad alcuni antiquari è piaciuto di situarvi Orvinium, quantunque non serbi il suolo le vestigie di quella splendidissima città sabina, come la chiama Dionisio lib. II, già abitata dagli aborigini e adorna del tempio di Minerva nell’acropoli. Ad altri antiquari è garbato di collocare in Canemorto Caenina per la iscrizione rinvenuta sul vicino monte Brunetta e trasportata in casa Taschetti: [p. 130] IOVI . CACVNO R. C. le quali ultime parole hanno spiegato Respublica Caeninensium. Non essendovi prove più precise, è meglio di non interloquire in tali questioni. Il vasto palazzo dell’ex-feudatario Borghese (3) ridotto ad uso di carceri, a granai, e sala di udienza giudiziale; la chiesa, dove osservai un buon quadro de’ ss. Rocco e Sebastiano, e la strada che fra due torri spaziosa si apre e traversa il comune, sono le cose più rimarchevoli. Si spera che fra breve si possa venire in Orvinio dalla Valeria e dalla Salaria per una via carrozzabile. È pittoresco il colle dirupato ed isolato, su cui sorge l’eremitorio colla chiesa di s. Maria di valle buona: un altro colle denominato Castellano ha sopraccapo le ruine di un castello: al sud poi giganteggia su foschi monti la Brunetta, dove esiste una cava di alabastro cereo un po’ fragile. Ma è tempo di ricalcare le già stampate orme. Valicato il fiume quasi dirimpetto a Petescia, o dove zampilla una fonte minerale, si può entrare nella gola profonda e in sommo grado pittoresca formata dagli alti monti Cervia e s. Giovanni. Le varie forme, nelle quali si presentano i dirupi, e le molte grotte vaneggianti per ogni lato riempiono lo spettatore di meraviglia. Una caverna più grande [p. 131] dell’altre aperta nel monte Cervia cova nel seno una sorgente: ivi, secondo la relazione di due collaltesi fededegni, si è trovata qualche antica moneta d’argento, e dallo stesso speco alcuni anni fa per due volte sboccò all’improviso un ruscello solfureo che andò a colorare il fiume. Vedesi finalmente un rivo, dopo avere voltata la mola di Collalto, precipitarsi nel mezzo della gola, e verso il fine cascare strepitoso fra i macigni accatastati e rimescolarsi in una voragine denominata Uriu sfonnàtu perché avendovi git- tate grosse pietre raccomandate a corde lunghissime, non si è potuto mai toccare il fondo. Essendo la descritta pantanella di Civita quasi incontro al monte Cervia, non potrebbesi credere che abbia origine l’acqua solfurea da esso? Sulla cima del monte s. Giovanni esiste una chiesuola colle rovine di un convento. Alla parte opposta sorge la punta del Cervia più alta di questa. Non si può adeguatamente descrivere a parole l’effetto prodotto dai folti castagneti che verdeggiano alle radici degli stessi monti e variato dalla visuale di molte balze, su cui siedono i castelli chiamati TUFO, NESPOLO che ha nel suo territorio cave di ligniti, S. LORENZO, RICETTO,COLLE GIOVE, PAGANICO e MARCETELLI. In mezzo ai quali ultimi nella contrada Obitu le rupi scisse dalla forza tellurica sono nel mezzo flagellate dall’irrequieto corso di un torrente. Precisamente poi vicino a Paganico nella contrada Pietrascritta esiste l’iscrizione scolpita in una larghissima lastra e già copiata dal Gudio: [p. 132] 2) Gli Orsini, i Conti, i Muti e finalmente i Borghese sono stati i feudatari di Pozzaglia. Nella spaziosa valle sottoposta, da cui prese ’l nome l’antico monastero e chiesa di s. Maria, si trovano, secondo il Piazza, molti corpi umani coperti con tegole o in urne di pietra. 3) Prima i monaci di s. Maria in valle, poi i Muti, quindi i Borghese hanno posseduto Canemorto col titolo di ducato. P. MVTTINIVS P. F. PATER CLODIA. MATER P. MVTTINIVS. P. F. SER. SABINI Scendendo dal monte s. Giovanni si risale a COLLALTO, dove si visita la fortezza erettavi nel 1720 dal card. Francesco Barberini e munita con 30 cannoni, portati via dai francesi nel 1799. Spaziosa è la corte: una scala di pietra a chiocciola ascende sul maschio. Oltre la campana per l’orologio, vi sono frequenti torrioni e troniere per ogni lato e mura larghissime provviste di casotti per le sentinelle. Si additano ancora le carceri e la stanza della tortura. In somma si vede un bell’esempio di fortezza del secolo passato. I principi Barberini sino al 1799 vi hanno mantenuto un castellano, l’ultimo de’ quali fu il distinto letterato sublacense Antonio Palma, che da tale carica prese motivo di dedicare a D. Francesco Barberini figlio del principe D. Carlo la sua traduzione delle Favole Esopiche di Fedro, stampata in Roma sotto il nome arcadico di Amalpe Laconio nel 1798, presso Vincenzo Poggioli. Prima de’ Barberini hanno posseduto il feudo di Collalto i conti Mareri, Soderini e Zambeccari signori anche di Poggio Ginolfo. In Collalto termina la provincia di Perugia, la sottoprefettura di Rieti, ed il mandamento di Orvinio. Vi risiede un delegato straordinario di Sopra: C.I.L., IX, n. 4053 Lumen 3 pubblica sicurezza, ed una compagnia di linea affinchè non si rinnovellino gli atroci fatti che andiamo ad esporre. Nel giorno delle ceneri nel mese di febbraio 1861 [p. 133] un’accozzaglia di ladroni ed assassini in numero di circa 900 comandati da De Christen, Giorgi, Chiavone e Luverà, unicamente per l’ingordigia della preda, provenienti da Poggio Ginolfo, alle 3 pomeridiane assalirono Collalto. I più coraggiosi terrazzani (in numero di circa 18) riconoscendo tra loro i peggiori ladri del circondario si difesero per circa due ore uccidendo non pochi aggressori; ma terminate le munizioni, delle quali un carico senza loro intesa era giunto sino al casino del sig. Domenico Macchia, saltarono dalle mura e diedersi alla fuga. Gli assalitori, ciò veduto, ascesero sugli abbandonati spalti e colle scuri atterrarono la porta. Il sig. arciprete D. Antonio Latini uscì dalla chiesa parrocchiale col crocifisso in mano insieme al fratello dottor Bartolomeo. E mentre quest’ultimo sventolando un bianco fazzoletto gridava pace, pace, un colpo di archibugio lo stese esanime al suolo. Corse a tal fatto la di lui sorella sig.a Bernardina onde soccorrere il fratello, ma ad essa ancora non si vergognarono i masnadieri di tirare una fucilata e di ferirla! Gittarono poi a terra dalle mani dell’arciprete il Cristo, prendendolo a schiaffi, pugni e calci. Uccisero due contadini marito e moglie, non risparmiando la vita neppure ad una bambina di circa 15 mesi di loro figlia che infilzarono sulla baionetta. Non si possono quindi adeguatamente descrivere gli orrori che commisero nel saccheggiare le ben fornite case del castello. Basti ’1 dire, che lasciarono quasi ignudi i poveri abitanti. Un tal Mari di Carsoli dové pagare una forte multa se volle salva la vita. Avendo però appreso che erano giunti a Canemorto cir [p. 134] ca 1200 soldati con quattro pezzi di cannone, fuggirono in Arsoli e si diedero in mano ai gendarmi che li condussero in Roma. Fu allora che si videro molti di que’ mascalzoni marciare vestiti non solo cogli abiti rubati ai collaltesi, ma anche colle gonnelle tolte alle donne. Un vecchio dai canuti e lunghi capelli appoggiato ad un bastone incedeva tra essi … Di qual delitto non sei madre, o sacra Fame dell’oro? La sullodata famiglia Latini ha illustrato questo castello. Ivi nacque nel 1797 D. Carlo Latini dottore nell’una e l’ altra legge, canonico della cattedrale di Rieti e vicario generale della diocesi di tal nome. Sopra molti altri suoi scritti in prosa ed in versi gli procacciarono somma lode Iuris civilis elementa stampati in Rieti da Salvatore Trinchi nel 1830, e la Storia Sabina che si conserva manoscritta nell’archivio della detta 4 Lumen cattedrale. Morì in Rieti la notte del giorno 21 marzo 1841, festivo del patriarca s. Benedetto, in onore del quale aveva composto poco prima un classico panegirico. Il celebre cav. Angelo Maria Ricci gli tessé un elogio storico, e fu compianto da un’eletta schiera di poeti rietini, come risulta dai componimenti pubblicati dal Trinchi nello stesso anno. Il rinomato professore di farmacia teoricopratica, collaboratore e preparatore di chimica nella università romana, membro dell’ac [p. 135] cademia de’ nuovi Lincei, del collegio farmaceutico di Roma, dell’accademia reale medica di Napoli, di quella di farmacia di Brusselles ecc. Vincenzo Latini fratello del precedente nacque anch’esso in Collalto nel 1805. Fra le numerose memorie ed analisi chimiche da lui scritte e date alle stampe vanno rimarcate le scoperte che fece sull’ammoniaca. I tribunali criminale e militare di Roma a lui affidavano sempre le più delicate indagini di venefìcio. Il municipio romano di lui servivasi nelle analisi de’ viveri, vini ed altri generi di tal fatta. Amico ed emulo de’ celebri professori Antonio Chimenti e Pietro Peretti, non si fece mai sedurre dall’orgoglio, dal fasto e dall’interesse. Il suo corpo fu ognora tormentato dalla gotta, la sua anima dai domestici dispiaceri per le successive perdite de’ fratelli, di un figlio ventenne e della consorte. Dopo 57 giorni di fiera malattia, durante la quale non poté pronunciar sillaba, quantunque conservasse le facoltà intellettuali, morì in Roma addì 3 giugno 1862. Una epigrafe dettata dal ch. p. Angelini gli fu apposta sulla tomba nella chiesa di s. Lorenzo in Miranda dal collegio de’ farmacisti. Da Collalto verso sud-est si scende a POGGIO GINOLFO, mandamento di Carsoli, già feudo de’ conti Mareri, poi de’ Zambeccari, quindi de’ Savelli, in appresso de’ marchesi Marcellini e Marciani, e degli Ottieri, situato in amena altura esposta a mezzogiorno e cinto da’ migliori vigneti de’ contorni. I baroni Coletti vi posseggono uno splendido palagio, in cui si trattengono negli estivi calori. Traghettato nuovamente il fiume, e lasciato a sinistra Carsoli, si costeggiano tre altri confluenti chia [p. 136] mati Santumare, Cammaranu e Scadrafoce, l’ultimo de’ quali prima che fosse deviato nel 1857 andava a sommergersi in uno scoscendimento di monte eguale a quelli di Cerreto, Arsoli, Cervara e Collepardo, e chiamato il Méuriu, La macchia di VILLA ROMANA e VILLA SABINESE gitta l’ombra de’ cerri secolari sul Méuriu e sulla Vena di pimpa formata da due laterali pareti calcaree e rossastre che rassembrano ad un grottone scoperchiato. Poco lungi esposto al mezzogiorno si trova PERETO ch’è il comune più popoloso di questa pianura, ivi si visita la rocca già valida difesa de’ suoi baroni. Nella casa già Vendetti ed ora Camposecco fu apposta per bocca di un pozzo una corona civica scolpita nel marmo. L’ire de’ partiti popolari funestarono questa terra nel 1860, sfogandosi contro il sig. Luigi Mari di Carsoli ch’era venuto a diporto e fu barbaramente ucciso e trascinato per le strade, benché fosse una persona innocua e rispettabile. Ma la punizione inflitta ai rei si spera che non farà più rinnovare simili eccessi. Fin dal 1310 era Pereto feudo de’ Maccafani. Tra gli uomini illustri nati in questo luogo vanno notati i vescovi de’ Marsi della detta famiglia Maccafani, Angelo (1466), Francesco (1470), Gabriele (1471) e Giacomo (1533), i quali prelati con raro esempio si succederono nella sede. È da rammentarsi ancora il famoso teologo, nemico di Giovanni Huss, p. Antonio Angelo da Pereto, eletto nell’anno 1405 generale dell’intero ordine de’ minori conventuali. Il pontefice Giovanni XXIII lo inviò nunzio in Inghilterra e gli diede le facoltà per dispensare il grado di consanguineità fra Tommaso [p. 137] figlio di Enrico IIII e Margherita di Olan~ da figlia del conte Giovanni da Penafort. Morì nel 1421. Antonio ed Angiolo Vendetti da Pereto combatterono valorosamente sotto Marco Antonio Colonna nella campagna di Valbisogna nel 1510, anzi in essa il secondo ottenne ’1 grado di capitano. Nella chiesa di s. Giovanni Battista fu decorato con un famoso quadro nel 1600 l’altare del ss.mo Redentore dal sac. Francesco Grassilli. E nella chiesa di s. Giorgio nella cappella de’ Vendetti un altro buon quadro fu dipinto dal Bacicci: quivi pure giace il corpo del martire Colombo estratto dalle catacombe di Roma. Varie iscrizioni raccolte dal Vendetti si trovano pubblicate ex schedis carsiolanis Amadutii dal Mommsen loc. cit. al n. 5684 e segg. PHILARGVRVS. VILICVS. CORRI AED. LAR. D. S. P. F. C Sta ora nel Museo vaticano in diis col. 1 IIEDIO. FLACCO – FIL. TR. MIL. II. LEG. X GEM PRAEFECT. FABR. BIS IIII. VIR. IVR. DIC. QVIN [p. 138] II ù Q. AVILLIENVS. FEL .... M. OLIVS. SECVNDV . . . IIII. VIR. I. D PARIETEM. BASILICAE. REF . . . AB. FVNDAMENTIS. ET. ARCV . . EX. D. D. P. P. F. C Anche questa è nel museo vaticano mag. 1 Q. VARIO IVCANO SIVIRO AVG. MART. PAT. COLNA BRIVII CN ANN FRVM POIVIT QVIX. ANN. LXXVIIII MENS VIII DIES XV HOR IXX SI CII SIB ET LOLLIAE MATIDIAE COIVCI SVE EX COMMVNEPAV ù THORIA INGENVA corona H di quercia C C. PETIDIO. PRIMIONI. MAG. MART. Quest’altra iscrizione stava ai tempi del Feboni fuori di Pereto verso Carsoli nella chiesa di s. Pietro, ma in appresso la lesse il Cardinali negli orti Maccafani: [p. 139] Q. AVILLIENVS. Q. F. BASSVS MAGISTER. IVNIVS IIII. VIR. AED. POT IIII. VIR. IVR. DIC La montagna allato di Pereto chiamata anticamente di Carsoli sostiene sul vertice il famoso santuario della Madonna del Monte o di Maria ss. de’ bisognosi, dove si venera una statua della Vergine scolpita rozzamente in legno di olivo col Bambino in braccio, la quale si vuole che da un gentiluomo nomato Fausto e da un ebreo convertito fosse nell’anno 610 trasportata in Italia da Siviglia per esimerla dagli oltraggi de’ saraceni invasori della Spagna. Dice una leggenda, che posta la sculta effigie sul dorso ad una mula, questa inciampando lasciasse impresse le ginocchia nel vivo sasso dove hanno costrutta una edicola, e poi si andasse a fermare in mezzo ai territorii di Pereto e Rocca di botte, fissando ivi in perpetuo i contrastati confini, ed in luogo dove Fausto ritrovò il figlio Procopio riputato morto: che il monte in parola si chiamasse Terra secca perché era sterile, ma al giungere della statua «cambiò natura, si rivestì ad un tratto di ameni arboscelli, di verdeggianti erbe, di vaghi fiori e divenne fecondo ed abbondante»: e che per i miracoli operati e per essere stato liberato da una grave infermità il pontefice s. Bonifacio IV venisse egli da Roma a consacrare il tempio addì 11 giugno del 613. Nel [p. 140] giorno poi 5 novembre del 1724 il capitolo vaticano con solennissima pompa ed immenso concorso di popolo impose due corone d’oro sulle teste della Vergine e del Bambino. La chiesa rimodernata conserva nelle arcate l’indizio ch’era di architettura gotica: rimontano al 1488 gli affreschi nei quali si ritrae tutta la leggenda del trasporto della statua da Siviglia a questo monte, come la raccontano a lungo il Feboni Hist. Mars. lib. III. p. 211 e segg., ed il Corsignani Reggia Marsicana lib. 1. c. 13. Lumen 5 Ristampa Una vacanza narrata in versi da Anonimo L e rime che seguono sono una rara descrizione poetica, con sfumature burlesche, di Vallinfreda e della piana del Cavaliere, compilate da un verseggiatore che ben conosce i luoghi. La familiarità con la zona è dimostrata dal citare località solitamente ignorate come Prugna o Camerata Vecchia. [275] 1 Francesco Berni (Lamporecchio 1497(?)-Firenze 1535) letterato noto soprattutto per le sue rime scanzonate e irriverenti, nonché per le sue farse. Satireggiò anche personaggi di rango come papa Adriano VI e Pietro Aretino. La sua opera più apprezzata è la versione in lingua toscana dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo. 2 Antonio Bruni (Manduria 1593 - Roma 1635). Letterato dei primi decenni del XVII secolo, pubblicò la sua prima opera, La selva di Parnaso, nel 1615. Fece parte di molte accademie tra le quali quella dei Fantastici e degli Umoristi di Roma. Notizie più dettagliate in M. De Filippis, Antonio Bruni, 1593-1635, in The Modern Language Journal, 20, fasc. 3 (dicembre 1935), pp. 151157 e M. Ridola, Antonio Bruni: seicentista salentino e il suo mondo petico, s.l. 1955. 3 Il poeta si riferisce al bosco di Sesera. Sopra: frontespizio dell’opera Segnalazione bibliografica: M. Sciò 6 Lumen Al medesimo Signor Antonio Bruni2 Ch’io descriva, tu brami, in foglio angusto Il sito, e la natura de’ paesi; Ov’io di villeggiar prendomi hor gusto Di grafica io non so, né di Matesi E se vidi talor qualche Cosmografo; Non però l’arco a tale studio intesi. Musa; tu che facesti esser Geografo In buon Dioniso; e prima ancor facesti. Omero, ancor che cieco, esser Topografo. Io non t’invoco a queste ciance, a questi Versi baioni miei, rozzi, e malfatti: Ch’io so, che divenirvi a schifo havresti. Hor se non vuoi venir Musa; e tu statti, Manda almeno una fante; e manda quella, Che spazza in casa, e rigoverna i piatti Io so; che s’ella vuol, sa farsi bella: E che s’abita, io sò; com’huom ragiona; In cucina talor meglio, ch’in cella. E so; che queste santi in Elicona Talora alzano i drudi a maggior posto; Che fatto non havria la lor padrona. Io non diviserò; quanto discosto Dal’Isole; che mal fortuna noma; Questo castello, ov’io mi stò sia posto: O se dia a Meroe, dia Rifei, dia Roma Sia suo Clima, o diati: che ben sapete, Che trenta miglia i’ son lontan da Roma. Dirò sol; che di Sabo infra le mete; Sotto l’ombra dell’Aquila Borghese. [276] Vivo qui l’hore mie dolci, e quiete D’una gran valle, in su la cima ascese; Io non sò, se d’un colle, o se d’un monte; Colui, che questa Terra a fondar prese. Monti, che più superba hanno la fronte, Cingon questo minor; fuor che per indi? I versi sono estratti da Il terzo libro delle opere burlesche aggiunto a quelle di M. Francesco Berni [...], stampato da Jacopo Broedelet MDCCXXVI, pp. 275-287. Lo stampatore nel riproporre gli scritti del Berni1 vi aggiunge i componimenti di altri autori, alcuni anonimi. Onde vede il mattin sorger Fetonte. Aperto il varco a la veduta è quindi: Si ch’il tenero dì tosto ne siede, Che vien da i Marsi; i quali a noi son gl’Indi. D’una vasta campagna arbitro siede. Il luogo quindi; e di colei nel’ seno Un bosco immenso3, e formidabil vede. Vede per molte miglia ivi il terreno Vestite à brun; de le fronzute, e spesse Antichissime piante, ond’egli è pieno Piante annose vi son, boschi sol esse Ch’hanno, vivendo, i secoli vitali Vinto de Fauni, e de le Ninfe istesse. Alcune impenetrabili a gli strali Si stan d’Apollo: e gettano altre in terra Picchiolate di raggi ombre ospitali. Altrove il bosco in guisa tal si serra; Che di ciascun, ch’a penetrarlo intenda; Non sol coi piè, ma con le luci ha guerra. Qui gli orsi, e i lupi, e l’altra schiera horrenda De le fiere selvagge hanno i lor covi Ne temon quì, che ’l cacciator gl’ offenda. Sterpi, dumi, virgulti, arbuschi, e rovi, Tra quest’ arbori fan sì gran matassa; Ch’ a pena è, che la scure il bandol trovi. Altrove il bosco si ritira; o lassa Luoghi aperti, e pratelli; altrove in fieri Tenebrosi valloni anco s’abbassa. Irrigando lo van limpidi, e meri [277] Fiumiciattoli, e rii; che sotto 1’ombra Paiono a rimirarli argenti neri Il vasto pian, che questo bosco ingombra; Carsoli è detto; e di Carseoli il nome, E ’l sito ancor ne le ruine adombra. Parchè del bosco infra le verdi chiome, Verso il cardine Eoo, vetuste mura Veggionsi ancor; che dal’età fur dome. Che sia questa Carseoli, ognun mi giura: Ma nomata Carenza hoggi e dal volgo; Che sciocca parmi allusone, e dura. A la fama però fede io non tolgo: E per saper la verità del fatto; Perché meco non gli hò, liberi non volgo. Ma sé non fu Carseoli in questo tratto; Già che da lei si noma il luogo intorno: Con qual’altro io non sò farne baratto. Perch’ il castel, che del suo nome adorno, Carsoli da la gente è chiamat’horà; Fu’ chiamato così pur l’altro giorno. Di questo nome il suo Signor l’honora; Dico la gran COLONNA: e pria si disse Le Celle; e pur le Celle è detto ancora. E quel, che sopra ciò Cluverio scrisse; Ch’Arsoli sia Carseoli; è mera ciancia; Per le ragion, ch’io taccio, assai prolisse. Però la quistion lasso in bilancia; E mi serbo a parlarne allora, quando Stassi al fuoco 1’inverno a piena pancia. Hor del gran bosco a ragionar tornando; Dico, ch’egli è superbo a par di quanti Da la Fama hebber mai più chiaro bando. D’ampiezza sì, non di bellezza i vanti Cede al’immensa e favolosa Ardenna; Inclito agon de i cavalieri erranti. [278] Senza cimier, senza ferrata antenna, Senza scudo m’ è dolce esser stat’ivi; Ove armato fier Marte, e non accenna Mille piagge in un giorno, e mille rivi; Com’ in Ardenna al’ amator Petrarca; Fors’altro, amor mi dimostrò pur quivi. Dal bosco poi per breve pian si varca A i colli ond’egli è cinto: e molti han d’essi Di ville, o di castel la fronte carca. Tra l’Orse, e ’1 loco, ond’han la porta i messi Del dì; sorge il Vivaro; a cui da quello D’uno antico vivaio il nome diessi. Poscia con grande, e signorile ostello Più sublime, e più lungi appar Collalto. Quindi il Tufo, e Cinolfo, humil castello. Dietro a lui Pietrasecca è posta in alto: Indi le Celle, o vogli dir Carsoli, Giacesi a pie de’ colli in sù lo smalto. Gli omeri, e la cervice eretti ha soli Sù la falda d’un poggio; e ’l resto giace Per lo pian, come lui, detto Carsoli. Colli a dentro s’innalza; e lui soggiace Gemina villa; intra di cui si stende Un lungo tratto, e d’arboscei ferace. Dal monte Sainese il nome prende L’una, e l’altra da Roma: Indi Pereto Per la costa d’un monte al pian discende. Tra l’ aurora e ’l meriggio un monte lieto Nobil tempio4 sostien, sacro a colei; Che tolse al miser’huom l’alto divieto. Quella dich’io, ch’a noi d’asiglio rei Aperse, Eva di gratia, il patrio Cielo: Che più chiuso non sia, mercè di lei. Si questo felicissimo Cibelo Questa del vero Dio vergine madre. [279] Di starsi elesse, e d’operar suo zelo. Quindi facil n’ascolta; e con leggiadre Opere di clemenza ognor n’invita, Ad amar lui ch’è suo figliuolo, e padre D’Iberia ella sen’ venne; e la romita Stanza di questo monte horrido, et arso Più d’ogn’altra le fu dolce, e gradita. Ma come il volto suo fu quivi apparso; O miracol gentil! quel luogo nudo Di verdi piante in un balen fu sparso. Dal lato a questo un monte alpestre, e crudo Esce così repenti al ciel le spalle; Che sol pensando a tanta ertezza, io sudo. Un picciolo castel, che gli occhi falle, Dal giogo pende; e di volersen gire Minaccia ognor mazziculando a valle. Camerata s’appella. E chi salire Vuole in cima la sù; poter di dicoli, Perché ripide vie gli convien’ire? Bisogna scorticar tutti gli articoli, E salirvi carpon; per veder poi Due stalle immonde e due strozzati vicoli. La Rocca de la botte appar di poi; Anzi pur non appar: ch’un colle opposto E cagion, che veder tu non la puoi. Bene Oricola appar; ch’ebbe il suo posto Dun poggetto ritondo in su ’l cocuzzolo. Netto sì; com’è netta aia d’Agosto. Sembra quel poggerel giusto un meluzzolo; Sembra il gambo la Terra; o per dir meglio; Una poppa egli sembra, ella il capuzzale. Poi de la Prugna il diroccato, e veglio Castello appar’, che già suo stato havia; Hor de’ trofei del tempo anch’esso è speglio. Alfin d’Apello in ver l’estrema via, [280] Quel, che de le castella, ond’io ragiono, Termina il cerchio; è Vallinfreda mia. Ben degli altri a man destra anco vi sono; Ma veder non si pon; perché soggetti A i monti stan, si come scanno a trono. L’ameno Arsoli è tal; che fra poggetti D’uliveti, e di vigne azzurri, e verdi, Sotto Oricola asconde i suoi diletti. Pur tale è Riofreddo; il qual tu perdi Tosto ch’ il pie ne traggi; e di lontano, Per ravvisarlo, invan gli occhi disperdi. Ben’ il monte che stassi a lui sovrano; 4 Il riferimento è al convento della Madonna dei Bisognosi. Sopra: antico panorama di Poggio Cinolfo Lumen 7 5 Il riferimento è al bosco di Sesera invaso dalla nebbia. 6 Sono omessi gli ultimi sedici versi di p. 282, dove si accenna all’ambiente veneziano; e tutta p. 283 dove le rime descrivono aspetti naturalistici dei luoghi. 8 Lumen E sacro estolle ad Eliabbe il giogo; Vedesi a molte miglia indi lontano. Hor da questo io lo miro, hor da quel luogo; E sempre a vagheggiarlo i passi fermo: E non per questo il mio talento sfogo. Honoro il monte solitario, ed ermo: Non sol però, ch’in cima a lui si scorge Il sacro horror d’un venerabil’Ermo: Ma perché dolce occasion mi porge, Di contemplar la bella imagin donna; A cui devoto ogni mio spirto assorge: Te FRANCESCO dich’ io; stabil Colonna Del purpureo Senato; il qual t’adorni L’alma d’eterna, e più purpurea gonna. Odo, ch’a quei sacrati alti soggiorni Poggiar volesti, e riverir quel Divo; Che non chiuse per morte anco i suoi giorni. Ond’ io, che di mirarti hora son privo; Miro i luoghi, ove fusti, e’n questa forma: Nel desiderio mio contento vivo. E come seco il mio pensier s’informa; Quinci; dico; egli salse al gran cacume E forse ancor ve ne riman qualch’orma. [281] Qui stette, qui sedeo; di questo lume Spirando attrasse, e più seren fé Giove: Qui curvò l’alma, e le ginocchia al Nume. Tal pensando io gioisco. Hora s’altrove Benigno è il Ciel de suoi felici influssi; Benignissimo certo ei qui gli piove. Qui son l’aria, e ’1 terren lieve percussi Da gli estiferi Soli; e i raggi loro Puri d’ogni vapor vendono influlsi. Smalti altrove il terren di crudel’oro La Spera ardente; e i fiori uccida, e l’herba; E fenda i campi, e faccia il popol moro. Che qui nel Solistitio avvien, che serbe Fede al’ herbe la terra, el’ herbe ai fiori; Che gli portano ognor liete, e superbe. Scaldan qui, ma non bruciano i calori: E se bianche non son nostre bobolce: Non paiono ancor’Indi habitatori. Qui mormora sovente un’aura dolce, Un’aura Zefiritide, e gentile; Che la state ne tempra, e i sensi molce. E mentre in Roma voi Luglio, e sestile Soffrite; o miei diletti, ond’io sospiro; Qui godendo io mi stò maggio, et aprile. Vivo color d’Oriental zaffiro; Che per nebbie natie mai non si turba; Nel ciel s’accoglie a questo monte in giro. Ben l’aria intorno adhora adhor conturba L’alito de le valli atro, e fumoso; Ma questa de le tre due, non è turba. Quando l’Alba il terren fà rugiadoso. Veggio di nebbia incappellati i monti; E solo il monte mio starsene in toso. Di Carsoli non veggio i luoghi conti: Perché tutto il ricuopre un fumo bigio, [282] Fino a gli ultimi suoi verdi orizzonti. Sembra allor quel gran campo5 il lago Stigio; O pure il mar canuto; in cui disperso Veggiasi qui, e qui molto navigio. Perch’il gran bosco, in questo mar sommerso Trahe fuor le cime in varii luoghi, e finge Strani vaselli, e di color diverso. Non il minio le guance a lor dipinge; Ne col mantello suo l’atra cicogna, Ma il verde pappagal co ’l suo gli tinge. Qual pare una galea di Catalogna, Qual galea di Cristian, qual galea Turca, Qual galeon, d’una città vergogna. Questo pare un berton, qual pare un urca, Quello una galeazza; onde la fame Mai non si pasce a la marina lurca. Evvi ancor più minuto altro barcame; Grippi, schifi, caicchi, e le mie care Gondole, ch’ad ognor convien, ch’io brame […]6 [284] Di richezza sì nobile, e sì gaia Fecondissimi son qui gli spineti; Qual d’incensi seconda e la Pancaia. Producono altre gemme altri dumeti; Lazuletti ritondi, al gusto ingrati; Che fanciullo i’ dicea Strozzicapreti: E i calici vermigli; onde i rotati. Bianchi, o rossi capei si spargon fuore De i fior di Pesto, a Citerea sacrati. Ne i sambuchi, e ne gli ebuli il nerore Appar dell’ambre; e i cornioletti, e i faggi Ingemma 1’Alabandico rossore. Gli alberi per lo più son qui selvaggi: E s’alcuni pur son d’altera schiatta; Fannosi a mano a man bassi legnaggi. Tra pianta, e pianta affinità contratta Non è per nesti: e sempre acerbi i frutti Hanno; perche 1’humor non beh gli allatta. Peroché magri, e sitibondi, e asciutti; Come dianzi i’ dicea; son questi campi: E di ciottoli, e selci ingombri tutti. Onde, quando i vestigi in loro stampi; Se tre palmi da terra i piè non alzi; Vien, che ne’ sassi adhora adhora inciampi. Et io, ch’ognora vò per questi balzi; Porto ormai rotti, e fracassati i piedi; Benché di dura vacca io pur li calzi. S’eran Pirra, e ’1 marito in queste sedi, Quando gl’huomini tutti andaro al fondo; Perch’ei co’ sassi si rifer gli heredi: Un sol di questi campi era fecondo, Per riparar tutta la morta gente; E tutto far Vallinfredano il mondo: Rotti nulla dimen dal curvo dente; Benché lor non si dia letame, o cuoio; [285] Rendon questi sasseti ampia semente: Lentichie, et orzo, e questo, e quel cottoio E picciol gran, de la seconda sorte; Ma bellissimi farri; Angelo Loio. Bacco in questo terren tien poca corte; Non già per risparmiar quattro fogliette: Com’ io figliuoli fanno hor de la Sorte. Ma perché ha poca entrata; e non rimette Tanto vino, che basti a la sua bocca: E quello in Acri si trovò a le strette. Aristofane qui non fé la Rocca Nefelococcigia: ma tanti augelli Ci volan pur, che non invan si scocca. Ne sol pettieri, e castriche, e fringuelli, E l’altra de gli augei minuta plebe Saltando van per questi dumi, e quelli: Ma gran copia di quaglie infra le glebe Si sta pascendo; e con l’odor che spande; Farebbe un sasso odorator non hebe. Tra lor qualche allodetta ancor si prande, O qualche starna: e tortore, e palombe Stan sù le piante a camere locande. Pochi nidi qui fansi a le colombe: Sonvi ben molte ereste; e su ’l mattino Chiamano il nuovo dì ben mille trombe. Del bestiame cerbiatto, o capriolino; Nulla cen’ è ma del caprino assai; E del leporeo men, che del volpino. Non c’è porci salvatichi: e se mai Ne comparisce alcun, vengono altronde; E si chiaman qua sù porci brodai. De’ domestici poi; vien che n’abbonde La campagna non sol; ma queste case Di porcinaglia son tutte feconde. Son questi terrazzani eterne base [286] Di gravose fatiche: e le lor mani, Del Sole, del lavor son fosche, e rase. Stannosi tutto ’l dì per monti e piani, Rompendo il ventre a la gran madre antica; Per farle partorir furia di grani. Hor sudan dell’aratro alla fatica; Hor’ erpicano, hor sarchiano, et hor segano, E col piè de cavai calcan la spica. Fanno alcuni ’l pedante; e fuor congregano A scuola per li campi i lor discipoli; E corron dietro a quei, che si disgregano. E come ben studiato hanno ad Erbipoli; Gli rimenano poi, morto ch’è ’1 Sole, A la diletta lor patria Stallipoli. Di fatti nondimeno, e di parole Son costoro amorevoli, e gentili; Più che la lor condition non vuole. Non con le teste infino a terra humili Soglion far riverenza; o dire a scherzo Parole ossequentissime, e servili. Ma non sogliono giamai gabbare il terzo: E ’l pronome secondo usano; e fanno Via più con quel che i Cortigian co ’l terzo. Ben sen de le cicute infra ’1 dittanno; Fra l’ anguille degli angui; e fra le Stelle Alcune nebulose ancor ven’ hanno. Amano il forestier ma non di quelle Nationi, ch’ognor con fieri dadi Giuocano, Italia mia, de la sua pelle. Franciosi in questa terra appaion radi. E s’alcun cen’ appar; tosto a Mortana Cacciato vien, pria che tre dì ci badi. E se di starci alcun s’ostina e gara; Rinega Francia, e vien Sanese; o pure Fassi de la famiglia Sannazzara7 [?] [287] Gl’Hispani ancor non men crudeli, e dure Cagioni han qui d’inconsolabil duolo: Che ci soffrono ognor mille sciagure. Ed io pur l’altro dì viddi un figliuolo D’ un contadin; che cavalcando giva Un asino, e diceva; arri Spagnuolo. Non occorre, cred’io ch’i vi descriva La donnesca beltà; che d’ogni Venere. E d’ogni gratia, e d’ogni culto è priva. Di carni elle sarian candide, e tenere; Ma scoperte la State a i Soli stannosi; E l’inverno sepolte infra la cenere. Non biacca, non cinabro al viso dannosi: Non d’ angioli, o di nanfe unqua si sprizzano; Ne qui pur di tai merci i nomi sannosi. Le mamme a le somare anco no’ strizzano: Perché non san; che quello humor puppevole; Fa, che ’lustran le carni, e non avviziano. Non si sbosean le ciglia; e con radevole Cristallo non si mieton la peluria; Che per le fronti lor nasce abbondevole. Non fanno al crinco i ferri caldi ingiuria: Non in anella, o in turbini l’avvolgono; Ne ristringono in or la sua lussuria. Ma ne le cuffie rustiche l’accolgono, Confuso, hirto, negletto; e fin che mucido Dentro a lor non si fa, mai non lo svolgono. Ma perché a lungo ciò narro, e dilucido? Brevemente dirò, che questo sesso Tatto è qui rozzo e disadatto, e sucido. Con tali habitatori in tal recesso Men vivo o BRUNI mio; lieto, e contento; E godo pur, com’ i’ vorrei, me stesso. Uso i giorni, e le notti a mio talento: Me stesso io servo, e pur me stesso io premio [288] […]8 7 La lettura di questo termine è incerta. 8 Sono omessi i ventisei versi finali di p. 288 indirizzati all’amico Antonio Bruni. Sopra: recente panorama di Vivaro Romano Lumen 9 Documento Curiosità archivistiche sul soggiorno di Benito Mussolini a Campo Imperatore I documenti che trascriviamo sono nell’Archivio Centrale di Stato, segnatura: Alto Commissariato per le Sanzioni Contro il Fascismo (Titolo I, fasc. 65), b. 91. da Redazione 1 Questa sottolineatura, e le altre che seguiranno, sono presenti nei documenti originali (n.d.r.). S ulla detenzione del duce a Campo Imperatore si è scritto molto e noi non abbiamo la pretesa di aggiungere nulla di nuovo. Vogliamo solo curiosare tra i racconti di eventi molto studiati. «LEGIONE TERRITORIALE DEI CARABINIERI REALI DEL LAZIO Stazione di Assergi PROMEMORIA RISERVATO PERSONALE Assergi lì 14 settembre 1943 AL COMANDO DEL GRUPPO DEI CARABINIERI REALI AQUILA AL COMANDO DELLA COMPAGNIA CARABINIERI REALI AQUILA OGGETTO: Relazione sulle operazioni compiute dai raparti tedeschi per la liberazione di Mussolini nella giurisdizione della stazione di Assergi. Il giorno 12 settembre c.a.1 Segnalazione archivistica: M. Sciò 10 Lumen Potevano essere circa le ore 14,15 quando nel cielo di Assergi apparvero undici alianti tedeschi rimorchiati da apparecchi a motore e due aeroplani “Cicogne”, di cui uno atterrava nei pressi del piazzale della base della funivia in uno spazio di circa 50 metri ed un altro sul piazzale antistante l’albergo di Campo Imperatore, ove atterravano pure sparsi qua e là gli undici alianti, due dei quali si infransero contro Monte Aquila, incidente questo che provocò gravi lesioni ai componenti dei rispettivi equipaggi. Contemporaneamente ai movimenti aerei, procedevano lungo lo stradale, che attraversa i centri di Paganica, Camarda, Assergi, e che conduce alla base della funivia, non meno di 50 moto carrozzette blindate, con mitragliatrici al centro; oltre 40 tra camions e camionette cariche di uomini armati ed equipaggiati, 15 autoblinde, trasportanti ciascuna un modesto pezzo di artiglieria, non meno di 10 carri armati, pesanti, 3 camion croce rossa e una autoambulanza. Considerevole era il materiale esplosivo autotrasportato. La forza attaccante aerea e terrestre poteva ascendere a non meno di 500 uomini. Lo forze distribuite lungo lo stradale da Bazzano ad Assergi erano pure considerevoli. Reparti motorizzati tedeschi attraversarono l’abitato di Assergi verso le ore 14,20. Innanzi procedevano le moto carrozzette blindate. [2] Subito dopo la curva che precede il chilometro 10, i tedeschi, montati sulle carrozzette, aprirono il fuoco contro la guardia forestale DI TOCCO Pasqualino, di anni 40 circa, da Assergi, coniugato, con cinque figli minori, mentre tentava di accorrere verso il posto di blocco per porgere aiuto ai militari ivi addetti. La guardia cadde a terra ferita al fianco destro avendogli un colpo di mitraglia perforato da parte e parte il fianco. Il giorno 13 mattino, la guardia DI TOCCO decedeva verso le ore 8 presso l’Ospedale civile dell’Aquila. Al sopraggiungere di tali reparti, i carabinieri adibiti al servizio di sbarramento presso il posto di blocco ed alloggiati in una palazzina prospiciente, vista l’impossibilità di poter far fronte con le armi all’irruzione dei tedeschi, desistevano dal combattimento e, senza sparare colpo, si accingevamo a disporre le armi quando il carabiniere NATALI Giovanni, che si trovava dietro un angolo della palazzina stessa, usciva sulla strada, ancora sotto il fuoco dei tedeschi e mortalmente colpito al petto da un colpo di mitraglia, decedeva poco dopo. Mentre alcuni carabinieri riuscivano a sottrarsi alla vista dei tedeschi, portando seco le armi, gli altri le consegnavano dietro intimazione degli stessi. I moschetti carpiti dai tedeschi ai militari dell’Arma furono da essi stessi spezzati, mentre le pistole venivano asportate. Le armi dello scrivente e quelle di cinque carabinieri con tutte le munizioni e quindici bombe a mano sono state salvate. salma del caduto sono state tributate massime onoranze sia da parte dei militari di questa stazione, che da parte di questa popolazione. Lo stesso, che era della stazione di Sassa, riposa nel cimitero di Assergi . Il giorno 13, tranne i funerali del carabiniere NATALI Giovanni, di cui è stata già fatta menzione, non c’è nulla da segnalare. Giorno 14 L’appuntato FARIGNOLI Giuseppe, della stazione di S. Demetrio nei Vestini, capo servizio, in quella circostanza è stato dai tedeschi portato via per ignota destinazione. Il carabiniere DE LITA Pasquale e carabiniere OCCHIUZZI Onesto, il primo di questa stazione e il secondo di quella di Lucoli, venivano feriti alle gambe da schegge di bombe a mano lanciate dai tedeschi a traverso le finestre nell’interno della palazzina sita al posto di blocco. Gli stessi, sebbene il loro stato non destò preoccupazione alcuna, sono [3] stati inviati la mattina del 13 all’Ospedale Civile dell’Aquila. Verso le 16,30 da Campo Imperatore si alzava l’apparecchio Cicogna diretto verso Roma che recava a bordo la persona di Mussolini. Dopo circa un quarto d’ora si alzava l’apparecchio che aveva atterrato alla base della funivia recando a bordo l’Ispettore Generale di P.S. Comm. GUELI Giuseppe e il Magg. Generale SOLETTI, comandante Generale del Corpo degli agenti di P.S. che era giunto in aliante portato dai tedeschi come ostaggio. Al riguardo delle operazioni svoltesi nell’albergo di Campo Imperatore il Tenente FAIOLA Alberto, comandante di quel distaccamento, riferirà direttamente con suo rapporto. Il deflusso dei tedeschi da Campo Imperatore è avvenuto verso le ore 17 ed è terminato verso le ore 19, 30, pernottando alla base della funivia, da dove sono partiti il mattino del 13. Nell’abitato di Assergi e Camarda, nonostante il timore della popolazione, non si sono verificati incidenti. I funerali del carabiniere NATALI Giovanni si sono svolti verso le ore 15 del giorno 13 e alla Verso le ore 9, proveniente dall’Aquila, giungeva in Assergi una motocarrozzetta tedesca. I militari che la occupavano chiedevano ad alcuni di Assergi dove fosse la caserma dei CC.RR. Recativisi e trovatala chiusa, se ne andarono chiedendo dove fosse il brigadiere comandante la stazione. [4] Nel pomeriggio, poco prima che avvenissero i funerali della guardia forestale, transitavano per Assergi, diretti a Campo Imperatore, due camion ed una vettura tedesca. Ne discendevano verso le ore 22, completamente carichi di materiale vario asportato da Campo Imperatore, tra cui le armi automatiche del distaccamento con munizioni e indumenti personali dei militari che ancora ivi stazionavano. IL BRIG. A PIEDI COMANDANTE LA STAZIONE Pietro Carusi P. C. C. IL CAPO UFFICIO Magg. Ruggero Ruggieri» ù «LEGIONE TERRITORIALE DEI CARABINIERI REALI DEGLI ABRUZZI Stazione di Pizzoli Pizzoli, lì 15 luglio 1944 RELAZIONE SUL FUNZIONAMENTO DEL DISTACCAMENTO DEI CARABINIERI REALI E P.S. DI CAMPO IMPERATORE DURANTE LA PERMANENZA DI MUSSOLINI. AL SIG. COMANDANTE DEL GRUPPO DEI CARABINIERI REALI DI A Q U I L A Io sottoscritto vicebrigadiere a piedi ACCETTA Giuseppe, in merito al funzionamento del distaccamento di guardia a Campo Imperatore a Mussolini ed alla liberazione di questi da parte dei tedeschi, riferisco quanto segue: Il sopradetto distaccamento, quando la sera del 25 agosto giunse alla base della funivia del Gran Sasso d’Italia, era così costituito: Tenente CC.RR. FAIOLA Alberto Maresciallo DE MURTAS Raffaele Vice brigadiere SANTORO Sergio Sopra: memoriale del brigadiere Carusi Lumen 11 2 Il punto interrogativo è presente nel documento. Sopra: elenco dei militari addetti alla sorveglianza di Benito Mussolini 12 Lumen Vicebrigadiere BELLINO Salvatore TARTAGLIONE Tommaso “ ACCETTA Giuseppe “ PETTINARI Primo “ P.S. CARLI Carlo “ da circa 43 carabinieri e 30 guardie di P.S. dei quali non ricordo il nome. L’armamento in dotazione era di due mitragliatrici, due fucili mitragliatori e le armi personali. Ancora quella sera sconoscevamo lo scopo del nostro servizio, solo si sapeva che sarebbe stato servizio speciale della durata di circa dieci giorni. L’indomani arrivarono due torpedoni, di cui uno era della C.R.I. Vedemmo allora Mussolini accompagnato dal maggiore dei CC.RR. Impellizzeri, dall’Ispettore Generale di Polizia Gueli, dal Tenente [2] CC.RR. Faiola Alberto, dal maresciallo maggiore CC.RR. Antichi Osvaldo, da un appuntato di P.S. e dal carabiniere NAPOLI Egidio. Provenivano dall’Idroscalo di Bracciano, dove erano giunti dall’Isola La Maddalena. In giornata stessa il Tenente Faiola prese il comando del distaccamento ed il Maggiore col Tenente partirono per Roma. L’alloggio del personale fu disposto così: sottufficiali, carabinieri e guardie di P.S. alle case della funivia; Mussolini, l’Ispettore generale di polizia, il Tenente, il Maresciallo maggiore, il maresciallo capo DAINO Oreste addetto all’Amministrazione del distaccamento, ed il carabiniere di ordinanza alloggiarono al piccolo albergo che è sito sul piazzale della base della funivia. Questi ultimi erano tutti provenienti dalla Maddalena. Il servizio fu disposto così: maresciallo maggiore Antichi Osvaldo di guardia personale a Mus- solini, un piantone fisso a questi (carabiniere Grivetto), 9 tra carabinieri e guardie di P. S. di sentinella attorno all’albergo per un raggio di circa 100 metri ed una pattuglia sulla via di accesso al piazzale. Di notte venivano aggiunte 5 guardie alle adiacenze dell’edificio; i sottufficiali d’ispezione continua. L’ordine delle sentinelle era di impedire che persone estranee si avvicinassero all’albergo; quello della pattuglia di fermare e di controllare le persone e le macchine che passassero sulla via di accesso al piazzale. Fo presente che - con mia sorpresa - per circa quattro giorni dall’arrivo di Mussolini, il servizio della funivia continuò a funzionare, poiché ancora all’albergo Campo Imperatore alloggiavano una ventina di militari feriti e dei dilettanti?2 Per tale servizio conseguiva l’arrivo ancora di qualche macchina privata e dal servizio automobilistico Aquila-Gran Sasso, e il funzionamento della stazione della funivia, amministrata dal direttore Simoncini di Aquila, da altro personale addetto e dalla segretaria dell’albergo Magnanelli Flavia di Davide in Iutaro, nata a Perugia di circa 30 anni moglie di un sottufficiale prigioniero in A.O. residente all’Aquila da circa due anni quasi sempre in via Burri 28, presso Centi [3] Anna, attualmente impiegata presso codesta R. Prefettura. In seguito fu sospeso il servizio funivistico e fu permesso di rimanere solamente a pochi elementi del personale addetto alla funivia, al Direttore e alla segretaria che di tanto in tanto venivano dall’Aquila. In tale fase del servizio un ordine particolare per il personale addetto alla guardia era d’impedire che Mussolini venisse esposto alla curiosità dei passanti, ed io non ebbi mai a notare interferenza alcuna tra Mussolini ed estranei. Il vitto, che gli si somministrava, era della stessa qualità del personale; dormiva in una comoda camera, gli era concessa l’audizione radiofonica e l’uscita sul piazzale antistante all’albergo, dove s’intratteneva a colloquio coll’Ispettore, col Tenente, coi due marescialli, tutti coabitanti, e qualche rara volta col personale del distaccamento. Qualche volta ebbi anche io modo di avvicinarlo ed in quelle circostanze mi espresse la sua lamentela sulla qualità del vitto e il suo dolore sulla rovina della Patria e mi palesò il peggioramento delle condizioni della sua salute. Tengo a dire, non a scopo esibizionistico, che un giorno, chiamato da Mussolini, questi ci disse che mi avrebbe dovuto odiare quale uno dei suoi più spietati carcerieri, perché avevo proposto alla punizione dei militari di guardia sorpresi a dormire, ma mi stimava perché, quale vero carabiniere facevo il mio dovere. In tale circostanza si parlò anche di politica. Mi manifestò un odio inestinguibile, non all’Inghilterra, perché questa nazione europea, ma a Roosevelt che aveva trascinato la sua nazione in una guerra che non urtava gli interessi di un continente lontano dall’Europa e che col peso delle sue armi aveva influito principalmente sulla catastrofe dell’Italia. In altra occasione mi palesò anche che la sua ira era rivolta principalmente non al Re e Badoglio, ma ai suoi stessi più stretti collaboratori che erano stati i veri traditori suoi e della Patria. Mi permisi allora di dirgli che se lui, dopo la conquista dell’Impero si fosse ritirato dal governo o avesse evitato altra guerra, sarebbe rimasto nella storia uno dei più grandi benefattori del popolo [4] Italiano. Mi rispose che è insito di qualsiasi uomo l’amore della grandezza e il senso del progresso. Il 3 settembre venne l’ordine di trasferirci tutti all’albergo Campo Imperatore. Alla base rimasero di servizio il maresciallo DE MURTAS e sei carabinieri, di cui uno addetto al telefono. Ecco ora la fase del Campo Imperatore. I servizi di guardia disposti attorno e dentro l’albergo, una guardia alla porta della stanza di Mussolini. Il personale alloggiato nell’albergo. Mentre alla base l’amministrazione del vitto era stata affidata al sottufficiale addetto, lassù fu permesso che il vitto per tutto il distaccamento fosse confezionato dall’amministrazione dell’albergo e cioè dal direttore Simoncini che si recava all’albergo saltuariamente e dalla segretaria Magnanelli che stava permanentemente in albergo; la pulizia era eseguita da due donne di servizio dei paesi viciniori. Qui si notò che il vitto, mentre diminuiva in quantità e qualità, per noi, aumentava per i comandanti che, avendo formata mensa a parte nella sala grande dell’albergo, mangiavano qualche volta assieme a Mussolini. Questi lassù usciva dall’albergo meno frequente di laggiù, prima perché le sue condizioni di salute erano peggiorate, secondo perché spesso scendeva dal suo alloggio ad intrattenersi con 1’Ispettore, col tenente, coi due marescialli e qualche volta con la stessa segretaria. Questa, a quanto ebbi modo di constatare, era in cordiali rapporti con 1’Ispettore, col Tenente e coi due marescialli, coi quali tutti si intratteneva spesso a colloquio ed a giuocare a carte. Non frequenti erano i suoi incontri con Mussolini. Approfittando della sua amicizia coi dirigenti, aveva, negli ultimi giorni, assunto un atteggiamento da padrona coi militari. Conosceva bene la lingua tedesca e qualche volta la vidi al telefono a parlare in tedesco con l’Aquila. Dietro mia domanda rispose che parlava, con degl’amici, pure conoscitori della lingua tedesca. Il giorno prima dell’arrivo della spedizione tedesca per la liberazione di Mussolini la Magnanelli partì con due valigie per l’Aquila e quel giorno era assente. Poiché giorni prima dell’arrivo dei tedeschi all’albergo, dei borghesi e tra questi Antonelli Domenico abitante all’Aquila Via S. Giusta, 23, maestro di sci, dietro domanda ai superiori io venni a sapere che erano degli sciatori, scalatori e conoscitori del Gran Sasso, venuti a prendere accordi col comandante del distaccamento per prossime istruzioni sciistiche ai militari e per eventuale trasferimento di Mussolini per le montagne. La mattina del 12 e cioè il giorno della cattura sentii vagamente che nel pomeriggio il tenente e il maresciallo magg. avrebbero dovuto portare Mussolini in una capanna di pastori a molta distanza dall’albergo. Non seppi il perché. Aggiungo però che pochi giorni prima della scesa dei tedeschi Mussolini cadde in un abbattimento fisico - morale e qualche giorno prima tentò di suicidarsi, prima con la pistola del carabiniere addetto al suo piantonamento e poi non riuscitoci poiché il carabiniere accortosene, glielo aveva impedito - tentò di tagliarsi le vene dei polsi, facendo uso di una lametta da barba, tentativo che venne impedito dallo stesso carabiniere. La scesa dei tedeschi avvenne verso le ore 15 del 12 settembre. Approssimandosi l’atterraggio dei velivoli tedeschi, fu dato l’allarme dalle sentinelle. La sorpresa, determinata dal fatto che mai si supponeva che un attacco fosse venuto dall’aria, provocò tra i militari una grande Sotto: Mussolini accompagnato dai militari tedeschi lascia l’albergo di Campo Imperatore Lumen 13 L’Ispettore generale, il generale Soletti, accompagnato dai tedeschi, presero la funivia. Noi rimasti liberi, l’indomani raggiungemmo l’Aquila; il tenente coi due marescialli e un carabiniere presero la fuga alla volta di Fano. Quanto sopra è ciò che ricordo, a tanti mesi di distanza, sui fatti di Campo Imperatore. Il Vicebrigadiere C C. RR. F/to Accetta Giuseppe P. C. C. IL CAPO UFFICIO Magg. Ruggero Ruggeri». Sopra: Mussolini circondato dai militari tedeschi ed italiani 14 Lumen confusione. Tutti quelli che stavamo nell’interno corremmo alla finestra e agli accessi dell’albergo per prepararci all’attacco. Le sentinelle esterne, rimaste colpite pure dalla sorpresa, attendevano l’ordine di far fuoco. Già 10 alianti, portanti ognuno 10 uomini armatissimi, ed una cicogna erano atterrati presso l’albergo. Quest’ultima portava un maggiore tedesco comandante della spedizione ed in ostaggio il generale di brigata di polizia Soletti. Anche i tedeschi in un batter d’occhio avevano preso già posto di combattimento. Contemporaneamente il tele [6] fonista della base telefonava che una cicogna era scesa anche lì mentre un’autocolonna di tedeschi aveva già circondato la base della funivia. Anche i carabinieri di laggiù attendevano l’ordine. Il telefono fu subito interrotto dai tedeschi. Dopo mezz’ora di attesa, venimmo a sapere che l’Ispettore ed il Tenente erano venuti nella determinazione di prendere accordi coi capi della spedizione tedesca. Per far ciò furono fatti penetrare nell’albergo i comandanti della spedizione. L’entrata nell’albergo fu piantonata dai tedeschi. In seguito venne l’ordine di lasciare ognuno il posto assegnato e di scendere a pianterreno dell’ albergo. Tanti tedeschi penetrarono nell’edificio e poco dopo Mussolini, accompagnato dagli ufficiali tedeschi, dall’ ispettore di polizia e dal Generale Soletti, scese le scale. Il Tenente Faiola era rimasto nella sala grande dell’albergo a conversare con due ufficiali rimasti feriti nell’atterraggio degli aerei, in un primo momento. Nel frattempo i soldati tedeschi avevano incendiato gli alianti. Mussolini, dopo un breve commiato rivolto a noi tutti, accompagnato dal maggiore tedesco prese il volo sulla stessa cicogna. Sul suo viso notai un mesto sorriso. Era il sorriso di un uomo liberato da mano straniera e consapevole di aver trascinato nel baratro la Patria. ù «Appunti della signora Magnanelli Flavia segretaria dell’albergo di Campo Imperatore circa la permanenza colà e la liberazione di Mussolini (28 agosto-12 settembre 1943). Noi sapevamo che una personalità sarebbe giunta alla villetta situata alla base della stazione inferiore del Gran Sasso d’Italia. Il sabato 28 agosto nel pomeriggio, dopo i preparativi del mattino, giunse con una automobile della Croce Rossa, scortata dai carabinieri, Mussolini. Il traffico alla stazione dovuto al movimento dell’albergo, era troppo, per poter impedire che un tale prigioniero fosse veduto, per questo, dopo un giorno del suo arrivo, fu dato l’ordine di chiudere l’albergo di C.I. Per ragioni di sicurezza e di maggiore comodità, il giorno 6 settembre alle ore 5 pomeridiane, Mussolini fu fatto salire, accompagnato dal tenente Faiola e dall’Ispettore Gueli, contro suo desiderio, all’albergo dove fu sistemato nell’appartamento del 2° piano (dell’albergo) composto: dell’ingresso, un salottino, una stanza da letto matrimoniale, un bagno. L’appartamento arredato nel migliore dei modi, specie il salotto che fu trasformato in studio, affinché Mussolini potesse passarvi le sue ore, è intercomunicante con la stanza n. 203 che fu occupata dal soldato Grevetto Francesco addetto ai suoi ordini (tipo semplice, buono, silenzioso). Mussolini trovò l’appartamento troppo bene arredato secondo lui, non conforme (come disse) alle sue abitudini ed alle sue qualità di prigioniero, se tale si doveva considerarlo e per questo tolse di sua mano, i tappeti che coprivano il pavimento dell’ingresso del salottino. 1. da rilevare che Mussolini era trattato con rispetto e cordialità da chi lo teneva in consegna, tanto da dire le seguenti parole «Se sono prigioniero, trattatemi da tale, se non lo sono, voglio andare a Rocca delle Caminate»; 2. al momento di salire sul carrello della funivia egli disse al capo stazione della funivia: «È sicura questa funivia, non per me che la mia vita è finita, ma per questi che mi accom [2] pagnano». Mussolini in seguito si trovò bene accomodato nell’appartamento ed anche l’aria fine di montagna non portò alla sua salute, alquanto scossa, nessun danno; mi sembrò anzi che ne traesse giovamento. Preferiva mangiare nel salottino, servito secondo il suo desiderio e con il miglior trattamento. I suoi pasti erano quasi soltanto basati su riso in bianco, uova, cipolla cotta, poca carne, latte e frutta abbondantissima. Egli mangiava anche tre kg di uva al giorno. Egli soleva alzarsi al mattino verso le ore 9 e dopo la piccola colazione scandeva nella sala da pranzo dell’albergo a conversare con l’Ispettore Gueli ed anche con il tenente Faiola, che si spacciava per amico fidato di Badoglio. Gli piaceva ammirare, anche con l’aiuto di un cannocchiale, il panorama meraviglioso della catena montuosa del Gran Sasso che, in quelle giornate di limpido azzurro e di sole, spiccava maestosa e superba. Alle 12 Mussolini saliva nel suo appartamento per la seconda colazione, composta di quanto sopra e verso le due scendeva abitualmente a fare la sua passeggiata fuori dell’albergo accompagnato dal maresciallo Antichi, che era al suo servizio personale da circa 8 anni. Preferiva a volte passeggiare, a volte sedersi sui muriccioli di fronte al piazzale dell’albergo. Rientrava abitualmente verso le 4½ e qualche volta, prima di salire in stanza, si sofferma a fare qualche domanda a qualcuno degli agenti che era in portineria. Più tardi faceva chiamare l’ispettore Gueli perché salisse nel suo appartamento a conversare con lui; Gueli diceva aver trascorso con Mussolini le sue più belle ore, data la profonda intelligenza di questi. Le loro conversazioni si basavano, credo, più che altro sulla politica, ed il momento attuale. [3] Gueli una sera a tavola, mi riferì che Mussolini aveva consigliato a Hitler di fare, immediatamente dopo la caduta della Francia, lo sbarco in Inghilterra, anche sacrificando un milione di uomini. Hitler non ascoltò tale consiglio e volle invece attaccare la Russia che, secondo le parole di Mussolini, era per la Germania una continua emorragia. Egli parlava spesso anche dei tradimenti a lui fatti, specie dalle persone da lui maggiormente beneficate ed innalzate, tra queste nominava: Grandi, Ciano e diversi ammiragli e generali. Dopo il pranzo che egli faceva regolarmente alle 19, scendeva di nuovo nella sala da pranzo dell’albergo a giocare la sua abituale partita a scopone (abitudine presa durante la prigionia) con l’Ispettore Gueli, con il tenente Faiola, il maresciallo Antichi ed un altro maresciallo. Egli ascoltava la radio che era in albergo sia tedesca che italiana, che americana o inglese. Alle insolenze rivolte a lui restava impassibile. Così, con qualche lieve variante, trascorreva i giorni. Il giorno 9 settembre Mussolini fece sapere per mezzo del suo attendente che si sentiva male. Fu fatto salire a C. I. da Aquila il tenete medico Masciocchi, il quale constatò, in Mussolini, un leggero rincrudimento del suo male (ulcera dello stomaco). Più volte egli accennava alla sua salute malferma, che egli diceva avere da ben 18 anni. La sera del 10 settembre, notai un certo allarme fra i gendarmi e due telefonate consecutive del Prefetto Biancorosso a Gueli, dopo di che Gueli scese verso le 19 di sera ad Aquila per conferire con il Prefetto. Intanto, in albergo, gli agenti facevano preparativi di armi e bombe a mano, come se si dovessero preparare ad un attacco. Furono perfino messe sentinelle vicino al rifugio Duca de- Sopra: memoriale della signora Magnanelli; a lato: il duce con Otto Skorzeny, l’ufficiale che diresse le operazioni tedesche a Campo Imperatore Lumen 15 gli Abruzzi. Verso le 20 di sera, un aereo tutto illuminato passò a molto bassa quota dall’albergo; io pensai ad un apparecchio germanico; Mussolini più tardi disse trattarsi di un aereo della Croce Rossa tedesca. [4] Verso le 10 di sera risalì all’albergo Gueli. Seppi che non c’era nulla di allarmante, soltanto si erano avvistate delle truppe tedesche avanzare verso Aquila. Il giorno 11 passò senza incidenti, Mussolini la sera ascoltò regolarmente la radio e fra l’altro sentì le clausule dell’armistizio fatto da Badoglio. Risulta che la notte stessa, alle ore 3 del mattino, Mussolini mandò una lettera al tenente Faiola così concepita: «In questi pochi giorni ho potuto capire che mi sei veramente amico, sei un soldato e sai meglio di me cosa significa cadere nelle mani del nemico. Ascoltando la radio Berlino ho sentito che in una clausula d’armistizio c’è la mia consegna vivo agli inglesi. Prima di subire tale umiliazione, ti prego di mandarmi la tua pistola». Era questa una intenzione di uccidersi o di avere un’arma per una eventuale difesa? Il tenente ebbe questa lettera alle 3 del mattino dal piantone che montava la guardia fuori dell’appartamento del Duce. Faiola si alzò ed andò a confortare Mussolini, il quale sembra, a seconda di quanto disse poi il tenente, abbia tentato di tagliarsi anche le vene del polso con una lametta, che egli avrebbe fatto in tempo a toglierli. La mattina del giorno 12 trascorse normalmente; a colazione, che faceva sempre insieme all’Ispettore Gueli e Faiola, quest’ultimo, avendo saputo dell’occupazione di Roma da parte dei tedeschi, si meravigliava come mai le truppe che erano a Roma non reagissero contro i tedeschi e disse anche: «Se qui verranno i tedeschi li faremo tutti cadaveri e il Duce l’avranno morto; La consegna che ha dato Badoglio è questa: Ai tedeschi morto non vivo». All’una e mezza circa un improvviso rombo di motori, il tempo di vedere degli apparecchi uno dietro l’altro che in brevissimo spazio alcuni atterravano nei piani circostanti l’albergo. Il coraggioso tenente Faiola, accorgendosi dell’arrivo dei tedeschi, non sapeva più cosa fare, dava l’impressione di un uomo fuori di sé, e se ne stava senza dare [5] nessun ordine; intanto dalla porta della taverna saliva il generale Soletti, il quale aveva dietro le sue spalle un fucile mitragliatore, tenutogli dal capitano tedesco comandante la spedizione di salvataggio. Questi chiese di Gueli che era restato in portineria e, trovatolo, la prima domanda fu: Il Duce è vivo o morto? Vivo risposero Gueli e Faiola. Non fate male al Duce, seguitò il capitano tedesco. Nel frattempo tutti gli alianti tedeschi erano atterrati; erano 11 alianti ed una cicogna. I tedeschi 16 Lumen circondarono subito l’albergo. Intanto Mussolini s’affaccia fuori dell’appartamento gridando agli italiani e tedeschi: Fermi, non sparate, non spargete altro sangue. Infatti non un solo colpo è stato sparato. I tedeschi, vedendo Mussolini, incominciarono a gridare Duce Duce Duce. Gueli e Faiola accompagnarono il capitano tedesco all’appartamento di Mussolini, il quale stringe la mano e abbraccia il capitano. Il capitano tedesco informa Mussolini che la sua famiglia è stata portata a Vienna e che, se lui vuole, può in giornata raggiungere i suoi cari. Mussolini esprime il desiderio di passare una notte a Rocca delle Caminate. Il capitano tedesco è oltremodo lieto per la riuscita della cosa e dice che sono stati i primi del mondo a fare un atterraggio di 2000 metri in terreno così sfavorevole, ma almeno secondo delle sue parole, sembra vi siamo stati costretti per aver avuto sentore che gli inglesi volevano fare tale tentativo. Il Duce decide di portarsi con sé il generale di polizia Soletti, il comm. Gueli e vorrebbe condurre anche il tenente Faiola, se non che questi parla al Duce pregandolo di farlo restare, avendo egli moglie ed un figlio. Il Duce in tono piuttosto duro risponde: Resta, resta. Per le 4½ tutto è pronto e il Duce esce dall’albergo per salire sulla cicogna, ma è investito dal fuoco delle macchine fotografiche e di una macchina da presa. Prima di salire sulla cicogna, egli stringe la mano a diversi soldati e rivolge loro le seguenti parole: Vi rin [6] grazio assai, mi ricorderò di tutti voi. Di tutto ciò la macchina di presa ha ripreso ogni dettaglio. Il Duce sale sulla cicogna, con il capitano tedesco e il pilota. Tutti gli agenti e gli altri lo salutano romanamente gridando: «Duce Duce». In un primo momento sembra che l’apparecchio debba rovesciarsi, poi prende quota e si perde in lontananza. Il giorno seguente scendono ad Aquila i 100 poliziotti che erano a guardia di Mussolini, mentre il tenente, i marescialli ed altri sottoufficiali restarono in albergo perché si era diffusa la voce che questi sarebbero stati condotti prigionieri in Germania. Il 14 i tedeschi vennero a prendersi buona parte delle armi lasciate dai poliziotti. Al sentire che vi erano i tedeschi alla base, che sarebbero saliti all’albergo, il tenente e i marescialli fuggirono subito verso il Passo Adriano (nella parte del Teramano), lasciando così in sospeso il conto all’albergo. P. C. C. IL CAPO UFFICIO Maggiore Ruggero Ruggieri». Ristampa Notizie da libri dell’Ottocento La lettura dei libri stampati nell’Ottocento riserva spesso gradite sorprese utili allo studio dei nostri territori. da Redazione I l primo testo considerato è il tomo XV della Biblioteca Italiana o sia Giornale di Letteratura Scienza ed Arti, (1819) pp. 363-366. Qui troviamo una delle più antiche descrizioni geologiche del Carseolano e di alcune aree limitrofe. [363] «Osservazioni naturali fatte in alcune parti degli Appennini nell’Abruzzo ulteriore. Memoria (inedita) del sig. BROCCHI. Sopra: frontespizio del primo volume consultato […] Partii da Tivoli, e mi avviai su per la valle dell’Aniene. Benché questa gola sia dall’uno e dall’altro lato spalleggiata da montagne calcarie, nulladimeno si ravvisa ivi quanto generalmente è nelle altre vallate che sboccano nelle pianure vulcaniche di questa parte d’Italia: intendo dire che addossati alla roccia calcaria, appaiono qua e là depositi di materie vulcanizzate, spinte, come io sono d’avviso, in questi grandi interstizi dalle alluvioni del mare, che sommergeva il continente, e da cui [364] sorsero quegli antichissimi vulcani che arsero in queste contrade. Nella valle dell’Aniene si riconoscono siffatti depositi ad intervalli più o meno ampi nelle vicinanze di Tivoli, presso Vicovaro, segnatamente a Saccomuro, e li seguitai fin nella valle di Cona in quel di Subiaco […] Il fenomeno stesso compare ne’ contorni di Arsoli, piccolo paese situato in capo ad una valle trasversale lunga circa due miglia, che può dirsi un ramo laterale di quella dell’Aniene. Molte umili alture e gibbosità, che rimangono a manca del torrente che la divide, sono vulcaniche, e constano di un lapillo bruniccio contenente squame di mica nera e particelle di pirossena ma così decomposto che è nella massima parte risolto in una terra che per mancanza di miglior cosa usasi ne’ cementi in cambio di pozzolana. Colà in una eminenza detta il colle di S. Giovanni trovasi una roccia parimente vulcanica, la quale presenta una massa bruna, friabile, di sembianza terrosa, seminata essa pure di squame di mica, e di particelle di pirossena, e bucherata da cellule d’irregolare figura. Per quest’ ultimo carattere, e per non ravvisarsi soluzione di continuità nella sua tessitura potrebbesi argomentare essere dessa una lava che abbia un tempo fluito, ma niuna traccia di correnti di vera lava compatta ho saputo in que’ luoghi discernere. Del rimanente le rocce ivi dominanti sono la calcaria apennina che costituisce la massa de’ monti, e una arenaria giallastra o azzurrognola composta di grani di quarzo, e di squamette di mica argentina uniti in cemento calcario, e contenente zolloni rotondati della stessa roccia più solida. Trovasi ivi eziandio una marna turchiniccia che racchiude pezzi più o meno voluminosi di selenite, e che si adopera per fabbricarne mattoni. Lo strato superficiale del suolo è in molti siti composto di una terra rossa di apparenza bolare, che giudico provenire dal compiuto disfacimento del lapillo vulcanico, al paro di quella che è tanto comune nella campagna di Roma ed in altri luoghi del Lazio. Presso Arsoli sul pendio della [365] montagna calcaria ove è il paese di Oricola havvi un profondo avvallamento caratteriforme somigliante al così detto pozzo di Antullo presso Collepardo ne’ monti degli Ernici, e al decantato Pullo di Molfetta in Puglia. Se da Arsoli internandosi nel gruppo de’ monti calcarei si prosegue il cammino verso Tagliacozzo, s’incontrano depositi vulcanici nel piano del Cavaliere, il quale rimane fra le eminenze di Oricola, e quelle di Carsoli. Essi constano del summentovato lapillo bruno, che usasi nei cementi ivi pure come pozzolana; ma nel luogo ove era l’antica Carseoli, di cui non rimangono adesso che scarsi e miserahili avanzi di muraglie, trovasi un tufa litoide di colore bruno cenericcio, e di fina grana terrosa, simile a quello che ho detto rinvenirsi in Valle di Cona sotto Subbiaco. I vestigi vulcanici mi accompagnarono fin presso Carsoli, e benché manifestassero rocce di poca importanza, né abbia in verun luogo adocchiato correnti di lava, era cosa abbastanza interessante il vederli così dispersi ne’ piani e nelle vallette intermedie alle eminenze calcarie. Lumen 17 1 Un commercio analogo esisteva a Pietrasecca di Carsoli. 2 Nella nostra copia la lettura del numero del volume non è chiara. 3 Il riferimento è a Trevi nel Lazio (FR). Sopra: frontespizio del secondo volume preso in esame 18 Lumen La catena degli Apennini comincia oltre Carsoli ad acquistare maggiore elevatezza, e da questo paese fino al piano di Tagliacozzo presenta due qualità di rocce, calcaria stratificata cioè, che è dominante, ed arenaria giallognola, o bigioturchiniccia, la quale interpolatamente compare in questo e in quel luogo. Che la prima spetti alla formazione secondaria non si può dubitarne, ma rispetto all’altra, mi sembra che non vi sarebbe fondato motivo onde credere che sia quella stessa arenaria terziaria, che trovasi in tanti luoghi dell’Italia alla base degli Apennini, accompagnata o dalla marna turchina, o da sabbione siliceo-calcario con gusci di testacei marini, o senza. Tale certamente non sembra essere quella che incontrasi lungo il pendio della montagna di Rocca Cerri per scendere a Tagliacozzo, la quale ha molta analogia con la grauwake, o pietra serena della Toscana nel colore turchiniccio chiaro, nella durezza, nella grana fitta e minuta, e nella quantità di squamette di mica argentina; ma ciò che vieppiù conferma questa analogia si è che a luogo a luogo contiene strati e filoncelli di una sorta di ardesia nera, simile al schiefer grauwake, che di frequente accompagna l’arenaria di Fiesole. Essa in tal caso sarebbe una roccia di transizione; ma non mi sono [366] mai a vero dire abbattuto di scorgere ad essa associata quella calcaria nerastra e scintillante sotto 1’acciarino, che va così spesso unita alla pietra serena della Toscana, né altra roccia ho all’intorno veduto, se non che la comunissima calcaria apennina. Fra Tagliacozzo e le sponde del lago di Fucino stendesi una spaziosa pianura, che offre una delle più belle e pittoresche scene che occhio possa mai vagheggiare, i siti montani. Una serie di alpi a cui fanno corona deliziose colline popolate da numerosi villaggi cinge intorno quel piano, e le sottoposte campagne erano allora vestite di biondeggianti messi, e coperte in parte, per quanto si stendeva lo sguardo, da un tappeto di bianchi fiori di Pimpinella anisum, che si coltiva in gran copia nelle campagne della Scurcola, e i cui semi aromatici costituiscono un lucroso ramo di commercio1 insieme col croco che si raccoglie in molti territori, particolarmente in quello di Marliano». ù Il brano che segue è tratto dal Viaggio antiquario alla villa di Orazio, a Subiaco, a Trevi, presso le sorgenti dell’Aniene, di ANTONIO NIBBY, edito nelle Memorie Romane di Antichità e di Belle Arti, vol. 1882 [?], Pesaro 1827, pp. 78-81. Si tratta di un testo curioso perché pone il tratto di strada da Carsioli a Marrubio, riportato nella Tabula Peutingeriana, all’interno dei monti Simbruini e non secondo il noto itinerario della via Valeria, per di più lo considera estraneo a questa strada consolare. «[78] [...] Ho notato di sopra che nella carta peutingeriana è indicata questa città antica3 col nome di Treblis, per Trebulis in ablativo, come sovente in quella carta sono enunciati i nomi. Dopo Treblis leggonsi in quell’itine [79] rario le stazioni dette Carsulis, In Monte Grani, In Monte Carbonario, Vignas, e Sublatio: la somiglianzà di nome di questa ultima stazione con Sublaqueum ha fatto credere che in questa parte del documento sia stato corrotto, ed io stesso prima di visitare i luoghi inclinava ad ammettere questa opinione; ma dopo aver veduto i siti, ho riconosciuto che in tutto questo segmento della carta peutingeriana, non solo è corretta la direzione della via, ma sibbene i numeri delle distanze, meno quella da Palestrina, o Preneste a Trevi, e da Trevi a Carseoli. Essendo sul luogo, mi sia lecito entrare in questa piccola digressione, tanto più interessante, che mentre dilucida una questione di topografia, ha una relazione stretta col viaggio del lago Fucino, del quale tratterò nella sezione seguente. Fa di bisogno però di premettere il segmento della carta non alterato dalle osservazioni de’ moderni; ma tal quale publicollo Marco Velsero, che il primo mise alla luce questo documento importantissimo. La strada che indica è la via Prenestina distesa fino a Marrubio, città principale de’ Marsi, sul lago Fucino, le cui rovine sono tuttora visibili a s. Benedetto; quindi è una strada affatto diversa dalla Valeria e dalla Sublacense. Le stazioni sono così ordinate: XII Gabios. XI Preneste. XI Treblis : qui sono accennate due direzioni, una a Carseoli posta sulla via Valeria, onde si pone XV Carsuli: altra a Marrubio, e si notano dopo Treblis VI In Monte Grani. V In Monte Carbonario. V Vignas. V Sublatio. VII Marubio. Ora il nodo di strade in cui trovasi Trevi mise in gran confusione gli eruditi che non visitarono i luoghi, e questa confusione venne accresciuta, come ho indicato di sopra, dal nome Sublatio, che presero per Subiaco; quindi incerti sul modo di trarsene fuori, conchiusero, che i nomi erano travolti. Ma esiste una via che direttamente conduce da Preneste a Treba; e due ne partono dopo questa antica città per Carseoli, e per Marrubio, senza che punto si tocchi Subiaco. La prima che è la più corta per chi vuole andare da Roma a Trevi, dopo Palestrina passa per Cave, l’osteria della Bufala, s. Sebastiano, Gesù e Maria, il Piglio, dopo di che trapassa il monte Acuto e per la Madonna del monte discende al piano dell’Arcinazzo, e di là pel monte Carpineto discende alla valle [80] dell’Aniene, e sale a Trevi: e questa via conserva traccie molto visibili di ç ç ç ç ç ferma i privilegi del vescovo di Anagni si da appunto ad esso il nome di Mons Granì: et castri de Monte Grani ecclesias: dunque la stazione fu dove dopo Filettino si passa la falda di questo monte per discendere a valle Granara, ed ivi appunto coincidono le sei miglia da Trevi. Rinvenuta la stazione In Monte Grani, facil[81] mente si trova l’altra detta In monte Carbonario, la quale per la distanza di cinque miglia dalla precedente coincide colla cresta, che oggi si appella di s. Antonio per una chiesuola diruta posta a pie di essa. Viene poi la stazione Ad Vignas, indicata come cinque miglia distante dalla precedente, e questa coincide presso all’ingresso de’ campi Palentini dopo Capistrello. Alla distanza di altre sette miglia da questo punto si nota Sublatio, nome che è stato lo scoglio finora a ben comprendere l’andamento di questa strada, perché venne confuso con Sublaqueum, o Subiaco: questa stazione coincide sotto Paterno, nel punto di riunione fra la via tracciata finora, e la Valeria. Finalmente le sette miglia che si notano da questo punto a Marrubio, oggi s. Benedetto, sono giuste. Così vengono tolte tutte le contraddizioni, e si conosce bene l’andamento di un’antica via intermedia fra la Prenestina, e la Valeria, che quantunque secondaria, e dovendo ad ogni costo traversare i monti fra l’Aniene ed il Liri, seguì il corso più regolare che fosse possibile. [...]». ù La notizia che segue riguarda Poggio Cinolfo, ed è tratta da ANGELO SIGNORINI, L’archeologo nell’Abruzzo Ulteriore secondo [...], Aquila 1848, p. 87, nota a fondo pagina. Si accenna alla presenza di una cava di marmi in questo paese, dove è noto il dominio delle arenarie. Siamo difronte ad un errore? o abbiamo a che fare con qualche fabbricato di epoca classica usato come cava di marmi? essere antica. Essa però ha un corso non di undici, ma di circa ventuno miglia da Palestrina, e perciò chiaramente si riconosce che al trascrittore della carta sfuggì un X. Ho detto, essere Trevi nel nodo di varie strade; infatti oltre quella di Subiaco, che ho descritto, e l’altra dell’Arcinazzo testé indicata, ne parte verso Filettino un’altra, la quale poi si dirama in tre. La prima a destra non sembra essere antica: questa dopo aver passato le gole fra il monte Cerasolo, e il monte Cantaro, traversa la Serra di s. Antonio e pel villaggio detto la Meta, raggiunge fra Canistro e Peschio Canale la valle di Roveto, irrigata dal Liri. La seconda a sinistra di questa suddividasi in due: quella a sinistra conduce a Carseoli passando fra’ monti pel campo del Ceraso, valle Bertina, Camerata, e Rocca di Botte, seguendo il corso del fiume Fioggio, che dopo Carseoli prende il nome di Turano; e questo è il tronco di strada indicato nella carta da Treblis a Carsulis come lungo XV miglia; ma piuttosto dee leggersi XXV, tale essendo all’incirca la distanza fra questi due luoghi, seguendo questa strada. Rimane ora la terza strada a destra della precedente, la quale passa per valle Granara, la Serra di s. Antonio, la Zoglietta, e scende pur essa, come la prima, a raggiungere il Liri fra Canistro e Peschio Canale, donde poi rimontando il corso del Liri fino presso a Capistrello, e traversando i campi Palentini, e il monte Penna, o Salviano, discende ad Avezzano, e di là poi per di sotto Paterno volge all’antico Marrubio. Applichiamo a questo tronco i nomi delle stazioni e le distanze indicate dalla carta. Dopo Trevi la prima stazione è In Monte Granì, e si pone sei miglia distante: il nome di valle Granara sarebbe un indizio per credere che gli antichi posero il nome di Mons Grani alla punta più alta che la domina, che è il monte Cantaro; ma v’ha di più: nella bolla di Gregorio IX dell’anno 1337, che con- «[…] Il Velino di Magliano co’suoi profondi dirupi ed ossidi metallici, ci assicura delle sue miniere anche d’oro, [...] In Ocre si rinviene il travertino. Il Pico di Lecce, le montagne del Curcurmello, del Tino, di Gioja, del Tufo, di Ricetto hanno delle vene di carbon fossile. Morino di Valleroveto è noto per le sue miniere di ferro; ed in Poggiocinolfo si cavano de’ marmi bianchi appartenenti alla famiglia degli alabastri; [...]». In alto a sinistra: parte della Tabula Peutingeriana con il percorso discusso da Nibby segnato dalle frecce; Sopra: frontespizio del volume contenente la notizia su Poggio Cinolfo di Carsoli Lumen 19 Ristampa La leggenda della Madonna dei Bisognosi in una operetta teatrale da P. Gaspare Paolo Forcina I Sopra: foto di Padre Gaspare Paolo Forcina La segnalazione e le note biografiche sono di P. Nardecchia 20 Lumen l P. Gaspare Paolo Forcina, nato a Formia (LT) nel 1904, entrò nell’ordine francescano nel 1923 quando era già un abile carrettiere e fu ordinato sacerdote nel 1932. Ereditò un profondo amore a san Francesco e alle opere francescane ed, esercitato per qualche tempo l’ufficio di Guardiano in due conventi abruzzesi, si lanciò con il suo forte temperamento alla predicazione semplice, vibrante e chiara, ricca di immagini e di episodi, entrando a contatto con ogni categoria di persone. Oltre che in Abruzzo, dove dal 1939 fu nominato Prefetto della Congregazione dei Missionari Indigeni, tenne corsi di Sante Missioni e predicazione varia nel Lazio, in Campania, in Sicilia, nelle Marche e in Emilia. Il suo zelo lo portò anche a raggiungere i nostri emigrati in Svizzera, in Germania, in Belgio e in Francia, prima servendosi del carrettino, poi della bicicletta e di una modesta vettura, infine della sua “autocappella”, un carro trasformato dal suo ingegno in una cella ambulante, raggiungendo in tal modo anche i luoghi impervi sui monti e nelle campagne. Così lo ricorda il confratello P. Benedetto Fedele (Nel XXV di un sacerdozio. Ricordi ed esperienze, Napoli 1957, specie pp. 38, 42, 75): Con una volontà sempre ferma ed entusiasta, noncurante delle difficoltà di ogni genere, si scriveva dalla prima all’ultima parola i sermoni, che poi mandava letteralmente a memoria. (…) I suoi non erano aridi e accademici sermoni, ma istruzioni catechistiche, apologetiche e agiografiche, illustrate quasi sempre da quadri a colori, proiettati sullo schermo mediante apposito obbiettivo luminoso. Convinto infatti della potenza dei vari mezzi di comunicazione sociale, potenziò la sua attività anche con altoparlanti e dischi sonori. Su e giù per monti e per piani, per valli e colline, per paesi e città, dappertutto, nelle piazze e nei teatri, nelle vie e nelle case, negli ospedali, nelle carceri e negli istituti filantropici, nelle scuole e nelle chiese, egli portò la parola evangelica, il conforto morale e materiale, la letizia francescana. Trovò anche il tempo di scrivere una quarantina di opuscoli per lo più agiografici, prediligen- Ristampiamo un’operetta teatrale del francescano p. Gaspare Paolo Forcina sulla leggenda di fondazione del santuario della Madonna dei Bisognosi. La biografia dell’autore è liberamente tratta da articoli pubblicati sul bollettino Voce del Santuario (1970, I, fasc. 1, p. 9; 1973, III, fasc. 9, p. 1; 1975, VI, fasc. 21, p. 15). do i drammi sacri dialogati, che lasciavano una forte impronta sull’intelligenza e sulla fantasia, allietavano gli occhi e lo spirito, disponevano soavemente le anime ad accogliere il seme della verità. Tra un atto e l’altro, P. Gaspare saliva sul palco e distribuiva al popolo già preparato il succo praticomorale-religioso dell’azione drammatica che si stava svolgendo sotto i loro occhi incantati. Per noi è interessante il testo relativo alla leggenda di fondazione del santuario della Madonna dei Bisognosi, pubblicato sia in monografia sia a puntate nel 1970-71 sul relativo bollettino “Voce del Santuario”, da lui diretto per sei anni. Dal 1969 infatti, col beneplacito dei Superiori, era passato a custodire questo antichissimo luogo di culto posto tra Pereto e Rocca di Botte, subentrando a p. Doroteo Bertoldi, che era stato per 40 anni zelante ed amato rettore, ormai trasferito nella casa di riposo a Celano. Per tenere inoltre desto il ricordo e accesa la fede verso il santuario mariano della piana del Cavaliere, rinomato in un’amplissima area geografica, P. Gaspare fece incidere anche un disco sonoro, forse ancora conservato in qualche nostra casa. Venne anche profondamente colpito dalla fede e dalla devozione delle buone popolazioni locali e fu lieto di prestare di tanto in tanto servizio nelle parrocchie della zona. Morì nell’agosto del 1975. Degno di nota è anche l’incarico ricevuto dai suoi superiori, dal vescovo di L’Aquila e dal papa Pio XII, di organizzare e condurre nel 1953-54, con l’aiuto di alcuni confratelli, la Peregrinatio Mariae nell’arcidiocesi dell’Aquila, una processione che toccò tutte le parrocchie urbane e suburbane di quel vasto territorio per suscitare la fede e spronare ad una più cosciente e generosa pratica di vita cristiana l’intera popolazione, evento concomitante con le celebrazioni per il primo centenario della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (vd. Il trionfo della Madonna Pellegrina …, L’Aquila 1954). Ancor prima però, nell’Anno Santo 1950, accompagnò in processione la statua della Vergine Santissima dei Bisognosi per le città e i paesi della forania di Carsoli, evento così commentato dall’allora parroco di Carsoli d. Antonio Rosa (“Voce del Santuario”, 1999, XXV, fasc. 92, pp. 7-8): Chi può raccontare le preghiere, i canti, le veglie che tutti i fedeli tributarono in quell’occasione? La tristezza della guerra appena conclusa, con i lutti, le rovine, i dolori, gli stenti, le difficoltà della ricostruzione furono la causa dirompente di un’esplosione di fede, di speranza, di gioia per tanto tempo prima distrutta dagli eventi bellici e poi compressa dalle tristi conseguenze. In quel momento apparve evidente il singolare titolo col quale si fregia la Madonna e cioè “dei Bisognosi”. PRIMO TEMPO Filiale amore di Fausto per Maria Santissima Scena prima: Fausto e Procopio Fausto. Figlio, come stai? Come da queste parti? Tua mamma dov’è? Procopio. Sta ritornando a casa per l’altra strada. Impauriti per la forte tempesta siamo andati in Chiesa a raccomandare te e noi alla Madonna dei Bisognosi. Faus. Bene. Io vado a ringraziarLa. Proc. Hai vissuto momenti pericolosi anche tu? Faus. Altroché! Ero con i compagni d’armi sul naviglio per arginare l’avanzata dei Saraceni, ed è mancato poco che la terribile bufera non ci inghiottisse nei suoi spaventosi gorghi. Proc. E ti sei gettato in mare?! Faus. No, figlio; ho invocato la Madonna dei Bisognosi e Lei mi è apparsa e mi ha detto: «Tornate indietro, fedeli miei, poiché non potrete oggi resistere all’impeto dei Saraceni». Ciò detto, Lei è scomparsa e la tempesta è cessata. Proc. E vi siete messi in salvo tutti! Faus. Per nulla. Il Generale non ha voluto credere all’apparizione e mi ha definito uomo vile e visionario. Però, la sua incredulità ci è costata cara! I Saraceni hanno riportato vittoria e molti siamo stati fatti prigionieri; e... se sapessi... quante sofferenze...! Proc. Papà, ed ora come ti trovi qui, chi ti ha liberato? Faus. La Madonna in persona! Proc. Davvero! Faus. Le ho detto piangendo: «Madre dei Bisognosi, soccorri alle mie necessità, salva il povero e indegno Tuo servo». Proc. Ed è venuta personalmente a liberarti? Papa, sei un prediletto di Maria Santissima dei Bisognosi! Faus. Bontà del suo Cuore materno. Io vado a ringraziarLa; tu, intanto, pensa come beneficare i poveri con quanto la Provvidenza ha messo a nostra disposizione. (esce) Scena seconda: Procopio ed Ebreo Proc. (passeggia e riflette). Il mio caro Papà è proprio devoto della Madonna dei Bisognosi! Quale atto di riconoscenza, per aver avuto da Lei salva la vita, ora vuole dare ai poveri quanto abbiamo... Lo aiuterò ben volentieri e la Celeste Mamma, sono certo, proteggerà anche me. E b re o ( e n t r a n d o ) Buon giorno; ma, tuo padre è impazzito? Faus. Ma..., che dici, Ebreo? Ebreo Va per le vie offrendo denaro ai poveri e a coloro che hanno bisogno di indumenti ed altri oggetti, dice: Venite a casa mia, vi è provvidenza per tutti... Sicuramente è malato di testa! Proc. No, mio Signore, è beneficenza che fa in ringraziamento alla Madonna dei Bisognosi per averlo salvato da terribile sicura morte. Ebreo Fissazione anche questa. Proc. No, caro; è fissazione la tua che non vuoi appartenere alla nostra unica vera santa religione, il cristianesimo. Ebreo Io credo solo a quello che vedo; se la vostra Madonna veramente esiste, perché non si lascia vedere anche da me? Proc. Lo dirò a babbo e, sono certo, ti otterrà una tanta grazia. Ebreo Ci spero poco; ad ogni modo, diglielo (guardando fuori). Ma, quegli non è tuo padre? Proc. È lui, è lui, vado ad incontrarlo, (esce, l’ebreo attende per salutare Fausto che subito entra). Scena terza: Ebreo, Fausto e Voce Ebreo (dandogli la mano) Oh Fausto, ho sentito delle tue fortunose avventure, congratulazioni! Faus. Avventure? Dì, piuttosto, pericoli di sicura morte. Ora, però, ho bisogno di te, mi aiuti? Ebreo In che cosa posso esserti utile? Faus. Mi trovo nella più squallida miseria. Dovresti prestarmi una sommetta per poter esercitare una qualsiasi lecita industria allo scopo di provvedere pane e vestiti per me e per i miei cari. Ebreo Volentieri; ma chi si renderà garante della restituzione? Tu hai la mania di dare tutto ai poveri. Sopra: la statua della Madonna dei Bisognosi prima del restauro; sotto: copertina del testo teatrale stampato a L’Aquila nel 1971 Lumen 21 Faus. Prometterà per me la Protettrice Santa Maria dei Bisognosi. Ebreo (esplode in risata) Questa è bella. Se tu non mi restituirai la somma, io reclamerò alla tua Protettrice e la chiamerò in giudizio... Proprio non mi sono sbagliato a giudicarti malato di testa. Faus. No, caro, posso assicurarti che proprio Lei, la buona Madonna dei Bisognosi, mi ha detto: «Domanda all’Ebreo la somma che ti occorre ed offrigli la mia garanzia». Non mi accontenti? Ebreo Quanto mi dici mi fa piacere, ma ho ancora dei dubbi... Faus. (congiunge le mani e prega) Mamma buona, l’amico a cui hai voluto che mi rivolgessi, vorrebbe favorirmi, vuole, però, sicura garanzia. Voce Da pure francamente al caro Fausto quanto ti ha chiesto in prestito, perché io prometto per lui, che ti restituirà sicuramente, nello spazio di un anno, il capitale e i frutti. Ebreo Quando è così, ecco la somma, (tira di tasca il portamonete e consegna la somma, mentre dentro e fuori dal palco esplode un canto). Evviva Maria Degli abbisognosi, Che gli occhi pietosi Su tutti posò. La storia ci narra Che v’era in Siviglia Devota famiglia Che il Cielo esaltò. Evviva ecc. Or questa famiglia A un bel simulacro In tempio a Dio sacro Ognor si recò. Evviva ecc. Si accese la guerra Tra Turco e Cristiano, L’iniquo Pagano Vittoria portò. Evviva ecc. E Fausto allora Fu fatto prigione: Ei fece orazione, Maria lo salvò. Evviva ecc. Con grande contento Ritorna a Siviglia, La buona famiglia Maria ringraziò. Evviva ecc. Si fece a un ebreo Dell’oro imprestare, Col figlio pel mare La vela spiegò. Evviva ecc. 22 Lumen SECONDO TEMPO Amorosa fiducia di Fausto verso Maria Santissima Scena prima: Ebreo, poi Saverio Ebreo (entra con una cassetta tra le braccia) Questa cassetta galleggiante nel mare, ha attirato la mia attenzione, incuriosito sono andato a prenderla. Fatto strano, veniva proprio verso di me. Cosa contiene? (l’apre) Uh, quanti soldi! E questa lettera? (legge) «Mia cara Madonna dei Bisognosi, essendo per scadere il tempo fissato per la restituzione della somma che l’Ebreo mi prestò, dietro Tua garanzia , e nella impossibilità, almeno per ora, del mio ritorno in Siviglia, affido la somma chiusa in questa cassetta alle onde del mare. Tu, o Mamma, tanto buona, gliela farai giungere». (chiudendo la cassetta) Ho capito, sono frutto del mio sudore, la moneta che prestai a Fausto; posso prenderla e nasconderla dove voglio e senza scrupoli. (mentre sta per uscire entra Saverio) Saverio Buon giorno, amico, dove vai? Che notizie abbiamo da Fausto? vero che è di ritorno? Poverino, prima di partire gli morì la moglie Elfusia, devotissima della Madonna come lui; ora, dove è andato in cerca di fortuna, pare gli sia morto anche il figlio Procopio. Ebreo (ironico) Fausto non si perde di animo, c’è la Madonna dei Bisognosi che lo protegge. Saver. Ed è vero. Ebreo S’immagini, lo dice lui! (esce) Scena seconda: Saverio e Fausto Saver. (guardando fuori) O Fausto, vieni vieni, (quegli entra e si danno la mano) Tutto bene? Faus. Meglio non parlarne. Economicamente le cose non sono andate male, tanto che, a tempo giusto, ho potuto restituire all’Ebreo la somma prestatami e gli interessi maturati. Saver. Procopio, intanto, non è tornato! Faus. E neanche tornerà. (si commuove) Il viaggiò di andata è stato terribilmente avventuroso: la nave, sospinta da vento contrario, invece di proseguire per Levante, si è diretta verso il mare Ionio, si è immessa nell’Adriatico e ci ha costretti ad approdare nelle Puglie. Saver. E Procopio è rimasto lì? Faus. Volesse il cielo! Nel ritorno, dopo appena un giorno di navigazione, si è scatenata altra furente tempesta e la nave, in procinto di sommergersi, ci ha scaraventati tutti nel mare. Saver. Ed è perito il povero Procopio. Faus. No. La Madonna dei Bisognosi, alla quale mi raccomandai affranto dal dolore, mi ha assicurato che lo rivedrò. Saver. E quando? Dove? Faus. (tirando di tasca un foglio) Ho scritto le sue parole, per non dimenticarle e sia per mo- strarle a quanti vorranno aiutarmi nella impresa che la buona Mamma vuole affidarmi. (legge) «Fausto, io ti consolerò, di quanto tu mi hai domandato, dopo lo spazio di molti mesi; ma voglio che tu mi prometta, tornato che sarai in patria, di levare l’immagine mia dalla chiesa che tu sai e portarla in Italia, precisamente in Abruzzo. Ivi giunto, la collocherai nella sommità di un monte detto Carsoli, perché in quei paesi dove tu sei nato ed io sono stata venerata sotto il nome di Maria dei Bisognosi, andranno i Saraceni e deprederanno e profaneranno templi ed edifici cristiani. Quando poi sarai giunto con la mia Immagine sul monte Carsoli, troverai ivi tuo figlio Procopio sano e salvo». Saver. Farai tutto questo? Faus. L’ho promesso e sono certo che la Celeste e cara Madre mi aiuterà. Saver. Ed io potrò esserti di aiuto e compagno di viaggio? Faus. Senz’altro, partiremo al più presto. Saver. Intanto vado a casa e torno subito. (uscendo) Ecco l’Ebreo; verrà a congratularsi per il tuo ritorno. Faus. Ed a notificarmi la recezione della somma prestatami. Scena terza: Fausto, Ebreo e Voce Ebreo Caro Fausto, ben tornato e felice; e lunga permanenza fra noi. Hai forse, la possibilità di restituirmi la sommetta che ti prestai? Il tempo che fissammo per la restituzione pare sia scaduto già da mesi. Faus. Mi meraviglio! Non l’hai ricevuta tramite Maria Santissima dei Bisognosi alla quale spedii tutto, capitale e interessi, entro una cassetta che affidai alle onde del mare? Ebreo (con alterigia) Tu, o cristiano, vuoi vendermi sogni a buon mercato: io niente ho ricevuto, devi darmi, fino all’ultimo centesimo, capitale prestato ed interessi pattuiti. Faus. Ma... Domando alla Madonna: (a mani giunte) Mamma buona, non è giunta la moneta che ti spedii per questo mio creditore? Voce Iniquo Ebreo, come puoi tu negare di aver ricevuto da Fausto, mio devoto, la moneta imprestatagli con mia sicurtà e i frutti di essa, se dentro la tua grande casa, giù nel fondo, ora vi è la cassetta medesima, della quale Fausto ha narrato quello che tu hai udito, con quella moneta presa da te al lido del mare, vicino la tua villa, ed è a me indirizzata, acciò per mano mia la ricevessi come sicurtà di esso Fausto? Taci, bugiardo! Ebreo (cadendo in ginocchio e piangendo) Perdonami, o Fausto; e, per amore a Maria Santissima dei Bisognosi, preparami a ricevere il santo Battesimo e ascrivimi tra il numero dei devoti che ti aiuteranno a portare nell’Abruzzo la sacra Immagine. Faus. Questa tua conversione è segno della predilezione della Madonna anche per te. Senz’altro sarai mio compagno nel sottrarre al vandalismo dei Saraceni l’immagine di Maria Santissima dei Bisognosi. La porteremo dove Lei ci condurrà; e Le terremo compagnia per tutta la vita. Ebreo E guai a chi vorrà toccarcela! Eleviamole un inno di filiale riconoscenza (dentro e fuori del palco tutti cantano). Evviva Maria Degli abbisognosi, Che gli occhi pietosi Su tutti posò. Voleva l’iniquo La somma negare, Che l’onda del mare Ad esso recò. Evviva ecc. E Fausto allora Al tempio s’invia Ricorre a Maria Che tutto svelò. Evviva ecc. Intanto l’Ebreo, Del fatto pentito, Si die convertito, La fede abbracciò. Evviva ecc. O Fausto caro, Poi dice Maria, Portatemi via Qui più non starò. Evviva ecc. Sul monte Carsoli Portatemi a volo, Il vostro figliuolo Trovar vi farò. Evviva ecc. TERZO TEMPO Eroismo di Fausto e compagni per amore di Maria Santissima. Scena prima: Fausto e Procopio Proc. (abbracciandosi con Fausto) Oh, Papà, che sorpresa! Sopra: il volto della Madonna dei Bisognosi dopo il restauro e la rimozione delle parti eccedenti Lumen 23 Faus. Lo sapevo che ti avrei incontrato, me lo aveva assicurato la Madonna. Hai attraversato momenti brutti, non è vero? Proc. Per il momento meglio non parlarne; tu come ti trovi qui? Faus. Insieme ad altri devoti abbiamo portato da Siviglia la Statua della Madonna dei Bisognosi. Proc. E i Sivigliani l’hanno lasciata portar via? Faus. L’abbiamo presa e caricata su di un naviglio all’insaputa di tutti. Immessici nel mar Ionio, siamo usciti nell’Adriatico e siamo sbarcati a Francavilla a Mare. Proc. E qui sopra come l’avete portata? Faus. È un vero miracolo. A Francavilla l’abbiamo caricata sul dorso di una mula indomita e, non sapendo la via per giungere in questa località, ci siamo affidati alla protezione della Vergine Madre di Dio. Proc. Ed ora i tuoi compagni dove sono? E la bestia? Faus. La bestia è stata seppellita perché, appena giunta in questa altura, si è accasciata ed è morta. Già un duecento metri innanzi era caduta ginocchioni lasciando addirittura impressa nella pietra l’orma del ginocchio. I miei compagni vanno in giro studiando quale potrà essere il luogo più adatto per costruirvi una cappella alla Madonna dei Bisognosi. Proc. Papà, il posto per la Cappella è quello dove la mula è morta. Me lo ha precisato la stessa Santa Vergine che poc’anzi è partita da me. Faus. Se è così, li vado a cercare onde tu possa salutarli e felicitarli; poi mi trattengo alquanto in visita alla cara Immagine. Scena seconda: Procopio, Ebreo, Saverio Proc. (guarda lontano) Che panorama bellissimo si ammira da questa altura; quanti paesi alle falde dei monti circostanti; la Madonna non poteva scegliere luogo più incantevole! Ebreo (entrando) Finalmente ci siamo incontrati! (si danno la mano) Saver. Hai saputo dello scopo della nostra venuta in questo luogo? Rimarrai con noi a tenere compagnia alla Madonna dei Bisognosi? Proc. Certo. Col tempo, e mediante il Materno aiuto di Maria, qui faremo un grande Santuario e chiameremo fedeli da ogni parte ad onorare e domandare grazie alla Madonna dei Bisognosi. Ebreo A me sembra già essersi realizzato un grande miracolo. Questo monte, quando noi lo abbiamo scalato, era arido e brullo, guardate ora, è tutto ricoperto di arbusti, di erbe, di fiori... Proc. Sì, sì, è vero. Saver. Che meraviglia! Ebreo Vado in cerca di Fausto. (mentre sta per uscire) Oh, ecco che viene. 24 Lumen Scena terza: Fausto e detti Proc. (a Fausto che entra) Papà, guarda che meraviglioso panorama! Faus. Figlio e amici cari, non vi può essere alcun dubbio, la Madonna dei Bisognosi vuole rimanere proprio in questa località. La notizia della sua presenza in questo monte già si è divulgata. Molti, infatti, si preparano a venirla a visitare. Per amor suo i cittadini di Pereto e di Rocca di Botte, da anni in disaccordo tra loro, hanno deposto ogni rancore ed hanno fatto pace. Saver. Ho sentito dire che il luogo dove è caduta la mula, e nel quale sorgerà la Cappella, segnerà i confini d’ambo i paesi. Ebreo. Non solo, diverse popolazioni, vicine e lontane, stanno organizzandosi per venirci ad aiutare nella costruzione della Cappella per la cara Madonna dei Bisognosi e delle abitazioni per noi che ne vogliamo essere i custodi. Saver. Non sapete l’ultima? Papa Bonifacio IV, nativo di queste zone e Pontefice solo da due anni, cioè dal 608, avuto notizia dell’arrivo in questo luogo della Sacra Immagine e, guarito istantaneamente da malattia dichiarata inguaribile dai medici, ha deciso di venire in pellegrinaggio con tutta la Corte Pontificia e quanti sacerdoti e fedeli vorranno seguirlo. Faus. Sarà un avvenimento straordinario e, penso, il Santo Padre arricchirà di sante indulgenze questo luogo e lascerà offerte e disposizioni per l’ampliamento della fabbrica. Proc. Pare di aver sentito che porterà processionalmente un grande Crocifisso ligneo e lo lascerà in dono a noi custodi della Madonna dei Bisognosi. Faus. Ottimamente, festeggiamo, cantiamo. Tutti. Evviva Maria Degli abbisognosi, Che gli occhi pietosi su tutti posò. E poi che è tra noi La Madre beata, La nostra avvocata Per sempre sarà. Evviva ecc... A tutti fe’ grazie Di notte e di giorno Da lungi e d’intorno A chi l’invocò. Evviva ecc... Noi pure, dolenti, Davanti al tuo trono, Chiediamo perdono, Chiediamo pietà. Evviva ecc... Ristampa Le prime escursioni sui monti di Pereto, Camerata Nuova e Carsoli (1888-1891) I brani che seguono sono tratti da Escursioni in Abruzzo, parte I, di Ignazio Carlo Gavini, socio della sezione romana del C.A.I., editi nel 1892, pp. 5-8. Si parla delle prime escursioni alpinistiche fatte sui nostri monti dopo la costruzione della ferrovia Roma-Sulmona. da Ignazio Carlo Gavini L ’autore, dopo aver descritto l’orografia del confine laziale-abruzzese nel tratto da monte Viglio ai monti Carsolani, individua quattro itinerari escursionistici descritti con cura. «[5] 1) In Camerata fummo gentilmente ospitati dal nostro amico Crispino David, segretario comunale, che però ha lasciato da qualche tempo Camerata. Ad ogni modo rivolgendosi alle autorità si trova da dormire presso gentilissime famiglie. Per guide, o meglio portatori, sono consigliabili Ciolli Luigi e Lozzi Antonio. Sopra: frontespizio dell’opera; sotto: l’ex osteria del Cavaliere PRIMA GIOGAIA Monte Serra Secca (1.793 m.). La ferrovia che da Roma va a Solmona, dopo aver percorso gran parte della valle dell’Aniene, uscendo dalla provincia di Roma, attraversa il Piano del Cavaliere (615 m.), dove sembra si riposi delle forti pendenze superate. Il viaggiatore, che fin qui ha oltrepassato montagne brulle e scoscese, alla vista di quel piano, in gran parte coltivato, dalle cui zolle spira la fecondità, prova un sentimento di pace e di riposo, ma l’alpinista spinge lo sguardo verso i monti che circondano l’altopiano e sente il bisogno di salire e di conoscerli. Filippo Ugolini, il nostro caro amico e collega, rapito così presto al nostro affetto, fu il primo dei nostri soci che salì e descrisse queste montagne, invogliando la nostra Sezione a promuovere gite sociali in quella regione, di cui aveva riportato splendide fotografie; [6] infatti la Serra Secca d’estate e d’inverno fu salita da molti giovani, attratti dalla novità. Per chi proviene da Roma, la Serra Secca è la prima montagna a destra che si distingue per la sua forma a pareti regolari e la cresta poco incurva- ta; infatti la sua regolarità è visibile anche dal Gianicolo da cui nell’inverno ho avuto campo di osservare il versante S-0 quasi senza interruzione ricoperto di un bianco lenzuolo di neve. La montagna in sulle prime potrebbe sembrar monotona specialmente per chi ne giudichi dall’aspetto che presenta in una pianta topografica, ma se ciò credo possibile si effettui ascendendola d’estate, quando l’ammanto di neve è scomparso, assolutamente credo impossibile d’inverno, quando anzi presenta una piacevole e variata salita. Però d’inverno bisognerà scegliere le giornate favorevoli per il buono stato della neve, acciò non avvenga di affondare troppo, come accadde ai due colleghi Perelli e Fasoli, che il 14 dicembre 1890, arrivando sulla vetta, se non dettero prova di valentia, certamente provarono la loro robustezza e perseveranza. La Serra Secca si eleva sul Piano del Cavaliere tra Pereto e Camerata Nuova in due versanti regolarissimi ed ha la cresta, che comincia dal convento di S. Maria dei Bisognosi (1040 m.), lievemente inclinata fino alla vetta, da cui poi seguita per due chilometri in linea retta fino alla cima di Vallevona, che è di pochi metri superiore (1803 m.). Al di là scende subito la montagna perdendo ogni forma e confondendosi con vari monticelli di nessuna importanza. L’esser poco boscosa dà una certa allegria a questo monte, la cui ascensione può dirsi davvero una passeggiata, e infatti noi partimmo da Camerata Nuova (810 m.) (1) il 1° marzo 1891, alle 7,10 antimeridiane, e con tutta la neve, dura al punto da dover scavare parecchi gradini, alle 10,40 ci trovammo in cima. Eravamo in undici soci e forse alcuno di questi, leggendo queste mie note, ricorderà quanto fu divertente la salita, con la neve così buona, in una giornata veramente splendida, e con quanto entusiasmo fu salutato il panorama che è dei più belli. La cresta c’invitava a correre laggiù verso la Vallevona, ma vi rinunciammo per la ristrettezza delle ore. Tranne la pianura del Cavaliere non si vedevano da ogni parte [7] che monti coi loro pennacLumen 25 convento e tenere l’unica strada fatta da noi in discesa (4). SECONDA GIOGAIA 2) Questo nome è una vera ironia, giacché in questo eremo tutto si conosce, fuorché l'ospitalità. 3) Presso la stazione di Cavaliere nella borgata omonima si trova un'osteria dove c'è sempre qualche cosa da mangiare; avvisando prima si può avere anche un discreto desinare. 4) Per le note su Pereto vedi appresso nel capitolo Fontecellese e Midia. Sopra: carta degli itinerari 26 Lumen chi di neve sorgenti dalle valli nere e boscose. Non ci pareva di star sopra una cima; sembrava quella una tappa di una passeggiata che dovesse durare per giorni intieri attraverso quel mare inesauribile di boschi, di creste e di valli. Il Pellecchia, il Gennaro, il Guadagnolo, il Costasele, l’Autore vicinissimo, il Tarino, il Camiciola, il Midia, il Velino e tanti altri sembravano tutti legati e ravvicinati in un accordo perché la nostra marcia continuasse ancora, mentre altre cime indietro ad essi erano lì pronte a sbucar fuori appena fossimo saliti più in alto. Ma torniamo alla narrazione. Lasciammo la vetta alle 12¼ e scendemmo al convento di S. M. dei Bisognosi (2), dove eravamo alle 3 pom., dopo aver seguito un sentiero incertissimo che costeggia la cresta boscosa e dirupata sul fianco S-0. Qui la neve era appena terminata che cominciò il ghiaccio ad attirare le nostre maledizioni, rendendo quasi impraticabile la ripida mulattiera che scende a Pereto. Di qui ci recammo alla stazione di Cavaliere, per pranzare ed aspettare il treno, impiegando in tutto dal convento 2 ore e ¼ (3). Per la discesa dal convento si può prendere anche un’altra mulattiera che scende forse più direttamente a Cavaliere e che si ricongiunge con la nuova carrozzabile di Rocca di Botte; ma credo s’impieghi presso a poco lo stesso tempo. L’ascensione della Serra Secca si può effettuare anche da Pereto; converrà perciò salire al Monte Fontecellese (1626 m.) e monte Midia (1738 m.) Anche questa giogaia comincia sul Piano del Cavaliere e sulla valle Carseolana: la prima cima di qualche importanza è il Fontecellese che scende con la sua base su Pereto, Carsoli e Colli. Specialmente nel tratto di ferrovia, che precede la galleria di Monte Bove, il versante setten [8] trionale del Fontecellese appare imponente e selvaggio con i suoi faggeti, mentre il versante opposto, molto meno esteso, termina nel vallone Oppieto. Si potrà salire questo monte da Roccacerro e da Colli per il versante N; da Carsoli o Pereto per il versante S, perché ad ogni modo è utile prendere la mulattiera che mette in comunicazione Pereto con Roccacerro e che sale fino alla cresta presso il monte Faito, altra cima di questa giogaia. Il Midia, continuazione del Fontecellese, è una cima molto più importante ed è conosciuta da tutti i montanari dei paesi vicini perché dicono che vi si veda Roma; ha dei magnifici pascoli sopra i 1472 m. che rendono variata e comoda la salita. Il compianto Filippo Ugolini, l’11 novembre 1888, fece un’escursione a questi due monti smontando a Cavaliere e passando per Pereto da cui salì le due cime. Questo itinerario merita di essere riprodotto perché ci ricorda di quale resistenza egli fosse dotato e quanto fosse esatto nelle sue note: 11 novembre 1888 CAVALIERE-PERETO-FONTECELLESEMIDIA-PERETO-CAVALIERE Partenza da Roma (in ritardo) ore 7 a. Cavaliere 10,30 Pereto (per la campagna fino al primo ponte) 11,30 Partenza 11,45 Fontana Cellese 1,15 p. Vetta Fontecellese 1,30 Fonte Ammazzacani 2,10 Vetta Midia 3,30 Capanna o Campo Secco 4, 30 Partenza 5 Pereto 6 Partenza 6,30 Cavaliere 7,30 Partenza (in ritardo) 9,15 Roma 12,25 Itinerario possibile in due o tre persone. N. B. L’escursione riesce comodissima fatta in un giorno e mezzo. In un giorno con comodo si può fare l’escursione al solo monte Fontecellese che è interessante o al solo Midia dalla parte di Campo Secco. Il gruppo è bello e variato. Il panorama sui due monti molto esteso. Guida raccomandabile, Francesco Vendetta, ex-bersagliere, pratico dei monti, chiamati da esso e dai pastori con differenti nomi. L. 2,50 al giorno. Per mangiare o per dormire (a Pereto) in due o tre persone, da Michele Prassede, all’ingresso del paese (poco raccomandabile). Per molti, portare le provviste, e scrivere a F. Vendetta per l’alloggio in diverse case particolari ed i comodi per cucinare e mangiare. Senonché dovendo far la gita in un giorno da Roma non torna mai conto smontare al Cavaliere per la enorme distanza e si deve preferire la salita dalla parte di Colli e del Colle del Vento perché più breve. Volendo poi far la gita in un giorno e mezzo converrà sempre pernottare a Carsoli dove si starà molto meglio che a Pereto. La salita di monte Midia da Tagliacozzo riesce divertentissima e comoda tanto che noi l’effettuammo in mezza giornata. La mattina del 12 agosto 1891 Voltan ed io partivamo alle 5,45 e ci recavamo a Roccacerro, seguendo la tortuosa carrozzabile che gira sotto il paese per valicare il colle del Vento, antico passaggio della via Valeria. Giunti alle 7,15 facemmo colazione nella minuscola osteria di Felicita Bianconi, dove quattro versi, scritti come un epitaffio, avvertono di far prima i conti con la saccoccia, e sono: Per giuramento stabile / Di questa permanenza / Pubblico rispettabile / Giammai si fa credenza. Mi sarebbe piaciuto di veder giurare quella «permanenza» e m’immagino già quanto solenne dev’essere stato il momento fatale per gli scrocconi! Quest’osteria però, come l’alpinismo, ha finito il suo periodo eroico ed ora vive sugli allori. Oh! Davvero quelli erano i bei tempi, esclamava la vecchia ostessa, quando passavano di qui le vetture (5), prima che la ferrovia venisse a rovinarci! Tutti di qui dovean passare, non c’era scampo; e so io quanti signori ho fatto riscaldare a questo camino ! Procurammo di far capire alla vecchia come i portati della civiltà rechino sempre danno a qualcuno, e ripartimmo accompagnati dal signor Antonio Jacomini, che gentilmente si era offerto a farci da guida sul Midia (ore 8,25). Due mulattiere partono da Roccacerro e salgono ai pascoli, una a S del paese ed è quella che generalmente seguono i muli che portano la legna a Tagliacozzo; l’altra più a N, verso il Colle del Vento, preferibile per chi va a piedi. Ambedue queste strade si vedono benissimo dal paese. Però il nostro duce, che conosce palmo a palmo la sua montagna, ci fece salire per un sentiero invisibile per la piccola macchia che lo ricopre e che ci divertì assai esigendo una vera ginnastica di braccia e di gambe. Basti dire che questo ripidissimo sentiero da capre sale direttamente 300 m. di dislivello, onde in un momento fummo ai pascoli. Qui si vede il cocuzzolo tondeggiante e boscoso del Midia sporgere fuori da una serie di collinette, in gran parte ricoperte di macchia, e la strada diviene deliziosa al punto che ci sembra di camminare per una villa. Brevi praticelli offrono tappeti ricchissimi di folta erbetta sparsi di qualche ciottolone, subito smosso dal mio entomologo amico; poi sentieruoli graziosi attraverso fitti boschetti, dove il sole non penetra mai, e più su altissimi faggi che tappezzano le loro radici con uno spesso strato di foglie morte, le quali rendono meno sicuro il passo. Il sentiero ci conduce in cresta, ma si perde ed allora nel fittissimo bosco ci dirigiamo verso la cima che non è molto lontana; infatti gli alberi finiscono ed il cucuzzolo petroso apparisce con nostra soddisfazione pochi metri più su (ore 10,20). Non avremmo creduto mai che un panorama così completo si potesse ammirare da questa cima! Il nostro sguardo si volge impaziente ad O verso Roma, di cui vediamo la pianura aprirsi fra i Lucani, i Prenestini e i colli Albani; siamo però persuasi che in giornate molto limpide si possa vedere il caput mundi ed un bel tratto del Tirreno. Volgendo a N sullo sfondo appena visibile appariscono i Sabatini col lago di Bracciano, quindi il Soratte ed il Cimino. Il monte Navegna, il Terminillo e il gruppo dei monti di Tornimparte chiudono la visuale a N; quindi il Gran Sasso sbuca fuori alla sinistra del Velino che s’innalza vicinissimo nella sua imponenza. Oltre il lago di Fucino ad E, si vedono il Sirente, la dirupata Serra di Celano e la Maiella monotona nella sua forma di gran collina solcata da molti valloni: i monti di Castel di Sangro in una serie confusa di creste arrivano alla valle del Liri che mostra montagne lontanissime e poco riconoscibili; quindi sorge complicatissimo a S il gruppo dei Simbruini, fra cui riconosciamo benissimo l’Autore. Immagini il lettore tra quest’ampia cerchia che sta all’orizzonte e la nostra modesta cima tutto un mare burrascoso di creste, di profili dalle tinte sempre svariate ed avrà l’idea di quanto interesse e diletto offra un simile panorama, unico forse nel suo genere. La temperatura mite (17° C.) e l’ombra cortese del bosco ci avrebbero trattenuto lassù molte ore, ma alle 12,15 pom. dovemmo discendere percorrendo la stessa strada della salita in modo che alle 1,45 pom. fummo a Roccacerro e alle 3 a Tagliacozzo [...]». 5) Vettura, in Abruzzo, significa bestia da cavalcare o da soma. Lumen 27 Ristampa Le dispute sul confine da Oricola a Tufo di Carsoli (1837) Diverse volte ci siamo soffermati sulle dispute di confine tra lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli. Riprendiamo l’argomento traendo spunto da un memoriale1 edito nel 1837, che le riassume tutte per l’intera frontiera. da Redazione Riofreddo e Vallinfreda, nello Stato Pontificio. 1 Il memoriale è corredato da planimetrie che descrivono le singole controversie, ma non sono allegate al testo consultato, così nella ristampa abbiamo omesso i relativi riferimenti (n.d.r.). L a planimetria che stampiamo illustra le zone controverse; in alto sono indicate le corrispondenze tra le zone in discussione (quelle segnate con i numeri romani) e la relativa descrizione (in numeri arabi). «[26] Sopra: planimetria delle zone contese 28 Lumen CONTROVERSIA 16 Tra Oricola nel Regno (Provincia di Abruzzo Ultra 2.°, Distretto di Avezzano), e le comuni di I. Conforme a ciò che afferma Oricola, il confine comincia in Valle Orsina, percorre la schiena del monte chiamato letto della Foresta, passa tra [27] la macchia di Lantera e la strada di Rio Freddo a Vallinfredda, pel passo di Giovannaccio, pel trivio al passo di Riccione e va in linea retta ad incontrare il Fosso Sesara nella contrada detta le Pezze, dopo del quale punto segue sempre il Fosso Sesara. Pretendesi dalle comuni Pontificie che il confine, partendo dallo stesso punto di Valle Orsina, passi per Valle Intermorta, pel piano di Gioja, pel passo della strada Romana sopra Rio Torto, per Prato Longo, per l’alto della Macchia Sesara, per Colle Ronchetta, pel ciglio di Colle Sgaviglia, per l’alto del Colle che domina la Valle Petricca o Francalea: sulla pianta, oltre alle due linee di controversia, è altresì additata quella del possesso con puntini più leggieri. È questa una delle più intrigate controversie. Ciascuna delle due parti allega e ribatte a vicenda varii argomenti di antichi termini in sostegno del confine da entrambe preteso, come occorrendo potrà vedersi dalla Differenza tra la comunità di Vallinfredda Stato Pontificio, e l’università di Oricola nel Regno di Napoli. II. V’ha un contratto del 1738, col quale i Priori dell’università di Oricola, pel pagamento di 4o scudi annui, concedevano alla comunità di Riofreddo la facoltà di legnare nella macchia della Terra di Oricola. III. Con altro contratto del 1739 si convenne che i naturali di Vallinfreda potessero legnare nella selva di Sesara, pagando annui scudi 43 ad Oricola, il che prova 1’antico possesso che questa università ne aveva. IV. Da un estratto di perquisizione del catasto del 1721 si ritraggono i nomi de’ naturali di Riofreddo i quali possedevano beni nel territorio di Oricola. Altro estratto del catasto del 1748 addita i naturali medesimi, che possedevano beni in Oricola, cioè nei luoghi detti Riotorto, o colle Cacione, Piociariallo, Valle Orsina, Piano di Gioja. V’ha un altro estratto del catasto di Oricola de’ bonatenenti forestieri per l’anno 1748, il quale mostra essersi pagata ad Oricola la bonatenenza da quelli di Riofreddo, i quali possedevano beni in valle Orsina o Pennecari, Piano di Gioja, Prato Longo, Pisciarello. [28] V. Conservasi originale documento, da cui appare che quattro periti di Oricola in ottobre 1798 innanzi all’avvocato D. Giustino Picciolini, incaricato nel Real Nome della identificazione de’ confini del Regno collo Stato Pontifìcio, fecero la lor deposizione, dopo di aver minutamente osservato tutti i punti del confine medesimo additando quanto segue. Comincia la linea del confine nel punto dove termina il territorio di Rocca di Botte, cioè nella sommità del colle chiamato Serra Perticara o sia colle Campanile, che resta alla banda meridionale dell’antica diruta chiesa di S. Brizio, dove è una colonnetta dimostrante triplice confine tra Oricola e Rocca di Botte dalla parte del Regno ed Arsoli, Stato Pontificio. Indi la linea verso ponente discende il colle, va alla valle chiamata di Campanile, e da quella rettamente ad altro termine fisso sopra altra collina presso alla valle d’Oricola, dove trovasi altra colonnetta di termine tra questa terra ed Arsoli, continua per la contrada chiamata piano di Capitillo e per una valle in cui d’inverno escono delle fontanelle, ed ascende ad un monte di second’ordine, nella cui sommità trovasi altro termine fisso, e dove finisce il territorio di Arsoli e comincia quello di Rio Freddo, Stato Pontificio. Di là si dirige la linea a tramontana, chiamandosi quella contrada Valle Orsina, dov’è un terreno i cui possidenti pagano ad Oricola la bonatenenza; passa di poi per la contrada e per la valle dette entrambe di Pennicara, ed indi a quello del piano di Gioja, dove parimenti son delle terre i cui proprietarii pagano come sopra la bonatenenza a quella comunità. Scende la linea alla valle chiamata Prato Longo, lasciando a man destra il colle Cacione, e troncando la strada che dal Regno mena a Roma, dove si fa la consegna de’ rei de’ due dominii; e continuando trovansi altri terreni pei quali pagasi l’annua bonatenenza. Si va poi ad una valle dividente la macchia del barone di Riofreddo (appartenente allo Stato Pontificio) dalla selva Sesara pertinenza di Oricola, nella quale valle termina un fosso chiamato Riotorto, e si unisce al fiumicello di Sesara, che lungo il suo letto, parimenti diretto a tramontana, forma confine de’ due dominii fino alla contrada Le pezze, dove trovasi una colonnetta a due facce, e dove terminando il territorio di Riofreddo, co- mincia quello di Vallinfredda. Alla faccia della colonnetta risguardante l’Occidente è impressa la lettera V, cioè Vallinfredda, ed alla faccia volta ad oriente la lettera R, cioè Regno. Seguita il confine [29] lungo il corso tortuoso del detto fiume Sesara sino al territorio di Vallinfredda, dove comincia quella della terra detta Vivaro appartenente al dominio Pontificio, e dove terminando il territorio di Oricola, segue quello di Poggio Ginolfi. Si soggiunge che per la forza della terra di Vallinfredda era stata privata Oricola di una parte della macchia Sesara, da che dalla contrada Valle Ronchetta troncandosi il fiume Sesara, que’ di Vallinfredda con linea diretta a levante aveano invaso porzione della macchia medesima posta a tramontana, cioè di Valli e Coste della contrada Sgaviglia ed una parte della contrada di Petricca, e che anche quei di Vivaro aveano invaso le Valli e Colli seguenti insino ad una collina alquanto smacchiata presso alla contrada Casetta di Stronata, dove comincia la pertinenza di Poggio Ginolfi. Due de’ sopraddetti periti furono adoperati per la pianta insieme con altri per parte di Arsoli, Riofreddo e Vallinfredda. Ø OSSERVAZIONE Tra le addotte ragioni è più grave quella che giustifica per parte di Oricola il possesso de’ luoghi ne’ quali le due comuni Pontificie ottenevano a prezzo la facoltà di legnare; non che di quei luoghi pei quali esse pagavano ad Oricola la bonatenenza. CONTROVERSIA 17 Tra Poggio Ginolfi nel Regno (Provincia di Abruzzo Ultra 2.°, Distretto di Avezzano) e Coll’Alto, nello Stato Pontificio. I. Secondo Poggio Ginolfi, il confine dal termine detto Quadruccia sotto Colle Martino va verso ponente in linea retta al punto dove la strada di Poggio Ginolfi a Coll’Alto interseca il fosso de’Cesali e dell’Obaco presso la fontana Sopra: cippo n. 373, posto sulla sommità di Morrone Forte 1° tra Tufo di Carsoli e Ricetto. La zona è oggi nota come le Pezzelle. Il termine è spezzato vicino la base. La posizione attuale, anche se di poco, non è quella originaria; sotto: frontespizio del memoriale Lumen 29 Sopra: cippo n. 343 posto all’inizio delle Forme, all’interno del letto del torrente Sesera. È stato recentemente trasferito al museo di Villa Garibaldi a Riofreddo. 30 Lumen Liberarli che indi segue per la Valle ratta o sia della Morte, e per la diritta del fosso Liberni ossia dell’Acqua Viva, e giunto alla confluenza col fiume Torano, percorre la riva destra di questo fiume sino alla fontana a Notte o Annotte, detta altresì de’ quattro Vescovi. La comune di Coll’Alto pretende che la linea del confine della fontana de’quattro Vescovi debba passare per le creste di S. Angelo dette anche Serra, ed indi per le creste delle Civitelle, de’ Franconi, de’ Casali, dell’Obaco e de’ Cesali infino al termine a pie di Colle Martino. [30] II. Tra le carte trovasi una Differenza tra la comunità del Vivaro, Stato Pontificio, e l’università di Poggio Ginolfi del Regno di Napoli: carta che occorrendo potrà riscontrarsi. Solo qui sembra da osservarsi che in fine della detta carta trovasi notato che le terre comprese nelle contrade di Casali e li Franconi sono possedute da naturali della terra del Poggio. III. Dalla deposizione fatta in ottobre del 1798 innanzi all’avvocato D. Giustino Piccolini (incaricato nel Real Nome a raccorre lumi e documenti sulla confinazione del Regno) da tre periti recatisi sui luoghi, si ritrae quanto segue : La confinazione di Poggio Ginolfi comincia allorché terminar dovrebbe quello di Oricola alla sponda del fiume Sesara nella contrada che dicesi Cesa di Ciancone, e dove attacca il territorio del Vivaro appartenente allo Stato Ecclesiastico. Giusta il corso del mentovato fiume va la linea di confinazione verso tramontana fra i due dominii, cioè fra Poggio Ginolfi e il Vivaro, lasciando a man destra la detta contrada Cesa di Ciancone, una porzione della quale possedevasi dal Principe Borghese che pagava a Poggio Ginolfi l’annua bonatenenza, e l’altra porzione era giustamente tenuta da’ naturali del Vivaro per l’estensione di circa un quarto di miglio. Il fiume Sesara è parimenti linea di confinazione, e verso tramontana conduce presso alla selva di Poggio Ginolfi, la quale chiamasi Cerretina dagli alberi di cerri che la formano, e dove unendosi al fiumicello detto di Poggio, acquista il nome di Torano. Quindi torce debolmente a man sinistra, in un colla linea di confinazione, e porta alla fonte chiamata A notte, indi alla contrada, detta S. Angelo, dove confluisce col Rio d’Acquaviva. Ivi il confine, lasciando il Torano, si volge a levante restando linea di confine il menzionato rio Acquaviva. Porta poi alla contrada Valle Raina ed indi a quella dette li Franconi, al fonte chiamato Liberani, e seguitando lo stesso rio a formar confine lascia a destra (o sia al Regno) la contrada macchiosa e sativa detta li Casali, al cui piede possiede una porzione di selva il Barone di Coll’Alto che la tiene rivelata al catasto della università di Poggio Ginolfi, e dove trovasi un terreno di alcuni di Coll’Alto, i quali pagavano a Poggio Ginolfi annua bonatenenza, oltre i terreni posseduti da tempo immemorabile da’ naturali di Poggio Ginolfi. Continuando la linea retta dal detto rio si arriva ad un monticello detto Colle delle Forche ossia Colle della Colonnella, [31] ed ascendendo direttamente alla sua sommità si giugne ad una colonnetta, la quale forma triplice confine poiché in quel punto terminando il territorio di Poggio Ginolfi comincia quella di Carsoli per il Regno, e continua l’altro di Coll’Alto per lo Stato Pontificio. Quest’ultima direzione è la più naturale, la più giusta e la più incontrastabile, quantunque senz’alcuna ragione i naturali di Coll’Alto pretendessero di occupare una parte della mentovata contrada, facendo un circolo irregolare, contrario al buon senso, voltando la linea a mezzo giorno e poi curvandola a levante sino alla predetta colonnetta. In pie’ della deposizione mentovata trovasi notato che nel formarsi la pianta, oltre gl’indicatori per Poggio Ginolfi, ne furono altresì adoperati degli altri per Vivaro e Petescia. IV. Il signor Piccolini, con una lettera, che non appare a chi sia diretta, data da Rocca di Botte in ottobre del 1793, diceva d’aver i Cameratani commesso attentato sui Cesali incontrastabili di quel paese, coll’approvazione di D. Alessandro Ricci geografo Pontificio; e se in effetti si fossero fatte innovazioni, sarebbero queste state inutili, perocché i paesani avrebbero sostenuto colla forza il loro antichissimo dominio e possesso. E soggiugneva esser suo parere che fossero le cose rimaste nello stato attuale. V. Potranno riscontrarsi occorrendo le copie che si conservano: 1.° di un estratto del catasto originale del 1698 della comune Pontificia di Vivaro; 2.° di un estratto del catasto anche del 1698 della comune medesima riguardante alcuni pezzi di terreno; 3. di una fede d’intestazione di alcuni fondi, estratta dall’onciario del 1744. OSSERVAZIONE V’ha principalmente in favore di Poggio Ginolfi la deposizione fatta nel 1798 da tre periti. E dalla citata lettera del signor Piccolini vedesi il suo parere di far rimanere le cose nello stato attuale. [32] CONTROVERSIA 18 Tra Carsoli nel Regno (Provincia di Abruzzo Ultra 2.°, Distretto di Avezzano) e la comunità di Nespolo nello Stato Pontificio. I. Riconosce Carsoli per suo confine la linea che passa pe’ seguenti punti: Colle delle forche strada de’ Caprili sino al trivio colla strada delle Fontanelle, continuando per la strada del Colle della Guardia fino alla quercia della Corona, sicché la contrada Caprili e Via Rosa sieno interamente comprese nel tenimento di Carsoli Nespolo pretende che i fossi Perorese de’ Caprili e di Via Rosa sieno confine dividente il territorio delle due comuni. La lettera A addita il confine preteso da Nespolo, ed il B segna l’altro che pretende Carsoli.2 II. La deposizione fatta innanzi all’incaricato della identificazione de’ confini del Regno, avvocato D. Giustino Piccolini, da due periti in ottobre del 1793, sulla confinazione della detta università, offre quanto segue. La linea del confine comincia dalla parte dello Stato Pontificio, dove termina il territorio di Poggio Ginolfi, nel colle detto delle Forche o sia della Colonnella, dove trovasi una colonnetta di figura sferica, alta circa un palmo e mezzo, presso una strada a levante. Seguitando il confine sulla screma de’monti e come acqua pende, resta la parte meridionale per Carsoli e la parte a tramontana per Coll’Alto, e proseguendo la strada, benché con piccole tortuosità, entrando nel dominio ora dell’uno ora dell’ altro, giunge la linea ad un capocroce nella contrada, detta Pantano, verso levante per la screma de’ monti arriva ad alcuni strati di tufo, dove trovansi intagliate varie Croci, e dove appunto terminando il territorio di Coll’ Alto comincia quello del Nespolo. Continuando la linea verso levante colla strada e la screma de’ monti, conduce ad un trivio, e scende per una strada che porta al Nespolo, ed il cui principio conduce alla contrada già detta le Scalelle. Di là volgendosi la linea a levante, su la stessa screma de’ monti per la strada medesima trovasi il territorio della terra del Tufo appartenente al Regno. Ma per temporanee invasioni de’ naturali della terra del Nespolo, i quali han profittato del suolo boscoso, la linea si rivolge ora a mezzogiorno per circa mezzo miglio, e meno per [33] valli e colli ad una colonnetta di pietra sferica presso una strada nella contrada detta le Navicchie o sia Colaguardia. Nella detta colonnetta trovansi dalla parte di levante le lettere N.P. O., cioè Nespolo, e dalla parte di tramontana e ponente CELLE, cioè Carsoli che da circa due secoli, lasciato il primo nome, chiamasi col secondo. Per antica tradizione si sa essersi levata la detta colonnetta dall’antico suo sito, e messa clandestinamente dove or si trova, il che vien confermato altresì dal troncamento della linea naturale, e dall’osservarsi che terminando in quel sito il territorio di Carsoli, cominciando quello del Tufo, la linea di confine di quel territorio rivolgesi immediatamente a tramontana, tornando alla screma de’ monti ed alla strada sopraddetta, dove poi si dirige altra volta a levante. E per altra pruova si aggiugne che trovandosi un fonte nella Valle di Pantano, pretesa da Nespolo, paga alla cappella del SS. Sagramento di Villa Sabinese, figlia di questa università per donativo fattole da Carsoli, annui giulii venti per abbeverare i loro armenti nel detto fonte. III. V’ha una memoria la quale contiene alcune notizie storiche, che occorrendo potranno riscontrarsi. IV. Son comprese nel citato volume XVIII alcune deposizioni di testimoni fatte nel 1722, una descrizione di confine distesa da due indicatori nel 1795, ed un estratto di perquisizione del catasto generale; le quali carte tutte risguardando la comune del Tufo, se ne farà menzione nella controversia seguente che tratta appunto del confine di questo comune con Nespolo e Ricetto. V. Con una lettera, che appare scritta da Pescina nel 1790 da Gianfrancesco Cambise al signor D. Giustino Piccolini, dicesi mandarsi a costui una copia della bolla di Pasquale II, estratta dall’archivio del Capitolo. Ma questa copia non si è rinvenuta nelle carte. VI. V’ha un estragiudiziale informo per le rappresaglie commesse in settembre del 1795 2 Vedi nota 1. Sopra: cippo n. 341 collocato lungo la strada del Travetto, tra Oricola e Riofreddo. Lumen 31 da un soldato della Regia dogana di posto in Carsoli, a danno di alcuni naturali di Coll’Alto e Nespolo. Si riconobbe che l’uno de’ due poderi, dove furono trovate pascolando le capre rappresagliate era propriamente nella contrada detta le Cese, e trovavasi a circa dieci canne sotto la strada, ed a circa tredici sotto la cima o sia screma di monte dalla parte di mezzogiorno del Regno; la quale scre[34] ma forma confine di Coll’Alto nello Stato Pontificio e Carsoli, e restò assodato esser quel sito spettante alla giurisdizione di Carsoli nel Regno. Si chiarì in oltre che l’altro luogo dove erano stati rappresagliati i bovi nella contrada detta Colaguardia era presso all’altra contrada detta Casavino, distante dal fosso delli Caprini, e sopra di esso circa dieci canne, e circa altre dieci canne distante da una valletta a ponente che attacca alla detta contrada Casavina. La qual valletta, che cala da tramontana a mezzogiorno, e il detto fosso che porta da ponente a levante eran confine di Carsoli e Nespolo. Sicché si riconobbe che i bovi erano stati rappresagliati in territorio di attual possesso dello Stato Pontificio, benché compreso nella linea pretesa da Carsoli. Vennero di poi restituiti i detti animali rappresagliati. OSSERVAZIONE La deposizione fatta dai due periti sulla confinazione nel 1798 contiene delle rilevanti notizie, e fa conoscere quanto sia salutare il provvedere in modo alla indicazione de’ confini da non darsi luogo alla frode ed all’inganno. CONTROVERSIA 19 Sopra: cippo n. 346 in località Calcarone, tra Vivaro Romano e Poggio Cinolfo di Carsoli, lungo il fosso Sesera, versante laziale. 32 Lumen Tra Tufo nel Regno (Provincia di Abruzzo Ultra 2.°, Distretto di Avezzano) e le comuni di Nespolo e Ricetto nello Stato Pontificio. I. Secondo la comune di Tufo, comincia il confine al termine detto Perorese, e con linea tortuosa passa pel bivio formato dalla strada delle Fontanelle con quella di Nespolo a Carsoli, seguendo poi questa strada perviene alla fontana della Selva, indi ad un altro bivio che da Nespolo conduce a Carsoli ed a Caprini, dipoi alla cima del colle del Castello, dopo di aver lasciato la strada al bivio, ch’è appiè del suddetto colle verso sud; dal colle del Castello, giunto alla fontana del Castello, si rivolge all’est sino al confluente di due fossi, detto Confurco, va per lo scrimone detto Proncolese o Proncolette, e giunto al Pero Porcino passa pei seguenti punti: Peschio delle femmine, Morrone, Monte Senile, Ara de’ Pizzoli, e dopo un assai tortuoso corso arriva alla sommità di Coll’Alto. [35] I Pontificii pretendono che il confine sia quello che comincia dal Perorese sino alla quercia ch’è presso al bivio della strada, dove si affiggono gli editti di Carsoli, dirigendosi sulla via a Capo i Valloni di Pietra morta dov’è un termine di quattro facce, indi alla sommità del colle dei Valloni, al fosso di Vallicupi, al confluente del detto fosso col grande fosso de’ Valloni, dove trovasi un altro termine, dopo di che segue la sinistra di quest’ultima sino al fosso Donato, percorre il Vallone, perviene all’alto di Colle Stallino dove sono due sassi di pietra viva attaccati insieme, e girando segue le schiene dei colli, e per l’Ara Portilepre perviene al Coll’Alto. II. Oltre alle dette differenze si ritraggono da altre carte le seguenti. Per parte del Tufo si ammette il termine a lato della strada del Colle della guardia ossia da Nespolo a Carsoli, a forma di colonnetta di pietra bianca, alto once 11, e di un palmo di diametro con lettere incise dalla parte della strada che va a Carsoli, o sia tra mezzogiorno e libeccio, CELLE cioè Carsoli, e dalla parte opposta cioè fra tramontana e greco NPO cioè Nespolo, come si è detto nella precedente controversia; ma si afferma essere stato messo clandestinamente nel luogo dove trovasi, essendo anticamente situato nello scrimone detto Proncolese. Nespolo e Ricetto adducono altro termine a capo di Valloni di Pietramorta, a quattro facce, dove erano alcune lettere cancellate. Ma il Tufo dice esser termine dividente il proprio territorio da quello di Carsoli. Altri termini dicesi da Nespolo e Ricetto trovarsi sopra lo scrimone del colle de’ Valloni, presso il fosso di Valle Cupi, colle lettere TO verso greco e G dalla parte opposta. Ma per parte di Tufo si afferma, come sopra, che dividano quel comune da Carsoli. Similmente dal Tufo e da S. Lucia si afferma che i due sassi posti sul colle Stallino sien termine del rispettivo confine, negandosi che ivi giunga il territorio di Ricetto. L’ultima sommità del monte Coll’Alto è il triplice confine tra il Tufo, S. Lucia e Ricetto, il che negasi da quest’ultimo comune. Le altre differenze sopra i nomi de’ luoghi ecc. potranno, occorrendo, riscontrarsi nelle mentovate carte. [36] III. Conservasi copia di uno strumento del 30 aprile 1728 col quale per togliersi tutte le discordie tra le confinanti comuni di Ricetto e Tufo venne stipulato che rimanesse in pieno vigore la sentenza emessa fin dall’anno 1579 da due arbitri e giudici appositamente destinati, i quali dopo aver bene esaminata la causa, additarono minutamente tutt’ i luoghi che dividevano Nespolo dal Tufo, che sono trascritti nel detto strumento. Ed i priori di Ricetto e del Tufo, in nome delle comuni rispettive, dichiarando di osservare inviolabilmente quell’antica sentenza, convennero che i primi consegnavano agli altri la somma di ducati trentacinque per le bonetenenze decorse e non pagate, obbligandosi di pagarle in avvenire, pe’ beni posseduti nel territorio del Tufo. E perché i naturali di Ricetto pel passato avean fatto pascolare gli animali in qualche luogo appartenente al Tufo, si convenne che per l’avvenire avrebbero potuto parimente ciò fare, ma pe’ loro bestiami soltanto e non pe’ forestieri, e fino a tutta la contrada detta la Valle Rocca; in ricompensa di che i massari di Ricetto obbligavansi di pagare ogni anno in beneficio della venerabile compagnia del SS. Sacramento del Tufo paoli dieci romani. III. Nel precedente volume XVIII trovansi, come di sopra abbiam detto trattando della controversia precedente, alcune carte risguardanti il confine del Tufo con Nespolo e Ricetto, di che si fa parola qui appresso. V. Dalla deposizione di alcuni periti, fatta nel 1722 innanzi al Regio uditore D. Carlo Vincenti, sopra i luoghi detti Monte e Liprati delle Pozzelle appartenenti al Tufo, si ritrae che il detto luogo del Monte è un tratto di paese che finisce nella sommità di esso chiamata Coll’Alto, per la quale sommità secondo che si cammina per linea retta Serra Serra dalla parte della pendenza delle acque verso le Pozzelle, è territorio del Regno e della terra del Tufo, e secondo acqua pende verso la terra di Ricetto è territorio dello Stato Pontificio. Il luogo poi detto li Prati delle Pozzelle è distante per linea retta dallo Stato Ecclesiastico circa un terzo di miglio. VI. V’ha altresì la copia d’uno strumento di settembre del 1579, col quale furono parimenti stabiliti i confini de’ territorii di Nespolo e Tufo. VII. Dalla indicazione del confine della terra del Tufo con Nespolo e Ricetto, fatta in luglio del 1765 da due indicatori d’or [37] dine, del Regio geografo D. Giovan Antonio Rizzi Zannone, specialmente da S. M. incaricati della descrizione generale del confine degli Abruzzi collo Stato Pontificio, si ritrae: Che il territorio di Tufo comincia nel vallone detto delli Pratali, estendendosi il confine ai luoghi detti fonte della Selva, al Bivio dove comincia 1’altra strada che mena a Caprili ed al Poggio; indi la strada che conduce al Tufo; di poi al luogo detto Colle del Castello, alla fonte del Castello, alla profondità della Confurca al luogo detto Pero porcino, al Peschio delle femmine appartenente al Tufo, al luogo detto de’ Mozzoni alla macerie dell’Uomo morto, la cui Serra a sinistra appartiene a Nespolo, a diritta al Tufo; poscia al colle chiamato Monte ienile o fenile, al Pozzo detto de’ Zingari, alla Forcella pizzola ossia Aja de’ pizzoli, al colle Coll’Alto, al Tufo nel cui territorio resta inclusa l’aja detta Partilepre, e finalmente alla selva di Giove rotondo, dove finisce il territorio di Tufo e comincia quello del fondo rustico chiamato col detto nome di Giove rotondo sotto la villa di S. Lucia, appartenente all’università di Rocca Verruti. Notansi in fine di questa descrizione gl’indicatori in pianta che vi furono anche per parte di Nespolo e di Ricetto. VIII. Si conserva altresì in favore del Tufo un estratto di perquisizione di catasto generale della detta università, da cui appare esser comprese nel tenimento della medesima università le contrade Fonte della selva, Pietromastri, Cesafura, Colle del castello, Confurca, Proncoletta, Fossa di S. Maria, Valarocca, Pozzo de’ zingari, Peschio delle femmine, Monte senile o ienile, Puzzelle, Morroni, Monte pilozzo, Forcella di pizzoli o sia Aja de’ pizzoli, Costa porcina, colle Coll’Alto e Partilepre. E che pagavasi alla università del Tufo la bonatenenza da coloro che possedevano terreni presso ai confini colla terra di Nespolo e Ricetto, o nelle contrade sopraindicate. OSSERVAZIONE Anche per questa controversia vi sono molte ragioni e documenti in favore della confinazione che pretende la comune del Tufo [...]» Sopra: cippo n. 377, oggi sulla sinistra dell’ingresso della chiesa parrocchiale di Santa Lucia di Giove Rotondo, frazione di Pescorocchiano (RI) Lumen 33 Ristampa I primi giorni di guerra. Lettere di combattenti nella Prima Guerra Mondiale Le lettere che i militari sublacensi inviarono alle famiglie nelle prime settimane di guerra furono pubblicate nel periodico Il Sacro Speco di San Benedetto,sino al 1915. I racconti sono quelli di tutti i soldati, che messi di fronte all’orrore della guerra, invocano a soccorso i santi e la buona sorte. da Redazione 1 I nomi delle località sono sostituiti da puntini di sospensione. Non si evince in alcun modo se questo avviene per iniziativa dei curatori del periodico o di una censura militare. 2 Per questa lettera e per le seguenti cfr. Il Sacro Speco di San Benedetto, 1915, fasc. giugno, pp. 124-126. L a presenza di alcune lettere nel periodico dei monaci benedettini di Subiaco mostra che il controllo dei mezzi d’informazione da parte della censura militare richiese tempo prima di essere pienamente operativo, infatti la pubblicazione fu interrotta nel mese di dicembre 1915. Questo è un esempio di come notizie scomode si possono rintracciare in pubblicazioni a carattere locale. È probabile che gli scritti vennero ritoccati, almeno nella forma, dai redattori e in alcuni casi sembra di scorgere una tendenza alla censura o all’autocensura1, che investe i nomi delle località dove si svolgevano i combattimenti. ù «2 Giugno 19152 Cara Madre. Vengo a darti mie notizie, ma non ti allarmare. Provo gran dispiacere a dirti che sono stato ferito al campo Austriaco. Sono stato colpito il giorno 28 verso le 5 e mezza di sera sopra il cuore ma non sono aggravato, state tranquilli che per me è stata una grazia, giacché col nostro reggimento del 42° siamo stati i primi a fare delle avanzate. Non mi dilungo, solo vi chiedo di ringraziare il nostro S. Benedetto e S. Antonio che mi hanno salvato per ora e che mi salvino alla fine di questa gran guerra. State tranquilli e pregate che il Signore ci liberi da ogni impedimento. Io sono rassegnato e sempre mi faccio coraggio. Cara Madre. Ti dirò che qui siamo in ottime condizioni e ringraziamo il Signore e S. Benedetto che al mio valoroso battaglione ancora non ci sono toccate perdite. Stando in vedetta viddi correre verso di noi cinque soldati Austriaci e appena li viddi gridai all’arme! e tutti del battaglione ci mettemmo in guardia, e quelli alzando i fazzoletti bianchi gridavano non sparate non sparate, siamo vostri fratelli evviva evviva, e noi allora lasciate le armi, e quelli alzando le braccia venivano verso di noi. Siamo andati loro incontro si buttarono a terra dicendo; abbiamo fame, si sono arresi e 34 Lumen li abbiamo accompagnati al comando. Pregate S. Benedetto, accendete una candela al S. Speco che il Santo Patrono mi è apparso in sogno, e sembravami che fossi andato al S. Speco a visitarlo a piedi scalzi. Montenero 19.6.1915 Cara madre, non vi prendete pena del mio tardare a scrivervi, su questi monti non si ha la comodità della carta, ieri per combinazione ebbi un foglietto di carta e una busta e ti scrivo subito. Io sto bene, però non mi da coraggio di raccontarvi quello che abbiamo passato, l’abbiamo proprio passata brutta, quando ritornerò racconterò tutto, siamo stati tre giorni proprio male e in pericolo. Raccomandatemi a S. Benedetto che spero di venirlo a ringraziare delle grazie che ho ricevuto. Accendete il lume innanzi all’immagine di S. Benedetto che sta in casa, e nel giorno del mio onomastico porterete una candela al mio Santo. Cara Madre. Vengo ad avvertirti che non mi scrivi più finché non ricevi un’altra mia; non ti curare di sapere il perché. Spedisco un vaglia di L. 15 che sarà così ripartito: L. 2 per una messa al Patrono S. Benedetto che mi liberi da ogni pericolo e che io sia sempre in grazia di Dio, tanto io come tutti i combattenti; L. 1.50 a beneficio dei carcerati della SS. Vergine di Pompei che preghino la Madonna come sopra; L. 1.50 a S. Antonio pel pane dei poveri e L. 10 restano ..... Questi denari li mando non avendo dove sciuparli. Adesso noi andiamo un po’ indietro per riposare per un po’ di tempo, e voi sempre raccomandatemi a S. Benedetto. 20 Giugno 1915 Cara madre. Ti faccio sapere che il giorno 15 e 16 abbiamo fatto un’avanzata di dieci chilometri per dare l’assalto ad un forte e siamo rimasti per molto tempo sotto al fuoco dei cannoni, dovevamo essere tutti morti invece per grazia di Dio e di S. Benedetto siamo rimasti sani: ora aspettiamo i grossi cannoni per poter ridurre al silenzio i forti nemici e per potere avanzare con più forza. Sono rimasti feriti R. e S. ma è roba da niente; questa guerra non è come quella della Libia, ma speriamo che S. Benedetto ci aiuti sempre fino alla pace per ritornare sani e liberi alle nostre case. 22 Giugno 1915 In questa parte dove ci troviamo noi è molto fortificata non solo di cannoni, ma ci sono anche delle mine. Mi sono trovato per la prima volta sotto il fuoco, per me è stato il battesimo; ho fatto voto a S. Benedetto che mi ha salvato, e nel combattimento per essere più libero ho buttato lo zaino; mandami la biancheria necessaria ma greve che qui fa freddo, e sono stato tre notti allo scoperto e quasi senza dormire, e nel pacco ci metti un po’ di ciambelle e di cioccolata e anche un po’ di sicarette. Raccomandami spesso a S. Benedetto, come prego io pure, e anche a S. Antonio. Cara madre, fatti coraggio, e non credere ai giornali ma solo quello che ti mando a dire io. Il giorno del mio onomastico sono stato di guardia in mezzo ad un bosco e mi è caduta tanta di quella neve sopra. Ho anche ricevuto le polveri delle rose di S. Benedetto; e se voi che io sia salvo devi fare la santa comunione al S. Speco, e quando non ricevi notizie non ti impressionare, perché allora non posso scrivere, e non puoi sapere come mi trovo in queste montagne. 5 Luglio3 Cara madre, ... Vi prego di raccomandarmi a S. Benedetto che mi dia forza e salute e che mi scampi da ogni pericolo, perché come si ammette è difficile restar sempre salvi ... il giorno… abbiamo fatto un’avanzata e vi è stata la grazia di S. Benedetto solo che ci ha salvato. Pregate che un giorno ci possiamo rivedere. 19 Luglio. Cara mamma, ... mi trovo all’ospedale di... sono stato ferito leggermente, non vi prendete timore perché è cosa da niente, fammi però il piacere di far dire una messa a S. Benedetto che mi ha salvato la vita. 12.7.915. Carissimi Genitori, … vi avverto di non pensare male se in appresso tarderò a scrivervi, ci troviamo tanto impicciati, sono giorni che avanziamo, ma molto adagio … ora ci troviamo a 50 metri dal famoso … che non si può trovar la maniera di occuparlo perché è tutta una gran massa di pietra … oggi si tenterà un gran colpo … speriamo di poter riuscire, speriamo che non succeda niente e S. Benedetto mi scampi, a Lui ho affidata la mia vita, e spero anzi son certo che non mi abbandonerà, come lo prova il fatto che vi dico. L’altro giorno mentre si avanzava m’ero seduto sotto un grosso abete per ripararmi dai colpi che mi fischiavano da tutti i lati. Ad un certo punto sento che scoppia una granata sopra di me, io senza perder tempo faccio atto di alzarmi per esser più riparato, non mi ero sollevato che pochi centimetri che a un tratto mi sento fischiare all’orecchio destro, era una scheggia della granata che mi voleva colpire e fu veramente un miracolo, perché se m’era alzato ancora un centimetro ero fritto. Ecco dunque che S. Benedetto non mi abbandona, speriamo che sia sempre così. 3 Per questo gruppo di lettere cfr. idem, fasc. agosto 1915, pp. 148-149. 4 Per questa lettera cfr. idem, fasc. ottobre 1915, pp. 197-198. Un nostro Fratello converso richiamato alle armi e che presentemente si trova nei campi di battaglia così scrive4. Il giorno otto Agosto fu il più brutto della mia vita. Era verso l’una pomeridiana quando cominciò il bombardamento di questo piccolo paesetto … abitato soltanto da noi addetti al corpo di Sanità. Il nemico che intendeva cacciarci, cominciò a far piovere una vera grandine di proiettili insieme a granate. Nel mentre che anche noi seguendo l’esempio degli altri, volevamo fuggire, una granata scoppiò dietro la casa ove stavamo, uccidendo un tenente d’Artiglieria. Lo scoglio di riparo era distante, pericoloso attraversare tanto terreno scoperto sicché ci rassegnammo a stare in otto al pianterreno di quella casa! Una granata scoppiò sul tetto fracassando ogni cosa; poco più sotto che fosse scoppiata eravamo finiti; un’altra ne scoppiò così vicina da gettar giù un angolo della casa con qual raccapriccio nostro l’immagini Lei; un momento dopo alla distanza di quattro o cinque metri si vide un lampo tale da restarne abbacinati e lo scoppio tremendo sentito a poca distanza ci assordì per un buon tratto di tempo; l’effetto fu una grandine di sassi, pallottole, scheggie, tavole, fili elettrici; sembrava la fine del mondo: cosa da non potersi immaginare se non da chi l’ha veduta e intesa. Nessuno di noi poteva aprir bocca tanto l’avevamo asciutta asciutta e riarsa. Per buona fortuna quella mattina mi ero confessato e avevo ascoltato la S. Messa e mi teneva più che mai cara la medaglia di S. Benedetto ch’ella mi mandò. S. Benedetto io invocava in quei terribili momenti e fu grazia sua se in quel pianterreno non arrivò nemmeno una scheggia e il mio piccolo bagaglio non fu toccato mentre il resto della casa e ogni cosa che trovavasi in essa veniva crivellato letteralmente da proiettili d’ogni sorta. Ringrazio tutti, S. Benedetto e il mio protettore S. Pietro di tanto bene a me concesso e li preghino acciocché in avvenire si degnino conservarmi e proteggermi nello stesso modo». Lumen 35 Ristampa Le rovine di Carsioli a fine Settecento Mercoledì 18 maggio 1791 Richard Colt Hoare transita per Carsoli e si dirige verso Roma. Giunto all’osteria del Cavaliere, va a visitare le rovine di Carsioli. da Richard Colt Hoare L Sopra: frontespizio dell’opera Traduzione: don Fulvio Amici 36 Lumen ’opera a fianco citata (pubblicata solo nel 1819) è utile per stralciare il brano relativo ai luoghi a noi vicini. L’autore, dopo aver visitato il lago Fucino, si avvia verso Roma e, superata Rocca di Cerro ...: «[378] [...] Lentamente ridiscesi al piccolo villaggio di Colli vicino al quale notai alcuni ben conservati resti della via Valeria, composti di pietre piuttosto grandi, così pure i segni di taglio nella roccia, che era stata asportata per dare passaggio alla strada. Il mio passo qui fu richiesto, in virtù dei privilegi baronali, o piuttosto per estorsione. Di qui io continuai a scendere, affianco al fiume, verso Carsoli, un centro insignificante, costruita sul fianco di una collina, sovrastante il fiume, e sormontata da un castello in rovina. Una lettera di raccomandazione per il canonico, don Bernardo Marj, mi procurò un confortevole alloggio, e una accoglienza cordiale. Mercoledì, 18 maggio. Il primo oggetto che attrasse la mia attenzione, lasciando Carsoli, fu un vecchio miliario, vicino la chiesa del Carmine. Esso fu riprodotto da Fabretti, quando era in condizioni più [379] integre; ma al presente io potei solo riconoscere una singola lettera e due cifre. Esso commemorava la risistemazione della via Valeria per opera dell’imperatore Nerva, ed era numerato XXXXI. […] [383] Essendomi così sforzato, con osservazione personale e l’informazione raccolta da differenti scrittori, di accertare il sito reale delle varie stazioni sulla Via Valeria, procederò a descrivere il mio viaggio lungo la linea del suo corso. La piana di Carsoli è estesa, verdeggiante e ben coltivata, ravvivata da numerosi villaggi, sparsi sulle alture dalle quali è circondata. Mi distaccai dalla via principale prendendo verso destra, allo scopo di esaminare le rovine dell’antica Carsoli; il sito di essa è ora ricoperto da vigne. Ebbi modo di osservare, tuttavia, una parte delle mura, costruite con pesanti blocchi di pietra; così pure un tratto della Via Romana, la pavimentazione della quale mantiene ancora le tracce delle ruote dei carri. Notai anche alcuni «[378] [...] I slowly descended to the small village of Colle, near whici I noticed some fine remains of the Via Valeria, composed of massive stones, as well as the marks of tools in the rock, which was cut away to give passage to the rod. My passo was here demanded, in virtue of the baronial privileges, or rather extortions. From hence I continued descending, by the side of the river, to Carsoli, an inconsiderable town, built on the declivity of a hill, overhanging the river, and surmounted by a ruined castle. A letter of recommendation to the Canonico, Don Bernardo Marj, procured me a comfortable lodging, and a cordial reception. Wednesday, May 18. The first object which attracted my attention, on leaving Carsoli, was an old milliary, near the church of the Carmine. It was copied by Fabretti, when in a more perfect [379] state; but at present I could only discover a single letter and two ciphers. It commemorated the reparation of the Via Valeria by the Emperor Nerva, and was numbered XXXXI. […] [383] […] Having thus endeavoured, by personal observation, and the information collected from dìfferent writers, to ascertain the local situation of the various stations on the Via Valeria, I shall proceed to describe my journey along the line of its course. The plain of Carsoli is extensive, verdant, and well cultivated, and enlivened by numerous villages, scattered on the eminences with which it is surrounded. I diverged from the main road towards the right, in order to examine the ruins of the ancient Carsoli; the site of which is now overspread with vineyards. I noticed, however, a part of the walls, built of hage blocks of stone; and a portion of the Roman Way, the pavement of which still retains the traces of carriage wheels. I saw also some fragments of aqueducts, and the relics of a coarse tessellated pavement. I regretted the injury done to a fine pedestal, in one of the vineyards. It was ornamented with a basso relievo, representing a sacrifice, con- frammenti di acquedotti e quanto rimaneva di una grossolana pavimentazione a tasselli. Mi rammaricai per il danno fatto ad un bel piedistallo, in una delle vigne. Era adorno di bassorilievo, rappresentate un sacrificio, raffigurante tre personaggi e una vittima davanti l’altare. Nel lato opposto un ramo di ulivo; nei due fianchi vi erano una patera e un vaso, o una coppa, con un maiale scolpito al disotto. Conteneva una scritta, le cui lettere erano finemente incise ma ormai ridotte a SACR; cosicché non rimane alcuna indicazione [384] a quale divinità questo altare era all’origine dedicato. Raggiunsi di nuovo la grande strada, alla Osteria del Cavaliere, dove trovai un piedistallo, che mostrava questa iscrizione, ancora in buone condizioni: M × METILIO × SUCCESSO × M × METILL × REPENTINI × PATRONI × COLONIAE × FILIO × PATRONO × ORDINIS × AUGUSTALIUM × MARTINOR× COLLEGIUM × DENDROPHORUM × CARSIOLANORUM × PATRONO OB MERITA EIUS L × D × D × D× Si tratta di un memoriale di gratitudine da parte del Collegio o Compagnia dei Dendrophori, a Carsoli, nei confronti di Metilio Successus, ecc. per la sua opera meritoria. Uno dei titoli dato a questo personaggio, esattamente, PATRONUS . ORDINIS . AUGUSTALIUM . MARTINORUM è inusuale e sconosciuto ad ognuno dei miei libri di riferimento ma l’erudito e infaticabile Muratori ha dato, io penso, una spiegazione razionale della parola MARTINORUM, che lui legge MARTIANORUM. "Nam uti Sodales Augustales, Flaviales, Claudiales, Antoniani, ecc. ecc. ita in honorem Martianae Augustae, sororis Trajani, instituti fuere Sodales Augustales Martiani. P. DXV. 2”. Un po’ oltre l’Osteria del Cavaliere e [385] quasi di fronte alla chiesa di S. Giorgio, una via si diparte sulla destra in direzione di Arsoli e di Subiaco. Qui c’era anche il diverticulum della Via Valeria realizzato dall’Imperatore Nerone; e su questa strada, o nelle vicinanze, c’erano le sorgenti delle Aquae Claudiae e Marciae, che erano convogliate tramite acquedotti alla città imperiale. Subito dopo raggiunsi Rio Freddo, un paese posto un po’ più in alto, dove le montagne ravvicinate formano uno stretto passo e la strada serpeggia lungo i declivi di una profonda valle più in basso. A questo punto, che costituisce il confine dei territori Napoletani e pontifici, è eretta una casa doganale; io però non ebbi a sperimentare né il fastidio né la cupidigia che sono soliti in tali posti». sisting of three figures, and a victim before the altar. On the reverse was an olive branch; and on the two other sides were a patera and a vase, or beaker, with a swine sculptured beneath. It had borne an inscription, the letters of which were finely engraven, but now reduced to SACR.; so that no indication [384] remain to what deity this altar was originally dedicated. I rejoined the great road, at the Osteria del Cavaliere, where I found a pedestal, bearing this inscription, in good preservation; M × METILIO × SVCCESSO × M × METILL × REPENTINI × PATRONI × COLONIAE × FILIO × PATRONO × ORDINIS × AVGVSTALIVM × MARTINOR × COLLEGIVM × DENDROPHORVM × CARSIOLANORVM × PATRONO OB × MERITA × EIVS L × D × D × D× This is a memorial of gratitude from the College or Company of Dendrophori, at Carseoli, to Metilius Successus, etc. for his meritorious conduct. One of the titles given to this personage, namely, PATRONVS, ORDINIS × AVGVSTALlVM , MARTINORVM is unusual, and not noticed in any of my books of reference; but the learned and indefatigable Muratori has given, I think, a rational explanation of the word MARTINORVM, which he reads MARTIANORVM, Nam uti Sodales Augustales, Flaviales, Claudiales, Antoniani, etc. etc. ita in honorem Martianae Augustae, sororis Trajani, instituti fuere Sodales Augustales Martiani. P. DXV. 2. A little beyoad the Osteria del Cavaliere, and [385] nearly apposite the church of St. Giorgio, a road diverges on the right to Arsuli and Subiaco. Here, also, was the diverticulum. of the Via Valeria, made by the Emperor Nero; and on this road, or near it, were the sources of the Aquae Claudiae and Marciae, which were conveyed by means of aqueducts to the imperial city. Soon afterwards I reached Rio Freddo, a village situate on an eminence, where the contracted mountains form a narrow pass, and the road winds along the declivity of a deep valley below. At this point, which is the boundary of the Neapolitan and Papal territories, a custom-house is erected; but I neither experienced the trouble nor cupidity which are usual in such establishments». [...] Sopra: Civita di Oricola (antica Carsioli) in un’immagine di metà Novecento Lumen 37 Ristampa Cronache di Carsoli nei ritagli di giornale Queste brevi notizie di cronaca sono estratte dal Corriere della Marsica. da Redazione S 1 Corriere della Marsica, 1415 novembre 1908, p. 1. 2 Ivi, 21-22 novembre 1908, p. 1. 3 Ivi, 12-13 dicembre 1908, p. 1. Sopra: uno degli articoli citati 38 Lumen fogliando le pagine del Corriere della Marsica abbiamo raccolto alcuni articoli che tratteggiano la colorita vita di Carsoli negli ultimi mesi del 1908. «La sera dell’8 corrente [novembre], circa le ore 17, si è scatenato su Carsoli un tremendo uragano che è durato quasi per l’intera notte. Le sorgenti del Turano si erano gonfiate in modo straordinario. Abbiamo assistito al tremendo spettacolo di vedere allagate tutte le campagne circostanti al fiume per molti metri e l’acqua giungere persino all’abitato producendo gravi danni alle stalle ed alle cantine. Soltanto chi avesse assistito a tale spettacolo si sarebbe formato un’idea esatta dell’alluvione. I lampi che ad ogni istante illuminavano la terra per accrescere più sinistra l’oscurità, facevano vedere i campi trasformati in laghi e sembrava che tutto dovesse sommergere nelle acque. Il rombo del tuono che si produceva a brevissimi intervalli completava la scena desolante. Di tanto in tanto si vedevano correre gruppi di contadini con lanterne che si recavano, chi a salvare il gregge, chi a salvare muli e cavalli e chi a proteggere dall’inondazione le botti. Soltanto all’una dopo la mezzanotte il cielo incominciò a calmarsi. Nella mattina il territorio è apparso tutto devastato e il danno maggiore si è avuto nei seminati adiacenti ai fiumi. Da circa 40 anni Carsoli non aveva più assistito ad un simile spettacolo»1. ù «Il giorno 14 corrente [novembre] il Cav. Uff. Colelli, in occasione del battesimo del suo bambino, al quale ha imposto il nome di Antonio in omaggio alla memoria del suo genitore D.re Cav. Antonio, convennero in sua casa le migliori famiglie ed i notabili del paese. Alla simpatica festa intervennero il sig. Avv. Gio:Battista Placidi, l’Avv. Marcangeli e famiglia, la Signora Marianna Mattei ved. Mary, il sig. Adelfo Angelino e sua signora, il sig. Giovanni Scafi e famiglia, il sig. Luigi Petrocchi, si- gnori Arnaldo ed Ovidio Tarantini, sig. Gaetano Paoni, sig. Emilio Del Mese, sig.na Maria Angelini, sig. Alberto Munzi, Cav. Francesco Talamo, signorina Laura De Angelis ed altri dei quali omettiamo per brevità i nomi. Il battesimo, per gentile mediazione dell’egregio Arciprete Don Proino Arcangeli, venne fatto in casa. La festa che riuscì cordialissima, dopo il consueto rinfresco innaffiato di buon champagne, ebbe termine con danze»2. ù «CARSOLI, 6 [dicembre]. La mattina del 2 corrente Agostino Preti dell’età di anni i 60 doveva sposare in chiesa la signora D’Alessandro Maria di anni 75. Molti curiosi si erano fermati, sin dalle prime ore del mattino dinanzi alla chiesa di S. Vittoria dove doveva celebrarsi il matrimonio. Il Preti trovavasi nelle vicinanze della piazza Corradino per accompagnarsi alla sposa ed aspettava il momento propizio per entrare in chiesa inosservato. Verso le ore sette la fidanzata veniva da porta Napoli ed il pubblico accortosi della sua presenza incominciava a vociare e fischiare. In più punti udivasi il suono di strumenti assordanti ed in pochi secondi la popolazione aveva invasa la chiesa e le vie adiacenti. Il povero Preti, vista la mala parata, scoraggito si allontanava dalla chiesa abbandonando la sposa. Costei, vistasi sola, non riusciva a frenare l’ira, si metteva a gridare e gesticolare pazzamente. Il pubblico a tale scena gridando e schiamazzando, correva dietro il povero Preti, che non sapeva dove salvarsi. Intanto la sposa veniva accompagnata a casa da alcune delle amiche che cercavano di consolarla facendole comprendere che, se lo sposalizio ebbe così triste fine, ciò si doveva unicamente alla dimostrazione popolare. Noi siamo addolorati dell’inconveniuente avvenuto nella mattina del 2 corrente e facciamo voti che la dimostrazione non abbia a ripetersi a danno dei due colombi …»3. «Nel mattino del 2 corrente, dall’una alle due, diversi lupi sono calati dalle montagne del Tufo e sono entrati nell’abitato di Carsoli dalla parte della fortezza. In via dei Merli si trovavano all’aperto, in vicinanza di alcune stalle, 127 pecore di proprietà di Ferranti Bernardino e Ciccosanti Luigi. I lupi si sono avventati contro il gregge scannando 18 animali, altrettanti ferendone. In sul far del giorno in detta via si ritrovarono soltanto 20 pecore mentre le altre erano fuggite per i vicoli del paese. Una fu trovata in piazza, nelle vicinanze della caserma dei RR. Carabinieri. Nessuno ricorda che sia mai avvenuto un fatto simile. Data la quantità di pecore scannate e ferite i lupi dovevano essere parecchi e devono avere percorso parecchie vie dell’abitato. Naturalmente il fatto ha impressionato moltissimo i proprietari di bestiame, tanto più che di pieno giorno alcuni pastori hanno più volte avvertito la presenza dei lupi nelle circostanti campagne di Carsoli. ù Quest’oggi il vetturale del sig. Marco Bascianelli mentre passava col legno in piazza Corradino investì due ragazzi che fortunatamente restarono illesi. Nella confusione urtò il banco dell’orefice di Tagliacozzo sig. Achille D’Angelo facendo cadere le vetrine contenenti oggetti d’oro. Il danno risentito dal sig. D’Angelo si fa ascendere a circa cento lire»4. ù «Carsoli 9 [novembre]. Il canonico don Giovanni Simonetti oltre le esperienze che fa per conto della Cassa Rurale di Carsoli, relativmente a produzioni agricole, ne eseguisce alcune anche per proprio conto, e nei suoi terreni. Dopo alcune prove sperimentali, è riuscito ad ottenere splendidi risultati. Così in un terreno in contrada Ripe di questo comune, della estensione di due ettari, ha ottenuto in questo anno una produzione di grano di 36 quintali per ettaro, contro 6, e al massimo 10, avuti negli anni passati. Detto terreno è di natura composto (silicioargillo-calcareo) colla parte superiore di circa un ettaro completamente sterile, secondo il detto dei contadini, e refrattario a qualunque coltivazione, tanto che il granturco ed i fagioli non vi si producevano affatto: e del grano, nei pochi anni nei quali vi fu seminato, appena appena si rifaceva la semente. Il sig. Simonetti nel primo anno lo concimò con perfosfato, cloruro di potassa e gesso e vi seminò del grano. Il risultato del 1906 non fu confortante sebbene a primavera vi avesse somministrata una forte dose di nitrato di soda. I contadini se ne burlavano e a conferma delle loro idee, sostenevano che il terreno suddetto era improduttivo e quasi biasimavano l’iniziativa del Simonetti, il quale però convinto che la scienza agraria non è una opinione, ma è fondata su basi solide e che bisogna semplicemente saperla adattare alla natura delle terre e dei luoghi, perseverò nella sua idea. Il risultato ottenuto lo convinse che nel terreno mancava la materia organica e che i concimi chimici avrebbero operato in modo soddisfacente solo quando ad essi vi fosse aggiunta la coltura delle leguminose che costituivano appunto la detta materia organica. In fatti vi seminò del trifoglio pratense e nell’ottobre 1906 ripetè la concimazione in modo più forte e vi mise cinque quintali di perfosfato ad ettaro e un quintale e mezzo di cloruro di potassa. È da notarsi che il gesso non era necessario perché il terreno è di natura calcareo. La forte concimazione fece subito cambiare aspetto al terreno, e quella terra, quasi sterile, produsse un trifoglio bellissimo. Nel giugno del 1907 di quel terreno fu venduto il taglio di erba a L. 20,00 la coppa (milleduecento metri quadrati). Il secondo taglio non si poté fare per la grande siccità. Il Simonetti in quell’epoca sovesciò il trifoglio, e il campo corrispose all’aspettativa poiché il grano dalla nascita fino all’epoca della spigatura si mantenne di un colore verde intenso, tanto che il campo destò le meraviglie di tutti e nella produzione si ottennero 36 quintali all’ettaro. Da tale esperimento risulta chiaramente che la terra si può portare ad una fertilità massima colle razionali concimazioni chimiche. Lo scopo del Simonetti è quello di avviare il paese al risorgimento agricolo sfatando così il concetto volgare del contadino il quale sostiene che le terre di questo estremo lembo dell’Abruzzo non si prestino alle razionali concimazioni chimiche. Allo stesso scopo il Simonetti l’anno scorso dimostrò che la semina fatta a righe colla seminatrice Sack produce un quinto di più di grano di quello seminato alla volata, col solito aratro, e che si ha anche un risparmio di lire 25 per ettaro. Seminò 4 chilogrammi e mezzo di grano e ottenne 40 covoni, mentre in una eguale zona, dove seminò 12 chilogrammi di grano raccolse 30 covoni. Noi ci auguriamo che i contadini in genere, ed i proprietari in ispecie, corrispondano alla utile iniziativa del Simonetti e facciano omaggio alla celebre frase di Ovidio che disse delle terre di Carsoli: Ad segetes tamen ingeniosus ager (ingegnoso per le messi)».5 4 Ibidem. ivi, 14-15 novembre 1908, p. 1. 5 Lumen 39 Ristampa Sulla Carboneria nel Regno di Napoli da Redazione L a circolare diffusa in modo riservato dal ministero della Giustizia e del Culto lascia chiaramente intendere che le prime attività della setta furono tollerate e che ebbero inizio ben prima del 1813. «GABINETTO DEL MINISTRO Circolare riservata Napoli il 6 ottobre 1813 Il Gran-Giudice Ministro della Giustizia, e del Culto Agli Arcivescovi, a’ Vescovi, ed agli Ordinarj. adunanze, composte per la più parte, di nomini popolari, dette perciò de’ Carbonari, cominciarono, non ha molto, a riunirsi in varj luoghi del Regno. S(ua) M(aestà) non credette vietarle, si perché è proprio di un Governo liberale il non vietare a’ cittadini alcun’azione indifferente, si perché l’oggetto di tali adunanze appariva non solo innocente, ma anche virtuoso. Ma qualche fatto criminoso avvenuto ultimamente ha fatto conoscere che taluni malintenzionati, ammessi a tali adunanze, ove il maggior numero è di gente ignorante e facile ad essere illusa, hanno abusato di questo mezzo per macchinare de’ complotti, tendenti a ladronecci, ad assassinj, a saccheggi di pubbliche casse. S. M. ha creduto perciò necessario proibire ALCUNE Sopra: circolare contro la Carboneria Segnalazione archivistica di M. Sciò Pubblicazione della Associazione Culturale Lumen (onlus) 67061 Pietrasecca di Carsoli (AQ) via Luppa, 10 E-mail: [email protected] Redazione: don Fulvio Amici, Luciano Del Giudice, Claudio De Leoni, Sergio Maialetti, Paola Nardecchia e Michele Sciò. Illustrazioni in copertina: Copertina del bollettino La voce del Santuario Immagini: S. Maialetti, M. Sciò, archivi fotografici privati, web Composizione: M. Sciò 40 Lumen Sulla comparsa della società segreta chiamata Carboneria nel primo Ottocento si è molto discusso, soprattutto per quanto riguarda gli inizi della sua attività nel Regno napoletano e sui rapporti con gli ambienti murattiani. siffatte unioni, divenute, per la esposta circostanza, oltremodo perniciose. Io v’inculto di secondare efficacemente co’ mezzi della Religione le giuste mire del Governo, ispirati da avversione alle suddette adunanze, ove le persone ignoranti, sedotte da qualche socio perverso, possono trovarsi impegnate in azioni vietate dalla Società, egualmente che dalla Religione . Avvertite però di portare in questo affare la più grande riserva. Guardatevi di mai predicare contro le dette adunanze, o di fare in pubblico qualunque avvertimento. I mezzi da adoperare non debbono essere che esortazioni individuali, fatte in segreto, opportunamente, e con prudenza. Ingiungete lo stesso segreto, e la stessa condotta a’ Parochi, ed a’ Confessori, che crederete abbastanza prudenti per esser chiamati a parte di questo incarico. Riscontratemi del ricapito di questa mia, e di tutto ciò che di mano in mano potrà occorrere. Ogni rapporto su questa materia mi sarà diretto in plico riservato a me solo. Il Governo in questa occasione vi onora di una gran fiducia. Son certo che vi corrisponderete pienamente. Vi ripeto la mia perfetta stima». NORME PER GLI AUTORI L’Associazione Culturale Lumen pubblica scritti di autori italiani e stranieri a carattere divulgativo, utili alla vita sociale e culturale della piana del Cavaliere e dei territori limitrofi. Gli scritti devono essere realizzati preferibilmente con videoscrittura idonea all’ambiente IBM e compatibili (non Macintosh) e inviati agli indirizzi dell’Associazione. La collaborazione si intende a titolo totalmente gratuito. Gli autori sono responsabili delle affermazioni contenute nei loro scritti. Le bozze verranno corrette internamente e non saranno allestiti estratti, ma verranno inviate agli autori n. 2 copie del fascicolo dove compare il loro articolo. [Segue firma] ATTIVITÀ DELLA ASSOCIAZIONE Conferenze: organizzate su vari argomenti nel periodo estivo. Escursioni: itinerari naturalistici e storici. Visite guidate: musei, luoghi d’arte e siti archeologici. Collaborazioni: con scuole, ricercatori, studenti universitari e Pubbliche Amministrazioni. Biblioteca: dotata di volumi di archeologia, storia locale e generale, arte, letteratura, periodici e materiale archivistico. Stampa: il foglio di Lumen e i Quaderni di Lumen. Tipografia: Moduli Continui Marsica tel.: 0863 992122 Carsoli (AQ) - località Recocce e-mail: [email protected]