pra e geografia: territori di convergenza
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pra e geografia: territori di convergenza
Pubblicato in: Rivista Geografica Italiana, CVI, f.1, mar. 1999, pp. 1-31 PRA E GEOGRAFIA: TERRITORI DI CONVERGENZA Bertoncin M.*; Bicciato F.*; Corbino A.**; Croce D.*; De Marchi M.**; Faggi P.*; Pase A*. *Dipartimento di Geografia; Università di Padova; ** Dottorato di Ricerca “Uomo e Ambiente” – Università di Padova La storia ormai cinquantennale delle politiche di sviluppo - e del comparto accademico che è in uso definire come Development Sciences - costituisce un ottimo esempio di quello che, con C. Raffestin, potremmo definire un processo fondato su una “assiomatica comandata dal carattere probabilista e necessariamente discontinuo dell’azione“ (1981:151). Vi sono infatti andati di pari passo, saldandosi e sostenendosi reciprocamente, assunzioni di valore e adeguamenti utilitaristici, costruzioni concettuali e dispiegamenti retorici, processi di riflessione critica e routine metodologica. Emblematico esempio di questa materia complessa e polivalente, il PRA (Participatory Rural Appraisal: Approccio 1 Rurale Partecipativo) domina e pervade, da una decina d’anni, il campo teorico e pragmatico dello sviluppo soprattutto rurale, ma non solo - rappresentando la cifra costante di progetti e di piani d'azione, per le grandi Agenzie internazionali come per le piccole Ong. "Il PRA è una famiglia sempre più numerosa di approcci e metodi per mettere in grado la popolazione locale da un lato di condividere, potenziare ed analizzare la propria conoscenza della vita, e dall’altro di pianificare, realizzare, controllare e valutare": questa definizione, proposta da uno dei massimi esperti dell’argomento (Chambers, 1997:102), sintetizza ed evidenzia, nella sua sincretica empiricità, i diversi piani di pertinenza. Siamo di fronte ad un designatore polisemico e magmatico (“famiglia sempre più numerosa”), nel quale si possono individuare due punti fermi. Da un alto una scelta di campo precondizionante: “la popolazione locale”, soggetto collettivo cui dovrebbe essere conferito l’intero ciclo progettuale, dall’ideazione alla valutazione. Si dice, a riguardo, che il PRA sia innanzitutto un atteggiamento2 di rispetto e considerazione per la popolazione locale: è la tematica dell'empowerment, ben evidente nel famosissimo titolo che rappresenta il manifesto fondativo del PRA (Id., 19833) . Dall’altro un “ménu metodologico”4 molto concreto e performativo, basato sui principi della ricerca-intervento. Siamo all'interno di quell’impasto di pragmatismo fabiano e di radicalità delle scelte di cui si compongono, dagli anni ‘70, le strategie di sviluppo “alternative” del mondo anglosassone. In mezzo, sullo sfondo, un’opzione transdisciplinare e sistemica, con una serie di contributi di riflessione provenienti da diversi ambiti scientifici ed operativi. Infine, il tutto è aperto all’inventiva ed al contributo originale dei singoli operatori, secondo un atteggiamento di larga apertura e di valorizzazione della pluralità dei linguaggi, delle 1 Manteniamo questa traduzione, ormai consueta, di appraisal al posto di quella letterale (“stima”, “perizia”). In realtà, le più recenti accezioni del PRA convalidano questa scelta, inizialmente operata con criteri di semplice assonanza. Infatti, la partecipazione si allarga a campi ben più vasti della semplice stima preliminare, abbracciando monitoraggio e valutazione, ricerca, apprendimento, organizzazione, ecc. Anche in inglese, si parla ormai di Approach oppure di PLA come Participatory Learning and Action. 2 “Gli outsiders non dominano né tengono lezioni, ma facilitano, si siedono, ascoltano e imparano” (Chambers, 1997:103) 3 Del volume è finalmente comparsa, nel 1996 a cura di M.Malagoli, la traduzione italiana. Qui si fa comunque riferimento all'edizione originale. 4 Traducibile (Ibid.:116) in tecniche di rappresentazione visuali (mappature, diagrammi di flusso, d. di Ve nn, calendari stagionali, matrici, ecc.), metodi per interviste e campionamento (interviste semi-strutturate, triangolazioni, ecc.), metodologie per il lavoro di gruppo (analisi cooperativa, giochi di ruolo, brain-storming, ecc.).(cfr. Pretty et al., 1995). In generale “i metodi spostano il normale riferimento dal chiuso all’aperto, dall’individuo al gruppo, dal verbale al visuale e dalla misurazione alla comparazione” (Ibid.: 104). esperienze, delle sensibilità, per favorire la condivisione (“sharing”) dei saperi, ma anche delle esperienze pratiche, tra la comunità locale e gli outsiders. Il PRA si è sviluppato nella seconda metà degli anni ‘80, come effetto dell’interazione tra diversi settori della ricerca applicata allo sviluppo rurale nei PVS (Id., 1997:106 segg.), che hanno fornito un contributo ad un tempo valoriale e metodologico. Una prima componente è la ricerca sui farming systems condotta da economisti, sociologi rurali, geografi agrari ed agronomi in diverse parti della zona tropicale negli anni ‘70. Nell'ambito della rivalutazione dei saperi agricoli tradizionali (Ruddle e Manshard, 1986), queste ricerche evidenziano la razionalità e la sapienza di sistemi colturali fino ad allora considerati primitivi e poco efficienti (emblematica la scoperta dell’intercropping), nonché la capacita di sperimentazione ed innovazione degli agricoltori5. Un contributo, dunque, che - come successivamente il PRA - mette al centro dell’azione e della riflessione il mondo rurale tradizionale e la sostenibilità delle sue tecniche 6. Un altro apporto, metodologicamente molto formalizzato, è dato dall’analisi degli agro-ecosistemi che, dalla fine degli anni ‘70, integra nel paradigma sistemico dell’ecologia la considerazione degli aspetti relazionali e decisionali dell’ambito rurale considerato (per una presentazione: Paoletti, Stinner e Lorenzoni, 1989). Si tratta di un campo di studi transdisciplinari inizialmente sviluppatosi, ad opera di biologi applicati ed agroecologi, nel sudest asiatico (in particolare in Tailandia), nel corso della riscoperta dei ricchi agroecosistemi dei tropici umidi e dell’evidenziazione dei limiti della semplificazione agronomica operata dalla Rivoluzione Verde (Conway e Barbier, 1990). Questa analisi introduce un largo uso di tecniche che entreranno poi a far parte anche del PRA: rappresentazioni visuali, osservazione per transetti, schemi di valutazione delle innovazioni, ecc. Anche l'antropologia sociale dei tardi anni '70 ha contribuito all'innovazione, grazie ai suoi coinvolgimenti operativi e alle procedure speditive di indagine informale introdotte per agevolare le ricerche applicate alla progettazione (Rhoades, 1982). E’ un contributo in cui l’assunzione di valore si fa strategia di ricerca, evidenziando il ruolo dell'attitudine personale del ricercatore, della sua residenza in loco e dell'apprendimento sul terreno, della flessibilità ed adattabilità della ricerca al contesto in cui si opera, delle valutazioni qualitative. Di diverso significato il contributo della ricerca-intervento, un paradigma scientifico ed operativo che, sviluppatosi in America Latina nel corso della "coscientizzazione" degli anni '607, sulla scorta dei lavori di Paulo Freire8, punta alla consapevolezza critica dei ricercatori ed alla partecipazione delle popolazioni locali all'indagine. Applicazioni si ebbero anche in Asia meridionale e, seppur più tardi e meno estesamente, probabilmente per il più tardivo sviluppo delle organizzazioni socio-politiche di base, in Africa9. Chambers 5 Importante, a questo proposito, la creazione di centri interdisciplinari di ricerca ed intervento per lo sviluppo integrato (quali l’ILCA di Addis Abeba, l’ICRISAT di Hyderabad, l’ICARDA di Aleppo), nei quali trovano largo spazio ricercatori di scienze sociali (Faggi, 1991:62). 6 Oltre alla scuola inglese dell’Eco-farming, è da segnalare, per il rigore analitico e per aver poi saputo influenzare l’azione di grandi macchine della cooperazione quali la GTZ, il concetto della Standortgerechte Landwirtschaft di K.Egger e P.Rottach: un’agricoltura “adeguata al luogo”, su cui costruire lo sviluppo rurale (Egger, 1982; Rottach, 1984). 7 Si tratta di attivare processi di crescita civile (sviluppo di comunità, coscientizzazione, educazione popolare, diagnostico rural participativo) fondati sul rapporto tra educazione e presa di coscienza, con finalità che trascendono lo sviluppo di comunità per arrivare al cambiamento sociale del Paese e dell’intero continente latino americano (Freire, 1967,1968). Negli anni ‘60 e ‘70 la partecipazione assume i connotati della coscientizzazione delle masse impoverite e viene associata ad una opzione ideologica socialista contro i regimi militari al potere ( Argentina, Cile, Brasile, Bolivia e Venezuela). 8 La teorizzazione di P. Freire della seconda metà degli anni '60 è legata alla sua esperienza di forma tore dei tecnici della riforma agraria cilena (Freire et al., 1968). Oggetto centrale della critica è il modello di "extension" nord-americano, basato sul trasferimento di conoscenze da chi sa a chi non sa; a ciò viene contrapposto il concetto di comunicazione, in cui l'agronomo è visto come un educatore che avvia processi di coscientizzazione e di lettura critica della realtà (Freire, 1969) 9 Durante gli anni '70, lo stesso P. Freire svolge attività di consulenza per l'organizzazione dei sistemi educativi di alcuni paesi africani, avendo contatti personali con Amilcar Cabral e Julius Nyerere (Freire, 1977 e 1980). La diffusione delle (1997:108) sostiene che il contributo di questa esperienza al PRA è più valoriale che metodologico, in quanto mette in crisi il tradizionale ruolo del ricercatore ed esalta invece quello dei gruppi marginali10, anche se tuttavia non dobbiamo dimenticarne la dimensione epistemologica che risiede nel considerare esplicitamente l'educazione come un processo di coscientizzazione. Infine, c'è il ruolo del Rapid Rural Appraisal (RRA: Stima Rurale Rapida). Originatosi anch'esso alla fine degli anni '70, soprattutto nel fertilissimo Institute of Development Studies del Sussex, venne sviluppato alla metà degli anni '80 presso l'Università tailandese di Khon Kaen e l'International Institute for Environment and Development di Londra11. La nascita del RRA è legata all'esigenza di metodi d'indagine speditivi, che non richiedano le onerose e prolungate ricerche con questionario, peraltro molte volte inefficaci, e che allo stesso tempo non incorrano nelle deformazioni di quello che Chambers (1983: 13-23) definisce il "turismo dello sviluppo rurale"12. Viene sviluppato dunque un insieme di strumenti d'inchiesta (in campo agrario, micro-idraulico, nutrizionale e sanitario) che, considerati all'inizio dei ripieghi rispetto a quelli tradizionali, assumono via via dignità ed autoconsistenza: uso preliminare ed accurato delle fonti secondarie; interviste semi-strutturate, con lista di controllo aperta; incontri con "esperti" locali; raccolta di racconti su casi ed eventi particolari, con verifiche incrociate; lavoro sul terreno secondo transetti; incontri e lavori di gruppo (Id., 1997:116). Il ruolo del ricercatore è prevalentemente quello di estrarre informazioni da un contesto rurale, con modalità di "sufficiente approssimazione e ottimale ignoranza" e con il contributo decisivo della comunità locale. Tuttavia, nei modelli iniziali di RRA, questa stessa comunità rimane estranea alla elaborazione ed all'uso delle informa zioni. Nella seconda metà degli anni '80, fondandosi sui diversi contributi culturali qui sopra riportati, l'azione congiunta di OnG e di Istituti di ricerca impegnati nel campo dello sviluppo riconsidera e mette sotto accusa proprio questo squilibrio nei confronti delle informazioni. Le comunità rurali, si sostiene, devono venire coinvolte in misura crescente nell'indagine, nell'elaborazione e nella valutazione dei risultati, nella progettazione dell'azione, con un deciso potenziamento dell'atteggiamento e del comportamento partecipativi. Progressivamente, un sapere e delle strutture si costituiscono e prendono forza, innanzitutto nei PVS (Tailandia, Kenya e soprattutto India, dove si organizzano seminari formativi con modalità Sud Sud) e poi, raro esempio di trasferimento inverso, di qui vengono esportati verso alcuni Paesi industrializzati, nei quali cominciano ad essere usati per la gestione di problemi territoriali13. metodologie partecipative di origine latino-americana è stata in molti casi veicolata in Africa e in Asia da ONG di ispirazione cristiana che avevano realizzato progetti in America latina, in stretto collegamento con il movimento della teologia della liberazione. Un altro flusso è quello legato alla rete umanista di ispirazione socialista e al terzo-mondismo degli anni '70 ( si pensi alle esperienze di Guinea Bissau, Capo Verde, Angola, Mozambico, Tanzania). E’ comunque solo dagli anni ‘90 che l’Africa sta conoscendo una crescita notevolissima dell’associazionismo di base e dei processi partecipativi (Faggi, 1999). 10 In questa prospettiva, è necessario ricordare quanto sul pedagogista brasiliano abbiano influito il pensiero del “personalismo comunitario” di A. Mounier e le esperienze di educazione degli adulti nella Francia degli anni ‘30: questo aiuterebbe il Chambers a considerare maggiormente, nella genesi del PRA, i contributi non anglofoni, che, nel peraltro ottimo volume del 1997, si limitano, oltre alla considerazione di Freire, ad un fugacissimo cenno al Diagnostico Rural Participativo ed alla Méthode Accelérée de Recherche Participative. Dimenticanza, barriera linguistica, o piuttosto la scarsa consapevolezza che il PRA si è anglicizzato istituzionalizzandosi, in seguito alle particolare condizioni dello sviluppo internazionale negli anni ‘90? Su questo, vedi Nota 17. 11 L’Istituto pubblica, dal 1988, il periodico RRA Notes (dal 1995, PLA Notes) 12 Sono le deformazioni frequentemente associate alle affrettate visite degli operatori: spaziale (concentrazione sulle aree centrali), progettuale (attenzione dedicata soprattutto alle zone oggetto di progetti), personale (incontri prevalenti con élites), stagionale (concentrazione nella stagione asciutta), diplomatica (desiderio di non offendere la comunità chiedendo di incontrare i gruppi più deboli). 13 Si tratta di Paesi con tradizionale autogestione comunitaria delle risorse territoriali (es. Scandinavia, Paesi germanici, Olanda)(ad es., per un’analisi dell’uso dell’acqua, cfr. Barraqué, 1995), o di recente diffusione della cultura "communitarian" (Canada, USA, Regno Unito) (Etzioni, 1988); per una rassegna dell'approccio partecipativo nordamericano alla gestione delle crisi ambientali, cfr. Shrader-Frechette, 1993. Alla fine del decennio il PRA è ormai solidamente strutturato, con una diffusa manualistica (quale si mette come es.aaa?cfr. a pag. 114 di Chamb. 1997) e l'attivazione di una rete di riferimento internazionale14. Si costruiscono cioè le basi perché, nel corso degli anni '90, esso diventi il filo conduttore delle politiche di sviluppo, sia per le indagini preparatorie e la ricerca applicata, sia per la formazione della popolazione locale e degli operatori, sia per il processo di progettazione vero e proprio, dalla fattibilità alla valutazione. Applicato dapprima allo sviluppo rurale, con una lettura sistemica della problematica15, il PRA viene sempre più adottato, dalla metà del decennio, anche in progetti di sviluppo urbano e nella conduzione delle organizzazioni 16, conoscendo un vero e proprio processo di istituzionalizzazione17. Dopo una gestazione di oltre un ventennio, dunque, le strategie basate sulla partecipazione si affermano repentinamente e globalmente in meno di dieci anni. Perché l’iniziale difficoltà e perché, invece, una diffusione così pervasiva in questo decennio? Chambers (1997: 129) fornisce una risposta centrata sul mutato atteggiamento personale degli operatori dello sviluppo, favorito dalla definitiva affermazione della società della comunicazione globale, che avrebbe portato quello che prima era un pensiero alternativo ad un livello di massa critica. Risposta solo parzialmente soddisfacente, perché resta pur sempre da chiedersi quali siano le condizioni che hanno permesso il consolidamento di questa fluttuazione epistemologica e procedurale in un nuovo paradigma. Bisogna a questo proposito ricordare che, seppur il PRA si è inizialmente sviluppato in un ambito di volontariato e di ricerca accademica, il salto di qualità per la sua affermazione si è avuto, all’inizio degli anni ‘90, quando è stato integrato nei protocolli operativi e nei proclami delle grandi Agenzie internazionali18, fino ad assumere il ruolo di strategia “ufficiale”19 del decennio. E’ dunque opportuno, per capire questa istituzionalizzazione, analizzare quali relazioni esistano tra i caratteri del PRA e le grandi linee del contemporaneo contesto politico-economico internazionale, che innervano la politica delle Agenzie. Per il suo richiamo all’azione locale, al coinvolgimento strutturale delle comunità, alla loro autosussistenza, l’affermazione del PRA può venire certamente associata alla crisi dei modelli di gestione statalisti (del welfare, nei Paesi industrializzati, e della “politica del ventre” nei PVS, secondo la ben nota definizione di J.F. Bayart) ed al conseguente emergere, durante gli anni ‘80, dei processi di decentramento e di privatizzazione, che tanto hanno segnato il decennio. 14 Nel 1996 (Chambers, 1997:114) applicazioni di PRA si contano in un centinaio di Paesi, in 30 dei quali è operante una rete di collegamento nazionale. Ottimi repertori si trovano nei siti Resource Centres for Participatory Learning and Action dell’IIED(http://www.iied.org/resource/index.html) ed Electronic Development and Environment Information System dell’IDS (http://nt1.ids.ac.uk/eldis/eldis.htm) 15 Silvicoltura, conservazione dei versanti, microidraulica, pratiche di agricoltura sostenibile, mantenimento della biodiversità sono i campi d’applicazione più frequenti, ma il PRA viene utilizzato anche per affrontare questio ni di genere e di povertà rurale, nutrizionali e di sussistenza. 16 Per una casistica, si vedano Chambers, 1997: 120 segg., e il sito dell’IDS http://www.ids.ac.uk/pra/main.html, 17 E’ in questa fase che il PRA si “anglicizza”: rientrando nelle strategie ufficiali delle grandi Organizzazioni, assume la lingua della “letteratura grigia” e degli Istituti più attivi sul fronte ufficiale dello sviluppo (IDS, IIED, ...) che, adottandolo, lo reinventano (cfr. nota 10). 18 La diffusione del PRA all'interno delle Agenzie internazionali è legata all'adozione di modelli che avevano avuto successo nell'organizzazione aziendale degli anni '80. Le rigidità del sistema fordista venivano rimosse eliminando da un lato il management intermedio e dall'altro avviando processi di "empowerment" dei lavoratori, i quali, operando in squadre flessibili, potevano rispondere in maniera adattativa ai cambiamenti, comunicando direttamente con il top management (Nelson e Wright, 1995:6). Concetti come overlapping, flat organization, participation, knowledge sharing, vengono scoperti e ottimizzati nella gestione aziendale e da lì rientrano nel mondo universitario e nelle Agenzie internazionali (Solberg, 1997). 19 Tra le Organizzazioni che hanno adottato l’approccio partecipativo, si possono citare la FAO , con il Tropical Forestry Programme (1991-92); l’UNDP, nel 1993; la Banca Mondiale, con la “Dichiarazione di Washington” del 1997. Da ricordare, inoltre, l’Agenda 21 del Convegno Unced, 1992, che dedica l’intera sezione III al rafforzamento del ruolo dei “Major Groups” della società civile nel perseguimento dello sviluppo sostenibile E tuttavia, la valorizzazione dell’azione sociale e delle dinamiche di gruppo la legano ancor di più all’atmosfera che nei primi anni ‘90 ha contribuito a far emergere, seppur con notevoli differenze tra Paesi industrializzati e Paesi sottosviluppati20, la stagione dell’associazionismo, del “Terzo Settore”, delle economie nonprofit, che in qualche modo riproponessero, passata l’ondata delle privatizzazioni purchessia, una dimensione dell’agire sociale, della partecipazione collettiva. L’approccio partecipativo, dunque, costituirebbe una dimensione operativa della più vasta ricerca di nuova socialità basata su flussi informazionali21, attorno a cui costruire inedite ipotesi di sviluppo sociale, di fronte da un lato alla crisi dei tradizionali processi di acquisizione del consenso mediante una politica di spesa e dall’altro alla difficile governabilità dell’impatto sociale della privatizzazione neo-liberista. Sarebbe dunque un esito del riscontro – dopo quello ormai acquisito delle State failures – anche delle market failures, quei problemi di scompenso e di inefficienza complessiva legati all’applicazione generalizzata, repentina e tassativa delle misure di privatizzazione a contesti socio economici strutturalmente non preparati. Questa situazione, sicuramente integrata in quella dimensione ormai planetaria della comunicazione cui si riferisce Chambers, costituisce la “finestra di opportunità” attraverso cui durante gli anni ’90 si sono imposti quei protocolli di ricerca operativa che abbiamo visto essere stati in incubazione per oltre un ventennio, attraverso cui cioè si sono realizzate l’istituzionalizzazione e la diffusione tumultuosa del PRA. Ovviamente, diventato strategia di riferimento, il PRA si trova oggetto anche di frettolose applicazioni e di riduzionismi metodologici, mentre addirittura non mancano citazioni furbesche finalizzate alla captazione dei finanziamenti. Da un lato, si deve considerare questo fatto come l’ovvio scotto da pagare per il passaggio alla sopra ricordata assiomatica “discontinua” dell’azione. Dall’altro, sembra necessaria una cosciente operazione di controllo dei protocolli analitici ed applicativi del PRA, per verificarne la congruità tra consistenza interna e livello applicativo territoriale. Il “Progetto Inter-regionale per la Conservazione e lo Sviluppo a Carattere Partecipativo delle Alte Terre” di Zaghouan, Tunisia Il “Projet Inter- Régional pour la Conservation et le Développement à Caractère Participatif des Hautes Terres” ( progetto FAO GCP/INT/542/ITA – Tunisie) ha come obiettivo la promozione e il consolidamento della capacità di autogoverno e di organizzazione delle popolazioni rurali, orientandole verso una gestione sostenibile delle risorse naturali del territorio. Pertanto, nel nome e nella filosofia d’intervento, si ispira espressamente al PRA (Fe’d’Ostiani e Warren, 1996 e 1997; Fe’d’Ostiani, 1998). Il progetto, finanziato dalla cooperazione FAO- Italia secondo modalità multi-bilaterali, si inquadra in un intervento sopra-nazionale (“inter-regionale” nella terminologia FAO), attivato nel 199222 in cinque 20 Mentre nei Paesi industrializzati vi è un processo di delega verso imprese sociali anche nella gestione di alcuni servizi pubblici di base (Educazione, Sanità,.. .), nei PVS, in mancanza di un’imprenditoria sociale in grado di farsi carico dei settori tradizionalmente sotto la tutela dello stato, la privatizzazione interessa soprattutto alcune business areas (energia, telecomunicazioni) la cui gestione passa a grandi imprese multinazionali. Il rafforzamento e la crescita del cosiddetto Terzo Settore, luogo politico ed economico dove si sviluppano in modo consistente i modelli partecipativi, necessita di una sua istituzionalizzazione, oltre che per il riconoscimento del suo valore sociale, anche per la sua capacità di competere in modo efficiente con Stato e Mercato. Per questo motivo il suo sviluppo è possibile solo in contesti di relativa stabilità politica ed economica (Europa e USA), mentre nei PVS, fatte salve alcune eccezioni (Cile, Messico, Brasile, India?...) non si può parlare di un vero Terzo Settore ma di gruppi sociali (associazioni di vicinato, sindacati informali, gruppi indigeni, gruppi di donne,...) spontaneamente organizzati attorno ad interessi economici, culturali o politici comuni. 21 Si fa strada il concetto che “le collettività sociali (comunità sociali, gruppi etnici, movimenti sociali) sono attori centrali e che la qualità della maggior parte delle decisioni che le riguardano (la raccolta delle in formazioni, la sua elaborazione, le ipotesi di scelta, la formazione di giudizio) sono profondamente influenzate dalle scelte istituzionali, ma anche le influenzano” (Etzioni, 1988). 22 Il progetto viene sviluppato in fasi successive: dopo le prime due (1992-94 e 1994-97), è ora in corso la terza (1997-99) che punta al consolidamento delle modalità partecipative ed alla loro istituzionalizzazione (FAO, 1997). Per il contributo paesi : Nepal, Pakistan, Bolivia, Burundi e Rwanda. Nel luglio 1994 il Ruanda, per gravi problemi di sicurezza, è stato sostituito dalla Tunisia, che è ora anche sede del coordinamento del progetto. Dal 1997, il progetto continua ufficialmente in Tunisia, Nepal e Bolivia, mentre negli altri due Paesi è stato trasferito ad Organizzazioni locali, cui la FAO si limita a fornire una consulenza tecnica. L’identificazione di caratteristiche comuni, che sostanzialmente possono riassumersi in una gestione non sostenibile di un territorio agricolo montano, marginale ed esposto a fenomeni di degradazione, è alla base della decisione di raggruppare questi cinque paesi. E’ altresì necessario ricordare l’intensa pratica d’interscambio “SudSud” perseguita dal progetto, con riunioni annuali tra i funzionari e le comunità locali delle diverse Unità nazionali. In Tunisia l’azione si è concentrata sul territorio del bacino di Oued Sbaihya, 10 km est dalla città di Zaghouan, un’ottantina di chilometri a sud di Tunisi. La CES (Direction pour la Conservation des Eaux et du Sol) del Ministero dell’Agricoltura partecipa al coordinamento, mentre sul campo, sotto il controllo dell’amministrazione centrale, operano funzionari della CES, del CRDA (Comité Régional pour le Développement Agricole) di Zaghouan ed il personale assunto dal progetto. Inoltre, collaborano la OnG tunisina ASAD (Association de Soutien à l’Auto-Développement), cui spettano l’alfabetizzazione e la mobilitazione sociale, Università locali e straniere (per l’Italia: Firenze e Torino, cui si è aggiunta Padova23), ed altre azioni ed istituzioni collegate24. A questo proposito, il progetto intende operare come facilitatore e coordinatore di tutti gli attori presenti sul territorio e come Agenzia per il reperimento di fondi. L’area su cui insiste il progetto si estende per 6500 ha 25, sui quali vivono circa 1500 abitanti divisi in 300 famiglie e 9 douar26, i villaggi tradizionali caratterizzati da legami parentali e da un certo grado di autosufficienza economica, seppur da tempo integrata dall’emigrazione, che fornisce 50-60% dei redditi. L’area presenta una serie di emergenze, sia di carattere fisico che socio-economico: forte erosione del suolo, favorita dalla morfologia collinare, dalla erosività dei piovaschi della stagione fredda, dall’erodibilità dei terreni argillosi e dall’elevato carico pastorale; limitato reddito agro-pastorale delle famiglie, che porta ad uno sfruttamento intenso delle risorse naturali; sovrapascolamento dei terreni privati e delle foreste demaniali, utilizzate secondo un accesso libero consuetudinario, cui si cerca di rimediare con sovente inefficaci misure di bando; frammentazione e dispersione delle proprietà (media 3ha), con riduzione della sostenibilità economica dell’attività agro -pastorale; dispersione dell’insediamento, che rende problematica la predisposizione equa ed efficace di strutture di base. In questo quadro, scopo del progetto è quindi di dare sostegno operativo al mondo rurale locale, favorendo il coinvolgimento della popolazione nell’individuazione dei problemi e nella ricerca di soluzioni che partano dalle esperienze e dal saper fare degli abitanti. Due gli obiettivi dichiarati a livello locale: dato alla nostra ricerca, ringraziamo L.Fe’d’Ostiani, Coordinatore del progetto, e M.L.Toumia e A.B.Mabrouk, responsabili dell’Unità tunisina. 23 Il Dip.di Geografia di Padova ha effettuato alcuni seminari sulle modalità partecipative alla gestione del territorio con studenti, funzionari e residenti; nel 1998, ha curato uno stage di uno studente di Sc. della Formazione, avente come oggetto l’analisi della strutturazione territoriale operata dal progetto. 24 Una delle azioni collegate prevede l’alfabetizzazione della popolazione in età adulta. Questa sembra essere un’esigenza molto sentita (non solo in questa parte del paese) soprattutto dalle giovani donne, che sanno di dover migliorare le loro conoscenze per poter meglio gestire i propri affari (per esempio essere indipendenti nelle trattative al mercato). Come tanti altri progetti (anche di dimensione e tipologia diversa) è finanziato dal fondo 2626, un enorme serbatoio dove le elargizioni di generosi potenziali investitori esteri sono molto ben accette. 25 Caratteri generali dell’area di studio: altitudine: 516-92 metri; composizione litologica: marne, terreni argillosi; precipitazioni medie annue: 512 mm (Zaghouan); principali specie arboree: pino d’Aleppo, Acacia cyanophylla, eucalipto, thuya. 26 I douar comprendono la residenza, il territorio agricolo e quello per il pascolo degli animali.. I nove douar ricadenti nel bacino sono: Agailia, Ben Alaya, Ben Ameur, Ben Rejeb, Ben Rezig, Dhouaya, Lachheb, Mastoura, Tebainia.. arginare il problema dell’erosione dei suoli, mediante l’introduzione di pratiche d’utilizzazione ecocompatibili, e favorire redditi integrativi ed alternativi alla pastorizia e all’agricoltura tradizionale27, basati sulla microimprenditorialità locale mediante un’azione di micro-credito (M’Hamdi, 1998). Inoltre, il progetto punta alla replicabilità dell’esperienza, ponendosi come “terreno campione” per la gestione nazionale delle aree collinari e montane28. Il potenziamento della partecipazione delle popolazioni locali, facilitando gli incontri ed il colloquio tra i rappresentanti delle famiglie e dei douar con funzionari del progetto, rappresenta la metodologia per il perseguimento dei risultati. Dopo i primi sei mesi di analisi dei bisogni, dei vincoli e delle opportunità in sei dei nove douar, il progetto è passato alla fase operativa, che ha riguardato i settori formazione, ricerca, credito ed azioni di intervento sulle risorse29. C’è tuttavia da notare che, in linea con la filosofia del PRA, un risultato fondamentale seppur di difficile valutazione è l’attivazione e il potenziamento delle pratiche partecipative, che possono essere considerati come un aggiornamento dei progetti di institutions building propri degli anni ’60 e ’70 (Rondinelli, 1983). A tre anni dall’attivazione del progetto in Tunisia (1992-95), si possono trarre alcune considerazioni (si vedano anche Fe’d’Ostiani e Warren,1997; Fe’d’Ostiani, 1998), utili ad una riflessione generale sui progetti attivati secondo il PRA. Innanzitutto, è necessario potenziare le procedure per l’integrazione nel progetto dei saperi e delle strutture territoriali preesistenti. Le difficoltà a questo proposito si collocano nella ben nota contrapposizione insider/outsider, che porta i funzionari del progetto a sottovalutare le condizioni e le conoscenze locali in nome di una maggiore razionalizzazione nell’uso delle risorse e gli abitanti ad oscillare tra l’accettazione passiva di quanto proposto dall’esterno e la creazione di una “realtà progetto” parallela a quella tradizionale. Il caso di Zaghouan presenta a questo riguardo due esempi contrastanti assai significativi. Da un lato, la considerazione delle indicazioni della popolazione ha permesso di migliorare le iniziali proposte di gestione di alcune aree sommitali boschive30. Dall’altro, la zonizzazione proposta dal progetto per 27 Principali colture: grano (8-12 q/ha), orzo, avena, olive, fave, mandorle. Principali tipi di allevamento: caprini, ovini, bovini, apicoltura, pollame. 28 Un precedente importante per lo sviluppo partecipativo delle aree montane marginali (“zone d’ombra”) in Tunisia è il progetto per lo sviluppo del nord-ovest del Paese, attivato congiuntamente dall’ Office de Développement SylvoPastoral du Nord-Ouest (ODESYPANO) e dalla GTZ dal 1981, che dal 1991 ha adottato la strategia dell’Approche Participative et Intégrée. E’ tuttavia da notare che, per quanto dal 1993 esista ufficialmente una Commissione Generale per lo Sviluppo Regionale, la Tunisia resta caratterizzata da una forte concentrazione dello sviluppo economico: al 1997, solo l’1,2% del PIL è destinato al riequilibrio regionale, mentre le Regioni non hanno capacità di spesa autonoma (comun. Pers. di R.Bodemeyer, responsabile GTZ all’ODESYPANO). Lo squilibrio sta crescendo anche per le politiche neoliberiste perseguite dal Paese 29 I principali risultati ottenuti in quasi tre anni di lavoro sono così sintetizzabili: a) formazione ( di quadri e tecnici sui metodi partecipativi; di studenti della scuola superiore di Mograne; di agricoltori); b) ricerca (con l’aiuto di artigiani locali sono state realizzate e sistemate sei stazioni sperimentali per il controllo dell’erosione; sull’intera esperienza progettuale è stato realizzato un documento guida che servirà per esperienze analoghe di gestione dei bacini); c) credito (in collaborazione con ASAD è stato sperimentato con successo l’istituto del microcredito: 20.000 dinari sono stati prestati per finanziare attività generatrici di reddito in apicoltura (18 casi) ed avicoltura(10 casi); d) interventi sulle risorse fisiche (rimboschimento nella foresta di Sidi-Salem per una superficie di 122 ha, orientato secondo le indicazioni locali circa le specie da impiantare e l’individuazione delle vie d’accesso alla foresta; 100 ha di terreni privati sono state protetti grazie a “banquettes manuelles” e altri 200 ha stanno per essere identificati e sistemati; si stanno studiando le migliori modalità di sfruttamento agricolo delle acque di 4 laghi collinari; 30 ha sono stati valorizzati con l’impianto di olivi e altri 60 sono oggetto di studio per definirne una migliore destinazione d’uso; presso 31 famiglie è stato introdotto l’uso di coperchi di metallo per i forni da pane (tabouna) al fine di ridurre il consumo di legna). 30 L’iniziale proposta di rimboschimento della sopra citata foresta di Sidi-Salem (Pinus halepensis) è stata rivista alla luce delle esigenze pastorali della popolazione, con l’introduzione di una piantumatura diversificata, anche con specie foraggere (Acacia cyanophylla), e con una meno restrittiva limitazione dell’accesso all’area rimboschita. raggruppare i douar in microregioni funzionali31 si è dimostrata inefficace, proprio per non aver tenuto adeguatamente conto delle funzioni proprie delle strutture territoriali precedenti - peraltro già pesantemente trasformate dalla fase di collettivizzazione della politica nazionale degli anni ’70 - tanto che per la programmazione si è dovuti ridiscendere a livello di douar. La questione della strutturazione territoriale, e in particolare la delimitazione delle maglie, si mostra una delle più impegnative per quanto riguarda le relazioni tra partecipazione, progetto e territorio. Un altro aspetto cruciale è dato dalle relazioni tra l’approccio partecipativo e la sua istituzionalizzazione. Si è già visto come questo rappresenti uno degli obbiettivi della terza fase attualmente in corso, assolutamente necessario per l’iteratività del ciclo di progetto. Va tuttavia rimarcato che esso si scontra con un’articolazione verticistica dell’Amministrazione e della Pianificazione regionale, con cui il progetto si trova ad interagire. I rapporti con l’Amministrazione regionale e centrale, con le Organizzazioni di Partito e con la politica economica neoliberista del Paese32 caricano la questione di una forte valenza sociale interna, cui si aggiunge il problema dei rapporti tra le ipotesi innovative delle Agenzie di cooperazione internazionale e le strutture consolidate del governo territoriale. Si tratta, insomma, di affrontare il problema del rapporto tra decentramento e delega: è una questione di scala, ma anche di spostamento del baricentro dei poteri decisionali, che assume un significato strategico in vista di un passaggio del progetto dalla FAO alle organizzazioni locali. Infine, va rilevato come la partecipazione nell’ambito dei progetti PRA sia un metodo e non un fine. Ogni metodologia partecipativa si configura come un processo organizzativo nel quale obiettivi, contenuti e azioni sono legati ai bisogni individuali, dei gruppi e collettivi: il metodo dunque, anche in un'ottica di ottimizzazione delle risorse, va fatto con le persone. E’ questo un discorso di complessa attuazione soprattutto riguardo a quanto sopra detto sulle dimensioni di costruzione istituzionale e di autoorganizzazione proprie del progetto; dimensioni che devono essere mantenute ferme, ma che tuttavia devono trovare riscontro nella capacità di raggiungere con efficacia gli obbiettivi di sviluppo. In questo senso, rimangono fondamentali le azioni dell’outsider come facilitatore dei processi di mutamento, come pure programmi di ricerca-intervento che sappiano introitare nel progetto la conoscenza approfondita delle componenti naturali, sociali ed economiche delle condizioni di partenza ed in evoluzione. Si tratta qui di confrontarsi con una nuova attorialità risultato dei processi territoriali, che il PRA considera per la gestione negoziata delle diverse poste in gioco (uso delle risorse, politiche di sviluppo e di finanziamento, ecc.), ma che trova nella realtà difficoltà legate alla strutturazione sociale 33. Per una lettura geografica del PRA Nato dal contributo convergente di apporti disciplinari differenziati, il PRA ha visto il decisivo coinvolgimento delle scienze sociali, che ne hanno rafforzato l’impalcatura teorica e, soprattutto, l’assetto metodologico. Psicologia sociale, sociologia dei gruppi e delle organizzazioni, pedagogie dei lavori di gruppo, scienze dei controlli di gestione, che costituiscono ormai componenti essenziali dei curricola formativi nel campo dello sviluppo, al pari dei più consolidati corsi economici ed antropologici, si può dire siano alla base della costituzione metodologica stessa del PRA. 31 Il progetto ha proposto la suddivisione del territorio in Unités Analyse et Programmation (UAP) raggruppanti alcuni douar sulla base di alcuni parametri di affinità (relazioni sociali, attività economiche, accesso, ecc.). 32 Attivata nel 1986 secondo i dettami della FMI (Belhedi, 1992), questa politica ha costituito il fondamento del VII Piano di Sviluppo (1987-91) ed è attualmente in piena attuazione anche per i problemi di aggiornamento strutturale dell’economia legati all’associazione all’UE (Garzelli, 1996). 33 Si è, per es., appurato che la partecipazione al progetto non ha coinvolto i grandi proprietari dell’area, che hanno già accesso a vie autonome per risolvere i problemi di degradazione dei versanti e di contrazione delle rese ( terrazzamento, innovazione agricola, ecc.) La geografia non ha ancora affrontato espressamente la questione. Non mancano certo alcuni rilevanti contributi alle tematiche implicitamente trattate dal PRA: possiamo ricordare la riscoperta dei valori del “luogo” da parte della geografia anglosassone dalla metà degli anni ’70, sia sul versante umanista ed identitario (Relph, 1976; Porteous, 1977) che su quello più propriamente politico del dibattito sul “local state” della geografia radicale (Clark e Dear, 1978; Burnett e Taylor, 1981), che, infine, sul valore dei sistemi locali nello sviluppo economico (Predaaa). Non dobbiamo poi trascurare il notevole contributo dato, sul finire degli anni ’70, alla riflessione relativa alle modalità ed al ruolo della ricerca sul terreno dal gruppo di Geografia Democratica (Canigiani, Carazzi e Grottanelli, 1981), che ha anticipato alcuni dei temi analoghi affrontati dal PRA. Tuttavia, un confronto diretto ed esplicito non si è ancora verificato34. In questo senso si può dire che la geografia sconti una già da tempo ricordata scarsa partecipazione al dibattito sulle nuove tendenze dalla problematica dello sviluppo (cfr. Corna). Come contributo all’avvio della discussione, proponiamo qui alcune considerazioni sui rapporti tra PRA e geografia, che riprendono le problematiche sopra evidenziate nel progetto tunisino. PRA e strutture territoriali Proprio perché il PRA è orientato all'autopromozione, nelle comunità, della consapevolezza di un progetto territoriale originale che si costruisca come progetto riproduttivo (“un sapere riflessivamente oggettivato”, direbbe J. Habermas), esso si confronta con un ambito di particolare significato nella geografia, quello relativo alle strutture territoriali. Si tratta di un’operazione fondamentale di ogni intervento di territorializzazione (Raffestin, 1981; Racine e Raymond, 1983), decisiva proprio per garantire efficacia al progetto territoriale del gruppo sociale, e definibile (Turco, 1988) come la creazione di contesti di senso: campi operativi caratterizzati da una finalità, mediante i quali ritagliare ambiti a complessità ridotta rispetto a quella ambientale. Le strutture territoriali si compongono (Raffestin, 1981) di elementi eterogenei di base (nodi), nella realtà artefatti materiali o simbolici. I nodi sono organizzati in reti, che veicolano le informazioni e l’energia attraverso i quali le strutture vivono. Le informazioni e l’energia necessarie all’esistenza della struttura sono governate all’interno di maglie, che dichiarano il risultato dell’applicazione di senso dell’azione territorializzante. In altre parole le maglie configurano il confine d’ordine delle strutture territoriali, individuando delle discontinuità di complessità. Ogni struttura territoriale viene creata, si è detto, con una finalità prima (“funzione costitutiva”: Turco, 1988); essa viene ad assumere, tuttavia, delle finalità altre (“funzioni accessorie”), che ne garantiscono la multistabilità e la sopravvivenza anche nel caso in cui quella costitutiva venga depotenziata. Alla luce della loro autoreferenzialità, le strutture territoriali non vivono per assolvere ad una funzione ma assolvono ad una funzione per esistere. E quindi l'esecuzione di un progetto non è il fine ma il mezzo attraverso cui la struttura vive. Tutti questi ambiti di senso - le strutture - sono dunque omologhi: essi puntano, pur con forza diversa, all’autoriproduzione (“mancanza di senso”) e sono collegati da relazioni di interdipendenza. Inoltre, essi si rielaborano continuamente, arricchendosi delle diversità, ridefinendo continuamente il rapporto dentro-fuori, proprio al fine di mantenersi. Essi creano, cioè, il senso necessario a gestire la complessità in continua evoluzione. E’ da notare che le strutture territoriali non necessariamente si collocano in maniera giustapposta nello spazio, ma possono essere simultaneamente presenti nello stesso spazio; ogni nodo, quindi, può contestualmente appartenere a più strutture: può assumere significati molteplici, alla luce della finalità della struttura considerata, mentre lo stesso spazio può ospitare strutture territoriali diverse. 34 Per quanto ci è noto, i due fondamentali libri di R.Chambers (1983 e 1997) non hanno finora avuto alcuna recensione nelle principali Riviste internazionali di settore e non ci è stato possibile trovare alcun articolo geografico che faccia espresso riferimento al PRA. Questo è il territorio - multifunzionale, autoorganizzato, flessibile - prodotto dalle comunità oggetto del PRA. In qualche modo esso esprime relativamente ad un luogo, ad un sapere territoriale preciso, ad una forma di governo del territorio, la dimensione geografica di quello che possiamo definire il "contratto formativo"35 discusso, mediato e condiviso all'interno della comunità, che gli affida il proprio processo di riproduzione: “il patto dell’uomo con il suo mondo” (Yi-Fu Tuan, 1974). Come abbiamo invece visto, nei progetti di sviluppo, anche se impostati al PRA, può succedere che razionalità operative esterne si sovraimpongano al territorio, creando nuove strutture territoriali debolmente compatibili con quelle preesistenti. E’ una condizione che spesso si verifica nei progetti di sviluppo e che porta al ricordato scollamento tra progettualità e risposta sociale, nonché alla ridotta efficacia del progetto stesso e al suo depotenziamento una volta ritiratosi l’attore esterno. Mantenendo la chiave di lettura sin qui adottata, l’incompatibilità tra le strutture del progetto e la realtà territoriale preesistente può essere interpretata come un’inadeguata produzione di senso, che assume aspetti diversi. Una prima modalità è data dall'eccessiva semplificazione disegnata dal progetto: esso ritaglia strutture territoriali semplificate e a elevato impatto, legate a finalità congiunturali, univoche e fortemente distruttrici di complessità. Queste sono facili da realizzare (ecco perché si propongono) ma sono anche molto fragili. Esse, infatti, polarizzate su una funzione specifica, in caso di fallimento non hanno funzioni accessorie con le quali "garantire" la propria esistenza, come invece avviene con la multifunzionalità delle strutture tradizionali. Mentre il douar è una struttura territoriale multifunzionale e ad alto valore simbolico (fissa cioè molteplici valori sociali largamente condivisi), l'UAP, creato dal progetto, è una struttura specificatamente performativa: fissa dall’alto una convenzionalità razionalmente giustificata e accertata empiricamente (l’efficienza dei servizi). Il territorio vede così sgranarsi le sue componenti valoriali in favore di quelle funzionali: serve piuttosto che significa. I bisogni e le aspettative della comunità, nonostante gli intenti dichiarati, non possono venire soddisfatti dall'intervento territoriale del progetto, che risulta caratterizzato da condizioni talmente vincolanti da non essere correggibili. Esso richiede di venire sostituito da una nuova logica di azione. Un caso diverso è dato dalla creazione di strutture territoriali eccessivamente complesse: l'intervento crea una ridondanza di possibilità rispetto a quelle necessarie al gruppo sociale per vivere e riprodursi e soprattutto rispetto alle capacità di governo del gruppo stesso, esasperando il problema delle scelte territoriali ai fini della riproduzione. Queste strutture alterano i consolidati rapporti tra efficienza (relazione tra il risultato e le risorse) ed efficacia (relazione tra il risultato e l’obiettivo) nella gestione delle risorse, privilegiando la prima (Branca, 1995). La modernizzazione proposta accantona i saperi territoriali tradizionali, ritenuti inadatti a perseguire il risultato, cioè l’uso efficiente delle risorse, ma la modernizzazione stessa non è gestibile da parte della comunità, riducendo quindi l’efficacia del progetto. Nelle strutture create, inoltre, il gruppo sociale diventa funzionale alla nuova territorializzazione, decisa altrove nella sua logica nonostante le affermazioni di principio e di intenti, anziché esserne il protagonista. Il progetto usa in qualche modo la popolazione per produrre nuovo territorio, che diventa la vera posta in gioco dell’operazione: “la geografia assume il corpo sociale nel suo proprio ambito autoreferenziale” (Turco, 1988:154). Indubbiamente la razionalità territorializzante di ogni progetto è particolarmente esposta al rischio di eccesso di territorializzazione: selezionando alcune emergenze pur reali e pressanti, ne propone una soluzione territoriale per la quale tenta poi di ottenere una giustificazione sociale. “Projet Inter-Régional pour la Conservation et le Développément à Caractère Participatif des Hautes Terres”: la scelta di attivare il progetto, in questo come in altri casi, incorpora già nel nome il risultato cui si vuole arrivare. Il progetto è dunque un’ “immagine del mondo”, che, ricorda J. Habermas (1973:174), “in quanto soddisfa 35 Per “contratto formativo” intendiamo una strategia attraverso cui i gruppi esprimono “quali condizioni e quali garanzie richiedano per entrare in rapporto con gli altri, con chi desiderano confrontarsi e chi escludono” (Branca, 1996: 60). le esigenze di legittimazione del potere, è sempre ideologica”. La mediazione è lo strumento usato per la legittimazione di un progetto territoriale già predefinito: è uno dei miti del rapporto tra potere e comunità territoriali (Branca, 1996). Il tentativo del progetto tunisino di introdurre nuovi sistemi di regolazione del pascolo, con conseguenti vincoli spesso disattesi dalle comunità locali in quanto lontani dalla pratiche e dalle visioni del mondo consolidate, può essere un esempio significativo. Il progetto, così, produce e usa il territorio investendone i significati materiali e stravolgendone in qualche caso quelli simbolici, fino al paradosso di ritrovarsi svuotato di sostanza sociale e di legittimazione. E' da notare, tuttavia, che nello stesso progetto si possono contemporaneamente manifestare interventi diversi, di eccessiva semplificazione ed eccessiva complessificazione dei sistemi territoriali. Sembra di poter riconoscere nel progetto tunisino un esempio emblematico di questo paradosso: da un lato esso ipersemplifica il territorio, proponendosi come ipo-offerta (UAP); dall'altro esso complica il territorio (regolazione del pascolo), costituendosi come iper-offerta. Ne risulta una struttura sicuramente plausibile, legale e teoricamente più efficiente, ma tuttavia non legittimata dalle procedure di costruzione di senso da parte della comunità. Come dunque realizzare la connessione tra l’intrinseca finalità di ogni progetto, portatore di una logica territoriale improntata razionalmente al cambiamento in base a problemi reali, e le comunità locali, portatrici di un sistema territoriale nel quale si intrecciano determinazioni ambientali, funzionali e valoriali, aperte cognitivamente ma chiuse normativamente (Turco, 1988:145)? La questione delle strutture territoriali, del “découpage”, manifesta qui tutta la sua valenza strategica. Il confine traduce e manifesta il potere che lo ha delimitato e che lo demarca. E’ espressione del progetto politico, delle intenzioni e della volontà che l’attore possiede, ma ne misura anche la portata, appunto il limite (Raffestin, 1987). Si tratta di affrontare, a ben vedere, la questione del rapporto tra “interno” ed “esterno”, tra inclusione ed esclusione, che deve fondare ogni sostenibile concezione del locale. Questione che non può essere certo risolta con la contrapposizione netta tra le due dimensioni e con la conseguente affermazione della scomparsa del locale di fronte alla pervasività delle tecnostrutture territoriali della globalizzazione, ma che più efficacemente può venire affrontata sulla base di una concezione dinamica del “luogo”, all’intersezione tra universale e particolare (Entrikin, 1991). Sembra essenziale, per ogni progetto basato sull'agire territoriale che si ponga come “medium (…) orientato verso l'intesa” (Habermas, 1991:298 segg.), riflettere sul significato delle strutture territoriali tradizionali che alimentano il circuito della riproduzione sociale, incorporandone valori, bisogni, norme e comportamenti, e adottare un'ottica che sostituisca al paradigma della conoscenza di oggetti quello dell'intesa tra soggetti che parlano ed agiscono. A questo punto diventa fondamentale la questione della comunicazione. E’ da notare che la comunicazione delle strutture territoriali tradizionali spesso è debole, di difficile lettura dall’esterno; invece, quella delle strutture territoriali di progetto è forte e pervasiva. La costruzione di una struttura territoriale adeguata richiede che le due voci si ascoltino e si confrontino, al fine della realizzazione di un territorio condiviso. Troppo spesso, invece, la comunicazione tra le due voci avviene solo attraverso una ricognizione dei bisogni espressi individualmente. A questa fase non fa seguito un’azione di intesa tra soggetti, che porti a ridefinire i problemi e a produrre una conoscenza ed una consapevolezza collettive36. La conoscenza e l’intervento vengono ideati, progettati e realizzati in modo separato. Risulta a questo proposito fondamentale un lavoro sulle frontiere di comunicabilità tra le strutture, che porti all'adozione di confini flessibili e continuamente ridefinibili, in modo da ricomporre adeguatamente i contesti di senso, i modelli interpretativi e di relazione, le competenze acquisite nel processo di socializzazione che comunità e attori del progetto elaborano incessantemente. 36 Il “paradigma dell’intesa” secondo Habermas (1991) si configura come il passaggio da una logica soggettocentrica ad una comunicativa attraverso un sapere procedurale effettivamente praticato integrando le diversità. Multiscalarità e pertinenze territoriali Gli studiosi del PRA concordano sull’individuazione della scala locale come quella più idonea affinché la comunità possa esplicare con forza la sua strategia di sviluppo. In questo senso il Pra si allinea con le sopra citate tendenze emerse a partire dagli anni ’80, il decentramento amministrativo e la privatizzazione, ma anche con la ricordata esigenza di una nuova socialità che le possa sostenere. La questione geografica di rilievo è quella della scala, fondamentale per ogni analisi territoriale ma, paradossalmente, come ricorda J.B. Racine (1981:142), ancora troppo poco considerata a livello teorico. La scala non è neutra. Essa ha una sua propria pertinenza (Harvey, 1969; Racine, 1981) che significa essenzialmente due cose: ogni scala individua un aspetto di una questione territoriale e questa si esercita con modalità diverse a scale diverse. La scala di osservazione crea il fenomeno”, ci ricorda, sulla scorta di C. Guye, Berdoulay (1991:119). Proprio per questo dobbiamo essere ben consci che selezionare la scala locale implica considerare i problemi che alla scala locale si manifestano o quanto meno la dimensione locale dei problemi. “La scala è mediatrice delle configurazioni osservate” ma anche “mediatrice di una pertinenza, mediatrice di un’intenzione, mediatrice dell’azione, mediatrice in definitiva dei valori, del potere e delle preoccupazioni umane” (Racine, 1981:142). Il fatto è ben evidente in ogni progetto di PRA, sopra il quale si collocano diversi strumenti di azione territoriale - le strutture politico-istituzionali, i progetti nazionali, i piani economici - nei confronti dei quali la sua azione ha scarse capacità di incidere. Sembra ci sia un “tappo” dimensionale che limita la sua operatività: il meccanismo top-down, seppure rifiutato a scala locale in ambito PRA, funziona ancora per quel che riguarda i quadri generali di riferimento. La questione è ben presente nelle preoccupazioni attuali dell’approccio partecipativo, che si pongono pertanto il problema dello scaling-up (Blackburn, 1998) e cioè di un tentativo di risalire attraverso i livelli gerarchici territoriali al fine di realizzare “un’espansione dello sviluppo con impatto cumulativo”, nella quale alle procedure partecipative venga riconosciuta, oltre alla capacità di operare sui processi decisionali a livello orizzontale (all’interno del gruppo di riferimento), anche quella di incidere a livello verticale (verso le istituzioni centrali). La partecipazione deve essere spazialmente pervasiva e, come afferma Chambers (1997), “non può essere confinata ad un low level ghetto”. Secondo i propugnatori dello scaling-up, il decentramento amministrativo si configura come la procedura tecnica più adatta al potenziamento dei sistemi locali, in particolare quando l’unità amministrativa coincida con il luogo decisionale della comunità (Blackburn, 1998) 37. Il decentramento risponde all’esigenza di compensare la perdita di potere dello stato sociale e si inquadra nei nuovi modelli di welfare mix al cui interno si sperimentano i processi di costruzione di un sistema di welfare municipale, costituito da un sistema di scambi economici fondati sul protagonismo delle comunità locali. Qui si ritrova in parte la teoria della razionalità collettiva dei teorici comunitaristi (Etzioni, 1988) ma nel contempo la si supera aggiungendo, all’attributo di unità decisionale della comunità, quella variabile territoriale che la connota come vettore di cambiamento istituzionale. Potremmo dire che le “comunità geografiche” oltre al valore aggiunto politico producono un importante valore aggiunto territoriale. La legittimazione di queste procedure avverrebbe attraverso l’istituzionalizzazione della partecipazione verso scale progressivamente più piccole. E tuttavia, come ricorda D. Harvey richiamando il sopra citato problema di scala, le “inferenze fatte a proposito di un livello (spaziale) non possono essere estese, senza operare robuste assunzioni, a diversi livelli” (1969: 352). Infatti, i rapporti all’interno della comunità sono fondati su relazioni territoriali tra membri che condividono gli attributi complessivi del gruppo, norme spesso non scritte che pervadono il sistema territoriale comunitario. E’ la dimensione esistenziale cui fa cenno, per le grandi scale, J.B. Racine 37 Un esempio interessante è rappresentato dalla Ley sobre la participation popular promulgata in Bolivia nel Maggio del 1994. La legge trasferisce autorità e risorse a 311 municipalità e crea l’ambito giuridico che permette alle istituzioni locali di partecipare alle attività di pianificazione, di gestione e di valutazione dei progetti (Blackburn e De Toma, 1998aaa). (1981:145). E tuttavia questa dimensione non coincide con politiche determinate gerarchicamente da sistemi di rango superiore38, alle scale minori, (Stato, economia, globalizzazione, ecc.), in cui prevale invece la finalità produttivista (Ibid.), improntata cioè alla sopra ricordata razionalità delle scelte. L’eccesso di delega alla comunità, come la privatizzazione di risorse strategiche, rappresenterebbe pertanto per lo Stato una minaccia alla propria autonomia, un flusso che, impedendo il pieno esercizio delle funzioni accessorie (economiche, socio-culturali, ecc.), può mettere a repentaglio anche le funzioni costitutive (politiche) sulle quali si basa la sua esistenza. Vi è dunque un’estrema cautela nel trasferimento di poteri forti alla comunità: l’obiettivo dell’autoriproduzione della struttura statale prevale sul conferimento di pericolose autonomie alle comunità locali (Bicciato, 1995). E’ la questione della posta in gioco che la geografia politica identifica nel controllo di popolazione, territorio e risorse (Raffestin, 1981). Si vanno così configurando quelle asimmetrie territoriali che relegano gli attori locali ad operare in un sistema chiuso o, per meglio dire, aperto solo ai flussi informativi provenienti dalla scala superiore. Si tratta ancora una volta di limitare le pertinenze territoriali della comunità e del ripiegamento verso una monoscalarità tipica dei sistemi centralizzati, mentre sembra verificarsi un trasferimento di competenze limitato alla gestione di risorse non ritenute strategiche per la riproduzione dell’apparato statale. L’istituzionalizzazione dell’approccio partecipativo non deve risolversi in un più minuto controllo delle comunità locali da parte di istituzioni locali verso cui lo Stato abbia effettuato un certo decentramento, una “istituzionalizzazione proclamata” in cui non emerga una reale delega di poteri, un vero processo di scaling-down. Ciò infatti può risolversi in un rischio di delegittimazione dell’intero processo, con una frustrazione delle energie creative tipiche dell’agire comunitario. Accanto a questi rischi vi è però anche una grande opportunità: inserire le procedure del PRA in contesti istituzionali può infatti portare ad una migliore identificazione della domanda sociale e ad una riorganizzazione territoriale orientata verso un incremento di sviluppo e ad una riduzione delle differenze socio-spaziali. Qui si gioca il rapporto tra centralizzazione e decentramento, tra Stato e società, tra partecipazione sostanziale e liturgia del PRA: la partecipazione deve avere come corrispettivo l’empowerment e non un semplice decentramento di alcuni poteri e ciò richiede un’effettiva democratizzazione, un nuovo contratto di cittadinanza. Entra in gioco, tra governo centrale e comunità locali organizzate, un elemento essenziale nella pianificazione territoriale: la negoziazione, processo tipicamente multiscalare e multiattoriale, attraverso cui pervenire ad una effettiva mediazione territoriale. Il principio di negoziazione per avere successo deve ispirarsi ad una visione contrattualistica della politica e delle istituzioni che non consideri lo Stato come unico garante dell'interesse individuale39. Multiattorialità e negoziazione Come è chiaramente emerso dalla ricostruzione della sua impostazione metodologica, il PRA attua un sostanziale rovesciamento delle normali propensioni di ricerca nell'ottica di una rivalutazione della periferia rispetto al centro e della popolazione rurale rispetto a quella urbana. La dimensione locale assume così un ruolo forte, acquisendo autonomia rispetto ad altre scale quali quella regionale o quella statale: una dimensione che si esplica concretamente come comunità locale o, più spesso, come villaggio. Tuttavia, nel momento in cui il livello locale viene preso in carico dalla progettualità statale, è da essa "pianificato", reso omogeneo ad un disegno che lo travalica, lasciandolo quasi come sfondo inerte, non in grado di interagire, 38 Ci riferiamo qui ai rapporti tipici di un sistema gerarchico (Mesaroviç, 1980), in cui le componenti sono tra loro collegate attraverso relazioni non egualitarie e dove, quindi, vi è la tendenza da parte di ogni singolo attore a migliorare la propria posizione cercando di affermare il proprio sintagma territoriale. 39 Rawls (1971) teorizza che chi contrae il patto - che qui chiamiamo territoriale - riconosca due principi fondamentali: il primo, che determina e definisce nella vita associata l'aspetto dell'eguaglianza, il secondo che legittima e provvede a quello della differenza. di rappresentare esigenze e sensibilità diverse. Normalmente quando si pensa al territorio si pensa allo Stato: lo Stato moderno è l’attore privilegiato dei processi di territorializzazione (Croce e Pase, 1995:434). Attraverso la definizione delle sue maglie amministrative, attraverso la costruzione di reti infrastrutturali, attraverso il controllo delle risorse, lo Stato disegna nuovi scenari, impone un assetto territoriale che per riprodursi ha bisogno proprio dello Stato, instaurando così un processo di autolegittimazione. Questo è tanto più vero nei PVS, dove lo Stato produce territorio attraverso i progetti di sviluppo, divenendo in tal modo essenziale all'interno dei processi riproduttivi delle società locali(per un esempio, Croce et al., 1986). Nell'inversione del punto di vista proposta dal PRA, l'approccio partecipativo sposta l'attenzione dei ricercatori dalla centralità autoevidente dell’attore Stato a quella degli attori locali. Quest'inversione comporta però alcuni rischi: può essere facile infatti scivolare inavvertitamente in una semplificazione eccessiva che vede la comunità locale, il villaggio, come l'unico attore rilevante, quantomeno come il bersaglio privilegiato degli sforzi di comprensione, con il rischio di lasciare sullo sfondo altri attori e altre poste in gioco. Isolare la dimensione della comunità locale non solo priva l'analisi di altre voci significative, impedendo forse la comprensione delle dinamiche conflittuali presenti, ma può portare ad una "retorica" della comunità, quasi a pendant della retorica dello Stato, che tende a sopravvalutare l'identità locale ed i legami relativi, a scapito di una visione magari meno risolta ma più congruente con la complessità fattuale delle politiche di sviluppo. Le relazioni economiche, politiche, culturali di una comunità locale travalicano, spesso, i ristretti suoi confini, attivando ad esempio percorsi migratori (come è il caso di Zaghouan). Stato e comunità locali sicuramente esercitano un ruolo di rilievo nel gioco territoriale: a ben vedere però questi due attori non sono gli unici, anche se essenziali, protagonisti nell'orientare e condizionare scelte ed opzioni. Ben più articolato è lo scenario territoriale, su cui intervengono molte e differenziate voci passibili di altrettanto molteplici interpretazioni. Lo stesso termine "attore" contiene infatti livelli e tipologie variegate. Per quanto riguarda nello specifico la realtà tunisina può aiutare a comprendere questa effettiva polisemia un contributo di L. Ben Salem (1998) che ripercorre trent'anni di studi sociali nel Paese, proprio alla luce delle diverse accezioni del termine "attore sociale". L'A. individua tre filoni fondamentali, legati all'evoluzione della società tunisina e del pensiero sociologico che tenta di interpretarla: l'attore come vettore di cambiamento sociale, l'attore come forza contestatrice e l'attore come portatore di strategie. Il primo filone prende avvio negli anni '60 ed è centrato sulla problematica dello sviluppo, con l'utilizzo di modelli di tradizione funzionalista, marxista e strutturalista. Ciò che conta è capire gli ostacoli che rallentano lo sviluppo e, in questo orizzonte, l'attore sociale indagato è essenzialmente quello collettivo che può mutare la società, un attore quindi di cambiamento anzi un vettore di modernizzazione. Il secondo filone, pur avendo i suoi prodromi nei tardi anni '60, si afferma con forza e caratterizza gli studi sociali negli anni '80. I movimenti sociali, quali il sindacalismo, il movimento islamista e il movimento femminista, sono i principali attori della contestazione e si pongono in un'ottica di rottura rispetto alle tendenze predominanti nella società. Infine negli anni a noi più vicini si sviluppa un interesse esplicito per gli attori sociali, quali anche i piccoli gruppi e gli individui, intesi come portatori di strategie lette all'interno del gioco delle loro interrelazioni, sottolineando gli spazi di libertà in cui essi possono esprimersi ed osservati in un'ottica di analisi microsociale. Questa veloce incursione nella molteplicità delle interpretazioni assegnate al termine "attore" stimola i geografi a riconoscere e studiare gli attori attraverso il loro specifico rapporto con il territorio. La geografia può proporre allora un suo punto di vista: l'attore come portatore di un progetto territoriale o - per usare la terminologia di C. Raffestin (1981:149-55) - l'attore sintagmatico, che genera territorio a partire dallo spazio. Più concretamente, in un approccio metodologico come quello del PRA, la geografia può fornire un efficace contributo per accrescere la capacità di lettura della multiattorialità che innerva il territorio. In effetti, il territorio può essere letto come campo di relazioni tra gli attori presenti, dove ogni attore è portatore di una sua specifica razionalità territorializzante, di un suo più o meno esplicito progetto di intervento e di controllo sul territorio. Il primo attore preso in considerazione dall'approccio partecipativo è, come ben si è visto, la comunità locale. Ma essa non è omogenea, compatta, e presenta "territori interni": gerarchie e stratificazioni che selezionano centri e periferie. La "mappatura" di questi territori interni non si deve fermare alle élite locali, che risulteranno senz'altro più visibili, ma deve anche indagare i margini dell'intero sistema. La comunità locale ha una sua fragilità in quanto la territorialità a cui dà corpo si manifesta in forma implicita, non utilizzando i linguaggi espressivi dello Stato. Ma al tempo stesso ha una sua forza che consta nel radicamento, nella possibilità di resistenza sui tempi lunghi, e come tale è portatrice di una "merce" preziosa: il consenso, senza il quale ogni progetto che la coinvolga troverà continui ostacoli, difficoltà sottili che però possono portare all'insabbiarsi dei processi di cambiamento. Anche lo Stato, pur dotato di una apparente compattezza, presenta "territori interni". Infatti le sue esplicitazioni istituzionali e amministrative, volte che siano alla gestione di servizi o al controllo, vengono delegate a organismi e persone con una propria storia, un proprio modo di sentire, non sempre congruenti le une con le altre, che rendono anche l'agire statale meno monolitico di come vorrebbe rappresentarsi. Lo Stato, inteso materialmente nella molteplicità dei suoi corpi amministrativi, ha una sua modalità di relazione con il territorio, che, se è forte dal punto di vista delle risorse e della visibilità del progetto, si dimostra più fragile nel suo concreto adattarsi alle pieghe dei diversi "locali", manifestando spesso un deficit di informazione e di legittimazione. Le grandi organizzazioni internazionali giocano un ulteriore importante ruolo nell'orientamento, nella selezione e nella realizzazione dei progetti di sviluppo, che vanno ad investire le periferie. Anche gli attori economici, nell'indirizzare gli investimenti secondo le logiche produttive del mercato, cooptano od emarginano segmenti territoriali, condizionandone decisamente le prospettive di sviluppo. Lo stesso progetto partecipativo è un attore sul territorio, lo interpreta, lo rappresenta, cerca vie di accesso e propone strategie diverse di soluzione delle problematiche locali. E' da questa articolata multiattorialità che nasce la conflittualità: ogni attore infatti ha sue strategie, suoi obiettivi che vanno a scontrarsi per forza di cose con quelli degli altri. Diversi gli obiettivi, ma unico lo scopo fondamentale cercato da ogni attore: durare, sopravvivere, salvaguardare la propria identità nel tempo e sul territorio (Turco, 1988:125). La "razionalità limitata" degli attori, ovvero l'ine luttabile processo di assolutizzazione del proprio punto di vista, rende problematica la soluzione dei conflitti e la selezione delle "migliori risposte tra quelle possibili". Se, come fortunatamente succede nella maggioranza dei casi, nessun attore, nemmeno lo Stato, si può imporre totalmente sugli altri, cancellandone la capacità di resistenza, allora la strada obbligata da percorrere è la negoziazione, ovvero la predisposizione di percorsi di contrattazione degli obiettivi e delle strategie tra gli attori. La razionalità limitata può diventare produttiva quando si innesca un processo comunicativo e cumulativo tra gli attori. Da questo punto di vista, il progetto partecipativo può proporsi come il catalizzatore del processo negoziale se: - facilita l'esplicitazione della territorialità locale, in modo comprensibile per le strutture statali; - traduce e stempera la rigidità della progettualità statale, rendendola adattabile alle singolarità del locale; - assume le diverse "razionalità limitate", non attraverso un "sovra-progetto" ma piuttosto diventando luogo di mediazione. Bibliografia B. BARRAQUÉ, Les politiques de l’eau en Europe, Paris, La Découverte, 1995. A. BELHEDI, Société, éspace et développement en Tunisie, Univ. de Tunis, Public. De la Fac. De Sciences Humaines et Sociales, 1992. L. BEN SALEM , “Le statut de "l'acteur social" dans la sociologie tunisienne”, Correspondance, Bulletin d'information scientifique, IRMC, 49 (1998), pp. 3-9. V. BERDOULAY, Parole e luoghi. 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