pra e geografia: territori di convergenza

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pra e geografia: territori di convergenza
Pubblicato in: Rivista Geografica Italiana, CVI, f.1, mar. 1999, pp. 1-31
PRA E GEOGRAFIA: TERRITORI DI CONVERGENZA
Bertoncin M.*; Bicciato F.*; Corbino A.**; Croce D.*; De Marchi M.**; Faggi P.*; Pase A*.
*Dipartimento di Geografia; Università di Padova;
** Dottorato di Ricerca “Uomo e Ambiente” – Università di Padova
La storia ormai cinquantennale delle politiche di sviluppo - e del comparto accademico che è in uso
definire come Development Sciences - costituisce un ottimo esempio di quello che, con C. Raffestin,
potremmo definire un processo fondato su una “assiomatica comandata dal carattere probabilista e
necessariamente discontinuo dell’azione“ (1981:151). Vi sono infatti andati di pari passo, saldandosi e
sostenendosi reciprocamente, assunzioni di valore e adeguamenti utilitaristici, costruzioni concettuali e
dispiegamenti retorici, processi di riflessione critica e routine metodologica. Emblematico esempio di questa
materia complessa e polivalente, il PRA (Participatory Rural Appraisal: Approccio 1 Rurale
Partecipativo) domina e pervade, da una decina d’anni, il campo teorico e pragmatico dello sviluppo soprattutto rurale, ma non solo - rappresentando la cifra costante di progetti e di piani d'azione, per le
grandi Agenzie internazionali come per le piccole Ong.
"Il PRA è una famiglia sempre più numerosa di approcci e metodi per mettere in grado la
popolazione locale da un lato di condividere, potenziare ed analizzare la propria conoscenza della vita, e
dall’altro di pianificare, realizzare, controllare e valutare": questa definizione, proposta da uno dei massimi
esperti dell’argomento (Chambers, 1997:102), sintetizza ed evidenzia, nella sua sincretica empiricità, i
diversi piani di pertinenza. Siamo di fronte ad un designatore polisemico e magmatico (“famiglia sempre più
numerosa”), nel quale si possono individuare due punti fermi. Da un alto una scelta di campo
precondizionante: “la popolazione locale”, soggetto collettivo cui dovrebbe essere conferito l’intero ciclo
progettuale, dall’ideazione alla valutazione. Si dice, a riguardo, che il PRA sia innanzitutto un atteggiamento2
di rispetto e considerazione per la popolazione locale: è la tematica dell'empowerment, ben evidente nel
famosissimo titolo che rappresenta il manifesto fondativo del PRA (Id., 19833) . Dall’altro un “ménu
metodologico”4 molto concreto e performativo, basato sui principi della ricerca-intervento.
Siamo all'interno di quell’impasto di pragmatismo fabiano e di radicalità delle scelte di cui si
compongono, dagli anni ‘70, le strategie di sviluppo “alternative” del mondo anglosassone. In mezzo, sullo
sfondo, un’opzione transdisciplinare e sistemica, con una serie di contributi di riflessione provenienti da
diversi ambiti scientifici ed operativi. Infine, il tutto è aperto all’inventiva ed al contributo originale dei singoli
operatori, secondo un atteggiamento di larga apertura e di valorizzazione della pluralità dei linguaggi, delle
1
Manteniamo questa traduzione, ormai consueta, di appraisal al posto di quella letterale (“stima”, “perizia”). In realtà, le
più recenti accezioni del PRA convalidano questa scelta, inizialmente operata con criteri di semplice assonanza. Infatti, la
partecipazione si allarga a campi ben più vasti della semplice stima preliminare, abbracciando monitoraggio e valutazione,
ricerca, apprendimento, organizzazione, ecc. Anche in inglese, si parla ormai di Approach oppure di PLA come
Participatory Learning and Action.
2
“Gli outsiders non dominano né tengono lezioni, ma facilitano, si siedono, ascoltano e imparano” (Chambers, 1997:103)
3
Del volume è finalmente comparsa, nel 1996 a cura di M.Malagoli, la traduzione italiana. Qui si fa comunque riferimento
all'edizione originale.
4
Traducibile (Ibid.:116) in tecniche di rappresentazione visuali (mappature, diagrammi di flusso, d. di Ve nn, calendari
stagionali, matrici, ecc.), metodi per interviste e campionamento (interviste semi-strutturate, triangolazioni, ecc.),
metodologie per il lavoro di gruppo (analisi cooperativa, giochi di ruolo, brain-storming, ecc.).(cfr. Pretty et al., 1995). In
generale “i metodi spostano il normale riferimento dal chiuso all’aperto, dall’individuo al gruppo, dal verbale al visuale e
dalla misurazione alla comparazione” (Ibid.: 104).
esperienze, delle sensibilità, per favorire la condivisione (“sharing”) dei saperi, ma anche delle esperienze
pratiche, tra la comunità locale e gli outsiders.
Il PRA si è sviluppato nella seconda metà degli anni ‘80, come effetto dell’interazione tra diversi
settori della ricerca applicata allo sviluppo rurale nei PVS (Id., 1997:106 segg.), che hanno fornito un
contributo ad un tempo valoriale e metodologico.
Una prima componente è la ricerca sui farming systems condotta da economisti, sociologi rurali,
geografi agrari ed agronomi in diverse parti della zona tropicale negli anni ‘70. Nell'ambito della
rivalutazione dei saperi agricoli tradizionali (Ruddle e Manshard, 1986), queste ricerche evidenziano la
razionalità e la sapienza di sistemi colturali fino ad allora considerati primitivi e poco efficienti (emblematica
la scoperta dell’intercropping), nonché la capacita di sperimentazione ed innovazione degli agricoltori5. Un
contributo, dunque, che - come successivamente il PRA - mette al centro dell’azione e della riflessione il
mondo rurale tradizionale e la sostenibilità delle sue tecniche 6.
Un altro apporto, metodologicamente molto formalizzato, è dato dall’analisi degli agro-ecosistemi
che, dalla fine degli anni ‘70, integra nel paradigma sistemico dell’ecologia la considerazione degli aspetti
relazionali e decisionali dell’ambito rurale considerato (per una presentazione: Paoletti, Stinner e Lorenzoni,
1989). Si tratta di un campo di studi transdisciplinari inizialmente sviluppatosi, ad opera di biologi applicati
ed agroecologi, nel sudest asiatico (in particolare in Tailandia), nel corso della riscoperta dei ricchi agroecosistemi dei tropici umidi e dell’evidenziazione dei limiti della semplificazione agronomica operata dalla
Rivoluzione Verde (Conway e Barbier, 1990). Questa analisi introduce un largo uso di tecniche che
entreranno poi a far parte anche del PRA: rappresentazioni visuali, osservazione per transetti, schemi di
valutazione delle innovazioni, ecc.
Anche l'antropologia sociale dei tardi anni '70 ha contribuito all'innovazione, grazie ai suoi
coinvolgimenti operativi e alle procedure speditive di indagine informale introdotte per agevolare le ricerche
applicate alla progettazione (Rhoades, 1982). E’ un contributo in cui l’assunzione di valore si fa strategia di
ricerca, evidenziando il ruolo dell'attitudine personale del ricercatore, della sua residenza in loco e
dell'apprendimento sul terreno, della flessibilità ed adattabilità della ricerca al contesto in cui si opera, delle
valutazioni qualitative.
Di diverso significato il contributo della ricerca-intervento, un paradigma scientifico ed operativo
che, sviluppatosi in America Latina nel corso della "coscientizzazione" degli anni '607, sulla scorta dei lavori
di Paulo Freire8, punta alla consapevolezza critica dei ricercatori ed alla partecipazione delle popolazioni
locali all'indagine. Applicazioni si ebbero anche in Asia meridionale e, seppur più tardi e meno estesamente,
probabilmente per il più tardivo sviluppo delle organizzazioni socio-politiche di base, in Africa9. Chambers
5
Importante, a questo proposito, la creazione di centri interdisciplinari di ricerca ed intervento per lo sviluppo integrato
(quali l’ILCA di Addis Abeba, l’ICRISAT di Hyderabad, l’ICARDA di Aleppo), nei quali trovano largo spazio ricercatori
di scienze sociali (Faggi, 1991:62).
6
Oltre alla scuola inglese dell’Eco-farming, è da segnalare, per il rigore analitico e per aver poi saputo influenzare l’azione
di grandi macchine della cooperazione quali la GTZ, il concetto della Standortgerechte Landwirtschaft di K.Egger e
P.Rottach: un’agricoltura “adeguata al luogo”, su cui costruire lo sviluppo rurale (Egger, 1982; Rottach, 1984).
7
Si tratta di attivare processi di crescita civile (sviluppo di comunità, coscientizzazione, educazione popolare, diagnostico
rural participativo) fondati sul rapporto tra educazione e presa di coscienza, con finalità che trascendono lo sviluppo di
comunità per arrivare al cambiamento sociale del Paese e dell’intero continente latino americano (Freire, 1967,1968). Negli
anni ‘60 e ‘70 la partecipazione assume i connotati della coscientizzazione delle masse impoverite e viene associata ad
una opzione ideologica socialista contro i regimi militari al potere ( Argentina, Cile, Brasile, Bolivia e Venezuela).
8
La teorizzazione di P. Freire della seconda metà degli anni '60 è legata alla sua esperienza di forma tore dei tecnici della
riforma agraria cilena (Freire et al., 1968). Oggetto centrale della critica è il modello di "extension" nord-americano, basato
sul trasferimento di conoscenze da chi sa a chi non sa; a ciò viene contrapposto il concetto di comunicazione, in cui
l'agronomo è visto come un educatore che avvia processi di coscientizzazione e di lettura critica della realtà (Freire, 1969)
9
Durante gli anni '70, lo stesso P. Freire svolge attività di consulenza per l'organizzazione dei sistemi educativi di alcuni
paesi africani, avendo contatti personali con Amilcar Cabral e Julius Nyerere (Freire, 1977 e 1980). La diffusione delle
(1997:108) sostiene che il contributo di questa esperienza al PRA è più valoriale che metodologico, in
quanto mette in crisi il tradizionale ruolo del ricercatore ed esalta invece quello dei gruppi marginali10, anche
se tuttavia non dobbiamo dimenticarne la dimensione epistemologica che risiede nel considerare
esplicitamente l'educazione come un processo di coscientizzazione.
Infine, c'è il ruolo del Rapid Rural Appraisal (RRA: Stima Rurale Rapida). Originatosi anch'esso
alla fine degli anni '70, soprattutto nel fertilissimo Institute of Development Studies del Sussex, venne
sviluppato alla metà degli anni '80 presso l'Università tailandese di Khon Kaen e l'International Institute
for Environment and Development di Londra11. La nascita del RRA è legata all'esigenza di metodi
d'indagine speditivi, che non richiedano le onerose e prolungate ricerche con questionario, peraltro molte
volte inefficaci, e che allo stesso tempo non incorrano nelle deformazioni di quello che Chambers (1983:
13-23) definisce il "turismo dello sviluppo rurale"12. Viene sviluppato dunque un insieme di strumenti
d'inchiesta (in campo agrario, micro-idraulico, nutrizionale e sanitario) che, considerati all'inizio dei ripieghi
rispetto a quelli tradizionali, assumono via via dignità ed autoconsistenza: uso preliminare ed accurato delle
fonti secondarie; interviste semi-strutturate, con lista di controllo aperta; incontri con "esperti" locali;
raccolta di racconti su casi ed eventi particolari, con verifiche incrociate; lavoro sul terreno secondo
transetti; incontri e lavori di gruppo (Id., 1997:116). Il ruolo del ricercatore è prevalentemente quello di
estrarre informazioni da un contesto rurale, con modalità di "sufficiente approssimazione e ottimale
ignoranza" e con il contributo decisivo della comunità locale. Tuttavia, nei modelli iniziali di RRA, questa
stessa comunità rimane estranea alla elaborazione ed all'uso delle informa zioni.
Nella seconda metà degli anni '80, fondandosi sui diversi contributi culturali qui sopra riportati,
l'azione congiunta di OnG e di Istituti di ricerca impegnati nel campo dello sviluppo riconsidera e mette
sotto accusa proprio questo squilibrio nei confronti delle informazioni. Le comunità rurali, si sostiene,
devono venire coinvolte in misura crescente nell'indagine, nell'elaborazione e nella valutazione dei risultati,
nella progettazione dell'azione, con un deciso potenziamento dell'atteggiamento e del comportamento
partecipativi. Progressivamente, un sapere e delle strutture si costituiscono e prendono forza, innanzitutto
nei PVS (Tailandia, Kenya e soprattutto India, dove si organizzano seminari formativi con modalità Sud Sud) e poi, raro esempio di trasferimento inverso, di qui vengono esportati verso alcuni Paesi
industrializzati, nei quali cominciano ad essere usati per la gestione di problemi territoriali13.
metodologie partecipative di origine latino-americana è stata in molti casi veicolata in Africa e in Asia da ONG di
ispirazione cristiana che avevano realizzato progetti in America latina, in stretto collegamento con il movimento della
teologia della liberazione. Un altro flusso è quello legato alla rete umanista di ispirazione socialista e al terzo-mondismo
degli anni '70 ( si pensi alle esperienze di Guinea Bissau, Capo Verde, Angola, Mozambico, Tanzania). E’ comunque solo
dagli anni ‘90 che l’Africa sta conoscendo una crescita notevolissima dell’associazionismo di base e dei processi
partecipativi (Faggi, 1999).
10
In questa prospettiva, è necessario ricordare quanto sul pedagogista brasiliano abbiano influito il pensiero del
“personalismo comunitario” di A. Mounier e le esperienze di educazione degli adulti nella Francia degli anni ‘30: questo
aiuterebbe il Chambers a considerare maggiormente, nella genesi del PRA, i contributi non anglofoni, che, nel peraltro
ottimo volume del 1997, si limitano, oltre alla considerazione di Freire, ad un fugacissimo cenno al Diagnostico Rural
Participativo ed alla Méthode Accelérée de Recherche Participative. Dimenticanza, barriera linguistica, o piuttosto la
scarsa consapevolezza che il PRA si è anglicizzato istituzionalizzandosi, in seguito alle particolare condizioni dello
sviluppo internazionale negli anni ‘90? Su questo, vedi Nota 17.
11
L’Istituto pubblica, dal 1988, il periodico RRA Notes (dal 1995, PLA Notes)
12
Sono le deformazioni frequentemente associate alle affrettate visite degli operatori: spaziale (concentrazione sulle aree
centrali), progettuale (attenzione dedicata soprattutto alle zone oggetto di progetti), personale (incontri prevalenti con
élites), stagionale (concentrazione nella stagione asciutta), diplomatica (desiderio di non offendere la comunità chiedendo
di incontrare i gruppi più deboli).
13
Si tratta di Paesi con tradizionale autogestione comunitaria delle risorse territoriali (es. Scandinavia, Paesi germanici,
Olanda)(ad es., per un’analisi dell’uso dell’acqua, cfr. Barraqué, 1995), o di recente diffusione della cultura
"communitarian" (Canada, USA, Regno Unito) (Etzioni, 1988); per una rassegna dell'approccio partecipativo
nordamericano alla gestione delle crisi ambientali, cfr. Shrader-Frechette, 1993.
Alla fine del decennio il PRA è ormai solidamente strutturato, con una diffusa manualistica (quale si
mette come es.aaa?cfr. a pag. 114 di Chamb. 1997) e l'attivazione di una rete di riferimento
internazionale14. Si costruiscono cioè le basi perché, nel corso degli anni '90, esso diventi il filo conduttore
delle politiche di sviluppo, sia per le indagini preparatorie e la ricerca applicata, sia per la formazione della
popolazione locale e degli operatori, sia per il processo di progettazione vero e proprio, dalla fattibilità alla
valutazione. Applicato dapprima allo sviluppo rurale, con una lettura sistemica della problematica15, il PRA
viene sempre più adottato, dalla metà del decennio, anche in progetti di sviluppo urbano e nella conduzione
delle organizzazioni 16, conoscendo un vero e proprio processo di istituzionalizzazione17.
Dopo una gestazione di oltre un ventennio, dunque, le strategie basate sulla partecipazione si
affermano repentinamente e globalmente in meno di dieci anni. Perché l’iniziale difficoltà e perché, invece,
una diffusione così pervasiva in questo decennio? Chambers (1997: 129) fornisce una risposta centrata sul
mutato atteggiamento personale degli operatori dello sviluppo, favorito dalla definitiva affermazione della
società della comunicazione globale, che avrebbe portato quello che prima era un pensiero alternativo ad un
livello di massa critica. Risposta solo parzialmente soddisfacente, perché resta pur sempre da chiedersi
quali siano le condizioni che hanno permesso il consolidamento di questa fluttuazione epistemologica e
procedurale in un nuovo paradigma.
Bisogna a questo proposito ricordare che, seppur il PRA si è inizialmente sviluppato in un ambito di
volontariato e di ricerca accademica, il salto di qualità per la sua affermazione si è avuto, all’inizio degli anni
‘90, quando è stato integrato nei protocolli operativi e nei proclami delle grandi Agenzie internazionali18,
fino ad assumere il ruolo di strategia “ufficiale”19 del decennio. E’ dunque opportuno, per capire questa
istituzionalizzazione, analizzare quali relazioni esistano tra i caratteri del PRA e le grandi linee del
contemporaneo contesto politico-economico internazionale, che innervano la politica delle Agenzie.
Per il suo richiamo all’azione locale, al coinvolgimento strutturale delle comunità, alla loro
autosussistenza, l’affermazione del PRA può venire certamente associata alla crisi dei modelli di gestione
statalisti (del welfare, nei Paesi industrializzati, e della “politica del ventre” nei PVS, secondo la ben nota
definizione di J.F. Bayart) ed al conseguente emergere, durante gli anni ‘80, dei processi di decentramento
e di privatizzazione, che tanto hanno segnato il decennio.
14
Nel 1996 (Chambers, 1997:114) applicazioni di PRA si contano in un centinaio di Paesi, in 30 dei quali è operante una
rete di collegamento nazionale. Ottimi repertori si trovano nei siti Resource Centres for Participatory Learning and
Action dell’IIED(http://www.iied.org/resource/index.html) ed Electronic Development and Environment Information
System dell’IDS (http://nt1.ids.ac.uk/eldis/eldis.htm)
15
Silvicoltura, conservazione dei versanti, microidraulica, pratiche di agricoltura sostenibile, mantenimento della
biodiversità sono i campi d’applicazione più frequenti, ma il PRA viene utilizzato anche per affrontare questio ni di genere
e di povertà rurale, nutrizionali e di sussistenza.
16
Per una casistica, si vedano Chambers, 1997: 120 segg., e il sito dell’IDS http://www.ids.ac.uk/pra/main.html,
17
E’ in questa fase che il PRA si “anglicizza”: rientrando nelle strategie ufficiali delle grandi Organizzazioni, assume la
lingua della “letteratura grigia” e degli Istituti più attivi sul fronte ufficiale dello sviluppo (IDS, IIED, ...) che, adottandolo,
lo reinventano (cfr. nota 10).
18
La diffusione del PRA all'interno delle Agenzie internazionali è legata all'adozione di modelli che avevano avuto
successo nell'organizzazione aziendale degli anni '80. Le rigidità del sistema fordista venivano rimosse eliminando da un
lato il management intermedio e dall'altro avviando processi di "empowerment" dei lavoratori, i quali, operando in
squadre flessibili, potevano rispondere in maniera adattativa ai cambiamenti, comunicando direttamente con il top
management (Nelson e Wright, 1995:6). Concetti come overlapping, flat organization, participation, knowledge
sharing, vengono scoperti e ottimizzati nella gestione aziendale e da lì rientrano nel mondo universitario e nelle Agenzie
internazionali (Solberg, 1997).
19
Tra le Organizzazioni che hanno adottato l’approccio partecipativo, si possono citare la FAO , con il Tropical Forestry
Programme (1991-92); l’UNDP, nel 1993; la Banca Mondiale, con la “Dichiarazione di Washington” del 1997. Da
ricordare, inoltre, l’Agenda 21 del Convegno Unced, 1992, che dedica l’intera sezione III al rafforzamento del ruolo dei
“Major Groups” della società civile nel perseguimento dello sviluppo sostenibile
E tuttavia, la valorizzazione dell’azione sociale e delle dinamiche di gruppo la legano ancor di più
all’atmosfera che nei primi anni ‘90 ha contribuito a far emergere, seppur con notevoli differenze tra Paesi
industrializzati e Paesi sottosviluppati20, la stagione dell’associazionismo, del “Terzo Settore”, delle
economie nonprofit, che in qualche modo riproponessero, passata l’ondata delle privatizzazioni purchessia,
una dimensione dell’agire sociale, della partecipazione collettiva. L’approccio partecipativo, dunque,
costituirebbe una dimensione operativa della più vasta ricerca di nuova socialità basata su flussi
informazionali21, attorno a cui costruire inedite ipotesi di sviluppo sociale, di fronte da un lato alla crisi dei
tradizionali processi di acquisizione del consenso mediante una politica di spesa e dall’altro alla difficile
governabilità dell’impatto sociale della privatizzazione neo-liberista. Sarebbe dunque un esito del riscontro –
dopo quello ormai acquisito delle State failures – anche delle market failures, quei problemi di
scompenso e di inefficienza complessiva legati all’applicazione generalizzata, repentina e tassativa delle
misure di privatizzazione a contesti socio economici strutturalmente non preparati.
Questa situazione, sicuramente integrata in quella dimensione ormai planetaria della comunicazione
cui si riferisce Chambers, costituisce la “finestra di opportunità” attraverso cui durante gli anni ’90 si sono
imposti quei protocolli di ricerca operativa che abbiamo visto essere stati in incubazione per oltre un
ventennio, attraverso cui cioè si sono realizzate l’istituzionalizzazione e la diffusione tumultuosa del PRA.
Ovviamente, diventato strategia di riferimento, il PRA si trova oggetto anche di frettolose applicazioni e di
riduzionismi metodologici, mentre addirittura non mancano citazioni furbesche finalizzate alla captazione dei
finanziamenti. Da un lato, si deve considerare questo fatto come l’ovvio scotto da pagare per il passaggio
alla sopra ricordata assiomatica “discontinua” dell’azione. Dall’altro, sembra necessaria una cosciente
operazione di controllo dei protocolli analitici ed applicativi del PRA, per verificarne la congruità tra
consistenza interna e livello applicativo territoriale.
Il “Progetto Inter-regionale per la Conservazione e lo Sviluppo a Carattere
Partecipativo delle Alte Terre” di Zaghouan, Tunisia
Il “Projet Inter- Régional pour la Conservation et le Développement à Caractère Participatif
des Hautes Terres” ( progetto FAO GCP/INT/542/ITA – Tunisie) ha come obiettivo la promozione e il
consolidamento della capacità di autogoverno e di organizzazione delle popolazioni rurali, orientandole
verso una gestione sostenibile delle risorse naturali del territorio. Pertanto, nel nome e nella filosofia
d’intervento, si ispira espressamente al PRA (Fe’d’Ostiani e Warren, 1996 e 1997; Fe’d’Ostiani, 1998).
Il progetto, finanziato dalla cooperazione FAO- Italia secondo modalità multi-bilaterali, si inquadra
in un intervento sopra-nazionale (“inter-regionale” nella terminologia FAO), attivato nel 199222 in cinque
20
Mentre nei Paesi industrializzati vi è un processo di delega verso imprese sociali anche nella gestione di alcuni servizi
pubblici di base (Educazione, Sanità,.. .), nei PVS, in mancanza di un’imprenditoria sociale in grado di farsi carico dei
settori tradizionalmente sotto la tutela dello stato, la privatizzazione interessa soprattutto alcune business areas (energia,
telecomunicazioni) la cui gestione passa a grandi imprese multinazionali. Il rafforzamento e la crescita del cosiddetto
Terzo Settore, luogo politico ed economico dove si sviluppano in modo consistente i modelli partecipativi, necessita di
una sua istituzionalizzazione, oltre che per il riconoscimento del suo valore sociale, anche per la sua capacità di competere
in modo efficiente con Stato e Mercato. Per questo motivo il suo sviluppo è possibile solo in contesti di relativa stabilità
politica ed economica (Europa e USA), mentre nei PVS, fatte salve alcune eccezioni (Cile, Messico, Brasile, India?...) non
si può parlare di un vero Terzo Settore ma di gruppi sociali (associazioni di vicinato, sindacati informali, gruppi indigeni,
gruppi di donne,...) spontaneamente organizzati attorno ad interessi economici, culturali o politici comuni.
21
Si fa strada il concetto che “le collettività sociali (comunità sociali, gruppi etnici, movimenti sociali) sono attori centrali e
che la qualità della maggior parte delle decisioni che le riguardano (la raccolta delle in formazioni, la sua elaborazione, le
ipotesi di scelta, la formazione di giudizio) sono profondamente influenzate dalle scelte istituzionali, ma anche le
influenzano” (Etzioni, 1988).
22
Il progetto viene sviluppato in fasi successive: dopo le prime due (1992-94 e 1994-97), è ora in corso la terza (1997-99)
che punta al consolidamento delle modalità partecipative ed alla loro istituzionalizzazione (FAO, 1997). Per il contributo
paesi : Nepal, Pakistan, Bolivia, Burundi e Rwanda. Nel luglio 1994 il Ruanda, per gravi problemi di
sicurezza, è stato sostituito dalla Tunisia, che è ora anche sede del coordinamento del progetto. Dal 1997,
il progetto continua ufficialmente in Tunisia, Nepal e Bolivia, mentre negli altri due Paesi è stato trasferito ad
Organizzazioni locali, cui la FAO si limita a fornire una consulenza tecnica. L’identificazione di
caratteristiche comuni, che sostanzialmente possono riassumersi in una gestione non sostenibile di un
territorio agricolo montano, marginale ed esposto a fenomeni di degradazione, è alla base della decisione di
raggruppare questi cinque paesi. E’ altresì necessario ricordare l’intensa pratica d’interscambio “SudSud” perseguita dal progetto, con riunioni annuali tra i funzionari e le comunità locali delle diverse Unità
nazionali.
In Tunisia l’azione si è concentrata sul territorio del bacino di Oued Sbaihya, 10 km est dalla città di
Zaghouan, un’ottantina di chilometri a sud di Tunisi.
La CES (Direction pour la Conservation des Eaux et du Sol) del Ministero dell’Agricoltura
partecipa al coordinamento, mentre sul campo, sotto il controllo dell’amministrazione centrale, operano
funzionari della CES, del CRDA (Comité Régional pour le Développement Agricole) di Zaghouan ed il
personale assunto dal progetto. Inoltre, collaborano la OnG tunisina ASAD (Association de Soutien à
l’Auto-Développement), cui spettano l’alfabetizzazione e la mobilitazione sociale, Università locali e
straniere (per l’Italia: Firenze e Torino, cui si è aggiunta Padova23), ed altre azioni ed istituzioni collegate24.
A questo proposito, il progetto intende operare come facilitatore e coordinatore di tutti gli attori presenti sul
territorio e come Agenzia per il reperimento di fondi.
L’area su cui insiste il progetto si estende per 6500 ha 25, sui quali vivono circa 1500 abitanti divisi
in 300 famiglie e 9 douar26, i villaggi tradizionali caratterizzati da legami parentali e da un certo grado di
autosufficienza economica, seppur da tempo integrata dall’emigrazione, che fornisce 50-60% dei redditi.
L’area presenta una serie di emergenze, sia di carattere fisico che socio-economico: forte erosione
del suolo, favorita dalla morfologia collinare, dalla erosività dei piovaschi della stagione fredda,
dall’erodibilità dei terreni argillosi e dall’elevato carico pastorale; limitato reddito agro-pastorale delle
famiglie, che porta ad uno sfruttamento intenso delle risorse naturali; sovrapascolamento dei terreni privati e
delle foreste demaniali, utilizzate secondo un accesso libero consuetudinario, cui si cerca di rimediare con
sovente inefficaci misure di bando; frammentazione e dispersione delle proprietà (media 3ha), con riduzione
della sostenibilità economica dell’attività agro -pastorale; dispersione dell’insediamento, che rende
problematica la predisposizione equa ed efficace di strutture di base.
In questo quadro, scopo del progetto è quindi di dare sostegno operativo al mondo rurale locale,
favorendo il coinvolgimento della popolazione nell’individuazione dei problemi e nella ricerca di soluzioni
che partano dalle esperienze e dal saper fare degli abitanti. Due gli obiettivi dichiarati a livello locale:
dato alla nostra ricerca, ringraziamo L.Fe’d’Ostiani, Coordinatore del progetto, e M.L.Toumia e A.B.Mabrouk,
responsabili dell’Unità tunisina.
23
Il Dip.di Geografia di Padova ha effettuato alcuni seminari sulle modalità partecipative alla gestione del territorio con
studenti, funzionari e residenti; nel 1998, ha curato uno stage di uno studente di Sc. della Formazione, avente come
oggetto l’analisi della strutturazione territoriale operata dal progetto.
24
Una delle azioni collegate prevede l’alfabetizzazione della popolazione in età adulta. Questa sembra essere un’esigenza
molto sentita (non solo in questa parte del paese) soprattutto dalle giovani donne, che sanno di dover migliorare le loro
conoscenze per poter meglio gestire i propri affari (per esempio essere indipendenti nelle trattative al mercato). Come tanti
altri progetti (anche di dimensione e tipologia diversa) è finanziato dal fondo 2626, un enorme serbatoio dove le
elargizioni di generosi potenziali investitori esteri sono molto ben accette.
25
Caratteri generali dell’area di studio: altitudine: 516-92 metri; composizione litologica: marne, terreni argillosi;
precipitazioni medie annue: 512 mm (Zaghouan); principali specie arboree: pino d’Aleppo, Acacia cyanophylla,
eucalipto, thuya.
26
I douar comprendono la residenza, il territorio agricolo e quello per il pascolo degli animali.. I nove douar ricadenti nel
bacino sono: Agailia, Ben Alaya, Ben Ameur, Ben Rejeb, Ben Rezig, Dhouaya, Lachheb, Mastoura, Tebainia..
arginare il problema dell’erosione dei suoli, mediante l’introduzione di pratiche d’utilizzazione ecocompatibili, e favorire redditi integrativi ed alternativi alla pastorizia e all’agricoltura tradizionale27, basati
sulla microimprenditorialità locale mediante un’azione di micro-credito (M’Hamdi, 1998). Inoltre, il
progetto punta alla replicabilità dell’esperienza, ponendosi come “terreno campione” per la gestione
nazionale delle aree collinari e montane28. Il potenziamento della partecipazione delle popolazioni locali,
facilitando gli incontri ed il colloquio tra i rappresentanti delle famiglie e dei douar con funzionari del
progetto, rappresenta la metodologia per il perseguimento dei risultati.
Dopo i primi sei mesi di analisi dei bisogni, dei vincoli e delle opportunità in sei dei nove douar, il
progetto è passato alla fase operativa, che ha riguardato i settori formazione, ricerca, credito ed azioni di
intervento sulle risorse29. C’è tuttavia da notare che, in linea con la filosofia del PRA, un risultato
fondamentale seppur di difficile valutazione è l’attivazione e il potenziamento delle pratiche partecipative,
che possono essere considerati come un aggiornamento dei progetti di institutions building propri degli
anni ’60 e ’70 (Rondinelli, 1983).
A tre anni dall’attivazione del progetto in Tunisia (1992-95), si possono trarre alcune
considerazioni (si vedano anche Fe’d’Ostiani e Warren,1997; Fe’d’Ostiani, 1998), utili ad una riflessione
generale sui progetti attivati secondo il PRA.
Innanzitutto, è necessario potenziare le procedure per l’integrazione nel progetto dei saperi e delle
strutture territoriali preesistenti. Le difficoltà a questo proposito si collocano nella ben nota contrapposizione
insider/outsider, che porta i funzionari del progetto a sottovalutare le condizioni e le conoscenze locali in
nome di una maggiore razionalizzazione nell’uso delle risorse e gli abitanti ad oscillare tra l’accettazione
passiva di quanto proposto dall’esterno e la creazione di una “realtà progetto” parallela a quella
tradizionale. Il caso di Zaghouan presenta a questo riguardo due esempi contrastanti assai significativi. Da
un lato, la considerazione delle indicazioni della popolazione ha permesso di migliorare le iniziali proposte di
gestione di alcune aree sommitali boschive30. Dall’altro, la zonizzazione proposta dal progetto per
27
Principali colture: grano (8-12 q/ha), orzo, avena, olive, fave, mandorle. Principali tipi di allevamento: caprini, ovini,
bovini, apicoltura, pollame.
28
Un precedente importante per lo sviluppo partecipativo delle aree montane marginali (“zone d’ombra”) in Tunisia è il
progetto per lo sviluppo del nord-ovest del Paese, attivato congiuntamente dall’ Office de Développement SylvoPastoral du Nord-Ouest (ODESYPANO) e dalla GTZ dal 1981, che dal 1991 ha adottato la strategia dell’Approche
Participative et Intégrée. E’ tuttavia da notare che, per quanto dal 1993 esista ufficialmente una Commissione Generale
per lo Sviluppo Regionale, la Tunisia resta caratterizzata da una forte concentrazione dello sviluppo economico: al 1997,
solo l’1,2% del PIL è destinato al riequilibrio regionale, mentre le Regioni non hanno capacità di spesa autonoma (comun.
Pers. di R.Bodemeyer, responsabile GTZ all’ODESYPANO). Lo squilibrio sta crescendo anche per le politiche neoliberiste
perseguite dal Paese
29
I principali risultati ottenuti in quasi tre anni di lavoro sono così sintetizzabili: a) formazione ( di quadri e tecnici sui
metodi partecipativi; di studenti della scuola superiore di Mograne; di agricoltori); b) ricerca (con l’aiuto di artigiani locali
sono state realizzate e sistemate sei stazioni sperimentali per il controllo dell’erosione; sull’intera esperienza progettuale è
stato realizzato un documento guida che servirà per esperienze analoghe di gestione dei bacini); c) credito (in
collaborazione con ASAD è stato sperimentato con successo l’istituto del microcredito: 20.000 dinari sono stati prestati
per finanziare attività generatrici di reddito in apicoltura (18 casi) ed avicoltura(10 casi); d) interventi sulle risorse fisiche
(rimboschimento nella foresta di Sidi-Salem per una superficie di 122 ha, orientato secondo le indicazioni locali circa le
specie da impiantare e l’individuazione delle vie d’accesso alla foresta; 100 ha di terreni privati sono state protetti grazie a
“banquettes manuelles” e altri 200 ha stanno per essere identificati e sistemati; si stanno studiando le migliori modalità di
sfruttamento agricolo delle acque di 4 laghi collinari; 30 ha sono stati valorizzati con l’impianto di olivi e altri 60 sono
oggetto di studio per definirne una migliore destinazione d’uso; presso 31 famiglie è stato introdotto l’uso di coperchi di
metallo per i forni da pane (tabouna) al fine di ridurre il consumo di legna).
30
L’iniziale proposta di rimboschimento della sopra citata foresta di Sidi-Salem (Pinus halepensis) è stata rivista alla luce
delle esigenze pastorali della popolazione, con l’introduzione di una piantumatura diversificata, anche con specie
foraggere (Acacia cyanophylla), e con una meno restrittiva limitazione dell’accesso all’area rimboschita.
raggruppare i douar in microregioni funzionali31 si è dimostrata inefficace, proprio per non aver tenuto
adeguatamente conto delle funzioni proprie delle strutture territoriali precedenti - peraltro già pesantemente
trasformate dalla fase di collettivizzazione della politica nazionale degli anni ’70 - tanto che per la
programmazione si è dovuti ridiscendere a livello di douar. La questione della strutturazione territoriale, e in
particolare la delimitazione delle maglie, si mostra una delle più impegnative per quanto riguarda le relazioni
tra partecipazione, progetto e territorio.
Un altro aspetto cruciale è dato dalle relazioni tra l’approccio partecipativo e la sua
istituzionalizzazione. Si è già visto come questo rappresenti uno degli obbiettivi della terza fase attualmente
in corso, assolutamente necessario per l’iteratività del ciclo di progetto. Va tuttavia rimarcato che esso si
scontra con un’articolazione verticistica dell’Amministrazione e della Pianificazione regionale, con cui il
progetto si trova ad interagire. I rapporti con l’Amministrazione regionale e centrale, con le Organizzazioni
di Partito e con la politica economica neoliberista del Paese32 caricano la questione di una forte valenza
sociale interna, cui si aggiunge il problema dei rapporti tra le ipotesi innovative delle Agenzie di
cooperazione internazionale e le strutture consolidate del governo territoriale. Si tratta, insomma, di
affrontare il problema del rapporto tra decentramento e delega: è una questione di scala, ma anche di
spostamento del baricentro dei poteri decisionali, che assume un significato strategico in vista di un
passaggio del progetto dalla FAO alle organizzazioni locali.
Infine, va rilevato come la partecipazione nell’ambito dei progetti PRA sia un metodo e non un fine.
Ogni metodologia partecipativa si configura come un processo organizzativo nel quale obiettivi, contenuti e
azioni sono legati ai bisogni individuali, dei gruppi e collettivi: il metodo dunque, anche in un'ottica di
ottimizzazione delle risorse, va fatto con le persone. E’ questo un discorso di complessa attuazione
soprattutto riguardo a quanto sopra detto sulle dimensioni di costruzione istituzionale e di autoorganizzazione proprie del progetto; dimensioni che devono essere mantenute ferme, ma che tuttavia
devono trovare riscontro nella capacità di raggiungere con efficacia gli obbiettivi di sviluppo. In questo
senso, rimangono fondamentali le azioni dell’outsider come facilitatore dei processi di mutamento, come
pure programmi di ricerca-intervento che sappiano introitare nel progetto la conoscenza approfondita delle
componenti naturali, sociali ed economiche delle condizioni di partenza ed in evoluzione. Si tratta qui di
confrontarsi con una nuova attorialità risultato dei processi territoriali, che il PRA considera per la gestione
negoziata delle diverse poste in gioco (uso delle risorse, politiche di sviluppo e di finanziamento, ecc.), ma
che trova nella realtà difficoltà legate alla strutturazione sociale 33.
Per una lettura geografica del PRA
Nato dal contributo convergente di apporti disciplinari differenziati, il PRA ha visto il decisivo
coinvolgimento delle scienze sociali, che ne hanno rafforzato l’impalcatura teorica e, soprattutto, l’assetto
metodologico. Psicologia sociale, sociologia dei gruppi e delle organizzazioni, pedagogie dei lavori di
gruppo, scienze dei controlli di gestione, che costituiscono ormai componenti essenziali dei curricola
formativi nel campo dello sviluppo, al pari dei più consolidati corsi economici ed antropologici, si può dire
siano alla base della costituzione metodologica stessa del PRA.
31
Il progetto ha proposto la suddivisione del territorio in Unités Analyse et Programmation (UAP) raggruppanti alcuni
douar sulla base di alcuni parametri di affinità (relazioni sociali, attività economiche, accesso, ecc.).
32
Attivata nel 1986 secondo i dettami della FMI (Belhedi, 1992), questa politica ha costituito il fondamento del VII Piano
di Sviluppo (1987-91) ed è attualmente in piena attuazione anche per i problemi di aggiornamento strutturale
dell’economia legati all’associazione all’UE (Garzelli, 1996).
33
Si è, per es., appurato che la partecipazione al progetto non ha coinvolto i grandi proprietari dell’area, che hanno già
accesso a vie autonome per risolvere i problemi di degradazione dei versanti e di contrazione delle rese ( terrazzamento,
innovazione agricola, ecc.)
La geografia non ha ancora affrontato espressamente la questione. Non mancano certo alcuni
rilevanti contributi alle tematiche implicitamente trattate dal PRA: possiamo ricordare la riscoperta dei valori
del “luogo” da parte della geografia anglosassone dalla metà degli anni ’70, sia sul versante umanista ed
identitario (Relph, 1976; Porteous, 1977) che su quello più propriamente politico del dibattito sul “local
state” della geografia radicale (Clark e Dear, 1978; Burnett e Taylor, 1981), che, infine, sul valore dei
sistemi locali nello sviluppo economico (Predaaa). Non dobbiamo poi trascurare il notevole contributo
dato, sul finire degli anni ’70, alla riflessione relativa alle modalità ed al ruolo della ricerca sul terreno dal
gruppo di Geografia Democratica (Canigiani, Carazzi e Grottanelli, 1981), che ha anticipato alcuni dei temi
analoghi affrontati dal PRA.
Tuttavia, un confronto diretto ed esplicito non si è ancora verificato34. In questo senso si può dire
che la geografia sconti una già da tempo ricordata scarsa partecipazione al dibattito sulle nuove tendenze
dalla problematica dello sviluppo (cfr. Corna).
Come contributo all’avvio della discussione, proponiamo qui alcune considerazioni sui rapporti tra
PRA e geografia, che riprendono le problematiche sopra evidenziate nel progetto tunisino.
PRA e strutture territoriali
Proprio perché il PRA è orientato all'autopromozione, nelle comunità, della consapevolezza di un
progetto territoriale originale che si costruisca come progetto riproduttivo (“un sapere riflessivamente
oggettivato”, direbbe J. Habermas), esso si confronta con un ambito di particolare significato nella
geografia, quello relativo alle strutture territoriali.
Si tratta di un’operazione fondamentale di ogni intervento di territorializzazione (Raffestin, 1981;
Racine e Raymond, 1983), decisiva proprio per garantire efficacia al progetto territoriale del gruppo
sociale, e definibile (Turco, 1988) come la creazione di contesti di senso: campi operativi caratterizzati da
una finalità, mediante i quali ritagliare ambiti a complessità ridotta rispetto a quella ambientale.
Le strutture territoriali si compongono (Raffestin, 1981) di elementi eterogenei di base (nodi), nella
realtà artefatti materiali o simbolici. I nodi sono organizzati in reti, che veicolano le informazioni e l’energia
attraverso i quali le strutture vivono. Le informazioni e l’energia necessarie all’esistenza della struttura sono
governate all’interno di maglie, che dichiarano il risultato dell’applicazione di senso dell’azione
territorializzante. In altre parole le maglie configurano il confine d’ordine delle strutture territoriali,
individuando delle discontinuità di complessità. Ogni struttura territoriale viene creata, si è detto, con una
finalità prima (“funzione costitutiva”: Turco, 1988); essa viene ad assumere, tuttavia, delle finalità altre
(“funzioni accessorie”), che ne garantiscono la multistabilità e la sopravvivenza anche nel caso in cui quella
costitutiva venga depotenziata. Alla luce della loro autoreferenzialità, le strutture territoriali non vivono per
assolvere ad una funzione ma assolvono ad una funzione per esistere. E quindi l'esecuzione di un progetto
non è il fine ma il mezzo attraverso cui la struttura vive.
Tutti questi ambiti di senso - le strutture - sono dunque omologhi: essi puntano, pur con forza
diversa, all’autoriproduzione (“mancanza di senso”) e sono collegati da relazioni di interdipendenza. Inoltre,
essi si rielaborano continuamente, arricchendosi delle diversità, ridefinendo continuamente il rapporto
dentro-fuori, proprio al fine di mantenersi. Essi creano, cioè, il senso necessario a gestire la complessità in
continua evoluzione. E’ da notare che le strutture territoriali non necessariamente si collocano in maniera
giustapposta nello spazio, ma possono essere simultaneamente presenti nello stesso spazio; ogni nodo,
quindi, può contestualmente appartenere a più strutture: può assumere significati molteplici, alla luce della
finalità della struttura considerata, mentre lo stesso spazio può ospitare strutture territoriali diverse.
34
Per quanto ci è noto, i due fondamentali libri di R.Chambers (1983 e 1997) non hanno finora avuto alcuna recensione
nelle principali Riviste internazionali di settore e non ci è stato possibile trovare alcun articolo geografico che faccia
espresso riferimento al PRA.
Questo è il territorio - multifunzionale, autoorganizzato, flessibile - prodotto dalle comunità oggetto
del PRA. In qualche modo esso esprime relativamente ad un luogo, ad un sapere territoriale preciso, ad
una forma di governo del territorio, la dimensione geografica di quello che possiamo definire il "contratto
formativo"35 discusso, mediato e condiviso all'interno della comunità, che gli affida il proprio processo di
riproduzione: “il patto dell’uomo con il suo mondo” (Yi-Fu Tuan, 1974).
Come abbiamo invece visto, nei progetti di sviluppo, anche se impostati al PRA, può succedere
che razionalità operative esterne si sovraimpongano al territorio, creando nuove strutture territoriali
debolmente compatibili con quelle preesistenti. E’ una condizione che spesso si verifica nei progetti di
sviluppo e che porta al ricordato scollamento tra progettualità e risposta sociale, nonché alla ridotta
efficacia del progetto stesso e al suo depotenziamento una volta ritiratosi l’attore esterno.
Mantenendo la chiave di lettura sin qui adottata, l’incompatibilità tra le strutture del progetto e la
realtà territoriale preesistente può essere interpretata come un’inadeguata produzione di senso, che assume
aspetti diversi.
Una prima modalità è data dall'eccessiva semplificazione disegnata dal progetto: esso ritaglia
strutture territoriali semplificate e a elevato impatto, legate a finalità congiunturali, univoche e fortemente
distruttrici di complessità. Queste sono facili da realizzare (ecco perché si propongono) ma sono anche
molto fragili. Esse, infatti, polarizzate su una funzione specifica, in caso di fallimento non hanno funzioni
accessorie con le quali "garantire" la propria esistenza, come invece avviene con la multifunzionalità delle
strutture tradizionali. Mentre il douar è una struttura territoriale multifunzionale e ad alto valore simbolico
(fissa cioè molteplici valori sociali largamente condivisi), l'UAP, creato dal progetto, è una struttura
specificatamente performativa: fissa dall’alto una convenzionalità razionalmente giustificata e accertata
empiricamente (l’efficienza dei servizi).
Il territorio vede così sgranarsi le sue componenti valoriali in favore di quelle funzionali: serve
piuttosto che significa. I bisogni e le aspettative della comunità, nonostante gli intenti dichiarati, non possono
venire soddisfatti dall'intervento territoriale del progetto, che risulta caratterizzato da condizioni talmente
vincolanti da non essere correggibili. Esso richiede di venire sostituito da una nuova logica di azione.
Un caso diverso è dato dalla creazione di strutture territoriali eccessivamente complesse:
l'intervento crea una ridondanza di possibilità rispetto a quelle necessarie al gruppo sociale per vivere e
riprodursi e soprattutto rispetto alle capacità di governo del gruppo stesso, esasperando il problema delle
scelte territoriali ai fini della riproduzione. Queste strutture alterano i consolidati rapporti tra efficienza
(relazione tra il risultato e le risorse) ed efficacia (relazione tra il risultato e l’obiettivo) nella gestione delle
risorse, privilegiando la prima (Branca, 1995). La modernizzazione proposta accantona i saperi territoriali
tradizionali, ritenuti inadatti a perseguire il risultato, cioè l’uso efficiente delle risorse, ma la modernizzazione
stessa non è gestibile da parte della comunità, riducendo quindi l’efficacia del progetto. Nelle strutture
create, inoltre, il gruppo sociale diventa funzionale alla nuova territorializzazione, decisa altrove nella sua
logica nonostante le affermazioni di principio e di intenti, anziché esserne il protagonista. Il progetto usa in
qualche modo la popolazione per produrre nuovo territorio, che diventa la vera posta in gioco
dell’operazione: “la geografia assume il corpo sociale nel suo proprio ambito autoreferenziale” (Turco,
1988:154).
Indubbiamente la razionalità territorializzante di ogni progetto è particolarmente esposta al rischio di
eccesso di territorializzazione: selezionando alcune emergenze pur reali e pressanti, ne propone una
soluzione territoriale per la quale tenta poi di ottenere una giustificazione sociale. “Projet Inter-Régional
pour la Conservation et le Développément à Caractère Participatif des Hautes Terres”: la scelta di
attivare il progetto, in questo come in altri casi, incorpora già nel nome il risultato cui si vuole arrivare. Il
progetto è dunque un’ “immagine del mondo”, che, ricorda J. Habermas (1973:174), “in quanto soddisfa
35
Per “contratto formativo” intendiamo una strategia attraverso cui i gruppi esprimono “quali condizioni e quali garanzie
richiedano per entrare in rapporto con gli altri, con chi desiderano confrontarsi e chi escludono” (Branca, 1996: 60).
le esigenze di legittimazione del potere, è sempre ideologica”. La mediazione è lo strumento usato per la
legittimazione di un progetto territoriale già predefinito: è uno dei miti del rapporto tra potere e comunità
territoriali (Branca, 1996). Il tentativo del progetto tunisino di introdurre nuovi sistemi di regolazione del
pascolo, con conseguenti vincoli spesso disattesi dalle comunità locali in quanto lontani dalla pratiche e dalle
visioni del mondo consolidate, può essere un esempio significativo. Il progetto, così, produce e usa il
territorio investendone i significati materiali e stravolgendone in qualche caso quelli simbolici, fino al
paradosso di ritrovarsi svuotato di sostanza sociale e di legittimazione.
E' da notare, tuttavia, che nello stesso progetto si possono contemporaneamente manifestare
interventi diversi, di eccessiva semplificazione ed eccessiva complessificazione dei sistemi territoriali.
Sembra di poter riconoscere nel progetto tunisino un esempio emblematico di questo paradosso: da un lato
esso ipersemplifica il territorio, proponendosi come ipo-offerta (UAP); dall'altro esso complica il territorio
(regolazione del pascolo), costituendosi come iper-offerta. Ne risulta una struttura sicuramente plausibile,
legale e teoricamente più efficiente, ma tuttavia non legittimata dalle procedure di costruzione di senso da
parte della comunità.
Come dunque realizzare la connessione tra l’intrinseca finalità di ogni progetto, portatore di una
logica territoriale improntata razionalmente al cambiamento in base a problemi reali, e le comunità locali,
portatrici di un sistema territoriale nel quale si intrecciano determinazioni ambientali, funzionali e valoriali,
aperte cognitivamente ma chiuse normativamente (Turco, 1988:145)?
La questione delle strutture territoriali, del “découpage”, manifesta qui tutta la sua valenza
strategica. Il confine traduce e manifesta il potere che lo ha delimitato e che lo demarca. E’ espressione del
progetto politico, delle intenzioni e della volontà che l’attore possiede, ma ne misura anche la portata,
appunto il limite (Raffestin, 1987). Si tratta di affrontare, a ben vedere, la questione del rapporto tra
“interno” ed “esterno”, tra inclusione ed esclusione, che deve fondare ogni sostenibile concezione del
locale. Questione che non può essere certo risolta con la contrapposizione netta tra le due dimensioni e con
la conseguente affermazione della scomparsa del locale di fronte alla pervasività delle tecnostrutture
territoriali della globalizzazione, ma che più efficacemente può venire affrontata sulla base di una concezione
dinamica del “luogo”, all’intersezione tra universale e particolare (Entrikin, 1991).
Sembra essenziale, per ogni progetto basato sull'agire territoriale che si ponga come “medium (…)
orientato verso l'intesa” (Habermas, 1991:298 segg.), riflettere sul significato delle strutture territoriali
tradizionali che alimentano il circuito della riproduzione sociale, incorporandone valori, bisogni, norme e
comportamenti, e adottare un'ottica che sostituisca al paradigma della conoscenza di oggetti quello
dell'intesa tra soggetti che parlano ed agiscono.
A questo punto diventa fondamentale la questione della comunicazione. E’ da notare che la
comunicazione delle strutture territoriali tradizionali spesso è debole, di difficile lettura dall’esterno; invece,
quella delle strutture territoriali di progetto è forte e pervasiva. La costruzione di una struttura territoriale
adeguata richiede che le due voci si ascoltino e si confrontino, al fine della realizzazione di un territorio
condiviso. Troppo spesso, invece, la comunicazione tra le due voci avviene solo attraverso una ricognizione
dei bisogni espressi individualmente. A questa fase non fa seguito un’azione di intesa tra soggetti, che porti
a ridefinire i problemi e a produrre una conoscenza ed una consapevolezza collettive36. La conoscenza e
l’intervento vengono ideati, progettati e realizzati in modo separato.
Risulta a questo proposito fondamentale un lavoro sulle frontiere di comunicabilità tra le strutture,
che porti all'adozione di confini flessibili e continuamente ridefinibili, in modo da ricomporre adeguatamente
i contesti di senso, i modelli interpretativi e di relazione, le competenze acquisite nel processo di
socializzazione che comunità e attori del progetto elaborano incessantemente.
36
Il “paradigma dell’intesa” secondo Habermas (1991) si configura come il passaggio da una logica soggettocentrica ad
una comunicativa attraverso un sapere procedurale effettivamente praticato integrando le diversità.
Multiscalarità e pertinenze territoriali
Gli studiosi del PRA concordano sull’individuazione della scala locale come quella più idonea
affinché la comunità possa esplicare con forza la sua strategia di sviluppo. In questo senso il Pra si allinea
con le sopra citate tendenze emerse a partire dagli anni ’80, il decentramento amministrativo e la
privatizzazione, ma anche con la ricordata esigenza di una nuova socialità che le possa sostenere.
La questione geografica di rilievo è quella della scala, fondamentale per ogni analisi territoriale ma,
paradossalmente, come ricorda J.B. Racine (1981:142), ancora troppo poco considerata a livello teorico.
La scala non è neutra. Essa ha una sua propria pertinenza (Harvey, 1969; Racine, 1981) che significa
essenzialmente due cose: ogni scala individua un aspetto di una questione territoriale e questa si esercita
con modalità diverse a scale diverse. La scala di osservazione crea il fenomeno”, ci ricorda, sulla scorta di
C. Guye, Berdoulay (1991:119). Proprio per questo dobbiamo essere ben consci che selezionare la scala
locale implica considerare i problemi che alla scala locale si manifestano o quanto meno la dimensione
locale dei problemi. “La scala è mediatrice delle configurazioni osservate” ma anche “mediatrice di una
pertinenza, mediatrice di un’intenzione, mediatrice dell’azione, mediatrice in definitiva dei valori, del potere
e delle preoccupazioni umane” (Racine, 1981:142).
Il fatto è ben evidente in ogni progetto di PRA, sopra il quale si collocano diversi strumenti di
azione territoriale - le strutture politico-istituzionali, i progetti nazionali, i piani economici - nei confronti dei
quali la sua azione ha scarse capacità di incidere. Sembra ci sia un “tappo” dimensionale che limita la sua
operatività: il meccanismo top-down, seppure rifiutato a scala locale in ambito PRA, funziona ancora per
quel che riguarda i quadri generali di riferimento.
La questione è ben presente nelle preoccupazioni attuali dell’approccio partecipativo, che si
pongono pertanto il problema dello scaling-up (Blackburn, 1998) e cioè di un tentativo di risalire
attraverso i livelli gerarchici territoriali al fine di realizzare “un’espansione dello sviluppo con impatto
cumulativo”, nella quale alle procedure partecipative venga riconosciuta, oltre alla capacità di operare sui
processi decisionali a livello orizzontale (all’interno del gruppo di riferimento), anche quella di incidere a
livello verticale (verso le istituzioni centrali). La partecipazione deve essere spazialmente pervasiva e, come
afferma Chambers (1997), “non può essere confinata ad un low level ghetto”.
Secondo i propugnatori dello scaling-up, il decentramento amministrativo si configura come la
procedura tecnica più adatta al potenziamento dei sistemi locali, in particolare quando l’unità amministrativa
coincida con il luogo decisionale della comunità (Blackburn, 1998) 37. Il decentramento risponde
all’esigenza di compensare la perdita di potere dello stato sociale e si inquadra nei nuovi modelli di welfare
mix al cui interno si sperimentano i processi di costruzione di un sistema di welfare municipale, costituito
da un sistema di scambi economici fondati sul protagonismo delle comunità locali. Qui si ritrova in parte la
teoria della razionalità collettiva dei teorici comunitaristi (Etzioni, 1988) ma nel contempo la si supera
aggiungendo, all’attributo di unità decisionale della comunità, quella variabile territoriale che la connota
come vettore di cambiamento istituzionale. Potremmo dire che le “comunità geografiche” oltre al valore
aggiunto politico producono un importante valore aggiunto territoriale. La legittimazione di queste
procedure avverrebbe attraverso l’istituzionalizzazione della partecipazione verso scale progressivamente
più piccole.
E tuttavia, come ricorda D. Harvey richiamando il sopra citato problema di scala, le “inferenze fatte
a proposito di un livello (spaziale) non possono essere estese, senza operare robuste assunzioni, a diversi
livelli” (1969: 352). Infatti, i rapporti all’interno della comunità sono fondati su relazioni territoriali tra
membri che condividono gli attributi complessivi del gruppo, norme spesso non scritte che pervadono il
sistema territoriale comunitario. E’ la dimensione esistenziale cui fa cenno, per le grandi scale, J.B. Racine
37
Un esempio interessante è rappresentato dalla Ley sobre la participation popular promulgata in Bolivia nel Maggio
del 1994. La legge trasferisce autorità e risorse a 311 municipalità e crea l’ambito giuridico che permette alle istituzioni
locali di partecipare alle attività di pianificazione, di gestione e di valutazione dei progetti (Blackburn e De Toma, 1998aaa).
(1981:145). E tuttavia questa dimensione non coincide con politiche determinate gerarchicamente da
sistemi di rango superiore38, alle scale minori, (Stato, economia, globalizzazione, ecc.), in cui prevale invece
la finalità produttivista (Ibid.), improntata cioè alla sopra ricordata razionalità delle scelte.
L’eccesso di delega alla comunità, come la privatizzazione di risorse strategiche, rappresenterebbe
pertanto per lo Stato una minaccia alla propria autonomia, un flusso che, impedendo il pieno esercizio delle
funzioni accessorie (economiche, socio-culturali, ecc.), può mettere a repentaglio anche le funzioni
costitutive (politiche) sulle quali si basa la sua esistenza. Vi è dunque un’estrema cautela nel trasferimento di
poteri forti alla comunità: l’obiettivo dell’autoriproduzione della struttura statale prevale sul conferimento di
pericolose autonomie alle comunità locali (Bicciato, 1995). E’ la questione della posta in gioco che la
geografia politica identifica nel controllo di popolazione, territorio e risorse (Raffestin, 1981). Si vanno così
configurando quelle asimmetrie territoriali che relegano gli attori locali ad operare in un sistema chiuso o,
per meglio dire, aperto solo ai flussi informativi provenienti dalla scala superiore. Si tratta ancora una volta
di limitare le pertinenze territoriali della comunità e del ripiegamento verso una monoscalarità tipica dei
sistemi centralizzati, mentre sembra verificarsi un trasferimento di competenze limitato alla gestione di
risorse non ritenute strategiche per la riproduzione dell’apparato statale.
L’istituzionalizzazione dell’approccio partecipativo non deve risolversi in un più minuto controllo
delle comunità locali da parte di istituzioni locali verso cui lo Stato abbia effettuato un certo decentramento,
una “istituzionalizzazione proclamata” in cui non emerga una reale delega di poteri, un vero processo di
scaling-down. Ciò infatti può risolversi in un rischio di delegittimazione dell’intero processo, con una
frustrazione delle energie creative tipiche dell’agire comunitario.
Accanto a questi rischi vi è però anche una grande opportunità: inserire le procedure del PRA in
contesti istituzionali può infatti portare ad una migliore identificazione della domanda sociale e ad una
riorganizzazione territoriale orientata verso un incremento di sviluppo e ad una riduzione delle differenze
socio-spaziali.
Qui si gioca il rapporto tra centralizzazione e decentramento, tra Stato e società, tra partecipazione
sostanziale e liturgia del PRA: la partecipazione deve avere come corrispettivo l’empowerment e non un
semplice decentramento di alcuni poteri e ciò richiede un’effettiva democratizzazione, un nuovo contratto di
cittadinanza. Entra in gioco, tra governo centrale e comunità locali organizzate, un elemento essenziale nella
pianificazione territoriale: la negoziazione, processo tipicamente multiscalare e multiattoriale, attraverso cui
pervenire ad una effettiva mediazione territoriale. Il principio di negoziazione per avere successo deve
ispirarsi ad una visione contrattualistica della politica e delle istituzioni che non consideri lo Stato come
unico garante dell'interesse individuale39.
Multiattorialità e negoziazione
Come è chiaramente emerso dalla ricostruzione della sua impostazione metodologica, il PRA attua
un sostanziale rovesciamento delle normali propensioni di ricerca nell'ottica di una rivalutazione della
periferia rispetto al centro e della popolazione rurale rispetto a quella urbana. La dimensione locale assume
così un ruolo forte, acquisendo autonomia rispetto ad altre scale quali quella regionale o quella statale: una
dimensione che si esplica concretamente come comunità locale o, più spesso, come villaggio. Tuttavia, nel
momento in cui il livello locale viene preso in carico dalla progettualità statale, è da essa "pianificato", reso
omogeneo ad un disegno che lo travalica, lasciandolo quasi come sfondo inerte, non in grado di interagire,
38
Ci riferiamo qui ai rapporti tipici di un sistema gerarchico (Mesaroviç, 1980), in cui le componenti sono tra loro collegate
attraverso relazioni non egualitarie e dove, quindi, vi è la tendenza da parte di ogni singolo attore a migliorare la propria
posizione cercando di affermare il proprio sintagma territoriale.
39
Rawls (1971) teorizza che chi contrae il patto - che qui chiamiamo territoriale - riconosca due principi fondamentali: il
primo, che determina e definisce nella vita associata l'aspetto dell'eguaglianza, il secondo che legittima e provvede a
quello della differenza.
di rappresentare esigenze e sensibilità diverse. Normalmente quando si pensa al territorio si pensa allo
Stato: lo Stato moderno è l’attore privilegiato dei processi di territorializzazione (Croce e Pase, 1995:434). Attraverso la definizione delle sue maglie amministrative, attraverso la costruzione di reti infrastrutturali,
attraverso il controllo delle risorse, lo Stato disegna nuovi scenari, impone un assetto territoriale che per
riprodursi ha bisogno proprio dello Stato, instaurando così un processo di autolegittimazione. Questo è
tanto più vero nei PVS, dove lo Stato produce territorio attraverso i progetti di sviluppo, divenendo in tal
modo essenziale all'interno dei processi riproduttivi delle società locali(per un esempio, Croce et al., 1986).
Nell'inversione del punto di vista proposta dal PRA, l'approccio partecipativo sposta l'attenzione
dei ricercatori dalla centralità autoevidente dell’attore Stato a quella degli attori locali. Quest'inversione
comporta però alcuni rischi: può essere facile infatti scivolare inavvertitamente in una semplificazione
eccessiva che vede la comunità locale, il villaggio, come l'unico attore rilevante, quantomeno come il
bersaglio privilegiato degli sforzi di comprensione, con il rischio di lasciare sullo sfondo altri attori e altre
poste in gioco. Isolare la dimensione della comunità locale non solo priva l'analisi di altre voci significative,
impedendo forse la comprensione delle dinamiche conflittuali presenti, ma può portare ad una "retorica"
della comunità, quasi a pendant della retorica dello Stato, che tende a sopravvalutare l'identità locale ed i
legami relativi, a scapito di una visione magari meno risolta ma più congruente con la complessità fattuale
delle politiche di sviluppo. Le relazioni economiche, politiche, culturali di una comunità locale travalicano,
spesso, i ristretti suoi confini, attivando ad esempio percorsi migratori (come è il caso di Zaghouan).
Stato e comunità locali sicuramente esercitano un ruolo di rilievo nel gioco territoriale: a ben vedere
però questi due attori non sono gli unici, anche se essenziali, protagonisti nell'orientare e condizionare scelte
ed opzioni. Ben più articolato è lo scenario territoriale, su cui intervengono molte e differenziate voci
passibili di altrettanto molteplici interpretazioni. Lo stesso termine "attore" contiene infatti livelli e tipologie
variegate. Per quanto riguarda nello specifico la realtà tunisina può aiutare a comprendere questa effettiva
polisemia un contributo di L. Ben Salem (1998) che ripercorre trent'anni di studi sociali nel Paese, proprio
alla luce delle diverse accezioni del termine "attore sociale". L'A. individua tre filoni fondamentali, legati
all'evoluzione della società tunisina e del pensiero sociologico che tenta di interpretarla: l'attore come vettore
di cambiamento sociale, l'attore come forza contestatrice e l'attore come portatore di strategie.
Il primo filone prende avvio negli anni '60 ed è centrato sulla problematica dello sviluppo, con
l'utilizzo di modelli di tradizione funzionalista, marxista e strutturalista. Ciò che conta è capire gli ostacoli che
rallentano lo sviluppo e, in questo orizzonte, l'attore sociale indagato è essenzialmente quello collettivo che
può mutare la società, un attore quindi di cambiamento anzi un vettore di modernizzazione.
Il secondo filone, pur avendo i suoi prodromi nei tardi anni '60, si afferma con forza e caratterizza
gli studi sociali negli anni '80. I movimenti sociali, quali il sindacalismo, il movimento islamista e il movimento
femminista, sono i principali attori della contestazione e si pongono in un'ottica di rottura rispetto alle
tendenze predominanti nella società.
Infine negli anni a noi più vicini si sviluppa un interesse esplicito per gli attori sociali, quali anche i
piccoli gruppi e gli individui, intesi come portatori di strategie lette all'interno del gioco delle loro
interrelazioni, sottolineando gli spazi di libertà in cui essi possono esprimersi ed osservati in un'ottica di
analisi microsociale.
Questa veloce incursione nella molteplicità delle interpretazioni assegnate al termine "attore" stimola
i geografi a riconoscere e studiare gli attori attraverso il loro specifico rapporto con il territorio.
La geografia può proporre allora un suo punto di vista: l'attore come portatore di un progetto
territoriale o - per usare la terminologia di C. Raffestin (1981:149-55) - l'attore sintagmatico, che genera
territorio a partire dallo spazio. Più concretamente, in un approccio metodologico come quello del PRA, la
geografia può fornire un efficace contributo per accrescere la capacità di lettura della multiattorialità che
innerva il territorio. In effetti, il territorio può essere letto come campo di relazioni tra gli attori presenti,
dove ogni attore è portatore di una sua specifica razionalità territorializzante, di un suo più o meno esplicito
progetto di intervento e di controllo sul territorio.
Il primo attore preso in considerazione dall'approccio partecipativo è, come ben si è visto, la
comunità locale. Ma essa non è omogenea, compatta, e presenta "territori interni": gerarchie e stratificazioni
che selezionano centri e periferie. La "mappatura" di questi territori interni non si deve fermare alle élite
locali, che risulteranno senz'altro più visibili, ma deve anche indagare i margini dell'intero sistema. La
comunità locale ha una sua fragilità in quanto la territorialità a cui dà corpo si manifesta in forma implicita,
non utilizzando i linguaggi espressivi dello Stato. Ma al tempo stesso ha una sua forza che consta nel
radicamento, nella possibilità di resistenza sui tempi lunghi, e come tale è portatrice di una "merce" preziosa:
il consenso, senza il quale ogni progetto che la coinvolga troverà continui ostacoli, difficoltà sottili che però
possono portare all'insabbiarsi dei processi di cambiamento.
Anche lo Stato, pur dotato di una apparente compattezza, presenta "territori interni". Infatti le sue
esplicitazioni istituzionali e amministrative, volte che siano alla gestione di servizi o al controllo, vengono
delegate a organismi e persone con una propria storia, un proprio modo di sentire, non sempre congruenti
le une con le altre, che rendono anche l'agire statale meno monolitico di come vorrebbe rappresentarsi. Lo
Stato, inteso materialmente nella molteplicità dei suoi corpi amministrativi, ha una sua modalità di relazione
con il territorio, che, se è forte dal punto di vista delle risorse e della visibilità del progetto, si dimostra più
fragile nel suo concreto adattarsi alle pieghe dei diversi "locali", manifestando spesso un deficit di
informazione e di legittimazione.
Le grandi organizzazioni internazionali giocano un ulteriore importante ruolo nell'orientamento, nella
selezione e nella realizzazione dei progetti di sviluppo, che vanno ad investire le periferie. Anche gli attori
economici, nell'indirizzare gli investimenti secondo le logiche produttive del mercato, cooptano od
emarginano segmenti territoriali, condizionandone decisamente le prospettive di sviluppo.
Lo stesso progetto partecipativo è un attore sul territorio, lo interpreta, lo rappresenta, cerca vie di
accesso e propone strategie diverse di soluzione delle problematiche locali.
E' da questa articolata multiattorialità che nasce la conflittualità: ogni attore infatti ha sue strategie,
suoi obiettivi che vanno a scontrarsi per forza di cose con quelli degli altri. Diversi gli obiettivi, ma unico lo
scopo fondamentale cercato da ogni attore: durare, sopravvivere, salvaguardare la propria identità nel
tempo e sul territorio (Turco, 1988:125). La "razionalità limitata" degli attori, ovvero l'ine luttabile processo
di assolutizzazione del proprio punto di vista, rende problematica la soluzione dei conflitti e la selezione
delle "migliori risposte tra quelle possibili". Se, come fortunatamente succede nella maggioranza dei casi,
nessun attore, nemmeno lo Stato, si può imporre totalmente sugli altri, cancellandone la capacità di
resistenza, allora la strada obbligata da percorrere è la negoziazione, ovvero la predisposizione di percorsi
di contrattazione degli obiettivi e delle strategie tra gli attori. La razionalità limitata può diventare produttiva
quando si innesca un processo comunicativo e cumulativo tra gli attori.
Da questo punto di vista, il progetto partecipativo può proporsi come il catalizzatore del processo
negoziale se:
- facilita l'esplicitazione della territorialità locale, in modo comprensibile per le strutture statali;
- traduce e stempera la rigidità della progettualità statale, rendendola adattabile alle singolarità del
locale;
- assume le diverse "razionalità limitate", non attraverso un "sovra-progetto" ma piuttosto
diventando luogo di mediazione.
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