1 IL GRAN PREMIO D`ITALIA DEL 1925 In onore del Gran Premio d

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1 IL GRAN PREMIO D`ITALIA DEL 1925 In onore del Gran Premio d
IL GRAN PREMIO D’ITALIA DEL 1925
In onore del Gran Premio d’Italia, in calendario per il 6 settembre 1925, si
scomodarono persino D’Annunzio e Mussolini, ciascuno con la prosa
immaginifica e roboante del tempo (e che riusciva ad entrambi tanto
naturale). Il primo scrisse: "“Ai figli dell’Acciaio e della Fiamma abolitori del
Tempo e dello Spazio…Lo spazio immenso era la nostra ebrezza senz’ansia, il
nostro fianco infaticato vinse in numero i palpiti del vento. Tanto di terra in
un sol dì varcammo tanto varcava Pégaso di cielo”. E ancora: “Rapidità,
Rapidità, gioiosa vittoria sopra il triste peso, aerea febbre, sete di vento e di
splendore, moltiplicato spirito nell’ossea mole, Rapidità, la prima nata
dall’arco teso che si chiama Vita!”. La prosa di Mussolini era più concreta:
“L’auto è la macchina del nostro tempo. La macchina tipo del nostro periodo
di civiltà. E’ lo strumento che moltiplica, attraverso lo spazio, le nostre
possibilità di vita. E’ una macchina delicata e potente, che racchiude nel suo
cuore breve di acciaio ritmi titanici. Io sogno le auto che passino
tranquillamente dalle vie della terra a quelle del cielo e del mare e viceversa.
Le avremo. E allora si potrà fondare la Corporazione della Velocità
Integrale”, scrisse nella prefazione al “Numero Unico Ufficiale del V Gran
Premio dell’Automobile Club d’Italia”. Tanta enfasi non era (troppo)
esagerata: si trattava della corsa che avrebbe assegnato alla marca vincente il
Primo Campionato del Mondo (vedi Auto d’Epoca del dicembre 2000). Tutti i
giornali si affannavano a sottolineare l’incerto esito della lotta “e di altre
amenità di questo genere con le quali imbottiscono il cranio dell’innocente
lettore” (Auto-Moto-Ciclo, sett. 1923); in realtà i giochi erano da tempo fatti, a
favore dell’Alfa Romeo, come vedremo più avanti. L’Alfa, inoltre, giocava in
casa, essendo questo campionato stato istituito appena nel febbraio 1925 su
proposta dell’Automobile Club d’Italia e di conseguenza avendo avuto l’Italia
l’incarico di organizzarlo per la prima stagione.
La vittoria, stabiliva il regolamento definito in fretta e furia dall’AIACR,
Association des Automobile Clubs reconnus, sarebbe andata alla marca "che
avrà realizzato la migliore classifica per somma di punti nei Gran Premi
corsi nelle differenti nazioni del mondo e retti dalla formula internazionale
uniforme". Tale formula prescriveva, già dal 1922, una cilindrata massima di
due litri per un peso minimo di 650 kg. La vettura doveva essere biposto, ma
con un solo posto occupato, e una larghezza esterna della carrozzeria di
almeno 80 cm. Inoltre per la prima volta, dal 1925, fu reso obbligatorio lo
specchietto retrovisore. Questa formula durò per quattro anni, dal 1922 al
1925; l’anno dopo, nel tentativo di limitare i rischi derivanti da velocità
giudicate eccessive, il limite della cilindrata fu fissato a 1500 cc. I Gran Premi
valevoli per la classifica erano: il Gran Premio di Indianapolis, il Gran Premio
dell'Automobile Club di Francia sul circuito di Monthléry, il Gran Premio
d'Europa, che quell'anno si sarebbe corso a Spa, nel Belgio, e il Gran Premio
d'Italia, a Monza. "I concorrenti si vedranno attribuire un numero di punti
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uguale al numero della posizione che avranno occupato nella classifica di
ciascun Gran Premio fino al terzo posto, cioè per ciascuna prova il primo
avrà un punto, il secondo due, il terzo tre. Tutti gli altri partecipanti,
qualunque sia la loro classifica, avranno quattro punti: le assenze in una
prova obbligatoria (sulle quattro gare, occorreva obbligatoriamente
partecipare a quello della Nazione organizzatrice e ad altre due scelte tra le
restanti) saranno valutate cinque punti…I punti così ottenuti nelle classifiche
delle diverse prove saranno sommati e vincitrice del Campionato sarà la
marca che totalizzerà il minor numero di punti". L’Alfa Romeo, come si è
detto, era la favorita ma era pur sempre a pari punti con la Delage. Non aveva
infatti vinto né ad Indianapolis, dove era arrivato primo al traguardo l’italoamericano De Paolo su Duesenberg, né a Monthléry, gara dalla quale l’intera
squadra si era ritirata in segno di lutto per l’incidente mortale occorso al
pilota di punta, Antonio Ascari, consegnando così la vittoria alla Delage. La
morte del corridore milanese aveva scosso fin dalle fondamenta
l’organizzazione sportiva della casa, che tutto aveva puntato su di lui e sul suo
straordinario coraggio, costruendogli intorno una squadra composta, oltre a
lui, da Brilli-Peri, Campari e Presenti. Il problema di come sostituirlo era
tutt’altro che di facile risoluzione. Minoia, Masetti, Costantini, Bordino, erano
già ingaggiati da altre squadre. Nuvolari, Minozzi, Sozzi erano considerati
ottimi piloti ma poco esperti di Gran Premi (Sozzi, Marinoni e Minozzi
furono comunque ingaggiati come piloti di riserva). Pensare a degli stranieri,
come Wagner, Divo, Benoist, non pareva politicamente opportuno. La
soluzione venne con un italo americano, proprio quel Peter de Paolo che fino
quel momento si presentava come l’unico antagonista d’oltreoceano di Ascari.
Evidentemente la sua origine italiana fece passare sopra ad altre
considerazioni, e l’Alfa Romeo gli offrì una vettura per il Gran Premio d’Italia,
volutamente immemore che si trattava della prima guida della squadra
avversaria, l’americana Duesenberg. Anzi, sembra che l’iniziativa fosse partita
proprio da lui, come racconta Canestrini nel libro “Una vita con le corse”:
“Quando il 30 giugno – scrisse il pilota all’ing. Nicola Romeo – ho ricevuto
da Antonio Ascari, vincitore del Gran Premio d’Europa il telegramma che mi
invitava a competere per lui il 6 settembre, per il Campionato del Mondo io,
che ero e sono alla testa del Campionato d’America 1925, ho avuto subito il
sentimento dell’onore e del piacere di misurarmi in una bella lotta con il
vostro campione, senza uguali in Europa; e quando il 26 luglio ho appreso la
sua gloriosa morte, col dolore provato, sono rimasto nell’incertezza di venire
a Monza, perché mancava colui che mi aveva invitato. Però, siccome ero
iscritto alla gara, ho voluto tenere l’impegno e mi sono deciso a partire. Alla
mia partenza mio padre e mia madre che sono entrambi di Foggia e quindi
italiani, come è italiana tutta la mia casa nella quale si parla la vostra
lingua, mi hanno fatto riflettere che io, italiano, non avrei dovuto, nelle
condizioni attuali, oppormi con macchina straniera ai miei confratelli di qui.
D’altra parte, da quando avete perduto Antonio Ascari, è nato in me, che
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sono stato da lui sfidato, il desiderio di prenderne il posto. Per questo e per
la grande amicizia che ho per Campari, io, leader del campionato d’America
1925, vi domando l’onore e il piacere di prendere, nella lotta per il Gran
Premio d’Italia e per il Campionato del Mondo, il posto che vi avrebbe avuto
Antonio Ascari”. L’inaspettata decisione della Delage di non partecipare alla
gara forse scaturì anche da questo imprevisto ingaggio. Tanto più che la
Duesenberg, vincitrice di Indianapolis nel 1922, 1924 e 1925, non rispettava
in pieno il regolamento. Esso infatti prescriveva vetture biposto; le vetture
americane erano monoposto, larghe 45 cm. I tecnici americano le allargarono
fino alla misura regolamentare di 80 cm, grazie ai mezzi messi signorilmente
a loro disposizione dall’Isotta Fraschini, ma ne conservarono la guida
centrale, essendo impossibile spostare i comandi e i pedali senza modificare
profondamente le vetture nelle parti essenziali. Innegabilmente le
Duesenberg violavano lo spirito e la lettera del regolamento. Sconcerto
sembra calò anche tra gli ex-compagni di squadra di De Paolo, Tommy
Milton, due volte vincitore di Indianapolis nel 1921 e nel 1923 e in seconda
posizione nel Campionato americano 1925, e il giovane e brillante Peter
Kreiss, che se lo ritrovarono avversario. Tutti e tre i piloti americani erano
accomunati dalla consuetudine a frequentare le piste statunitensi, e da una
totale inesperienza per quel che riguardava macchine e piste italiane. Ne
soffrirono tutti e tre, anche se la défaillance più vistosa fu quella di De Paolo
che si era esposto più degli altri con il suo cambio di bandiera.
La differenza di concezione tra gli autodromi europei e quelli d’oltreoceano
non era di poco conto. Monza, al suo sorgere (1922), non prese ad esempio
l’unica pista allora esistente in Europa, quella di Brooklands, la cui
progettazione concezione risaliva al 1907, come non seguì la predilezione
americana verso i cosiddetti “bolls”, o autodromi per spettacoli, di breve
sviluppo e grandi curve sopraelevate, congegnati in modo da permettere al
pubblico di seguire da vicino tutte le fasi della gara. Neanche però si voleva
progettare un circuito adatto soltanto alle sperimentazioni industriali: si
scelse dunque una impostazione che conciliasse queste ultime con quelle più
prettamente spettacolari. Il risultato fu una via di mezzo, con una
disposizione del tracciato che risultava composto da una pista inserita in un
percorso stradale. Il doppio passaggio per ogni giro e la visione dell’uscita
delle due curve, davanti alle tribune, fu l’omaggio alle esigenze coreografiche,
mentre i grandi raggi e le lievi sopraelevazioni delle curve garantivano la
possibilità per le case di disporre di una pista di collaudo. Piste con curve a
grande sopraelevazione, invece, impongono tutt’altra tecnica di guida: più
veloce, e anche più rischiosa. In America delle 300 e più piste esistenti
all’epoca, tutte con un tracciato semplice e regolare, di lunghezza non
superiore ai 4 km, la più importante era quella di Indianapolis, dove il 30
maggio si corsero le 500 Miglia. La Duesenberg vi schierò una otto cilindri
uguale all’anno precedente salvo che per il nuovo compressore, che diede
ottimi risultati. Il vincitore, che come si è detto fu Peter De Paolo, coprì gli
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804,670 km del percorso in 4 ore e 56 minuti, battendo di otto minuti e 44
secondi il precedente record e stabilendo una media oraria di 162,700 km/h.
L’unico italiano, Bordino su Fiat, si classificò appena decimo, e segnò un
tempo di tre chilometri e mezzo inferiore a quello del vincitore (159,295
km/h). Tutto l’interesse della gara risiedette nel duello Duesenberg versus
Miller, che schierò anche una delle famose vetture a ruote anteriori motrici, la
Height Junior, per qualche tempo al comando della corsa e terminata al
secondo posto. Secondo gli osservatori, la velocità ad Indianapolis, sia per il
tipo di tracciato, lungo 4023 metri, con quattro curve di inclinazione vicino ai
45°, sia per le condizioni della pista, era ostacolata in tutti i modi. E proprio la
velocità raggiunta in corsa stava scatenando in Europa una forte polemica,
che sfociò nel cambiamento di formula per il 1926. La discussione, già vivace
nelle sedi degli Automobile Clubs e sulle riviste specializzate, ricevette nuovo
impulso dallo spettacolare incidente occorso al pilota italiano Conelli durante
il Gran Premio di Apertura a Montlhéry del 17 maggio: a cento metri
dall’arrivo, in un tentativo di sorpasso, o a causa dello stato della pista
secondo alcuni osservatori, la vettura subì un violento scarto che terminò con
il suo rovesciamento, e mentre il guidatore rimaneva svenuto per terra la
vettura, dopo una carambola, proseguiva da sola la corsa per altri cinquanta
metri. Il 1° giugno Auto – Moto – Ciclo scriveva: “Lo spaventoso ruzzolone
del gentleman Conelli sulla pista di Montlhéry, fortunatamente terminato
senza danno per il pilota, dimostra che anche le migliori piste a catino
possono diventare pericolosissime quando vengano superate certe velocità,
pur di molto inferiori alla velocità limite per cui ogni autodromo è calcolato.
Fin tanto che un pilota procede, sia pure a fortissima andatura,
mantenendosi sulla linea corrispondente alla pendenza voluta dalla sua
velocità, la corsa su pista non presenta maggiori difficoltà e pericoli della
corsa in rettilineo; ma i guai cominciano quando più macchine con velocità
assai vicine si trovano a lottare tra loro e tentano di superarsi. Il pilota che
vuol superare in curva l’avversario di poco meno veloce, deve allora portarsi
verso l’esterno o verso l’interno della pista: se passa all’esterno egli deve
mantenersi in una pendenza esagerata in rapporto alla sua velocità col
pericolo di scivolar giù, e se passa dal lato interno la minor pendenza della
pista lo può proiettare all’infuori; nei due casi, per quanto il guidatore sia
abile, arrischia di urtare la macchina che vuol superare. Ora, questi speciali
autodromi a breve sviluppo, cioè la maggior parte delle piste moderne,
hanno rettilinei brevissimi, onde i concorrenti sono quasi costantemente
costretti a lottare nelle curve; fin tanto che il terreno è asciutto e si può fare
assegnamento su considerevoli resistenze d’attrito tra il suolo e i pneumatici,
tutto va bene; ma che il fondo sia reso sdrucciolevole per causa delle perdite
d’olio o della pioggia, ed ecco delinearsi la possibilità di un disastro”. Questi
erano i preoccupati toni della discussione, su cui calò raggelante la notizia
dell’incidente nel quale perse la vita Antonio Ascari, il 26 luglio, sempre sulla
infausta pista di Montlhéry. Il nuovo circuito francese era stato inaugurato
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proprio quell’anno con il Gran Premio dell’Automobile Club de France e
rispecchiava la concezione che aveva ispirato l’autodromo di Monza. Alla pista
vera e propria, in funzione già dal 1924, venne collegato infatti il nuovo
circuito stradale appositamente costruito. Però la disposizione del tracciato
parve infelice fin da subito. Innanzitutto si usufruiva soltanto di mezza pista,
e si dovette anche invertire il senso della corsa scelto in un primo tempo e
secondo il quale era stato tracciato e costruito il percorso stradale. In questo
modo, i tratti di maggior pendenza del circuito stradale, progettati per essere
superati in salita, furono percorsi in discesa. La pista vera e propria si
sviluppava per 2500 metri, con due curve circolari di 250 metri di raggio, e un
angolo di inclinazione di 49°. Si calcolò che questa inclinazione avrebbe
permesso una velocità di 200 km/h. Lo sviluppo totale era di 12 chilometri e
mezzo, con una carreggiata nelle curve variante tra i 10 e i 18 metri. Un
tracciato irregolare sia planimetricamente sia altimetricamente. Per di più il
fondo in cemento irregolare moltiplicava i pericoli di ristagni d’acqua, e di
conseguenza di rischiosi slittamenti.
La morte di Ascari, su cui si è già scritto su queste pagine (vedi Auto d’Epoca
del novembre 1995) da una parte rinfocolò le polemiche, e la richiesta di un
radicale cambiamento della formula, dall’altra suscitò un interesse quasi
morboso per il successivo Gran Premio in calendario, a Monza. La folla che
assistette fu incalcolabile. “La folla dilaga, si rovescia, si avventa da ogni
banda. Disegna un anello intorno al nastro del Circuito, s’apposta alle curve,
invade le tribune, copre le banchine, sommerge il prato, sprofonda nell’erba
e rimbalza sui tetti dei carri in bivacco. Pare che tutto il mondo debba esser
qui dove è folla ovunque e a guardare un po’ dall’alto non si vedono che teste
e teste e teste”. Per non parlare dell’enorme numero di vetture che si rovesciò
nei parcheggi e dovunque fosse possibile abbandonarle. La decisione della
Delage di non partecipare causò grande delusione. Anche perché sottraeva
alla gara il suo vero significato. Se il regolamento imponeva, per entrare in
classifica, la partecipazione al Gran Premio della nazione organizzatrice
(dunque quello d’Italia) e ad almeno due prove tra Indianapolis, Francia ed
Europa, ne conseguiva che l’Alfa Romeo aveva già guadagnato il titolo ancora
prima di prendere il via. Infatti la Duesenberg aveva preso parte soltanto ad
Indianapolis, dunque non poteva entrare in classifica. Solo la Delage vi
rientrava di diritto, ma il suo ritiro vanificò tutto. L’interesse dello scontro tra
le vetture americane della Duesenberg e le vetture italiane dell’Alfa Romeo
persisteva soltanto da un punto di vista nazionalistico, non da quello della
vittoria in campionato. “Il Campionato del Mondo, così come è stato
organizzato in questo primo anno, non ha avuto alcuna efficacia per
incoraggiare le marche straniere a partecipare a più prove”: così scriveva
Auto-Moto-Ciclo il 1° sett. 1923, per proseguire dicendo: “Questo beninteso
non significa che l’incontro italo-americano di Monza non sia d’un estremo
interesse e non costituisca da solo un vero Campionato del Mondo”.
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Nelle prove le Duesenberg segnarono tempi velocissimi, aiutate da una
carrozzeria molto ben profilata. Le caratteristiche delle vetture italiane ed
americane non differivano di molto, se non per il sistema di
sovralimentazione. Mentre l’Alfa Romeo disponeva di un compressore
rotativo a doppia girante, nelle Duesenberg era del tipo centrifugo, ad
altissimo numero di giri. Inoltre mentre quello dell’Alfa mandava l’aria al
carburatore e da questo ai cilindri, quello americano aspirava invece la
miscela e la comprimeva nei cilindri. Si trattava, quest’ultimo, di un sistema
ottimamente sperimentato sulle piste americane, che richiedevano alle
vetture uno sforzo costante. Le caratteristiche dell’Autodromo di Monza
imponevano invece anche grande prontezza di ripresa: una centrifuga
funzionante a velocità dell’ordine di 30.000 giri non poteva certo prestarsi
con la stessa facilità dei compressori rotativi ad improvvise variazioni di
regime. La pompa rotativa, inoltre, è in grado di conservare la sua efficacia
anche a basso regime, quella centrifuga invece può trovarsi in difficoltà a
fornire una compressione sensibile sotto un certo numero di giri. Per quanto
riguarda la velocità, i pronostici propendevano ad attribuire il primato alle
Duesenberg, capaci, a quanto si diceva, di toccare i 232 km/h (in realtà nelle
prove Kreiss non aveva superato i 170 km/h). Ma restava l’incognita del
cambio, che poteva rivelarsi non adeguato a Monza.
La prima fase della gara sembrò dar ragione a chi prevedeva una superiorità
dei colori americani. Infatti a comparire all’inizio in testa fu la bianca vettura
di Kreiss, dopo un giro ad andatura da record, e in anticipo vistoso su
Campari. Quest’ultimo, d’altronde, non entrò mai veramente in gara. Forse
ancora psicologicamente provato dalla morte del suo fraterno collega, e
scombussolato da un incidente in allenamento*, non riuscì mai ad essere
realmente pericoloso. Però già dal secondo giro Kreiss uscì di scena, per un
guasto occorsogli in curva nel cambiare di velocità, allorché fu costretto ad
una frenata tanto potente quanto improvvisa. Scomparso Kreiss, lo stesso
Milton adottò un’andatura assai più prudente. Anzi, ad alcuni parve fin
troppo prudente, come se non gli importasse trarre dalla propria vettura il
massimo del rendimento. Questa impressione fu confermata dai tempi
perduti ai rifornimenti. Si fermò una prima volta per quattro minuti e mezzo,
per rifornirsi di benzina, e già questo tempo fu giudicato eccessivamente
lungo. Ma era niente in confronto ai venti minuti che tolsero definitivamente
alla Duesenberg qualsiasi speranza di vittoria, durante i quali Milton si fece
riparare il raccordo di una tubazione dell’olio. Forse mancò la volontà di
ingaggiare una lotta agguerrita, nonostante vi fosse un unico punto su cui le
vetture americane si dimostrarono inferiori alle italiane, il cambio, come
previsto alla vigilia. Progettato per piste dove si può marciare in prevalenza in
presa diretta, non resse ai continui cambi di rapporto imposti da Monza: per
questo motivo dovette ritirarsi Kreiss, e per lo stesso motivo Milton a metà
corsa, dopo la sua interminabile sosta ai box, dovette farsi spingere dal
meccanico e mantenere poi sempre la macchina in terza senza poter più
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cambiare. Terminò la gara ad una media di 138 km/h, una velocità molto
inferiore a quella toccata da Kreiss in prova.
Le tre vetture italiane riuscirono ad arrivare tutte al traguardo, ma
sicuramente il migliore tra i piloti si rivelò Brilli – Peri, fino ad allora
considerato un buon segugio, mentre Campari, come si è detto, non entrò mai
in gara, e tanto meno ci entrò De Paolo, evidentemente in grande difficoltà a
padroneggiare pista e macchina. Dopo cinque ore di carosello, la gara terminò
con Brilli Peri al primo posto (e vincitore del Campionato del Mondo), che
percorse gli 800 km del tracciato in 5 ore, 14 minuti 33 secondi, alla media
oraria di 152,596 km/h, lasciando perciò imbattuto il record stabilito da
Ascari l’anno precedente (158,896 km/h); al secondo Campari, in 5 ore, 35
minuti 30 secondi (media 143,69 km/h); terzo Costantini su Bugatti, vincitore
del Gran Premio d’Italia Vetturette in cinque ore 44 minuti, 40 secondi, alla
media di 139,258 km/h; quarto Milton, quinto De Paolo, sesto de Vizcaya su
Bugatti, secondo classificato al Gran Premio Vetturette. Ma una soddisfazione
gli americani se la tolsero: se non vinsero il Campionato del Mondo si
aggiudicarono il giro più veloce, con Kreiss che impiegò 3’36”33/100, media
oraria 166,105 km/h.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
2005
* durante gli allenamenti un pneumatico usciva dal cerchione e provocava un
pauroso sbandamento della vettura. Campari riuscì a restare al volante ma
questa compì ugualmente un testa-coda e nel ritornare nel senso di marcia
andò ad urtare contro un albero. Nell’urto il pilota riportava lievi ferite alla
fronte e al torace.
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LE CLASSIFICHE
V Gran Premio d’Italia –
Campionato del Mondo
1. Brilli Peri su Alfa Romeo, pneumatici Pirelli, che percorre gli 800 km in
ore 5.14’33” alla media oraria di 152,596 km/h;
2. Campari su Alfa Romeo, pneumatici Pirelli, in 5.35’30”, media 143,69
km/h;
3. Costantini su Bugatti 1500 cc, pneumatici Michelin, in 5.44’40”, media
139,258 km/h;
4. Milton su Duesenberg, pneumatici Firestone, in ore 5.46’40”
5. De Paolo su Alfa Romeo, pneumatici Pirelli, in 5.48’10”
6. Fernando de Vizcaya su Bugatti 1500 cc, pneumatici Michelin, in 5.50’49”
7. Foresti su Bugatti 1500 cc, pneumatici Michelin, in 5.55’18”;
8. Pietro de Vizcaya su Bugatti 1500, pneumatici Michelin, in 6.1’32”
III Gran Premio d’Italia Vetturette
1. Costantini Bartolomeo su Bugatti 1500, che compie gli 800 km di percorso
in ore 5.44’40”, alla velocità media oraria di 139,258 km/h
2. De Vizcaya Ferdinando su Bugatti 1500, in ore 5.50’49”, media di 136,824
km/h;
3. Foresti Giulio su Bugatti 1500 cc, in ore 5.55’18”, alla media di 135,09
km/h;
4. De Vizcaya Pietro su Bugatti 1500 cc, in ore 6.1’32”, alla velocità media di
132,757 km/h
RITIRATI
Eldridge su Eldridge 1500, dopo 20 km;
Kreiss su Duesenberg 2000 cc, dopo 25 km;
Guyot su Guyot 2000 cc, dopo 70 km;
Platé su Chiribiri 1500 cc, dopo 130 km;
Materassi su Diatto 2000 cc, dopo 280 km;
Santoleri su Chiribiri 1500 cc, dopo 380 km;
Goux su Bugatti 1500 cc, dopo 660 km.
Didascalie
Gpi uno
Gpi due
Brilli Peri al rifornimento
altra immagine di Brilli Peri al rifornimento
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Gpi tre
la gloriosa Alfa Romeo P2, vincitrice del Campionato del
Mondo, imbandierata con il tricolore
Gpi quattro
Eldridge, su Eldridge 1500, Santoleri, su Chiribiri 1500,
Brilli Peri, su Alfa Romeo P2, alla linea di partenza. I primi
due, entrambi costretti al ritiro, concorrevano per il Gran
Premio Vetturette, che si svolgeva sulla stessa distanza
Gpi cinque
sulla linea di partenza sono pronti Campari, sulla n. 5 (Alfa
Romeo P2), Guyot sulla n. 4 (su Guyot 2000 avalve),
Materassi sulla n. 1 (su Diatto 2000), Peter de Paolo sulla n.
10 (su Alfa Romeo P2).
Gpi sei
Campari sull’Alfa Romeo P2 che insieme a Sozzi e a Minozzi
condusse al secondo posto
Gpi settembre un passaggio di Brilli Peri
Gpi otto
un rifornimento di Gastone Brilli Peri. Essendo per
regolamento imposta l’assenza del meccanico, era il pilota
stesso a provvedere.
Gpi nove
gli allenamenti della squadra Alfa Romeo nei giorni
precedenti la gara
Gpi dieci
Sulla n. 1 Peter Kreiss su Duesenberg 2000, sulla n. 10 Peter
de Paolo, con Marinoni pilota di riserva, su Alfa Romeo P2;
sulla n. 7 Tommy Milton su Duesenberg 2000
Gpi undici
copertina del Numero Unico Ufficiale
Gpi dodici
il trofeo del primo Campionato del Mondo, opera dello
scultore Antonio Maraini
Gpi tredici
Peter de Paolo su Duesenberg vincitore della 500 Miglia di
Indianapolis del 30 maggio 1925
Gpi quattordici Tommy Milton, Campione d’America 1923, vincitore ad
Indianapolis nel 1921 e nel 1923
Gpi quindici
Peter de Paolo, Campione d’America 1925
Gpi sedici
Peter Kreiss, il secondo pilota Duesenberg
Gpi diciassette Albert Guyot, che partecipò su una vettura di propria
concezione
Gpi diciotto
Meo Costantini, vincitore del Gran Premio Vetturette su
Bugatti
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