097_128_dossier

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097_128_dossier
RAGIONANDO SUL NOSTRO TERZO DOPOGUERRA di Sergio Romano
DAHRENDORF: LA RUSSIA ORA VA AIUTATA a cura di Danilo Taino
UN “EX” MONDO UNITO DALL’INQUIETUDINE di Predrag Matvejevic
DAL CROLLO DEL COMECON AL BOOM ECONOMICO di Stefano Chiarlone
LA DIFFICILE TRANSIZIONE ALL’ECONOMIA DI MERCATO di Lucia Tajoli
URSS: IL BIG BANG DEL GRANDE IMPERIUM di Piero Sinatti
KEPEL: IL MURO? ABBATTUTO DALL’AFGHANISTAN a cura di Farian Sabahi
Al di qua
del Muro
Corbis_Bettmann
DOSSIER
DOSSIER
Che
cosa ha significato la caduta del Muro di Berlino e la fine del “comunismo realizzato”
per i popoli di tutto il mondo e per quelli dell’Europa centro-orientale in particolare? Il
rinculo sul piano dell’economia è stato fortissimo, ma ha poi dato luogo a una crescita
DOSSIER
Ragionando sul nostro
Terzo dopoguerra
di Sergio Romano
Corbis_Peter Turnley
“Il processo di assestamento innescato dalla caduta del Muro di
Berlino è terminato alla fine degli Anni Novanta. Ma era cominciato
nel frattempo un altro terremoto: la distruzione dei pilastri
dell’economia dirigista in tutti i Paesi del blocco comunista”.
È quanto scrive Romano nel libro 1989-2009. Mittelfest. Prove
d'Europa. Curato da Antonio Devetag, il volume sarà presentato al
festival internazionale della Storia di Gorizia (23 maggio) e al
Mittelfest di Cividale del Friuli (18/26 luglio 2009).
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Il Terzo dopoguerra, come fu chiamato il periodo aperto dal
crollo del Muro di Berlino e dal collasso dell’Urss, può essere diviso
in due fasi di lunghezza pressoché eguale. La prima fu quella che i
geologi definiscono la fase delle scosse di assestamento: una lunga
serie di crisi statuali, guerre civili e guerre di secessione che
agitarono sino alla fine degli anni Novanta tutti i Paesi del
comunismo europeo. La Cecoslovacchia si ruppe dolcemente, come
se il confine tra le terre dell’impero d’Austria e quelle del regno
d’Ungheria fosse soltanto una fragile cucitura, mal imbastita dai
sarti di Versailles. La Iugoslavia si ruppe sanguinosamente, in parte
lungo i confini tracciati dal maresciallo Tito alla fine della Seconda
guerra mondiale, in parte lungo quelli etnico-religiosi che
attraversavano la Bosnia e la Serbia.
Le scosse più lunghe e i traumi maggiori sconvolsero l’Unione
Sovietica. L’opinione pubblica occidentale ebbe qualche notizia di
prima mano sulla guerra cecena del 1994-1996, ma quasi non si
accorse di ciò che accadde nei territori al di là del Nistro tra
Moldavia e Ucraina, nel Nagorno-Karabach, nell’Ossezia del Sud, in
Abkhazia e in alcune repubbliche dell’Asia Centrale. Non capì, ad
esempio, che il collasso dello Stato sovietico stava provocando un
fenomeno non troppo diverso, sul piano quantitativo, da quello che
si era prodotto alla fine della Seconda guerra mondiale quando
dodici milioni di tedeschi fuggirono o furono cacciati dai territori
orientali del Terzo Reich, dalla Polonia, dal Sudenland, dalla
Transilvania. Ma i flüchtlinge, in questo caso, erano soprattutto
russi, spinti dalle circostanze ad abbandonare il Baltico, il Caucaso, il
Caspio e l’Asia centrale.
Il processo d’assestamento terminò alla fine degli anni Novanta
quando la terra si stancò di tremare.
Ma era cominciato nel frattempo un altro terremoto: la distruzione
senza precedenti. Più complesso e variegato il panorama politico e sociale. Sia in Russia
sia nei cosiddetti Paesi satelliti. Quanto agli equilibri internazionali, il venir meno della
competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica…
Olycom/Publifoto
dei pilastri dell’economia dirigista in tutti i Paesi del blocco
comunista. Mentre l’Europa occidentale avanzava verso
l’integrazione economica con la creazione di un mercato unico e di
una moneta comune, l’Europa centro-orientale smantellava i
gosplan, i kombinat, i kolchoz, i sovchoz e il gigantesco arsenale
dell’economia di comando. Malauguratamente la ricostruzione
avvenne con le ricette altrettanto ideologiche dei teologi del
liberismo e del Fondo monetario internazionale. Il risultato delle
privatizzazioni a passo di carica fu la nascita in pochi anni di una
oligarchia economica che si appropriò delle risorse naturali del
proprio Paese e fece un uso banditesco della sua colossale ricchezza.
La seconda fase cominciò agli inizi del nuovo secolo. Dopo la
presidenza sostanzialmente cauta e temporeggiatrice di Bill Clinton,
la Casa Bianca di George W. Bush decise che era arrivato il momento
di rifare il mondo a immagine e somiglianza degli Stati Uniti.
L’islamismo radicale (un fenomeno che era andato progressivamente
crescendo negli anni precedenti) offrì l’occasione che i neoconservatori avevano atteso e preparato. L’assalto alle Torri gemelle
ebbe la funzione del colpo di pistola di Sarajevo: la miccia necessaria
al lavoro degli incendiari. Dopo la guerra afghana (una sorta di
ouverture o prologo) il primo atto andò in scena in Iraq perché
Saddam Hussein era il più congeniale dei bad guys offerti dal
mercato internazionale. Ma la strategia di Bush aveva obiettivi più
ambiziosi fra cui il rovesciamento del regime iraniano, la
trasformazione politica dell’intera area medio-orientale, la riduzione
all’obbedienza della Corea del Nord. La macchina s’inceppò a
Baghdad, ma questo non impedì a Bush di spostare l’azione in
Europa dove la Nato partì alla conquista dell’Europa centroorientale e di alcune fra le più importanti repubbliche dell’ex Unione
Sovietica. Il risultato fu il conflitto georgiano e quella che qualcuno,
con un po’ di retorica, ha definito una nuova guerra fredda fra la
Russia e l’Occidente
Mentre Bush tentava la creazione di un nuovo ordine mondiale
guidato da Washington,la Federal Reserve di Alan Greenspan
concepiva ed esportava nel mondo il modello finanziario che avrebbe
permesso agli americani di consumare ricchezza non ancora
prodotta e di scaricare i propri debiti sulle spalle di risparmiatori e
investitori stranieri, soprattutto cinesi. Come tutte le piramidi anche
questa era visibilmente destinata a crollare. Ma dalla bolla olandese
dei tulipani ai nostri giorni, l’ingordigia prevale spesso sulla
saggezza. Il secondo decennio dopo la caduta del Muro termina così
con nuovi terremoti. L’edificio investito dalle scosse, in questo caso, è
quello dell’autorità e del prestigio degli Stati Uniti nel mondo. E
anche in questo caso, come dopo il crollo dell’Urss, vi saranno
ricadute politiche incalcolabili e imprevedibili. Speriamo che il
nuovo inquilino della Casa Bianca ne sia consapevole.
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Dahrendorf: la Russia
ora va aiutata
a cura di Danilo Taino
AFP_P. Armestre
Uno dei maggiori intellettuali europei ed europeisti,
Lord Ralf Dahrendorf, rievoca le attese e le speranze dell’opinione
pubblica occidentale dopo la caduta del Muro. Sull’unificazione tedesca
è convinto che non ci debbano essere ripensamenti. Molto critico sulla
miopia dei governi dell’Unione, è invece convinto che la Russia…
Vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’Europa che si
confronta con la crisi è “in netta ritirata, secondo Ralf Dahrendorf.
Ma questo non significa che il credit crunch mondiale e la recessione
abbiano annullato la svolta iniziata con il crollo del socialismo reale e
poi dell’Unione Sovietica. Lord Dahrendorf, che compirà ottant’anni
quest’anno, è probabilmente il maggior sociologo europeo, anche se
definirlo sociologo è davvero poco, dal momento che è stato politico e
politologo, filosofo, pedagogo, stella intellettuale alla London School
of Economics e poi a Oxford e oggi è anche membro a vita della
Camera dei Lord in Gran Bretagna, nonostante sia tedesco. Quella
che espone in questa intervista è la sua visione, da liberaldemocratico, degli eventi accaduti in questo ventennio anche alla luce
della crisi finanziaria ed economica del 2009.
AFP_W. Baum/DPA
Lord Dahrendorf, la crisi in atto chiude la fase aperta dall’89, quando si parlava di democrazia in espansione ovunque e di libero mercato su scala planetaria? Quella spinta sembra più che perduta,
pare di essere in retromarcia.
Mah, starei molto attento a fare analisi affrettate. Si oscilla tra
opposti ben lontani nella lettura della crisi. A un estremo c’è chi dice
che tutto nasce dal fatto che al segretario al Tesoro americano Hank
Paulson non andasse a genio il capo di Lehman Brothers, Richard
Fuld, e quindi avrebbe lasciato che la banca fallisse. Un incidente,
insomma. All’altro estremo c’è chi sostiene che Marx avesse già
previsto tutto. In altre parole che è la fine del capitalismo. In realtà,
le ragioni sono altre, stanno prima di tutto nella cultura del debito
che si era imposta. In ogni caso, penso che l’economia di mercato e la
società aperta se la possano cavare, anche se la crisi è davvero
profonda. Certo, cambieranno parecchie cose, anche i valori. E
probabilmente ci saranno violenze e tensioni sociali: mi pare di
capire che Nicolas Sarkozy sia molto preoccupato, e che sia disposto
a concedere molto del suo programma pur di comprare la pace
sociale. Detto questo, non credo che la fase aperta dalla caduta del
Muro di Berlino si sia chiusa.
AFP_M. Urban
L’Europa e la Germania, che furono al centro di quei momenti straordinari di vent’anni fa, si stanno muovendo bene, a suo parere?
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Il mio amico Timothy Garton Ash dice che l’Europa non esiste
e, altro che G20, andiamo verso un G2 tra Stati Uniti e Cina. Sul
fatto che l’Europa non esista concordo con lui. E non a causa di
Mirek Topolánek e della caduta del governo ceco. Non esiste perché
i leader maggiori vanno in direzioni significativamente diverse.
Soprattutto, chiedono a Bruxelles di sminuire l’Europa, di allentare
le regole del mercato unico. È una situazione che può creare tensioni tra i diversi Paesi e comunque indebolisce l’Unione europea. In
più, c’è una situazione grave in Europa dell’Est: l’insieme delle crisi
acute in alcuni Paesi e delle differenze di visione politica possono
essere fonte di rotture per la Ue.
La cancelliera Angela Merkel è però convinta che il modello europeo di capitalismo – o meglio il modello sociale di mercato tedesco
– sia vincente e da esportare a livello mondiale, addirittura con una
Carta globale per un’economia sostenibile. Anche perché ha superato il test dell’unificazione e ora, dice, regge bene nella crisi.
Può darsi che Frau Merkel abbia dato una risposta alla crisi
migliore di quella che hanno dato gli anglosassoni Barack Obama e
Gordon Brown, che puntano tutto su enormi pacchetti
congiunturali. Lei è più preoccupata del debito pubblico e di quello
che succederà dopo la crisi. Ma quanto a esportare il modello
tedesco, non credo che in questo momento la gente ne voglia
nemmeno discutere. Intendo la gran parte dei governi ma anche le
opinioni pubbliche. Non sono nemmeno sicuro che si sappia davvero
cos’è l’economia sociale di mercato. In realtà credo che sia un mito,
un bel termine che non significa nulla. È un compromesso ibrido
nato nell’immediato dopoguerra: un po’ di Bismarck sociale e un po’
di semicapitalismo alla tedesca, quell’intreccio di corporativismo,
rapporti tra banche, industria e politica fuori dal mercato. Non vedo
come si possa esportarlo.
Veniamo a quei giorni. Un suo connazionale, il Premio Nobel Günter
Grass, sostiene che l’unificazione delle due Germanie fu in realtà un
takeover del capitalismo dell’Ovest sulla Ddr. Condivide?
Sì: era esattamente quello che volevano i cittadini dell’Est ed era
quello che volevo anch’io. Sono contento che così sia stato. Mi spiace che le cose non siano successe in modo abbastanza chiaro e condiviso: imporre all’Est le condizioni dell’Ovest era un errore, ma era
un errore inevitabile, non si poteva farne a meno. Il problema, piuttosto, è che il takeover di cui parla Grass più che del capitalismo è
stato un takeover del non capitalismo della Germania Ovest: sono
sempre rimasto scioccato dalla velocità con la quale le corporazioni,
le camere di commercio, le associazioni dei medici e via dicendo
hanno conquistato l’Est. È chiaro comunque che una confederazione
tra due Stati diversi era impossibile.
Non credo che l’unificazione abbia indebolito la Germania. Anzi,
l’ha forse rafforzata. L’Est è ancora nella fase di rincorsa, di recupero.
Ma è un recupero in corso. In più, l’Est ha introdotto differenze che
nella Germania di oggi sono comunque utili, positive.
È stato guidato bene il processo di unificazione dai governi che si
sono succeduti in questi due decenni, prima quelli di Helmut Kohl,
poi quelli di Gerhard Schröder e ora quello di Angela Merkel?
Sono stati governi mediocri ma non tragici. Kohl ha fatto
l’unificazione. Schröder non è mai stato credibile, devo dire. Come
quella volta che firmò assieme a Tony Blair il documento sulla terza
via e poi se lo rimangiò immediatamente: la disonestà della cosa non
Grazia Neri_M. Mencarini
La Germania federale precedente all’unificazione avrebbe affrontato
meglio le crisi di oggi? Era più forte?
_Nella pagina accanto il premio Nobel per la
letteratura Günter Grass, Lord Ralf Dahrendorf
e l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt
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mi è mai piaciuta, la trovo poco intelligente. Ma un certo numero di
cose le ha poi fatte, qualche riforma. Quello che mi ha sempre stupito
è la loro incapacità di spiegare alla gente la situazione e quello che
stavano facendo. Frau Merkel è singolarmente incapace di spiegarsi.
Qui c’è una grande differenza con l’epoca precedente alla caduta del
Muro: Helmut Schmidt aveva, e ancora ha a novant’anni, una
capacità di spiegare e chiarire straordinaria.
Il dopo Muro ha anche cambiato molto le dinamiche tra i partiti tedeschi.
Moltissimo, i due grandi partiti popolari, l’Unione Cdu-Csu e la
Spd, perdono rapidamente. Il risultato più probabile delle prossime
elezioni di settembre è che i due siano costretti a rifare la Grosse
Koalition, ma rischiano di prendere la maggioranza per poco: Frau
Merkel nei sondaggi perde il 5% rispetto al cattivo risultato del
2005. Il suo avversario, il socialdemocratico Frank-Walter Steimeier,
perde l’8%. Se non cambia qualcosa, saranno costretti a una
coalizione che di grande avrà ben poco, di certo non la maggioranza.
Quanto a un governo tra Cdu-Csu e liberali mi sembra non facile:
assieme, nei sondaggi, arrivano al 50%. Non credo che
formerebbero un governo con una maggioranza minima.
Dieci anni di Grosse Koalition non sarebbero un problema?
I due grandi partiti popolari, quando stanno insieme troppo,
lasciano poco spazio alle opposizioni e alle alternative.
È negativo, infatti. Ma non so cosa farci se in questi anni i
partiti popolari storici sono diventati non più popolari.
Nell’89 e soprattutto negli anni successivi, si erano accese speranze
ben diverse per la Russia. Invece…
È un Paese che ha paura e sta attraversando una crisi economica
spaventosa. È spaventata da tutto: dall’economia e dal fatto di pensare
che tutti siano contro la Russia. Nessuno, in realtà, in questi anni dà
retta ai russi e loro, ogni tanto, si fanno sentire nel campo dell’energia
o resuscitando la retorica del passato da superpotenza nucleare. Non
deve essere simpatico essere a capo del Paese, a Mosca, oggi. Sono
però contrario all’idea che l’Occidente cerchi di sfruttare questa
debolezza. Al contrario, la Russia va aiutata.
Vent’anni dopo, però, in Germania e forse anche in Italia, c’è ancora
un’idea della Russia uguale a quella di quando il vicino si chiamava
Unione Sovietica ed era “l’altra” superpotenza. A Berlino raggiunge
livelli da ossessione. Non le pare?
Sì, la Germania è ossessionata dalla Russia, nonostante che
come ex superpotenza questa sia severamente indebolita: le resta
solo l’arsenale nucleare che, certo, non è poca cosa. Il fatto è che di
questi tempi i russi sono molto tesi e facilmente irritabili. Hanno
paura della crisi e dell’espansione della Nato. Sarebbe una buona
cosa se li aiutassimo a uscire da questa situazione.
102
AFP_G. Malie
Ai giovani, nel 1989, si prometteva un mondo aperto, in crescita,
senza più guerra fredda. Cosa possiamo promettere loro oggi,
vent’anni dopo e in piena crisi del capitalismo.
I giovani erediteranno un bel caos, e un bel po’ di debiti
che gli Stati stanno accumulando. Non è bello. Ma non ho dubbi:
sapranno cavarsela.
Un “ex” mondo
unito dall’inquietudine
di Predrag Matvejevic
Fino a qualche tempo fa osservavamo in primo luogo l’Est
europeo e un sistema sociale che crollava. Da meno di un anno, nel
2008-2009, guardiamo non solo in questa direzione. I nostri sguardi
s’incrociano e si perdono in lontananza, creando una paura quasi
universale. Essa sembra unirci più di una globalizzazione che cercava
a modo suo di “avvicinarci” gli uni agli altri. Oggi, quasi tutto il
mondo diventa più o meno “ex”. Lo unisce la nostra inquietudine.
La caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda hanno
visto una parte del mondo vivere un'esistenza in qualche modo
postuma: un ex impero, numerosi ex Stati ed ex patti tra Stati, tante
ex società ed ex ideologie, ex cittadinanze ed ex appartenenze, e
anche ex dissidenze e ex-opposizioni. Era legittimo domandarsi
cosa significasse, in realtà, essere o dirsi “ex”. Essere stato cittadino
di un'ex Europa più o meno affrancata, di una ex Unione Sovietica
disgregata, di una ex Iugoslavia distrutta. Essere diventato un ex
socialista o ex comunista, ex tedesco dell'Est, ex-cecoslovacco – cioè
solo ceco o solo slovacco – membro di un ex partito o partigiano di
un ex-movimento.
L'Est non aveva diritto esclusivo allo status di “ex”. In Occidente
e altrove, si conoscono bene degli ex stalinisti, degli ex colonialisti,
degli ex-sessantottini (tanti, dappertutto), tutta una ex sinistra
diventata nuova destra, una vecchia destra convertita al “neo
liberalismo”, una ex democrazia cristiana suddivisa tra destra e
sinistra, che ha talvolta impoverito il cristianesimo senza arricchire
per contro la democrazia; una ex socialdemocrazia imbastardita sulla
quale si sono innestati alcuni ex-progressisti pentiti; un ex
socialismo occidentale che si è tagliato via dalle sue stesse radici, un
ex-franchismo o un ex salazarismo diventati “europeisti”.
Probabilmente, domani si parlerà di una ex Unione europea che
avrebbe rinnegato un vecchio continente inerte e indeciso, colpevole
per molti motivi. C'è un odore di ancien régime attorno a noi, odore
d'infezione o di avaria. La morale sembra si adatti alle mille e una
maniera di voltare gabbana, pronta a considerare qualsiasi rigore
come una sopravvivenza.
Siamo anche testimoni di tante cose inattese e sorprendenti:
quasi nessuno pensava che il “capitalismo finanziario” potesse fare
tanto male al capitalismo stesso, metterlo in questione in un modo
simile. Si pensava – e si prevedeva una volta – che la “lotta delle
classi” facesse questo lavoro, radicalmente. Tanti di noi erano
ingenui. La “crisi” che stiamo vivendo non permette più ipotesi
scolastiche o riferimenti partitici. Dobbiamo viverla, non tutti nello
stesso modo, ma coinvolti spesso malgrado noi stessi.
Dalla nostra esperienza precedente (penso a noi che abbiamo
vissuto nell’ex Europa dell’Est), sappiamo che lo statuto di “ex” è
Corbis_R. Bossu/Sygma
L’Est non aveva diritto esclusivo allo status di “ex”. In Occidente e
altrove si conoscono bene degli ex stalinisti, degli ex colonialisti, degli ex
sessantottini, tutta una ex sinistra diventata nuova destra, una vecchia
destra convertita al neoliberismo…
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AFP/DPA
DOSSIER
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più grave di quanto non sembri a tutta prima: quell'“ex” è visto e
vissuto come un marchio, talvolta come delle stimmate. E di volta in
volta un legame, involontario, o una rottura, voluta. Può trattarsi di
un rapporto ambiguo, quanto di una qualità ambivalente. Essere “ex”
è, da una parte, avere uno statuto mal determinato e, dall'altra,
provare un sentimento di disagio.
Tutto ciò concerne tanto gli individui che la collettività, tanto la
loro identità quanto le modalità della loro esistenza: una specie di “ex
istanza”, ad un tempo retroattiva e attuale. Il fenomeno è nello stesso
tempo politico (o geopolitico se si preferisce), sociale, spaziale,
psicologico. Pone più di una questione morale e mette in causa una
morale precedente. Non si nasce “ex”, lo si diventa. Tanti
rinnegamenti, rimaneggiamenti del passato o del presente sono in
atto, auto-giustificazioni o aggiustamenti di percorso, fughe in avanti
o all'indietro, modi di rifare o di disfare se non la propria vita almeno
il nostro sguardo sulla vita.
Lo choc per quanto è accaduto e sta accadendo sembra tanto
violento quanto imprevisto. Le “transizioni”, per quanto male
assicurate all’Est, prevalgono ancora sulle “trasformazioni”.
L’Occidente guarda innanzitutto agli affari suoi. La democrazia
proclamata in vari Paesi del mondo appare più spesso con le
caratteristiche di una “democratura” (ho coniato questo termine
all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso per definire un ibrido
tra democrazia e dittatura, non solo nei Paesi detti dell’Est). Un
populismo penoso è sempre stato pronto a sostenere quasi tutti i
regimi dubbiosi. La laicità è stata poco popolare in gran parte dell'Est
e dell'Occidente, senza parlare del cosiddetto “Terzo mondo”. Il
“giocattolo nazionale” non ha mai perso la sua attrattiva. La cultura
nazionale si converte facilmente in ideologia della nazione e sbocca
spesso su progetti nazionalisti. L'idea di emancipazione scompare
dall'orizzonte, “invecchiata” o “utopica”. I nostri discorsi sono quasi
inevitabilmente sfasati, il loro centro di gravità sembra spostato.
Il mondo “ex” è pieno di eredi senza eredità, di svariate mitologie
che si escludono reciprocamente: riedizioni del passato e del presente,
immagini disparate e rimesse insieme alla leggera, schermi frapposti
in fretta o griglie di lettura mal applicate, paradigmi messi in
questione dalla loro stessa definizione. Le utopie e i messianesimi si
vedono sistemati tra gli accessori di un passato irrecuperabile. Un
aggiornamento della fede e della morale non sembra essere
perseguito che in ambienti limitati e occasionalmente. Fino a poco
tempo fa un “post-modernismo” cercava, senza troppa fortuna, di
imporsi sull'arte e sul pensiero per rimpiazzare ciò che nell’epoca
precedente era stato acclamato come “moderno”: un ex
modernismo criticabile, certamente, ma non insignificante. Le
avanguardie, che hanno proclamato e svolto i loro ruoli, sono
ormai “classificate”. Le fonti della grande letteratura, generatrice
di simboli, sembrano esaurite. Forme di “decostruzione”
tendevano a sostituirsi a sintesi poco soddisfacenti. Una nuova
storia rifiutava di sottoporre la “lunga durata”, come faceva la
precedente, al vaglio degli avvenimenti. La vecchia università non
è riuscita a riformarsi. L'invocazione dell'“immaginazione al
potere” è già da tempo dimenticata.
Le alternative non sono state create né dalla destra né – ahimè! –
dalla sinistra. Cerchiamo almeno di superare la paura. So che questo
slogan sembra troppo modesto, ma non ne vedo un altro più affidabile.
Corbis_D. Auberti/Sygma
Dal crollo del Comecon
al boom economico
di Stefano Chiarlone
Com’era prevedibile, la caduta del Muro ha determinato nell’immediato
una crisi profonda del modello di sviluppo ereditato dal vecchio regime.
Ma già nei primi anni Novanta l’economia ha preso a correre. Tra il
1990 e il 2006 il tasso di crescita annuale composto nei Paesi Peco è stato
superiore al 12%. In questo periodo i risultati migliori sono stati
conseguiti da Repubblica Ceca e Slovacchia, mentre la Bulgaria…
AFP_A. Kisbenedek
Dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta del Muro di
Berlino, i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale (Peco) sono stati
contraddistinti dalla proprietà socialista e dalla pianificazione
centralizzata. Riguardo al commercio internazionale, le principali
caratteristiche di quel modello erano il monopolio di Stato e
l’adesione al Consiglio per la Mutua Assistenza Economica
(Comecon). Il primo, a fronte della frequente penuria di prodotti, del
razionamento da parte dello Stato e di schemi di perequazione dei
prezzi, ha ridotto in misura considerevole il commercio con l’estero
di detti Paesi; i tassi di cambio multipli, poi, hanno acuito tale
scenario già negativo. La seconda ha stimolato con decisione le
relazioni bilaterali con l’Unione Sovietica e, in misura minore, con gli
altri Stati membri, determinando al contempo gravi distorsioni nel
modello di specializzazione.
In seguito alla caduta del Muro di Berlino, le economie
dell’Europa centro-orientale hanno dato inizio, tuttavia, a una
profonda revisione del proprio sistema, innescando una riallocazione
delle risorse in favore di nuove attività e favorendo la
ristrutturazione delle aziende sopravvissute alla crisi. La conseguenza
è stata un grave crollo iniziale della produzione. Successivamente, la
liberalizzazione del tasso di cambio e della struttura commerciale, la
privatizzazione delle aziende statali e l’instaurazione di un ambiente
maggiormente fondato sulla concorrenza hanno spronato la ripresa
strutturale. Tra i fattori che hanno concorso a questo risultato va
considerata la maggiore efficienza stimolata dalla riallocazione delle
risorse verso settori industriali nei quali ciascun Paese poteva contare
su vantaggi comparati. Peraltro, l’apertura al commercio
internazionale ha favorito la crescita instaurando legami globali e
facilitando l’integrazione nell’Ue.
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DOSSIER
TABELLA 1: QUOTA PERCENTUALE DI PARTNER COMMERCIALI PRIVILEGIATI SULLE ESPORTAZIONI TOTALI DEI PECO
REPUBBLICA CECA
Ue
Usa
Austria
Francia
Germania
Italia
Spagna
Gran Bretagna
Repubblica Ceca
Ungheria
Polonia
Bulgaria
Romania
Russia
Slovacchia
1999
70.5
2.6
1.6
4.2
43.6
3.6
1.8
3.6
1993
49.4
2.1
1.2
2.1
26.5
5.5
1.4
3.7
1986
26.8
0.6
3.9
1.5
15.0
1.7
0.3
1.8
1.6
5.3
0.4
0.5
1.4
7.3
1.7
3.0
0.4
0.2
4.6
20.2
1.6
3.4
2.6
1.7
33.8
UNGHERIA
POLONIA
1999
79.4
5.8
8.9
4.7
41.5
5.3
1.5
4.9
1.3
1993
61.4
5.1
9.2
3.6
31.2
6.8
0.6
2.9
1.2
1986
22.6
2.3
5.3
1.6
8.4
3.2
0.2
1.3
5.9
1.8
0.2
1.5
0.9
0.9
1.6
0.3
1.5
10.0
1.2
4.2
1.6
2.0
33.9
1986
74.0
2.9
5.3
5.3
38.9
7.1
1.6
4.2
3.4
1.9
1993
70.5
3.4
4.1
4.5
40.4
5.1
0.6
4.5
2.0
0.9
1986
23.6
2.1
2.6
2.0
9.2
2.2
0.3
3.3
4.9
2.6
0.2
0.3
1.8
0.9
0.2
0.3
4.0
1.0
1.9
1.9
23.7
Fonte: calcoli su dati Un Comtrade e Fmi Direction of Trade Statistics
La fase iniziale dell’evoluzione dei modelli commerciali dei Paesi
dell’Europa centrale e orientale è consistita in un riposizionamento
geografico al di fuori del sistema Comecon e indirizzato all’Europa
occidentale. In proposito, sono illuminanti i dati relativi a Polonia,
Repubblica Ceca e Ungheria (Tabella 1). Nel 1986 l’Unione Sovietica
attirava tra il 23,7 (Polonia) e il 33,8% (Repubblica Ceca e
Ungheria) delle esportazioni di questi Paesi; quote non molto
distanti da quelle attirate – all’epoca – dall’Ue-15. Quest’ultima
importava il 22,6, 23,6 e 26,8% delle esportazioni polacche,
ungheresi e ceche, rispettivamente. Gran parte delle importazioni
europee andavano alla Germania Ovest. Nel 1993 era in corso un
forte riposizionamento geografico. La quota della Russia si è
nettamente ridotta ed era meno della metà del valore del 1986,
mentre la percentuale dell’Ue sulle esportazioni della Repubblica
Ceca era il doppio, quella sulle esportazioni polacche e ungheresi il
triplo. Quasi l’intero riposizionamento verso l’Europa occidentale è
stato determinato – numericamente – dall’aumento della quota
tedesca1. Tali tendenze sono state confermate dall’evoluzione dei dati
fino al 1999, quando si registra un peso ancora maggiore delle
TABELLA 2: PESO DELL’UE RISPETTO
ALLE IMPORTAZIONI ED ESPORTAZIONI PECO
(% sul totale), 2007
Bulgaria
Repubblica Ceca
Ungheria
Polonia
Romania
Slovacchia
esportazioni dall’Ue-27
60.8
85
79.2
78.8
72.2
86.7
AFP
Fonte: calcoli su dati Un Comtrade
1. In parte, forse a causa della riunificazione tedesca.
106
importazioni dall’Ue-27
58.5
70.7
70.5
64.1
71.3
61.1
importazioni Ue (70% circa per ogni Paese) e un ruolo trascurabile
della Russia. Oggi, Tabella 2, l’Ue-27 costituisce il primo partner per
importazioni ed esportazioni per i principali Paesi dell’Europa
centrale e orientale.
Altra evoluzione degna di nota è stata l’aumento dell’apertura ai
mercati internazionali e la crescita del volume delle esportazioni.
Entrambi i fattori avevano segnato una tendenza negativa dal 1980
al 1989 a causa della sempre più marcata disgregazione dei rapporti
economici tra i Paesi appartenenti al Comecon; questo, a fronte di
esportazioni verso il resto del mondo (considerata la bassa qualità
dei prodotti di molti Paesi dell’Europa Centrale e Orientale) che
non erano in grado di controbilanciare la situazione. Detta tendenza
si è invertita a partire dagli anni Novanta.
TABELLA 3: CRESCITA MEDIA ANNUA DEI VOLUMI ESPORTATI ($ USA)
Bulgaria
Repubblica Ceca
Ungheria
Polonia
Romania
Slovacchia
1990-95
12.4
34.7
15.4
16
11.8
25.7
1995-00
1.6
8.7
15.7
17.3
8.2
7.6
2000-05
14.1
12.6
7.8
6.1
16.4
13
1990-06
9.4
18.1
12.9
12.8
12.1
15.1
Fonte: calcoli su dati Iif
I dati a disposizione indicano una dinamica tendente al rialzo per
i volumi esportati dai principali Paesi dell’Europa centro-orientale a
partire dal 1990, come conseguenza, in parte, del precedente scarso
livello di integrazione internazionale e, in parte, della crescente
disintegrazione verticale della produzione connessa al commercio
con i Paesi Ue. Fattore determinante è stato anche il forte afflusso di
investimenti diretti stranieri (più di 200 miliardi di dollari Usa dal
1990 al 2006), la gran parte dei quali provenienti dai Paesi
dell’Europa occidentale. Numerosi studi confermano l’impressione
che più profonda è la penetrazione degli investimenti diretti, più
rapida è la velocità dei cambiamenti strutturali dei modelli di
specializzazione industriale. Non a caso i Peco sono ormai
ubicazione privilegiata di numerosi produttori Ue che hanno
delocalizzato le proprie attività produttive per contrastare la
concorrenza di altre economie caratterizzate da ridotto costo del
lavoro, sfruttando capacità produttiva locale, forza lavoro qualificata
e differenziali del costo del lavoro.
Corbis_S. Raymer
La fase di crescita è continuata anche negli anni Novanta e
Duemila. Nel complesso, dal 1990 al 2006, il tasso di crescita annuale
composto (Cagr) dei volumi esportati dai Peco è stato superiore al
12%. In questo periodo, i risultati migliori sono stati conseguiti da
Repubblica Ceca e Slovacchia, mentre la Bulgaria ha riportato una
prestazione inferiore alla media, con un Cagr del 9% (Tabella 3).
Conseguenza diretta della forte crescita delle esportazioni
mercantili è stata la maggiore apertura internazionale delle
principali economie dell’Europa centro-orientale (Grafico 1). Nel
107
DOSSIER
Grafico 1: Esportazioni/Pil
10 x
9x
8x
CZE X/PIL 1988=1
BUL X/PIL
HUN X/PIL 198
POL X/PIL 198
1988=1
SLK X /PIL 198 8=1
ROM X/PIL
1988=1
BUL X/PIL
Sc . di Dx
x
HUN X/PIL
S c . di Dx
CZE X/PIL
Sc . d i Dx
POL X/PIL
Sc. di Dx
SLK X /PIL S c . di Dx
ROM X/PIL
8=1
8=1
65%
Sc . di Dx
55%
7x
45%
6x
5x
35%
4x
25%
3x
2x
15%
1x
0x
1988
1992
1996
2000
2004
5%
Fonte: calcoli su dati Iif
complesso, nel 2006, il rapporto tra esportazioni e Pil era appena
inferiore al 70% per Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia, a
fronte di valori tra il 10 e il 20% nel 1988; per gli altri tre Paesi,
l’aumento andava dal 10-15% del Pil nel 1988 a circa il 30-40% nel
2006. Ciò lascia ipotizzare che l’integrazione economica sia
aumentata in misura considerevole e il commercio con l’estero
rappresenti ormai una percentuale rilevante del Pil. Ad esempio, il
rapporto tra export e Pil nel 2006 era di oltre 9 volte quello del 1988
per la Slovacchia, e di più di 6 volte per la Repubblica Ceca.
Olycom/Rex Features
Infine, la nuova apertura commerciale dei Peco ha influito sulla
rispettiva specializzazione settoriale. Per il periodo 1993-1999, i dati
relativi a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria sono esemplificativi
del ritmo di trasformazione della specializzazione stessa.
108
Nel 1993, ad esempio, la Polonia esportava soprattutto merci
ad alta intensità di lavoro non qualificato, la Repubblica Ceca per
lo più beni a uso intensivo di capitale umano e l’Ungheria
prodotti ad alto uso di tecnologia. Da un punto di vista dinamico,
il peso dei settori che si avvalgono di manodopera non qualificata
è diminuita per questi Paesi (in modo più marcato per
l’Ungheria). Per la Polonia, quelli ad alta intensità di lavoro sono
rimasti i principali settori di esportazione, e si è registrato altresì
un aumento dell’export di beni ad alta intensità di capitale umano
e un peso costante per i beni a elevato uso di tecnologia. Nella
Repubblica Ceca il peso delle merci a uso intensivo di capitale
umano ha registrato una contrazione, mentre i beni ad alta
intensità di tecnologia hanno accresciuto la propria quota,
raggiungendo le prime. Quanto all’Ungheria, ha segnato un
moderato aumento del peso dei beni ad alto uso di capitale umano
e un forte incremento della quota dei tecnologici. In parte, questo
fenomeno di avanzamento è connesso alla già menzionata
delocalizzazione dall’Europa occidentale: i Peco hanno un ruolo
decisivo nelle fasi ad alta intensità di manodopera della catena del
valore di molti settori industriali avanzati (es. l’automobilistico).
TABELLA 4: STATISTICHE DEL COMMERCIO MONDIALE
PER LA REPUBBLICA CECA
Non qualificato
Capitale umano
Tecnologia
Repubblica Ceca
1993
1999
% produzione
0.22
0.26
% produzione
0.40
0.42
% produzione
0.38
0.32
Ungheria
1999
1993
0.17
0.33
0.28
0.25
0.55
0.42
Polonia
1999
1993
0.40
0.45
0.34
0.30
0.25
0.25
Fonte: calcoli degli autori su dati Un Comtrade.
Grazie al coefficiente di correlazione per ranghi di Spearman
(Crs)2 tra i vantaggi comparativi nel 1993 e 1999 (Tabella 5), è
possibile valutare se il grado di trasformazione nel modello di
specializzazione di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria nel periodo
1993-1999 sia stato più marcato rispetto a un gruppo di controllo
rappresentato da altri Paesi Ue. I dati a disposizione suggeriscono
che dal 1993 al 1999, Repubblica Ceca e Ungheria hanno mutato la
propria struttura dei vantaggi comparativi (le Crs sono
rispettivamente 0,72 e 0,61) più di ogni altro Paese Ue. La Polonia
mostra un livello di stabilità maggiore, un dato in linea con quelli
dei Paesi Ue.
TABELLA 5: CORRELAZIONI PER RANGHI DI SPEARMAN
DELL’INDICE DI BALASSA NEL 1993 E 1999
1999-1993
Repubblica Ceca 0.72
Ungheria
0.65
Polonia
0.81
1999-1993
Italia
0.92
Francia
0.81
Germania
0.92
1999-1993
Grecia
0.85
Portogallo 0.88
Spagna
0.84
Fonte: calcoli degli autori su dati Un Comtrade.
È evidente che il forte cambiamento strutturale si è rivelato
decisivo poiché i Paesi in esame emergevano dal periodo comunista.
Ciò nonostante, se estendiamo l’analisi a un periodo più recente, è
facile notare che, sebbene la stabilità del modello di specializzazione
sia aumentata nel periodo 1996-2003 (Tabella 6), rispetto al 19931999, rimane comunque inferiore a quella di Francia, Germania e
Italia; questo lascia intuire che a metà degli anni Duemila il processo
di ristrutturazione del settore delle esportazioni (e del modello
industriale) dei Peco era lungi dall’essere concluso.
Infine, è possibile avvalersi dell’indice di Balassa dei vantaggi
comparati rivelati per mostrare l’attuale modello di specializzazione
TABELLA 6: CORRELAZIONI NEL 1996 E 2003
1999-1993
Repubblica Ceca 0.80
Ungheria
0.81
Polonia
0.82
1999-1993
Slovacchia
0.75
Bulgaria
0.74
Romania
0.82
1999-1993
Italia
0.95
Francia
0.85
Spagna
0.93
Fonte: calcoli degli autori su dati Un Comtrade.
AFP
2. Le correlazioni per ranghi di Spearman sono state calcolate sui vantaggi
comparativi rivelati sui dati Sitc Rev. 3. a tre cifre. Essi indicano la correlazione tra
ranghi delle voci a tre cifre.
109
AFP
DOSSIER
dei principali Peco ed evidenziarne le rispettive differenze. Tale indice
si basa sulla quota di un Paese nel commercio mondiale di un
prodotto J diviso per la sua quota di commercio mondiale totale, e
segnala se il Paese concentra in tale determinato settore una quota
delle sue esportazioni maggiore rispetto al comportamento del resto
del mondo. Se l’indice è superiore a 1, è sinonimo di specializzazione.
La Tabella 7 mostra le differenze tra i vari Paesi in termini di modello
di specializzazione. Bulgaria e Romania rivelano una specializzazione
nei settori ad alta intensità di lavoro non qualificato, con poche
eccezioni negli ambiti più avanzati. Il modello di specializzazione di
Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, per contro, appare più fondato
sui settori ad alta intensità di capitale umano (es. l’automobilistico) e
di lavoro non qualificato. L’Ungheria, infine, mostra un modello di
specializzazione più orientato verso i settori ad alta intensità di
tecnologia. In generale, emerge altresì una marcata specializzazione
dei vari Peco in settori caratterizzati da forte delocalizzazione
dall’Europa Occidentale, ad esempio per elettrodomestici, veicoli
stradali e ferroviari e apparecchiature elettriche, e questo conferma
che l’evoluzione dei modelli di specializzazione dei Peco è dipesa
dall’internazionalizzazione di numerose aziende europee.
TABELLA 7: MODELLO DI SPECIALIZZAZIONE DEI PECO, 2005
Alta intensità di lavoro non qualificato
Pellami
Legno, Sughero
Tessile
Articoli da viaggio, valigie
Abbigliamento
Calzature
Manufatti non metallici
Costruzioni navali
Arredamento e idraulica
Giocattoli, prod. in plastica, articoli da ufficio ecc.
Alta intensità di capitale umano
Tintura, concia, colorazione
Prodotti in gomma e plastica
Manufatti metallici e non metallici
Radio, televisori e altri prodotti audio
Elettrodomestici
Veicoli stradali e ferroviari
Orologi, articoli d’arte, gioielleria ecc.
Alta intensità di tecnologia
Prodotti chimici, plastici
Farmaceutici
Macchine di produzione di potenza
Apparecchiature non elettriche
Apparecchiature da ufficio, Tlc ed elettroniche
Apparecchiature elettriche
Aeroplani
Apparecchi fotografici, ottici e cinematografici
BULGARIA REP. CECA UNGHERIA POLONIA ROMANIA SLOVACCHIA
2.4
1.0
0.7
1.7
2.7
1.0
0.4
0.1
0.7
1.4
1.1
1.1
1.9
1.3
1.0
4.0
3.1
1.7
1.4
1.1
0.5
0.8
1.1
0.9
1.4
0.4
0.3
0.1
1.5
0.2
6.2
0.5
0.7
0.9
6.1
0.9
3.7
0.4
0.7
0.5
8.7
2.1
0.7
1.3
0.5
1.0
0.4
0.8
3.0
0.0
0.0
4.3
2.5
0.3
2.0
2.2
1.4
4.9
3.3
2.2
0.6
1.1
0.8
1.1
0.5
0.6
1.1
1.4
0.9
1.4
0.9
1.8
0.8
0.7
0.6
1.3
0.3
0.2
0.6
1.5
0.9
2.0
1.0
2.2
3.1
1.4
0.6
1.5
1.8
1.9
0.0
1.5
3.3
1.5
0.3
3.4
1.2
0.9
1.9
2.9
1.9
1.9
0.1
1.5
0.8
1.3
0.5
1.8
0.2
0.8
0.1
0.4
0.1
0.4
0.5
0.8
1.2
0.6
0.5
0.6
0.9
0.5
0.6
0.6
0.7
0.6
0.4
0.2
0.6
0.2
0.0
0.2
0.5
0.9
3.6
1.8
0.6
0.6
0.6
1.2
0.7
0.7
0.6
0.8
0.1
0.7
1.6
0.2
0.1
0.3
0.9
1.6
1.7
1.2
1.7
1.2
0.0
0.2
0.0
0.1
0.2
0.1
0.5
0.5
0.6
0.3
0.2
0.2
Fonte: calcoli degli autori su dati Un Comtrade; N.B.: cifre >1 sono indice di specializzazione
110
La difficile transizione
all’economia di mercato
di Lucia Tajoli
L’abbandono della pianificazione centralizzata dell’economia nel
giro di pochi mesi, in qualche caso, o di pochi anni in altri, aveva dato
l’avvio alla cosiddetta transizione verso l’economia di mercato,
ovvero verso un sistema economico nel quale le decisioni di
produzione e allocazione delle risorse non sono più prese a livello
centrale dall’alto, ma dal basso. In un sistema di libero mercato,
consumatori e imprese prendono le proprie decisioni sulla base dei
prezzi che si formano sui diversi mercati, i quali fanno funzionare i
meccanismi allocativi e distributivi dell’economia. Guidare e
governare questa fase di passaggio si è mostrato fin dall’inizio un
compito molto complesso, ma assolutamente cruciale. Secondo
diversi economisti che hanno studiato la transizione nei Paesi dell’Est
europeo, il problema più delicato da affrontare è stato quello della
creazione delle istituzioni necessarie per far funzionare i mercati.
Questo è un processo che nella maggior parte dei Paesi cosiddetti
avanzati ha richiesto almeno qualche decennio, ma nei Paesi in
transizione non si poteva certo far durare così a lungo, data la
necessità di riavviare rapidamente la produzione e la distribuzione dei
beni e dei servizi necessari per soddisfare i bisogni della popolazione.
Questa fase iniziale richiedeva governi stabili e con un notevole
consenso, che non sempre però esistevano nelle neonate democrazie
di questi Paesi. L’adozione di un semplice atteggiamento di laissezfaire, perché i mercati trovassero la corretta allocazione delle risorse,
come alcuni sembravano suggerire, non era evidentemente
praticabile, dal momento che i mercati stessi non esistevano ancora.
"Generally, there is a paradox about transition: though the desired endpoint
may be a market system with light government, arguably, transition itself
needs more policy not less. Transition needs to be planned and the
institutions that support a market system need to be designed"1.
L’inesperienza diretta fino alla fine degli anni Ottanta su questo
tipo di transizione ha dato luogo a un acceso dibattito tra gli
economisti su ciò che era necessario fare, in quale ordine procedere e
con quale tempistica. Le due posizioni principali nel dibattito sono
sintetizzabili nell’approccio del “big bang” o della “terapia shock”,
contrapposto a quello del “gradualismo”. La politica del “big bang”
prevede l’abbandono completo della pianificazione e il passaggio
rapido in tutti i settori a una economia di mercato. Al contrario, il
“gradualismo” prevede l’introduzione graduale di scambi di mercato
1. C. Allsopp e H. Kierzkowski, “The Assessment: Economics of Transition in Eastern and
Central Europe”, Oxford Review of Economic Policy, 1997, vol. 13, issue 2, pp. 1-22
AFP_G. Savilov
Dopo la caduta del Muro, con lo smantellamento del Comecon e del
sistema a economia pianificata guidato dall’Unione Sovietica, i Paesi
dell’Europa centrale e orientale si sono trovati ad affrontare un
problema a cui nessun economista era in grado di dare una sicura
risposta: come si costruisce un’economia di mercato? E come è possibile
farlo in tempi brevi e cercando di ridurre al minimo i costi economici e
sociali di questo passaggio?
_Thomas Mirow, presidente della Ebrd
111
DOSSIER
AFP_L. Neal
in un settore alla volta. I sostenitori del “big bang” ritenevano che la
rapidità nell’abbandono della pianificazione e l’estensione del
processo di riforma a tutti i settori consentisse ai diversi tipi di
riforma di rafforzarsi reciprocamente, dal momento che difficilmente
un particolare settore poteva funzionare correttamente secondo
regole di mercato se altri settori collegati non avessero funzionato in
modo analogo (ad esempio, non sembrava possibile privatizzare le
imprese senza mercati finanziari funzionanti). Inoltre, secondo alcuni
i tempi lunghi della politica gradualista ponevano il problema della
dilazione nell'attuazione delle riforme, e dell’ottenimento di risultati
economici positivi, mettendo a rischio il mantenimento del sostegno
politico delle riforme stesse.
Al contrario, i sostenitori del “gradualismo” affermavano che non
è possibile cambiare le cose da un giorno all'altro, e che cercare di
farlo avrebbe creato costi di aggiustamento elevati e strappi nel
tessuto sociale, rendendo dunque la scelta della “terapia shock”
insostenibile politicamente. Inoltre, per poter attuare molte delle
riforme era necessario creare il capitale umano adeguato (per
esempio, i dirigenti delle nuove imprese private o delle banche) e
questo non poteva essere fatto in tempi brevissimi.
_Manfred Schepers, vicepresedente della Ebrd.
Accanto la sede del Comecon, a Mosca
112
Anche se vi è era disaccordo sulle modalità e sui tempi delle
riforme, vi era generalmente consenso sui punti più importanti da
affrontare. La stabilizzazione macroeconomica (principalmente
stabilizzazione dei prezzi, della spesa pubblica e del saldo dei conti con
l’estero) era ritenuta il primo passaggio fondamentale, per garantire il
funzionamento ordinato del sistema nel suo complesso e la possibilità
di mettere in atto politiche economiche adeguate. Per consentire poi ai
mercati di funzionare era necessario attuare la liberalizzazione dei
prezzi e dell’entrata e uscita dai mercati, e la liberalizzazione del
sistema di scambi internazionale e del tasso di cambio. Occorreva poi
che lo Stato si ritirasse dalla gestione diretta dell’attività economica
attraverso la privatizzazione delle imprese statali, e che ridefinisse il
proprio ruolo nel governo dell’economia per mantenere la stabilità
macroeconomica, e creare un sistema giuridico di riferimento,
tutelare i diritti di proprietà e correggere le imperfezioni del mercato.
Così tanti obiettivi erano difficili da raggiungere e spesso
incompatibili se attuati simultaneamente, e dunque tutte le economie
in transizione, indipendentemente dalla strategia adottata, nei primi
anni del processo hanno dovuto affrontare gravi problemi. Sebbene
diversi Paesi siano stati in grado di ritornare in tempi relativamente
brevi a tassi di crescita positivi del Pil, il tasso di disoccupazione non
ha seguito l'andamento a U rovesciata registrato in generale dalla
produzione: buona parte della disoccupazione era legata al processo di
ristrutturazione delle aziende statali e alle scelte di produzione delle
imprese private, ed è risultata più persistente della caduta del Pil.
Questo è uno dei motivi per cui molti Stati hanno proceduto assai
lentamente nell'implementazione delle riforme, e in molti casi si sono
alternate fasi di riforma accelerata a fasi di rallentamento, in
particolare nella privatizzazione delle attività statali. Al di là della
distinzione tra “big bang” e “gradualismo”, il problema della velocità
di attuazione delle riforme è però molto rilevante, sia per la sua
sostenibilità politica che per la sua efficacia nel produrre risultati
economici. Per esempio, gli economisti concordano nel ritenere che
l'eccessiva lentezza che ha caratterizzato Romania e Bulgaria sia stata
negativa da molti punti di vista e abbia portato conseguenze a lungo
termine, che in parte ancora si vedono.
Le condizioni di partenza diversificate tra Paesi e le scelte di
modalità di riforma diverse hanno portato a risultati differenti nel
processo di transizione. Come esempi di due strategie contrapposte è
possibile fare riferimento al “big bang polacco” e al “gradualismo
ungherese”. La Polonia già all’inizio del 1990 abbandonava la
pianificazione centralizzata e si muoveva rapidamente verso un
sistema di mercato, e sebbene questo abbia comportato inizialmente
una caduta molto forte dell’attività economica, la Polonia è stato il
primo Paese a ritornare a tassi di crescita del Pil positivi e sostenuti, e
a riportare il Pil complessivo al livello pre-transizione (si veda la
Tabella “Tassi di crescita del Pil”). Al contrario, il governo ungherese
era più preoccupato delle conseguenze sociali della transizione, e con
l’introduzione graduale delle riforme, mise in atto misure di
protezione dei lavoratori, sostenendo maggiormente la domanda
interna. Anche grazie a queste misure, l’Ungheria non ha registrato
neppure nei primi anni Novanta una caduta del Pil accentuata come
quella polacca, e a un decennio dall’inizio della transizione aveva
tassi di crescita decisamente elevati, risultando il Paese più avanzato
nel processo di transizione, mentre la Polonia mostrava chiari segni
di “affaticamento”.
A distanza di venti anni è difficile dire quale strategia di riforma
abbia avuto più successo e quale Paese abbia completato per primo
la transizione. Nel complesso, va detto che la trasformazione delle
economie dei Paesi dell’Europa centro-orientale è stata un notevole
successo, come testimoniano i robusti tassi di crescita registrati
negli ultimi anni. Per ritornare a due dei Paesi citati come diversi
nel percorso seguito, l’Ungheria nel 2008 aveva un reddito pro
capite (misurato a parità di potere d’acquisto) più elevato della
Polonia (15.900 euro contro 14.000 euro per i polacchi, circa lo
stesso divario percentuale dalla metà degli anni Novanta), ed
entrambi hanno circa raddoppiato questi redditi in una decina
d’anni. Attualmente però l’Ungheria sta soffrendo in modo molto
più marcato le conseguenze della crisi economica, e alcune ragioni
possono essere legate anche alle politiche economiche passate.
AFP_Ria Novosti
La diversità dei risultati ottenuti dalle economie dei Paesi
dell’Europa centro-orientale nella seconda metà degli anni Novanta
ha portato inizialmente l’Unione Europea – a cui tutte le economie
dell’area avevano fatto richiesta di aderire – a distinguere i Paesi
candidati in gruppi con un diverso livello di preparazione all’entrata
nel Mercato Unico Europeo. Sebbene l’esistenza di gruppi di Paesi
candidati che sarebbero entrati in momenti diversi sia stata poi
eliminata, la “classifica” dell’Unione Europea (come pure della Ebrd)
sul procedere della transizione mostra che è un errore accumunare
tutti i Paesi in transizione in un unico gruppo. Lo sforzo di
soddisfare una serie di requisiti per l’adesione all’Unione Europea ha
caratterizzato la seconda fase della transizione dei Peco, e dunque tra
la fine degli anni Novanta e il 2002 le politiche e le riforme
implementate hanno portato a una maggiore convergenza, ma il
gruppo delle economie dell’Europa centro-orientale rimane ancora
fortemente eterogeneo.
113
DOSSIER
Tassi di crescita del PIL reale in Europa
10
8
6
4
2
%
0
-2
-4
-6
-8
EU-15
Nuovi membri
1990 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
An n i
2008 (f)
2009 (f)
Corbis_B. Robert/Sygma
Infatti l’Ungheria già dalla metà degli anni Novanta mostrava
squilibri significativi nelle finanze pubbliche, anche come
conseguenza delle politiche di sostegno adottate, e il debito
pubblico è rimasto elevato per tutto il periodo, rendendo il Paese
molto esposto alla crisi finanziaria in corso. Nel complesso,
l’esposizione alla crisi economica internazionale dei vari Paesi
appare molto diversa, e legata oltre che al livello complessivo di
indebitamento del Paese, anche alla sua dipendenza dalla domanda
estera e in particolare europea, sia attraverso i flussi commerciali
che per via della massiccia presenza di investimenti diretti
dall’estero. Per diversi Paesi dell’Europa centrale però le previsioni
sono di una crescita positiva, anche se contenuta, anche nel 2009.
Uno degli aspetti della crisi che potrebbe colpire maggiormente i
Peco è legato ad un aspetto del processo di transizione che non è stato
ancora completamente superato, ovvero l’afflusso di capitali
dall’estero per finanziare la ristrutturazione delle economie. Sebbene,
come ricordato, l’esposizione nei confronti dell’estero sia piuttosto
diversa, molti Peco non hanno ancora sviluppato adeguatamente
mercati finanziari interni, e ancora dipendono dai mercati finanziari
esteri. Dunque, anche se i fondamentali reali delle loro economie
appaiono oramai decisamente robusti, il contraccolpo della crisi
finanziaria potrebbe estendersi nell’area.
COME CRESCE IL PRODOTTO LORDO
BULGARIA
REP. CECA
ESTONIA
LETTONIA
LITUANIA
UNGHERIA
POLONIA
ROMANIA
SLOVENIA
SLOVACCHIIA
UE
1990
-9.1
-1.2
-8.1
2.9
-5
-3.5
-11.6
-5.6
-4.7
-2.5
-15
1993
-1.5
0.1
-9
-11.4
-16.2
-0.6
3.8
1.5
2.8
7.2
-0.5
Fonte: Eurostat, Statistics in focus, various issues
p= previsione
114
1995
2.9
5.9
5
0.5
3.3
1.5
7
7.1
6.8
7.9
2.3
1997
-5.6
-0.7
10.8
8.5
4.6
8.3
7.1
-6.1
4.9
4.4
2.7
2000
5.4
3.6
9.6
4.2
5.2
6.9
4.3
2.1
4.4
1.4
3.9
2002
4.5
1.9
7.8
6.9
4.1
6.5
1.4
5.1
4
4.8
1.2
2004
6.6
4.5
7.5
7.4
4.8
8.7
5.3
8.5
4.3
5.2
2.3
2006
6.3
6.8
10.4
7.8
4.1
12.2
6.2
7.9
5.9
8.5
2.9
2007 2008 (p)
6.2
6.5
6
4.4
6.3
-1.3
8.9
3.1
1.1
1.7
10
-0.8
6.6
5.4
6.2
8.5
6.8
4.4
10.4
7
2.7
0.7
2009 (p)
4.5
3.6
-1.2
0
0.
-2.7
3.8
4.7
2.9
4.9
-0.1
Babele di parole
sul Muro
di Alessandro Giulio Midlarz
Corbis_P.Tarnley
A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, un
viaggio sorprendente tra i commenti, le speranze
e i timori della grande stampa occidentale
dell’epoca. Dal «New York Times» a «El País», da
«Le Monde» al «Corriere della Sera» e alla
«Frankfurter Allgemeine Zeitung». Ecco cosa
scrivevano a cavallo di quel 9 novembre 1989
che ha cambiato la storia del mondo
Urss: il big bang
del grande Imperium
di Piero Sinatti
Sembrava destinato a durare per sempre. Invece la grande
conglomerata eretta da Stalin, definita Imperium da Kapuscinski, si è
disintegrata in pochissimi mesi. Le repubbliche baltiche si sono mosse
per prime, ma dietro di loro anche le balcaniche e le asiatiche hanno
rivendicato l’indipendenza da Mosca. Ecco come
Qual è il problema più grave per il Paese? A
questo sondaggio del «New York Times», il 28
settembre 1989 i cittadini americani
rispondono senza esitazioni. Per il 54% degli
intervistati è la droga la vera emergenza del
momento, solo l’1% ammette di essere turbato
dall’idea della guerra nucleare. Quattro anni
prima, rispondendo alla stessa domanda, gli
esponenti della cosiddetta “generazione
Strangelove”, cresciuta con la paura e la
necessità della minaccia atomica, erano il
23%. “Percentuali incredibili, difficili da
accettare quasi quanto lo stupore che
percorre quotidianamente le sale del
Cremlino”, è quindi il commento
dell’autorevole quotidiano. In quei mesi la
brezza della perestrojka, che già ha spinto
Solidarnosc alla guida del parlamento polacco,
non si è ancora trasformata nell’uragano forza
5 che scoperchierà il tetto totalitarista
dell’Europa orientale, ma sembra comunque
sufficiente a dissipare le nubi della guerra
fredda dalla testa dell’americano medio.
Il 15 febbraio 1989 gli ultimi contingenti dell’Armata Rossa,
sconfitta dai mujaheddin islamici, dai petrodollari sauditi e dagli
Stinger americani, dopo una guerra durata un decennio, varcano
le acque dell’Amu Darja per rientrare in patria. È un fatto di
grande valenza simbolica: tra quelli che segnano l’inizio della fine
dell’impero sovietico, assieme alla rapida disgregazione dei regimi
comunisti dei Paesi “satelliti” dell’Europa centro-orientale, già in
corso in Polonia e Ungheria.
In Urss si fanno sentire gli effetti di una dura crisi
finanziaria e delle contraddittorie riforme economiche condotte
all’insegna di una perestrojka (ricostruzione) che destruttura il
sistema di pianificazione economica, genera inflazione e
crescente penuria di beni di consumo, finendo con il moltiplicare
il malcontento popolare.
Al tempo stesso, per la prima volta in settant’anni si tengono
in Urss, il 26 marzo, elezioni politiche (quasi) pluraliste. Viene
115
DOSSIER
eletto un nuovo, elefantiaco parlamento: il Congresso dei deputati
del popolo. Nelle repubbliche baltiche e in grandi città russe e
ucraine sono eletti a grande maggioranza candidati alternativi a
quelli del Pcus. È un grande fatto di libertà, anche se ancora
parziale. Al tempo stesso si crea un macchinoso e inefficiente
sistema politico-istituzionale. Tuttavia, il fatto più dirompente è,
quell’anno, la lacerazione dei rapporti federali dell’Urss. Esplode,
in stretto rapporto con la crisi economico-finanziaria, la
“questione nazionale”: ovvero il complesso rapporto tra il “centro
sovietico” e le quindici repubbliche che compongono l’Urss; tra
queste ultime e le minoranze nazionali o etniche (“autonomie”)
al loro interno; e tra le repubbliche stesse.
Con straordinaria accelerazione inizia, nel 1989, il
dissolvimento dell’Urss, conclusosi due anni dopo con la sua fine.
LA QUESTIONE NAZIONALE
A monte di quest’ultima, decisiva crisi c’è la complessa
architettura dell’Urss creata dalla leadership staliniana negli anni
Venti del XX secolo. Uno straordinario mosaico etnico (130
nazionalità e una settantina di lingue) inglobato in una rigida
struttura politica a partito unico e dotato di un’economia
centralmente e rigidamente pianificata.
Le repubbliche federali, che prendono il nome della nazionalità
dominante, comprendono a loro volta repubbliche e regioni dette
“autonome”, anch’esse denominate dall’etnia maggioritaria e
guidate da apparati di partito e amministrativi segnati da quello
che Lenin definì radicamento etnico (korenizatsija) dei quadri di
queste formazioni a matrioska. Spesso – in particolare nell’intero
Caucaso e in Asia centrale – le nazionalità sono distribuite nei
territori in modo tutt’altro che omogeneo, a macchia di leopardo.
Alcune repubbliche federali, come le baltiche (Lituania,
Lettonia, Estonia) o parti rilevanti di altre (Ucraina, Moldavia)
erano il frutto di forzate annessioni avvenute nel contesto della
Seconda guerra mondiale, grazie ai “protocolli segreti” del Patto
Molotov-Von Ribbentrop del 24 agosto 1939, resi noti
pubblicamente dalla glasnost’. Alcune “autonomie” del Nord
Caucaso russo erano state o sciolte o etnicamente modificate dalle
deportazioni delle rispettive popolazioni (tra cui i ceceni e gli
ingusceti), imposte da Stalin prima e durante quella guerra.
La collettivizzazione delle campagne e le diverse fasi
dell’industrializzazione del Paese avevano modificato nei decenni
equilibri etnici, linguistici, culturali, economici. Imponenti correnti
migratorie supportavano quelle strategie di sviluppo, dando vita a
grandi dislocazioni etniche, protagonisti russi e in misura minore
ucraini. In repubbliche come il Kazakistan, i russi erano divenuti
etnia maggioritaria rispetto all’etnia “titolare”, quella kazaka.
Nelle repubbliche baltiche, un tempo prevalentemente agricole,
l’industrializzazione aveva moltiplicato la popolazione russa e
russofona, divenuta maggioranza nei grandi centri urbani.
Lo stesso era avvenuto nella Transcaucasia e nell’Asia centrale
e in Ucraina (da Kiev all’Est e Sud di quel Paese).
116
AFP_Ria Novosti
SI LACERA IL TESSUTO FEDERALE
La rappresentazione politico-ideologica e propagandistica
dell’Urss è stata, tradizionalmente, quella di un’unione volontaria
di “popoli fratelli”, uguali nei diritti e nei doveri, se pur dotati di
“un fratello maggiore”, quello russo, secondo la ben nota
definizione datagli da Stalin alla fine vittoriosa della Seconda
guerra mondiale. Questa “fraternità”, tuttavia, è percepita dai non
russi come dominio: linguistico, culturale, economico e politico.
Come appropriazione e controllo delle risorse dei territori non
russi da parte di Mosca. Rappresentazione sommaria e non
sempre veritiera, dal momento che alla gestione e alla
distribuzione delle risorse concorrevano, anche se in ruoli
subalterni, le élite comuniste non russe.
In Russia, è vero, si concentrava circa il 70% della produzione
industriale. In essa affluivano gran parte delle materie prime
prodotte in altre repubbliche (per esempio: carbone e ferro
kazako e ucraino, greggio azero). Ma dalla Russia e dalla sue
risorse industriali (e di materie prime) muovevano
modernizzazione e industrializzazione delle altre repubbliche, in
alcune delle quali, come le baltiche, erano stati creati settori
avanzati (elettronica, per esempio). Tutti i non russi
beneficiavano, anche creativamente, dell’apporto della cultura
(tecnico-scientifica, letteraria, cinematografica) oggettivamente
egemone: quella russa.
Il fattore esplosivo è costituito dalla spirale che si forma tra la
sfavorevole congiuntura economico-finanziaria (contraddistinta
dalla caduta dei prezzi internazionali delle materie prime e del
greggio) e il malcontento popolare sempre più forte e diffuso.
Specie tra i non russi è alimentato dalla glasnost’ (pubblicità,
trasparenza dell’informazione, forte attenuazione della censura)
introdotta da Mikhajl Gorbaciov.
È la glasnost’ che fa emergere un passato di violenze e
sopraffazioni (le deportazioni di interi gruppi etnici, ceti sociali
nazionali, seguite alle occupazioni e annessioni manu militari) che
in precedenza era stato secretato e/o negato: una storia ben
diversa da quella ufficiale. Decisivo, tuttavia, nel generare e
favorire le spinte centrifughe nell’Unione, è, oltre alla crisi, il
forte allentamento della macchina repressiva sovietica.
La responsabilità della crisi è attribuita nelle repubbliche non
russe al “centro”, a Mosca e quindi alla “Russia”. Al tempo stesso,
in Russia, si afferma l’idea che siano le altre repubbliche a
sfruttare la sua economia (una critica alimentata da grandi
scrittori come l’esule Aleksandr Solzhenitsyn e il Valentin
Rasputin): così, curiosamente, a smontare l’impero concorrono
non solo alcune delle repubbliche non russe, ma la stessa Russia,
dove quell’anno assume un ruolo di leader politico di nuovo tipo
l’ambizioso e spregiudicato ex-boss di partito di Sverdlovsk e di
Mosca: Boris Eltsin.
È lui che si pone alla testa di un composito movimento di
massa nazional-populista russo, che vuole sbarazzarsi delle
impalcature economiche e politiche sovietiche, desideroso più che
di cambiare, di distruggere l’Unione sovietica. Eltsin, non per
niente, dà il suo pieno appoggio al separatismo baltico.
DALL’AMERICA SCETTICISMO
ED EUFORIA
Ciononostante, ben prima che si apra una
breccia nel Muro tedesco, il «New York Times»
dimostra vivo interesse per le convulsioni
nell’Europa comunista. Lo fa con reportage e
articoli di fondo pacati, talvolta scettici sulla
reale portata dei cambiamenti in atto
oltreoceano. Il 18 ottobre, all’indomani delle
dimissioni coatte del leader della Ddr Erich
Honecker e del passaggio di poteri a Egon
Krenz, il giornale pubblica un fondo titolato East
Germany: what hasn’t changed, mostrando
perplessità sulle intenzioni di rinnovamento di
quell’esponente del Politburo che solo pochi
mesi prima, durante un viaggio diplomatico a
Pechino, ha ufficialmente approvato la
sanguinaria repressione degli studenti in piazza
Tienanmen. Ma agli inizi di novembre, con il
delinearsi a un ritmo vertiginoso di uno scenario
impensabile solo pochi mesi prima, la redazione
del quotidiano è pervasa dall’euforia delle
“rivoluzioni dal basso” che attecchiscono qua e
là oltre la Cortina di ferro. E non mancano pezzi
ironici come The joke factory and the wall che
riprende alcune barzellette e freddure nate in
Europa orientale dal rapido dissolvimento dei
regimi comunisti (“Sai quanto stanno offrendo
ora i comunisti per reclutare nuovi membri del
Partito? Risposta: se ti procuri un nuovo
membro, non paghi le tasse. Se porti due nuovi
membri puoi lasciare il Partito. E per tre nuovi
membri ottieni un certificato che attesta che
non sei mai stato membro del Partito”), né
editoriali esplicitamente critici nei confronti
dell’amministrazione Bush, colpevole di reagire
in modo distaccato e passivo agli eventi in
corso. E poco dopo il 9 novembre, con le prime
macerie del Muro ancora fumanti, in Wrong on
the wall and most else Eric Alterman rincara la
dose: “L’Unione Sovietica si imbarca in una
RIVENDICAZIONI NAZIONALI NELL’OVEST DELL’UNIONE
La via più corta per venire a capo della crisi viene vista dalle
nuove élite nazionali – e da ampi settori dei diversi Pc delle
repubbliche – nell’assunzione del controllo diretto sulle rispettive
117
DOSSIER
seconda rivoluzione e allunga una mano verso la
pace con l’Occidente; gli europei dell’Est fanno
cadere il Muro e lasciano il loro Paese. Questi e
altri straordinari cambiamenti irrompono nella
politica mondiale e nessuno dei guru della
politica americana è arrivato vicino a
prevederli… L’America guarda dai margini
come viene rimodellato e ridefinito l’ordine
europeo postbellico e non ha assolutamente
idea di che cosa pensino le giovani generazioni
dell’Est europeo e dell’Unione Sovietica”. Oltre
alle reazioni emotive e ai commenti
sull’approccio prudente della politica nazionale,
il giornale si allinea a tutta la stampa
internazionale e dà ampio spazio alle analisi e
alle previsioni sul nuovo assetto geopolitico
europeo. Il tema della riunificazione dei due
Stati tedeschi è ben presente, mai però con toni
allarmistici sul pericolo di una Germania
egemone, tanto meno in tempi brevi. Addirittura
si sottolinea come nessuno degli striscioni o
degli slogan comparsi in cinque settimane di
dimostrazioni di massa in tutta la Germania Est
abbia mai sollevato la questione e come i cori
dei manifestanti abbiano casomai mostrato
l’orgoglio di un’identità separata. Dal punto di
vista economico viene messo in evidenza
l’eventuale vantaggio di far convergere la forza
lavoro dell’Est con il capitale dell’Ovest ma
anche il rischio che la libera circolazione della
manodopera a basso costo danneggi i lavoratori
italiani, turchi e spagnoli già presenti sul
territorio della Repubblica Federale Tedesca e
come anche i due milioni di disoccupati tra i
tedeschi occidentali siano diffidenti. Infine, il
quotidiano newyorkese si sofferma sul futuro
delle truppe a stelle e strisce nel Vecchio
continente: venendo meno, o comunque
affievolendosi, le minacce di un attacco di
Mosca e del Patto di Varsavia, si invoca da più
parti il ritiro dei 300mila soldati americani di
stanza nelle basi europee ma spostare
118
risorse economiche e nell’attenuazione prima e nella rottura poi
dei legami federali con il “centro”. Anche il movimento
eltsiniano condivide questa idea semplificatrice.
Le repubbliche baltiche dell’Urss, contagiate dall’esempio
della vicina Polonia, rivendicano prima una reale autonomia
linguistico-culturale, amministrativa ed economica, poi la
sovranità economica, infine l’indipendenza da Mosca.
Nel 1989 i movimenti popolari (chiamati “fronti”) di recente
costituzione assumono un carattere di massa, riscuotendo
persino l’approvazione e adesione di interi gruppi dirigenti dei
rispettivi partiti comunisti.
Il 24 agosto 1989, cinquantesimo anniversario del patto
Molotov-Von Ribbentrop, una catena umana lunga seicento
chilometri, formata da un milione e mezzo di persone, unisce
Vilnius, Riga e Tallin. In Estonia si arriva a chiedere la
liberalizzazione dell’economia e la fine del centralismo
economico: che equivale alla richiesta di indipendenza che
successivamente accomunerà le tre repubbliche. Anche in
Ucraina e in Moldavia nascono e si sviluppano movimenti di
carattere nazionale che inizialmente rivendicano per le rispettive
lingue lo status di lingue ufficiali nelle loro repubbliche. A Kiev,
il 2 settembre, sono in centomila gli ucraini che manifestano
contro la “russificazione” del loro Paese.
SCENARI ASIATICI
Nel Sud sovietico – tra Caucaso e Asia centrale – lo scenario è
radicalmente diverso: oltre che contro il “centro” – Mosca – i
locali fermenti nazionali si manifestano in pogrom e scontri
armati che segnano pesantemente i rapporti interetnici. A
Tbilisi, capitale della Georgia, una grande dimostrazione
popolare del locale movimento nazionale viene repressa
dall’intervento delle truppe sovietiche degli interni (diciannove
morti sul terreno, tutti tra i dimostranti). Essa era diretta
soprattutto contro le regioni autonome abkaza e sud-ossetina,
colpevoli di reclamare l’uscita dalla Georgia. E contro Mosca,
accusata di favorire il separatismo di quelle due etnie.
Nell’estate 1989 hanno luogo violenti scontri tra georgiani da
una parte, abkazi e sud-ossetini dall’altra. Un conflitto che avrà
un lungo e cruento seguito (oltre diecimila morti). Fino alla crisi
russo-georgiana dello scorso agosto.
Violento è il conflitto che oppone nel 1989 azeri e armeni,
dopo che l’enclave a maggioranza armena dell’Alto Karabakh
(Artsakh, in armeno) si è unilateralmente separata, un anno
prima dall’Azerbaigian, cui Stalin l’aveva annessa.
Il conflitto ha radici, oltre che nella secolare contrapposizione
tra gli armeni cristiani e i turco-azeri musulmani, nei ruoli
sociali assunti dalla minoranza armena in Azerbaigian. Un anno
prima, nel misero e inquinatissimo centro petrolchimico di
Sumgait, presso Baku, turbe azere avevano scatenato un feroce
pogrom antiarmeno (trenta morti).
Nel 1989 armeni e azeri sono accomunati da violenti
risentimenti nei confronti del potere sovietico: gli uni e gli altri
ritengono che Mosca appoggi più o meno sotterraneamente i rivali.
In Azerbaigian – uno degli Stati a più basso reddito pro capite
dell’Urss e ad altissima mortalità infantile – si sviluppa un forte
Fronte popolare (Fp) nazionalista. Gli azeri si ritengono spogliati
da Mosca dei proventi della loro maggior risorsa: il petrolio.
Sottrarsi al dominio di Mosca (o allentarlo), significa per il Fp
azero accedere a una quota più alta di entrate dall’intero settore
petrolchimico.
In Armenia le forze nazionaliste fanno capo al ComitatoKarabakh (Ck). Fp e Ck danno vita a imponenti manifestazioni
di massa dai caratteri antirussi. Cinquecentomila sono gli azeri
che scendono in piazza a Baku, il 2 settembre di quell’anno.
Pogrom a sfondo etnico hanno luogo, nell’estate 1989, in
Kazakistan e Uzbekistan. Nella regione sud-occidentale kazaka
di Mandyshlak, giovani kazaki assalgono azeri e altri caucasici
che lavorano nelle locali industrie petrolifere (dieci morti,
giugno). Nella valle della Ferghana, uzbeki infuriati danno la
caccia a immigrati turco-mescheti (etnia già residente in
Georgia, da dove era stata deportata da Stalin in Uzbekistan
negli anni Quaranta): novantanove morti. Seguono scontri
armati tra uzbeki e kirghizi nella regione kirghiza di Osh (più di
una decina di morti).
Nell’autunno 1989 si contano in trecentomila i profughi delle
repubbliche meridionali non russe dell’Urss.
RISENTIMENTI DI ORIGINE ECONOMICA E AMBIENTALE
L’Uzbekistan è stato vittima, con la complicità delle corrotte
élite comuniste locali, della monocoltura del cotone, imposta
dalla pianificazione centrale. Essa lo ha condannato a un
invasivo inquinamento chimico, alla sottoalimentazione e a una
forte mortalità e morbilità infantili, per finire al catastrofico
prosciugamento del pescosissimo Mar d’Aral.
Al cotone erano state sacrificate le già ricche colture
cerealicole, orticole e frutticole uzbeke.
In Kazakistan gli equilibri etnici erano stati profondamente
alterati dalle immigrazioni massicce iniziate sotto Stalin, con le
deportazioni di intere popolazioni e gruppi sociali dal Caucaso
settentrionale e dai territori occidentali annessi negli anni
Quaranta – e proseguite durante le leadership di Nikita
Khrusciov (colonizzazione delle “terre vergini”) e di Leonid
Brezhnev (industrializzazione, settore petrolifero). I kazaki
erano divenuti minoranze nelle loro terre, soprattutto nei
grandi centri urbani e industriali. La regione di Semipalatinsk
era stata poligono nel dopoguerra di test nucleari altamente
contaminanti, pari a 2500 bombe del tipo di quelle lanciate dagli
Usa a Hiroshima e Nagasaki.
Quanto agli ucraini, il loro risentimento è alimentato oltre
che dalla recente tragedia di Chernobyl, da una glasnost’ che
porta alla luce gli orrori della collettivizzazione delle campagne.
In Ucraina aveva fatto registrare un numero di morti di gran
lunga superiore a quello delle altre repubbliche.
Anche le repubbliche baltiche avevano assistito a una forte
industrializzazione, in molti casi altamente inquinante (specie in
Lettonia) accompagnata da massicce immigrazioni di russi e
russofoni, anche in quei tre Paesi divenuti maggioranza in molti
centri urbani. Tuttavia, là più alto era divenuto il livello di
redditi e di consumi, rispetto alle altre repubbliche dell’Urss,
Russia compresa.
precipitosamente tali forze, ammonisce il «New
York Times», nell’attuale clima di incertezza non
rassicurerebbe né gli alleati Usa né l’Urss. La
Nato “esiste non solo per difendere la Germania
Ovest da minacce esterne, ma anche per
collocare Bonn in una rete di sicurezza,
rimuovendo in tal modo qualsiasi ragione per la
Germania di agire da sola”.
I FRATELLI DELL’OVEST
E LA VIGNETTA PROFETICA
Se l’autorevolezza dei giornalisti americani è
sempre uno strumento imprescindibile per
provare a valutare gli sviluppi degli equilibri
internazionali, per tastare davvero il polso della
nazione tedesca durante l’autunno delle
rivoluzioni e avere un punto di vista privilegiato
sul Muro berlinese, assumono particolare
rilevanza i commenti del più influente quotidiano
tedesco occidentale, la «Frankfurter Allgemeine
Zeitung». Già in estate sul giornale di
Francoforte si comincia velatamente a parlare
di riunificazione ma sono l’aumento delle
domande di espatrio e i primi flussi dell’esodo di
massa dei tedeschi orientali attraverso il
confine con la Cecoslovacchia a fine settembre
a dettare i commenti su un prevedibile
cambiamento dello status quo europeo. Ma
sebbene dalle colonne della Faz si torni in più
occasioni a ipotizzare l’“unità tedesca”, per la
maggior parte degli editorialisti tedeschi che
scrivono sul quotidiano tra settembre e ottobre
la meta è lontana. Nel suo pezzo Die einsamkeit
der Sed il 29 settembre Karl Feldmeyer sostiene
che in mezzo ci sono due ostacoli: la classe
dirigente della Repubblica Democratica Tedesca
e il dubbio che quella Federale voglia davvero
farsi carico di un simile cambiamento. Mentre
Karl Friedrich Fromme in Flüchtlinge und
deutsche Frage ventila due ipotesi: in base
all’articolo 23 della Costituzione di Bonn, la Ddr
potrebbe entrare nella Rft ma difficilmente i
119
DOSSIER
Paesi del Patto di Varsavia permetterebbero il
suo ingresso nel blocco occidentale. In
alternativa le riforme a est dell’Elba dovrebbero
ridare la sovranità al popolo. Ipotesi piuttosto
vaghe che tuttavia testimoniano come nemmeno
il quotidiano tedesco sia in grado di prevedere
con un certo anticipo l’imminente crollo del
Muro, considerato possibile ma in un futuro non
ben precisato. Ecco allora che tocca a una
vignetta dare il primo concreto accenno di
lungimiranza. È quella pubblicata in seconda
pagina il 4 novembre, a cinque giorni dalla
caduta del Muro, in cui compare un Krenz, tra i
bersagli preferiti dei disegnatori della Faz, fatto
di mattoni che si sgretolano. È curioso notare
come in un quotidiano dall’aspetto austero e
dalle analisi notoriamente approfondite come la
Faz, sia affidato a un’illustrazione il più
azzeccato e profetico commento alle vicende in
corso. Il 7 novembre viene pubblicato un
articolo che testimonia l’inizio di un cambio di
rotta dei media della Ddr: per la prima volta,
infatti, la televisione del Partito ha intervistato i
cittadini che vogliono abbandonare il Paese. Per
la Faz è il segnale di come i mezzi di
comunicazione, fino a quel momento asserviti e
acritici, comincino a diventare parte attiva del
processo di autodeterminazione dei cittadini
della Repubblica Democratica Tedesca. Nei
giorni successivi all’apertura del Muro, il
giornale non si scompone e mantiene le sue
prime pagine asciutte, senza foto, regalando e
relegando la maggior parte delle immagini della
grande gioia e degli abbracci tra tedeschi di
diverse longitudini nel feuilleton, la parte del
quotidiano dedicata alle reazioni più emotive. I
commenti analizzano la crisi della Sed, il Partito
Socialista Unificato, e le reazioni straniere,
divise tra il prevalente sostegno alla
riunificazione e i timori inglesi sull’eventualità
che questa possa allontanare la Germania
dall’Unione Europea.
120
GORBACIOV E LA “QUESTIONE NAZIONALE”
Gorbaciov coglie il pericolo mortale che per il processo di
riforme (perestrojka) e per il destino dell’Urss rappresenta la
questione nazionale. All’opposto di Eltsin, che dopo il suo
trionfo elettorale di marzo scatena in Russia imponenti
manifestazioni di massa e scioperi (dei minatori), fino alla fine
cercherà di mantenere in vita l’Unione.
Affermerà in un lungo intervento in luglio: “Quanto accade
è anche il frutto delle illegalità consentite nei passati decenni,
dei trasferimenti forzati di intere popolazioni cacciate dalle loro
terre, dell’oblio degli interessi nazionali dei piccoli popoli. Tutto
questo non poteva non lasciare conseguenze”.
È una franca ammissione, accompagnata dalla volontà,
purtroppo non seguita da un’azione tempestiva e coerente, di
ristabilire una reale, piena uguaglianza di popoli, nazioni, gruppi
etnici e delle persone, indipendentemente dall’appartenenza
etnica, peraltro sulla carta garantita dalla stessa Costituzione
sovietica del 1977 che si intendeva modificare.
Gorbaciov promette un “equilibrato sviluppo economicosociale e culturale”, la fine dell’industrializzazione e della
crescita estensive, del saccheggio e sperpero delle risorse. E
finalmente si impegna per dare all’Unione basi nuove,
improntate all’autonomia economica delle repubbliche e alla
decentralizzazione delle decisioni di interesse locale. Il gensek
del Pcus invoca nei rapporti interetnici e civili il dialogo e la
tolleranza e il ripudio dei fanatismi, della xenofobia, delle
contrapposizioni. E respinge con nettezza il separatismo che –
egli dice – “lacererebbe un corpo vivo, provocando danni
spirituali e materiali immensi”.
La disintegrazione dell’Urss avrebbe conseguenze disastrose,
rompendo le infinite connessioni e interazioni economiche,
oltre che etniche, del Paese sovietico. Leader di un partito
comunista sempre più diviso al suo interno tra le più diverse
correnti e pulsioni, Gorbaciov non può ricorrere alla forza per
stroncare le spinte separatiste e reprimere le torbide passioni
xenofobe che sconvolgono le regioni più arretrate del Paese.
Mentre la gravissima crisi finanziaria ha reso sempre più stretti
i margini per le riforme, il risanamento e il decentramento
dell’economia.
Forse, con una più salda e coerente guida politica e senza
l’aggravamento della crisi economica e senza la sete di potere e
di controllo sulle risorse delle diverse élite nazionali, compresa
quella russa, le diverse e contrastanti spinte centrifughe
avrebbero potuto essere arginate e ricondotte nell’alveo di una
riforma dell’Unione.
Il suo crollo sarà seguito da crisi politiche ed economiche
ricorrenti, impoverimenti e migrazioni di massa, che colpiranno
le diverse repubbliche ex sovietiche, specie quelle prive di
risorse energetiche e materie prime.
Alla fine dell’Urss seguiranno conflitti armati di varia
intensità e durata (dal Tagikistan all’intero Caucaso fino alla
Moldavia).
È difficile, per questo, contraddire Vladimir Putin quando ha
definito la fine dell’Urss “grande catastrofe del XX secolo”. In
questo processo il 1989 è un turning point, un anno fatale.
Corbis/Bettmann
Dietro quella caduta
c’era molta intelligence
di Fernando Orlandi
Un anno dopo l’insediamento di Gorbaciov, la Cia, pur valutando che i
provvedimenti adottati dalla dirigenza sovietica erano delle “mezze
misure”, riteneva che le spese militari non sarebbero aumentate nei
quindici anni successivi. Era un deciso distacco dal passato: ora si
valutava che a Mosca c’era un leader intenzionato a contenere le spese
militari per far fronte ai problemi economici. MacEachin e altri alti
funzionari della Cia spiegarono questa analisi a Shultz e al segretario
alla Difesa Caspar Weinberger. Ma quest’ultimo…
Il viaggio che Mikhail Gorbaciov effettua negli Stati Uniti
all’inizio di dicembre 1988 ha due obiettivi: annunciare alle
Nazioni Unite una significativa riduzione unilaterale di spese e
presenza militare e cercare di fare assumere degli impegni al
vicepresidente uscente e presidente eletto George Bush. Da mesi
il Cremlino segnala aperture, compresa la possibilità di firmare
rapidamente il trattato Start, ma la disponibilità del segretario di
Stato George Shultz viene contrastata nell’amministrazione. Si è
alla fine del secondo mandato di Ronald Reagan e Washington
non è reattiva. Non potendo attendere, i sovietici decidono di
prendere l’iniziativa. Per proseguire nel cammino intrapreso e
rivitalizzare l’economia, Gorbaciov deve ridurre il gravoso
fardello costituito dalle spese militari. Da tempo riflette sul
LA REAZIONE CINESE
PASSA DA PARIGI
La questione tedesca, il destino della politica
dei blocchi e le conseguenze economiche per il
mondo occidentale sono temi trattati più o
meno dettagliatamente da tutti gli altri
principali quotidiani europei, ognuno però
conserva la propria lente d’ingrandimento
anche per mettere a fuoco aspetti poco
dibattuti ma non privi d’interesse. Su «Le
Monde» del 27 ottobre, in un fondo dal titolo Le
troisième socialisme, Maurice Duverger
constata come, nonostante Polonia e Ungheria
siano già a buon punto, l’evoluzione dei Paesi
comunisti verso la democrazia dipenda
soprattutto dall’Unione Sovietica, non tanto sul
piano politico, dove la perestrojka ha già avuto
effetti benefici, quanto su quello economico.
Ma servono nuovi modelli, tanto più che il
“gigante rosso” è alle prese con una paurosa
stagnazione. Dopo lo Stato-produttore creato
dal comunismo e lo Stato-protettore stabilito
dalla social-democrazia, secondo Duverger
sembra quindi giunto il tempo di uno Statopromotore incarnato da un “terzo socialismo”,
ovvero un sistema dove il denaro delle imprese
possa venire non solo dalle banche e da altre
istituzioni private ma anche dalle imposte
versate sotto il controllo di un parlamento
121
problema. Già nell’ottobre 1986 aveva chiaro come il Paese non
fosse in grado di reggere la competizione con Washington:
“Saremo trascinati in una corsa agli armamenti che è al di là delle
nostre capacità, e la perderemo, perché siamo al limite delle nostre
capacità”. Se non si tagliano le spese militari, sono le progettate
riforme a essere minacciate.
IL FALLIMENTO DI GOVERNORS ISLAND
Da parte sua, Gorbaciov ha già rotto psicologicamente con la
consolidata posizione sovietica: in ottobre ha deciso una riduzione
unilaterale delle truppe di stanza in Europa (l’annuncio sarà fatto
due mesi dopo). Della nuova posizione sovietica nulla è trapelato a
Washington, né al Dipartimento di Stato né alla Cia. L’incontro di
Gorbaciov con Reagan e Bush a Governors Island costituisce una
delusione. Più una “rimpatriata”, con scambi di battute sul passato,
che altro. Bush comunque assicura che proseguirà il cammino di
Reagan; solo, aggiunge, gli servirà un po’ di tempo per riesaminare
le questioni aperte. Il tentativo di coinvolgere Bush è un
fallimento. I due si ritroveranno faccia a faccia solo un anno dopo,
a Malta, ma in quei dodici mesi il mondo ha già subito una
trasformazione epocale: è caduto il muro di Berlino, i sistemi
socialisti in Europa centro-orientale si sono dissolti come la neve
primaverile al sole e la guerra fredda è terminata.
Quando la presidenza di Bush si insedia formalmente alla fine
di gennaio 1989 nei confronti di Mosca prevale la cautela. Il
discorso pronunciato da Gorbaciov il 7 dicembre alle Nazioni
Unite ha diviso la nuova amministrazione (riduzione unilaterale
delle forze armate sovietiche di mezzo milione di uomini, un taglio
agli armamenti e alle truppe di stanza in Europa centro-orientale e
rinuncia all’impiego della forza nella politica estera di Mosca).
Alcuni dubitano della sua sincerità, ritenendolo un tentativo di
dividere l’alleanza transatlantica, mentre la potenza militare
sovietica continua a essere una minaccia concreta. La scelta di Bush
è quella di far decantare l’ardore reaganiano dell’ultimo anno e
contestualmente procedere a una rivalutazione complessiva della
politica statunitense.
122
Corbis_R. Maiman/Sygma
LA CIA ARRANCA
In quel periodo anche la Cia, peraltro in passato diretta proprio
da Bush, è in sofferenza per quanto riguarda l’Unione Sovietica.
Paga la politicizzazione degli anni in cui è stata guidata da William
Casey, mentre il servizio clandestino ha perso tutte le sue spie.
Uno dopo l’altro i suoi agenti sono stati arrestati e condannati a
morte, e fra questi Adolf Tolkachev, una delle fonti maggiormente
produttive. Le stazioni di Berlino Est e Mosca non funzionano più
e le loro operazioni sono distrutte: “Nel 1986 e 1987 la divisione
stava collassando come l’esplosione di un edificio minato ripresa al
rallentatore”, ha scritto Tim Weiner nel recente Legacy of Ashes.
Il danno cagionato dal tradimento di Aldrich Ames è devastante.
La Cia arranca anche nella raccolta delle informazioni politiche e
militari: non riesce ad apprendere subito, ad esempio, che alla
riunione di Mosca dei Capi di Stato maggiore del Patto di Varsavia
(maggio 1987) si passa dalla dottrina offensiva a quella difensiva.
Allo stesso modo, non viene a conoscenza che qualche giorno dopo
Gorbaciov, alla riunione di Berlino del Comitato politico consultivo
del Patto di Varsavia, ha fatto sapere che Mosca non sarebbe più
intervenuta militarmente nei Paesi del blocco.
Non si tratta del lavoro dei singoli analisti. A non essere
all’altezza dei tempi sono le analisi quadro che la Cia produce, le
cosiddette intelligence “nazionali”. Negli anni in cui la Cia è stata
diretta da Casey si sono accumulate tensioni fra i vertici
dell’Agenzia e le varie strutture che si occupano dell’Unione
Sovietica, in particolare l’Office of Soviet Analisys (Sova), accusato
di avere una posizione troppo “debole”. Racconterà poi Douglas
MacEachin, direttore del Sova negli anni 1984-1989: “Era una
specie di guerra con l’amministrazione; ci trattavano come fossimo
il nemico”. Si era venuta a creare una situazione paradossale: i
migliori analisti della Cia erano negletti dai falchi
dell’amministrazione perché le loro valutazioni erano meno
stridenti di quelle di Casey. Nello stesso i tempo, i loro potenziali
alleati, ad esempio il segretario di Stato Shultz, non si fidavano dei
loro documenti perché pensavano che fossero influenzati da Casey.
Una delle linee di frattura stava nel fatto che diversi esponenti del
gabinetto di Reagan ritenevano che Gorbaciov stesse applicando a
Nato e Stati Uniti la tattica del divide et impera. Venuta meno la
coesione dell’alleanza transatlantica, allettata da apparenti
concessioni, avrebbe ripreso il sopravvento la tradizionale
posizione di forza sovietica. Altri, invece, concedevano a Gorbaciov
il “beneficio del dubbio”, aspettando di vedere nei fatti se era
effettivamente un riformatore.
Questa linea di frattura si era riverberata anche all’interno
delle strutture della Cia: gli analisti avevano delle idee precise sui
processi in corso e sulle difficoltà che Gorbaciov incontrava, ma
queste valutazioni non riuscivano a essere recepite nelle grandi
analisi quadro dell’intelligence. La Cia scontava inoltre una scarsa
elasticità negli approcci: solo nel 1984 venne costituito un nuovo
settore analitico, chiamato Societal Issues, dedicato all’esame degli
sviluppi sociali e politici all’interno dell’Unione Sovietica. Fino a
quel momento praticamente tutte le risorse erano state dedicate
alle attività di Mosca nel Terzo mondo, allo stato dell’economia e ai
programmi bellici.
democratico o dal risparmio dei cittadini
raccolto dalle organizzazioni statali e dalle
collettività locali. Dentro questo quadro le
aziende nazionalizzate o le casse ufficiali
analoghe alla cassa dei depositi francese
possono avere una influenza importante per
entrare nei meccanismi del mercato alla
stessa stregua delle aziende capitalistiche.
L’11 novembre Daniel Vernet è l’autore di De la
réforme à la révolution, un’analisi delle
condizioni della Ddr in cui riconosce alla
Chiesa protestante tedesco-orientale il merito
di aver fornito alla popolazione un luogo di
libertà. Il paragone con la Polonia è allettante
ma al contempo fuorviante poiché la Chiesa
polacca è stata un rifugio per la fede dei
polacchi e un bastione della resistenza
all’ideologia comunista, mentre la Chiesa
protestante nella Ddr ha ritrovato la sua
vocazione alla Riforma e ha dato il coraggio
necessario alla popolazione per non aver più
paura delle autorità.
Il quotidiano francese è anche l’unico tra i big
dell’informazione occidentale a riportare la
reazione cinese. Il titolo che compare il 14
novembre è esplicito: Pekin, mutisme. Per il
partito comunista più numeroso del mondo,
per il «Quotidiano del Popolo» e per la
televisione cinese a Berlino non è successo
nulla di particolare. E «Le Monde» parla di
colossale menzogna per omissione. Lo stesso
giorno da Gerusalemme arrivano sulle colonne
francesi gli echi di inquietudine delle prime
pagine della stampa israeliana e l’apprensione
per la resurrezione di un colosso di 80 milioni
di abitanti, “ben lontano dall’essere
denazificato”.
SEGNALI DI NOVITÀ ALLA CIA
Un anno dopo l’insediamento di Gorbaciov, la Cia, pur
valutando che i provvedimenti adottati dalla dirigenza sovietica
erano delle “mezze misure”, riteneva che le spese militari non
sarebbero aumentate nei quindici anni successivi. Era un deciso
distacco dal passato: ora si valutava che a Mosca c’era un leader
intenzionato a contenere le spese militari per far fronte ai
problemi economici. MacEachin e alcuni altri alti funzionari della
Cia spiegarono personalmente questa analisi a Shultz e al
segretario alla Difesa Caspar Weinberger. Ma la reazione di
quest’ultimo non si discostò dal passato: se i sovietici mettevano
ordine nella loro economia, sarebbero poi stati maggiormente
attrezzati nell’investire nuovamente nel complesso militareindustriale. Ne conseguiva che la debolezza di Mosca non
giustificava la riduzione delle spese militari statunitensi.
Le analisi della Societal Issues portarono comunque delle
importanti novità. Un importante documento, redatto sotto la
direzione di Fritz Ermarth e George Kolt, ben fotografava tutti i
OMBRE SULL’EUROPA
A DUE VELOCITÁ
La reazione israeliana è ripresa il 17
novembre anche dal «Financial Times», il
quale peraltro già a inizio ottobre aveva messo
in risalto la preoccupazione delle autorità
tedesco-orientali circa il crescente
neonazismo nella Ddr: “I neonazisti sono
responsabili di danni nei cimiteri ebraici,
violenze negli stadi e attacchi a lavoratori non
bianchi dal Vietnam o dall’Africa. Il problema
deve essere visto in prospettiva. Gli analisti
temono che il numero di neonazisti nella
Germania democratica possa crescere come
perversa forma di movimento di protesta,
promossa da un sistema che crea personalità
di tipo autoritario”. Il quotidiano londinese si
123
DOSSIER
chiede quindi se la Germania Est ammetterà
che esistono persone che non dovrebbero
esistere in uno stato antifascista. “Venti anni
fa affermavano che la criminalità era
inesistente, oggi le autorità non si
preoccupano più di negare che effettivamente
c’è un problema di delinquenza nell’ambito del
socialismo reale, ma arrivare ad ammettere
che esiste un neonazismo fatto in casa può
essere più dura”.
In ottobre il «Financial Times» pubblica anche
un editoriale dal titolo emblematico (Unloved
but still needed) per sottolineare che il Muro
della divisione è parte integrante dell’ordine
postbellico e che ha mantenuto la pace per
quarant’anni, una pietra miliare che non può
essere improvvisamente rimossa se non al
termine di un lungo processo di
trasformazione nell’intera Europa. Smentito
dai fatti, il giornale prova a rifarsi l’11
novembre (A concert of Europe) prevedendo
una Comunità europea su due livelli, uno
costituito dai Paesi avanzati, l’altro da quelli
meno sviluppati. Pur evidenziando le
prevedibili difficoltà preconizzate dagli altri
membri del Patto di Varsavia, il quotidiano
nota come la Germania Est potrebbe essere
coinvolta nella Comunità europea in virtù di
un’economia meno disastrata di quelle degli
altri Paesi del blocco filosovietico.
LE ANALISI DI VIA SOLFERINO
Il 25 ottobre anche il «Il Corriere della Sera»
dedica un approfondimento ai nuovi orizzonti
124
problemi e i malanni della società sovietica, un Paese “molto stabile”
nel contesto internazionale, ma il cui sistema politico ora costituiva
un ostacolo a riforme e sviluppo. Ma quando questo documento si
avvicinò alla stesura finale, giunsero obiezioni e riserve: il
Pentagono non condivideva la valutazione di un Gorbaciov
intenzionato alla distensione con l’Occidente per potersi così
dedicare ai problemi interni; per i militari Mosca continuava invece
a perseguire i tradizionali obiettivi strategici e di politica estera.
Anni dopo Ermarth ricorderà che quell’analisi fu monca, non
giungendo alle conclusioni sul sistema sovietico implicite nella
premessa, proprio per l’opposizione delle altre agenzie con cui
doveva essere coordinata prima della sua approvazione. Ma
quell’analisi conteneva anche un’altra novità: ammetteva che la
Cia non possedeva una “buona teoria sociale”, in grado di
descrivere adeguatamente il comportamento della società sovietica,
oramai non più quella del “modello totalitario”, ma ancora
governata da un regime che manteneva molte delle caratteristiche
di quel modello.
CRESCE IL PESSIMISMO
Con il passare del tempo, all’interno della comunità
dell’intelligence emergono posizioni sempre più pessimiste. Nel
1987 il generale William Odom, direttore della National Security
Agency, sostiene che il programma di Gorbaciov, se condotto alle
sue logiche conclusioni, avrebbe portato al suo suicidio politico e al
collasso del sistema. Sempre nello stesso anno la Cia pubblica una
breve analisi sulla questione delle nazionalità, in qualche modo
suonando un campanello d’allarme. Ma questa volta interviene
l’intelligence del Dipartimento di Stato (Inr, Bureau of Intelligence
and Research) a liquidarla come allarmista.
Per tutto il 1987 il Sova mette in risalto come la perestrojka
altro non sia che un insieme di “provvedimenti parziali”, come
Gorbaciov abbia buone intenzioni, ma in realtà nessun piano
coerente. Inizia a prendere in esame anche la possibilità che il
segretario generale del Pcus possa perdere il potere proprio a causa
delle riforme promosse.
Altro grande tema di analisi è dato dall’Afghanistan e
dall’interrogativo: si ritireranno i sovietici? Anche qui la divisione
è netta: i falchi dubitano che possa accadere, mentre nel campo
opposto si osservano i segnali che lo rendono plausibile. Nel 1987,
nel corso di conversazioni riservate, alcuni collaboratori di
Gorbaciov alludono al possibile ritiro sovietico. La Cia, ricorda
Shultz nelle sue memorie, liquidò rapidamente l’elemento di
novità: si tratta di un “inganno politico”. Ma il ritiro era stato
anticipato nelle analisi dell’ambasciatore a Mosca Jack Matlock e
dello specialista del Dipartimento di Stato Eric Edelman, mentre la
valutazione della Cia forse risentiva del suo diretto impegno sul
campo, nell’operazione clandestina di armamento dei mujaheddin.
Fra le molte sorprese riservate da Gorbaciov, forse la maggiore
fu quella costituita dal suo discorso alle Nazioni Unite il 7 dicembre
1988. All’epoca molti analisti erano giunti alla conclusione che i
cambiamenti in corso in Unione Sovietica erano davvero profondi e
significativi. Allo stesso tempo mettevano in rilievo i crescenti
segnali che indicavano come il segretario generale stesse perdendo
il controllo del processo che aveva innescato.
A metà del 1988 sono approntate tre grandi analisi, in cui si
cerca di tratteggiare un bilancio degli anni precedenti e valutare le
prospettive. Per quanto riguarda l’economia, le cose stanno
andando molto male, mentre è cresciuto grandemente il deficit di
bilancio. Mosca ha fatto fronte stampando cartamoneta, è così ha
preso il via un forte processo inflattivo, dalle pesanti ripercussioni
sociali. Insomma, le nuove politiche non hanno fatto altro che
esacerbare i problemi dell’economia. L’analisi militare suscita
invece una forte controversia. Per il Sova, dovendo investire
nell’economia, Gorbaciov potrebbe decidersi a tagli alle spese
militari. La valutazione incontra l’opposizione della burocrazia
dell’agenzia e il documento, controcorrente rispetto alle
valutazioni dell’amministrazione che sta promuovendo il riarmo
degli Stati Uniti, rimane nel limbo per ben nove mesi.
INCOMPRENSIONI E FALLIMENTI
È quello, che viene prodotto nell’ambito dell’intelligence, un
insieme in chiaroscuro. Il momento forse di maggior
incomprensione è testimoniato da una Nie (National Intelligence
Estimate) pubblicata il 1 dicembre 1988. Si afferma che “gli
elementi fondamentali della politica e della pratica della difesa
sovietica fin qui non sono stati cambiati dalla campagna di riforme
di Gorbaciov”. Sei giorni dopo, invece, Gorbaciov annuncia la
riduzione unilaterale delle forze armate sovietiche.
Per una coincidenza, proprio nel momento in cui Gorbaciov
parla alle Nazioni Unite, si svolge un’audizione segreta di alcuni
dirigenti della Cia al Comitato sull’intelligence del Senato.
MacEachin si sfoga, dichiarando la sua frustrazione per l’incapacità
di promuovere un’efficace comprensione dell’Unione Sovietica in
quello che definisce “un ambiente politico non-neutrale”. La Cia
studia l’instabilità politica di molte nazioni, ma “non ha mai
guardato all’Unione Sovietica come a un’entità politica” dove si
sviluppano fattori che possono condurre a trasformazioni politiche
come quelle cui stiamo assistendo. E aggiunge: “Francamente,
fosse esistito [uno studio simile] all’interno del governo, non
saremmo stati capaci di pubblicarlo in nessun modo. Se lo
avessimo fatto, qualcuno avrebbe chiesto la mia testa. In tutta
onestà, avessimo detto una settimana fa che Gorbaciov poteva
venire alle Nazioni Unite e offrire una riduzione unilaterale di
500mila militari, ci sarebbe stato detto che eravamo matti”.
Alle incomprensioni dell’intelligence si aggiunge la pausa di
riflessione dell’amministrazione Bush, che dura ben otto mesi.
Solo il 22 settembre il presidente firma la National Security
Directive 23, il documento in cui sono formalizzate le linee guida
della politica statunitense verso Mosca. Ma quegli otto mesi, quel
periodo in cui la Storia subisce una forte accelerazione e si
realizzano cambiamenti sorprendenti e inaspettati in Europa
centro-orientale, sono davvero sprecati a Washington. Ma a
dispetto di questo, il 1989 si conclude con le grandi trasformazioni
che cambiano la faccia del Vecchio continente. “Lasciare andare gli
esteuropei, forse fu la decisione più difficile negli anni della
perestrojka”, ha ricordato Pavel Palazchenko, che di Gorbaciov fu
interprete. Di una perestrojka che involontariamente accelerò la
fine del sistema sovietico, senza che a Washington ne fossero
pienamente consapevoli.
della Cee e ugualmente ipotizza che questa
sarà strutturata su due livelli, ma per il
quotidiano milanese la Germania Est finirà,
con la Polonia e l’Ungheria, nel novero dei
Paesi di seconda fascia, legati alla Comunità
da una forma di associazione simile a quella
dei Paesi dell’Efta, l’area di libero scambio.
Nei giorni che precedono il crollo del Muro, il
«Corriere» analizza poi più volte l’evoluzione
dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Dapprima pubblica Governare tutti insieme,
commentando l’organizzazione del summit di
Malta di dicembre tra Bush e Gorbaciov in cui
si parlerà, sia pure in modo informale, del
futuro dell’Europa per la prima volta dopo
Yalta. Franco Venturini sottolinea come
paradossalmente si parlerà di pace e di
disarmo a bordo di fregate militari e come la
logica dell’evoluzione del processo
riformistico al di là dell’Elba porti diritto
all’abbattimento del Muro di Berlino. Il 5
novembre ne La folgorazione di Bush, si
ripercorrono le tappe che hanno portato la
Casa Bianca da una posizione a dir poco
scettica nei confronti delle reali intenzioni del
Cremlino alla consapevolezza dell’urgenza di
un colloquio politico con il leader russo.
Aperta la frontiera tedesca, tra l’11 e il 16
novembre il «Corriere» lancia l’allarme per
come la nuova pagina di storia che si sta
scrivendo rischi di distrarre la Germania
occidentale dal progetto comunitario e regali
a Bonn la prospettiva assai allettante di
svolgere in futuro un ruolo cerniera tra le due
125
Kepel: il Muro?
Abbattuto dall’Afghanistan
a cura di Farian Sabahi
«La caduta del Muro di Berlino è conseguenza diretta di quanto successo
nel mondo musulmano nel 1989 perché alcuni mesi prima l’Armata
rossa aveva lasciato l’Afghanistan: a mio parere è questo fallimento
militare la causa della fine dell’impero sovietico», osserva il professor
Gilles Kepel, docente all’Institut d’études politiques di Parigi dove dirige
la cattedra Moyen-Orient Méditerranée. Kepel è tra i più importanti
studiosi occidentali del mondo arabo e le sue opere sono tradotte in più di
venti lingue. Tra i volumi più recenti usciti in Italia vi sono Oltre il terrore
e il martirio (Feltrinelli 2009) e Il profeta e il faraone (Laterza 2006).
«Dopo alcuni anni di difficoltà in Afghanistan, la terribile Armata
rossa si dissolse. Fu questa dimostrazione di debolezza a rendere
possibile la caduta del Muro di Berlino. Negli anni Ottanta la guerra
fredda tra Stati Uniti e Urss ebbe come teatro più l’Afghanistan che
l’Europa. Le difficoltà dei russi e la loro incapacità di affrontare la
guerriglia, pagata e armata dagli americani e dalle petro-monarchie
arabe del Golfo persico, portarono al crollo finale dell’Unione
sovietica. Per i militanti jihadisti, per Osama Bin Laden e i suoi
compagni, questo crollo era il segno che loro stessi erano diventati il
motore della Storia. “Grazie all’aiuto di Dio” erano diventati la nuova
avanguardia islamica che ricordava le origini dell’Islam: il profeta
Maometto aveva fatto cadere l’impero sassanide e in seguito i
musulmani avrebbero distrutto Bisanzio. Bin Laden pensava che la
vittoria in Afghanistan e la caduta del Muro di Berlino e dell’Unione
sovietica fossero paragonabili alla fine dell’impero sassanide. Per gli
islamisti jihadisti era ovvio che la fase successiva implicasse la caduta
dell’America e per loro l’11 settembre è la realizzazione di questo
sogno trans-storico. Gli appassionati di numeri osservano inoltre
come la caduta del muro di Berlino sia avvenuta il 9 novembre e cioè
il 9/11, mentre l’11 settembre è l’11/9: la caduta del Muro di Berlino e
delle due Torri sono così consegnate al simbolismo delle cifre».
Professor Kepel, che rilevanza ha oggi, secondo lei, l’Afghanistan?
Corbis_R. Bossu/Sygma
Oggi in Afghanistan l’Occidente non può fare nulla: la guerriglia
dei talebani è riuscita a relegare i soldati della Nato nelle loro
basi, più o meno come era successo negli anni Ottanta con i
sovietici. Per Obama e la nuova amministrazione americana il
problema con l’Afghanistan non è solo afghano ma afghanopakistano. Per questo motivo Richard Holbrooke, l’inviato
ufficiale del presidente Obama nella regione, è
soprannominato Mr. AfPak. Questo dimostra come oggi la
sfida più importante siano il Pakistan, il suo nucleare e la sua
destabilizzazione interna causata dalla competizione armata
tra i militari, l’amministrazione civile e i talebani pakistani.
Secondo lei ha senso dialogare con i talebani moderati come
deciso dal presidente Obama?
Il dialogo con i talebani moderati fa parte della politica di
incorporazione nel governo delle tribù afghane patano126
pashtun pronte a entrare nel governo. Un po’ come hanno fatto gli
americani in Iraq, con le tribù sunnite di Anbar, di Diyala e del
Nord-Est di Baghdad.
Se la pace a Kabul passa da Teheran, vale la pena invitare l’Iran al
tavolo dei negoziati sull’Afghanistan?
Invitare l’Iran ai negoziati sull’Afghanistan e sulla sicurezza nella
regione è un modo per far rientrare Teheran nella comunità
internazionale. Occorre tenere presente che l’Iran teme sia l’atomica
pakistana sia gli eventi nel vicino Afghanistan. Senza sottovalutare il
fatto che le province orientali dell’Iran, e soprattutto il Balucistan,
sono scosse da una guerriglia sunnita ispirata, sostenuta e forse
finanziata dai nemici di Teheran.
Professor Kepel, nel 1989 quali erano invece i nemici degli Stati Uniti?
Nel 1989 le sfide più importanti per l’America erano il comunismo
e l’Iran. In questo contesto la jihad in Afghanistan rappresentava un
modo per prendere due piccioni con una fava e distruggere con un
solo colpo il nemico rosso (l’Unione sovietica) e il nemico verde (la
rivoluzione iraniana). Per far questo gli americani finanziarono i
gruppi sunniti proprio perché nemici sia dei comunisti sia degli sciiti
iraniani.
In che modo la caduta del Muro di Berlino è legata agli eventi nella
Repubblica islamica dell’Iran?
Il 15 febbraio 1989 le truppe sovietiche lasciarono Kabul, un
evento che – come ho già spiegato – porterà alla caduta del Muro di
Berlino. Il giorno prima, il 14 febbraio, l’ayatollah Khomeini si era
pronunciato contro Salman Rushdie con l’obiettivo di recuperare la
leadership del mondo musulmano in chiave anti-americana e antiimperialista. L’ayatollah si era infatti reso conto che il ritiro
dell’Armata rossa avrebbe cambiato gli equilibri sullo scacchiere
internazionale. E tentò quindi di mobilitare le masse musulmane
con il pretesto che la pubblicazione dei Versetti satanici fosse un
insulto all’Islam.
Che importanza ha il 1989 nelle relazioni tra Teheran e Washington?
È l’anno in cui muore Khomeini e in cui l’ideologia della
Repubblica islamica smette di essere un nemico potente per l’America:
con la presidenza di Rafsanjani (1989-1997) e poi di Khatami (19972005) gli iraniani hanno dato più peso alla realpolitik che all’ideologia.
Dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003 i dirigenti iraniani sono però
tornati all’ideologia: approfittando dell’impantanamento degli Usa in
Mesopotamia hanno messo in cantiere il nucleare e appoggiato
Hamas, Hezbollah e le milizie sciite in Iraq. Ma ora, con
l’insediamento di Obama alla Casa Bianca, la leadership iraniana
dovrà tornare alla realpolitik.
Europe, alla guida di un polo economico di 500
milioni di consumatori. (La ricca Bonn ora può
sognare un impero nel cuore dell’Europa) e poi
non manca di criticare Gorbaciov,
“rimproverato” per aver smontato il vecchio
modello dirigistico senza che quello di
mercato acquistasse un minimo di forza
effettiva per sostituirlo almeno in parte (Le due
contabilità del Cremlino). A fine novembre il
quotidiano dà spazio a due opinioni tanto
interessanti per i temi trattati quanto lontane
per i loro esiti predittivi. Il filosofo francese
Bernard-Henri Lévy azzarda che di fronte agli
stravolgimenti nei Paesi dell’Est europeo lo
smarrimento dei media sovietici, e quindi della
nomenklatura, è perlomeno uguale a quello
degli occidentali e che, vista da Mosca, la
realtà è ben diversa: una rivoluzione brutale,
senza antecedenti né presentimenti, che ha
colto di sorpresa i responsabili sovietici. Per
Lévy un altro errore di prospettiva dei media
occidentali è l’insistenza con la quale
ritornano sulla famosa questione della
riunificazione tedesca. “L’ipotesi è superata:
quarant’anni di separazione, quarant’anni di
culture diverse e quarant’anni di scontro
ideologico… Da tempo la Germania
Democratica non è più lo Stato artificiale che
gli osservatori occidentali vaneggiano”. Se
Lévy osa troppo, il politologo inglese William
Fallace delinea un’Europa per il 2000 più
verosimile quando afferma che “l’integrazione
economica avrà il sopravvento sulla protezione
militare delle alleanze e si assisterà al
continuo riorientamento dei Paesi dell’Est
verso i vicini d’Occidente”. E aggiunge: “A
causa dell’esplosione demografica in
Nordafrica aumenterà il flusso degli emigrati
che si aggiungerà a quelli dall’Europa dell’Est.
E l’Italia si troverà in prima linea”.
La contrapposizione all’America non è però un punto fermo per ayatollah e pasdaran? Se i rapporti si distendessero non verrebbero meno
gli ideali rivoluzionari?
Sì, la contrapposizione all’America è un punto fermo ma non si
può andare avanti così per sempre. La situazione economica della
Repubblica islamica è disastrosa e oggi l’Iran potrebbe tornare a
esercitare un ruolo importante nel Golfo a condizione di riallacciare i
127
DOSSIER
MADRID GUARDA A ORIENTE
Se fino al 9 novembre il quotidiano spagnolo
«El País» non si fa notare per l’originalità dei
suoi editoriali e degli articoli di fondo, la
caduta del Muro porta un po’ di verve
giornalistica e nei giorni seguenti compaiono
almeno quattro analisi degne di nota. Paul
Kennedy, docente di storia a Yale, cerca nel
suo Retorno al polvorín le ragioni
dell’instabilità dell’Europa orientale che viene
paragonata a una polveriera fin dai tempi
dell’impero austroungarico a causa delle
numerose rivalità etniche e territoriali
presenti. E attualizza il problema
paragonando l’impero degli Asburgo a quello
sovietico, ormai minacciato dalle agitazioni
interne e dalla disintegrazione. Il 20
novembre il giornale spagnolo dedica un
lungo articolo alla crisi d’identità del Partito
comunista italiano, il più potente
dell’Occidente. Il corrispondente da Roma
spiega come, alla vigilia della riunione del
Comitato Centrale, Achille Occhetto stia
vivendo un vero e proprio psicodramma nel
tentativo di dare nuova linfa al partito e debba
fronteggiare una veemente opposizione
interna. “Ingrao teme che la perestrojka di
Occhetto possa in realtà consumare tutta la
sua forza rivoluzionaria in una fusione con il
partito socialista di Craxi, perdendo tutto il
suo peso e il carisma storico di forza di
sinistra e di opposizione”, scrive Juan Arias. Il
pezzo non manca di paragonare Occhetto a
Gorbaciov per il fatto di ricevere più applausi
dall’esterno che dall’interno del partito. Con
El anacronismo rumano del 21 novembre il
quotidiano sposta le proprie attenzioni
sull’ultima isola di socialismo “puro e duro”
rimasta in Europa, la Romania, paragonata ai
fascismi totalitari del passato. Ma sulle
speranze che il proposito di Ceausescu vada a
buon fine, «El País» non ha dubbi: “È
assolutamente impossibile perché la Romania
non è l’Albania, un piccolo Paese che può
mantenersi sulle sue montagne senza
relazioni con il mondo esterno. I rumeni non
meritano di essere rinchiusi in una fortezza
impermeabile ai venti che soffiano per
l’Europa”. Alla fine del mese che passerà alla
storia, il quotidiano dedica un lungo
approfondimento ai delicati equilibri costruiti
attorno a un muro che sembra molto più
difficile da abbattere, lontano dal cuore
dell’Europa e dall’attenzione dei media
occidentali, quello tra le due Coree.
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rapporti diplomatici con Washington e avviare un cambiamento
interno e nella leadership. Questa è la vera sfida delle elezioni
presidenziali del 12 giugno.
La centrale nucleare di Bushehr è stata ultimata ma produrrà soltanto
mille megawatt di elettricità, mentre il fabbisogno della Repubblica
islamica è quaranta volte tanto. Lei cosa pensa del nucleare iraniano?
Ha obiettivi solo civili?
L’opinione pubblica iraniana, anche nella diaspora, vuole il nucleare
civile e pure l’atomica. I miei amici iraniani sarebbero pronti a morire
per la nuclearizzazione del loro Paese! Sostengono che l’Iran sia il
centro del mondo, da sempre assediato da nemici barbari e crudeli e
per difendere la propria civiltà avrebbe bisogno dell’atomica! Detto
questo, il nucleare non è solo un problema di capacità militare ma
porta con sé l’inserimento del Paese in un sistema di non
confrontazione: l’India e il Pakistan non hanno firmato il Trattato di
non proliferazione ma nel loro caso l’atomica è un deterrente per
impedire un’altra guerra in Kashmir.
Secondo lei qual è il vero problema legato al nucleare?
La vera sfida del nucleare è rappresentata dal terrorismo: se, per
esempio, l’Arabia Saudita avesse la bomba atomica chi sarebbe
incaricato della sicurezza? Il Paese stesso, oppure gli stranieri? Il
problema di oggi è il terrorismo e, nel caso del Golfo, il nucleare
darebbe a chi lo detiene la supremazia sul petrolio.
Secondo lei Obama rappresenta un vero cambiamento?
Obama ha cambiato posizione su punti importanti all’origine
dell’ostilità tra americani e mondo islamico e, per esempio, ha firmato
il decreto per chiudere Guantanamo. Ma Obama ha bisogno di
capitalizzare quello che è avvenuto in Iraq con il successo militare del
surge iniziato dal generale Petraeus. Il fatto che il segretario alla Difesa
Robert Gates sia rimasto in carica con Obama dimostra che non c’è un
cambiamento di strategia militare.
Resta da affrontare la situazione russa dopo la caduta del Muro di
Berlino: secondo lei dove va Mosca vent’anni dopo?
Vent’anni dopo la caduta del Muro la Russia è rientrata nella
comunità internazionale come una petro-monarchia. La differenza tra
la Russia e le petro-monarchie del Golfo è che queste ultime, anche se
hanno perso soldi negli investimenti finanziari e negli hedge funds,
sono sempre molto ricche. La Russia è invece in una situazione
economica terribile e i suoi oligarchi sono molto indebitati con il
sistema bancario: la petro-monarchia russa non era sufficientemente
consolidata dal punto di vista finanziario e uscirà molto indebolita
dall’attuale crisi.
Professor Kepel, l’America e un certo Occidente hanno vissuto per
decenni con lo spauracchio di un pericolo comunista e,
in seconda battuta, di un pericolo islamico.
Quale sarà, secondo lei, la prossima paura?
Sarà un altro pericolo verde, ma non islamico: è la paura del
dollaro. Il terremoto che viviamo oggi è la prima fase di un
cambiamento ciclico del sistema mondo. Ma siamo soltanto ai primi
passi e ancora non sappiamo come si potrà uscire da questa crisi.