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RAGIONANDO SUL NOSTRO TERZO DOPOGUERRA di Sergio Romano DAHRENDORF: LA RUSSIA ORA VA AIUTATA a cura di Danilo Taino UN “EX” MONDO UNITO DALL’INQUIETUDINE di Predrag Matvejevic DAL CROLLO DEL COMECON AL BOOM ECONOMICO di Stefano Chiarlone LA DIFFICILE TRANSIZIONE ALL’ECONOMIA DI MERCATO di Lucia Tajoli URSS: IL BIG BANG DEL GRANDE IMPERIUM di Piero Sinatti KEPEL: IL MURO? ABBATTUTO DALL’AFGHANISTAN a cura di Farian Sabahi Al di qua del Muro Corbis_Bettmann DOSSIER DOSSIER Che cosa ha significato la caduta del Muro di Berlino e la fine del “comunismo realizzato” per i popoli di tutto il mondo e per quelli dell’Europa centro-orientale in particolare? Il rinculo sul piano dell’economia è stato fortissimo, ma ha poi dato luogo a una crescita DOSSIER Ragionando sul nostro Terzo dopoguerra di Sergio Romano Corbis_Peter Turnley “Il processo di assestamento innescato dalla caduta del Muro di Berlino è terminato alla fine degli Anni Novanta. Ma era cominciato nel frattempo un altro terremoto: la distruzione dei pilastri dell’economia dirigista in tutti i Paesi del blocco comunista”. È quanto scrive Romano nel libro 1989-2009. Mittelfest. Prove d'Europa. Curato da Antonio Devetag, il volume sarà presentato al festival internazionale della Storia di Gorizia (23 maggio) e al Mittelfest di Cividale del Friuli (18/26 luglio 2009). 98 Il Terzo dopoguerra, come fu chiamato il periodo aperto dal crollo del Muro di Berlino e dal collasso dell’Urss, può essere diviso in due fasi di lunghezza pressoché eguale. La prima fu quella che i geologi definiscono la fase delle scosse di assestamento: una lunga serie di crisi statuali, guerre civili e guerre di secessione che agitarono sino alla fine degli anni Novanta tutti i Paesi del comunismo europeo. La Cecoslovacchia si ruppe dolcemente, come se il confine tra le terre dell’impero d’Austria e quelle del regno d’Ungheria fosse soltanto una fragile cucitura, mal imbastita dai sarti di Versailles. La Iugoslavia si ruppe sanguinosamente, in parte lungo i confini tracciati dal maresciallo Tito alla fine della Seconda guerra mondiale, in parte lungo quelli etnico-religiosi che attraversavano la Bosnia e la Serbia. Le scosse più lunghe e i traumi maggiori sconvolsero l’Unione Sovietica. L’opinione pubblica occidentale ebbe qualche notizia di prima mano sulla guerra cecena del 1994-1996, ma quasi non si accorse di ciò che accadde nei territori al di là del Nistro tra Moldavia e Ucraina, nel Nagorno-Karabach, nell’Ossezia del Sud, in Abkhazia e in alcune repubbliche dell’Asia Centrale. Non capì, ad esempio, che il collasso dello Stato sovietico stava provocando un fenomeno non troppo diverso, sul piano quantitativo, da quello che si era prodotto alla fine della Seconda guerra mondiale quando dodici milioni di tedeschi fuggirono o furono cacciati dai territori orientali del Terzo Reich, dalla Polonia, dal Sudenland, dalla Transilvania. Ma i flüchtlinge, in questo caso, erano soprattutto russi, spinti dalle circostanze ad abbandonare il Baltico, il Caucaso, il Caspio e l’Asia centrale. Il processo d’assestamento terminò alla fine degli anni Novanta quando la terra si stancò di tremare. Ma era cominciato nel frattempo un altro terremoto: la distruzione senza precedenti. Più complesso e variegato il panorama politico e sociale. Sia in Russia sia nei cosiddetti Paesi satelliti. Quanto agli equilibri internazionali, il venir meno della competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica… Olycom/Publifoto dei pilastri dell’economia dirigista in tutti i Paesi del blocco comunista. Mentre l’Europa occidentale avanzava verso l’integrazione economica con la creazione di un mercato unico e di una moneta comune, l’Europa centro-orientale smantellava i gosplan, i kombinat, i kolchoz, i sovchoz e il gigantesco arsenale dell’economia di comando. Malauguratamente la ricostruzione avvenne con le ricette altrettanto ideologiche dei teologi del liberismo e del Fondo monetario internazionale. Il risultato delle privatizzazioni a passo di carica fu la nascita in pochi anni di una oligarchia economica che si appropriò delle risorse naturali del proprio Paese e fece un uso banditesco della sua colossale ricchezza. La seconda fase cominciò agli inizi del nuovo secolo. Dopo la presidenza sostanzialmente cauta e temporeggiatrice di Bill Clinton, la Casa Bianca di George W. Bush decise che era arrivato il momento di rifare il mondo a immagine e somiglianza degli Stati Uniti. L’islamismo radicale (un fenomeno che era andato progressivamente crescendo negli anni precedenti) offrì l’occasione che i neoconservatori avevano atteso e preparato. L’assalto alle Torri gemelle ebbe la funzione del colpo di pistola di Sarajevo: la miccia necessaria al lavoro degli incendiari. Dopo la guerra afghana (una sorta di ouverture o prologo) il primo atto andò in scena in Iraq perché Saddam Hussein era il più congeniale dei bad guys offerti dal mercato internazionale. Ma la strategia di Bush aveva obiettivi più ambiziosi fra cui il rovesciamento del regime iraniano, la trasformazione politica dell’intera area medio-orientale, la riduzione all’obbedienza della Corea del Nord. La macchina s’inceppò a Baghdad, ma questo non impedì a Bush di spostare l’azione in Europa dove la Nato partì alla conquista dell’Europa centroorientale e di alcune fra le più importanti repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Il risultato fu il conflitto georgiano e quella che qualcuno, con un po’ di retorica, ha definito una nuova guerra fredda fra la Russia e l’Occidente Mentre Bush tentava la creazione di un nuovo ordine mondiale guidato da Washington,la Federal Reserve di Alan Greenspan concepiva ed esportava nel mondo il modello finanziario che avrebbe permesso agli americani di consumare ricchezza non ancora prodotta e di scaricare i propri debiti sulle spalle di risparmiatori e investitori stranieri, soprattutto cinesi. Come tutte le piramidi anche questa era visibilmente destinata a crollare. Ma dalla bolla olandese dei tulipani ai nostri giorni, l’ingordigia prevale spesso sulla saggezza. Il secondo decennio dopo la caduta del Muro termina così con nuovi terremoti. L’edificio investito dalle scosse, in questo caso, è quello dell’autorità e del prestigio degli Stati Uniti nel mondo. E anche in questo caso, come dopo il crollo dell’Urss, vi saranno ricadute politiche incalcolabili e imprevedibili. Speriamo che il nuovo inquilino della Casa Bianca ne sia consapevole. 99 Dahrendorf: la Russia ora va aiutata a cura di Danilo Taino AFP_P. Armestre Uno dei maggiori intellettuali europei ed europeisti, Lord Ralf Dahrendorf, rievoca le attese e le speranze dell’opinione pubblica occidentale dopo la caduta del Muro. Sull’unificazione tedesca è convinto che non ci debbano essere ripensamenti. Molto critico sulla miopia dei governi dell’Unione, è invece convinto che la Russia… Vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’Europa che si confronta con la crisi è “in netta ritirata, secondo Ralf Dahrendorf. Ma questo non significa che il credit crunch mondiale e la recessione abbiano annullato la svolta iniziata con il crollo del socialismo reale e poi dell’Unione Sovietica. Lord Dahrendorf, che compirà ottant’anni quest’anno, è probabilmente il maggior sociologo europeo, anche se definirlo sociologo è davvero poco, dal momento che è stato politico e politologo, filosofo, pedagogo, stella intellettuale alla London School of Economics e poi a Oxford e oggi è anche membro a vita della Camera dei Lord in Gran Bretagna, nonostante sia tedesco. Quella che espone in questa intervista è la sua visione, da liberaldemocratico, degli eventi accaduti in questo ventennio anche alla luce della crisi finanziaria ed economica del 2009. AFP_W. Baum/DPA Lord Dahrendorf, la crisi in atto chiude la fase aperta dall’89, quando si parlava di democrazia in espansione ovunque e di libero mercato su scala planetaria? Quella spinta sembra più che perduta, pare di essere in retromarcia. Mah, starei molto attento a fare analisi affrettate. Si oscilla tra opposti ben lontani nella lettura della crisi. A un estremo c’è chi dice che tutto nasce dal fatto che al segretario al Tesoro americano Hank Paulson non andasse a genio il capo di Lehman Brothers, Richard Fuld, e quindi avrebbe lasciato che la banca fallisse. Un incidente, insomma. All’altro estremo c’è chi sostiene che Marx avesse già previsto tutto. In altre parole che è la fine del capitalismo. In realtà, le ragioni sono altre, stanno prima di tutto nella cultura del debito che si era imposta. In ogni caso, penso che l’economia di mercato e la società aperta se la possano cavare, anche se la crisi è davvero profonda. Certo, cambieranno parecchie cose, anche i valori. E probabilmente ci saranno violenze e tensioni sociali: mi pare di capire che Nicolas Sarkozy sia molto preoccupato, e che sia disposto a concedere molto del suo programma pur di comprare la pace sociale. Detto questo, non credo che la fase aperta dalla caduta del Muro di Berlino si sia chiusa. AFP_M. Urban L’Europa e la Germania, che furono al centro di quei momenti straordinari di vent’anni fa, si stanno muovendo bene, a suo parere? 100 Il mio amico Timothy Garton Ash dice che l’Europa non esiste e, altro che G20, andiamo verso un G2 tra Stati Uniti e Cina. Sul fatto che l’Europa non esista concordo con lui. E non a causa di Mirek Topolánek e della caduta del governo ceco. Non esiste perché i leader maggiori vanno in direzioni significativamente diverse. Soprattutto, chiedono a Bruxelles di sminuire l’Europa, di allentare le regole del mercato unico. È una situazione che può creare tensioni tra i diversi Paesi e comunque indebolisce l’Unione europea. In più, c’è una situazione grave in Europa dell’Est: l’insieme delle crisi acute in alcuni Paesi e delle differenze di visione politica possono essere fonte di rotture per la Ue. La cancelliera Angela Merkel è però convinta che il modello europeo di capitalismo – o meglio il modello sociale di mercato tedesco – sia vincente e da esportare a livello mondiale, addirittura con una Carta globale per un’economia sostenibile. Anche perché ha superato il test dell’unificazione e ora, dice, regge bene nella crisi. Può darsi che Frau Merkel abbia dato una risposta alla crisi migliore di quella che hanno dato gli anglosassoni Barack Obama e Gordon Brown, che puntano tutto su enormi pacchetti congiunturali. Lei è più preoccupata del debito pubblico e di quello che succederà dopo la crisi. Ma quanto a esportare il modello tedesco, non credo che in questo momento la gente ne voglia nemmeno discutere. Intendo la gran parte dei governi ma anche le opinioni pubbliche. Non sono nemmeno sicuro che si sappia davvero cos’è l’economia sociale di mercato. In realtà credo che sia un mito, un bel termine che non significa nulla. È un compromesso ibrido nato nell’immediato dopoguerra: un po’ di Bismarck sociale e un po’ di semicapitalismo alla tedesca, quell’intreccio di corporativismo, rapporti tra banche, industria e politica fuori dal mercato. Non vedo come si possa esportarlo. Veniamo a quei giorni. Un suo connazionale, il Premio Nobel Günter Grass, sostiene che l’unificazione delle due Germanie fu in realtà un takeover del capitalismo dell’Ovest sulla Ddr. Condivide? Sì: era esattamente quello che volevano i cittadini dell’Est ed era quello che volevo anch’io. Sono contento che così sia stato. Mi spiace che le cose non siano successe in modo abbastanza chiaro e condiviso: imporre all’Est le condizioni dell’Ovest era un errore, ma era un errore inevitabile, non si poteva farne a meno. Il problema, piuttosto, è che il takeover di cui parla Grass più che del capitalismo è stato un takeover del non capitalismo della Germania Ovest: sono sempre rimasto scioccato dalla velocità con la quale le corporazioni, le camere di commercio, le associazioni dei medici e via dicendo hanno conquistato l’Est. È chiaro comunque che una confederazione tra due Stati diversi era impossibile. Non credo che l’unificazione abbia indebolito la Germania. Anzi, l’ha forse rafforzata. L’Est è ancora nella fase di rincorsa, di recupero. Ma è un recupero in corso. In più, l’Est ha introdotto differenze che nella Germania di oggi sono comunque utili, positive. È stato guidato bene il processo di unificazione dai governi che si sono succeduti in questi due decenni, prima quelli di Helmut Kohl, poi quelli di Gerhard Schröder e ora quello di Angela Merkel? Sono stati governi mediocri ma non tragici. Kohl ha fatto l’unificazione. Schröder non è mai stato credibile, devo dire. Come quella volta che firmò assieme a Tony Blair il documento sulla terza via e poi se lo rimangiò immediatamente: la disonestà della cosa non Grazia Neri_M. Mencarini La Germania federale precedente all’unificazione avrebbe affrontato meglio le crisi di oggi? Era più forte? _Nella pagina accanto il premio Nobel per la letteratura Günter Grass, Lord Ralf Dahrendorf e l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt 101 mi è mai piaciuta, la trovo poco intelligente. Ma un certo numero di cose le ha poi fatte, qualche riforma. Quello che mi ha sempre stupito è la loro incapacità di spiegare alla gente la situazione e quello che stavano facendo. Frau Merkel è singolarmente incapace di spiegarsi. Qui c’è una grande differenza con l’epoca precedente alla caduta del Muro: Helmut Schmidt aveva, e ancora ha a novant’anni, una capacità di spiegare e chiarire straordinaria. Il dopo Muro ha anche cambiato molto le dinamiche tra i partiti tedeschi. Moltissimo, i due grandi partiti popolari, l’Unione Cdu-Csu e la Spd, perdono rapidamente. Il risultato più probabile delle prossime elezioni di settembre è che i due siano costretti a rifare la Grosse Koalition, ma rischiano di prendere la maggioranza per poco: Frau Merkel nei sondaggi perde il 5% rispetto al cattivo risultato del 2005. Il suo avversario, il socialdemocratico Frank-Walter Steimeier, perde l’8%. Se non cambia qualcosa, saranno costretti a una coalizione che di grande avrà ben poco, di certo non la maggioranza. Quanto a un governo tra Cdu-Csu e liberali mi sembra non facile: assieme, nei sondaggi, arrivano al 50%. Non credo che formerebbero un governo con una maggioranza minima. Dieci anni di Grosse Koalition non sarebbero un problema? I due grandi partiti popolari, quando stanno insieme troppo, lasciano poco spazio alle opposizioni e alle alternative. È negativo, infatti. Ma non so cosa farci se in questi anni i partiti popolari storici sono diventati non più popolari. Nell’89 e soprattutto negli anni successivi, si erano accese speranze ben diverse per la Russia. Invece… È un Paese che ha paura e sta attraversando una crisi economica spaventosa. È spaventata da tutto: dall’economia e dal fatto di pensare che tutti siano contro la Russia. Nessuno, in realtà, in questi anni dà retta ai russi e loro, ogni tanto, si fanno sentire nel campo dell’energia o resuscitando la retorica del passato da superpotenza nucleare. Non deve essere simpatico essere a capo del Paese, a Mosca, oggi. Sono però contrario all’idea che l’Occidente cerchi di sfruttare questa debolezza. Al contrario, la Russia va aiutata. Vent’anni dopo, però, in Germania e forse anche in Italia, c’è ancora un’idea della Russia uguale a quella di quando il vicino si chiamava Unione Sovietica ed era “l’altra” superpotenza. A Berlino raggiunge livelli da ossessione. Non le pare? Sì, la Germania è ossessionata dalla Russia, nonostante che come ex superpotenza questa sia severamente indebolita: le resta solo l’arsenale nucleare che, certo, non è poca cosa. Il fatto è che di questi tempi i russi sono molto tesi e facilmente irritabili. Hanno paura della crisi e dell’espansione della Nato. Sarebbe una buona cosa se li aiutassimo a uscire da questa situazione. 102 AFP_G. Malie Ai giovani, nel 1989, si prometteva un mondo aperto, in crescita, senza più guerra fredda. Cosa possiamo promettere loro oggi, vent’anni dopo e in piena crisi del capitalismo. I giovani erediteranno un bel caos, e un bel po’ di debiti che gli Stati stanno accumulando. Non è bello. Ma non ho dubbi: sapranno cavarsela. Un “ex” mondo unito dall’inquietudine di Predrag Matvejevic Fino a qualche tempo fa osservavamo in primo luogo l’Est europeo e un sistema sociale che crollava. Da meno di un anno, nel 2008-2009, guardiamo non solo in questa direzione. I nostri sguardi s’incrociano e si perdono in lontananza, creando una paura quasi universale. Essa sembra unirci più di una globalizzazione che cercava a modo suo di “avvicinarci” gli uni agli altri. Oggi, quasi tutto il mondo diventa più o meno “ex”. Lo unisce la nostra inquietudine. La caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda hanno visto una parte del mondo vivere un'esistenza in qualche modo postuma: un ex impero, numerosi ex Stati ed ex patti tra Stati, tante ex società ed ex ideologie, ex cittadinanze ed ex appartenenze, e anche ex dissidenze e ex-opposizioni. Era legittimo domandarsi cosa significasse, in realtà, essere o dirsi “ex”. Essere stato cittadino di un'ex Europa più o meno affrancata, di una ex Unione Sovietica disgregata, di una ex Iugoslavia distrutta. Essere diventato un ex socialista o ex comunista, ex tedesco dell'Est, ex-cecoslovacco – cioè solo ceco o solo slovacco – membro di un ex partito o partigiano di un ex-movimento. L'Est non aveva diritto esclusivo allo status di “ex”. In Occidente e altrove, si conoscono bene degli ex stalinisti, degli ex colonialisti, degli ex-sessantottini (tanti, dappertutto), tutta una ex sinistra diventata nuova destra, una vecchia destra convertita al “neo liberalismo”, una ex democrazia cristiana suddivisa tra destra e sinistra, che ha talvolta impoverito il cristianesimo senza arricchire per contro la democrazia; una ex socialdemocrazia imbastardita sulla quale si sono innestati alcuni ex-progressisti pentiti; un ex socialismo occidentale che si è tagliato via dalle sue stesse radici, un ex-franchismo o un ex salazarismo diventati “europeisti”. Probabilmente, domani si parlerà di una ex Unione europea che avrebbe rinnegato un vecchio continente inerte e indeciso, colpevole per molti motivi. C'è un odore di ancien régime attorno a noi, odore d'infezione o di avaria. La morale sembra si adatti alle mille e una maniera di voltare gabbana, pronta a considerare qualsiasi rigore come una sopravvivenza. Siamo anche testimoni di tante cose inattese e sorprendenti: quasi nessuno pensava che il “capitalismo finanziario” potesse fare tanto male al capitalismo stesso, metterlo in questione in un modo simile. Si pensava – e si prevedeva una volta – che la “lotta delle classi” facesse questo lavoro, radicalmente. Tanti di noi erano ingenui. La “crisi” che stiamo vivendo non permette più ipotesi scolastiche o riferimenti partitici. Dobbiamo viverla, non tutti nello stesso modo, ma coinvolti spesso malgrado noi stessi. Dalla nostra esperienza precedente (penso a noi che abbiamo vissuto nell’ex Europa dell’Est), sappiamo che lo statuto di “ex” è Corbis_R. Bossu/Sygma L’Est non aveva diritto esclusivo allo status di “ex”. In Occidente e altrove si conoscono bene degli ex stalinisti, degli ex colonialisti, degli ex sessantottini, tutta una ex sinistra diventata nuova destra, una vecchia destra convertita al neoliberismo… 103 AFP/DPA DOSSIER 104 più grave di quanto non sembri a tutta prima: quell'“ex” è visto e vissuto come un marchio, talvolta come delle stimmate. E di volta in volta un legame, involontario, o una rottura, voluta. Può trattarsi di un rapporto ambiguo, quanto di una qualità ambivalente. Essere “ex” è, da una parte, avere uno statuto mal determinato e, dall'altra, provare un sentimento di disagio. Tutto ciò concerne tanto gli individui che la collettività, tanto la loro identità quanto le modalità della loro esistenza: una specie di “ex istanza”, ad un tempo retroattiva e attuale. Il fenomeno è nello stesso tempo politico (o geopolitico se si preferisce), sociale, spaziale, psicologico. Pone più di una questione morale e mette in causa una morale precedente. Non si nasce “ex”, lo si diventa. Tanti rinnegamenti, rimaneggiamenti del passato o del presente sono in atto, auto-giustificazioni o aggiustamenti di percorso, fughe in avanti o all'indietro, modi di rifare o di disfare se non la propria vita almeno il nostro sguardo sulla vita. Lo choc per quanto è accaduto e sta accadendo sembra tanto violento quanto imprevisto. Le “transizioni”, per quanto male assicurate all’Est, prevalgono ancora sulle “trasformazioni”. L’Occidente guarda innanzitutto agli affari suoi. La democrazia proclamata in vari Paesi del mondo appare più spesso con le caratteristiche di una “democratura” (ho coniato questo termine all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso per definire un ibrido tra democrazia e dittatura, non solo nei Paesi detti dell’Est). Un populismo penoso è sempre stato pronto a sostenere quasi tutti i regimi dubbiosi. La laicità è stata poco popolare in gran parte dell'Est e dell'Occidente, senza parlare del cosiddetto “Terzo mondo”. Il “giocattolo nazionale” non ha mai perso la sua attrattiva. La cultura nazionale si converte facilmente in ideologia della nazione e sbocca spesso su progetti nazionalisti. L'idea di emancipazione scompare dall'orizzonte, “invecchiata” o “utopica”. I nostri discorsi sono quasi inevitabilmente sfasati, il loro centro di gravità sembra spostato. Il mondo “ex” è pieno di eredi senza eredità, di svariate mitologie che si escludono reciprocamente: riedizioni del passato e del presente, immagini disparate e rimesse insieme alla leggera, schermi frapposti in fretta o griglie di lettura mal applicate, paradigmi messi in questione dalla loro stessa definizione. Le utopie e i messianesimi si vedono sistemati tra gli accessori di un passato irrecuperabile. Un aggiornamento della fede e della morale non sembra essere perseguito che in ambienti limitati e occasionalmente. Fino a poco tempo fa un “post-modernismo” cercava, senza troppa fortuna, di imporsi sull'arte e sul pensiero per rimpiazzare ciò che nell’epoca precedente era stato acclamato come “moderno”: un ex modernismo criticabile, certamente, ma non insignificante. Le avanguardie, che hanno proclamato e svolto i loro ruoli, sono ormai “classificate”. Le fonti della grande letteratura, generatrice di simboli, sembrano esaurite. Forme di “decostruzione” tendevano a sostituirsi a sintesi poco soddisfacenti. Una nuova storia rifiutava di sottoporre la “lunga durata”, come faceva la precedente, al vaglio degli avvenimenti. La vecchia università non è riuscita a riformarsi. L'invocazione dell'“immaginazione al potere” è già da tempo dimenticata. Le alternative non sono state create né dalla destra né – ahimè! – dalla sinistra. Cerchiamo almeno di superare la paura. So che questo slogan sembra troppo modesto, ma non ne vedo un altro più affidabile. Corbis_D. Auberti/Sygma Dal crollo del Comecon al boom economico di Stefano Chiarlone Com’era prevedibile, la caduta del Muro ha determinato nell’immediato una crisi profonda del modello di sviluppo ereditato dal vecchio regime. Ma già nei primi anni Novanta l’economia ha preso a correre. Tra il 1990 e il 2006 il tasso di crescita annuale composto nei Paesi Peco è stato superiore al 12%. In questo periodo i risultati migliori sono stati conseguiti da Repubblica Ceca e Slovacchia, mentre la Bulgaria… AFP_A. Kisbenedek Dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta del Muro di Berlino, i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale (Peco) sono stati contraddistinti dalla proprietà socialista e dalla pianificazione centralizzata. Riguardo al commercio internazionale, le principali caratteristiche di quel modello erano il monopolio di Stato e l’adesione al Consiglio per la Mutua Assistenza Economica (Comecon). Il primo, a fronte della frequente penuria di prodotti, del razionamento da parte dello Stato e di schemi di perequazione dei prezzi, ha ridotto in misura considerevole il commercio con l’estero di detti Paesi; i tassi di cambio multipli, poi, hanno acuito tale scenario già negativo. La seconda ha stimolato con decisione le relazioni bilaterali con l’Unione Sovietica e, in misura minore, con gli altri Stati membri, determinando al contempo gravi distorsioni nel modello di specializzazione. In seguito alla caduta del Muro di Berlino, le economie dell’Europa centro-orientale hanno dato inizio, tuttavia, a una profonda revisione del proprio sistema, innescando una riallocazione delle risorse in favore di nuove attività e favorendo la ristrutturazione delle aziende sopravvissute alla crisi. La conseguenza è stata un grave crollo iniziale della produzione. Successivamente, la liberalizzazione del tasso di cambio e della struttura commerciale, la privatizzazione delle aziende statali e l’instaurazione di un ambiente maggiormente fondato sulla concorrenza hanno spronato la ripresa strutturale. Tra i fattori che hanno concorso a questo risultato va considerata la maggiore efficienza stimolata dalla riallocazione delle risorse verso settori industriali nei quali ciascun Paese poteva contare su vantaggi comparati. Peraltro, l’apertura al commercio internazionale ha favorito la crescita instaurando legami globali e facilitando l’integrazione nell’Ue. 105 DOSSIER TABELLA 1: QUOTA PERCENTUALE DI PARTNER COMMERCIALI PRIVILEGIATI SULLE ESPORTAZIONI TOTALI DEI PECO REPUBBLICA CECA Ue Usa Austria Francia Germania Italia Spagna Gran Bretagna Repubblica Ceca Ungheria Polonia Bulgaria Romania Russia Slovacchia 1999 70.5 2.6 1.6 4.2 43.6 3.6 1.8 3.6 1993 49.4 2.1 1.2 2.1 26.5 5.5 1.4 3.7 1986 26.8 0.6 3.9 1.5 15.0 1.7 0.3 1.8 1.6 5.3 0.4 0.5 1.4 7.3 1.7 3.0 0.4 0.2 4.6 20.2 1.6 3.4 2.6 1.7 33.8 UNGHERIA POLONIA 1999 79.4 5.8 8.9 4.7 41.5 5.3 1.5 4.9 1.3 1993 61.4 5.1 9.2 3.6 31.2 6.8 0.6 2.9 1.2 1986 22.6 2.3 5.3 1.6 8.4 3.2 0.2 1.3 5.9 1.8 0.2 1.5 0.9 0.9 1.6 0.3 1.5 10.0 1.2 4.2 1.6 2.0 33.9 1986 74.0 2.9 5.3 5.3 38.9 7.1 1.6 4.2 3.4 1.9 1993 70.5 3.4 4.1 4.5 40.4 5.1 0.6 4.5 2.0 0.9 1986 23.6 2.1 2.6 2.0 9.2 2.2 0.3 3.3 4.9 2.6 0.2 0.3 1.8 0.9 0.2 0.3 4.0 1.0 1.9 1.9 23.7 Fonte: calcoli su dati Un Comtrade e Fmi Direction of Trade Statistics La fase iniziale dell’evoluzione dei modelli commerciali dei Paesi dell’Europa centrale e orientale è consistita in un riposizionamento geografico al di fuori del sistema Comecon e indirizzato all’Europa occidentale. In proposito, sono illuminanti i dati relativi a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria (Tabella 1). Nel 1986 l’Unione Sovietica attirava tra il 23,7 (Polonia) e il 33,8% (Repubblica Ceca e Ungheria) delle esportazioni di questi Paesi; quote non molto distanti da quelle attirate – all’epoca – dall’Ue-15. Quest’ultima importava il 22,6, 23,6 e 26,8% delle esportazioni polacche, ungheresi e ceche, rispettivamente. Gran parte delle importazioni europee andavano alla Germania Ovest. Nel 1993 era in corso un forte riposizionamento geografico. La quota della Russia si è nettamente ridotta ed era meno della metà del valore del 1986, mentre la percentuale dell’Ue sulle esportazioni della Repubblica Ceca era il doppio, quella sulle esportazioni polacche e ungheresi il triplo. Quasi l’intero riposizionamento verso l’Europa occidentale è stato determinato – numericamente – dall’aumento della quota tedesca1. Tali tendenze sono state confermate dall’evoluzione dei dati fino al 1999, quando si registra un peso ancora maggiore delle TABELLA 2: PESO DELL’UE RISPETTO ALLE IMPORTAZIONI ED ESPORTAZIONI PECO (% sul totale), 2007 Bulgaria Repubblica Ceca Ungheria Polonia Romania Slovacchia esportazioni dall’Ue-27 60.8 85 79.2 78.8 72.2 86.7 AFP Fonte: calcoli su dati Un Comtrade 1. In parte, forse a causa della riunificazione tedesca. 106 importazioni dall’Ue-27 58.5 70.7 70.5 64.1 71.3 61.1 importazioni Ue (70% circa per ogni Paese) e un ruolo trascurabile della Russia. Oggi, Tabella 2, l’Ue-27 costituisce il primo partner per importazioni ed esportazioni per i principali Paesi dell’Europa centrale e orientale. Altra evoluzione degna di nota è stata l’aumento dell’apertura ai mercati internazionali e la crescita del volume delle esportazioni. Entrambi i fattori avevano segnato una tendenza negativa dal 1980 al 1989 a causa della sempre più marcata disgregazione dei rapporti economici tra i Paesi appartenenti al Comecon; questo, a fronte di esportazioni verso il resto del mondo (considerata la bassa qualità dei prodotti di molti Paesi dell’Europa Centrale e Orientale) che non erano in grado di controbilanciare la situazione. Detta tendenza si è invertita a partire dagli anni Novanta. TABELLA 3: CRESCITA MEDIA ANNUA DEI VOLUMI ESPORTATI ($ USA) Bulgaria Repubblica Ceca Ungheria Polonia Romania Slovacchia 1990-95 12.4 34.7 15.4 16 11.8 25.7 1995-00 1.6 8.7 15.7 17.3 8.2 7.6 2000-05 14.1 12.6 7.8 6.1 16.4 13 1990-06 9.4 18.1 12.9 12.8 12.1 15.1 Fonte: calcoli su dati Iif I dati a disposizione indicano una dinamica tendente al rialzo per i volumi esportati dai principali Paesi dell’Europa centro-orientale a partire dal 1990, come conseguenza, in parte, del precedente scarso livello di integrazione internazionale e, in parte, della crescente disintegrazione verticale della produzione connessa al commercio con i Paesi Ue. Fattore determinante è stato anche il forte afflusso di investimenti diretti stranieri (più di 200 miliardi di dollari Usa dal 1990 al 2006), la gran parte dei quali provenienti dai Paesi dell’Europa occidentale. Numerosi studi confermano l’impressione che più profonda è la penetrazione degli investimenti diretti, più rapida è la velocità dei cambiamenti strutturali dei modelli di specializzazione industriale. Non a caso i Peco sono ormai ubicazione privilegiata di numerosi produttori Ue che hanno delocalizzato le proprie attività produttive per contrastare la concorrenza di altre economie caratterizzate da ridotto costo del lavoro, sfruttando capacità produttiva locale, forza lavoro qualificata e differenziali del costo del lavoro. Corbis_S. Raymer La fase di crescita è continuata anche negli anni Novanta e Duemila. Nel complesso, dal 1990 al 2006, il tasso di crescita annuale composto (Cagr) dei volumi esportati dai Peco è stato superiore al 12%. In questo periodo, i risultati migliori sono stati conseguiti da Repubblica Ceca e Slovacchia, mentre la Bulgaria ha riportato una prestazione inferiore alla media, con un Cagr del 9% (Tabella 3). Conseguenza diretta della forte crescita delle esportazioni mercantili è stata la maggiore apertura internazionale delle principali economie dell’Europa centro-orientale (Grafico 1). Nel 107 DOSSIER Grafico 1: Esportazioni/Pil 10 x 9x 8x CZE X/PIL 1988=1 BUL X/PIL HUN X/PIL 198 POL X/PIL 198 1988=1 SLK X /PIL 198 8=1 ROM X/PIL 1988=1 BUL X/PIL Sc . di Dx x HUN X/PIL S c . di Dx CZE X/PIL Sc . d i Dx POL X/PIL Sc. di Dx SLK X /PIL S c . di Dx ROM X/PIL 8=1 8=1 65% Sc . di Dx 55% 7x 45% 6x 5x 35% 4x 25% 3x 2x 15% 1x 0x 1988 1992 1996 2000 2004 5% Fonte: calcoli su dati Iif complesso, nel 2006, il rapporto tra esportazioni e Pil era appena inferiore al 70% per Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia, a fronte di valori tra il 10 e il 20% nel 1988; per gli altri tre Paesi, l’aumento andava dal 10-15% del Pil nel 1988 a circa il 30-40% nel 2006. Ciò lascia ipotizzare che l’integrazione economica sia aumentata in misura considerevole e il commercio con l’estero rappresenti ormai una percentuale rilevante del Pil. Ad esempio, il rapporto tra export e Pil nel 2006 era di oltre 9 volte quello del 1988 per la Slovacchia, e di più di 6 volte per la Repubblica Ceca. Olycom/Rex Features Infine, la nuova apertura commerciale dei Peco ha influito sulla rispettiva specializzazione settoriale. Per il periodo 1993-1999, i dati relativi a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria sono esemplificativi del ritmo di trasformazione della specializzazione stessa. 108 Nel 1993, ad esempio, la Polonia esportava soprattutto merci ad alta intensità di lavoro non qualificato, la Repubblica Ceca per lo più beni a uso intensivo di capitale umano e l’Ungheria prodotti ad alto uso di tecnologia. Da un punto di vista dinamico, il peso dei settori che si avvalgono di manodopera non qualificata è diminuita per questi Paesi (in modo più marcato per l’Ungheria). Per la Polonia, quelli ad alta intensità di lavoro sono rimasti i principali settori di esportazione, e si è registrato altresì un aumento dell’export di beni ad alta intensità di capitale umano e un peso costante per i beni a elevato uso di tecnologia. Nella Repubblica Ceca il peso delle merci a uso intensivo di capitale umano ha registrato una contrazione, mentre i beni ad alta intensità di tecnologia hanno accresciuto la propria quota, raggiungendo le prime. Quanto all’Ungheria, ha segnato un moderato aumento del peso dei beni ad alto uso di capitale umano e un forte incremento della quota dei tecnologici. In parte, questo fenomeno di avanzamento è connesso alla già menzionata delocalizzazione dall’Europa occidentale: i Peco hanno un ruolo decisivo nelle fasi ad alta intensità di manodopera della catena del valore di molti settori industriali avanzati (es. l’automobilistico). TABELLA 4: STATISTICHE DEL COMMERCIO MONDIALE PER LA REPUBBLICA CECA Non qualificato Capitale umano Tecnologia Repubblica Ceca 1993 1999 % produzione 0.22 0.26 % produzione 0.40 0.42 % produzione 0.38 0.32 Ungheria 1999 1993 0.17 0.33 0.28 0.25 0.55 0.42 Polonia 1999 1993 0.40 0.45 0.34 0.30 0.25 0.25 Fonte: calcoli degli autori su dati Un Comtrade. Grazie al coefficiente di correlazione per ranghi di Spearman (Crs)2 tra i vantaggi comparativi nel 1993 e 1999 (Tabella 5), è possibile valutare se il grado di trasformazione nel modello di specializzazione di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria nel periodo 1993-1999 sia stato più marcato rispetto a un gruppo di controllo rappresentato da altri Paesi Ue. I dati a disposizione suggeriscono che dal 1993 al 1999, Repubblica Ceca e Ungheria hanno mutato la propria struttura dei vantaggi comparativi (le Crs sono rispettivamente 0,72 e 0,61) più di ogni altro Paese Ue. La Polonia mostra un livello di stabilità maggiore, un dato in linea con quelli dei Paesi Ue. TABELLA 5: CORRELAZIONI PER RANGHI DI SPEARMAN DELL’INDICE DI BALASSA NEL 1993 E 1999 1999-1993 Repubblica Ceca 0.72 Ungheria 0.65 Polonia 0.81 1999-1993 Italia 0.92 Francia 0.81 Germania 0.92 1999-1993 Grecia 0.85 Portogallo 0.88 Spagna 0.84 Fonte: calcoli degli autori su dati Un Comtrade. È evidente che il forte cambiamento strutturale si è rivelato decisivo poiché i Paesi in esame emergevano dal periodo comunista. Ciò nonostante, se estendiamo l’analisi a un periodo più recente, è facile notare che, sebbene la stabilità del modello di specializzazione sia aumentata nel periodo 1996-2003 (Tabella 6), rispetto al 19931999, rimane comunque inferiore a quella di Francia, Germania e Italia; questo lascia intuire che a metà degli anni Duemila il processo di ristrutturazione del settore delle esportazioni (e del modello industriale) dei Peco era lungi dall’essere concluso. Infine, è possibile avvalersi dell’indice di Balassa dei vantaggi comparati rivelati per mostrare l’attuale modello di specializzazione TABELLA 6: CORRELAZIONI NEL 1996 E 2003 1999-1993 Repubblica Ceca 0.80 Ungheria 0.81 Polonia 0.82 1999-1993 Slovacchia 0.75 Bulgaria 0.74 Romania 0.82 1999-1993 Italia 0.95 Francia 0.85 Spagna 0.93 Fonte: calcoli degli autori su dati Un Comtrade. AFP 2. Le correlazioni per ranghi di Spearman sono state calcolate sui vantaggi comparativi rivelati sui dati Sitc Rev. 3. a tre cifre. Essi indicano la correlazione tra ranghi delle voci a tre cifre. 109 AFP DOSSIER dei principali Peco ed evidenziarne le rispettive differenze. Tale indice si basa sulla quota di un Paese nel commercio mondiale di un prodotto J diviso per la sua quota di commercio mondiale totale, e segnala se il Paese concentra in tale determinato settore una quota delle sue esportazioni maggiore rispetto al comportamento del resto del mondo. Se l’indice è superiore a 1, è sinonimo di specializzazione. La Tabella 7 mostra le differenze tra i vari Paesi in termini di modello di specializzazione. Bulgaria e Romania rivelano una specializzazione nei settori ad alta intensità di lavoro non qualificato, con poche eccezioni negli ambiti più avanzati. Il modello di specializzazione di Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, per contro, appare più fondato sui settori ad alta intensità di capitale umano (es. l’automobilistico) e di lavoro non qualificato. L’Ungheria, infine, mostra un modello di specializzazione più orientato verso i settori ad alta intensità di tecnologia. In generale, emerge altresì una marcata specializzazione dei vari Peco in settori caratterizzati da forte delocalizzazione dall’Europa Occidentale, ad esempio per elettrodomestici, veicoli stradali e ferroviari e apparecchiature elettriche, e questo conferma che l’evoluzione dei modelli di specializzazione dei Peco è dipesa dall’internazionalizzazione di numerose aziende europee. TABELLA 7: MODELLO DI SPECIALIZZAZIONE DEI PECO, 2005 Alta intensità di lavoro non qualificato Pellami Legno, Sughero Tessile Articoli da viaggio, valigie Abbigliamento Calzature Manufatti non metallici Costruzioni navali Arredamento e idraulica Giocattoli, prod. in plastica, articoli da ufficio ecc. Alta intensità di capitale umano Tintura, concia, colorazione Prodotti in gomma e plastica Manufatti metallici e non metallici Radio, televisori e altri prodotti audio Elettrodomestici Veicoli stradali e ferroviari Orologi, articoli d’arte, gioielleria ecc. Alta intensità di tecnologia Prodotti chimici, plastici Farmaceutici Macchine di produzione di potenza Apparecchiature non elettriche Apparecchiature da ufficio, Tlc ed elettroniche Apparecchiature elettriche Aeroplani Apparecchi fotografici, ottici e cinematografici BULGARIA REP. CECA UNGHERIA POLONIA ROMANIA SLOVACCHIA 2.4 1.0 0.7 1.7 2.7 1.0 0.4 0.1 0.7 1.4 1.1 1.1 1.9 1.3 1.0 4.0 3.1 1.7 1.4 1.1 0.5 0.8 1.1 0.9 1.4 0.4 0.3 0.1 1.5 0.2 6.2 0.5 0.7 0.9 6.1 0.9 3.7 0.4 0.7 0.5 8.7 2.1 0.7 1.3 0.5 1.0 0.4 0.8 3.0 0.0 0.0 4.3 2.5 0.3 2.0 2.2 1.4 4.9 3.3 2.2 0.6 1.1 0.8 1.1 0.5 0.6 1.1 1.4 0.9 1.4 0.9 1.8 0.8 0.7 0.6 1.3 0.3 0.2 0.6 1.5 0.9 2.0 1.0 2.2 3.1 1.4 0.6 1.5 1.8 1.9 0.0 1.5 3.3 1.5 0.3 3.4 1.2 0.9 1.9 2.9 1.9 1.9 0.1 1.5 0.8 1.3 0.5 1.8 0.2 0.8 0.1 0.4 0.1 0.4 0.5 0.8 1.2 0.6 0.5 0.6 0.9 0.5 0.6 0.6 0.7 0.6 0.4 0.2 0.6 0.2 0.0 0.2 0.5 0.9 3.6 1.8 0.6 0.6 0.6 1.2 0.7 0.7 0.6 0.8 0.1 0.7 1.6 0.2 0.1 0.3 0.9 1.6 1.7 1.2 1.7 1.2 0.0 0.2 0.0 0.1 0.2 0.1 0.5 0.5 0.6 0.3 0.2 0.2 Fonte: calcoli degli autori su dati Un Comtrade; N.B.: cifre >1 sono indice di specializzazione 110 La difficile transizione all’economia di mercato di Lucia Tajoli L’abbandono della pianificazione centralizzata dell’economia nel giro di pochi mesi, in qualche caso, o di pochi anni in altri, aveva dato l’avvio alla cosiddetta transizione verso l’economia di mercato, ovvero verso un sistema economico nel quale le decisioni di produzione e allocazione delle risorse non sono più prese a livello centrale dall’alto, ma dal basso. In un sistema di libero mercato, consumatori e imprese prendono le proprie decisioni sulla base dei prezzi che si formano sui diversi mercati, i quali fanno funzionare i meccanismi allocativi e distributivi dell’economia. Guidare e governare questa fase di passaggio si è mostrato fin dall’inizio un compito molto complesso, ma assolutamente cruciale. Secondo diversi economisti che hanno studiato la transizione nei Paesi dell’Est europeo, il problema più delicato da affrontare è stato quello della creazione delle istituzioni necessarie per far funzionare i mercati. Questo è un processo che nella maggior parte dei Paesi cosiddetti avanzati ha richiesto almeno qualche decennio, ma nei Paesi in transizione non si poteva certo far durare così a lungo, data la necessità di riavviare rapidamente la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi necessari per soddisfare i bisogni della popolazione. Questa fase iniziale richiedeva governi stabili e con un notevole consenso, che non sempre però esistevano nelle neonate democrazie di questi Paesi. L’adozione di un semplice atteggiamento di laissezfaire, perché i mercati trovassero la corretta allocazione delle risorse, come alcuni sembravano suggerire, non era evidentemente praticabile, dal momento che i mercati stessi non esistevano ancora. "Generally, there is a paradox about transition: though the desired endpoint may be a market system with light government, arguably, transition itself needs more policy not less. Transition needs to be planned and the institutions that support a market system need to be designed"1. L’inesperienza diretta fino alla fine degli anni Ottanta su questo tipo di transizione ha dato luogo a un acceso dibattito tra gli economisti su ciò che era necessario fare, in quale ordine procedere e con quale tempistica. Le due posizioni principali nel dibattito sono sintetizzabili nell’approccio del “big bang” o della “terapia shock”, contrapposto a quello del “gradualismo”. La politica del “big bang” prevede l’abbandono completo della pianificazione e il passaggio rapido in tutti i settori a una economia di mercato. Al contrario, il “gradualismo” prevede l’introduzione graduale di scambi di mercato 1. C. Allsopp e H. Kierzkowski, “The Assessment: Economics of Transition in Eastern and Central Europe”, Oxford Review of Economic Policy, 1997, vol. 13, issue 2, pp. 1-22 AFP_G. Savilov Dopo la caduta del Muro, con lo smantellamento del Comecon e del sistema a economia pianificata guidato dall’Unione Sovietica, i Paesi dell’Europa centrale e orientale si sono trovati ad affrontare un problema a cui nessun economista era in grado di dare una sicura risposta: come si costruisce un’economia di mercato? E come è possibile farlo in tempi brevi e cercando di ridurre al minimo i costi economici e sociali di questo passaggio? _Thomas Mirow, presidente della Ebrd 111 DOSSIER AFP_L. Neal in un settore alla volta. I sostenitori del “big bang” ritenevano che la rapidità nell’abbandono della pianificazione e l’estensione del processo di riforma a tutti i settori consentisse ai diversi tipi di riforma di rafforzarsi reciprocamente, dal momento che difficilmente un particolare settore poteva funzionare correttamente secondo regole di mercato se altri settori collegati non avessero funzionato in modo analogo (ad esempio, non sembrava possibile privatizzare le imprese senza mercati finanziari funzionanti). Inoltre, secondo alcuni i tempi lunghi della politica gradualista ponevano il problema della dilazione nell'attuazione delle riforme, e dell’ottenimento di risultati economici positivi, mettendo a rischio il mantenimento del sostegno politico delle riforme stesse. Al contrario, i sostenitori del “gradualismo” affermavano che non è possibile cambiare le cose da un giorno all'altro, e che cercare di farlo avrebbe creato costi di aggiustamento elevati e strappi nel tessuto sociale, rendendo dunque la scelta della “terapia shock” insostenibile politicamente. Inoltre, per poter attuare molte delle riforme era necessario creare il capitale umano adeguato (per esempio, i dirigenti delle nuove imprese private o delle banche) e questo non poteva essere fatto in tempi brevissimi. _Manfred Schepers, vicepresedente della Ebrd. Accanto la sede del Comecon, a Mosca 112 Anche se vi è era disaccordo sulle modalità e sui tempi delle riforme, vi era generalmente consenso sui punti più importanti da affrontare. La stabilizzazione macroeconomica (principalmente stabilizzazione dei prezzi, della spesa pubblica e del saldo dei conti con l’estero) era ritenuta il primo passaggio fondamentale, per garantire il funzionamento ordinato del sistema nel suo complesso e la possibilità di mettere in atto politiche economiche adeguate. Per consentire poi ai mercati di funzionare era necessario attuare la liberalizzazione dei prezzi e dell’entrata e uscita dai mercati, e la liberalizzazione del sistema di scambi internazionale e del tasso di cambio. Occorreva poi che lo Stato si ritirasse dalla gestione diretta dell’attività economica attraverso la privatizzazione delle imprese statali, e che ridefinisse il proprio ruolo nel governo dell’economia per mantenere la stabilità macroeconomica, e creare un sistema giuridico di riferimento, tutelare i diritti di proprietà e correggere le imperfezioni del mercato. Così tanti obiettivi erano difficili da raggiungere e spesso incompatibili se attuati simultaneamente, e dunque tutte le economie in transizione, indipendentemente dalla strategia adottata, nei primi anni del processo hanno dovuto affrontare gravi problemi. Sebbene diversi Paesi siano stati in grado di ritornare in tempi relativamente brevi a tassi di crescita positivi del Pil, il tasso di disoccupazione non ha seguito l'andamento a U rovesciata registrato in generale dalla produzione: buona parte della disoccupazione era legata al processo di ristrutturazione delle aziende statali e alle scelte di produzione delle imprese private, ed è risultata più persistente della caduta del Pil. Questo è uno dei motivi per cui molti Stati hanno proceduto assai lentamente nell'implementazione delle riforme, e in molti casi si sono alternate fasi di riforma accelerata a fasi di rallentamento, in particolare nella privatizzazione delle attività statali. Al di là della distinzione tra “big bang” e “gradualismo”, il problema della velocità di attuazione delle riforme è però molto rilevante, sia per la sua sostenibilità politica che per la sua efficacia nel produrre risultati economici. Per esempio, gli economisti concordano nel ritenere che l'eccessiva lentezza che ha caratterizzato Romania e Bulgaria sia stata negativa da molti punti di vista e abbia portato conseguenze a lungo termine, che in parte ancora si vedono. Le condizioni di partenza diversificate tra Paesi e le scelte di modalità di riforma diverse hanno portato a risultati differenti nel processo di transizione. Come esempi di due strategie contrapposte è possibile fare riferimento al “big bang polacco” e al “gradualismo ungherese”. La Polonia già all’inizio del 1990 abbandonava la pianificazione centralizzata e si muoveva rapidamente verso un sistema di mercato, e sebbene questo abbia comportato inizialmente una caduta molto forte dell’attività economica, la Polonia è stato il primo Paese a ritornare a tassi di crescita del Pil positivi e sostenuti, e a riportare il Pil complessivo al livello pre-transizione (si veda la Tabella “Tassi di crescita del Pil”). Al contrario, il governo ungherese era più preoccupato delle conseguenze sociali della transizione, e con l’introduzione graduale delle riforme, mise in atto misure di protezione dei lavoratori, sostenendo maggiormente la domanda interna. Anche grazie a queste misure, l’Ungheria non ha registrato neppure nei primi anni Novanta una caduta del Pil accentuata come quella polacca, e a un decennio dall’inizio della transizione aveva tassi di crescita decisamente elevati, risultando il Paese più avanzato nel processo di transizione, mentre la Polonia mostrava chiari segni di “affaticamento”. A distanza di venti anni è difficile dire quale strategia di riforma abbia avuto più successo e quale Paese abbia completato per primo la transizione. Nel complesso, va detto che la trasformazione delle economie dei Paesi dell’Europa centro-orientale è stata un notevole successo, come testimoniano i robusti tassi di crescita registrati negli ultimi anni. Per ritornare a due dei Paesi citati come diversi nel percorso seguito, l’Ungheria nel 2008 aveva un reddito pro capite (misurato a parità di potere d’acquisto) più elevato della Polonia (15.900 euro contro 14.000 euro per i polacchi, circa lo stesso divario percentuale dalla metà degli anni Novanta), ed entrambi hanno circa raddoppiato questi redditi in una decina d’anni. Attualmente però l’Ungheria sta soffrendo in modo molto più marcato le conseguenze della crisi economica, e alcune ragioni possono essere legate anche alle politiche economiche passate. AFP_Ria Novosti La diversità dei risultati ottenuti dalle economie dei Paesi dell’Europa centro-orientale nella seconda metà degli anni Novanta ha portato inizialmente l’Unione Europea – a cui tutte le economie dell’area avevano fatto richiesta di aderire – a distinguere i Paesi candidati in gruppi con un diverso livello di preparazione all’entrata nel Mercato Unico Europeo. Sebbene l’esistenza di gruppi di Paesi candidati che sarebbero entrati in momenti diversi sia stata poi eliminata, la “classifica” dell’Unione Europea (come pure della Ebrd) sul procedere della transizione mostra che è un errore accumunare tutti i Paesi in transizione in un unico gruppo. Lo sforzo di soddisfare una serie di requisiti per l’adesione all’Unione Europea ha caratterizzato la seconda fase della transizione dei Peco, e dunque tra la fine degli anni Novanta e il 2002 le politiche e le riforme implementate hanno portato a una maggiore convergenza, ma il gruppo delle economie dell’Europa centro-orientale rimane ancora fortemente eterogeneo. 113 DOSSIER Tassi di crescita del PIL reale in Europa 10 8 6 4 2 % 0 -2 -4 -6 -8 EU-15 Nuovi membri 1990 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 An n i 2008 (f) 2009 (f) Corbis_B. Robert/Sygma Infatti l’Ungheria già dalla metà degli anni Novanta mostrava squilibri significativi nelle finanze pubbliche, anche come conseguenza delle politiche di sostegno adottate, e il debito pubblico è rimasto elevato per tutto il periodo, rendendo il Paese molto esposto alla crisi finanziaria in corso. Nel complesso, l’esposizione alla crisi economica internazionale dei vari Paesi appare molto diversa, e legata oltre che al livello complessivo di indebitamento del Paese, anche alla sua dipendenza dalla domanda estera e in particolare europea, sia attraverso i flussi commerciali che per via della massiccia presenza di investimenti diretti dall’estero. Per diversi Paesi dell’Europa centrale però le previsioni sono di una crescita positiva, anche se contenuta, anche nel 2009. Uno degli aspetti della crisi che potrebbe colpire maggiormente i Peco è legato ad un aspetto del processo di transizione che non è stato ancora completamente superato, ovvero l’afflusso di capitali dall’estero per finanziare la ristrutturazione delle economie. Sebbene, come ricordato, l’esposizione nei confronti dell’estero sia piuttosto diversa, molti Peco non hanno ancora sviluppato adeguatamente mercati finanziari interni, e ancora dipendono dai mercati finanziari esteri. Dunque, anche se i fondamentali reali delle loro economie appaiono oramai decisamente robusti, il contraccolpo della crisi finanziaria potrebbe estendersi nell’area. COME CRESCE IL PRODOTTO LORDO BULGARIA REP. CECA ESTONIA LETTONIA LITUANIA UNGHERIA POLONIA ROMANIA SLOVENIA SLOVACCHIIA UE 1990 -9.1 -1.2 -8.1 2.9 -5 -3.5 -11.6 -5.6 -4.7 -2.5 -15 1993 -1.5 0.1 -9 -11.4 -16.2 -0.6 3.8 1.5 2.8 7.2 -0.5 Fonte: Eurostat, Statistics in focus, various issues p= previsione 114 1995 2.9 5.9 5 0.5 3.3 1.5 7 7.1 6.8 7.9 2.3 1997 -5.6 -0.7 10.8 8.5 4.6 8.3 7.1 -6.1 4.9 4.4 2.7 2000 5.4 3.6 9.6 4.2 5.2 6.9 4.3 2.1 4.4 1.4 3.9 2002 4.5 1.9 7.8 6.9 4.1 6.5 1.4 5.1 4 4.8 1.2 2004 6.6 4.5 7.5 7.4 4.8 8.7 5.3 8.5 4.3 5.2 2.3 2006 6.3 6.8 10.4 7.8 4.1 12.2 6.2 7.9 5.9 8.5 2.9 2007 2008 (p) 6.2 6.5 6 4.4 6.3 -1.3 8.9 3.1 1.1 1.7 10 -0.8 6.6 5.4 6.2 8.5 6.8 4.4 10.4 7 2.7 0.7 2009 (p) 4.5 3.6 -1.2 0 0. -2.7 3.8 4.7 2.9 4.9 -0.1 Babele di parole sul Muro di Alessandro Giulio Midlarz Corbis_P.Tarnley A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, un viaggio sorprendente tra i commenti, le speranze e i timori della grande stampa occidentale dell’epoca. Dal «New York Times» a «El País», da «Le Monde» al «Corriere della Sera» e alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung». Ecco cosa scrivevano a cavallo di quel 9 novembre 1989 che ha cambiato la storia del mondo Urss: il big bang del grande Imperium di Piero Sinatti Sembrava destinato a durare per sempre. Invece la grande conglomerata eretta da Stalin, definita Imperium da Kapuscinski, si è disintegrata in pochissimi mesi. Le repubbliche baltiche si sono mosse per prime, ma dietro di loro anche le balcaniche e le asiatiche hanno rivendicato l’indipendenza da Mosca. Ecco come Qual è il problema più grave per il Paese? A questo sondaggio del «New York Times», il 28 settembre 1989 i cittadini americani rispondono senza esitazioni. Per il 54% degli intervistati è la droga la vera emergenza del momento, solo l’1% ammette di essere turbato dall’idea della guerra nucleare. Quattro anni prima, rispondendo alla stessa domanda, gli esponenti della cosiddetta “generazione Strangelove”, cresciuta con la paura e la necessità della minaccia atomica, erano il 23%. “Percentuali incredibili, difficili da accettare quasi quanto lo stupore che percorre quotidianamente le sale del Cremlino”, è quindi il commento dell’autorevole quotidiano. In quei mesi la brezza della perestrojka, che già ha spinto Solidarnosc alla guida del parlamento polacco, non si è ancora trasformata nell’uragano forza 5 che scoperchierà il tetto totalitarista dell’Europa orientale, ma sembra comunque sufficiente a dissipare le nubi della guerra fredda dalla testa dell’americano medio. Il 15 febbraio 1989 gli ultimi contingenti dell’Armata Rossa, sconfitta dai mujaheddin islamici, dai petrodollari sauditi e dagli Stinger americani, dopo una guerra durata un decennio, varcano le acque dell’Amu Darja per rientrare in patria. È un fatto di grande valenza simbolica: tra quelli che segnano l’inizio della fine dell’impero sovietico, assieme alla rapida disgregazione dei regimi comunisti dei Paesi “satelliti” dell’Europa centro-orientale, già in corso in Polonia e Ungheria. In Urss si fanno sentire gli effetti di una dura crisi finanziaria e delle contraddittorie riforme economiche condotte all’insegna di una perestrojka (ricostruzione) che destruttura il sistema di pianificazione economica, genera inflazione e crescente penuria di beni di consumo, finendo con il moltiplicare il malcontento popolare. Al tempo stesso, per la prima volta in settant’anni si tengono in Urss, il 26 marzo, elezioni politiche (quasi) pluraliste. Viene 115 DOSSIER eletto un nuovo, elefantiaco parlamento: il Congresso dei deputati del popolo. Nelle repubbliche baltiche e in grandi città russe e ucraine sono eletti a grande maggioranza candidati alternativi a quelli del Pcus. È un grande fatto di libertà, anche se ancora parziale. Al tempo stesso si crea un macchinoso e inefficiente sistema politico-istituzionale. Tuttavia, il fatto più dirompente è, quell’anno, la lacerazione dei rapporti federali dell’Urss. Esplode, in stretto rapporto con la crisi economico-finanziaria, la “questione nazionale”: ovvero il complesso rapporto tra il “centro sovietico” e le quindici repubbliche che compongono l’Urss; tra queste ultime e le minoranze nazionali o etniche (“autonomie”) al loro interno; e tra le repubbliche stesse. Con straordinaria accelerazione inizia, nel 1989, il dissolvimento dell’Urss, conclusosi due anni dopo con la sua fine. LA QUESTIONE NAZIONALE A monte di quest’ultima, decisiva crisi c’è la complessa architettura dell’Urss creata dalla leadership staliniana negli anni Venti del XX secolo. Uno straordinario mosaico etnico (130 nazionalità e una settantina di lingue) inglobato in una rigida struttura politica a partito unico e dotato di un’economia centralmente e rigidamente pianificata. Le repubbliche federali, che prendono il nome della nazionalità dominante, comprendono a loro volta repubbliche e regioni dette “autonome”, anch’esse denominate dall’etnia maggioritaria e guidate da apparati di partito e amministrativi segnati da quello che Lenin definì radicamento etnico (korenizatsija) dei quadri di queste formazioni a matrioska. Spesso – in particolare nell’intero Caucaso e in Asia centrale – le nazionalità sono distribuite nei territori in modo tutt’altro che omogeneo, a macchia di leopardo. Alcune repubbliche federali, come le baltiche (Lituania, Lettonia, Estonia) o parti rilevanti di altre (Ucraina, Moldavia) erano il frutto di forzate annessioni avvenute nel contesto della Seconda guerra mondiale, grazie ai “protocolli segreti” del Patto Molotov-Von Ribbentrop del 24 agosto 1939, resi noti pubblicamente dalla glasnost’. Alcune “autonomie” del Nord Caucaso russo erano state o sciolte o etnicamente modificate dalle deportazioni delle rispettive popolazioni (tra cui i ceceni e gli ingusceti), imposte da Stalin prima e durante quella guerra. La collettivizzazione delle campagne e le diverse fasi dell’industrializzazione del Paese avevano modificato nei decenni equilibri etnici, linguistici, culturali, economici. Imponenti correnti migratorie supportavano quelle strategie di sviluppo, dando vita a grandi dislocazioni etniche, protagonisti russi e in misura minore ucraini. In repubbliche come il Kazakistan, i russi erano divenuti etnia maggioritaria rispetto all’etnia “titolare”, quella kazaka. Nelle repubbliche baltiche, un tempo prevalentemente agricole, l’industrializzazione aveva moltiplicato la popolazione russa e russofona, divenuta maggioranza nei grandi centri urbani. Lo stesso era avvenuto nella Transcaucasia e nell’Asia centrale e in Ucraina (da Kiev all’Est e Sud di quel Paese). 116 AFP_Ria Novosti SI LACERA IL TESSUTO FEDERALE La rappresentazione politico-ideologica e propagandistica dell’Urss è stata, tradizionalmente, quella di un’unione volontaria di “popoli fratelli”, uguali nei diritti e nei doveri, se pur dotati di “un fratello maggiore”, quello russo, secondo la ben nota definizione datagli da Stalin alla fine vittoriosa della Seconda guerra mondiale. Questa “fraternità”, tuttavia, è percepita dai non russi come dominio: linguistico, culturale, economico e politico. Come appropriazione e controllo delle risorse dei territori non russi da parte di Mosca. Rappresentazione sommaria e non sempre veritiera, dal momento che alla gestione e alla distribuzione delle risorse concorrevano, anche se in ruoli subalterni, le élite comuniste non russe. In Russia, è vero, si concentrava circa il 70% della produzione industriale. In essa affluivano gran parte delle materie prime prodotte in altre repubbliche (per esempio: carbone e ferro kazako e ucraino, greggio azero). Ma dalla Russia e dalla sue risorse industriali (e di materie prime) muovevano modernizzazione e industrializzazione delle altre repubbliche, in alcune delle quali, come le baltiche, erano stati creati settori avanzati (elettronica, per esempio). Tutti i non russi beneficiavano, anche creativamente, dell’apporto della cultura (tecnico-scientifica, letteraria, cinematografica) oggettivamente egemone: quella russa. Il fattore esplosivo è costituito dalla spirale che si forma tra la sfavorevole congiuntura economico-finanziaria (contraddistinta dalla caduta dei prezzi internazionali delle materie prime e del greggio) e il malcontento popolare sempre più forte e diffuso. Specie tra i non russi è alimentato dalla glasnost’ (pubblicità, trasparenza dell’informazione, forte attenuazione della censura) introdotta da Mikhajl Gorbaciov. È la glasnost’ che fa emergere un passato di violenze e sopraffazioni (le deportazioni di interi gruppi etnici, ceti sociali nazionali, seguite alle occupazioni e annessioni manu militari) che in precedenza era stato secretato e/o negato: una storia ben diversa da quella ufficiale. Decisivo, tuttavia, nel generare e favorire le spinte centrifughe nell’Unione, è, oltre alla crisi, il forte allentamento della macchina repressiva sovietica. La responsabilità della crisi è attribuita nelle repubbliche non russe al “centro”, a Mosca e quindi alla “Russia”. Al tempo stesso, in Russia, si afferma l’idea che siano le altre repubbliche a sfruttare la sua economia (una critica alimentata da grandi scrittori come l’esule Aleksandr Solzhenitsyn e il Valentin Rasputin): così, curiosamente, a smontare l’impero concorrono non solo alcune delle repubbliche non russe, ma la stessa Russia, dove quell’anno assume un ruolo di leader politico di nuovo tipo l’ambizioso e spregiudicato ex-boss di partito di Sverdlovsk e di Mosca: Boris Eltsin. È lui che si pone alla testa di un composito movimento di massa nazional-populista russo, che vuole sbarazzarsi delle impalcature economiche e politiche sovietiche, desideroso più che di cambiare, di distruggere l’Unione sovietica. Eltsin, non per niente, dà il suo pieno appoggio al separatismo baltico. DALL’AMERICA SCETTICISMO ED EUFORIA Ciononostante, ben prima che si apra una breccia nel Muro tedesco, il «New York Times» dimostra vivo interesse per le convulsioni nell’Europa comunista. Lo fa con reportage e articoli di fondo pacati, talvolta scettici sulla reale portata dei cambiamenti in atto oltreoceano. Il 18 ottobre, all’indomani delle dimissioni coatte del leader della Ddr Erich Honecker e del passaggio di poteri a Egon Krenz, il giornale pubblica un fondo titolato East Germany: what hasn’t changed, mostrando perplessità sulle intenzioni di rinnovamento di quell’esponente del Politburo che solo pochi mesi prima, durante un viaggio diplomatico a Pechino, ha ufficialmente approvato la sanguinaria repressione degli studenti in piazza Tienanmen. Ma agli inizi di novembre, con il delinearsi a un ritmo vertiginoso di uno scenario impensabile solo pochi mesi prima, la redazione del quotidiano è pervasa dall’euforia delle “rivoluzioni dal basso” che attecchiscono qua e là oltre la Cortina di ferro. E non mancano pezzi ironici come The joke factory and the wall che riprende alcune barzellette e freddure nate in Europa orientale dal rapido dissolvimento dei regimi comunisti (“Sai quanto stanno offrendo ora i comunisti per reclutare nuovi membri del Partito? Risposta: se ti procuri un nuovo membro, non paghi le tasse. Se porti due nuovi membri puoi lasciare il Partito. E per tre nuovi membri ottieni un certificato che attesta che non sei mai stato membro del Partito”), né editoriali esplicitamente critici nei confronti dell’amministrazione Bush, colpevole di reagire in modo distaccato e passivo agli eventi in corso. E poco dopo il 9 novembre, con le prime macerie del Muro ancora fumanti, in Wrong on the wall and most else Eric Alterman rincara la dose: “L’Unione Sovietica si imbarca in una RIVENDICAZIONI NAZIONALI NELL’OVEST DELL’UNIONE La via più corta per venire a capo della crisi viene vista dalle nuove élite nazionali – e da ampi settori dei diversi Pc delle repubbliche – nell’assunzione del controllo diretto sulle rispettive 117 DOSSIER seconda rivoluzione e allunga una mano verso la pace con l’Occidente; gli europei dell’Est fanno cadere il Muro e lasciano il loro Paese. Questi e altri straordinari cambiamenti irrompono nella politica mondiale e nessuno dei guru della politica americana è arrivato vicino a prevederli… L’America guarda dai margini come viene rimodellato e ridefinito l’ordine europeo postbellico e non ha assolutamente idea di che cosa pensino le giovani generazioni dell’Est europeo e dell’Unione Sovietica”. Oltre alle reazioni emotive e ai commenti sull’approccio prudente della politica nazionale, il giornale si allinea a tutta la stampa internazionale e dà ampio spazio alle analisi e alle previsioni sul nuovo assetto geopolitico europeo. Il tema della riunificazione dei due Stati tedeschi è ben presente, mai però con toni allarmistici sul pericolo di una Germania egemone, tanto meno in tempi brevi. Addirittura si sottolinea come nessuno degli striscioni o degli slogan comparsi in cinque settimane di dimostrazioni di massa in tutta la Germania Est abbia mai sollevato la questione e come i cori dei manifestanti abbiano casomai mostrato l’orgoglio di un’identità separata. Dal punto di vista economico viene messo in evidenza l’eventuale vantaggio di far convergere la forza lavoro dell’Est con il capitale dell’Ovest ma anche il rischio che la libera circolazione della manodopera a basso costo danneggi i lavoratori italiani, turchi e spagnoli già presenti sul territorio della Repubblica Federale Tedesca e come anche i due milioni di disoccupati tra i tedeschi occidentali siano diffidenti. Infine, il quotidiano newyorkese si sofferma sul futuro delle truppe a stelle e strisce nel Vecchio continente: venendo meno, o comunque affievolendosi, le minacce di un attacco di Mosca e del Patto di Varsavia, si invoca da più parti il ritiro dei 300mila soldati americani di stanza nelle basi europee ma spostare 118 risorse economiche e nell’attenuazione prima e nella rottura poi dei legami federali con il “centro”. Anche il movimento eltsiniano condivide questa idea semplificatrice. Le repubbliche baltiche dell’Urss, contagiate dall’esempio della vicina Polonia, rivendicano prima una reale autonomia linguistico-culturale, amministrativa ed economica, poi la sovranità economica, infine l’indipendenza da Mosca. Nel 1989 i movimenti popolari (chiamati “fronti”) di recente costituzione assumono un carattere di massa, riscuotendo persino l’approvazione e adesione di interi gruppi dirigenti dei rispettivi partiti comunisti. Il 24 agosto 1989, cinquantesimo anniversario del patto Molotov-Von Ribbentrop, una catena umana lunga seicento chilometri, formata da un milione e mezzo di persone, unisce Vilnius, Riga e Tallin. In Estonia si arriva a chiedere la liberalizzazione dell’economia e la fine del centralismo economico: che equivale alla richiesta di indipendenza che successivamente accomunerà le tre repubbliche. Anche in Ucraina e in Moldavia nascono e si sviluppano movimenti di carattere nazionale che inizialmente rivendicano per le rispettive lingue lo status di lingue ufficiali nelle loro repubbliche. A Kiev, il 2 settembre, sono in centomila gli ucraini che manifestano contro la “russificazione” del loro Paese. SCENARI ASIATICI Nel Sud sovietico – tra Caucaso e Asia centrale – lo scenario è radicalmente diverso: oltre che contro il “centro” – Mosca – i locali fermenti nazionali si manifestano in pogrom e scontri armati che segnano pesantemente i rapporti interetnici. A Tbilisi, capitale della Georgia, una grande dimostrazione popolare del locale movimento nazionale viene repressa dall’intervento delle truppe sovietiche degli interni (diciannove morti sul terreno, tutti tra i dimostranti). Essa era diretta soprattutto contro le regioni autonome abkaza e sud-ossetina, colpevoli di reclamare l’uscita dalla Georgia. E contro Mosca, accusata di favorire il separatismo di quelle due etnie. Nell’estate 1989 hanno luogo violenti scontri tra georgiani da una parte, abkazi e sud-ossetini dall’altra. Un conflitto che avrà un lungo e cruento seguito (oltre diecimila morti). Fino alla crisi russo-georgiana dello scorso agosto. Violento è il conflitto che oppone nel 1989 azeri e armeni, dopo che l’enclave a maggioranza armena dell’Alto Karabakh (Artsakh, in armeno) si è unilateralmente separata, un anno prima dall’Azerbaigian, cui Stalin l’aveva annessa. Il conflitto ha radici, oltre che nella secolare contrapposizione tra gli armeni cristiani e i turco-azeri musulmani, nei ruoli sociali assunti dalla minoranza armena in Azerbaigian. Un anno prima, nel misero e inquinatissimo centro petrolchimico di Sumgait, presso Baku, turbe azere avevano scatenato un feroce pogrom antiarmeno (trenta morti). Nel 1989 armeni e azeri sono accomunati da violenti risentimenti nei confronti del potere sovietico: gli uni e gli altri ritengono che Mosca appoggi più o meno sotterraneamente i rivali. In Azerbaigian – uno degli Stati a più basso reddito pro capite dell’Urss e ad altissima mortalità infantile – si sviluppa un forte Fronte popolare (Fp) nazionalista. Gli azeri si ritengono spogliati da Mosca dei proventi della loro maggior risorsa: il petrolio. Sottrarsi al dominio di Mosca (o allentarlo), significa per il Fp azero accedere a una quota più alta di entrate dall’intero settore petrolchimico. In Armenia le forze nazionaliste fanno capo al ComitatoKarabakh (Ck). Fp e Ck danno vita a imponenti manifestazioni di massa dai caratteri antirussi. Cinquecentomila sono gli azeri che scendono in piazza a Baku, il 2 settembre di quell’anno. Pogrom a sfondo etnico hanno luogo, nell’estate 1989, in Kazakistan e Uzbekistan. Nella regione sud-occidentale kazaka di Mandyshlak, giovani kazaki assalgono azeri e altri caucasici che lavorano nelle locali industrie petrolifere (dieci morti, giugno). Nella valle della Ferghana, uzbeki infuriati danno la caccia a immigrati turco-mescheti (etnia già residente in Georgia, da dove era stata deportata da Stalin in Uzbekistan negli anni Quaranta): novantanove morti. Seguono scontri armati tra uzbeki e kirghizi nella regione kirghiza di Osh (più di una decina di morti). Nell’autunno 1989 si contano in trecentomila i profughi delle repubbliche meridionali non russe dell’Urss. RISENTIMENTI DI ORIGINE ECONOMICA E AMBIENTALE L’Uzbekistan è stato vittima, con la complicità delle corrotte élite comuniste locali, della monocoltura del cotone, imposta dalla pianificazione centrale. Essa lo ha condannato a un invasivo inquinamento chimico, alla sottoalimentazione e a una forte mortalità e morbilità infantili, per finire al catastrofico prosciugamento del pescosissimo Mar d’Aral. Al cotone erano state sacrificate le già ricche colture cerealicole, orticole e frutticole uzbeke. In Kazakistan gli equilibri etnici erano stati profondamente alterati dalle immigrazioni massicce iniziate sotto Stalin, con le deportazioni di intere popolazioni e gruppi sociali dal Caucaso settentrionale e dai territori occidentali annessi negli anni Quaranta – e proseguite durante le leadership di Nikita Khrusciov (colonizzazione delle “terre vergini”) e di Leonid Brezhnev (industrializzazione, settore petrolifero). I kazaki erano divenuti minoranze nelle loro terre, soprattutto nei grandi centri urbani e industriali. La regione di Semipalatinsk era stata poligono nel dopoguerra di test nucleari altamente contaminanti, pari a 2500 bombe del tipo di quelle lanciate dagli Usa a Hiroshima e Nagasaki. Quanto agli ucraini, il loro risentimento è alimentato oltre che dalla recente tragedia di Chernobyl, da una glasnost’ che porta alla luce gli orrori della collettivizzazione delle campagne. In Ucraina aveva fatto registrare un numero di morti di gran lunga superiore a quello delle altre repubbliche. Anche le repubbliche baltiche avevano assistito a una forte industrializzazione, in molti casi altamente inquinante (specie in Lettonia) accompagnata da massicce immigrazioni di russi e russofoni, anche in quei tre Paesi divenuti maggioranza in molti centri urbani. Tuttavia, là più alto era divenuto il livello di redditi e di consumi, rispetto alle altre repubbliche dell’Urss, Russia compresa. precipitosamente tali forze, ammonisce il «New York Times», nell’attuale clima di incertezza non rassicurerebbe né gli alleati Usa né l’Urss. La Nato “esiste non solo per difendere la Germania Ovest da minacce esterne, ma anche per collocare Bonn in una rete di sicurezza, rimuovendo in tal modo qualsiasi ragione per la Germania di agire da sola”. I FRATELLI DELL’OVEST E LA VIGNETTA PROFETICA Se l’autorevolezza dei giornalisti americani è sempre uno strumento imprescindibile per provare a valutare gli sviluppi degli equilibri internazionali, per tastare davvero il polso della nazione tedesca durante l’autunno delle rivoluzioni e avere un punto di vista privilegiato sul Muro berlinese, assumono particolare rilevanza i commenti del più influente quotidiano tedesco occidentale, la «Frankfurter Allgemeine Zeitung». Già in estate sul giornale di Francoforte si comincia velatamente a parlare di riunificazione ma sono l’aumento delle domande di espatrio e i primi flussi dell’esodo di massa dei tedeschi orientali attraverso il confine con la Cecoslovacchia a fine settembre a dettare i commenti su un prevedibile cambiamento dello status quo europeo. Ma sebbene dalle colonne della Faz si torni in più occasioni a ipotizzare l’“unità tedesca”, per la maggior parte degli editorialisti tedeschi che scrivono sul quotidiano tra settembre e ottobre la meta è lontana. Nel suo pezzo Die einsamkeit der Sed il 29 settembre Karl Feldmeyer sostiene che in mezzo ci sono due ostacoli: la classe dirigente della Repubblica Democratica Tedesca e il dubbio che quella Federale voglia davvero farsi carico di un simile cambiamento. Mentre Karl Friedrich Fromme in Flüchtlinge und deutsche Frage ventila due ipotesi: in base all’articolo 23 della Costituzione di Bonn, la Ddr potrebbe entrare nella Rft ma difficilmente i 119 DOSSIER Paesi del Patto di Varsavia permetterebbero il suo ingresso nel blocco occidentale. In alternativa le riforme a est dell’Elba dovrebbero ridare la sovranità al popolo. Ipotesi piuttosto vaghe che tuttavia testimoniano come nemmeno il quotidiano tedesco sia in grado di prevedere con un certo anticipo l’imminente crollo del Muro, considerato possibile ma in un futuro non ben precisato. Ecco allora che tocca a una vignetta dare il primo concreto accenno di lungimiranza. È quella pubblicata in seconda pagina il 4 novembre, a cinque giorni dalla caduta del Muro, in cui compare un Krenz, tra i bersagli preferiti dei disegnatori della Faz, fatto di mattoni che si sgretolano. È curioso notare come in un quotidiano dall’aspetto austero e dalle analisi notoriamente approfondite come la Faz, sia affidato a un’illustrazione il più azzeccato e profetico commento alle vicende in corso. Il 7 novembre viene pubblicato un articolo che testimonia l’inizio di un cambio di rotta dei media della Ddr: per la prima volta, infatti, la televisione del Partito ha intervistato i cittadini che vogliono abbandonare il Paese. Per la Faz è il segnale di come i mezzi di comunicazione, fino a quel momento asserviti e acritici, comincino a diventare parte attiva del processo di autodeterminazione dei cittadini della Repubblica Democratica Tedesca. Nei giorni successivi all’apertura del Muro, il giornale non si scompone e mantiene le sue prime pagine asciutte, senza foto, regalando e relegando la maggior parte delle immagini della grande gioia e degli abbracci tra tedeschi di diverse longitudini nel feuilleton, la parte del quotidiano dedicata alle reazioni più emotive. I commenti analizzano la crisi della Sed, il Partito Socialista Unificato, e le reazioni straniere, divise tra il prevalente sostegno alla riunificazione e i timori inglesi sull’eventualità che questa possa allontanare la Germania dall’Unione Europea. 120 GORBACIOV E LA “QUESTIONE NAZIONALE” Gorbaciov coglie il pericolo mortale che per il processo di riforme (perestrojka) e per il destino dell’Urss rappresenta la questione nazionale. All’opposto di Eltsin, che dopo il suo trionfo elettorale di marzo scatena in Russia imponenti manifestazioni di massa e scioperi (dei minatori), fino alla fine cercherà di mantenere in vita l’Unione. Affermerà in un lungo intervento in luglio: “Quanto accade è anche il frutto delle illegalità consentite nei passati decenni, dei trasferimenti forzati di intere popolazioni cacciate dalle loro terre, dell’oblio degli interessi nazionali dei piccoli popoli. Tutto questo non poteva non lasciare conseguenze”. È una franca ammissione, accompagnata dalla volontà, purtroppo non seguita da un’azione tempestiva e coerente, di ristabilire una reale, piena uguaglianza di popoli, nazioni, gruppi etnici e delle persone, indipendentemente dall’appartenenza etnica, peraltro sulla carta garantita dalla stessa Costituzione sovietica del 1977 che si intendeva modificare. Gorbaciov promette un “equilibrato sviluppo economicosociale e culturale”, la fine dell’industrializzazione e della crescita estensive, del saccheggio e sperpero delle risorse. E finalmente si impegna per dare all’Unione basi nuove, improntate all’autonomia economica delle repubbliche e alla decentralizzazione delle decisioni di interesse locale. Il gensek del Pcus invoca nei rapporti interetnici e civili il dialogo e la tolleranza e il ripudio dei fanatismi, della xenofobia, delle contrapposizioni. E respinge con nettezza il separatismo che – egli dice – “lacererebbe un corpo vivo, provocando danni spirituali e materiali immensi”. La disintegrazione dell’Urss avrebbe conseguenze disastrose, rompendo le infinite connessioni e interazioni economiche, oltre che etniche, del Paese sovietico. Leader di un partito comunista sempre più diviso al suo interno tra le più diverse correnti e pulsioni, Gorbaciov non può ricorrere alla forza per stroncare le spinte separatiste e reprimere le torbide passioni xenofobe che sconvolgono le regioni più arretrate del Paese. Mentre la gravissima crisi finanziaria ha reso sempre più stretti i margini per le riforme, il risanamento e il decentramento dell’economia. Forse, con una più salda e coerente guida politica e senza l’aggravamento della crisi economica e senza la sete di potere e di controllo sulle risorse delle diverse élite nazionali, compresa quella russa, le diverse e contrastanti spinte centrifughe avrebbero potuto essere arginate e ricondotte nell’alveo di una riforma dell’Unione. Il suo crollo sarà seguito da crisi politiche ed economiche ricorrenti, impoverimenti e migrazioni di massa, che colpiranno le diverse repubbliche ex sovietiche, specie quelle prive di risorse energetiche e materie prime. Alla fine dell’Urss seguiranno conflitti armati di varia intensità e durata (dal Tagikistan all’intero Caucaso fino alla Moldavia). È difficile, per questo, contraddire Vladimir Putin quando ha definito la fine dell’Urss “grande catastrofe del XX secolo”. In questo processo il 1989 è un turning point, un anno fatale. Corbis/Bettmann Dietro quella caduta c’era molta intelligence di Fernando Orlandi Un anno dopo l’insediamento di Gorbaciov, la Cia, pur valutando che i provvedimenti adottati dalla dirigenza sovietica erano delle “mezze misure”, riteneva che le spese militari non sarebbero aumentate nei quindici anni successivi. Era un deciso distacco dal passato: ora si valutava che a Mosca c’era un leader intenzionato a contenere le spese militari per far fronte ai problemi economici. MacEachin e altri alti funzionari della Cia spiegarono questa analisi a Shultz e al segretario alla Difesa Caspar Weinberger. Ma quest’ultimo… Il viaggio che Mikhail Gorbaciov effettua negli Stati Uniti all’inizio di dicembre 1988 ha due obiettivi: annunciare alle Nazioni Unite una significativa riduzione unilaterale di spese e presenza militare e cercare di fare assumere degli impegni al vicepresidente uscente e presidente eletto George Bush. Da mesi il Cremlino segnala aperture, compresa la possibilità di firmare rapidamente il trattato Start, ma la disponibilità del segretario di Stato George Shultz viene contrastata nell’amministrazione. Si è alla fine del secondo mandato di Ronald Reagan e Washington non è reattiva. Non potendo attendere, i sovietici decidono di prendere l’iniziativa. Per proseguire nel cammino intrapreso e rivitalizzare l’economia, Gorbaciov deve ridurre il gravoso fardello costituito dalle spese militari. Da tempo riflette sul LA REAZIONE CINESE PASSA DA PARIGI La questione tedesca, il destino della politica dei blocchi e le conseguenze economiche per il mondo occidentale sono temi trattati più o meno dettagliatamente da tutti gli altri principali quotidiani europei, ognuno però conserva la propria lente d’ingrandimento anche per mettere a fuoco aspetti poco dibattuti ma non privi d’interesse. Su «Le Monde» del 27 ottobre, in un fondo dal titolo Le troisième socialisme, Maurice Duverger constata come, nonostante Polonia e Ungheria siano già a buon punto, l’evoluzione dei Paesi comunisti verso la democrazia dipenda soprattutto dall’Unione Sovietica, non tanto sul piano politico, dove la perestrojka ha già avuto effetti benefici, quanto su quello economico. Ma servono nuovi modelli, tanto più che il “gigante rosso” è alle prese con una paurosa stagnazione. Dopo lo Stato-produttore creato dal comunismo e lo Stato-protettore stabilito dalla social-democrazia, secondo Duverger sembra quindi giunto il tempo di uno Statopromotore incarnato da un “terzo socialismo”, ovvero un sistema dove il denaro delle imprese possa venire non solo dalle banche e da altre istituzioni private ma anche dalle imposte versate sotto il controllo di un parlamento 121 problema. Già nell’ottobre 1986 aveva chiaro come il Paese non fosse in grado di reggere la competizione con Washington: “Saremo trascinati in una corsa agli armamenti che è al di là delle nostre capacità, e la perderemo, perché siamo al limite delle nostre capacità”. Se non si tagliano le spese militari, sono le progettate riforme a essere minacciate. IL FALLIMENTO DI GOVERNORS ISLAND Da parte sua, Gorbaciov ha già rotto psicologicamente con la consolidata posizione sovietica: in ottobre ha deciso una riduzione unilaterale delle truppe di stanza in Europa (l’annuncio sarà fatto due mesi dopo). Della nuova posizione sovietica nulla è trapelato a Washington, né al Dipartimento di Stato né alla Cia. L’incontro di Gorbaciov con Reagan e Bush a Governors Island costituisce una delusione. Più una “rimpatriata”, con scambi di battute sul passato, che altro. Bush comunque assicura che proseguirà il cammino di Reagan; solo, aggiunge, gli servirà un po’ di tempo per riesaminare le questioni aperte. Il tentativo di coinvolgere Bush è un fallimento. I due si ritroveranno faccia a faccia solo un anno dopo, a Malta, ma in quei dodici mesi il mondo ha già subito una trasformazione epocale: è caduto il muro di Berlino, i sistemi socialisti in Europa centro-orientale si sono dissolti come la neve primaverile al sole e la guerra fredda è terminata. Quando la presidenza di Bush si insedia formalmente alla fine di gennaio 1989 nei confronti di Mosca prevale la cautela. Il discorso pronunciato da Gorbaciov il 7 dicembre alle Nazioni Unite ha diviso la nuova amministrazione (riduzione unilaterale delle forze armate sovietiche di mezzo milione di uomini, un taglio agli armamenti e alle truppe di stanza in Europa centro-orientale e rinuncia all’impiego della forza nella politica estera di Mosca). Alcuni dubitano della sua sincerità, ritenendolo un tentativo di dividere l’alleanza transatlantica, mentre la potenza militare sovietica continua a essere una minaccia concreta. La scelta di Bush è quella di far decantare l’ardore reaganiano dell’ultimo anno e contestualmente procedere a una rivalutazione complessiva della politica statunitense. 122 Corbis_R. Maiman/Sygma LA CIA ARRANCA In quel periodo anche la Cia, peraltro in passato diretta proprio da Bush, è in sofferenza per quanto riguarda l’Unione Sovietica. Paga la politicizzazione degli anni in cui è stata guidata da William Casey, mentre il servizio clandestino ha perso tutte le sue spie. Uno dopo l’altro i suoi agenti sono stati arrestati e condannati a morte, e fra questi Adolf Tolkachev, una delle fonti maggiormente produttive. Le stazioni di Berlino Est e Mosca non funzionano più e le loro operazioni sono distrutte: “Nel 1986 e 1987 la divisione stava collassando come l’esplosione di un edificio minato ripresa al rallentatore”, ha scritto Tim Weiner nel recente Legacy of Ashes. Il danno cagionato dal tradimento di Aldrich Ames è devastante. La Cia arranca anche nella raccolta delle informazioni politiche e militari: non riesce ad apprendere subito, ad esempio, che alla riunione di Mosca dei Capi di Stato maggiore del Patto di Varsavia (maggio 1987) si passa dalla dottrina offensiva a quella difensiva. Allo stesso modo, non viene a conoscenza che qualche giorno dopo Gorbaciov, alla riunione di Berlino del Comitato politico consultivo del Patto di Varsavia, ha fatto sapere che Mosca non sarebbe più intervenuta militarmente nei Paesi del blocco. Non si tratta del lavoro dei singoli analisti. A non essere all’altezza dei tempi sono le analisi quadro che la Cia produce, le cosiddette intelligence “nazionali”. Negli anni in cui la Cia è stata diretta da Casey si sono accumulate tensioni fra i vertici dell’Agenzia e le varie strutture che si occupano dell’Unione Sovietica, in particolare l’Office of Soviet Analisys (Sova), accusato di avere una posizione troppo “debole”. Racconterà poi Douglas MacEachin, direttore del Sova negli anni 1984-1989: “Era una specie di guerra con l’amministrazione; ci trattavano come fossimo il nemico”. Si era venuta a creare una situazione paradossale: i migliori analisti della Cia erano negletti dai falchi dell’amministrazione perché le loro valutazioni erano meno stridenti di quelle di Casey. Nello stesso i tempo, i loro potenziali alleati, ad esempio il segretario di Stato Shultz, non si fidavano dei loro documenti perché pensavano che fossero influenzati da Casey. Una delle linee di frattura stava nel fatto che diversi esponenti del gabinetto di Reagan ritenevano che Gorbaciov stesse applicando a Nato e Stati Uniti la tattica del divide et impera. Venuta meno la coesione dell’alleanza transatlantica, allettata da apparenti concessioni, avrebbe ripreso il sopravvento la tradizionale posizione di forza sovietica. Altri, invece, concedevano a Gorbaciov il “beneficio del dubbio”, aspettando di vedere nei fatti se era effettivamente un riformatore. Questa linea di frattura si era riverberata anche all’interno delle strutture della Cia: gli analisti avevano delle idee precise sui processi in corso e sulle difficoltà che Gorbaciov incontrava, ma queste valutazioni non riuscivano a essere recepite nelle grandi analisi quadro dell’intelligence. La Cia scontava inoltre una scarsa elasticità negli approcci: solo nel 1984 venne costituito un nuovo settore analitico, chiamato Societal Issues, dedicato all’esame degli sviluppi sociali e politici all’interno dell’Unione Sovietica. Fino a quel momento praticamente tutte le risorse erano state dedicate alle attività di Mosca nel Terzo mondo, allo stato dell’economia e ai programmi bellici. democratico o dal risparmio dei cittadini raccolto dalle organizzazioni statali e dalle collettività locali. Dentro questo quadro le aziende nazionalizzate o le casse ufficiali analoghe alla cassa dei depositi francese possono avere una influenza importante per entrare nei meccanismi del mercato alla stessa stregua delle aziende capitalistiche. L’11 novembre Daniel Vernet è l’autore di De la réforme à la révolution, un’analisi delle condizioni della Ddr in cui riconosce alla Chiesa protestante tedesco-orientale il merito di aver fornito alla popolazione un luogo di libertà. Il paragone con la Polonia è allettante ma al contempo fuorviante poiché la Chiesa polacca è stata un rifugio per la fede dei polacchi e un bastione della resistenza all’ideologia comunista, mentre la Chiesa protestante nella Ddr ha ritrovato la sua vocazione alla Riforma e ha dato il coraggio necessario alla popolazione per non aver più paura delle autorità. Il quotidiano francese è anche l’unico tra i big dell’informazione occidentale a riportare la reazione cinese. Il titolo che compare il 14 novembre è esplicito: Pekin, mutisme. Per il partito comunista più numeroso del mondo, per il «Quotidiano del Popolo» e per la televisione cinese a Berlino non è successo nulla di particolare. E «Le Monde» parla di colossale menzogna per omissione. Lo stesso giorno da Gerusalemme arrivano sulle colonne francesi gli echi di inquietudine delle prime pagine della stampa israeliana e l’apprensione per la resurrezione di un colosso di 80 milioni di abitanti, “ben lontano dall’essere denazificato”. SEGNALI DI NOVITÀ ALLA CIA Un anno dopo l’insediamento di Gorbaciov, la Cia, pur valutando che i provvedimenti adottati dalla dirigenza sovietica erano delle “mezze misure”, riteneva che le spese militari non sarebbero aumentate nei quindici anni successivi. Era un deciso distacco dal passato: ora si valutava che a Mosca c’era un leader intenzionato a contenere le spese militari per far fronte ai problemi economici. MacEachin e alcuni altri alti funzionari della Cia spiegarono personalmente questa analisi a Shultz e al segretario alla Difesa Caspar Weinberger. Ma la reazione di quest’ultimo non si discostò dal passato: se i sovietici mettevano ordine nella loro economia, sarebbero poi stati maggiormente attrezzati nell’investire nuovamente nel complesso militareindustriale. Ne conseguiva che la debolezza di Mosca non giustificava la riduzione delle spese militari statunitensi. Le analisi della Societal Issues portarono comunque delle importanti novità. Un importante documento, redatto sotto la direzione di Fritz Ermarth e George Kolt, ben fotografava tutti i OMBRE SULL’EUROPA A DUE VELOCITÁ La reazione israeliana è ripresa il 17 novembre anche dal «Financial Times», il quale peraltro già a inizio ottobre aveva messo in risalto la preoccupazione delle autorità tedesco-orientali circa il crescente neonazismo nella Ddr: “I neonazisti sono responsabili di danni nei cimiteri ebraici, violenze negli stadi e attacchi a lavoratori non bianchi dal Vietnam o dall’Africa. Il problema deve essere visto in prospettiva. Gli analisti temono che il numero di neonazisti nella Germania democratica possa crescere come perversa forma di movimento di protesta, promossa da un sistema che crea personalità di tipo autoritario”. Il quotidiano londinese si 123 DOSSIER chiede quindi se la Germania Est ammetterà che esistono persone che non dovrebbero esistere in uno stato antifascista. “Venti anni fa affermavano che la criminalità era inesistente, oggi le autorità non si preoccupano più di negare che effettivamente c’è un problema di delinquenza nell’ambito del socialismo reale, ma arrivare ad ammettere che esiste un neonazismo fatto in casa può essere più dura”. In ottobre il «Financial Times» pubblica anche un editoriale dal titolo emblematico (Unloved but still needed) per sottolineare che il Muro della divisione è parte integrante dell’ordine postbellico e che ha mantenuto la pace per quarant’anni, una pietra miliare che non può essere improvvisamente rimossa se non al termine di un lungo processo di trasformazione nell’intera Europa. Smentito dai fatti, il giornale prova a rifarsi l’11 novembre (A concert of Europe) prevedendo una Comunità europea su due livelli, uno costituito dai Paesi avanzati, l’altro da quelli meno sviluppati. Pur evidenziando le prevedibili difficoltà preconizzate dagli altri membri del Patto di Varsavia, il quotidiano nota come la Germania Est potrebbe essere coinvolta nella Comunità europea in virtù di un’economia meno disastrata di quelle degli altri Paesi del blocco filosovietico. LE ANALISI DI VIA SOLFERINO Il 25 ottobre anche il «Il Corriere della Sera» dedica un approfondimento ai nuovi orizzonti 124 problemi e i malanni della società sovietica, un Paese “molto stabile” nel contesto internazionale, ma il cui sistema politico ora costituiva un ostacolo a riforme e sviluppo. Ma quando questo documento si avvicinò alla stesura finale, giunsero obiezioni e riserve: il Pentagono non condivideva la valutazione di un Gorbaciov intenzionato alla distensione con l’Occidente per potersi così dedicare ai problemi interni; per i militari Mosca continuava invece a perseguire i tradizionali obiettivi strategici e di politica estera. Anni dopo Ermarth ricorderà che quell’analisi fu monca, non giungendo alle conclusioni sul sistema sovietico implicite nella premessa, proprio per l’opposizione delle altre agenzie con cui doveva essere coordinata prima della sua approvazione. Ma quell’analisi conteneva anche un’altra novità: ammetteva che la Cia non possedeva una “buona teoria sociale”, in grado di descrivere adeguatamente il comportamento della società sovietica, oramai non più quella del “modello totalitario”, ma ancora governata da un regime che manteneva molte delle caratteristiche di quel modello. CRESCE IL PESSIMISMO Con il passare del tempo, all’interno della comunità dell’intelligence emergono posizioni sempre più pessimiste. Nel 1987 il generale William Odom, direttore della National Security Agency, sostiene che il programma di Gorbaciov, se condotto alle sue logiche conclusioni, avrebbe portato al suo suicidio politico e al collasso del sistema. Sempre nello stesso anno la Cia pubblica una breve analisi sulla questione delle nazionalità, in qualche modo suonando un campanello d’allarme. Ma questa volta interviene l’intelligence del Dipartimento di Stato (Inr, Bureau of Intelligence and Research) a liquidarla come allarmista. Per tutto il 1987 il Sova mette in risalto come la perestrojka altro non sia che un insieme di “provvedimenti parziali”, come Gorbaciov abbia buone intenzioni, ma in realtà nessun piano coerente. Inizia a prendere in esame anche la possibilità che il segretario generale del Pcus possa perdere il potere proprio a causa delle riforme promosse. Altro grande tema di analisi è dato dall’Afghanistan e dall’interrogativo: si ritireranno i sovietici? Anche qui la divisione è netta: i falchi dubitano che possa accadere, mentre nel campo opposto si osservano i segnali che lo rendono plausibile. Nel 1987, nel corso di conversazioni riservate, alcuni collaboratori di Gorbaciov alludono al possibile ritiro sovietico. La Cia, ricorda Shultz nelle sue memorie, liquidò rapidamente l’elemento di novità: si tratta di un “inganno politico”. Ma il ritiro era stato anticipato nelle analisi dell’ambasciatore a Mosca Jack Matlock e dello specialista del Dipartimento di Stato Eric Edelman, mentre la valutazione della Cia forse risentiva del suo diretto impegno sul campo, nell’operazione clandestina di armamento dei mujaheddin. Fra le molte sorprese riservate da Gorbaciov, forse la maggiore fu quella costituita dal suo discorso alle Nazioni Unite il 7 dicembre 1988. All’epoca molti analisti erano giunti alla conclusione che i cambiamenti in corso in Unione Sovietica erano davvero profondi e significativi. Allo stesso tempo mettevano in rilievo i crescenti segnali che indicavano come il segretario generale stesse perdendo il controllo del processo che aveva innescato. A metà del 1988 sono approntate tre grandi analisi, in cui si cerca di tratteggiare un bilancio degli anni precedenti e valutare le prospettive. Per quanto riguarda l’economia, le cose stanno andando molto male, mentre è cresciuto grandemente il deficit di bilancio. Mosca ha fatto fronte stampando cartamoneta, è così ha preso il via un forte processo inflattivo, dalle pesanti ripercussioni sociali. Insomma, le nuove politiche non hanno fatto altro che esacerbare i problemi dell’economia. L’analisi militare suscita invece una forte controversia. Per il Sova, dovendo investire nell’economia, Gorbaciov potrebbe decidersi a tagli alle spese militari. La valutazione incontra l’opposizione della burocrazia dell’agenzia e il documento, controcorrente rispetto alle valutazioni dell’amministrazione che sta promuovendo il riarmo degli Stati Uniti, rimane nel limbo per ben nove mesi. INCOMPRENSIONI E FALLIMENTI È quello, che viene prodotto nell’ambito dell’intelligence, un insieme in chiaroscuro. Il momento forse di maggior incomprensione è testimoniato da una Nie (National Intelligence Estimate) pubblicata il 1 dicembre 1988. Si afferma che “gli elementi fondamentali della politica e della pratica della difesa sovietica fin qui non sono stati cambiati dalla campagna di riforme di Gorbaciov”. Sei giorni dopo, invece, Gorbaciov annuncia la riduzione unilaterale delle forze armate sovietiche. Per una coincidenza, proprio nel momento in cui Gorbaciov parla alle Nazioni Unite, si svolge un’audizione segreta di alcuni dirigenti della Cia al Comitato sull’intelligence del Senato. MacEachin si sfoga, dichiarando la sua frustrazione per l’incapacità di promuovere un’efficace comprensione dell’Unione Sovietica in quello che definisce “un ambiente politico non-neutrale”. La Cia studia l’instabilità politica di molte nazioni, ma “non ha mai guardato all’Unione Sovietica come a un’entità politica” dove si sviluppano fattori che possono condurre a trasformazioni politiche come quelle cui stiamo assistendo. E aggiunge: “Francamente, fosse esistito [uno studio simile] all’interno del governo, non saremmo stati capaci di pubblicarlo in nessun modo. Se lo avessimo fatto, qualcuno avrebbe chiesto la mia testa. In tutta onestà, avessimo detto una settimana fa che Gorbaciov poteva venire alle Nazioni Unite e offrire una riduzione unilaterale di 500mila militari, ci sarebbe stato detto che eravamo matti”. Alle incomprensioni dell’intelligence si aggiunge la pausa di riflessione dell’amministrazione Bush, che dura ben otto mesi. Solo il 22 settembre il presidente firma la National Security Directive 23, il documento in cui sono formalizzate le linee guida della politica statunitense verso Mosca. Ma quegli otto mesi, quel periodo in cui la Storia subisce una forte accelerazione e si realizzano cambiamenti sorprendenti e inaspettati in Europa centro-orientale, sono davvero sprecati a Washington. Ma a dispetto di questo, il 1989 si conclude con le grandi trasformazioni che cambiano la faccia del Vecchio continente. “Lasciare andare gli esteuropei, forse fu la decisione più difficile negli anni della perestrojka”, ha ricordato Pavel Palazchenko, che di Gorbaciov fu interprete. Di una perestrojka che involontariamente accelerò la fine del sistema sovietico, senza che a Washington ne fossero pienamente consapevoli. della Cee e ugualmente ipotizza che questa sarà strutturata su due livelli, ma per il quotidiano milanese la Germania Est finirà, con la Polonia e l’Ungheria, nel novero dei Paesi di seconda fascia, legati alla Comunità da una forma di associazione simile a quella dei Paesi dell’Efta, l’area di libero scambio. Nei giorni che precedono il crollo del Muro, il «Corriere» analizza poi più volte l’evoluzione dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Dapprima pubblica Governare tutti insieme, commentando l’organizzazione del summit di Malta di dicembre tra Bush e Gorbaciov in cui si parlerà, sia pure in modo informale, del futuro dell’Europa per la prima volta dopo Yalta. Franco Venturini sottolinea come paradossalmente si parlerà di pace e di disarmo a bordo di fregate militari e come la logica dell’evoluzione del processo riformistico al di là dell’Elba porti diritto all’abbattimento del Muro di Berlino. Il 5 novembre ne La folgorazione di Bush, si ripercorrono le tappe che hanno portato la Casa Bianca da una posizione a dir poco scettica nei confronti delle reali intenzioni del Cremlino alla consapevolezza dell’urgenza di un colloquio politico con il leader russo. Aperta la frontiera tedesca, tra l’11 e il 16 novembre il «Corriere» lancia l’allarme per come la nuova pagina di storia che si sta scrivendo rischi di distrarre la Germania occidentale dal progetto comunitario e regali a Bonn la prospettiva assai allettante di svolgere in futuro un ruolo cerniera tra le due 125 Kepel: il Muro? Abbattuto dall’Afghanistan a cura di Farian Sabahi «La caduta del Muro di Berlino è conseguenza diretta di quanto successo nel mondo musulmano nel 1989 perché alcuni mesi prima l’Armata rossa aveva lasciato l’Afghanistan: a mio parere è questo fallimento militare la causa della fine dell’impero sovietico», osserva il professor Gilles Kepel, docente all’Institut d’études politiques di Parigi dove dirige la cattedra Moyen-Orient Méditerranée. Kepel è tra i più importanti studiosi occidentali del mondo arabo e le sue opere sono tradotte in più di venti lingue. Tra i volumi più recenti usciti in Italia vi sono Oltre il terrore e il martirio (Feltrinelli 2009) e Il profeta e il faraone (Laterza 2006). «Dopo alcuni anni di difficoltà in Afghanistan, la terribile Armata rossa si dissolse. Fu questa dimostrazione di debolezza a rendere possibile la caduta del Muro di Berlino. Negli anni Ottanta la guerra fredda tra Stati Uniti e Urss ebbe come teatro più l’Afghanistan che l’Europa. Le difficoltà dei russi e la loro incapacità di affrontare la guerriglia, pagata e armata dagli americani e dalle petro-monarchie arabe del Golfo persico, portarono al crollo finale dell’Unione sovietica. Per i militanti jihadisti, per Osama Bin Laden e i suoi compagni, questo crollo era il segno che loro stessi erano diventati il motore della Storia. “Grazie all’aiuto di Dio” erano diventati la nuova avanguardia islamica che ricordava le origini dell’Islam: il profeta Maometto aveva fatto cadere l’impero sassanide e in seguito i musulmani avrebbero distrutto Bisanzio. Bin Laden pensava che la vittoria in Afghanistan e la caduta del Muro di Berlino e dell’Unione sovietica fossero paragonabili alla fine dell’impero sassanide. Per gli islamisti jihadisti era ovvio che la fase successiva implicasse la caduta dell’America e per loro l’11 settembre è la realizzazione di questo sogno trans-storico. Gli appassionati di numeri osservano inoltre come la caduta del muro di Berlino sia avvenuta il 9 novembre e cioè il 9/11, mentre l’11 settembre è l’11/9: la caduta del Muro di Berlino e delle due Torri sono così consegnate al simbolismo delle cifre». Professor Kepel, che rilevanza ha oggi, secondo lei, l’Afghanistan? Corbis_R. Bossu/Sygma Oggi in Afghanistan l’Occidente non può fare nulla: la guerriglia dei talebani è riuscita a relegare i soldati della Nato nelle loro basi, più o meno come era successo negli anni Ottanta con i sovietici. Per Obama e la nuova amministrazione americana il problema con l’Afghanistan non è solo afghano ma afghanopakistano. Per questo motivo Richard Holbrooke, l’inviato ufficiale del presidente Obama nella regione, è soprannominato Mr. AfPak. Questo dimostra come oggi la sfida più importante siano il Pakistan, il suo nucleare e la sua destabilizzazione interna causata dalla competizione armata tra i militari, l’amministrazione civile e i talebani pakistani. Secondo lei ha senso dialogare con i talebani moderati come deciso dal presidente Obama? Il dialogo con i talebani moderati fa parte della politica di incorporazione nel governo delle tribù afghane patano126 pashtun pronte a entrare nel governo. Un po’ come hanno fatto gli americani in Iraq, con le tribù sunnite di Anbar, di Diyala e del Nord-Est di Baghdad. Se la pace a Kabul passa da Teheran, vale la pena invitare l’Iran al tavolo dei negoziati sull’Afghanistan? Invitare l’Iran ai negoziati sull’Afghanistan e sulla sicurezza nella regione è un modo per far rientrare Teheran nella comunità internazionale. Occorre tenere presente che l’Iran teme sia l’atomica pakistana sia gli eventi nel vicino Afghanistan. Senza sottovalutare il fatto che le province orientali dell’Iran, e soprattutto il Balucistan, sono scosse da una guerriglia sunnita ispirata, sostenuta e forse finanziata dai nemici di Teheran. Professor Kepel, nel 1989 quali erano invece i nemici degli Stati Uniti? Nel 1989 le sfide più importanti per l’America erano il comunismo e l’Iran. In questo contesto la jihad in Afghanistan rappresentava un modo per prendere due piccioni con una fava e distruggere con un solo colpo il nemico rosso (l’Unione sovietica) e il nemico verde (la rivoluzione iraniana). Per far questo gli americani finanziarono i gruppi sunniti proprio perché nemici sia dei comunisti sia degli sciiti iraniani. In che modo la caduta del Muro di Berlino è legata agli eventi nella Repubblica islamica dell’Iran? Il 15 febbraio 1989 le truppe sovietiche lasciarono Kabul, un evento che – come ho già spiegato – porterà alla caduta del Muro di Berlino. Il giorno prima, il 14 febbraio, l’ayatollah Khomeini si era pronunciato contro Salman Rushdie con l’obiettivo di recuperare la leadership del mondo musulmano in chiave anti-americana e antiimperialista. L’ayatollah si era infatti reso conto che il ritiro dell’Armata rossa avrebbe cambiato gli equilibri sullo scacchiere internazionale. E tentò quindi di mobilitare le masse musulmane con il pretesto che la pubblicazione dei Versetti satanici fosse un insulto all’Islam. Che importanza ha il 1989 nelle relazioni tra Teheran e Washington? È l’anno in cui muore Khomeini e in cui l’ideologia della Repubblica islamica smette di essere un nemico potente per l’America: con la presidenza di Rafsanjani (1989-1997) e poi di Khatami (19972005) gli iraniani hanno dato più peso alla realpolitik che all’ideologia. Dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003 i dirigenti iraniani sono però tornati all’ideologia: approfittando dell’impantanamento degli Usa in Mesopotamia hanno messo in cantiere il nucleare e appoggiato Hamas, Hezbollah e le milizie sciite in Iraq. Ma ora, con l’insediamento di Obama alla Casa Bianca, la leadership iraniana dovrà tornare alla realpolitik. Europe, alla guida di un polo economico di 500 milioni di consumatori. (La ricca Bonn ora può sognare un impero nel cuore dell’Europa) e poi non manca di criticare Gorbaciov, “rimproverato” per aver smontato il vecchio modello dirigistico senza che quello di mercato acquistasse un minimo di forza effettiva per sostituirlo almeno in parte (Le due contabilità del Cremlino). A fine novembre il quotidiano dà spazio a due opinioni tanto interessanti per i temi trattati quanto lontane per i loro esiti predittivi. Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy azzarda che di fronte agli stravolgimenti nei Paesi dell’Est europeo lo smarrimento dei media sovietici, e quindi della nomenklatura, è perlomeno uguale a quello degli occidentali e che, vista da Mosca, la realtà è ben diversa: una rivoluzione brutale, senza antecedenti né presentimenti, che ha colto di sorpresa i responsabili sovietici. Per Lévy un altro errore di prospettiva dei media occidentali è l’insistenza con la quale ritornano sulla famosa questione della riunificazione tedesca. “L’ipotesi è superata: quarant’anni di separazione, quarant’anni di culture diverse e quarant’anni di scontro ideologico… Da tempo la Germania Democratica non è più lo Stato artificiale che gli osservatori occidentali vaneggiano”. Se Lévy osa troppo, il politologo inglese William Fallace delinea un’Europa per il 2000 più verosimile quando afferma che “l’integrazione economica avrà il sopravvento sulla protezione militare delle alleanze e si assisterà al continuo riorientamento dei Paesi dell’Est verso i vicini d’Occidente”. E aggiunge: “A causa dell’esplosione demografica in Nordafrica aumenterà il flusso degli emigrati che si aggiungerà a quelli dall’Europa dell’Est. E l’Italia si troverà in prima linea”. La contrapposizione all’America non è però un punto fermo per ayatollah e pasdaran? Se i rapporti si distendessero non verrebbero meno gli ideali rivoluzionari? Sì, la contrapposizione all’America è un punto fermo ma non si può andare avanti così per sempre. La situazione economica della Repubblica islamica è disastrosa e oggi l’Iran potrebbe tornare a esercitare un ruolo importante nel Golfo a condizione di riallacciare i 127 DOSSIER MADRID GUARDA A ORIENTE Se fino al 9 novembre il quotidiano spagnolo «El País» non si fa notare per l’originalità dei suoi editoriali e degli articoli di fondo, la caduta del Muro porta un po’ di verve giornalistica e nei giorni seguenti compaiono almeno quattro analisi degne di nota. Paul Kennedy, docente di storia a Yale, cerca nel suo Retorno al polvorín le ragioni dell’instabilità dell’Europa orientale che viene paragonata a una polveriera fin dai tempi dell’impero austroungarico a causa delle numerose rivalità etniche e territoriali presenti. E attualizza il problema paragonando l’impero degli Asburgo a quello sovietico, ormai minacciato dalle agitazioni interne e dalla disintegrazione. Il 20 novembre il giornale spagnolo dedica un lungo articolo alla crisi d’identità del Partito comunista italiano, il più potente dell’Occidente. Il corrispondente da Roma spiega come, alla vigilia della riunione del Comitato Centrale, Achille Occhetto stia vivendo un vero e proprio psicodramma nel tentativo di dare nuova linfa al partito e debba fronteggiare una veemente opposizione interna. “Ingrao teme che la perestrojka di Occhetto possa in realtà consumare tutta la sua forza rivoluzionaria in una fusione con il partito socialista di Craxi, perdendo tutto il suo peso e il carisma storico di forza di sinistra e di opposizione”, scrive Juan Arias. Il pezzo non manca di paragonare Occhetto a Gorbaciov per il fatto di ricevere più applausi dall’esterno che dall’interno del partito. Con El anacronismo rumano del 21 novembre il quotidiano sposta le proprie attenzioni sull’ultima isola di socialismo “puro e duro” rimasta in Europa, la Romania, paragonata ai fascismi totalitari del passato. Ma sulle speranze che il proposito di Ceausescu vada a buon fine, «El País» non ha dubbi: “È assolutamente impossibile perché la Romania non è l’Albania, un piccolo Paese che può mantenersi sulle sue montagne senza relazioni con il mondo esterno. I rumeni non meritano di essere rinchiusi in una fortezza impermeabile ai venti che soffiano per l’Europa”. Alla fine del mese che passerà alla storia, il quotidiano dedica un lungo approfondimento ai delicati equilibri costruiti attorno a un muro che sembra molto più difficile da abbattere, lontano dal cuore dell’Europa e dall’attenzione dei media occidentali, quello tra le due Coree. 128 rapporti diplomatici con Washington e avviare un cambiamento interno e nella leadership. Questa è la vera sfida delle elezioni presidenziali del 12 giugno. La centrale nucleare di Bushehr è stata ultimata ma produrrà soltanto mille megawatt di elettricità, mentre il fabbisogno della Repubblica islamica è quaranta volte tanto. Lei cosa pensa del nucleare iraniano? Ha obiettivi solo civili? L’opinione pubblica iraniana, anche nella diaspora, vuole il nucleare civile e pure l’atomica. I miei amici iraniani sarebbero pronti a morire per la nuclearizzazione del loro Paese! Sostengono che l’Iran sia il centro del mondo, da sempre assediato da nemici barbari e crudeli e per difendere la propria civiltà avrebbe bisogno dell’atomica! Detto questo, il nucleare non è solo un problema di capacità militare ma porta con sé l’inserimento del Paese in un sistema di non confrontazione: l’India e il Pakistan non hanno firmato il Trattato di non proliferazione ma nel loro caso l’atomica è un deterrente per impedire un’altra guerra in Kashmir. Secondo lei qual è il vero problema legato al nucleare? La vera sfida del nucleare è rappresentata dal terrorismo: se, per esempio, l’Arabia Saudita avesse la bomba atomica chi sarebbe incaricato della sicurezza? Il Paese stesso, oppure gli stranieri? Il problema di oggi è il terrorismo e, nel caso del Golfo, il nucleare darebbe a chi lo detiene la supremazia sul petrolio. Secondo lei Obama rappresenta un vero cambiamento? Obama ha cambiato posizione su punti importanti all’origine dell’ostilità tra americani e mondo islamico e, per esempio, ha firmato il decreto per chiudere Guantanamo. Ma Obama ha bisogno di capitalizzare quello che è avvenuto in Iraq con il successo militare del surge iniziato dal generale Petraeus. Il fatto che il segretario alla Difesa Robert Gates sia rimasto in carica con Obama dimostra che non c’è un cambiamento di strategia militare. Resta da affrontare la situazione russa dopo la caduta del Muro di Berlino: secondo lei dove va Mosca vent’anni dopo? Vent’anni dopo la caduta del Muro la Russia è rientrata nella comunità internazionale come una petro-monarchia. La differenza tra la Russia e le petro-monarchie del Golfo è che queste ultime, anche se hanno perso soldi negli investimenti finanziari e negli hedge funds, sono sempre molto ricche. La Russia è invece in una situazione economica terribile e i suoi oligarchi sono molto indebitati con il sistema bancario: la petro-monarchia russa non era sufficientemente consolidata dal punto di vista finanziario e uscirà molto indebolita dall’attuale crisi. Professor Kepel, l’America e un certo Occidente hanno vissuto per decenni con lo spauracchio di un pericolo comunista e, in seconda battuta, di un pericolo islamico. Quale sarà, secondo lei, la prossima paura? Sarà un altro pericolo verde, ma non islamico: è la paura del dollaro. Il terremoto che viviamo oggi è la prima fase di un cambiamento ciclico del sistema mondo. Ma siamo soltanto ai primi passi e ancora non sappiamo come si potrà uscire da questa crisi.