La nozione di famiglia tra regole costituzionali e status personali
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La nozione di famiglia tra regole costituzionali e status personali
Convegno annuale Associazione “Gruppo di Pisa” 7-8 giugno 2013 “La famiglia davanti ai suoi giudici” S ILVIO T ROILO ∗ LA NOZIONE DI FAM IGLIA TRA REGOLE COSTITUZIONALI E STATUS PERSONALI SOMMARIO: 1. La nozione di famiglia fra art. 29 e art. 2 della Costituzione. – 2. Lo stato di famiglia. – 3. Gli spazi e i limiti dell’intervento dei pubblici poteri in materia. 1. LA NOZIONE DI FAMIGLIA FRA ART. 29 E ART. 2 DELLA COSTITUZIONE La Costituzione italiana, discostandosi dalle carte costituzionali “brevi” e da quelle, pur “lunghe”, di altri Stati democratico-sociali, si occupa ampiamente della famiglia e delle relazioni familiari nel titolo II della parte I, relativo ai rapporti etico-sociali. Essa, pur non illustrando analiticamente i concetti di «famiglia», «matrimonio», «coniugi», «genitori», «figli», li presuppone, rifacendosi alle nozioni sedimentatesi nella tradizione giuridica e sociale del Paese: non pare, dunque, che non si riscontri un univoco concetto costituzionale di famiglia, per cui il legislatore ordinario – o addirittura, in via sussidiaria, la giurisprudenza – sarebbero autorizzati a darvi il contenuto ritenuto più adatto ai tempi ed all’evoluzione del costume sociale, come sostenuto da settori significativi della dottrina, anche giuspubblicistica, per i quali la famiglia potrebbe assumere tante forme organizzative quanti sono i modi in cui si può realizzare la propria personalità. E, conseguentemente, il riconoscimento istituzionale di ciò che costituisce una famiglia potrebbe variare a seconda dei modelli culturali e dei sistemi di credenze praticati e accettati in una comunità1. Così, svincolandosi dall’idea che «l’art. 29 Cost. faccia riferimento ad un modello di famiglia che, pur suscettibile di sviluppi e cambiamenti, sia caratterizzato da un “nucleo duro” di cui il legislatore ordinario non può liberamente disporre»2, si giunge a sostenere che, nel nostro ordinamento, la famiglia sfuggirebbe da inquadramenti che mirino a cristallizzarne il contenuto, proprio perché si tratta di una realtà «naturale», pregiuridica, la cui consistenza prescinde da definizioni di tipo puramente normativo3. Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bergamo. Cfr., per tutti, M. Barbagli e D. Kertzer (a cura di), Storia della famiglia italiana (1750-1950), Bologna, 1992; C. SARACENO, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Bologna, 1998; ID., Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Milano, 2012; nella dottrina costituzionalistica cfr., tra gli altri, R. BIN, La famiglia: alla radice di un ossimoro, in Studium iuris, 2000, pp. 1066 ss. 2 In questa posizione si riconosce la maggior parte della dottrina: fra le prese di posizione in ambito pubblicistico v., oltre a F. DAL CANTO, Matrimonio tra omosessuali e principi della Costituzione italiana, in Foro it., 2005, pt. V, col. 279, citato in testo, A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, Padova, 2003, pp. 126-127; A. RUGGERI, Idee sulla famiglia e teoria (e strategia) della Costituzione, in Quad. cost., 2007, pp. 753 ss., in particolare p. 758. Non sono peraltro mancate diversità di vedute nell’individuazione del contenuto di tale nucleo (in passato a riguardo, soprattutto, dell’indissolubilità o meno del matrimonio): decisamente prevalente – e sicuramente preferibile – è la concezione che vi ricomprende i tre caratteri della monogamia, esogamia, eterosessualità (cfr. L. VIOLINI, Il riconoscimento delle coppie di fatto: praeter o contra constitutionem?, in Quad. cost., 2007, p. 395). 3 Cfr., tra gli altri, P. BARCELLONA, Famiglia (dir. civ.), in Enc. dir., vol. XVI, 1967, pp. 780 ss.; V. ROPPO e A.M. BENEDETTI, Famiglia III) Famiglia di fatto, Postilla agg., in Enc. giur., vol. XIV, 1999, p. 1; R. BIN, op. cit., pp. 1067-68 (che rileva che «predicare della famiglia che essa è una società “naturale” e, ad un ∗ 1 Sulla base di tali presupposti, si è progressivamente fatta strada, presso diversi studiosi ed una parte della giurisprudenza comune, la convinzione che non l’art. 29, ma l’art. 2 della Costituzione sia «l’autentica norma di principio dell’intero ordinamento giuridico della famiglia»4. Si tratta di una visuale che appare “strana”, come ha efficacemente rilevato Antonio Ruggeri, perché vorrebbe dire che la nostra Carta costituzionale parlerebbe specificamente e a lungo della famiglia, «senza però … dire nulla (o quasi)», e rinuncerebbe, sul punto, alla «sua congenita ed indisponibile vocazione a dare un orientamento (se non proprio un ordine) alle più salienti dinamiche politico-sociali»5. È vero che, nell’ambito degli istituti familiari, le previsioni della nostra Carta fondamentale presentano carattere compromissorio e relativamente elastico6 e che «i costumi sono più forti del diritto»7, in quanto l’evoluzione della coscienza sociale può tendere, nel lungo periodo, a svincolarsi dalla rigorosa adesione alle norme positive. Il che deve sicuramente indurre l’interprete ed il legislatore ordinario a ricercare soluzioni che consentano di superare gli inconvenienti eventualmente derivanti da una rigida ed acritica applicazione delle norme, che non tenga alcun conto dei mutamenti intervenuti nelle convinzioni e nei comportamenti8. Però, «non si può assentire a proposte ricostruttive che ora ignorano del tutto alcuni enunciati ed ora invece omettono di prendere in considerazione alcuni loro “frammenti”, in un caso e nell’altro dandone quindi una deformata o parziale rappresentazione»9. Non si può, così, estendere analogicamente ai conviventi, dello stesso o di diverso sesso, e a rapporti non familiari l’applicazione di disposizioni concernenti il matrimonio, i coniugi e i rapporti familiari, trattandosi di situazioni «nettamente diverse»10. Infatti, come la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato, se l’art. 29, co. 1°, Cost. «non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio», nondimeno «riconosce alla famiglia legittima una dignità superiore, in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio»11. E ciò non contrasta con il principio di uguaglianza, che «non va mai visto in astratto bensì tempo, “fondata sul matrimonio” è predicare attributi tra loro incompatibili, dato che il matrimonio è un istituto giuridico che non appartiene affatto alle forme “naturali” dell’organizzazione sociale, ma a quelle convenzionali, determinate dalle regole contingenti poste dalla legislazione vigente»); P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione, Milano, 2007, pp. 92 e 94 (secondo cui «definire la “famiglia” è soprattutto una “questione politica e legale”, agganciata a trasformazioni sociali e d’opinione», per cui «non pare … soddisfacente ricavare dall’art. 29 Cost.» neppure “un nucleo duro” che consenta, nel tempo, «modifiche di dettaglio alla sua disciplina positiva»). 4 Così, già negli anni settanta, M. BESSONE, Sub art. 29, in Commentario alla Costituzione, Rapporti etico-sociali, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1976, p. 7. Tra gli altri, afferma oggi che «l’art. 2 costituisce la “stella polare” dei principi costituzionali che informano la famiglia» I. NICOTRA, La famiglia in “divenire” dinanzi ad un legislatore “fuori tempo massimo”, in www.gruppodipisa.it, p. 3, per la quale «la preferenza espressa dalla Costituzione a favore della famiglia legittima non esclude altri modelli di famiglia, meritevoli di tutela alla luce del combinato disposto degli artt. 2 e 18, quali formazioni sociali costituite intorno ad un progetto di vita condiviso» (p. 6). 5 A. RUGGERI, “Strane” idee sulla famiglia, loro ascendenze teoriche ed implicazioni di ordine costituzionale, in www.gruppodipisa.it, p. 2. 6 Come è evidenziato dalla dottrina prevalente: in modo icastico da L. CALIFANO, La famiglia e i figli nella Costituzione italiana, in R. Nania e P. Ridola (a cura di), I diritti costituzionali, Torino, 2006, vol. III, p. 929, che nota «come per determinati aspetti la Costituzione si riprenda con la sinistra ciò che ha dato con la mano destra: così “il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi …” ma “con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (art. 29, 2° comma, Cost.); “la legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale …” ma “compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima” (art. 30, 3° comma, Cost.); “la legge detta le norme …” ma anche “i limiti per la ricerca della paternità” (art. 30, 4° comma, Cost.)». Peraltro ciò non vuol dire, almeno secondo i più, che la normativa costituzionale in materia operi un mero rinvio alla concezione di famiglia che si realizza nella società in un dato momento storico. 7 Come segnalava già C. GRASSETTI, I principi costituzionali relativi al diritto familiare, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, diretto da P. Calamandrei e F. Levi, Firenze, 1950, p. 286. 8 Ad esempio, cercando di evitare ai singoli di subire, a causa di una convivenza, una lesione dei diritti fondamentali che devono essere loro riconosciuti: così si è fatto per i figli nati da genitori non sposati e, sotto molti aspetti, per gli stessi conviventi, anche dello stesso sesso. 9 Per riprendere le parole di A. RUGGERI, “Strane” idee sulla famiglia …, cit., p. 3. 10 Costante è, in tal senso, la giurisprudenza costituzionale: cfr., in particolare, le sentt. n. 45 del 1980, n. 237 del 1986, n. 423 del 1988, n. 310 del 1989, n. 8 del 1996, n. 127 del 1997, n. 2 e n. 166 del 1998, n. 461 del 2000, n. 86 e n. 140 del 2009. 11 Così, ex plurimis, le sentt. n. 310 del 1989, n. 8 del 1996, n. 352 del 2000, n. 86 del 2009. A riprova di ciò, la Corte ha ricordato che in Assemblea Costituente «fu esplicitamente rifiutato … un voto inteso a disgiungere, nell’art. 29, primo comma, la locuzione “diritti della famiglia come società naturale” dall’altra “fondata sul matrimonio”» (sent. n. 237 del 1986, pt. n. 2b Cons. dir.). richiede sempre di essere contestualizzato», per cui «si alimenta culturalmente e positivamente delle indicazioni che vengono da altri enunciati» costituzionali12. Pertanto, se alla luce dell’art. 2 Cost. le unioni non matrimoniali, non solo eterosessuali ma anche omosessuali, sono da considerarsi formazioni sociali «cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri»13, tale riconoscimento non può includere il diritto al matrimonio ed alla qualifica di famiglia, che ai sensi dell’art. 29 Cost. è riservato alle sole coppie eterosessuali14. L’art. 29, poi, non si pone in contrasto con le Carte dei diritti europee: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha evidenziato come l’art. 12 della CEDU attribuisca il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia a «uomini e donne», vale a dire a persone biologicamente di sesso diverso15, e come una differente concezione, pur se accolta di recente da alcuni ordinamenti, sia ancora nettamente minoritaria a livello continentale16. Né tale Corte ha affermato che la Convenzione europea sancisca la piena uguaglianza di status e di diritti fra i conviventi e i coniugi17. In ogni caso, il rinvio operato da entrambe le Carte europee alle «leggi nazionali che regolano l’esercizio» del «diritto di sposarsi e di fondare una famiglia» (previsto dalla CEDU) o de «il diritto di sposarsi e il diritto di fondare una famiglia» (di cui alla Carta di Nizza) impedirebbe qualunque eventuale equiparazione delle due situazioni contro la volontà degli Stati membri18. Cfr. ancora A. RUGGERI, “Strane” idee sulla famiglia …, cit., p. 4. Peraltro, «nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza» (Corte cost., sent. n. 138 del 2010, pt. n. 8 Cons. dir.). 14 Come sottolineato nella fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010, appena citata. Infatti, pur se «i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali», l’interpretazione evolutiva «non può spingersi fino al punto di incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata» (pt. n. 9 Cons. dir.). Occorre, dunque, prendere atto che i Costituenti fecero proprie le nozioni di famiglia e di matrimonio definite dal codice civile del 1942 ed allora pacifiche, in base alle quali i coniugi dovevano essere persone di sesso diverso, dando rilievo anche alla «(potenziale) finalità procreativa del matrimonio, che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale» (ibidem). Peraltro, secondo alcuni autori, la pronuncia della Consulta, affermando che «si deve escludere … che l’aspirazione a tale riconoscimento [della condizione di coppia] … possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio», lascerebbe aperte tutte le possibilità al legislatore, escludendo solo l’utilizzo della via ermeneutica e giudiziale per estendere la possibilità di sposarsi a due persone dello stesso sesso (così, ad es., B. PEZZINI, Il matrimonio same sex si potrà fare. La qualificazione della discrezionalità del legislatore nella sent. n. 138 del 2010 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2010, pp. 2719 ss.). 15 V. Corte eur. dir. um., sentt. 17 ottobre 1986, Rees c. Regno Unito (in Riv. dir. int., 1987, pp. 735 ss.) e 27 settembre 1990, Cossey c. Regno Unito (in Riv. int. dir. uomo, 1991, pp. 193 ss.). 16 V. Corte eur. dir. um., sent. 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria, in http://hudoc.echr.coe.int. La Corte, comunque, prende atto della nuova concezione ed afferma che, considerato anche «l’articolo 9 della Carta di Nizza», essa «non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 [CEDU] debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra due persone di sesso opposto», ma che è opportuno «si lasci decidere alla legislazione nazionale dello Stato Contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale» (par. 61). 17 Infatti, l’endiadi «diritto di sposarsi e di fondare una famiglia» – non presente, invece, nell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui gli istituti del matrimonio e della famiglia sono oggetto di due distinti diritti – indica chiaramente che la famiglia considerata dalla CEDU nasce dal matrimonio. Tanto che la stessa stabilità di quest’ultimo è ritenuta una esigenza essenziale in una società ben ordinata, con la conseguenza che la mancata previsione del divorzio in una normativa nazionale non viola l’art. 12 CEDU (Corte eur. dir. um., sent. 26 maggio 1994, Keegan c. Irlanda, in Riv. int.. dir. uomo, 1995, pp. 65 ss.). Peraltro, negli ultimi tempi, la Corte di Strasburgo ha individuato talune specifiche ipotesi di applicazione della nozione di vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione anche alle coppie conviventi (a partire dalla sent. 24 luglio 2003, Karner c. Austria, seguita dalla sent. 22 luglio 2010, P.B. e J. S. c. Austria, entrambe in http://hudoc.echr.coe.int) ed ha rilevato che la nozione di famiglia presupposta da tale ultima norma «non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti» – di diverso o dello stesso sesso – «convivono fuori dal vincolo del matrimonio» (sent. 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria, cit., par. 91; v. anche par. 94). 18 Come rileva anche la Corte costituzionale (sent. n. 138 del 2010, pt. n. 10 Cons. dir.). Il matrimonio è, infatti, strettamente legato «alle tradizioni culturali e storiche delle società nazionali ed alla concezione che in esse si ha della famiglia» (Corte eur. dir. um., sent. 18 dicembre 1987, “F” c. Svizzera, in Foro it., 1988, pt. IV, pp. 402 ss., e sent. 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria, cit., par. 62). Non pare, quindi, possibile supplire alla non casuale mancanza di una specifica normativa italiana di riconoscimento tanto del same-sex marriage quanto delle unioni di fatto utilizzando, in via giurisprudenziale, come criterio interpretativo l’art. 9 della Carta di Nizza, che sottolineerebbe la legittimità di tali scelte e la meritevolezza degli interessi perseguiti dai partner (come sostengono pur autorevoli voci: v., per tutti, D. BUSNELLI, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. dir. civ., I, 2002, pp. 510 ss.; G. FERRANDO, Le relazioni familiari nella Carta dei 12 13 Il legislatore e la giurisprudenza19 devono, pertanto, muoversi su un non facile crinale, da un lato garantendo i diritti inviolabili (e non ogni diritto o esigenza individuale)20 a tutti coloro che sviluppano la propria personalità in formazioni sociali ispirate a finalità solidaristiche, dall’altro evitando che «l’estensione a forme di convivenza diverse dal matrimonio di garanzie ed istituti previsti a vantaggio della famiglia legittima pregiudichi la distinzione posta dalla Costituzione tra famiglia ed “altre” formazioni sociali»21, ed il conseguente favor riconosciuto alla prima dall'art. 29 Cost.22. 2. LO STATO DI FAMIGLIA D’altra parte, quando si parla di famiglia si fa riferimento ad un preciso istituto, che conferisce ai suoi membri uno status determinato. Si tratta di un aspetto che viene scarsamente considerato dalla dottrina (come si è visto anche nel convegno di Catania), ma che risulta di notevole importanza. Anche se lo stato della persona è ritenuto un concetto tra «i più sfuggenti dell’intera scienza del diritto»23 e non è precisamente definito da alcuna norma positiva, in termini generali può essere descritto come la posizione che un soggetto assume nell’ambito di una società organizzata. Pertanto, lo status è indice «dell’appartenenza di un individuo ad una collettività necessaria»24, esprimendo la situazione giuridica di cui questi gode nei confronti di altri soggetti, considerati non come singoli individui bensì come gruppo sociale25. Ora, la comunità statale italiana attribuisce un preciso status (quello di “persona coniugata”, collegato allo “stato di diritti dell’Unione europea, in Pol. dir., 2003, p. 353). A riprova di ciò, la direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, recepita dall’Italia con d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, non impone nemmeno di accogliere il partner “ufficiale” di un cittadino dell’U.E., a meno che si verifichino tutte e tre le seguenti, distinte, condizioni: i) la normativa dello Stato ospitante disciplina le unioni di fatto, prevedendone la formale registrazione pubblica; ii) regolamentandole, le equipara, a vari fini, ai matrimoni; iii) ne detta una disciplina sostanzialmente analoga a quella del Paese di provenienza della coppia (come richiesto dall’inciso «nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante», contenuto nell’art. 2, co. 1, lett. b), n. 2). 19 Per una ricostruzione sistematica dei variegati orientamenti, assunti finora dalla giurisprudenza di legittimità e di merito riguardo alle unioni non fondate sul matrimonio, v. T. AULETTA, Diritto di famiglia, Torino, 2011, pp. 154 ss. 20 Infatti, «non è sufficiente richiamare l’art. 2 come clausola a fattispecie aperta (capace cioè di offrire tutela a situazioni via via avvertite come meritevoli di tutela dalla coscienza sociale, al di là di quelle canonizzate nel testo costituzionale), in quanto lo stesso art. 2 non offre tutela a tutti i desideri che si vorrebbero riconosciuti come bisogni e a tutti i bisogni che si vorrebbero tutelati come diritti, ma riconosce e garantisce quei desideri e quei bisogni che servono allo svolgimento della personalità all'interno di una formazione sociale» (cfr., tra gli altri, R. BALDUZZI, Il d.d.l. sui diritti e i doveri delle persone stabilmente conviventi: modello originale o escamotage compromissorio?, in Quad. reg., 2007, p. 48). Nello stesso senso è la giurisprudenza costituzionale (v., ad es., la sent. n. 461 del 2000, pt. n. 3 Cons. dir.). 21 Cfr., per tutti, E. ROSSI, Il riconoscimento delle coppie di fatto: alla ricerca di una sintesi, in Quad. cost., 2007, p. 388, nonché Corte cost., sent. n. 140 del 2009, per cui la «trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza di questa Corte non è indifferente …, non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure, collocandole in una visione unificante secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe connotazioni identiche a quelle nascenti dal rapporto matrimoniale, sicché le due situazioni in sostanza differirebbero soltanto per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo» (pt. n. 3 Cons. dir.). La mancanza, fino ad ora, di interventi organici del legislatore ha, peraltro, spinto i giudici comuni ad assumersi il compito non solo «di tutelare diritti costituzionali “accertati”», ma anche – discutibilmente, a giudizio di chi scrive – «di interpretare le istanze di profonda trasformazione che provengono da una complessa realtà sociale, riscrivendo, a “colpi di sentenze”, il quadro normativo di riferimento» (come rileva, tra gli altri, anche I. NICOTRA, op. cit., p. 9). 22 Favor che è riconosciuto, oltre che dalla Corte costituzionale, da gran parte della dottrina pubblicistica, compresi i sostenitori dei diritti delle unioni di fatto (cfr., ad es., R. ROMBOLI e E. ROSSI, I registri comunali delle unioni civili e i loro censori, in Foro it., 1996, pt. III, col. 527; N. PIGNATELLI, I DICO tra resistenze culturali e bisogni costituzionali, ne I Paper del Forum, in www.forumcostituzionale.it; P. VERONESI, op. cit., p. 93), anche perché «la previsione esplicita in Costituzione di un istituto», come quello familiare, «deve pur avere un qualche surplus di significato, rispetto a ciò che non è previsto espressamente nella medesima Costituzione. Altrimenti la finalità della norma costituzionale (di qualsiasi norma costituzionale a questo punto) risulterebbe vana» (G. GRASSO, “Dico” sì, “Dico” no: prime impressioni sul disegno di legge Pollastrini-Bindi, ne I Paper del Forum, in www.forumcostituzionale.it, p. 2) 23 Così G. FERRANDO, La filiazione naturale e la legittimazione, in Trattato dir. priv., diretto da P. Rescigno, Torino, tomo II, Persone e famiglia, vol. 4, 1982, p. 120. 24 G. CICU, Il concetto di status, in Scritti Minori, Milano, 1965, vol. I, n. 1, p. 196. 25 G. SCOGNAMIGLIO, Famiglia (stato di), in Dig. disc. pubbl., vol. VI, 1991, p. 217. A tale modo “comunitario” di intendere gli status si contrappone, peraltro, un diverso modo “soggettivistico o individualistico”, per il quale essi si presentano come qualità essenziali che individuano un essere umano come soggetto (v. A. CORASANITI, Stato delle persone, in Enc. dir., vol. XLIII, 1990, pp. 948 ss.). famiglia”, dotato di una autonoma definizione e di una apposita disciplina e produttivo di specifici effetti giuridici) ai membri non di qualunque formazione sociale possa realizzare finalità di sostegno affettivo, solidarietà, assistenza, ma solo a quelli che fanno parte – con certezza giuridica – della famiglia legittima, fondata sul matrimonio eterosessuale. È dunque la polis – e non i singoli interessati – a stabilire, sulla base delle convinzioni e dei valori in essa radicati (che confluiscono nella Costituzione), quale sia la condizione giuridica dei coniugi e quella della famiglia26. Imprescindibili ragioni non solo giuridiche, ma anche logiche impongono che soltanto la collettività possa modificare gli status che essa stessa ha attribuito, con l’intervento delle sue istituzioni rappresentative e l’utilizzo delle procedure previste, legislative o di revisione costituzionale, a seconda dei casi. Ma le medesime considerazioni portano ad escludere che la mancata assegnazione di uno status ad alcuni soggetti rappresenti una violazione dei loro diritti fondamentali. Solo se tali soggetti si trovassero in condizione del tutto identica a quella di altri, si dovrebbe garantire loro non uno status nuovo e diverso (magari modellato su quello già riconosciuto agli altri), ma i diritti connessi a quello già previsto, in applicazione del principio di uguaglianza; a condizione, però, che non vi ostino il riconoscimento costituzionale dei diritti di chi gode già dello status in parola o le caratteristiche intrinseche, recepite dalla Costituzione, dell’istituto da cui esso discende27. Ora, dato che la famiglia in senso proprio, per la nostra Carta fondamentale, deve essere formata da due «coniugi» di sesso diverso, non si riscontra alcuna violazione del principio di uguaglianza quando non sia consentito a due persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio, o a loro ovvero a due conviventi eterosessuali di rivendicare, comunque, uno status familiare. 3. GLI SPAZI E I LIMITI DELL’INTERVENTO DEI PUBBLICI POTERI IN MATERIA Pertanto, nonostante gli sforzi di non pochi studiosi, non si vede come sia possibile superare la suddetta impossibilità senza modificare la nozione di famiglia recepita dalla Costituzione: ciò, peraltro, potrebbe avvenire solo dopo un ampio e approfondito dibattito pubblico e parlamentare che dimostrasse che si è ormai consolidata nel Paese una nuova concezione largamente condivisa28. Mentre, se si arrivasse a “bypassare” l’ostacolo per via giudiziaria (od anche legislativa ordinaria), oltre a violare la Carta fondamentale si vibrerebbe un duro colpo al sistema degli status, concepito per dare certezza ai membri della polis nei rapporti con essa e con gli altri suoi componenti29. Né si può disciplinare la convivenza di fatto30, eterosessuale od omosessuale, con le stesse identiche regole previste per la Diversamente, i giudici a quibus che hanno sollevato le questioni di legittimità costituzionale risolte con la citata sent. n. 138 del 2010, al pari di parte della dottrina, adottano un punto di vista soggettivistico, muovendo dal principio di autodeterminazione individuale ed intendendo la “naturalità” della famiglia e, in generale, quanto disposto dall’art. 29 Cost. come intesi a garantire la realizzazione della personalità individuale dei coniugi nel modo ritenuto dagli stessi più idoneo (come rileva anche F. BIONDI, Famiglia e matrimonio. Quale modello costituzionale, in www.gruppodipisa.it, p. 40). 27 Ed infatti, nella sent. n. 138 del 2010, la Consulta ha prima verificato che cosa si debba intendere per “famiglia” alla luce dell’art. 29 Cost., e soltanto dopo se costituisca una discriminazione l’esclusione degli omosessuali dal matrimonio e dalla facoltà di creare una famiglia, pervenendo ad una soluzione negativa. 28 V., amplius, A. SPADARO, Matrimonio “fra gay”: mero problema di ermeneutica costituzionale – come tale risolubile dal legislatore ordinario e dalla corte, re melius perpensa – o serve una legge di revisione costituzionale?, in www.gruppodipisa.it. 29 A tal fine ricoprono un ruolo rilevante i registri dello stato civile, tramite i quali viene data pubblicità ad alcuni fatti salienti della vita di un soggetto, che comportano l’attribuzione dello stato di coniuge o di figlio (funzione svolta, nello specifico, dai registri di matrimonio o di nascita). Diversamente, i registri anagrafici servono a rendere pubblica la “localizzazione” di una persona fisica, per cui la «famiglia anagrafica» di cui all’art. 4 del d.p.r. n. 223 del 1989 ha la funzione di fornire informazioni relative alle convivenze familiari (in senso lato) nell’ambito di ciascun Comune: essa comprende «un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune». Non può quindi valutarsi positivamente l’istituzione, effettuata da diversi Comuni, di registri delle unioni civili, con la relativa disciplina dei requisiti per accedervi, o l’utilizzo a fini analoghi del concetto di «famiglia anagrafica» definito dal d.p.r. 223 del 1989, con il conseguente rilascio, in vari casi, di «attestati di costituzione di famiglia affettiva» (come nel Comune di Bari). Infatti, se tutto ciò non può introdurre modifiche agli status delle persone e neppure nuovi diritti o nuovi doveri, essendo questa materia riservata al legislatore statale, tuttavia determinati comportamenti individuali che l’ordinamento si limita a considerare leciti tendono a ricevere, e solo in alcuni enti locali, un riconoscimento pubblico più o meno generalizzato ed una certa promozione, con l’estensione, in taluni casi, pure di specifici benefici. Su tali registri v., amplius, L. IMARISIO, Il registro delle unioni civili, in www.gruppodipisa.it. 30 Si noti che la Corte costituzionale parla quasi sempre di «convivenza», raramente di «famiglia di fatto»: «famiglia», in quest’ottica, è l’aggregazione che nasce da un matrimonio. Anche nella dottrina civilistica si sottolinea che può definirsi famiglia di fatto solo «quella che presenta nella sostanza lo stesso contenuto della 26 famiglia legittima, in quanto «il fondamento dei diritti e dei doveri indicati nel capo IV del titolo VI del codice civile è costituito dall’istituto stesso del matrimonio», che possiede una «dignità superiore» – quindi una differenza qualitativa – in ragione della stabilità e della certezza che vi sono connesse31. Non risulta quindi appropriato invocare l’intervento del legislatore ordinario o della giurisdizione per realizzare quanto solo il popolo, tramite il Parlamento (o direttamente, nell’eventuale referendum ex art. 138 Cost.), potrebbe decidere di fare, attraverso il procedimento di revisione costituzionale. Il legislatore dovrà, invece, verificare se oggi siano adeguatamente garantiti i diritti inviolabili (e non qualunque esigenza individuale) dei conviventi, di diverso o dello stesso sesso, colmando eventualmente le lacune che riscontrasse32, sempre che «si tratti di veri e propri diritti soggettivi suscettibili di estensione in forza del principio di eguaglianza» e non «si tratti, invece, di benefici da ricondursi a doveri [specifici] che l’individuo si è assunto, ad esempio tramite il matrimonio o la generazione di figli»33. A loro volta, i giudici dovranno applicare ai casi concreti le norme vigenti, con misura e senso di giustizia, senza pretendere di sostituire le proprie statuizioni ad una legislazione che pur si assuma, in ipotesi, inadeguata, ma utilizzando, in tale eventualità, gli strumenti dell’interpretazione evolutiva (ma non creativa) e del promuovimento della questione di costituzionalità, comunque efficaci e in grado di non turbare l’essenziale equilibrio complessivo del nostro ordinamento34. convivenza che ha alla base il matrimonio», ossia quella fondata sui vincoli di fedeltà, assistenza morale e materiale, coabitazione e collaborazione nell’interesse familiare di cui all’art. 143 c.c. (cfr., per tutti, L. BALESTRA, La famiglia di fatto, Padova, 2004, p. 29). 31 Cfr., per tutte, ancora Corte cost., sentt. n. 310 del 1989 e n. 166 del 1998. Oltre tutto, dato che «la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle regole» derivanti dal matrimonio (almeno per le coppie eterosessuali), l’estensione automatica di queste regole alle unioni di fatto potrebbe costituire una violazione della libera determinazione delle parti (v. ancora, ex plurimis, sent. n. 166 del 1998). 32 Che non sembrano molte, dato che la legislazione statale e regionale tende già a considerare i conviventi, al pari dei familiari, tra i destinatari di benefici in campo sanitario o assistenziale o, comunque, a dare rilevanza alla solidarietà che lega coloro che convivono: così, solo a titolo d’esempio, la normativa sui trapianti di organi (art. 3 della legge n. 91 del 1999) indica anche il partner tra i soggetti che il medico deve informare una volta che sia avviato il processo di accertamento della morte cerebrale di una persona, mentre la disciplina relativa ai congedi parentali (art. 4 della legge n. 53 del 2000) riconosce al convivente stabile (che risulti tale da certificazione anagrafica) la facoltà di assentarsi dal lavoro in caso di decesso o di grave infermità del suo compagno/a. Disposizioni simili sono dettate dalla normativa in tema di abitazione e di edilizia residenziale pubblica e da quella relativa agli interventi a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata (legge n. 302 del 1990). A ciò si aggiungono orientamenti giurisprudenziali che, nei più svariati ambiti (penale, civile, tributario, ecc.), esprimono una valorizzazione dei vincoli di solidarietà che animano i rapporti di fatto e sanzionano la loro eventuale violazione. Nondimeno, non sono pochi coloro che ritengono che i moniti contenuti nella giurisprudenza costituzionale più recente richiedano comunque un intervento legislativo organico, che definisca esaurientemente le forme di riconoscimento e di tutela delle unioni non matrimoniali: esso, peraltro, non sarebbe privo di risvolti problematici (su cui v. F. BIONDI, op. cit., pp. 49 ss.). 33 Come sottolinea L. VIOLINI, op. cit., p. 395. 34 Sull’esigenza di salvaguardare tale equilibrio complessivo cfr., per tutti, ancora A. RUGGERI, “Strane” idee sulla famiglia …, cit., pp. 9-10.