Evoluto, ma non attivo. La Corte d`appello di

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hosting provider
Evoluto, ma non attivo. La Corte
d'appello di Milano travolge la più
recente
giurisprudenza
sull'hosting
provider
Marco Bassini, Avvocato, Università degli Studi di Verona. Oreste Pollicino, Docente di
Diritto dei media, Università Bocconi ­ Of Counsel, Portolano Cavallo Studio legale
Chiamata a pronunciarsi sull'impugnazione della sentenza di primo grado, che aveva
visto soccombere Yahoo! a fronte della domanda di RTI, la Corte d'appello di Milano ha
consegnato una decisione destinata a produrre importanti ripercussioni nello scenario
giurisprudenziale domestico in materia di responsabilità dell'Internet service provider.
I fatti sono noti: RTI, in veste di titolare dei diritti d'autore su alcuni contenuti
audiovisivi, agiva in giudizio nei confronti di Yahoo! per ottenere la rimozione dalla
piattaforma gestita da quest'ultima, Yahoo! Video (ora cessata), di alcuni estratti di
programmi televisivi pubblicati dagli utenti senza autorizzazione. Il Tribunale di Milano
riteneva Yahoo! responsabile dell'illecita diffusione di contenuti, escludendo
l'applicabilità nella fattispecie delle esenzioni di responsabilità previste dall'art. 16 del
D. Lgs. 70/2003 per l'hosting provider. A giudizio del Tribunale, il regime di limitazione
di responsabilità sarebbe appannaggio del provider che agisce in modo passivo (unica
figura cui l'art. 16 si riferisce, nell'argomento del giudice di prime cure), non già invece
dell'hosting provider attivo. Figura, quest'ultima, frutto di una costruzione
giurisprudenziale prettamente domestica, esito infelice di un tentativo di applicare a
quegli Internet service provider che sfruttassero le nuove modalità di interazione con i
contenuti e con gli utenti un regime di responsabilità diverso da quello pensato, alle
origini, per i prestatori di servizio del tutto neutrali e passivi.
Non certo una frode delle etichette, ma un tentativo di offrire una lettura delle disciplina
di matrice comunitaria, oggetto di un (quasi) pedissequo recepimento a livello interno,
coerente con l'evoluzione tecnologica e con le stesse funzionalità che la rete ha reso
disponibili ai fornitori di piattaforme per interagire con i contenuti ospitati.
Si è trattato però di un'evoluzione incostante, segnata da pronunce che a segno alterno
hanno alzato o abbassato la soglia di imputabilità all'Internet service provider (nella
maggior parte dei casi, fornitori di piattaforme video) di condotte illecite di terzi (in
primis la diffusione di contenuti in violazione del diritto d'autore), tutte concentrate
sulla ricerca di una serie di indici che potessero tradurre una maggiore o minore
"attività" rectius "non passività" del provider così da poterlo attrarre o allontanare
dall'ambito delle esenzioni da responsabilità, sfiorando a volte l'equiparazione tra
content e hosting provider.
La domanda fondamentale è allora se sia legittimo addebitare al provider, in forza a una
serie di indici di "attività", una responsabilità per condotte illecite che, pur rilevabili dal
prestatore (in quanto soggetto tecnicamente più adeguato a intervenire), siano poste in
essere dagli utenti che ne sfruttano i servizi.
A questo interrogativo la Corte d'appello di Milano, con una sentenza che supera le
timidezze di certa giurisprudenza precedente, offre seccamente una risposta negativa,
annullando la decisione di primo grado.
Il ragionamento della Corte d'appello è imperniato sulla confutazione dell'argomento
seguito dal Tribunale di Milano e trae alimento da un'interpretazione della direttiva
2000/31/CE (e della relativa disciplina di recepimento), illuminata anche dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia, che riporta in parte alle origini i termini della
questione.
Seppure a tratti non sibillino, il percorso del collegio è lineare. La Corte d'appello mette
in discussione la pretesa eterogeneità del regime giuridico che il Tribunale aveva
ritenuto applicarsi, da un lato, a mere conduit e caching provider, e, dall'altro, agli
hosting provider in forza di un'interpretazione delle disposizioni contenute nel D. Lgs.
70/2003 e nella direttiva E-Commerce male orientata da una lettura errata di alcuni
considerando di quest'ultima.
Più in dettaglio, il Tribunale di Milano aveva attribuito particolare rilievo, come
supporto interpretativo per la (non) applicazione delle esenzioni di responsabilità, ai
considerando 42 e 44. Disposizioni le quali traducono la ratio sottesa alla disciplina
contenuta nella direttiva e ne spiegano più chiaramente i motivi. In primo luogo, il
considerando 42 stabilisce che il "le deroghe alla responsabilità […] riguardano
esclusivamente il caso in cui l'attività di prestatore di servizi della società
dell'informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di
comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le
informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la
trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il
che implica che il prestatore di servizi della società dell'informazione non conosce né
controlla le informazioni trasmesse o memorizzate".
In secondo luogo, il considerando 44 prevede che "il prestatore che deliberatamente
collabori con un destinatario del suo servizio al fine di commettere atti illeciti non si
limita alle attività di semplice trasporto ("mere conduit") e di "caching" e non può
pertanto beneficiare delle deroghe in materia di responsabilità previste per tali attività".
Secondo la Corte d'appello, il giudice di prime cure avrebbe frainteso la portata di
queste previsioni, derivandone un'erronea interpretazione del regime giuridico
applicabile agli hosting provider. E, infatti, secondo il Collegio, una presunta
eterogeneità di status e di regime giuridico non si può far discendere da un dato testuale
che si occupa sì, segnatamente, di mere conduit e di caching provider, ma che non
esclude che analogo trattamento giuridico possa estendersi anche all'hosting. E ciò non
solo perché di quest'ultima categoria si occupa, a ben vedere, un altro dei considerando
che fanno da preambolo alla direttiva E-Commerce (il 46) ma anche perché le regole
racchiuse nei considerando 42 e 44 sono tarate alla specifica peculiarità dei servizi
prestati dai mere conduit e caching provider, incompatibili invece con il ruolo rivestito
dagli hosting provider. Il che non significa, tuttavia, che per questi ultimi non possano
valere principi analoghi (vale a dire l'esenzione di un obbligo generale di sorveglianza e
l'imputabilità di una responsabilità per contenuti illeciti solo ex post e previa notifica e
richiesta di rimozione): e del resto ciò si evince in primo luogo dal già ricordato
considerando 46, che precisa come "per godere di una limitazione della responsabilità, il
prestatore di un servizio della società dell'informazione consistente nella
memorizzazione di informazioni deve agire immediatamente per rimuovere le
informazioni o per disabilitare l'accesso alle medesime non appena sia informato o si
renda conto delle attività illecite".
Se tutto ciò non fosse sufficiente, precisa la Corte d'appello, rimane comunque il
baluardo costituito dalla disciplina che la direttiva E-Commerce prima e il D. Lgs.
70/2003 poi, in sede di recepimento, hanno approntato anche per gli hosting provider.
Specie alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia, granitica
nell'escludere la compatibilità con il diritto dell'Unione europea dell'imputazione ai
provider di una responsabilità in base a indici di supposta "attività" ancor più forti di
quelli utilizzati dal Tribunale di Milano nella sentenza di primo grado.
In altri termini, la Corte d'appello, con un ragionamento forse a tratti contorto ma non
per questo non condivisibile, giunge a escludere che la maggiore complessità dei servizi
offerti dagli hosting provider, conseguenza naturale dell'evoluzione tecnologica, debba
necessariamente tradursi in una pretesa "attività" che valga a escludere l'applicazione
delle esenzioni di responsabilità pensate per il provider meramente "passivo". Si tratta
di una lettura che merita approvazione nella misura in cui mantiene distinti due piani in
realtà diversi: un piano "soggettivo", che attiene al livello di "intensità" del rapporto che
corre tra il prestatore di servizi e il contenuto pubblicato dall'utente, un rapporto che
non scalfisce la neutralità del provider fintantoché –precisa la Corte- l'attività non
sconfini nella partecipazione all'elaborazione del contenuto stesso; un piano "oggettivo",
che riguarda invece le opportunità tecniche di interazione fra prestatore, utente e terzi e
che va tenuto distinto da quello soggettivo.
Questo consente di escludere la configurabilità in radice di un hosting "attivo", così
come lo avevano immaginato diverse corti di merito nelle decisioni che hanno
contraddistinto la giurisprudenza domestica. Infatti, secondo questa impostazione, o il
rapporto che il provider esercita con il contenuto tracima nella sua elaborazione, e in
questo caso si parla di un vero e proprio content provider, oppure tale rapporto,
nonostante la complessità oggi raggiunta dai servizi dell'informazione e l' "attività" del
provider, rimane altro, e in tal caso l'applicabilità della disciplina prevista per l'hosting
provider (attivo o passivo) non può essere revocata in discussione. Tertium, allora, non
datur.
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