Ricordati di guardare la luna
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Ricordati di guardare la luna
Nicholas Sparks RICORDATI DI GUARDARE LA LUNA Titolo originale:Dear John Copyright © 2006 by Nicholas Sparks © 2007 Edizioni Frassinelli ISBN 978-88-7684-975-6 L'autore Nicholas Sparks è nato in Nebraska nel 1965 e ha studiato alla University of Notre Dame. Ha scritto numerosi best-seller tradotti in più di quaranta lingue. Dai suoi libri sono stati tratti film celebri come Le parole che non ti ho detto, con Kevin Costner, I passi dell'amore e Le pagine della nostra vita. Per Frassinelli ha pubblicato, con il fratello Micah, anche Tre settimane, un mondo, un'opera autobiografica. Vive con la moglie e i cinque figli nel North Carolina. Il suo sito è: www.nicholassparks.com eNewsletter: www.hachettebookgroupusa.com A Micah e Christine Ringraziamenti Scrivere questo romanzo è stato insieme una gioia e una sfida; una gioia perché mi auguro che i personaggi riflettano il senso dell'onore e l'integrità di coloro che servono in un corpo militare, e una sfida perché... ecco, se devo essere sincero, è sempre così ogni volta che scrivo un libro. Esistono, tuttavia, alcune persone che rendono molto più facile l'impresa, e che vorrei ringraziare senza ulteriore indugio. A Cathy, mia moglie, la donna che amo con tutto il cuore. Grazie per la tua pazienza, piccola. A Miles, Ryan, Landon, Lexie e Savannah, i miei figli. Grazie per il vostro infinito entusiasmo, bambini. A Theresa Park, la mia agente. Grazie di tutto. A Jamie Raab, la mia editor. Grazie per la tua gentilezza e saggezza. A David Young, il nuovo direttore generale di Hachette Book Group USA, e Maureen Egen, Jennifer Romanello, Harvey-Jane Kowal, Shannon O'Keefe, Sharon Krassney, Abby Koons, Denise DiNovi, Edna Farley, Howie Sanders, David Park, Flag, Scott Schwimer, Lynn Harris, Mark Johnson... grazie per la vostra amicizia. Agli allenatori e agli atleti della squadra di corsa della New Bern High School (che ha vinto il campionato indoor e outdoor del North Carolina): Dave Simpson, Philemon Gray, Karjuan Williams, Darryl Reynolds, Anthony Hendrix, Eddie Armstrong, Andrew Hendrix, Mike Weir, Dan Castelow, Marques Moore, Raishad Dobie, Darryl Barnes, Jayr Whitfield, Kelvin Hardesty, Julian Carter e Brett Whitney... che stagione, ragazzi! Prologo Lenoir, 2006 Che cos'è il vero amore? C'è stato un tempo in cui credevo di conoscere la risposta: significava amare Savannah con tutto me stesso e che avremmo passato la vita insieme. Non sarebbe stato difficile. Una volta lei mi disse che la chiave della felicità stava nell'avere sogni realizzabili, e i suoi non erano niente di straordinario. Il matrimonio, la famiglia... le cose basilari. Un lavoro stabile da parte mia, una casa con il giardino, e una monovolume o un SUV per portare i bambini a scuola o dal dentista, oppure all'allenamento di calcio o alle lezioni di pianoforte. Due o tre figli, non si esprimeva mai con precisione in proposito, ma io avevo la sensazione che, quando fosse giunto il momento, avrebbe proposto di lasciar fare alla natura e di affidare a Dio la decisione. Era così - religiosa, intendo - e suppongo questa sia stata una delle ragioni che mi hanno fatto innamorare di lei. Ma qualunque cosa ci avesse riservato il destino, mi immaginavo sdraiato a letto al suo fianco alla fine della giornata, mentre parlavamo e ridevamo stretti tra le braccia l'uno dell'altra. Non è chiedere troppo, giusto? Quando due persone si amano davvero. Lo pensavo anch'io. E una parte di me vorrebbe ancora credere che sia possibile, anche se so che non succederà. Quando me ne andrò di nuovo da qui, non tornerò più. Per il momento, tuttavia, me ne sto seduto sulla collina che domina la fattoria, in attesa che lei compaia. Naturalmente non potrà vedermi. Nell'esercito ti insegnano a mimetizzarti con l'ambiente, e io ho imparato bene, perché non avevo nessuna intenzione di crepare in mezzo al deserto iracheno. Ma ho dovuto tornare in questa piccola cittadina di montagna del North Carolina per capire quello che è accaduto. Quando metti in moto qualcosa, provi un senso di disagio, una sorta di rimpianto, finché non scopri la verità. Comunque, di una cosa sono sicuro: Savannah non saprà mai che oggi sono stato qui. È triste il pensiero che lei sia così vicina eppure irraggiungibile, però ormai abbiamo preso strade diverse. Non è stato facile per me accettare questo semplice fatto, perché un tempo le nostre storie erano una sola, ma succedeva sei anni e due vite fa. Entrambi abbiamo i nostri ricordi, è vero, ma ho imparato che i ricordi possono assumere un aspetto fisico, quasi reale, e anche in questo Savannah e io siamo diversi. Se i suoi sono le stelle nel cielo notturno, i miei sono il vuoto spettrale tra di esse. E a differenza di lei, sono stato tormentato dagli interrogativi che mi sono posto migliaia di volte da quando ci siamo lasciati. Perché l'ho fatto? E lo rifarei? In effetti, sono stato io a scrivere la parola fine. Le foglie sugli alberi intorno a me hanno appena cominciato la loro lenta mutazione verso il colore del fuoco e ardono alla luce del sole che sta spuntando all'orizzonte. Gli uccelli hanno iniziato il loro canto mattutino e l'aria è pervasa dall'odore di resina e di terra, che non assomiglia a quello di salsedine della mia città natale. Dopo un po' la porta d'ingresso si socchiude, e allora la vedo. Nonostante la distanza che ci separa trattengo il respiro mentre la guardo uscire nell'alba. Solleva le braccia stirandosi prima di scendere i gradini e dirigersi verso il lato dell'edificio. Più in là il pascolo brilla come un oceano verde e lei oltrepassa il cancello. Uno dopo l'altro i cavalli nitriscono in segno di saluto e il mio primo pensiero è che Savannah sia troppo piccola per muoversi con tanta disinvoltura in mezzo a quegli animali. Ma è sempre stata a suo agio con loro. Cinque o sei, per lo più cavalli da tiro, brucano l'erba vicino alla staccionata e Midas, il suo arabo nero con i garretti bianchi, se ne sta da solo in disparte. Una volta noi due abbiamo cavalcato insieme, fortunatamente senza gravi conseguenze, e mentre io mi aggrappavo con tutte le forze per non cadere, lei andava a cavallo con la massima scioltezza, come se fosse in poltrona a guardare la TV. Ora dedica un momento a Midas. Gli strofina il muso sussurrandogli qualcosa, gli accarezza i fianchi e, quando infine entra nella stalla, lui drizza le orecchie seguendola con lo sguardo. Riappare con due secchi di avena. Li appende ai paletti dello steccato e subito un paio di cavalli si avvicinano trotterellando. Lei si sposta per far loro spazio e i suoi capelli si agitano nella brezza. Poi prende i finimenti e, mentre Midas mangia, lo sella e pochi minuti dopo lo conduce fuori dal pascolo, verso i sentieri nel bosco. E identica a sei anni fa. So che non è vero - l'anno scorso l'ho osservata da vicino e ho notato le prime minuscole rughe intorno agli occhi - ma la lente attraverso cui la vedo me la mostra immutata. Per me avrà sempre ventun anni, e io ventitré. Allora ero di stanza in Germania, dovevo ancora andare a Falluja o Bagdad e ricevere la sua lettera che avrei letto alla stazione ferroviaria di Samawa nelle prime settimane della campagna; dovevo ancora tornare a casa e vivere gli avvenimenti che avrebbero cambiato il corso della mia vita. Ora, a ventinove anni, mi meraviglio a volte delle scelte fatte. L'esercito è diventato la mia famiglia. Non so se esserne scocciato o lusingato; in genere passo da una sensazione all'altra, a seconda dell'umore della giornata. A chi mi chiede rispondo che sono una recluta, e lo penso davvero. La mia base è sempre in Germania, ho messo via forse un migliaio di dollari e sono anni che non esco con una ragazza. Non faccio più surf, nemmeno quando sono in licenza, ma nei giorni liberi inforco la mia moto e viaggio su e giù, senza una meta. La Harley è l'unico lusso che mi sia mai concesso, anche se mi è costata un patrimonio. È adatta a me, visto che mi sono trasformato in una specie di lupo solitario. La maggior parte dei miei compagni si è congedata, ma io probabilmente sarò rispedito in Iraq entro un paio di mesi. Almeno queste sono le voci che circolano alla base. La prima volta che incontrai Savannah Lynn Curtis - per me, lei si chiamerà sempre così - non avrei mai immaginato che la mia esistenza avrebbe preso la piega che ha ora, né che avrei fatto carriera nell'esercito. Tuttavia, è proprio quell'incontro a rendere tanto strana la mia vita adesso. Mi sono innamorato di lei mentre eravamo insieme e poi ancora di più durante gli anni in cui siamo stati separati. La nostra storia si divide in tre: un inizio, una parte centrale e una fine. E sebbene sia questo il naturale svolgimento di tutte le storie, non riesco ancora a credere che la nostra non continuerà in eterno. Penso a queste cose e, come al solito, mi torna in mente il periodo che abbiamo trascorso insieme. Mi ritrovo a rammentare com'è cominciata, perché quei ricordi sono tutto ciò che mi resta. 1 Wilmington, 2000 Mi chiamo John Tyree. Sono nato nel 1977 e sono cresciuto a Wilmington, nel North Carolina, una città fiera del suo grande porto e della sua lunga e gloriosa storia, ma che adesso dà piuttosto l'impressione di un posto venuto su a casaccio. Tempo splendido e spiagge perfette, Wilmington non era pronta a ricevere l'ondata di pensionati provenienti da nord in cerca di un luogo economico dove trasferirsi. La città sorge su una lingua di terra relativamente esigua, delimitata da un lato dal Cape Fear River e dall'altro dall'oceano. È tagliata in due dalla statale 17, che porta a Charleston e funge da corso principale. Quando ero bambino, mio padre e io impiegavamo dieci minuti per raggiungere Wrightsville Beach partendo dal centro, mentre oggi, specie nei fine settimana, quando i turisti arrivano in massa, ci si mette anche un'ora. Wrightsville Beach si trova su un'isoletta appena al largo della costa ed è una delle spiagge più frequentate dello stato. Lì le abitazioni lungo le dune vengono affittate durante la stagione estiva a prezzi scandalosamente alti. Gli Outer Banks potranno avere anche un fascino più romantico, con la loro posizione isolata, i cavalli selvaggi e il ricordo del primo volo che rese celebri i fratelli Wright, ma credetemi, i villeggianti preferiscono andare al mare là dove possono trovare un McDonald's o un Burger King per far felici i bambini, e un'ampia scelta di locali aperti la sera. Come tutte le città, Wilmington ha zone ricche e povere, e dato che mio padre aveva uno dei lavori più stabili e sicuri al mondo - faceva il postino - noi stavamo bene. Non navigavamo nell'oro, ma ce la passavamo discretamente. Pur non essendo ricchi, abitavamo poco distante dai quartieri residenziali, e così ho potuto frequentare una buona scuola superiore. A differenza di quelle dei miei compagni, tuttavia, la nostra casa era piccola e malandata; una parte della veranda cominciava a cedere, ma il giardino era fantastico. Sul retro cresceva un'enorme quercia e, a otto anni, ci costruii sopra una casetta usando assi di legno prese da un cantiere. Mio padre non mi aiutò affatto (se fosse riuscito a colpire un chiodo con il martello, si sarebbe trattato certamente di un caso) e quella stessa estate imparai da solo a fare surf. Forse mi sarei dovuto accorgere già allora di quanto fossi diverso da papà, ma ciò dimostra come siano ingenui i bambini. Noi due eravamo letteralmente agli antipodi. Lui era calmo e introspettivo, io ero sempre in movimento e odiavo stare da solo; mentre papà dava grande importanza all'istruzione, per me la scuola era un club ricreativo dove si potevano fare vari sport. Mio padre era di corporatura esile e tendeva a camminare strisciando i piedi; io saltellavo qua e là e gli chiedevo in continuazione di cronometrare il tempo che impiegavo ad arrivare alla fine dell'isolato e ritorno. In terza media ero diventato più alto di lui, e un anno dopo lo battevo senza fatica a braccio di ferro. Non ci somigliavamo nemmeno nei tratti. Mio padre aveva capelli biondi, occhi nocciola e lentiggini, mentre io ero scuro di capelli e di occhi, e la mia carnagione olivastra si abbronzava facilmente. Alcuni vicini trovavano strana la nostra diversità, cosa comprensibile, considerando che mi aveva tirato su da solo. A volte li sentivo parlottare sul fatto che mia madre fosse scappata quando io non avevo nemmeno un anno. In seguito mi venne il sospetto che avesse conosciuto un altro, ma mio padre non me lo confermò mai. Mi spiegava soltanto che la mamma si era resa conto di aver commesso un errore a sposarsi così giovane, e che non si sentiva pronta a fare la madre. Non manifestava né disprezzo né rimpianto nei suoi confronti, ma si assicurava che la includessi sempre nelle mie preghiere. «Mi ricordi lei», diceva a volte. Fino a oggi non mi sono mai messo in contatto con mia mamma, né ho desiderio di farlo. Credo che papà fosse felice, anche se non era tipo da manifestare le proprie emozioni. Abbracci e baci furono una rarità durante la mia infanzia e, quando me li offriva, mi sembravano sempre privi di slancio, come se lo facesse per dovere, e non spontaneamente. Capisco che mi voleva bene dal modo in cui si dedicava a me, ma ero nato quando lui aveva già quarantatre anni e penso che la sua indole fosse più quella di un monaco che di un padre. Era un uomo taciturno. Mi faceva pochissime domande e non si arrabbiava quasi mai, ma per contro non scherzava nemmeno. Era anche abitudinario. Tutti i santi giorni mi cucinava uova strapazzate, bacon e pane tostato per colazione, e tutte le sere ascoltava i miei racconti sulla scuola mentre serviva la cena che aveva preparato. Prenotava gli appuntamenti dal dentista con due mesi di anticipo e pagava le bollette il sabato; faceva il bucato la domenica pomeriggio e la mattina usciva sempre di casa alle 7.35 in punto. Non aveva una vita sociale e svolgeva il suo lavoro in solitudine. Non frequentava nessuna donna, non giocava a poker con gli amici nel fine settimana; il telefono poteva restare muto per giorni e giorni. Quando l'apparecchio squillava, era qualcuno che aveva sbagliato numero, oppure che cercava di venderci qualcosa. So quanto dev'essere stato difficile per lui crescermi senza nessun aiuto, ma non si lamentò mai, neppure quando lo deludevo. Trascorrevo per conto mio la maggior parte delle serate. Terminate le incombenze quotidiane, mio padre si ritirava nello studio. Le monete erano l'unica grande passione della sua vita. La sua massima aspirazione era starsene seduto a leggere la rivista di numismatica soprannominata Greysheet, alla ricerca del prossimo pezzo da aggiungere alla sua collezione. In realtà era stato mio nonno a iniziarla. Il suo eroe era un tale Louis Eliasberg, un finanziere di Baltimora che era riuscito a completare la raccolta di tutte le monete degli Stati Uniti, compresi i vari conii celebrativi e i marchi di zecca. Nel 1951, dopo la morte della moglie, il nonno si mise in testa di creare a propria volta una collezione assieme al figlio. Nel corso dell'estate lui e mio padre raggiungevano in treno le varie zecche, oppure visitavano le fiere di numismatica del Sudest. Con il passare degli anni strinsero rapporti con collezionisti di tutto il paese, e mio nonno spese un patrimonio per scambiare i pezzi e ampliare la collezione. Diversamente da Louis Eliasberg, tuttavia, non era ricco - aveva un emporio a Burgaw che fallì quando in città venne aperto un supermercato - e non ebbe mai la possibilità di eguagliarlo. Ciononostante, investiva tutti i risparmi in monete. Portava sempre la stessa giacca, non cambiò mai l'automobile e sono quasi sicuro che mio padre finì a lavorare in posta invece di andare all'università perché non era rimasto un centesimo per pagare i suoi studi dopo il diploma. Anche il vecchio era un tipo strambo, questo è sicuro. Tale padre, tale figlio, si dice. Quando morì, lasciò scritto nel testamento che la casa doveva essere messa in vendita, e che bisognava usare il ricavato per comprare altre monete, cosa che probabilmente papà avrebbe comunque fatto. La collezione aveva già un discreto valore nel momento in cui lui la ereditò. Quando poi ci fu la crescita dell'inflazione, e l'oro toccò gli 850 dollari l'oncia, valeva una piccola fortuna, che avrebbe permesso al mio frugale genitore di vivere comodamente di rendita. Ma né il nonno né papà si erano dedicati al collezionismo per denaro: semplicemente amavano il gusto della caccia e il legame che quell'interesse in comune creava tra di loro. C'era qualcosa di esaltante nel cercare a lungo e con foga una certa moneta, localizzarla e poi iniziare le trattative per acquistarla al giusto prezzo. A volte era abbordabile, altre no, ma ogni singolo pezzo aggiunto alla raccolta costituiva un tesoro. Mio padre sperava di condividere anche con me questa passione e lo spirito di sacrificio che richiedeva. Per ripararmi dal freddo d'inverno dovevo dormire sotto una montagna di coperte, e ogni anno ricevevo un unico paio di scarpe nuove; quanto ai vestiti, ricorrevo all'Esercito della Salvezza. Papà non possedeva neppure una macchina fotografica. L'unica foto che abbiamo venne scattata a una mostra numismatica ad Atlanta. Un mercante di monete ce la fece davanti al suo banco e ce la spedì. Per anni rimase in mostra sopra la scrivania nello studio. In quel ritratto, papà mi tiene un braccio sulla spalla ed entrambi siamo raggianti. Io ho in mano un Buffalo Nickel 1926-D in condizioni perfette, che avevamo appena acquistato. Era un pezzo abbastanza raro e finimmo per mangiare fagioli e hot dog per un mese, visto che era costato più del previsto. Ma i sacrifici non mi pesarono... almeno per un certo periodo. Avevo sei o sette anni quando papà cominciò a parlarmi di monete, trattandomi come un suo pari. Da bambino io mi beavo di quelle attenzioni, assorbendo tutte le informazioni che mi forniva. Dopo un po' ero in grado di dire quanti Saint-Gaudens doublé eagle fossero stati coniati nel 1927 rispetto al 1924 e perché un Barber Dime del 1895 battuto a New Orleans valesse dieci volte la medesima moneta coniata nello stesso anno a Filadelfia. Sono cose che non ho mai dimenticato. Ma a differenza di mio padre, in me la passione per il collezionismo si spense a poco a poco. Dopo aver passato per anni i fine settimana assieme a lui, volevo uscire con gli amici. Come tutti gli adolescenti iniziai a nutrire altri interessi: per gli sport, le ragazze, le automobili e la musica, e arrivato a quattordici anni trascorrevo ben poco tempo a casa. Anche il mio risentimento intanto cresceva. Gradualmente cominciai a notare le diversità tra il mio modo di vivere e quello dei miei coetanei. Mentre gli altri avevano i soldi per andare al cinema o comperarsi un paio di occhiali da sole alla moda, io raggranellavo degli spiccioli per prendere un hamburger da McDonald's. Molti di loro ricevettero in regalo un'auto per i sedici anni; mio padre mi diede invece un dollaro d'argento Morgan del 1883 coniato a Carson City. Nascondevamo con una coperta gli strappi nella fodera consunta del divano ed eravamo l'unica famiglia a non avere la televisione via cavo né un forno a microonde. Quando si ruppe il frigorifero, papà ne acquistò uno di seconda mano di un orripilante verde, che non c'entrava niente con la nostra cucina. Io mi vergognavo a invitare gli amici a casa, e incolpavo lui di questo. So che il mio era un atteggiamento meschino -se fossi stato tanto preoccupato per il denaro, avrei potuto fare qualche lavoretto per procurarmelo - ma così era. Ero cieco e sordo, e anche se vi dicessi che rimpiango la mia immaturità di allora, non servirebbe a cambiare il passato. Papà si rendeva conto che non comunicavamo più, ma non aveva idea di come rimediare. Ci provò nell'unico modo che conoscesse, quello che aveva imparato da suo padre. Parlava di monete - era il solo argomento che affrontasse con disinvoltura - e continuava a prepararmi da mangiare, ma il nostro distacco non fece che aumentare. Nel frattempo mi allontanai pure dagli amici di sempre. Si erano divisi in gruppetti, principalmente sulla base dei film che sarebbero andati a vedere o della marca di magliette preferita, e io mi sentivo un emarginato. Al diavolo, pensai. Alle superiori c'è sempre spazio per tutti, e così mi misi a frequentare le persone sbagliate, quelle che non davano importanza a niente di niente e che mi portarono a fregarmene di tutto. Cominciai a saltare le lezioni e a fumare, e fui sospeso più volte perché avevo fatto a pugni. Alla fine del secondo anno smisi di praticare gli sport. Fino a quel momento avevo giocato a football, a basket e avevo gareggiato nella corsa, ma anche quando mio padre la sera mi chiedeva di raccontargli com'era andata, si capiva che non era veramente interessato, poiché non se ne intendeva per nulla. Non aveva mai fatto parte di nessuna squadra. In quel periodo venne a vedermi giocare a basket una volta sola. Era seduto nelle gradinate, una strana figura pelata, con la giacca lisa e i calzini spaiati. Pur non essendo obeso, i calzoni gli tiravano in vita facendolo sembrare incinto di tre mesi e io non avrei voluto avere niente a che fare con lui. La sua vista mi imbarazzava e, dopo la partita, lo evitai. Nell'ultimo anno di scuola la mia ribellione raggiunse l'apice. Il mio rendimento era andato via via peggiorando, più per pigrizia e distrazione che per mancanza di intelligenza (almeno così mi piace pensare) e più di una volta papà mi aveva scoperto a rincasare di nascosto a notte fonda con l'alito che puzzava di alcol. Quando la polizia mi riaccompagnò a casa dopo avermi beccato a una festa dove giravano droga e alcolici, lui per punizione mi vietò di uscire la sera e io mi trasferii per un paio di settimane da un amico, dopo avergli risposto in malo modo. Al mio ritorno fece finta di niente; il mattino seguente la tavola era apparecchiata con uova strapazzate, pane tostato e bacon, come al solito. Fui promosso per il rotto della cuffia e ho il sospetto che la scuola mi avesse dato il diploma perché non vedeva l'ora di sbarazzarsi di me. Papà era preoccupato e a volte, con la sua tipica timidezza, affrontava la questione dell'università, ma io ormai avevo deciso di non andarci. Volevo un lavoro, una macchina e tutti quei beni materiali di cui avevo fatto a meno per diciotto anni. Non gli dissi niente fino all'estate dopo la maturità, e quando seppe che non avevo ancora fatto domanda per nessuna università, si chiuse a chiave nello studio e la mattina dopo a colazione non mi rivolse la parola. Più tardi quella sera tentò di coinvolgermi nell'ennesima conversazione sulle monete, come per recuperare l'affiatamento perduto. «Ti ricordi di quella volta che andammo ad Atlanta e tu riuscisti a trovare il Buffalo Nickel che stavamo cercando da anni?» esordì. «Quello della foto? Non mi dimenticherò mai quanto eri entusiasta. Mi facevi pensare a me con mio padre.» Scossi la testa, frustrato. «Non ne posso più di sentire parlare di monete!» gli gridai. «Basta! Dovresti vendere quella maledetta collezione e dedicarti a qualcos'altro. Qualsiasi altra cosa.» Non rispose, ma ancora oggi non ho dimenticato la sua espressione addolorata quando si voltò e si trascinò di nuovo mestamente nello studio. Lo avevo ferito e, sebbene mi ripetessi che non era stata mia intenzione, in fondo sapevo che era una bugia. Papà non accennò più alla sua collezione. Né lo feci io. Tra di noi si spalancò un baratro incolmabile che ci lasciò senza un argomento in comune. Pochi giorni dopo mi resi conto che anche l'unica nostra fotografia era sparita, come se temesse che persino il minimo accenno alle monete potesse offendermi. All'epoca, forse, sarebbe stato così, e l'eventualità che lui potesse averla buttata via non mi turbò affatto. Da ragazzo non avevo mai neppure preso in considerazione l'idea di arruolarmi. Sebbene il North Carolina orientale sia una delle zone a più elevata concentrazione militare di tutto il paese - ci sono sette basi a poca distanza da Wilmington - avevo sempre pensato che quella fosse una carriera per perdenti. Chi poteva desiderare di trascorrere la vita a farsi dare ordini da un branco di esaltati con i capelli a spazzola? Io no di certo e, a parte i tizi del programma militare scolastico, neppure i miei compagni di scuola. Molti degli studenti migliori si iscrissero alla University of North Carolina o alla North Carolina State, mentre gli altri rimasero indietro, passando da un lavoro all'altro, bevendo birra e bighellonando in giro, e facendo di tutto per evitare qualunque cosa implicasse un briciolo di responsabilità. Io appartenevo a questa seconda categoria. Nei due anni successivi feci un sacco di lavoretti, servendo ai tavoli della Outback Steakhouse, strappando biglietti nel cinema locale, caricando e scaricando scatoloni da Staples, cuocendo dolci alla Waffle House e facendo il commesso in un paio di negozi per turisti che vendevano souvenir. Spendevo fino all'ultimo centesimo, non mi illudevo di poter salire la scala gerarchica e finivo per farmi licenziare da tutti i posti. Per un po' non ci badai. Vivevo la mia vita, mi piaceva fare surf e dormire fino a tardi, e siccome abitavo ancora con mio padre, non dovevo preoccuparmi di pagare vitto, alloggio, assicurazioni o di costruirmi un futuro. E poi nessuno dei miei amici se la passava meglio. Non ricordo di essere stato particolarmente infelice, ma dopo un po' cominciai a stancarmi della situazione. A parte il surf- nel 1996 gli uragani Bertha e Fran che si abbatterono sulla costa provocarono alcune tra le onde migliori a memoria d'uomo - ero stufo di trascorrere il mio tempo libero da Leroy's. Mi rendevo conto che tutte le serate erano identiche. Bevevo un paio di birre, incontravo qualche conoscenza del liceo, mi chiedevano che cosa facessi, io rispondevo, loro mi raccontavano cosa stavano combinando, e non ci voleva un genio per capire che eravamo a bordo dell'espresso per il nulla. Anche se gli altri, a differenza di me, non abitavano più con i genitori, non credevo a una parola quando sostenevano di essere soddisfatti del loro lavoro come spazzini, o pulitori di vetri, o fattorini, perché sapevo benissimo che nessuna di quelle era l'occupazione che sognavano da ragazzi. Sarò stato svogliato a scuola, ma non ero stupido. Durante quel periodo uscii con decine di ragazze. Da Leroy's non mancavano mai. In genere erano rapporti fugaci. Usavo le donne e mi lasciavo usare da loro, tenendo sempre ben nascosti i miei sentimenti. L'unica relazione che durò più di qualche mese fu con Lucy e per un breve periodo, prima dell'inevitabile separazione, credetti di essermi innamorato. Studiava alla University of North Carolina, aveva un anno più di me e dopo la laurea voleva andare a lavorare a New York. «Io ti voglio bene», mi disse l'ultima notte che passammo insieme, «però siamo troppo diversi. Potresti fare molto di più nella tua vita, ma per qualche motivo ti accontenti di galleggiare.» Esitò prima di continuare. «E soprattutto, non capisco che cosa provi veramente per me.» Sapevo che aveva ragione. Non le avevo mai detto quanto ci tenessi a lei. Poco tempo dopo partì senza nemmeno salutarmi. Un anno più tardi, dopo essermi fatto dare il suo numero di telefono dai genitori, la chiamai e parlammo un po'. Era fidanzata con un avvocato, mi spiegò, e si sarebbe sposata nel giugno seguente. Rimasi colpito da quella telefonata più di quanto volessi ammettere. Avvenne il giorno in cui ero stato licenziato - per l'ennesima volta - e per consolarmi me ne andai da Leroy's, come sempre. C'era la solita gente e di colpo compresi che non volevo passare un'altra serata inutile fingendo che andasse tutto bene. Mi comperai una confezione da sei lattine di birra e scesi in spiaggia. Per la prima volta mi misi a riflettere seriamente sul mio futuro e mi chiesi se fosse il caso di seguire il consiglio di papà e di prendere una laurea. Tuttavia, avevo abbandonato gli studi da tanto di quel tempo che l'idea mi appariva estranea e ridicola. Chiamatela fortuna o sfortuna, ma proprio in quel momento mi passarono davanti due marines che correvano. Giovani e atletici, sprigionavano sicurezza e determinazione. Se ci riescono loro, mi dissi, posso farlo anch'io. Ci rimuginai sopra per un paio di giorni e alla fine mio padre ebbe un ruolo decisivo. Naturalmente non gli parlai della mia intenzione... ormai non ci parlavamo più del tutto. Una notte, mentre mi dirigevo in cucina, lo vidi seduto alla sua scrivania come al solito. Quella volta, tuttavia, mi soffermai a esaminarlo bene. Era quasi completamente calvo e i pochi capelli che gli rimanevano sulle tempie erano ormai bianchi. Si stava avvicinando alla pensione e all'improvviso mi resi conto che non avevo il diritto di continuare a deluderlo dopo tutto quello che aveva fatto per me. Così mi arruolai. Il mio primo pensiero fu di entrare nei marines, visto che erano il corpo con cui avevo maggiore familiarità. Wrightsville Beach era sempre gremita di soldati delle basi di Camp Lejeune o Cherry Point, ma quando fu il momento scelsi l'esercito. Un fucile me l'avrebbero dato in ogni caso, pensai, anche se l'elemento determinante fu che il reclutatore dei marines era a pranzo quando passai in caserma, mentre quello dell'esercito - il cui ufficio era proprio sull'altro lato della strada - era disponibile. Al dunque, la decisione fu alquanto casuale; a ogni modo firmai sulla linea tratteggiata per la ferma di quattro anni e, quando il reclutatore mi diede una pacca sulle spalle e si congratulò per la mia scelta, mi chiesi in che guaio mi fossi cacciato. Era la fine del 1997 e avevo vent'anni. Il campo di addestramento a Fort Benning fu terribile come immaginavo. Tutto lì sembrava pensato apposta per umiliarci e farci il lavaggio del cervello in modo che arrivassimo a eseguire gli ordini senza discutere, anche se erano assurdi, ma io mi adattai molto più in fretta di tante altre reclute. Una volta superato l'addestramento, optai per la fanteria. Trascorremmo i mesi successivi a fare molte simulazioni in posti come la Louisiana e il buon vecchio Fort Bragg, dove imparammo sostanzialmente qual è il modo migliore per ammazzare la gente e distruggere le cose, e dopo un po' la mia unità, che faceva parte della Prima Divisione Fanteria - alias il Grande Uno Rosso - fu spedita in Germania. Non sapevo una parola di tedesco, ma era irrilevante, visto che quasi tutte le persone con cui avevo a che fare parlavano inglese. All'inizio fu facile, poi cominciò la vita militare. Trascorsi sette luridi mesi nei Balcani: prima in Macedonia nel 1999, poi nel Kosovo, dove rimasi fino alla tarda primavera del 2000. L'esercito non paga molto bene ma, considerando che non avevo spese di mantenimento, e nessuna occasione di fare acquisti o di divertimento, per la prima volta mi ritrovai con un po' di denaro in banca. Trascorsi la mia prima licenza a casa, tediandomi a morte. Per la seconda scelsi Las Vegas. Uno dei miei compagni era cresciuto lì e così piombammo in tre dai suoi genitori. Bruciai in un colpo solo quasi tutti i risparmi. Alla terza licenza, dopo essere rientrato dal Kosovo, avevo disperato bisogno di una pausa e decisi di andare a trovare mio padre, nella speranza che la noia della visita mi calmasse la mente. A causa della distanza ci telefonavamo di rado, ma lui mi scriveva lettere che spediva regolarmente il primo del mese. Non erano come quelle che i miei compagni ricevevano da madri, sorelle o mogli. Mai niente di troppo personale, né lacrimevole, mai una parola che lasciasse trasparire la sua nostalgia per me. Non parlava nemmeno di monete. Scriveva dei cambiamenti nel quartiere, si dilungava sul tempo e quando gli raccontai della violenta sparatoria in cui ero rimasto coinvolto nei Balcani, mi rispose che era contento che io fossi sopravvissuto, ma nient'altro. Allora compresi che non voleva saperne troppo dei pericoli che correvo. Il fatto che rischiassi la vita lo spaventava, così cominciai a omettere i dettagli più inquietanti. Mi limitavo a riferire che i turni di guardia erano il lavoro più noioso del mondo e che la cosa più eccitante che mi fosse capitata in quelle settimane era stato cercare di indovinare quante sigarette si sarebbe fumato il mio compagno in una sera. Mio padre concludeva ogni volta con la promessa di scrivermi di nuovo presto. E, come sempre, non mi deludeva. Ormai da tempo mi sono persuaso che fosse un uomo migliore di quanto potrò mai diventare io. Comunque, ero maturato negli ultimi tre anni. Sì, lo so, sono un cliché vivente: entrato ragazzo, uscito uomo. Ma l'esercito ti costringe a maturare, specialmente in fanteria. Ti viene affidato un equipaggiamento che costa una fortuna, gli altri contano su di te e, se sbagli, il castigo è ben più grave dell'andare a letto senza cena. Certo, ci sono troppe scartoffie, tanta noia e tutti fumano, non riescono a finire una frase senza imprecare e hanno scatoloni pieni di riviste porno sotto il letto, e poi devi ubbidire a ufficiali riservisti freschi di laurea convinti che le reclute come te abbiano il QI dell'uomo di Neanderthal, ma sei obbligato a imparare la lezione più importante per crescere, ovvero che devi essere sempre all'altezza delle tue responsabilità. Quando ricevi un ordine, non puoi rifiutarti di eseguirlo. Non esagero se dico che ci sono in ballo delle vite umane. Un'esitazione, un errore e il tuo compagno può morire. È proprio questo che fa funzionare l'esercito. A volte la gente si chiede com'è possibile che i militari rischino la vita giorno dopo giorno combattendo per qualcosa in cui magari non credono neppure. In realtà, ho conosciuto soldati di ogni idea politica, alcuni che odiavano il loro mestiere e altri che volevano diventare ufficiali di carriera. Ho incontrato geni e imbecilli, ma alla fine dei conti noi facciamo quello che facciamo l'uno per l'altro. Per amicizia. Non per patriottismo, né perché siamo macchine programmate per uccidere, ma per il compagno che ti sta accanto. Combatti per il tuo amico, per salvargli la vita, e lui combatte per te, e tutto si basa su questa semplice premessa. Come ho detto, tuttavia, ero cambiato. Quando entrai nell'esercito ero un fumatore incallito e durante l'addestramento rischiai di sputare fuori un polmone a forza di tossire, ma poi, a differenza del resto della mia unità, avevo smesso ed erano due anni che non accendevo una sigaretta. Avevo ridotto anche il bere, tanto che un paio di birre a settimana mi erano sufficienti e riuscivo a far passare anche un mese senza toccare alcol. La mia valutazione era impeccabile. Ero stato promosso da soldato semplice a caporale e, sei mesi dopo, a sergente, e avevo scoperto di possedere un'attitudine al comando. Avevo guidato gli uomini in battaglia e la mia squadra fu coinvolta nell'arresto di uno dei più famigerati criminali di guerra dei Balcani. Il mio comandante mi segnalò per la scuola allievi ufficiali, ma a volte ciò significa un lavoro sedentario e ancora più scartoffie, e io non ero sicuro di volerlo. Prima di arruolarmi, a parte il surf, non praticavo più nessuno sport; all'epoca della mia terza licenza avevo messo su dieci chili di muscoli ed eliminato la pancetta. Trascorrevo il mio tempo libero a correre, fare pugilato e sollevamento pesi con Tony, un istruttore di New York che parlava gridando, sosteneva che la tequila fosse un afrodisiaco ed era in assoluto il mio migliore amico. Mi convinse a farmi tatuare le braccia, come lui, e con il passare dei giorni il ricordo di ciò che io ero stato divenne sempre più lontano. Leggevo anche parecchio. In caserma ci scambiavamo i libri tra di noi, oppure li prendevamo in prestito dalla biblioteca del reparto finché le copertine cadevano praticamente a pezzi. Certo, nel mio caso non si trattava di Chaucer, né di Proust o Dostoevskij, o di qualche altro classico; mi piacevano soprattutto i gialli e i romanzi di Stephen King. Mi appassionai in modo particolare a Cari Hiaasen, perché aveva uno stile fluido e divertente. Pensavo che se autori del genere fossero inseriti nei programmi scolastici, ci sarebbero molti più lettori al mondo. Diversamente dai miei compagni, in genere evitavo la compagnia femminile. Buffo, vero? Nel fiore degli anni, testosterone al massimo, che cosa poteva esserci di più naturale del cercare un po' di svago con l'aiuto di una femmina? Ma non faceva per me. Anche se, durante la permanenza a Wùrzburg, alcuni tizi che conoscevo uscivano o si erano addirittura sposati con ragazze del luogo, ero convinto che quelle storie funzionassero di rado. La vita militare aveva un effetto negativo sulle relazioni sentimentali - avevo visto abbastanza divorzi da saperlo - e sebbene non mi sarebbe spiaciuto incontrare una persona speciale, non successe mai. Tony non riusciva a capacitarsene. «Devi darti una mossa», mi esortava. «Dai, vieni con noi. » «Non mi va.» «Com'è possibile? Sabine giura che la sua amica è fantastica. Alta, bionda, e adora la tequila.» «Portaci Don. Sono sicuro che ne sarebbe entusiasta.» «Castelow? Niente da fare. Sabine non lo sopporta.» Rimasi in silenzio. «Ci divertiremo, vedrai.» Scossi il capo, pensando che preferivo restare solo piuttosto che tornare a essere quello di un tempo, ma intanto mi domandavo se avrei finito per condurre una vita monastica come papà. Sapendo che era inutile cercare di farmi cambiare idea, Tony non nascose la sua disapprovazione mentre usciva dalla stanza. «A volte proprio non ti capisco», dichiarò. Mio padre venne a prendermi all'aeroporto. In un primo momento non mi riconobbe, e sussultò quando gli battei un dito sulla spalla. Sembrava più piccolo di come me lo ricordassi. Invece di abbracciarmi, mi porse la mano e mi chiese com'era andato il viaggio, poi non trovammo altro da dire e uscimmo in silenzio. Mi sentivo strano, disorientato e provavo un certo nervosismo come l'ultima volta che ero stato lì in licenza. Giunti nel parcheggio, gettai la mia borsa nel portabagagli della vecchia Ford Escort nera e scorsi sul vetro posteriore un adesivo con la scritta sosteniamo le nostre truppe. Non sapevo che cosa significasse esattamente per papà, ma fui comunque contento di vederlo. Arrivati a casa, mi sistemai nella mia vecchia camera da letto. Era rimasto tutto identico, dai polverosi trofei sportivi allineati sulla mensola alla bottiglia mezza vuota di Wild Turkey nascosta in fondo al cassetto della biancheria. Lo stesso valeva per le altre stanze. C'erano ancora la vecchia coperta sul divano, il vergognoso frigorifero verde, il televisore che prendeva solo quattro canali, e pure male. Papà cucinò la pasta: il venerdì c'erano sempre spaghetti. A cena provammo a parlare. «Sono contento di essere tornato», esordii. Lui fece un breve sorriso. «Bene», rispose. Prese un sorso di latte. A cena lo bevevamo sempre. Poi si concentrò sul cibo. «Ti ricordi di Tony?» buttai lì. «Mi sembra di avertene parlato nelle mie lettere. Be', senti questa: crede di essere innamorato. Lei si chiama Sabine e ha una figlia di sei anni. Io ho cercato di avvertirlo che la sua potrebbe non essere una buona idea, ma lui non vuole ascoltarmi.» Papà cosparse la pasta di parmigiano grattugiato, distribuendolo equamente dappertutto. «Oh», disse. «Capisco. » A quel punto iniziai a mangiare in silenzio. Bevvi un sorso di latte. Buttai giù qualche boccone. L'orologio sul muro ticchettava regolare. «Scommetto che sei esaltato all'idea di andare in pensione quest'anno», riprovai. «Pensa, finalmente potrai prenderti una vacanza, vedere il mondo.» Stavo per aggiungere che sarebbe potuto venire a trovarmi in Germania, ma all'ultimo istante mi trattenni. Sapevo che non l'avrebbe fatto, e non volevo metterlo a disagio. Arrotolammo gli spaghetti sulle forchette, mentre lui sembrava riflettere su come rispondere. «Non saprei», disse alla fine. Rinunciai del tutto alla conversazione e da quel momento l'unico rumore fu il tintinnio delle posate sui piatti. Dopo cena ci ritirammo ciascuno nella propria stanza. Stanco per il viaggio, mi misi a letto e mi addormentai, svegliandomi ogni ora come mi succedeva alla base. Il mattino seguente, quando mi alzai, mio padre era già uscito per andare al lavoro. Feci colazione, lessi il giornale, provai a mettermi in contatto con un amico senza riuscirci, poi tirai fuori dal garage la tavola da surf e raggiunsi la spiaggia. Il mare non era molto mosso, ma non aveva importanza. Erano anni che non salivo più su una tavola e all'inizio mi sentivo arrugginito, anche se dopo un po' persino quelle piccole scivolate sulle onde mi fecero rimpiangere di non essere stato destinato a una base vicino all'oceano. Erano i primi giorni di giugno del 2000, faceva già caldo e il contatto con l'acqua era rinfrescante. Dal mio punto di osservazione in mezzo al mare vidi della gente sulla riva che entrava con i bagagli nelle case appena dietro le dune. Come ho detto, Wrightsville Beach era frequentata da famiglie che le affittavano per le vacanze, ma a volte c'erano anche universitari di Chapel Hill o Raleigh. Notai alcune studentesse che stavano prendendo il sole in bikini sulla veranda di una costruzione nei pressi del molo. Le osservai per qualche minuto, apprezzando il panorama, poi presi un'altra onda e trascorsi il resto del pomeriggio perso nel mio piccolo mondo. Mi venne la tentazione di fare un salto da Leroy's, ma mi dissi che di sicuro lì non era cambiato niente e nessuno, a parte me. Allora comperai una birra al negozio all'angolo e andai a sedermi sul molo per godermi il tramonto. La maggior parte dei pescatori aveva già sgomberato le barche e i pochi rimasti stavano pulendo il pesce gettando gli scarti nell'acqua. A poco a poco il colore dell'oceano passò dal grigio ferro all'arancione e poi al giallo. Al di là del molo, guardavo i pellicani avanzare tra le onde sul dorso dei delfini. Sapevo che quella notte ci sarebbe stata la luna piena... la mia esperienza al campo mi rendeva quasi istintiva quella constatazione. Non pensavo a niente in particolare e lasciavo vagare la mente. Credetemi, l'idea di incontrare una ragazza in quel momento non mi sfiorava neppure la mente. Fu allora che la vidi incamminarsi lungo il molo. Anzi, per la precisione erano due ragazze. Una alta e bionda, l'altra una brunetta carina, entrambe poco più giovani di me. Quasi sicuramente studentesse universitarie. Indossavano short e reggiseno del costume, e la brunetta aveva una di quelle grandi borse a rete che si portano in spiaggia. Le sentivo ridere e parlare con la spensieratezza tipica di chi è in vacanza. «Ciao», le salutai quando furono vicine. Un approccio non troppo originale, e non posso dire che mi aspettassi di essere ricambiato. La bionda confermò la previsione. Lanciò un'occhiata fugace alla tavola da surf e alla mia birra, poi distolse lo sguardo. La brunetta, invece, mi sorprese. «Ciao, straniero», rispose con un sorriso. Poi indicò la tavola. «Scommetto che le onde oggi erano magnifiche.» Quell'osservazione mi colse impreparato; c'era un'inattesa gentilezza nelle sue parole. Lei e la sua amica continuarono a camminare fino all'estremità del molo e io le guardai mentre si sporgevano dalla balaustra. Incerto se raggiungerle o meno, decisi di restare dov'ero. Non erano il mio tipo, o meglio, probabilmente io non ero il loro. Bevvi una lunga sorsata di birra cercando di non pensarci. Per quanto mi sforzassi, tuttavia, non riuscivo a evitare che il mio sguardo fosse attratto dalla brunetta. Cercai di non ascoltare quello che si dicevano, ma la bionda aveva una di quelle voci impossibili da ignorare. Non la smetteva più di parlare di un certo Brad, di quanto lo amasse, di come il suo gruppo di studentesse fosse il migliore dell'università, e della magnifica festa di fine anno che avevano organizzato e del fatto che molte sue amiche frequentassero ragazzi impossibili... una di loro era rimasta addirittura incinta, ma era colpa sua, dato che era stata messa in guardia su quel tipo. La brunetta non parlava molto -non si capiva se fosse divertita o annoiata da quella conversazione - e si limitava a ridere di tanto in tanto. Di nuovo colsi una nota amichevole e comprensiva nella sua voce, che mi sembrava familiare, il che era semplicemente assurdo. A un certo punto notai che aveva appoggiato la borsa sulla balaustra. Erano lì da una decina di minuti quando due ragazzi cominciarono a risalire il molo. Indossavano bermuda e Lacoste, uno rosa e l'altro arancio. Il mio primo pensiero fu che uno di loro doveva essere quel Brad a cui aveva accennato la bionda. Tenevano in mano delle birre e si fecero furtivi mentre si avvicinavano alle compagne, come se volessero coglierle di sorpresa. Infatti, giunti in fondo balzarono sulle ragazze con un grido; loro strillarono e gli rifilarono delle manate sulle spalle. I due protestarono e Lacoste rosa si versò la birra sulla maglietta. Poi si appoggiò alla balaustra, accanto alla borsa, le gambe accavallate, le braccia dietro la schiena. «Ehi, tra poco accenderemo il falò», annunciò Lacoste arancio, abbracciando la bionda e baciandola sul collo. «Voi siete pronte?» «Sei pronta?» chiese a sua volta lei rivolta all'amica. «Certo», rispose la brunetta. Lacoste rosa si staccò dalla balaustra, ma inavvertitamente diede una botta alla borsa, che scivolò oltre il bordo e finì in acqua con un tonfo. «Che cos'è stato?» chiese, stupito. «La mia borsa!» esclamò la brunetta. «L'hai fatta cadere in mare. » «Scusami», rispose lui senza mostrare particolare rimorso. «C'era dentro il portafoglio!» Il ragazzo si accigliò. «Ho detto che mi dispiace.» «Bisogna recuperarla prima che vada a fondo!» I due giovani sembravano paralizzati, e capii che non avevano nessuna intenzione di buttarsi in acqua. Tanto per cominciare, non l'avrebbero mai trovata e poi sarebbero dovuti tornare a riva a nuoto, il che era poco raccomandabile dopo aver bevuto come avevano fatto loro. Anche la brunetta doveva essere giunta alle mie stesse conclusioni, perché la vidi posare le mani sulla balaustra e alzarsi in punta di piedi. «Non essere stupida. Ormai è andata», dichiarò Lacoste rosa, cercando di fermarla. «È troppo pericoloso tuffarsi, potrebbero esserci degli squali. È solo un portafoglio. Te ne compero uno nuovo io.» «Ma mi serve! Ci sono dentro tutti i miei soldi!» La faccenda non mi riguardava, lo sapevo. Ma l'unica cosa che pensai mentre balzavo in piedi e correvo verso il fondo del molo fu: Oh, al diavolo... 2 Immagino di dover spiegare per quale ragione mi tuffai tra le onde per recuperare la borsa. Non perché volevo che lei mi considerasse un eroe, né per impressionarla con la mia prestanza fisica o perché mi preoccupassi dei soldi che aveva perso. Il mio gesto aveva piuttosto a che fare con la spontaneità del suo sorriso e il calore della sua risata. Già mentre mi buttavo, mi resi conto di quanto apparisse ridicola la mia reazione, ma ormai era troppo tardi. Colpii la superficie dell'acqua, andai sotto e riemersi. Quattro facce mi fissavano da sopra la balaustra. Lacoste rosa era decisamente stizzito. «Dov'è?» gridai nella loro direzione. «Da quella parte», mi indicò la brunetta. «Mi sembra di vederla ancora che sta andando a fondo...» Impiegai qualche istante a localizzare la borsa nella fioca luce del tramonto, mentre la corrente dell'oceano ci metteva del suo per farmi andare a sbattere contro il molo. La afferrai e poi cercai di tenerla a galla alla meno peggio. Le onde resero la nuotata verso riva meno difficile di quanto pensassi e di tanto in tanto alzavo la testa e vedevo i quattro che mi guardavano dal molo. Finalmente toccai il fondo e mi trascinai fuori. Mi scrollai l'acqua dai capelli, mi incamminai sulla sabbia e li raggiunsi a metà della spiaggia. Porsi la borsa alla brunetta. «Ecco qua.» «Grazie», rispose lei e, quando i nostri occhi si incontrarono, scattò qualcosa. Vi assicuro che non sono un romantico, e che pur avendo sentito parlare dell'amore a prima vista, non ci ho mai creduto. Ciononostante, in quel momento accadde qualcosa di innegabilmente vero, e io rimasi imbambolato a fissarla. Da vicino era ancora più bella, ma più che all'aspetto, ciò era legato al modo di essere. Al suo sorriso aperto che rivelava la fessura tra gli incisivi, al gesto casuale con cui si scostava dal volto una ciocca ribelle, al suo portamento disinvolto. «Non dovevi farlo», mi disse con una punta di ammirazione nella voce. «L'avrei recuperata io.» «Lo so», confermai annuendo. «Ho visto che ti preparavi a tuffarti.» Lei piegò la testa di lato. «Però hai provato l'incontrollabile impulso di soccorrere una dama in difficoltà?» «Qualcosa del genere.» Valutò per qualche istante la mia risposta, poi rivolse l'attenzione alla borsa. Cominciò a svuotarla: tolse il portafoglio, gli occhiali da sole e un tubetto di crema solare e li passò alla bionda. «Le tue foto si sono bagnate», osservò l'altra esaminando il contenuto del portafoglio. La brunetta non le diede retta, intenta a strizzare la borsa in un verso e nell'altro. Quando fu soddisfatta del risultato, la riempì di nuovo. «Grazie ancora», disse. Dal suo accento pensai che doveva essere cresciuta sulle montagne vicino a Boone, o nella zona al confine con il South Carolina. «Non c'è di che», borbottai senza accennare a muovermi. «Ehi, forse vuole una ricompensa», intervenne Lacoste rosa. La ragazza guardò prima lui poi me. «Vuoi una ricompensa?» «No», risposi agitando una mano. «L'ho fatto volentieri. » «Lo sapevo che la cavalleria non era morta», dichiarò lei senza ombra di ironia nella voce. Lacoste arancio mi squadrò per bene e notò il mio taglio a spazzola. «Sei un marine?» chiese, tornando ad abbracciare la bionda. «No, mi sono arruolato nell'esercito.» «Io sono Savannah», si presentò la brunetta. «Savannah Lynn Curtis. E questi sono Brad, Randy e Susan.» Mi porse la mano. «John Tyree», risposi. La sua mano era calda, vellutata in alcuni punti e ispessita in altri. In quel momento mi resi conto di quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che avevo toccato una donna. «Bene, sono in debito con te.» «Figurati, non ce n'è motivo.» «Hai mangiato?» mi chiese ignorando la mia risposta. «Stiamo preparando un barbecue, e c'è un sacco di cibo. Vuoi venire con noi?» Gli altri si scambiarono un'occhiata. Randy Lacoste rosa era evidentemente contrariato, il che mi fece sentire meglio. Ehi, forse vuole una ricompensa. Che idiota. «Sì, vieni con noi», ripetè Brad, tutt'altro che entusiasta. «Ci divertiremo. Abbiamo affittato la casa accanto al molo.» Indicò la costruzione sulla spiaggia dove cinque o sei persone erano sedute in veranda. Sebbene non avessi la minima voglia di passare il tempo con degli studenti universitari, Savannah mi sorrise con tanto calore da farmi uscire le parole di bocca prima che potessi fermarle. «D'accordo. Vado a recuperare la mia tavola e vi raggiungo tra un istante.» «Ci vediamo lì», intervenne Randy in tono petulante. Fece un passo verso Savannah, che lo ignorò. «Ti accompagno», mi disse lei, staccandosi dal gruppo. «È il minimo che possa fare.» Si mise la borsa a tracolla. «A dopo, ragazzi.» Ci avviammo insieme verso la duna e la scaletta che portava al molo. I suoi amici indugiarono qualche istante, poi si incamminarono lentamente lungo la spiaggia. Con la coda dell'occhio vidi la bionda girare la testa per guardare verso di noi oltre il braccio di Brad. Anche Randy si voltò, con aria torva. «Probabilmente Susan mi giudica pazza», osservò Savannah. «Perché?» «Per il fatto che li ho lasciati lì per seguirti. Pensa che Randy sia perfetto per me, e ha cercato di rifilarmelo da quando siamo arrivate, oggi pomeriggio. Lui non mi ha mollato un istante. » Annuii, non sapendo come rispondere. In lontananza, la luna, tonda e rossa, stava spuntando lentamente dall'oceano e vidi che anche Savannah la stava guardando. Le onde che si infrangevano sulla spiaggia creavano una miriade di scintille d'argento, quasi fossero illuminate dal flash di una macchina fotografica. Raggiungemmo il molo. La balaustra era rosa dalla sabbia e dalla salsedine, il legno stagionato cominciava a creparsi. I gradini scricchiolavano sotto il nostro peso. «Dove sei di stanza?» mi chiese. «In Germania. Sono in licenza per un paio di settimane, e sono tornato a casa a trovare mio padre. Tu vieni dalla zona delle montagne, invece, giusto?» Lei mi guardò sorpresa. «Da Lenoir.» Mi studiò per un po'. «Fammi indovinare, è per via del mio accento, vero? Parlo come una montanara, eh?» «Niente affatto.» «Ebbene, sono una campagnola. Sono cresciuta in un ranch e tutto il resto. E so di avere un accento marcato, anche se alcuni sostengono di trovarlo affascinante.» «Randy, per esempio.» L'avevo detto senza pensarci e, nel silenzio imbarazzato che seguì, lei si passò una mano tra i capelli. «Mi sembra un ragazzo simpatico», osservò dopo un po', «ma non lo conosco bene. In realtà non conosco quasi nessuno di quelli presenti stasera, a parte Susan.» Scacciò una zanzara. «E Tim. Più tardi te lo presenterò. È un tipo in gamba, ti piacerà.» «Siete tutti qui in vacanza per una settimana?» «Un mese... in realtà, però, non si tratta di una vera vacanza. Facciamo volontariato. Hai mai sentito parlare di Habitat for Humanity? Noi siamo venuti qui per dare una mano a costruire delle abitazioni. La mia famiglia ha sempre dato il suo contributo all'associazione.» Alle sue spalle, la casa si animò nell'oscurità. Si erano materializzati altri ragazzi, si sentiva la musica e di tanto in tanto giungeva fino a noi l'eco delle risate. Brad, Susan e Randy ora erano circondati da coetanei che bevevano birra e assomigliavano più a studenti intenzionati a divertirsi e a rimorchiare che a dei volontari. Lei doveva avere notato la mia espressione perplessa. «Cominceremo lunedì. Si accorgeranno presto che non è una passeggiata.» «Non ho detto niente...» «Non ce n'era bisogno. Ma hai ragione. Per molti di loro questa è la prima esperienza con Habitat, e lo fanno solo per avere qualcosa di diverso da mettere nel curriculum scolastico. Non hanno idea di quanto ci sia da sgobbare. Alla fine, però, l'importante è che le case vengano costruite, e così sarà.» «Lo hai già fatto?» «Tutte le estati, da quando avevo sedici anni. Prima collaboravo con la mia parrocchia, ma poi ho cominciato a frequentare Chapel Hill, e abbiamo formato un gruppo lì. Ecco, veramente è stato Tim a crearlo. Anche lui viene da Lenoir. Si è appena laureato e inizierà la specializzazione quest'autunno. Lo conosco da una vita. Abbiamo pensato di offrire agli studenti l'opportunità di compiere un'opera socialmente utile durante le vacanze estive. Ciascuno si paga la sua parte di affitto della casa e le spese, e non chiederemo niente in cambio del lavoro che svolgeremo. Per questo era importante che recuperassi la borsa. Altrimenti non avrei potuto comprarmi da mangiare. » «Sono sicuro che gli altri non ti avrebbero lasciato morire di fame.» «Lo so, ma non sarebbe stato giusto. Si stanno già impegnando, ed è più che abbastanza.» Sentivo i miei piedi scivolare sulla sabbia. «Perché a Wilmington?» chiesi. «Voglio dire, perché venire a costruire delle case proprio qui invece che a Lenoir o Raleigh?» «Per via del mare e della spiaggia. È piuttosto difficile coinvolgere gli studenti nel volontariato per un mese intero, ma se si sceglie un posto come questo tutto diventa più semplice. E così quest'anno si sono iscritti in trenta.» Annuii, consapevole della nostra vicinanza mentre camminavamo. «Anche tu hai già preso la laurea?» «No, sono all'ultimo anno. Mi laureerò in psicopedagogia, se era questa la domanda successiva.» «Infatti.» «Lo immaginavo. È quello che mi chiedono sempre.» «A me chiedono tutti se mi piace stare nell'esercito.» «Ti piace?» «Non so.» Scoppiò a ridere, ed era un suono così melodioso che desiderai subito ascoltarlo di nuovo. Eravamo arrivati a metà del molo, dove recuperai la mia tavola da surf. Gettai nel cestino la bottiglia di birra vuota e la sentii tintinnare sul fondo. Il cielo era punteggiato di stelle e le case lungo le dune mi facevano pensare a una serie di zucche illuminate dall'interno. «Posso domandarti che cosa ti ha spinto ad arruolarti? Dato che non sai se ti va di fare il soldato.» Mentre riflettevo sulla risposta, spostai la tavola sull'altro braccio. «Posso solo dire che, quando ho preso quella decisione, ne avevo bisogno.» Aspettò che aggiungessi qualcos'altro, ma vedendo che tacevo, annuì. «Scommetto che sei contento di essere tornato a casa per un po'», affermò. «Senza dubbio.» «E anche tuo padre ne è felice, giusto?» «Penso di sì.» «Ne sono certa. Secondo me, è molto orgoglioso di suo figlio.» Afferrai più saldamente la tavola. «Lo spero.» «Sembra che tu non ne sia sicuro.» «Dovresti vederlo per capire. Non è il tipo che parla molto.» La luce della luna si rifletteva nei suoi occhi scuri e la sua voce era morbida mentre diceva: «Forse tuo padre è una persona di poche parole, che esprime i propri sentimenti nei tuoi confronti in altri modi». Ci pensai su, augurandomi che fosse vero. All'improvviso udii un grido e mi girai a guardare il gruppetto di universitari in piedi accanto al falò. Uno teneva stretta per le spalle una ragazza spingendola in avanti; lei rideva e cercava di divincolarsi. Brad e Susan stavano abbracciati poco lontano, mentre Randy era sparito. «Davvero non conosci la maggior parte di quei ragazzi?» Savannah scosse la testa, agitando nell'aria i capelli. Poi si scostò una ciocca dal viso. «Alcuni li ho visti per la prima volta al momento dell'iscrizione. Anche se forse ci eravamo già incontrati da qualche parte al campus, e penso che molti si conoscano tra di loro, perché abitano insieme nelle case degli studenti, mentre io sto ancora in un dormitorio. Ma sono tutti bravi ragazzi.» Mentre parlava, ebbi l'impressione che fosse il genere di persona che non direbbe mai nulla di negativo su nessuno. Il suo genuino, istintivo rispetto per il prossimo mi colpì, ma stranamente non mi sorprese. Faceva parte di quell'indefinibile qualità che avevo percepito in lei fin dal principio, qualcosa che la rendeva diversa dagli altri. «Quanti anni hai?» le chiesi mentre ci avvicinavamo alla casa. «Ventuno. Li ho compiuti il mese scorso. E tu?» «Ventitré. Hai fratelli o sorelle?» «No. Sono figlia unica. I miei genitori vivono ancora a Lenoir e sono felicemente sposati da venticinque anni. Ora tocca a te.» «Anch'io sono figlio unico. Ma sono cresciuto solo con mio padre.» Sapevo che la mia risposta avrebbe portato a un ragguaglio sulla situazione di mia madre, ma, con mia sorpresa, ciò non avvenne. Savannah si limitò a domandare: «È stato lui a insegnarti a fare surf?» «No, ho imparato per conto mio da bambino.» «Sei molto abile. Ti guardavo prima. Lo fai sembrare una cosa così facile, persino aggraziata. Mi ha fatto venire voglia di imparare. » «Se vuoi, sarei ben lieto di insegnarti», mi offrii. «Non è poi tanto difficile. Verrò qui di nuovo domattina.» Lei si fermò e mi fissò negli occhi. «Senti, non fare promesse se non sei sicuro di poterle mantenere.» Mi prese sottobraccio, lasciandomi ammutolito, poi indicò il falò. «Sei pronto ad affrontare un po' di gente?» Io deglutii, la gola improvvisamente secca, la sensazione più strana che mi fosse mai capitato di provare. La casa era uno di quegli enormi mostri a tre piani con il garage al livello della strada e almeno sei o sette camere da letto. Tutt'intorno al primo piano correva una grande veranda, dove si vedeva una serie di asciugamani stesi sul parapetto e da cui giungeva contemporaneamente il suono di molte voci. C'era anche un barbecue acceso, e io sentivo il profumo di salsiccia e di pollo; davanti alla griglia, un tizio a torso nudo e con il grembiule si dava un ridicolo contegno da cuoco. Sulla spiaggia di fronte alla casa il falò ardeva in una buca circondata da sedie occupate da ragazze con magliette extralarge, le quali fingevano di non notare i coetanei che, in piedi alle loro spalle, si atteggiavano in pose plastiche per mettere in risalto i bicipiti e i pettorali, fingendo a loro volta di ignorare le compagne. Avevo visto spesso la stessa scena da Leroy's: istruiti o meno, i giovani sono tutti uguali. Quelli avevano vent'anni e l'aria fremeva di eccitazione. Non era difficile immaginare che cosa sarebbe successo più tardi, comunque io me ne sarei andato molto prima, decisi. Savannah mi indicò un punto sulla sabbia. «Che ne dici di metterci lì, vicino alla duna?» propose. «Ottimo.» Ci accomodammo davanti al fuoco. Qualche ragazza si voltò verso di noi, per studiare il nuovo venuto, ma poi riprese a chiacchierare con le altre. Dopo un po' Randy si avvicinò al falò con una birra in mano, ma alla nostra vista girò prontamente le spalle, sull'esempio delle ragazze. «Pollo o salsiccia?» mi chiese tranquillamente Savannah, come se non si fosse accorta di niente. «Pollo.» «Da bere?» La luce delle fiamme le dava un'aria misteriosa. «Va bene qualunque cosa, grazie.» «Torno subito.» Si diresse verso la scala d'accesso e io dovetti costringermi a non seguirla. Mi incamminai verso il fuoco, mi tolsi la maglietta e la misi ad asciugare su una sedia libera, poi tornai al nostro posto. Alzando gli occhi, vidi il ragazzo che si occupava del barbecue flirtare con Savannah, provai una grande agitazione, poi mi voltai dall'altra parte e cercai di darmi una calmata. In pratica non la conoscevo ancora, mi dissi, e poi ignoravo le sue intenzioni. Inoltre, non desideravo iniziare una storia che non potevo portare avanti. Sarei ripartito nel giro di due settimane, e allora niente avrebbe più avuto senso. Mi ripetevo queste cose, e credo che in parte mi fossi convinto a tornare a casa appena finito di mangiare, quando le mie riflessioni furono interrotte da qualcuno che si avvicinava. Alto e dinoccolato, con i capelli neri ma già stempiato, aveva l'aria di uno di quei tizi che sono sempre sembrati vecchi fin da piccoli. «Tu devi essere John», mi disse con un sorriso, accovacciandosi davanti a me. «Io sono Tim Wheddon.» Mi porse la mano. «Ho saputo quello che hai fatto per Savannah... lei ti è davvero riconoscente.» Gli strinsi la mano. «Piacere di conoscerti.» Nonostante la mia iniziale diffidenza, notai che il suo sorriso era più sincero di quello di Brad o di Randy. Inoltre, non accennò ai miei tatuaggi, il che era insolito, dato che mi coprivano buona parte delle braccia. Molti sostengono che in futuro mi pentirò di essermeli fatti fare, ma non mi importa. «Ti spiace se mi siedo?» mi chiese Tim. «Figurati.» Si accomodò al mio fianco, senza soffocarmi né starmi troppo distante. «Sono contento che tu sia qui con noi. Non possiamo offrirti niente di speciale, ma il cibo è buono. Hai fame?» «Una fame da lupi.» «È naturale, dopo una giornata di surf.» «Ci vai anche tu?» «No, ma il mare mi ha sempre fatto venire appetito. Fin da bambino. Tutte le estati noi andavamo a Pine Knoll Shores. Tu ci sei mai stato?» «Solo una volta. Avevo già qui quello che mi serviva.» «Già, capisco.» Indicò la mia tavola. «Ti piacciono le tavole lunghe?» «Mi piacciono di tutti i tipi, ma per queste onde sono più adatte le lunghe. Bisogna andare sul Pacifico per apprezzare in pieno quelle corte.» «Hai già provato a fare surf alle Hawaii, a Bali, in Nuova Zelanda o in posti del genere? Ho sentito dire che sono spettacolari.» «Non ancora», risposi, sorpreso di quanto fosse informato. «Chissà, forse un giorno.» Un ciocco si spezzò, spargendo scintille verso il cielo. Intrecciai le dita, sapendo che ora toccava a me. «Savannah mi ha detto che siete qui per costruire delle case per i poveri.» «Sì, in effetti questo sarebbe il progetto. Sono destinate a un paio di famiglie davvero bisognose, e speriamo che siano pronte per la fine di luglio. » «Quello che fai è molto nobile.» «Ehi, non ci sono soltanto io. Senti, volevo chiederti una cosa.» «Scommetto che vuoi sapere se mi interessa partecipare alla vostra impresa.» Lui rise. «No, niente del genere. Però è strano, sai... mi è già capitato altre volte. Quando la gente mi vede arrivare, di solito scappa dalla parte opposta. Evidentemente sono troppo prevedibile. Ma lasciamo stare. Volevo domandarti se per caso conoscevi mio cugino. E di stanza a Fort Bragg. » «No, mi spiace», risposi. «La mia base è in Germania.» «A Ramstein?» «No. Quella è la base dell'aeronautica. Ma la nostra è abbastanza vicina. Conosci la zona?» «L'anno scorso ho passato il Natale a Francoforte con la famiglia. I miei sono originari di lì e i nonni vivono ancora in quella città.» «Com'è piccolo il mondo.» «Hai imparato un po' di tedesco?» «Nemmeno una parola.» «Neanch'io. La cosa triste è che io l'ho sentito parlare fin da piccolo dai miei genitori e ho persino frequentato un corso prima di partire per la Germania. Ma era troppo difficile per me. Tutto quello che sono stato in grado di fare durante il pranzo di Natale era assentire, fingendo di capire quello che dicevano i parenti. Per fortuna che mio fratello era nelle mie stesse condizioni, così eravamo in due a sentirci degli idioti.» Mi misi a ridere. Aveva una faccia aperta, comunicativa e tutto sommato mi stava simpatico. «Vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?» mi chiese. «Ci ha già pensato Savannah.» «Avrei dovuto immaginarlo. Padrona di casa perfetta come al solito. È sempre stata così.» «Mi ha detto che siete cresciuti insieme.» Lui annuì. «Il ranch della sua famiglia confina con il nostro. Abbiamo frequentato le stesse scuole e la stessa parrocchia per anni, e adesso siamo iscritti alla stessa università. Per me, è come una sorella. È speciale.» Nonostante quella dichiarazione di affetto fraterno, il tono con cui pronunciò la parola «speciale» mi diede l'impressione che i suoi sentimenti fossero più profondi di quanto volesse ammettere. Ma a differenza di Randy, non sembrava affatto geloso per il fatto che lei mi avesse invitato. In quel momento Savannah comparve sulle scale e scese verso di noi. «Vedo che hai conosciuto Tim», affermò annuendo. Reggeva con una mano due piatti di pollo, patate in insalata e patatine fritte, e nell'altra teneva un paio di lattine di Diet Pepsi. «Sì, ero venuto qui a ringraziarlo per ciò che ha fatto», spiegò lui. «Poi ho deciso di annoiarlo con storie di famiglia.» «Bene. Sono contenta che vi siate presentati.» Mi guardò e, come il suo amico, non fece commenti vedendomi a torso nudo. «Vuoi che vada a prendere qualcosa anche per te, Tim?» chiese invece. «No, vado io», rispose l'altro. «Comunque, grazie. Vi lascio mangiare in pace.» Si scrollò la sabbia dai calzoncini. «Mi ha fatto piacere conoscerti, John. Se capiti nei paraggi domani o un altro giorno, sei sempre il benvenuto.» «Grazie, è stato un piacere anche per me.» Un attimo dopo Tim si avviò su per le scale senza voltarsi indietro. Lanciò un saluto a qualcuno e proseguì con andatura rapida. Savannah mi porse un piatto e una Pepsi, poi si mise seduta accanto a me. Abbastanza vicino, ma non tanto da toccarci. Appoggiò il suo piatto sulle gambe, e sollevò l'altra lattina. «Ho visto che prima bevevi birra, ma hai detto che ti andava bene qualunque cosa, perciò ti ho portato una di queste.» «La Pepsi è perfetta.» «Sicuro? C'è un sacco di birra in frigo, e conosco la fama di voi militari.» Sbuffai. «Non ne dubito», risposi, aprendo la bibita. «Deduco che tu non bevi alcol.» «Infatti.» Notai che non c'era arroganza o rimprovero nella sua voce. Era una semplice constatazione. Mangiammo in silenzio, e intanto io mi chiedevo se si rendesse conto dei veri sentimenti che Tim nutriva per lei. Mi domandai anche se fossero ricambiati. C'era evidentemente qualcosa che li univa, ma non riuscivo a capire la vera natura del loro legame. «Che cosa fai nell'esercito?» mi chiese Savannah, posando sul piatto la forchetta di plastica. «Sono sergente di fanteria. Squadra d'assalto.» «E ciò cosa comporta? Voglio dire, come occupi le giornate? Spari, fai esplodere bombe, o che altro?» «In realtà, in genere le giornate sono piuttosto noiose, specialmente alla base. Ci raduniamo al mattino, verso le sei, facciamo l'appello e poi ci dividiamo in gruppi e ci alleniamo. Basket, corsa, sollevamento pesi e così via. Ogni tanto c'è una lezione, magari di assemblaggio e riassemblaggio armi, o un'esercitazione notturna, oppure andiamo al poligono di tiro. Se non è prevista nessuna attività particolare, torniamo alle baracche e passiamo il tempo con i videogiochi o a leggere. Quindi ci raduniamo una seconda volta alle quattro del pomeriggio per conoscere il programma del giorno dopo. E stop.» «Videogiochi?» «Io faccio esercizio fisico e leggo, ma i miei compagni sono esperti di videogiochi. E più il gioco è violento, meglio è per loro.» «Che libri leggi?» Glielo dissi e lei ci pensò su. «E che cosa succede, invece, quando vieni mandato in una zona di guerra?» «In questo caso», affermai buttando giù l'ultimo boccone di pollo, «è diverso. Ci sono i turni di guardia e continua a rompersi tutto e bisogna aggiustarlo, perciò sei sempre impegnato, anche quando non sei fuori di pattuglia. La fanteria è un corpo di terra, così passiamo un sacco di tempo lontani dal campo.» «Hai mai avuto paura?» Cercai la risposta giusta. «Sì, a volte. Non è come essere terrorizzati da mattina a sera, anche se intorno a te c'è l'inferno. È solo... una reazione, che ti aiuta a fare di tutto per restare vivo. Le cose succedono talmente in fretta che non riesci a pensare ad altro che a obbedire agli ordini cercando di non lasciarci la pelle. In genere, solo quando è finita ne risenti. È in quel momento che ti rendi conto di averla scampata per un soffio, e allora ti prendono i brividi, oppure ti viene la nausea.» «Non credo che io potrei resistere.» Non si aspettava una replica da parte mia, così cambiai argomento. «Perché hai scelto proprio la facoltà di psicopedagogia?» le chiesi. «È una lunga storia. Sei sicuro di volerla sentire?» Al mio cenno di assenso, fece un lungo respiro. «A Lenoir vive un ragazzo che si chiama Alan e che io conosco da sempre. È autistico, e per molto tempo nessuno ha saputo come comportarsi né come entrare in contatto con lui. La cosa mi tormentava, capisci? Provavo tanta tristezza per quel bambino, fin da piccola. Quando chiedevo ai miei perché fosse così, mi rispondevano che forse il Signore aveva progetti speciali per lui. All'inizio la sua condizione mi sembrava disperata, ma Alan aveva un fratello maggiore che era molto paziente nei suoi confronti. In ogni momento. Non si arrabbiava mai, e a poco a poco riuscì ad aiutarlo. Non si può dire che oggi Alan sia perfettamente guarito - abita ancora con i genitori e non diventerà mai indipendente - ma non è più isolato come prima, e così ho semplicemente deciso che anch'io volevo essere in grado di aiutare quelli che hanno i suoi stessi problemi.» «Quanti anni avevi quando hai preso questa decisione?» «Dodici.» «E vuoi insegnare in una scuola speciale per bambini disabili?» «No», rispose. «Voglio fare come il fratello di Alan, che ha utilizzato i cavalli.» Fece una pausa per raccogliere le idee. «I bambini autistici... è come se fossero rinchiusi nel loro piccolo mondo, perciò in genere le metodologie di apprendimento e la terapia si basano sulla ripetizione. Io invece vorrei farli partecipare a esperienze piacevoli, che possano coinvolgerli sia dal punto di vista fisico sia emotivamente. Alan al principio era terrorizzato dai cavalli, ma suo fratello non ha desistito, e dopo un po' lui è riuscito ad accarezzarli o strofinargli il naso e in seguito persino a dargli da mangiare e ad accudirli. Poi ha imparato a cavalcare, e mi ricordo la sua espressione la prima volta che salì in sella... era incredibile, sai? Sorrideva, felice come solo un bambino può essere. E questo che vorrei che loro provassero. La felicità... anche se soltanto per qualche istante. È stato allora che ho capito cosa mi interessava fare da grande. Forse aprirò un maneggio per bambini autistici, dove si potrà svolgere un buon lavoro terapeutico assieme a loro.» Come se fosse in preda all'imbarazzo, mise da parte il piatto e si alzò. «Mi sembra fantastico.» «Vedremo se il mio progetto si avvererà», disse, tornando a sedersi. «Per adesso è solamente un sogno.» «Presumo che ti piacciano i cavalli, giusto?» «Tutte le ragazze li adorano. Non lo sapevi? Be', io di sicuro. Ho un arabo, che si chiama Midas, e in certi momenti rimpiango di dover stare qui mentre muoio dalla voglia di andare in giro per i boschi con lui.» «Ecco che la verità viene a galla.» «È inevitabile, comunque ho intenzione di rimanere. Al mio ritorno cavalcherò tutti i giorni. Tu vai a cavallo?» «Ci ho provato una volta.» «E come è andata?» «Il giorno dopo ero tutto indolenzito, non riuscivo nemmeno a camminare.» Ridacchiò e io mi resi conto che era bello parlare con lei. Era semplice e spontaneo, a differenza che con tante altre persone. In alto nel cielo vedevo la Cintura di Orione, mentre appena al di sopra la linea dell'orizzonte sull'oceano Venere brillava di luce bianca. Ragazzi e ragazze continuavano a fare su e giù dalla scala, resi più spregiudicati dalla birra. Sospirai. «Adesso sarà meglio che vada, devo tornare da mio padre. Probabilmente si starà chiedendo dove diavolo sono finito. Sempre ammesso che sia ancora sveglio.» «Vuoi chiamarlo? Puoi usare il telefono.» «No, preferisco avviarmi. E una lunga camminata.» «Non sei in macchina?» «No, stamattina sono arrivato qui facendo autostop.» «Vuoi che chieda a Tim di darti un passaggio? Sono sicura che per lui non sarà un problema.» «No, davvero, ti ringrazio.» «Non essere ridicolo. Hai detto che è una lunga camminata, giusto? Aspetta qui un attimo.» Corse via prima che potessi fermarla, e poco dopo tornò seguita dal suo amico. «Tim è felice di accompagnarti», mi disse con aria compiaciuta. Mi voltai verso di lui. «Davvero non ti dispiace?» «Per niente», mi assicurò Tim. «Il mio furgone è davanti alla casa. Puoi caricare sul retro la tavola da surf.» La indicò. «Ti serve una mano?» «No», risposi alzandomi. «Ce la faccio da solo.» Mi rimisi la maglietta e presi la tavola. «A proposito, grazie.» «Figurati», rispose. Si tastò la tasca. «Vado a prendere le chiavi. E quello verde parcheggiato sul prato. Ci vediamo lì.» Quando si fu allontanato, mi voltai verso Savannah. «È stato un piacere incontrarti.» Lei sostenne il mio sguardo. «Anche per me. Non ero mai stata in compagnia di un soldato prima d'ora. Mi sono sentita... protetta. Non credo che Randy mi darà più fastidio, stasera. I tuoi tatuaggi devono averlo spaventato.» Così, li aveva notati. «Magari ci vedremo ancora.» «Sai dove trovarmi.» Non ero sicuro se interpretarlo come un invito. Per molti versi, lei continuava a essere un mistero per me. Ma del resto la conoscevo appena. «Però sono un po' delusa che tu ti sia già dimenticato», aggiunse, quasi ripensandoci. «Di cosa?» «Non avevi detto che mi avresti insegnato a fare surf?» Tim non diede segno di aver intuito l'effetto che mi aveva fatto Savannah, né di sapere che sarei tornato l'indomani. Guidava concentrato, per essere sicuro di andare nella direzione giusta. Era il genere di automobilista che si ferma anche con il semaforo giallo. «Spero che ti sia divertito», disse. «So che è sempre un po' strano quando non conosci nessuno.» «È stato bello.» «Ho visto che tu e Savannah avete legato subito. E un tipo speciale, no? Credo che tu le piaccia.» «Abbiamo chiacchierato piacevolmente», affermai. «Sono contento. Ero un po' preoccupato per lei. L'anno scorso c'erano anche i suoi genitori, quindi è la prima volta che viene via con noi da sola. So che ormai è grande, ma questi studenti non sono quelli che frequenta di solito, e temevo che dovesse passare tutta la sera a difendersi dalle avance dei ragazzi.» «Sono sicuro che se la sarebbe cavata benissimo.» «Non ne dubito. Ma ho l'impressione che alcuni di loro siano piuttosto insistenti.» «È naturale. Sono dei ragazzi.» Lui rise. «Forse hai ragione.» Indicò un punto nel buio fuori del parabrezza. «Da che parte?» Lo guidai attraverso una serie di incroci e poi gli feci segno di rallentare. Si fermò davanti a casa mia e io vidi la luce accesa nello studio di papà. «Grazie del passaggio», dichiarai aprendo la portiera. «Nessun problema.» Si protese sul sedile. «Senti, come ti ho detto, puoi venire a trovarci quando vuoi. Durante il giorno lavoriamo, ma la sera e nei week-end siamo liberi. » «Lo terrò a mente», promisi. Una volta a casa, aprii la porta dello studio. Papà, che stava leggendo il Greysheet, sobbalzò. Non si era accorto che ero tornato. «Scusa», dissi, mettendomi a sedere sul gradino davanti alla soglia. «Non volevo spaventarti.» «Non importa», si limitò a rispondere. Era incerto se posare la rivista o meno, poi lo fece. «Le onde erano magnifiche, oggi», commentai. «Mi ero quasi dimenticato quanto fosse bella la sensazione dell'acqua sulla pelle.» Sorrise senza replicare. Io mi spostai sul gradino. «Com'è andato il lavoro?» chiesi. «Al solito.» Tornò a immergersi nel suo mondo e io pensai che si poteva dire la stessa cosa anche dei nostri dialoghi. 3 «Il surf è uno sport solitario, nel quale lunghi momenti di noia si alternano ad altri di attività frenetica e ti insegna ad assecondare la natura, invece di lottare contro di essa... si tratta in sintesi di riuscire a entrare in 'zona'. Così almeno scrivono sulle riviste specialistiche, e io sono sostanzialmente d'accordo. Non c'è niente di più esaltante del prendere un'onda e muoversi all'interno di un muro d'acqua che rotola verso la riva. Ma io non sono come quei tizi, con la pelle incrostata di sale e i capelli stopposi, che lo fanno tutto il giorno e tutti i santi giorni perché lo ritengono il nonplus-ultra e il senso ultimo della vita. Per me, significa piuttosto staccare dalla frenesia e dal frastuono del mondo. Quando sei là fuori, sei circondato dal silenzio e riesci a sentirti pensare.» Stavo spiegando queste cose a Savannah mentre ci avviavamo verso l'oceano la domenica mattina. O meglio, era quello che credevo di dirle. In realtà, per lo più continuavo a parlare a vanvera, per tentare di mascherare il fatto che lei mi piaceva davvero un sacco in bikini. «È come cavalcare», osservò. «Eh?» «Il sentirti pensare. È il motivo per cui mi piace andare a cavallo.» Ero passato a prenderla poco prima. Le onde migliori in genere sono quelle del mattino presto, ed era una giornata limpida e serena che preannunciava temperature alte e spiagge affollate. Avevo trovato Savannah seduta sui gradini posteriori della casa, avvolta in un asciugamano, con i resti del falò davanti a lei. Sebbene fossi sicuro che la festa fosse continuata sino a notte fonda, non c'era traccia di spazzatura da nessuna parte. La mia considerazione per il gruppo di volontari aumentò leggermente. Nonostante l'ora, l'aria era già calda e trascorremmo qualche minuto sulla battigia mentre io le illustravo i rudimenti del surf e le insegnavo a salire sulla tavola. Dopodiché entrammo in acqua camminando a fianco a fianco. C'erano già alcuni surfisti, gli stessi che avevo visto il giorno precedente. Stavo pensando a quale fosse il punto migliore dove portare Savannah in modo che avesse spazio sufficiente, quando mi resi conto che non era più accanto a me. «Aspetta, aspetta!» la sentii gridare alle mie spalle. «Fermati!» Mi voltai. Era in punta di piedi con le onde che le lambivano il ventre e la pelle d'oca su tutto il corpo. Sembrava quasi volesse sollevarsi dalle acque. «Lascia che mi abitui...» Lanciò qualche gridolino acuto e incrociò le braccia sul petto. «Mamma mia se è fredda. Mannaggia!» Mannaggia? Non era certo così che si esprimevano i miei compagni di caserma. «Ti ci abituerai», risposi con una smorfia. «A me non piace il freddo. Odio avere freddo.» «Ma se abiti in montagna, dove d'inverno nevica.» «Sì, ma ci sono quelle cose chiamate giacche a vento, guanti e berretti che indossiamo per proteggerci. E non ci gettiamo nell'acqua gelata di primo mattino.» «Che buffo», dissi. Lei continuava a saltellare su e giù. «Già, davvero buffo. Accipicchia!» Accipicchia? Il suo respiro a poco a poco tornò regolare, ma aveva ancora la pelle d'oca. Fece un passettino verso di me. «È meglio se ti tuffi direttamente, invece di sottoporti a quella lenta tortura», le suggerii. «Tu fa' a modo tuo, che a me ci penso io», ribatté, per nulla impressionata dalla mia saggezza. «Non pensavo che volessi uscire adesso, immaginavo l'avremmo fatto nel pomeriggio, con una temperatura meno glaciale.» «Ci sono quasi 27 gradi.» «Certo, certo», disse, cominciando ad acclimatarsi. Distese le braccia, fece una serie di lunghi respiri e poi si immerse di un centimetro. Con un brivido, si spruzzò un po' d'acqua sulle braccia. «Okay, credo di essere pronta.» «Non affrettarti a causa mia. Prenditi pure tempo.» «Grazie, lo farò», rispose, ignorando il mio tono sarcastico. «Okay», disse di nuovo, più a se stessa che a me. Fece un paio di passi avanti, il viso una maschera di concentrazione. Mi piaceva molto la sua espressione, seria, intensa. E ridicola. «Smettila di ridere di me», mi ammonì lei. «Non sto ridendo.» «Te lo leggo in faccia. Stai ridendo dentro.» «Va bene, smetto.» Alla fine mi raggiunse e, quando l'acqua mi arrivò alle spalle, Savannah salì sulla tavola. Io la tenni ferma, cercando di non guardare il suo fisico, cosa non facile, visto che mi stava proprio davanti. Mi sforzai di concentrarmi sulle onde in arrivo. «E adesso?» «Ti ricordi quello che devi fare? Rema forte, afferra la tavola ai lati vicino alla punta e poi alzati in piedi.» «Okay.» «All'inizio non è facile. Non succede niente se cadi, ma in tal caso lasciati andare di lato. In genere ci vuole qualche tentativo prima di riuscirci.» «Okay», ripetè, mentre una piccola onda si avvicinava. «Pronta...» dissi valutando il tempo. «Ora comincia a remare...» Quando fu il momento, spinsi la tavola per darle un po' di slancio e Savannah prese l'onda. Non so esattamente che cosa mi aspettassi, ma certo non di vederla balzare in piedi, tenersi in equilibrio e cavalcare l'onda fino a riva. Una volta nell'acqua bassa, saltò giù dalla tavola e si voltò verso di me con un gesto teatrale. «Com'è andata?» gridò. Nonostante la distanza che ci separava, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Accidenti, pensai d'un tratto, sono proprio nei guai. «Ho fatto ginnastica per anni», ammise. «E ho sempre avuto un buon senso dell'equilibrio. Suppongo che avrei dovuto dirtelo quando mi hai avvertito che sarei caduta.» Passammo più di un'ora in acqua. Ogni volta si alzava in piedi e cavalcava l'onda fino a riva con grande disinvoltura; sebbene non fosse ancora in grado di guidare la tavola, ero sicuro che, se lo avesse voluto, avrebbe imparato in un batter d'occhio. Poi tornammo alla casa e io aspettai fuori mentre lei saliva a cambiarsi. A parte tre ragazze, sedute in veranda a guardare il mare, gli altri si stavano ancora riprendendo dopo la notte di bagordi. Savannah ricomparve qualche minuto dopo, con indosso un paio di calzoncini e una maglietta e in mano due tazze di caffè. Si mise di fianco a me sui gradini di fronte alla riva. «Non ho detto che saresti caduta», precisai, «ma solo che, nel caso fosse successo, dovevi lasciarti andare di lato.» «Uh-uh», fece lei con espressione furba. Indicò la mia tazza di caffè nero. «Va bene così?» «Perfetto», risposi. «Io devo bere sempre il caffè la mattina. È il mio unico vizio.» «Tutti ne hanno uno.» Mi guardò. «E il tuo qual è?» «Io sono la virtuosa eccezione che conferma la regola», risposi, e lei mi diede una pacca amichevole sul braccio. «Lo sapevi che ieri notte c'era la luna piena?» Finsi di ignorarlo. «Davvero?» «Fin da bambina, ho sempre creduto che la luna piena fosse un segno benevolo, di buon auspicio. Ero convinta, per esempio, che se stavo commettendo un errore, avrei avuto la possibilità di rimediare.» Si portò la tazza alle labbra e bevve un sorso di caffè. «Che cosa hai in programma per oggi?» le chiesi. «Ci dovrebbe essere una riunione, non so bene quando, ma nient'altro. Ecco, a parte la messa. Per me, almeno. Adesso che mi ci fai pensare... che ore sono?» Guardai l'orologio. «Le nove appena passate.» «Di già? Devo sbrigarmi, allora. La messa è alle dieci.» Annuii, consapevole che il nostro tempo insieme stava per scadere. «Vuoi venire con me?» la sentii chiedere. «A messa?» «Sì», confermò. «Tu non ci vai?» mi chiese. Era evidente che per lei era una questione importante, tuttavia, pur intuendo che la mia risposta l'avrebbe delusa, non volevo mentirle. «Veramente no», ammisi. «Sono anni che non lo faccio. Da bambino frequentavo la chiesa, ma poi...» mi interruppi. «Non so perché ho smesso», conclusi. Allungò le gambe, in attesa che aggiungessi qualcosa. Infine sbottò: «Allora?» «Allora cosa?» «Vuoi venire, oppure no?» «Non posso presentarmi in costume. E non credo che avrei il tempo di andare a casa, farmi la doccia, cambiarmi e tornare qui. Altrimenti, ti accompagnerei.» Lei mi squadrò da capo a piedi. «Bene.» Mi diede una pacca sul ginocchio... era la seconda volta che mi toccava. «Ti procuro dei vestiti.» «Stai benissimo», mi assicurò Tim. «Il colletto è un po' stretto, ma non se ne accorgerà nessuno.» Vidi riflessa nello specchio l'immagine di uno sconosciuto in abito cachi, camicia stirata... e cravatta. Non ricordavo più l'ultima volta che ne avevo indossata una. Rimasi un po' perplesso. Tim, dal canto suo, era fin troppo ciarliero in proposito. «Come ha fatto a convincerti?» mi chiese. «Non ne ho idea.» Lui rise e, chinandosi ad allacciarsi le scarpe, mi strizzò l'occhio. «Te l'avevo detto che le piaci.» I cappellani dell'esercito sono di solito delle bravissime persone. Alla base, ne avevo conosciuto uno in particolare - Ted Jenkins - che ti ispirava subito fiducia. Non beveva, e non dico che lo considerassimo dei nostri, ma era sempre il benvenuto quando passava a trovarci. Aveva moglie e due marmocchi ed era del mestiere da quindici anni. Aveva accumulato una certa esperienza professionale in fatto di problemi famigliari e vita militare, e tutte le volte che ti mettevi a parlare con lui, ti ascoltava sul serio. Non potevi raccontargli proprio tutto - in fondo era un ufficiale, e aveva finito per punire severamente un paio di miei commilitoni che avevano ammesso le proprie scappatelle con troppa leggerezza -, ma aveva un tale carisma che ti spingeva comunque a confidarti a cuore aperto. Era anche un sacerdote eccezionale. Parlava di Dio con la stessa naturalezza con cui si può parlare di un amico, e non con quell'irritante tono da predica che spesso allontana la gente. Né ti faceva pressione perché andassi in chiesa la domenica. In un certo senso lasciava a te la scelta e, a seconda della situazione e della pericolosità del momento, si ritrovava a celebrare la funzione per uno o due fedeli, oppure un centinaio. Poco prima che la mia squadra fosse mandata nei Balcani, credo che abbia battezzato circa una cinquantina di soldati. Io già avevo ricevuto il battesimo da bambino, perciò non fui tra quelli, comunque erano anni che non assistevo più alla messa, e ora non sapevo bene che cosa aspettarmi. Non posso onestamente affermare che fossi esaltato all'idea, anche se alla fine non fu poi tanto male. Il pastore era un tipo alla mano, la musica giusta e non ebbi l'impressione che il tempo si dilatasse all'infinito, come mi accadeva da piccolo, quando mio padre mi portava in chiesa. Non sto dicendo che fu un'esperienza proficua, ma in ogni caso ero contento di essere andato lì, se non altro perché avevo qualcosa di nuovo di cui parlare con papà. E anche perché così potevo stare ancora un po' con Savannah. Lei si sedette tra me e Tim, e io la guardai con la coda dell'occhio mentre cantava. Aveva una voce bassa e profonda, ma molto intonata e dal suono incantevole. Il suo amico era concentrato sulle Scritture e all'uscita si fermò a salutare il reverendo, mentre noi rimanemmo ad aspettare sotto un albero. I due discorrevano in tono animato. «Vecchi amici?» chiesi, facendo un cenno nella loro direzione. Anche se ero all'ombra, avevo caldo e sentivo dei rivoletti di sudore scorrermi lungo la schiena. «No. Credo sia stato suo padre a indicargli quel pastore. Ieri sera Tim ha dovuto usare il navigatore per trovare questo posto», mi rispose Savannah, facendosi aria con un ventaglio. Con il suo abitino floreale sembrava proprio una bellezza del Sud. «Sono contenta che tu sia venuto.» «Anch'io», risposi. «Hai fame?» «Abbastanza.» «A casa abbiamo qualcosa da mangiare, se vuoi. E potrai restituire a Tim i suoi vestiti. E evidente che così hai caldo e ti senti impacciato. » «Nemmeno la metà di quando indosso elmetto, stivali e uniforme da battaglia, credimi.» Lei inclinò la testa verso di me. «Hai un modo di parlare ricercato e preciso, che trovo molto interessante.» «Mi prendi in giro?» «Tutt'altro.» Si appoggiò con grazia all'albero. «Credo che Tim abbia terminato.» Seguii il suo sguardo, ma non notai niente di diverso nell'amico. «Come fai a saperlo?» «Guarda il modo in cui ha unito le mani. Significa che si prepara a congedarsi. Tra un istante tenderà la mano con un sorriso, farà un cenno del capo e se ne andrà.» Vidi Tim compiere esattamente quei gesti e poi incamminarsi verso di noi. Savannah aveva un'aria divertita. «Quando abiti in una piccola comunità come la mia, non c'è molto altro da fare se non osservare la gente. Dopo un po' conosci le abitudini di tutti.» A mio modesto parere, si era esercitata un po' troppo a osservare Tim, ma non lo dissi. «Ehi, voi due...» Lui alzò il braccio. «Siete pronti a tornare a casa?» «Ti stavamo aspettando», replicò Savannah. «Scusa», si giustificò Tim. «Mi ero fermato a scambiare due parole.» «Tu ti fermi sempre a chiacchierare con chiunque incontri.» «Lo so», rispose lui, «sto cercando di diventare più distaccato.» Lei rise e, sebbene fossi rimasto tagliato fuori dal loro scambio di battute, le perdonai tutto quando mi prese sottobraccio e si avviò verso la macchina assieme a me. Al nostro ritorno tutti si erano alzati e la maggior parte era già impegnata nella dura fatica di abbronzarsi. Alcuni stavano sdraiati sulla veranda; gli altri erano scesi in spiaggia. Da uno stereo nella casa proveniva musica a tutto volume, le borse frigo erano state rifornite di birra e molti avevano già ricominciato a bere, la classica cura per i postumi delle sbronze. Devo ammettere che una bir-retta non sarebbe dispiaciuta neanche a me, ma siccome ero appena tornato dalla messa, pensai che fosse meglio lasciar perdere. Mi cambiai, ripiegando i vestiti di Tim come mi era stato insegnato a fare nell'esercito, poi andai in cucina, dove lui aveva preparato dei panini. «Serviti pure», mi invitò. «Abbiamo tonnellate di cibo. Dovevo immaginarlo... ieri ho passato tre ore a fare la spesa.» Si sciacquò le mani e se le asciugò con una salvietta. «Bene, adesso vado a cambiarmi anch'io. Savannah arriverà tra un istante.» Una volta rimasto solo, mi guardai intorno. La casa era arredata nel tipico stile marinaro: mobili in vimini dai colori vivaci, lampade fatte di conchiglie, statuette di fari sulla mensola del camino, acquerelli di paesaggi costieri. Ricordavo che i genitori di Lucy, la mia ex ragazza, ne avevano una simile a Bald Head Island, dove si trasferivano nei mesi estivi. Il padre lavorava a Winston-Salem, e lui e la moglie tornavano a casa nei week-end, lasciando sola la figlia per tutta la settimana. Se avessero saputo che cosa succedeva lì quando loro non c'erano, pensai, di sicuro sarebbero stati più presenti. «Eccomi», disse Savannah. Si era rimessa in bikini e calzoncini corti. «Vedo che sei tornato normale.» «Da cosa lo capisci?» «Non hai più gli occhi fuori dalle orbite perché il colletto ti stringe troppo.» Sorrisi. «Tim ha preparato dei panini.» «Magnifico, sto morendo di fame.» Si avvicinò al'tavolo. «Ti sei già servito?» «Non ancora.» «Che aspetti, allora? Non mi piace mangiare da sola.» Le ragazze sulla veranda non si erano accorte della nostra presenza in cucina e una di loro stava raccontando ad alta voce quello che aveva combinato con un tizio la sera precedente, e non dava certo l'impressione di chi è lì in missione di beneficenza. Savannah fece una smorfia, come a dire: troppi particolari per i miei gusti, poi aprì il frigo. «Ho sete. Vuoi qualcosa da bere?» mi chiese. «Va bene l'acqua.» Si chinò a prendere un paio di bottiglie e io mi sforzai di non fissarla, senza riuscirci, dato che era uno spettacolo francamente piacevole. Mi domandai se si fosse resa conto che la stavo guardando e immaginai di sì, perché quando tornò a voltarsi aveva di nuovo quell'aria divertita. Posò l'acqua sul bancone. «E adesso, che cosa vuoi fare? Tornare sulla tavola da surf?» Come potevo resistere? Trascorremmo il pomeriggio in acqua. Per quanto gradissi la vista ravvicinata di Savannah distesa sulla tavola, mi piaceva ancora di più vederla in piedi mentre surfava. Inoltre, mi divertiva guardarla fare gli esercizi di riscaldamento a riva intanto che cavalcavo le onde. Più tardi ci sdraiammo in spiaggia, non troppo vicini, mentre il resto del gruppo era ancora sul retro della casa. Colsi qualche sguardo incuriosito nella nostra direzione, ma in generale nessuno sembrava badare più di tanto a noi, a parte Susan, che lanciava occhiate torve a Savannah, e Randy, che era seduto a leccarsi le ferite accanto a lei e a Brad. Di Tim non c'era traccia. Savannah stava a pancia in giù sull'asciugamano e io, steso sulla schiena, cercavo di sonnecchiare al sole, ma ero troppo distratto dalla sua presenza tentatrice per rilassarmi completamente. «Ehi», mormorò a un certo punto, «raccontami dei tuoi tatuaggi.» Girai la testa verso di lei. «Che cosa vuoi sapere?» «Be', per quale ragione te li sei fatti, cosa significano...» Mi sollevai su un gomito e indicai il mio braccio sinistro, su cui campeggiavano un'aquila e uno stendardo. «Questa è l'insegna della fanteria e questa», puntai il dito sulla serie di numeri e di lettere, «è la nostra sigla d'identificazione: compagnia, battaglione, reggimento. Tutti quelli della mia squadra ce l'hanno. Ce lo siamo fatti fare per festeggiare la fine dell'addestramento a Fort Benning, in Georgia.» «Perché c'è scritto 'Pepe' lì sotto?» «È il mio soprannome. Me lo hanno affibbiato proprio in quel periodo, grazie al nostro amato sergente istruttore. Io non riuscivo ad assemblare il mio fucile abbastanza in fretta, e lui minacciò di mettermi il pepe in una certa parte del corpo se non mi sbrigavo a imparare.» «Doveva essere un tipo simpatico», scherzò lei. «Come no. L'avevamo soprannominato Lucifero.» Sorrise. «Che cosa significa il filo spinato più in alto?» «Niente», risposi. «È stato uno dei miei primi tatuaggi.» «E questo sull'altro braccio?» Un ideogramma cinese. Non volevo approfondire il discorso, perciò scossi il capo. «Risale alla mia fase di 'perdizione'. Non significa nulla.» «Ma non è un ideogramma cinese?» « Sì. » «Allora, avrà pure un significato. Tipo: ardimento, onore o roba simile.» «Vuol dire 'empietà'.» «Ah», esclamò lei sbattendo gli occhi. «Ma non significa più niente per me, adesso.» «Però forse faresti meglio a non mostrarlo in giro, se dovessi andare in Cina.» Risi. «Hai ragione», concordai. Rimase in silenzio per un istante. «Eri un ribelle, vero?» Annuii. «Una volta. Veramente non è passato poi tanto tempo, ma a me pare di sì.» «È questo che intendevi quando hai detto che ti sei arruolato perché in quel momento ne avevi bisogno?» «È stato un bene per me.» Tacque, assorta. «Senti... prima di entrare nell'esercito, ti saresti tuffato dal molo per recuperare la mia borsa?» «No. Probabilmente avrei riso della scena.» Parve riflettere sulla mia risposta, come per decidere se credermi o meno. Alla fine fece un profondo respiro. «Allora sono contenta che tu sia diventato un soldato. La borsa mi era indispensabile.» «Bene.» «E cosa mi puoi rivelare ancora su di te?» «Dipende. Che cosa ti interessa?» «Potresti raccontarmi qualcosa di te che nessun altro sa.» Ci pensai un attimo. «Sono in grado di dire quanti Indian Head da dieci dollari con il bordo smussato sono stati coniati nel 1907.» «Quanti?» «Quarantadue. Non sono mai stati messi in circolazione. Alcuni impiegati della zecca li avevano prodotti per loro e per gli amici.» «Ti piace la numismatica?» «Non ne sono sicuro. È una lunga storia.» «Abbiamo tutto il tempo che vuoi.» Esitai, mentre Savannah prendeva la borsa. «Aspetta», affermò, tirando fuori un tubetto di crema solare. «Ti ascolterò dopo che mi avrai messo questa sulla schiena. Sento che mi sto scottando.» «Oh, posso davvero?» «Fa parte del patto.» Le spalmai la crema sul dorso e sulle spalle, e forse indugiai un po' troppo, ma aveva la pelle arrossata e una scottatura le avrebbe reso una tortura lavorare il giorno dopo. Poi le raccontai di mio nonno e di mio padre, delle fiere di numismatica e del buon vecchio Eliasberg. Quello che invece non feci fu rispondere direttamente alla sua domanda, per la semplice ragione che ignoravo la risposta. Alla fine lei si voltò verso di me. «Tuo padre colleziona ancora monete?» «Non ha mai smesso. Almeno credo. Non parliamo più dell'argomento.» «E come mai?» Le raccontai anche quella storia. Non chiedetemi perché. Sapevo che avrei dovuto agire con maggiore astuzia per mostrarle il mio lato migliore e fare colpo su di lei, ma con Savannah non era possibile. Qualcosa mi induceva a dirle la verità, sebbene la conoscessi appena. Quando conclusi, notai che aveva un'espressione strana. «Lo so, sono stato un idiota», ammisi. In realtà, c'erano termini ben più attinenti per descrivere il mio comportamento, ma erano troppo volgari e temevo di turbare la sua sensibilità. «Così pare», riconobbe. «Però non stavo pensando a questo. Cercavo di immaginarti allora, perché adesso sembri una persona del tutto diversa.» Era vero, ma che cosa avrei potuto replicare che non fosse banale? Incerto, optai per la strategia di papà e rimasi zitto. «Com'è tuo padre?» Le feci una breve descrizione. Mentre parlavo, lei giocava con la sabbia, raccogliendola a manciate e lasciandola scorrere tra le dita. Alla fine, con mia sorpresa, mi ritrovai a confidarle che papà e io eravamo come due estranei. «In effetti, lo siete», affermò lei con quel suo tono neutro, privo di giudizio. «Sei stato via per un paio d'anni, e tu stesso riconosci di essere cambiato. Non mi stupisce che non riusciate a comunicare. » Mi misi a sedere. Nel frattempo erano arrivati i turisti della domenica e la spiaggia si era riempita. Randy e Brad giocavano a frisbee in riva al mare, correndo e gridando. Qualcun altro si unì a loro. «Sì, lo so, ma non è solo questo. Non abbiamo mai avuto grande confidenza. Il fatto è che è sempre stato difficile parlare con lui.» All'improvviso mi resi conto che lei era la prima persona con cui l'ammettevo apertamente. Era strano... come ' del resto tutto quello che mi capitava in sua presenza. «Quasi tutti, alla nostra età, dicono così dei propri genitori. » Forse, pensai, ma nel mio caso era diverso. Non si trattava di un gap generazionale, ma del fatto che mio padre era incapace di intavolare un qualunque discorso, se si escludevano le monete. Savannah lisciò la sabbia con la mano, poi, con dolcezza, aggiunse: «Mi piacerebbe conoscerlo». Mi voltai verso di lei. «Sul serio?» «Sì. Ho sempre apprezzato quelli che hanno questa... passione per la vita.» «La sua è passione per le monete, non per la vita», la corressi. «È lo stesso. La passione è passione. È l'esaltazione che interrompe la monotonia quotidiana, e non importa quale sia l'oggetto del nostro interesse.» Strisciò i piedi nella sabbia. «Almeno, in genere è così. Non mi riferisco ai vizi, naturalmente.» «Come il tuo vizio del caffè.» Sorrise, mostrando la piccola fessura tra gli incisivi. «Esatto. Che si tratti di sport, politica, cavalli, musica o fede... le persone più tristi sono quelle che non credono in niente. Passione e soddisfazione vanno di pari passo, e senza di esse la felicità è solo momentanea, perché non c'è nulla che possa farla durare nel tempo. Mi piacerebbe sentire tuo padre parlare con entusiasmo del suo argomento preferito, perché è in quei momenti che vedi il meglio di una persona, e ho scoperto che la felicità altrui di solito è contagiosa.» Quelle parole mi colpirono profondamente. Nonostante il commento di Tim circa la sua ingenuità, sembrava molto matura. Del resto, considerata la figura che faceva in bikini, sarei rimasto favorevolmente impressionato da qualunque cosa avesse detto. Si mise seduta accanto a me e guardammo insieme la partita di frisbee, che era in pieno svolgimento. Brad lanciò il disco e due ragazzi si buttarono all'inseguimento. Si tuffarono contemporaneamente sulla sabbia, finendo per sbattere la testa l'uno contro l'altro. Quello con il costume rosso si rialzò senza il frisbee, imprecando e reggendosi il capo dolorante. Gli altri ridevano, e anch'io ero abbastanza divertito dalla scena. «Hai visto?» domandai. «Aspetta», mi rispose lei. «Torno subito.» Si incamminò verso il malcapitato e, scorgendola, lui rimase paralizzato. Mi resi conto che Savannah faceva lo stesso effetto su tutti i ragazzi, e non soltanto su di me. Vidi che gli parlava fissandolo con aria seria, mentre il poveretto annuiva come un bambino che sta ricevendo un rimprovero. Poi tornò a sedersi accanto a me. «Di solito non mi impiccio, ma gli ho chiesto di moderare il linguaggio per via di tutte le famiglie presenti sulla spiaggia», mi spiegò senza che io le domandassi nulla. «Ci sono un sacco di bambini qui.» Avrei dovuto immaginarlo. «Gli hai suggerito esclamazioni come 'mannaggia' o 'accipicchia'?» Lei mi lanciò un'occhiata maliziosa. «Ti sono piaciute, vero?» «Stavo pensando di insegnarle ai miei commilitoni. Aumenteranno la nostra carica intimidatoria quando sfondiamo porte e lanciamo RPG.» Ridacchiò. «Decisamente più efficaci delle parolacce, anche se non so che cosa sia un RPG.» «Granata a propulsione a razzo.» Nonostante tutto, mi piaceva sempre di più ogni minuto che passava. «Che cosa fai stasera?» «Niente di particolare. A parte la riunione. Perché? Vuoi portarmi a conoscere tuo padre?» «No, magari un'altra volta. Stasera vorrei farti vedere Wilmington. » «Mi stai chiedendo di uscire con te?» «Sì», ammisi. «Ti riporterò indietro presto. So che domani devi iniziare a lavorare, ma c'è un posto speciale che vorrei mostrarti.» «Che genere di posto?» «Un ritrovo locale, specializzato in pesce. È un'esperienza unica, te lo assicuro.» Si strinse le braccia intorno alle ginocchia. «In genere non esco con gli sconosciuti», disse infine, «e noi ci conosciamo solo da ieri. Credi che possa fidarmi di te?» «Se fossi in te, non mi fiderei», risposi. Lei rise. «Visto come stanno le cose, penso che farò un'eccezione.» «Sul serio?» «Sì», rispose. «Ho un debole per i ragazzi sinceri con i capelli a spazzola. A che ora?» 4 Arrivai a casa alle cinque e, nonostante la mia carnagione scura, mentre ero sotto la doccia mi accorsi di essermi scottato. Il petto e le spalle mi bruciavano a contatto con l'acqua e sentivo la faccia calda, come se avessi la febbre. Finito di lavarmi, mi feci la barba per la prima volta da quando ero in licenza e indossai un paio di bermuda puliti e una delle poche camicie carine che possedessi, azzurra con i bottoncini sul collo. Me l'aveva comperata Lucy perché sosteneva che quel colore mi donava. Arrotolai le maniche e la lasciai fuori dai calzoni, poi rovistai nell'armadio e trovai un paio di vecchissimi sandali. Dalla porta socchiusa vidi mio padre seduto alla scrivania e allora mi resi conto che era la seconda volta di fila che non cenavo con lui. Non gli avevo fatto molta compagnia durante quel fine settimana. Sapevo che non se ne sarebbe lamentato, ma provai ugualmente un lieve rimorso. Dopo che avevamo smesso di parlare di monete, la colazione e la cena erano gli unici momenti che trascorrevamo insieme, e adesso lo privavo anche di quelli. In fondo non ero cambiato poi tanto come credevo. Abitavo in casa sua, mangiavo il suo cibo e adesso stavo per chiedergli se poteva prestarmi la macchina. In altre parole, facevo la mia vita e lo sfruttavo. Mi domandai che cosa ne avrebbe detto Savannah, ma pensavo di conoscere già la risposta. A volte lei mi ricordava la vocina nella mia testa alla quale non davo mai ascolto, e che in quel preciso istante mi sussurrava che forse stavo facendo qualcosa di sbagliato, se mi sentivo in colpa. Mi riproposi di comportarmi diversamente nei giorni successivi, tanto per mettermi in pace la coscienza. Quando aprii la porta dello studio, lui mi guardò sorpreso. «Ciao, papà», lo salutai, sedendomi nel solito posto. «Ciao, John.» Tornò subito a rivolgere lo sguardo verso la scrivania e si passò una mano sui capelli ormai radi. Vedendo che io restavo in silenzio, si rese conto di dovermi fare una domanda. «Com'è andata la giornata?» mi chiese alla fine. «È stata fantastica. Ho passato quasi tutto il tempo con Savannah, la ragazza di cui ti ho parlato ieri sera.» «Oh.» I suoi occhi si spostarono di lato, evitando di incontrare i miei. «Non me ne hai parlato.» «Davvero?» «No, ma non importa. Era tardi.» Solo in quel momento parve accorgersi che ero vestito meglio del solito, ma non trovò il coraggio di chiedermene il motivo. Mi lisciai la camicia, lasciandolo allibito. «Sì, lo so, cerco di fare colpo su di lei. Stasera la porto fuori a cena», annunciai. «Puoi prestarmi la macchina?» «Oh... va bene», rispose. «Non ti serve, vero? Altrimenti, posso chiedere a qualche amico.» «No», disse. Tirò fuori le chiavi dalla tasca. Nove padri su dieci le avrebbero lanciate; il mio me le porse. «Stai bene?» domandai. «Sono solo un po' stanco.» Mi alzai e presi le chiavi. «Papà?» Sollevò lo sguardo. «Mi spiace di non cenare con te neanche stasera.» «Non importa. Capisco.» Il sole stava calando e, mentre salivo in macchina, notai che il cielo era un'esplosione di colori caldi, molto diversi da quelli che mi ero abituato a vedere in Germania. Il traffico era tremendo, come sempre la domenica sera, e dovetti viaggiare per quasi trenta minuti in mezzo ai gas di scarico prima di raggiungere di nuovo la spiaggia. Aprii la porta della casa senza bussare. Due ragazzi erano seduti sul divano a guardare in televisione una partita di baseball. «Ciao», mi dissero senza mostrare il minimo interesse nei miei confronti. «Avete visto Savannah?» «Chi?» chiese uno dei due distrattamente. «Non importa. La troverò da solo.» Attraversai il salotto e uscii sul retro della veranda, dove lo stesso tizio della sera prima era impegnato al barbecue. C'erano anche altri ragazzi, ma nessuna traccia di Savannah. Non la scorsi nemmeno sulla spiaggia. Stavo per rientrare quando qualcuno mi batté su una spalla. «Chi cerchi?» mi sentii domandare. Mi voltai. «Una ragazza», risposi. «Ha la tendenza a perdere le cose sui moli, ma è molto svelta a imparare quando si tratta di surf.» Si mise le mani sui fianchi e io sorrisi. Portava dei bermuda e un top, aveva un velo di colore sulle guance e notai che si era truccata con mascara e rossetto. Pur amando la sua bellezza naturale - sono un figlio del mare - la trovai ancora più incantevole di come me la ricordassi. Colsi una traccia di profumo agli agrumi quando si chinò verso di me. «Mi consideri solo questo? Una ragazza?» mi interrogò in tono tra il serio e il divertito. Per un attimo ebbi la tentazione di abbracciarla lì sul posto. I due ragazzi sul divano ci lanciarono un'occhiata, poi tornarono a guardare la televisione. «Andiamo?» chiesi. «Aspetta, vado a prendere la borsa in cucina.» Quando tornò, ci avviammo verso la porta. «Dove siamo diretti?» Glielo dissi, e lei mi guardò diffidente. «Vuoi portarmi a mangiare in un posto che si definisce tana?» «Sono solo un povero soldato sottopagato. È tutto quello che posso permettermi.» Mi diede una gomitata amichevole. «Adesso capisci perché in genere non esco con gli sconosciuti.» Lo Shrimp Shack, ovvero Tana del gamberetto, è nel centro di Wilmington, nel quartiere storico che si affaccia sul Cape Fear River. Da una parte di quella zona ci sono i negozi di souvenir, un paio di botteghe di antiquariato, qualche ristorante esclusivo, numerosi caffè e diverse agenzie immobiliari. Dall'altra, tuttavia, Wilmington mostra la sua natura di città portuale: enormi magazzini, alcuni dei quali abbandonati, si alternano ad altri vecchi edifici commerciali, occupati solo per metà. Dubitavo che i turisti che calavano in massa d'estate si avventurassero lì. Svoltai in quella direzione e a poco a poco la folla intorno a noi si diradò, finché non si vide più nessun pedone sui marciapiedi e le case si fecero sempre più cadenti. «Dov'è questo posto?» chiese Savannah. «Più avanti», risposi. «In fondo alla strada.» «Un po' fuori mano, eh?» «È una specie di istituzione locale», spiegai. «Al proprietario non interessa che arrivino i turisti. Non gli è mai importato.» Poco dopo rallentai e mi infilai in un parcheggio a lato di un magazzino. Come al solito c'erano una trentina di vetture posteggiate davanti allo Shrimp Sback, e il locale non era cambiato. Aveva sempre avuto quell'aria trasandata, con un'ampia veranda ingombra, l'intonaco scrostato e il tetto imbarcato che dava l'impressione che l'edificio stesse per crollare, sebbene avesse superato molti uragani, a partire dagli anni Quaranta. L'esterno era decorato con reti, coprimozzi, targhe d'automobile, una vecchia ancora, remi e qualche catena arrugginita. Accanto alla porta c'era una barca a remi sfondata. Il cielo si stava facendo buio quando ci avvicinammo al locale. Mi chiesi se dovessi prendere per mano Savannah, ma alla fine rinunciai. Sebbene avessi collezionato qualche successo con le donne grazie alla carica ormonale, avevo ben poca esperienza in fatto di ragazze a cui tenevo. E anche se era passato solo un giorno dal nostro primo incontro, mi rendevo perfettamente conto che stavo muovendomi su un territorio sconosciuto. Salimmo sulla veranda semipericolante e Savannah indicò la vecchia imbarcazione. «Forse è per questo che ha aperto il ristorante. La sua barca faceva acqua.» «Può essere. Oppure qualcuno l'ha lasciata qua fuori e lui non si è mai preoccupato di spostarla. Sei pronta?» «Come non mai», rispose e io aprii la porta. Non so che cosa si aspettasse, ma quando entrammo, lessi sul suo viso un'espressione soddisfatta. Su un lato correva il lungo bancone del bar, c'erano finestre affacciate sul fiume e la sala da pranzo era arredata con banchi da picnic. Un paio di cameriere dai capelli cotonati - immutabili nel tempo almeno quanto l'arredamento - stavano prendendo le ordinazioni. L'aria era permeata dall'odore di fritto e fumo di sigaretta, stranamente adatto all'ambiente. Gran parte dei tavoli era occupata, ma io ne scorsi uno libero accanto al juke-box che suonava una canzone country. La maggior parte della clientela sembrava gente che lavorava duro: muratori, operai, camionisti e artigiani. Noi raggiungemmo il nostro tavolo e ci sedemmo l'uno di fronte all'altra. «Mi piacciono i locali come questo», affermò Savannah guardandosi intorno. «Era il tuo ritrovo abituale quando vivevi qui?» «No, lo riservavo per le occasioni speciali. In genere frequentavo un bar che si chiama Leroy's, vicino a Wright-sville Beach. » Prese il menu plastificato, infilato in un portatovaglioli di metallo tra una bottiglia di ketchup e una di salsa piccante. «Questo è molto meglio», dichiarò aprendolo. «Allora, qual è la specialità della casa?» «I gamberetti», risposi. «Accipicchia, dici davvero?» «Sul serio. Di qualsiasi tipo. Hai presente la scena di Forrest Gump in cui Bubba spiega al protagonista i vari modi di cucinare i gamberetti? Grigliati, saltati, arrosto, alla Cajun, al limone, alla creola, cocktail di gamberetti... ecco, qui li trovi tutti.» «A te come piacciono?» «Crudi, con la salsa cocktail. O fritti.» Richiuse il menu. «Scegli tu», disse passandomelo. «Mi fido.» Rimisi la lista al suo posto. «Allora?» «Crudi. In un secchio pieno di ghiaccio. È un'esperienza sublime.» Si protese sul tavolo. «Quante donne hai portato qui? Per un'esperienza sublime, intendo.» «Compresa te? Fammi pensare.» Tamburellai le dita sul tavolo. «Una.» «Quale onore.» «Ci venivo ogni tanto con i miei amici. Non c'era cibo migliore di questo dopo una giornata passata a fare surf. » «Lo scoprirò presto anch'io.» Quando arrivò la cameriera, ordinai i gamberetti. Alla domanda su che cosa volessimo bere, sollevai le mani. «Tè zuccherato, per favore», disse Savannah. «Due, allora», aggiunsi. In attesa delle nostre ordinazioni ci mettemmo a chiacchierare. Parlammo di nuovo della vita nell'esercito; per qualche motivo Savannah ne sembrava affascinata. Volle anche sapere com'era stato crescere in quella città. Le raccontai più di quanto ritenessi possibile sugli anni delle superiori, e probabilmente fin troppo dei tre anni precedenti il mio arruolamento. Mi ascoltava attenta, interrompendomi di tanto in tanto con qualche domanda e io mi resi conto che era passato tantissimo tempo dall'ultima volta che ero uscito con una ragazza come quella; come minimo qualche anno. Dopo Lucy, non ne ne avevo più sentito il bisogno, ma adesso, seduto di fronte a Savannah, capii che era bellissimo stare in sua compagnia, e che volevo frequentarla ancora. Non soltanto quella sera, ma anche l'indomani e il giorno dopo ancora. Tutto in lei - dalla sua calda risata alla sua intelligenza, al suo evidente altruismo - mi appariva piacevole e desiderabile. All'improvviso compresi quanto fossi stato solo fino a quel momento. «Mettiamo un po' di musica», propose, interrompendo le mie riflessioni. Mi alzai per infilare degli spiccioli nel juke-box. Savannah appoggiò le mani al vetro e si chinò in avanti mentre leggeva i titoli, poi scelse qualche canzone. «Mi sono accorto di aver parlato quasi sempre io stasera», dissi dopo che ci fummo riseduti. «Sei un tipo ciarliero», replicò lei. Sfilai le posate dal tovagliolo arrotolato. «E tu che mi racconti? In pratica, non so niente di te.» «Non è vero», obiettò. «Sai quanti anni ho, dove studio, e che sono astemia. E poi che vengo da Lenoir, vivo in un ranch, amo i cavalli e passo l'estate a costruire case per Habitat for Humanity. Sai un sacco di cose.» Aveva ragione, e ne intuivo anche altre che non mi aveva detto. «Non basta», insistei. «Ora tocca a te.» Si allungò sul tavolo. «Chiedimi quello che vuoi.» «Parlami dei tuoi genitori.» «D'accordo. I miei sono sposati da venticinque anni, e sono ancora felici e follemente innamorati. Si sono conosciuti all'Appalachian State University, e mia madre ha lavorato in banca per un paio di anni prima di avere me. Da allora ha fatto la mamma a tempo pieno e si è sempre dedicata agli altri. È stata allenatrice della nostra squadra di calcio, assistente scolastica, rappresentante di classe e tutto il resto. Anche ora che io me ne sono andata, continua a collaborare come volontaria con la biblioteca, la scuola e la chiesa. Papà è professore di storia e ha allenato la squadra femminile di pallavolo fin da quando ero piccola. L'anno scorso le sue atlete sono arrivate in finale nel campionato di stato, ma poi hanno perso. Mio padre è anche diacono nella nostra parrocchia e si occupa di un gruppo giovanile e del coro. Vuoi vedere una loro foto?» «Certo», risposi. Tirò fuori dalla borsa il portafoglio, lo aprì e me la porse. Le nostre dita si sfiorarono. «È un po' rovinata dopo il bagno nell'oceano», disse, «però rende l'idea.» La guardai. Savannah somigliava più al padre che alla madre, pensai, notando che anche lui era bruno. «Bella coppia.» «Li adoro», osservò lei, riprendendosi la fotografia. «Sono i migliori.» «Come mai abitate in un ranch, se tuo padre insegna storia?» «Oh, all'epoca di mio nonno la fattoria era ancora in attività, ma poi lui fu costretto a venderne un pezzo dopo l'altro per pagare le tasse. Quando papà la ereditò, erano rimasti solo dieci acri di terreno, oltre alla casa, le stalle e il recinto per i cavalli. In realtà, ora è più simile a una villa di campagna che a un ranch, anche se ci è rimasta l'abitudine di chiamarlo così.» «Hai detto di aver fatto ginnastica per molti anni, e hai anche giocato nella squadra di pallavolo di tuo padre?» «No», rispose. «Cioè, è un allenatore fantastico, però mi ha sempre incoraggiata a coltivare i miei interessi. E la pallavolo non faceva per me, non mi appassionava.» «La tua vera passione sono sempre stati i cavalli.» «Sì, fin da bambina. A otto anni mi regalarono il mio primo cavallo, e quello è stato il Natale più bello della mia vita. Si chiamava Slocum. Era una vecchia giumenta molto docile, ed era perfetta per me. Io in cambio dovevo occuparmi di lei: darle da mangiare, strigliarla, pulirle la stalla. Tra questo, la scuola, la ginnastica e gli altri animali da curare, non mi restava tempo per nient'altro.» «Quali animali?» «Cani, gatti, persino un lama per un certo periodo. Andavo in giro a raccogliere tutti quelli abbandonati. I miei genitori alla fine si erano rassegnati e non tentavano più di dissuadermi. A volte qualcuno arrivava da noi nella speranza di ritrovare un animale perduto, e se non ci riusciva, se ne andava via con uno dei nostri ospiti. Eravamo come il canile municipale.» «I tuoi genitori dovevano avere molta pazienza.» «Sì, infatti», riconobbe. «Anche loro, però, avevano un debole per gli animali randagi. Mia madre non lo ammetterebbe mai, ma era peggio di me.» La osservai attentamente. «Scommetto che eri brava a scuola.» «Tutti ottimo. Ero la prima della classe.» «La cosa non mi sorprende, chissà perché.» «Non saprei.» «Hai mai avuto una storia seria con un ragazzo?» le chiesi allora. «Oh, stiamo arrivando al sodo, eh?» «Era solo una domanda.» «Tu che cosa ne pensi?» «Io credo...» risposi trascinando le parole, «di non averne idea.» Scoppiò a ridere. «Allora... lasciamo perdere la domanda, per ora. Un po' di mistero fa bene all'anima. E poi, sono pronta a scommettere che sei in grado di arrivarci da solo.» La cameriera si avvicinò con un secchiello pieno di gamberetti e due bottigliette di salsa cocktail, li posò sul tavolo, riempì di tè i nostri bicchieri con l'efficienza di chi faceva quel lavoro da fin troppo tempo e girò sui tacchi senza nemmeno chiederci se volessimo qualcos'altro. «Questo locale è leggendario per la sua ospitalità.» «Quella donna è molto impegnata», replicò Savannah prendendo un gamberetto. «Inoltre, ha capito che mi stai facendo l'interrogatorio e voleva lasciarmi in balìa del mio inquisitore.» Spezzò il gamberetto e lo spellò, quindi lo intinse nella salsa e diede un morso. Io presi a mia volta una manciata di gamberetti e la misi nel piatto. «Che cos'altro vorresti sapere?» «Qualunque cosa. Qual è l'aspetto più interessante della vita universitaria?» Lei ci pensò su mentre si serviva. «Alcuni insegnanti», rispose infine. «All'università, certe materie sono fondamentali per ottenere una determinata laurea, ma puoi stabilire il tuo piano di studi con una certa flessibilità. E questo mi piace molto. Prima che io cominciassi a frequentarla, mio padre mi consigliò di scegliere i corsi anche in base al professore, e non solo alla materia. E aveva ragione, i bravi professori sono impagabili. Ti ispirano, ti divertono e finisci per imparare un sacco di cose senza accorgertene. » «Perché fanno il loro lavoro con passione», commentai. Lei annuì. «Esatto. Ho seguito corsi che non immaginavo potessero interessarmi e su argomenti lontanissimi dalla mia materia principale. Ma sai una cosa? Quelle lezioni sono rimaste vive nella mia mente.» «Impressionante. Pensavo mi avresti risposto che l'aspetto migliore è andare a vedere le partite di basket. A Chapel Hill è quasi una religione.» «Mi piace anche quello, certo. Così come conoscere dei nuovi amici, e poi vivere lontano da mamma e papà e tutto il resto. Ho imparato un sacco di cose da quando ho lasciato Lenoir. Ho avuto un'infanzia bellissima, e i miei genitori sono fantastici, però ero troppo... protetta. E all'università ho fatto alcune esperienze che mi hanno aperto gli occhi. » «Tipo?» «Come il sentirmi obbligata a bere, o a pomiciare con un ragazzo tutte le volte che uscivo la sera. Il primo anno odiavo stare lì. Ero molto a disagio, e implorai i miei di farmi tornare a casa o trasferire, ma non mi diedero retta. Erano convinti che alla lunga me ne sarei pentita e probabilmente avevano ragione. In seguito ho conosciuto delle ragazze che la pensavano come me, e da allora è andato tutto molto meglio. Sono entrata a far parte di un paio di gruppi di studenti cristiani, ho cominciato ad andare il sabato mattina in un ospizio per poveri a Raleigh e ora non mi sento più in obbligo di partecipare a questa o quella festa, né di uscire con quel tale ragazzo. Adesso so che non devo comportarmi per forza come gli altri, ma posso fare quello che ritengo giusto. » Il che spiegava perché fosse rimasta con me la sera precedente, pensai. Il suo viso si illuminò. «E un po' come è successo a te, credo. Negli ultimi due anni sono maturata. Quindi, oltre al fatto di essere entrambi ottimi surfisti, abbiamo anche questo in comune.» Mi misi a ridere. «Esatto, tranne che io ho dovuto sempre lottare molto più di te.» Si sporse di nuovo in avanti. «Mio padre dice che, quando ti sembra che la vita sia dura, devi guardarti intorno, così ti rendi conto che tutti lottano per qualcosa e devono affrontare le tue stesse difficoltà.» «Dev'essere un tipo in gamba.» «Lo sono entrambi, anche la mamma. Tutti e due si sono laureati con ottimi voti. Quando erano giovani l'istruzione era molto importante per loro, e in seguito si sono sempre occupati della mia. Mi hanno insegnato a leggere ancora prima che andassi a scuola, ma senza farmi mai pesare la cosa. E mi hanno parlato come a un adulto fin da quando ero piccolissima.» Per un attimo mi chiesi quanto sarebbe stata diversa la mia giovinezza se avessi avuto dei genitori come i suoi, ma allontanai subito quel pensiero. Mio padre aveva fatto del suo meglio, e non nutrivo rimpianti per come ero venuto fuori. Forse c'era qualche rammarico per il percorso, mi dissi, ma non per la meta raggiunta. Perché, comunque fosse accaduto, in un modo o nell'altro ero finito a mangiare gamberetti in un locale mezzo diroccato nel centro della città, con una ragazza che sapevo già non avrei mai dimenticato. Dopo cena la riaccompagnai a casa, dove stranamente regnava la massima calma. La musica era ancora accesa, ma la maggior parte dei ragazzi stava seduta a rilassarsi intorno al fuoco, come se volessero prepararsi per gli impegni dell'indomani. Tim era in mezzo a loro, intento a conversare animatamente. Savannah mi colse di sorpresa prendendomi per mano prima che raggiungessimo gli altri. «Andiamo a fare una passeggiata», propose. «Ho voglia di camminare un po'.» Sopra di noi il cielo stellato era solcato da qualche baffo di nuvola e la luna, ancora piena, era appena spuntata all'orizzonte. Una lieve brezza mi accarezzava le guance, e sentivo il fragore incessante delle onde che si infrangevano sulla battigia. C'era bassa marea, così ci incamminammo verso la sabbia più compatta in prossimità della riva. Savannah mi posò una mano sulla spalla per tenersi in equilibrio mentre si sfilava i sandali. Quando ebbe finito, la imitai, poi facemmo qualche passo in silenzio. «E davvero bellissimo qui. Cioè, io amo le montagne, ma anche questo posto ha il suo fascino. È... pieno di pace.» Secondo me, quelle parole erano adatte anche a descrivere lei, e non sapevo che cosa dire. «È strano averti incontrato soltanto ieri», aggiunse. «Mi sembra di conoscerti da molto più tempo.» La sua mano era calda e morbida nella mia. «Anche per me è lo stesso.» Con un sorriso sognante, guardò le stelle. «Chissà che cosa starà pensando ora Tim», mormorò. Si voltò verso di me. «Mi considera un po' ingenua.» «E lo sei?» «A volte», ammise e io risi. «Ecco», proseguì, «quando vedo una coppia di giovani allontanarsi insieme sulla spiaggia, li trovo molto teneri. E non immagino affatto che stiano andando a imboscarsi dietro le dune. Ma a volte succede, e io resto sempre sorpresa. Come ieri sera, dopo che sei andato via. Ho saputo che due del nostro gruppo avevano fatto proprio quello, e non riuscivo a crederci.» «Io sarei rimasto più sorpreso se non fosse accaduto.» «Ecco che cosa non mi piace dell'università. È come se un sacco di studenti non credessero che questi sono anni davvero importanti per noi, e quindi si sentissero in diritto di provare... di tutto. C'è un atteggiamento veramente superficiale rispetto al sesso, al bere e persino alla droga. Forse ho una mentalità antiquata, ma non mi va proprio giù. È per questo che non avevo voglia di mettermi seduta davanti al fuoco con gli altri. Sinceramente, sono rimasta molto delusa da quello che hanno fatto quei due, e non riesco a stare in loro compagnia fingendo che non sia successo niente. So che non sono affari miei, e sono sicura che siano brave persone, visto che sono venuti qui per aiutare a costruire le case, ma comunque... che senso ha? Non bisognerebbe riservare la propria intimità per qualcuno che si ama davvero? In modo da darle il giusto valore?» Non si aspettava una risposta, perciò non replicai. «Chi ti ha raccontato di loro due?» le chiesi invece. «Tim. Credo che ci sia rimasto male anche lui, ma che cosa dovrebbe fare? Sbatterli fuori?» Avevamo camminato per un bel tratto lungo la spiaggia e a quel punto tornammo indietro. In lontananza distinguevo le sagome dei ragazzi seduti in cerchio e illuminati dal fuoco. L'aria umida odorava di sale e i granchi correvano a nascondersi sotto la sabbia quando ci avvicinavamo. «Mi spiace», disse Savannah. «Ho esagerato.» «A che proposito?» «Mi sono lasciata trasportare dalle emozioni. Non dovrei dare giudizi. Non spetta a me farlo.» «Tutti lo facciamo», osservai. «È nella natura umana.» «Lo so. Ma... nemmeno io sono perfetta. In fin dei conti l'unico giudizio che conta è quello di Dio e ormai sono abbastanza grande da sapere che non si può avere la presunzione di conoscere il suo volere.» Sorrisi. «Che cosa c'è?» chiese. «Adesso parli come il nostro cappellano.» Continuammo a camminare e, quando fummo vicini alla casa, ci inoltrammo sulla sabbia asciutta. I nostri piedi scivolavano a ogni passo e Savannah strinse più forte la mia mano. Mi chiesi se me l'avrebbe lasciata una volta vicini al falò, e rimasi deluso quando lo fece. «Ehi», ci chiamò Tim con voce amichevole. «Siete tornati.» C'era anche Randy, con la solita espressione torva. Francamente cominciavo a stancarmi del suo risentimento. Brad era alle spalle di Susan, che gli stava appoggiata al torace. Lei sembrava indecisa se fingersi felice di vederci, per conquistarsi la confidenza di Savannah, o mostrarsi ostile a beneficio di Randy. Gli altri, chiaramente indifferenti, ripresero a chiacchierare tra loro. Tim si alzò e ci venne incontro. «Com'è andata la cena?» «Ottimamente», rispose Savannah. «Ho avuto un assaggio di cultura locale. Siamo stati allo Shrimp Sback.» «Un nome spiritoso», commentò lui. Mi sforzai di cogliere qualche traccia sotterranea di gelosia, ma non ne scoprii alcuna. Tim indicò il falò e aggiunse: «Volete sedervi con noi? Ci stiamo rilassando, in vista del lavoro di domani». «Veramente sono un po' stanca. Pensavo di accompagnare John alla macchina e poi di andare a dormire. A che ora dobbiamo alzarci?» «Alle sei. Faremo colazione e saremo in cantiere alle sette e mezzo. Non dimenticarti la crema solare. Staremo sotto il sole per tutto il giorno.» «Hai ragione. Dovresti avvisare anche gli altri.» «Già fatto», rispose. «E lo ripeterò domattina. Ma vedrai che qualcuno come al solito non mi starà a sentire e si beccherà una bella scottatura.» «Ci vediamo domani», lo salutò lei. «Bene.» Tim si rivolse a me. «Sono contento che tu sia passato a trovarci.» «Anch'io», risposi. «Senti, se non sai cosa fare nelle prossime settimane, puoi sempre darci una mano.» Risi. «Ero sicuro che prima o poi l'avresti detto.» «Sono fatto così», disse, porgendomi la mano. «Comunque, spero di vederti presto.» Ci stringemmo la mano. Tim tornò dagli altri e Savannah fece un cenno in direzione della casa. Ci avviammo verso la duna, ci fermammo a infilare i sandali, percorremmo la passerella di legno e girammo intorno all'edificio. Un attimo dopo eravamo vicino alla macchina. Era buio e non riuscivo a vedere la sua espressione. «Mi sono divertita stasera», disse. «E anche oggi.» Deglutii. «Quando ti posso rivedere?» Era una domanda semplice, persino scontata, ma rimasi sorpreso dall'emozione che mi vibrava nella voce. Non l'avevo ancora neppure baciata. «Suppongo che dipenda da te», rispose. «Sai dove trovarmi.» «Ti andrebbe di uscire domani sera?» sbottai. «Conosco un altro posto divertente dove c'è anche la musica dal vivo.» Si scostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Facciamo martedì? Sai, il primo giorno in cantiere è sempre... esaltante e faticoso nello stesso tempo. Dopo, c'è una cena di gruppo, e non posso mancare.» «Va benissimo, figurati», risposi, pensando l'esatto contrario. Lei doveva aver percepito la mia frustrazione. «Come ha detto Tim, puoi passare da noi, se ti fa piacere.» «No, martedì sera va bene.» Restammo lì fermi accanto all'auto, uno di quei momenti imbarazzanti in cui niente e tutto può succedere, infine lei si voltò dall'altra parte prima che potessi tentare di baciarla. Normalmente mi sarei buttato a capofitto solo per vedere che cosa succedeva; forse non sapevo manifestare i miei sentimenti a parole, ma ero impulsivo e rapido nell'agire. Con Savannah, però, mi sentivo stranamente paralizzato. Neppure lei sembrava avere fretta di andarsene. Un'auto di passaggio spezzò l'incantesimo. Savannah fece un passo verso la casa, poi si fermò e mi posò una mano sul braccio. Con un gesto innocente, mi baciò sulla guancia. Era quasi un bacio fraterno, ma le sue labbra erano morbide e il suo profumo mi avvolse, restando con me anche dopo che si tirò indietro. «Sono stata proprio bene», mormorò. «Penso che non dimenticherò molto presto questa serata.» Sentii la sua mano staccarsi dal mio braccio e poi in un attimo lei svanì, salendo i gradini della casa. Una volta rincasato a mia volta, mi rigirai a lungo nel letto, ripensando agli eventi della giornata. Alla fine mi misi a sedere, rimpiangendo di non averle detto quanto avesse significato per me il tempo trascorso insieme. Fuori dalla finestra scorsi una stella cadente attraversare il cielo con una scia luminosa. Mi augurai che fosse un segno di buon auspicio, anche se non sapevo riguardo a che cosa. Rivissi nella mente per la centesima volta il tenero bacio di Savannah sulla mia guancia e mi chiesi come fosse possibile che mi stessi innamorando di una ragazza conosciuta soltanto il giorno prima. 5 «'Giorno, papà», dissi, trascinandomi in cucina. Socchiusi gli occhi nella luce brillante del mattino e vidi la sua figura in piedi davanti ai fornelli. L'odore di bacon riempiva l'aria. «Oh... ciao, John.» Mi lasciai cadere sulla sedia, ancora mezzo addormentato. «Sì, lo so che è presto, ma volevo salutarti prima che uscissi per andare al lavoro.» «Oh, bene, allora. Preparo qualcosa anche per te.» Sembrava quasi esaltato, nonostante quell'imprevisto nella sua routine. Erano momenti del genere che mi facevano capire quanto fosse felice di avermi a casa. «C'è del caffè?» «È lì, nel bricco», mi rispose. Me ne versai una tazza, poi tornai a sedermi. Sul tavolo c'era il giornale ancora intatto. A papà piaceva aprirlo per primo e scorrerlo metodicamente mentre faceva colazione, perciò non osai toccarlo. Mi aspettavo mi domandasse di Savannah, e invece rimase zitto, tutto intento a cuocere il cibo. Guardando l'ora, mi resi conto che lei sarebbe uscita per recarsi in cantiere nel giro di pochi minuti e mi chiesi se mi stesse pensando con la mia stessa intensità. Nella frenesia di una mattinata che immaginavo caotica, probabilmente non ne aveva il tempo, considerai con una fitta di delusione. «Che cosa hai fatto ieri sera?» dissi infine, tanto per togliermi dalla mente quell'idea. Continuò a cucinare come se non mi avesse sentito. «Papà?» lo chiamai. «Sì?» rispose. «Com'è andata la tua serata?» «Com'è andata cosa?» «Ieri sera. È successo qualcosa di particolare?» «No, niente.» Mi sorrise prima di girare il bacon nella padella. Sentii lo sfrigolio del grasso. «Io mi sono divertito tantissimo», dichiarai. «Savannah è davvero speciale. Ieri mattina siamo anche andati a messa insieme.» Devo ammettere che a quel punto speravo proprio mi ponesse qualche domanda sull'argomento. Mi illudevo ancora che potessimo avere un vero dialogo, come capitava tra altri padri con i loro figli, che lui fosse capace di ridere e magari fare qualche battuta. Invece, accese un altro fornello e versò un filo d'olio in una pentola per friggerci le uova. «Ti spiace mettere il pancarré nel tostapane?» mi chiese. Sospirai. «Va bene», risposi, rassegnandomi al fatto che avremmo mangiato, come al solito, in silenzio. Trascorsi la giornata facendo surf, o almeno provandoci. Durante la notte il mare si era calmato e le onde erano tutt'altro che eccitanti. Inoltre, si infrangevano molto più vicino a riva del giorno prima, e anche quando ce n'era qualcuna degna di essere cavalcata, il divertimento durava poco. In passato sarei andato a Oak Island, o persino fino ad Atlantic Beach, dove avrei chiesto un passaggio per gli Shackleford Banks, nella speranza di trovare qualcosa di meglio. Ma ora non mi sentivo dell'umore giusto. Rimasi su quella spiaggia e ogni tanto lanciavo un'occhiata alla casa vicino al molo, che sembrava quasi disabitata. La porta posteriore era chiusa, gli asciugamani spariti e nessuno passava davanti alle finestre né usciva sulla veranda. Mi chiesi a che ora sarebbero rientrati. Probabilmente intorno alle quattro o alle cinque, pensai, ma avevo già deciso che per allora me ne sarei andato. Non avevo nessun motivo per rimanere lì, tanto per cominciare, e non volevo che Savannah mi giudicasse un importuno. Verso le tre lasciai la spiaggia e passai da Leroy's. Il bar era più buio e squallido di come lo ricordassi e lo odiai non appena varcai la soglia. Lo avevo sempre considerato un posto per bevitori abituali e ne ebbi la conferma quando scorsi le figure malinconiche e solitarie chine sui bicchieri di whisky, nel disperato tentativo di sfuggire ai problemi della vita. Il proprietario era dietro il banco e mi riconobbe appena entrai. Quando mi sedetti al bancone, automaticamente mise un bicchiere sotto il rubinetto della birra alla spina e cominciò a riempirlo. «È da parecchio che non ti si vede», commentò. «Ti tieni fuori dai guai?» «Ci provo», sbuffai. Mi guardai intorno mentre lui faceva scivolare il bicchiere davanti a me. «Mi piace come hai sistemato il locale», dissi. «Bene. Questo è per te. Vuoi mangiare qualcosa?» «No, grazie.» Asciugò il bancone con uno straccio, poi se lo gettò sulla spalla e si allontanò per prendere altre ordinazioni. Un attimo dopo sentii una mano sulla spalla. «Johnny! Che ci fai qui?» Mi voltai e mi trovai di fronte uno dei tanti amici di una volta che avevo finito per disprezzare. Non capivo proprio perché fossi tornato lì, né come avessi potuto farne il mio ritrovo abituale per tanto tempo. Forse semplicemente non c'era un altro posto dove andare. «Ciao, Toby», risposi. Alto e allampanato, si mise seduto accanto a me e notai che aveva già lo sguardo appannato. Puzzava come se non si lavasse da giorni e aveva la maglietta tutta macchiata. «Giochi sempre a fare Rambo?» mi chiese con voce strascicata. «Hai l'aria di uno che si tiene in esercizio.» «Infatti», tagliai corto. «Tu invece che fai?» «Bazzico in giro, principalmente. Almeno nelle ultime settimane. Prima lavoravo da Quick Stop, ma il proprietario era un vero stronzo. » «Abiti ancora con i tuoi?» «Naturale», rispose con una punta di orgoglio. Si portò la bottiglia alle labbra e bevve una lunga sorsata, poi posò lo sguardo sulle mie braccia. «Ti trovo bene. Ti alleni regolarmente?» ripetè. «Abbastanza», risposi, capendo che non si ricordava di avermelo già chiesto. «Sei grosso.» Non mi veniva in mente niente da dirgli. Toby bevve un'altra sorsata. «Ehi, stasera c'è una festa a casa di Mandy», continuò. «Te la ricordi, vero?» «Come no.» Una ragazza del mio passato che era durata meno di un week-end. Toby aveva continuato a fare quella vita. «I suoi genitori sono su a New York, o da qualche altra parte, e ce la spasseremo. Stiamo già scaldandoci per entrare nell'atmosfera giusta. Vuoi venire con noi?» Indicò dietro di sé quattro tizi seduti a un tavolo d'angolo ingombro di bottiglie di birra. Ne riconobbi solo un paio. «Non posso», risposi. «Stasera devo cenare con mio padre. Grazie, comunque.» «Mandalo a quel paese. Faremo scintille. Ci sarà anche Kim. » Un'altra donna del mio passato, un altro ricordo vergognoso. L'individuo che io ero stato mi dava la nausea. «Non posso», ripetei. Mi alzai, lasciando il bicchiere quasi pieno sul bancone. «Gliel'ho promesso. E poi, mi permette di stare a casa sua. Sai com'è.» Questo aveva senso anche per lui. Annuì. «Allora possiamo vederci nel fine settimana. Ci ritroviamo tutti a Ocracoke per uscire in surf. » «Magari», risposi senza convinzione. «Tuo padre ha sempre lo stesso numero di telefono?» «Sì.» Me ne andai, sicuro che non mi avrebbe mai chiamato e che io non avrei più rimesso piede da Leroy's. Lungo la strada comprai delle bistecche, qualche salsa, una busta di insalata e un paio di patate. Non era facile tornare a casa a piedi con la spesa e la tavola da surf, ma quella lunga camminata non mi impensieriva. L'avevo fatta per anni, e ora le mie scarpe erano molto più comode degli stivali che portavo da ragazzo. Una volta rientrato, andai a prendere in garage il barbecue, un sacco di carbonella e una lattina di liquido infiammabile. La griglia era tutta impolverata, come se non fosse stata usata da anni. La sistemai sulla veranda posteriore, svuotai la cenere rimasta, tolsi le ragnatele con il getto dell'acqua e poi la misi ad asciugare al sole. In cucina, condii le bistecche con sale, pepe e aglio, avvolsi le patate nella carta stagnola e le infilai in forno, poi versai l'insalata in una ciotola. Quando la griglia fu asciutta, accesi la carbonella e apparecchiai il tavolo in giardino. Mio padre arrivò proprio mentre mi accingevo a cuocere le bistecche. «Ciao, papà», lo salutai senza voltarmi. «Ho pensato di preparare io la cena stasera.» «Oh.» Impiegò qualche istante ad assorbire quella straordinaria novità. «Va bene», aggiunse dopo un po'. «Come la vuoi la bistecca?» «Cottura media», rispose senza muoversi dalla porta a vetri scorrevole. «A quanto ho visto, non hai più usato il barbecue dopo la mia partenza», dissi. «Avresti dovuto farlo. Non c'è niente di meglio di una bella fetta di carne alla brace. Mentre tornavo a casa avevo già l'acquolina in bocca.» «Vado a cambiarmi.» «Sarà pronto tra una decina di minuti.» Tornai in cucina a prendere le patate, l'insalata e le varie salse, e portai tutto fuori sul tavolo. Sentii aprirsi la porta della veranda e mio padre comparve con due bicchieri di latte, vestito come un turista in crociera. Indossava calzoncini, calzini neri, scarpe da tennis e camicia hawaiana. Aveva le gambe penosamente bianche. In effetti, non l'avevo mai visto prima con i calzoni corti e feci del mio meglio per fingere che nel suo aspetto non ci fosse niente di strano. «Appena in tempo», dissi, controllando il barbecue. Sistemai le bistecche nei piatti e le misi in tavola. «Grazie», rispose. «Di niente.» Prese dell'insalata, la condì, poi scartò una patata. Ci spalmò sopra un pezzetto di burro, dopodiché versò un po' di salsa sul piatto, formando una piccola pozza. Tutto normale e prevedibile, a parte il fatto che compì tutti questi gesti in silenzio. «Com'è andato il lavoro?» domandai per abitudine. «Al solito», rispose. Come sempre. Sorrise ma non aggiunse altro. Mio padre, il disadattato sociale. Mi chiesi per l'ennesima volta perché trovasse così difficile conversare e provai a immaginarmelo da giovane. Come diavolo era riuscito a trovare una donna da sposare? Quella mia considerazione poteva anche sembrare meschina, ma non era dettata tanto dal disprezzo, quanto da una sincera curiosità. Mangiammo in silenzio per un po', con il tintinnio delle posate a tenerci compagnia. «Savannah ha detto che le piacerebbe conoscerti», dichiarai infine, facendo un altro tentativo. Tagliò un pezzo di bistecca. «La signorina tua amica?» Solo mio padre poteva esprimersi così. «Sì», confermai. «Penso che ti piacerà.» Annuì. «Studia alla University of North Carolina», aggiunsi. Sapeva che toccava a lui, e avvertii il suo sollievo quando gli venne in mente un'altra domanda. «Come vi siete conosciuti?» Gli raccontai della borsa caduta in acqua, enfatizzando la scena, cercando di rendere la storia il più divertente possibile, ma non rise. «È stato un gesto gentile da parte tua», commentò. Un altro blocco nella conversazione. Ingoiai un boccone di carne. «Papà, ti spiace se ti chiedo una cosa?» «Certo che no.» «Come vi siete conosciuti tu e la mamma?» Era la prima volta da anni che gli domandavo di mia madre. Siccome non aveva mai fatto parte della mia vita, né serbavo alcun ricordo di lei, raramente sentivo il bisogno di interrogarlo in proposito. Anche adesso non ero veramente interessato; volevo solo indurlo a parlare con me. Papà prese tempo spalmando ancora un po' di burro sulla patata, e io capii che non voleva rispondermi. «Ci siamo incontrati la prima volta in un ristorante», disse alla fine. «Lei lavorava lì come cameriera.» Aspettai, ma non sembrava intenzionato ad aggiungere altro. «Era carina?» «Sì», rispose. «E di carattere?» Schiacciò la patata e la cosparse di sale con la massima cura. «Era come te», rispose. «Che cosa intendi?» «Hmm...» esitò. «Poteva essere... testarda.» Non sapevo bene che cosa pensare. Prima che avessi modo di rifletterci, lui si alzò da tavola e prese il bicchiere. «Vuoi ancora del latte?» chiese, e io compresi che non avrebbe pronunciato un'altra parola su di lei. Il tempo è relativo. Sapevo di non essere il primo ad averlo scoperto né tantomeno il più famoso, e la mia constatazione non aveva nulla a che fare con l'energia, la massa o la velocità della luce, né con qualsiasi altra teoria formulata da Einstein. Piuttosto, era legata alla lentezza del trascorrere delle ore mentre aspettavo Savannah. Dopo aver finito di cenare con papà, mi ero messo a pensare a lei, e ripresi a pensarla non appena mi svegliai l'indomani. Trascorsi la giornata a fare surf, ma anche se le onde erano meglio del giorno precedente, non riuscivo a concentrarmi. Nel primo pomeriggio valutai l'idea di prendere un cheeseburger in un chiosco sulla spiaggia che tra l'altro faceva i migliori panini della città - però alla fine preferii tornare subito a casa, nella speranza di convincere Savannah ad andare lì insieme più tardi. Lessi qualche pagina dell'ultimo romanzo di Stephen King, feci la doccia, m'infilai un paio di jeans e una polo, poi lessi per un altro paio d'ore, ma quando guardai l'orologio, mi accorsi che erano passati solo venti minuti. Ecco che cosa intendo quando dico che il tempo è relativo. Mio padre rientrò e, vedendo il mio abbigliamento, mi porse le chiavi dell'auto. «Esci con Savannah?» mi chiese. «Sì», risposi, alzandomi dal divano. Presi le chiavi. «Potrei tornare tardi.» Si grattò la nuca. «Va bene.» «Colazione domani?» «Va bene.» Per una ragione che non sapevo spiegarmi, sembrava quasi spaventato. «Ci vediamo dopo, allora», dissi. «Probabilmente starò già dormendo.» «Non parlavo in senso letterale.» «Oh», fece. «D'accordo.» Mi diressi verso la porta. Proprio mentre l'aprivo, lo sentii sospirare. «Anche a me piacerebbe conoscere Savannah», mormorò con un filo di voce appena udibile. Il cielo era ancora chiaro e la luce del sole si rifletteva sull'acqua quando raggiunsi la casa. Scendendo dalla macchina mi resi conto che ero nervoso. Ero stato ansioso di incontrare di nuovo quella ragazza, ma ora temevo che in qualche modo le cose tra di noi fossero cambiate. E non sapevo come avrei reagito, in tal caso. Varcai la soglia senza preoccuparmi di bussare. Il soggiorno era vuoto, però udii delle voci che provenivano dal corridoio e, andando verso il retro, trovai il solito assembramento di gente fuori sulla veranda. Chiesi di Savannah e mi risposero che era sulla spiaggia. Mi incamminai sulla sabbia e mi bloccai quando la scorsi seduta accanto alla duna assieme a Randy, Brad e Susan. Stava ridendo di una battuta di Randy, e sembravano una coppia almeno quanto gli altri due. Sapevo che probabilmente parlavano della casa in costruzione, o delle esperienze condivise negli ultimi giorni, ma non mi piacque. Né gradii che Savannah si fosse messa vicino a lui, così come aveva fatto con me. Mentre ero in piedi a guardarli, mi chiesi se si ricordasse del nostro appuntamento, ma poi lei si voltò e, vedendomi, sorrise come se niente fosse. «Eccoti qua», esclamò. «Mi chiedevo quando saresti arrivato.» Randy sogghignò. Nonostante quelle parole, aveva un'aria quasi di trionfo. Quando il gatto non c'è, i topi ballano, sembrava dire. Savannah si alzò e mi venne incontro. Indossava una canottiera bianca e una gonna ampia e leggera che ondeggiava a ogni passo. Dalle sue spalle abbronzate si capiva che era stata molte ore sotto il sole. Quando mi fu davanti, si alzò in punta di piedi e mi baciò sulla guancia. «Ciao», mi salutò, cingendomi in vita con un braccio. «Ciao.» Si piegò leggermente all'indietro, per valutare la mia espressione. «Sembra che tu abbia sentito la mia mancanza», disse con fare scherzoso. Come sempre, non avevo la risposta pronta e lei ammiccò di fronte alla mia incapacità di ammettere che era così. «Forse anche tu mi sei mancato», aggiunse. Le sfiorai la spalla nuda. «Sei pronta?» « Come non mai. » Ci avviammo verso la macchina e io la presi per mano, sentendomi in pace con il mondo. Ecco, quasi... Raddrizzai la schiena. «Ti ho visto parlare con Randy», dissi, cercando di mantenere un tono di voce distaccato. Mi strinse la mano. «Davvero?» Riprovai. «Scommetto che avete finito per fare amicizia mentre lavoravate insieme.» «Esatto. E avevo ragione. È un ragazzo proprio simpatico. Dopo questa esperienza, andrà a New York per un tirocinio di sei settimane alla Morgan Stanley.» «Hmm», bofonchiai. Lei rise piano. «Non dirmi che sei geloso.» «Non lo sono.» «Bene», concluse, stringendomi di nuovo la mano. «Perché non c'è nessun motivo.» Mi aggrappai a quelle parole. Non era tenuta a dirmele, ma ne fui felice. Arrivati alla macchina, le aprii la portiera. «Pensavo di portarti da Oysters», dissi. «È un night-club sulla spiaggia. Più tardi suonerà una band, e potremo ballare.» «E che cosa faremo fino ad allora?» «Hai fame?» chiesi, pensando al panino a cui avevo rinunciato quel pomeriggio. «Ho mangiato quando sono tornata a casa, quindi non ho ancora molto appetito.» «Che ne pensi di una passeggiata sulla spiaggia?» «Mmm... magari più tardi.» Era ovvio che aveva già in mente qualcosa. «Perché non mi dici tu quello che vuoi fare?» Lei si illuminò. «Potremmo passare a fare un saluto a tuo padre.» Non ero sicuro di aver capito bene. «Sul serio?» «Sì», confermò. «Solo un momento. Poi andremo a mangiare e a ballare.» Vedendo che esitavo, mi posò la mano sulla spalla. «Ti prego...» 6 L'idea non mi allettava granché, ma il modo in cui me l'aveva chiesto mi aveva impedito di dirle di no. Mi stavo abituando ad assecondarla, suppongo, anche se non riuscivo a capire perché volesse vedere mio padre proprio quella sera, a meno che non fosse esaltata quanto me dalla prospettiva di restare soli. Per essere sinceri, quel pensiero mi rattristò. Savannah invece era di ottimo umore, e mi parlò di quello che avevano fatto in cantiere negli ultimi due giorni. L'indomani avrebbero cominciato con le finestre. Venni a sapere che Randy aveva lavorato sempre accanto a lei, il che spiegava la loro «rinnovata amicizia». Usò proprio quelle parole. Da parte mia, dubitavo che Randy avrebbe definito il suo interesse nello stesso modo. Pochi minuti dopo ci fermavamo nel vialetto di casa e notai la luce accesa nello studio di papà. Quando spensi il motore, giocherellai per un po' con le chiavi prima di scendere. «Te l'ho detto che è molto taciturno, vero?» «Sì», rispose. «Ma non importa. Voglio solo conoscerlo.» «Perché?» domandai. Era una domanda presuntuosa, ma non riuscii a trattenermi. «Perché è la tua unica famiglia», rispose. «Ed è lui che ti ha allevato.» Una volta superato il trauma di vedermi tornare in compagnia di Savannah e finite le presentazioni, mio padre si passò una mano tra i capelli radi e abbassò lo sguardo sul pavimento. «Mi spiace che non l'abbiamo avvisata prima, ma non è colpa di John», disse lei. «Sono stata io a chiedergli di venire.» «Oh», fece lui. «Non importa.» «È un brutto momento?» «No.» Alzò lo sguardo, poi tornò ad abbassarlo. «È un piacere conoscerla.» Per un attimo restammo tutti lì in piedi in salotto, senza parlare. Savannah sorrideva cordiale, ma io mi chiedevo se mio padre se ne fosse accorto. «Posso offrirle qualcosa?» domandò poi, ricordandosi di colpo le buone maniere del padrone di casa. «Sto bene così, grazie», rispose lei. «John mi ha detto che è un collezionista di monete.» Si voltò verso di me, quasi timoroso, poi rispose: «Ci provo». «L'abbiamo forse interrotta mentre si dedicava a questa sua attività?» domandò lei con lo stesso tono spiritoso che usava con me. Con mia sorpresa, sentii papà ridere nervosamente. Una risata soffocata, ma pur sempre una risata. Ero stupefatto. «No, nessun problema... Stavo solo esaminando una moneta che ho acquistato oggi.» Intuii che stava cercando di capire come avrei reagito. Savannah non se ne accorse, o finse di non farlo. «Veramente?» esclamò. «Di che genere?» Mio padre spostò il peso da un piede all'altro. E poi, alzò la testa e le chiese: «Vorrebbe vederla?» Passammo quaranta minuti nello studio. Io rimasi lì per tutto il tempo seduto ad ascoltare storie che conoscevo a memoria. Come fanno i collezionisti seri, papà teneva a casa solo pochi pezzi, e non avevo idea di dove conservasse il resto. Ogni quindici giorni circa alcune monete scomparivano, e altre spuntavano fuori come per magia. In quel momento non ce n'era nessuna di particolarmente rara, ma avevo l'impressione che, qualsiasi cosa le avesse mostrato, Savannah sarebbe rimasta a bocca aperta per l'ammirazione. Le sue domande, inizialmente generiche, a mano a mano si fecero più precise. Dopo un po', invece di chiedergli semplicemente perché quella moneta possedesse un certo valore, si informava su dove e quando mio padre l'aveva trovata, ricevendo in cambio resoconti di noiosi week-end della mia gioventù trascorsi in posti come Atlanta, Charleston, Raleigh o Charlotte. In quei quaranta minuti papà fu loquace, almeno per i suoi standard. Sicuramente più di quanto lo fosse stato con me da quando ero arrivato a casa in licenza. Ebbi l'occasione di osservare quella passione a cui aveva accennato Savannah; era un fuoco che avevo già visto migliaia di volte e non bastò a cambiare la mia opinione secondo cui mio padre usava le monete come un mezzo per evitare la vita, anziché andarle incontro. Avevo smesso di parlarne con lui perché volevo parlare d'altro; lui aveva smesso perché sapeva come la pensavo, ma non era in grado di affrontare altri argomenti. Eppure... Era evidentemente felice. Glielo leggevo nel luccichio dello sguardo e nei gesti delle mani mentre indicava il marchio della zecca o quanto fosse nuovo il conio, o spiegava come il valore di una moneta potesse variare a seconda che sopra ci fossero frecce o ghirlande. Mostrò a Savannah le monete di prova coniate a West Point, che erano tra le sue preferite. Tirò fuori una lente per farle notare le imperfezioni e, quando lei la prese, vidi il viso di papà animarsi e non potei fare a meno di sorridere di fronte alla sua gioia. Ma era sempre mio padre, e non avvenne il miracolo. Dopo averle illustrato i vari pezzi e raccontato tutto in proposito, le sue osservazioni si fecero sempre più stringate, intervallate da lunghe pause. Cominciò a ripetersi e, accortosene, tornò a rinchiudersi in se stesso. A un certo punto Savannah avvertì il suo crescente disagio. «La ringrazio, signor Tyree. Ho imparato davvero molte cose», dichiarò. Lui si limitò a sorridere, chiaramente prosciugato, e io ne approfittai per alzarmi. «Sì, è stato molto bello. Adesso, però, sarà meglio andare», dissi. «Oh... va bene.» «È stato un piacere conoscerla.» Papà assentì di nuovo e lei si avvicinò per abbracciarlo. «Ci rivediamo presto», mormorò, e sebbene mio padre ricambiasse l'abbraccio, mi tornarono in mente le strette senza vita che mi dava da bambino. Mi chiesi se anche Savannah si sentisse a disagio quanto lui. Una volta in macchina, Savannah era assorta nei suoi pensieri. Avrei voluto domandarle che impressione le aveva fatto mio padre, ma non ero sicuro di voler sentire la risposta. Certo, il nostro rapporto non era perfetto, però lei aveva ragione di sostenere che lui era la mia unica famiglia e che mi aveva allevato. Io potevo criticarlo, ma l'ultima cosa che desideravo era che lo facesse qualcun altro. In ogni caso non pensavo che avrebbe detto niente di negativo, semplicemente perché non era nella sua natura e infatti, quando si girò verso di me, stava sorridendo. «Ti ringrazio di avermelo fatto conoscere», esordì. «Ha... un cuore caldo.» Non era il modo in cui io avrei descritto papà, ma mi piacque. «Sono contento che ti sia piaciuto.» «Proprio così», confermò, e sembrava sincera. «È... gentile.» Mi guardò. «Però credo di capire perché da ragazzo ti sei cacciato in tutti quei guai. Non mi è sembrato il tipo in grado di stabilire delle regole.» «In effetti.» Mi lanciò un'occhiata di finto rimprovero. «E la tua vecchia natura di cattivo ragazzo ne approfittava. » Scoppiai a ridere. «Sì, penso sia andata in quel modo.» Lei scosse la testa. «Non avresti dovuto farlo.» «Ero solo un ragazzino.» «Ah, la solita noiosa scusa della gioventù. Sai che fa acqua da tutte le parti, no? Io non mi sono mai approfittata dei miei genitori. » «Sì, la figlia perfetta, me lo immagino.» «Ti stai prendendo gioco di me?» «No, assolutamente.» Continuò a fissarmi. «Io credo di sì», decretò. «E va bene, solo un pochino.» Rimase pensierosa. «Be', forse me lo merito. Ma per tua informazione, non ero perfetta.» «No?» «Certo che no. Ricordo molto chiaramente, per esempio, che in quarta elementare presi una sufficienza scarsa nel compito in classe.» Mi finsi scioccato. «Non mi dire!» «E vero.» «E come hai fatto a risollevarti?» «Secondo te?» Alzò le spalle. «Ho giurato a me stessa che non sarebbe mai più successo.» Non avevo il minimo dubbio. «Adesso hai fame?» «Aspettavo solo che me lo chiedessi.» «Che cosa ti andrebbe?» Si raccolse i capelli in una morbida coda, poi li lasciò ricadere. «Che ne diresti di un grosso, succulento cheese-burger?» Mi chiesi se non fosse troppo bella per essere vera. 7 «Devo ammettere che mi porti sempre a cena in posti interessanti», commentò Savannah, lanciando un'occhiata alle sue spalle. Al di là della duna, si vedeva una lunga fila di clienti in attesa davanti al chiosco sulla spiaggia. «Questo è il migliore della città», risposi, addentando il cheeseburger. Era seduta accanto a me sulla sabbia. I nostri panini erano fantastici, morbidi e alti, e le patatine, sebbene un po' troppo unte, saporite. Nella fioca luce del tramonto, lei mangiava di gusto guardando il mare e sembrava perfettamente a suo agio. Ripensai al modo in cui si era comportata con mio padre. Gli aveva parlato come faceva con tutti; aveva la rara capacità di adattarsi alla gente a cui si rivolgeva pur rimanendo sempre se stessa. Non mi veniva in mente nessuno che me la ricordasse nell'aspetto o nella personalità, e mi chiesi di nuovo perché si fosse invaghita proprio di me. Eravamo agli antipodi. Lei era una ragazza di montagna, dolce e dotata, cresciuta da due genitori attenti, con la propensione ad aiutare gli altri; io un rude militare tatuato, spigoloso, profondamente estraneo a casa mia. Mi resi conto di come l'avessero allevata bene i suoi e rimpiansi di non assomigliarle un po' di più. «Che cosa stai pensando?» La sua voce, intensa ma gentile, mi strappò alle mie riflessioni. «Mi chiedevo perché sei qui», confessai. «Perché mi piace la spiaggia. Non mi capita spesso di venirci. Non è che ci siano molte onde e pescherecci dalle mie parti, sai.» Vedendo la mia espressione, mi accarezzò la mano. «Sono stata impertinente, scusami», disse. «Sono qui perché voglio esserci.» Posai sulla sabbia l'avanzo del panino e mi domandai per quale ragione lei mi stesse così a cuore. Era una sensazione del tutto nuova, che mi spiazzava. Mi accarezzò il braccio e tornò a guardare l'oceano. «È meraviglioso. Ci vorrebbe solo un tramonto sul mare, e sarebbe perfetto.» «Dovremmo andare dall'altra parte del paese per vederlo», replicai. «Davvero? Vuoi dire che il sole tramonta a ovest?» Notai una luce ironica nei suoi occhi. « Così pare. » Mise quel che restava dei nostri panini dentro il sacchetto. Dopo averlo ripiegato con cura perché il vento non lo trascinasse via, allungò le gambe e si girò verso di me, con aria allo stesso tempo innocente e civettuola. «Vuoi sapere che cosa pensavo io?» mi chiese. Attesi, dissetandomi della sua vista. «Che mi sarebbe piaciuto stare con te, in questi due giorni. E stato interessante conoscere meglio gli altri, e anche la cena di ieri sera è stata divertente, ma... era come se mancasse qualcosa. E quando ti ho visto prima sulla spiaggia, mentre mi venivi incontro, ho capito che eri tu che mi mancavi.» Deglutii con fatica. In un'altra vita, un'altra epoca, l'avrei baciata, ma anche se ne avevo voglia, non lo feci, limitandomi a guardarla in silenzio. Lei ricambiò il mio sguardo senza il minimo imbarazzo. «Quando mi hai chiesto perché ero qui ho fatto una battuta, dato che la risposta mi sembrava ovvia. Passare il tempo con te è... giusto. È semplice, naturale. Come tra i miei genitori. Loro stanno bene insieme, sono affiatati, e io sono cresciuta pensando che un giorno anche per me sarebbe stato così.» Fece una pausa. «Vorrei che tu li conoscessi prima o poi.» Mi sentivo la gola secca. «Mi piacerebbe», risposi. Infilò la mano nella mia, incrociando le nostre dita. Restammo seduti in silenzio. Alcune sterne becchettavano sulla battigia in cerca di cibo; uno stormo di gabbiani spiccò il volo quando un'onda si infranse sulla riva. Il cielo si era oscurato, le nubi si erano fatte più minacciose. In lontananza si scorgevano altre coppie che passeggiavano, le loro figure stagliate contro il cielo indaco. Il fragore delle onde riempiva l'aria e io ero stupito di essere lì seduto con lei. Eppure, era come se ci conoscessimo da sempre... anche se non eravamo ancora una coppia. E una vocina dentro di me sussurrava che era assai improbabile che lo diventassimo. Mancava poco più di una settimana al mio ritorno in Germania. Le esperienze dei miei commilitoni mi avevano fatto capire che ci voleva molto più di qualche incontro speciale per mantenere viva una relazione quando c'era in mezzo l'oceano. Avevo sentito diversi compagni dichiarare di essere innamorati, appena tornati da una licenza, e forse era davvero così, ma non durava mai. Mi chiesi se con Savannah sarebbe stato possibile fare un'eccezione alla regola. Volevo continuare a frequentarla e sapevo che, comunque fossero andate le cose, non l'avrei mai dimenticata. Per quanto potesse sembrare pazzesco, era diventata parte di me e già mi tormentavo all'idea che l'indomani non avremmo potuto passare la giornata insieme. E neppure il giorno seguente e quello dopo ancora. Forse, mi dissi, noi due potevamo sfidare le circostanze. «Guarda!» la sentii gridare mentre indicava un punto nell'oceano. «Laggiù, tra le onde!» Osservai la superficie del mare, ma non riuscii a vedere niente. Savannah balzò in piedi e si precipitò verso l'acqua. «Vieni?» mi gridò voltandosi. «Sbrigati!» Io mi alzai, perplesso, e la seguii di corsa. Si fermò sulla riva, il respiro affannoso. , «Che succede?» chiesi. «Guarda, proprio lì!» Guardando meglio, compresi il motivo della sua eccitazione. C'erano tre delfini che solcavano le acque, in fila, scomparendo negli avvallamenti tra le onde per poi rispuntare poco più avanti. «Sono giovani delfini», spiegai. «Passano accanto all'isola quasi tutte le sere.» «Lo so», rispose. «Ma ora sembra che facciano surf.» «Hai ragione. Si stanno divertendo. Adesso che non c'è più nessuno in mare, si sentono sicuri e giocano un po' insieme. » «Voglio raggiungerli. Ho sempre desiderato nuotare con i delfini.» «Vedendoti arrivare, loro se ne andrebbero subito da un'altra parte. Sono molto buffi. Li incontro spesso quando sono fuori con la tavola. Se sono incuriositi, ti vengono vicino per esaminarti con comodo, ma se provi a seguirli se la filano via come razzi.» Rimanemmo a osservare i delfini, che a mano a mano si allontanarono fino a scomparire sotto il cielo ormai scuro. «Sarà meglio andare, adesso», dissi. Raccogliemmo il nostro sacchetto e tornammo alla macchina. «Non so se la band abbia già cominciato a suonare, ma non dovrebbe mancare molto.» «Non ha importanza», dichiarò lei. «E poi ti avverto, non sono granché come ballerina.» «Non siamo obbligati ad andarci, se non ti va. Potremmo fare qualcos'altro.» «E cioè?» «Ti piacciono le navi?» «Che genere di navi?» «Quelle grandi. Potremmo andare a vedere la USS North Carolina», proposi. Lei fece una faccia buffa e io compresi che la risposta era no. Per l'ennesima volta rimpiansi di non avere un posto tutto mio. D'altra parte, non mi illudevo che mi avrebbe seguito a casa, se mai ne avessi avuta una. Al suo posto io non l'avrei fatto. «Aspetta», disse. «So io dove portarti. Voglio mostrarti una cosa.» Considerando che i lavori erano iniziati solo il giorno prima, i risultati erano sorprendenti. La struttura portante della casa prefabbricata era già stata montata e c'era anche il tetto. Savannah guardò fuori dal finestrino prima di voltarsi verso di me. «Ti va di dare un'occhiata alla nostra opera?» «Volentieri», risposi. Scesi dalla macchina dopo di lei e mi soffermai a guardare la sua figura illuminata dalla luna. Mentre avanzavo nel cantiere udii il suono di una radio accesa in una casa vicina. A pochi passi dall'ingresso, Savannah indicò la costruzione con evidente fierezza. Mi avvicinai abbastanza da cingerla per la vita e lei mi posò la testa sulla spalla, abbandonandosi contro di me. «Ecco dove ho passato gli ultimi due giorni», mormorò nella quiete notturna. «Che te ne pare?» «Grandioso», dissi. «Scommetto che i destinatari ne saranno entusiasti.» «Infatti. E se lo meritano, dopo tutto quello che hanno passato. L'uragano Fran ha distrutto la loro abitazione e, come tanti altri, non avevano un'assicurazione contro le calamità naturali. Si tratta di una donna rimasta sola con tre figli... il marito l'ha abbandonata diversi anni fa. I suoi ragazzi sono tutti molto bravi a scuola e cantano nel coro della chiesa. E poi, sono così educati e affettuosi... si capisce che lei ce l'ha messa tutta per farli rigare dritto.» «E così li hai già incontrati.» «Sono stati qui anche loro in questi giorni.» Si raddrizzò. «Vuoi fare un giro dentro?» La lasciai andare controvoglia. «Ti seguo.» Non era un'abitazione molto grande - più o meno come quella di mio padre - ma la disposizione delle stanze la faceva sembrare più ampia. Savannah mi guidò per mano nei vari ambienti, spiegandomene la funzione e parlando delle rifiniture ancora da realizzare. Fantasticò sulla tappezzeria ideale per la cucina e sul colore delle mattonelle del bagno, sulle tende per il salotto e su come si poteva decorare la mensola del camino. La sua voce esprimeva la stessa gioia e meraviglia che aveva manifestato davanti ai delfini. Per un attimo me la immaginai bambina. Tornammo alla porta d'ingresso mentre si udiva in lontananza il brontolio dei tuoni. Ci fermammo sulla soglia e io me la tirai vicina. «Ci sarà anche una veranda», continuò, «abbastanza grande da ospitare due sedie a dondolo, e magari anche un divanetto. Si siederanno lì fuori nelle sere d'estate e la domenica dopo la messa.» Indicò nel buio. «La chiesa è proprio laggiù. Ecco perché questo posto è perfetto per loro.» «Sembra che tu li conosca bene.» «Veramente no», rispose. «Abbiamo semplicemente scambiato qualche chiacchiera, quindi le mie sono soltanto supposizioni. Tutte le volte che do una mano a costruire una casa, cerco di immaginare come sarà la vita di chi ci abiterà. In questo modo è molto più divertente.» Le nubi avevano oscurato la luna. All'orizzonte si vedevano i bagliori dei lampi e, dopo un istante, cominciò a cadere una pioggia leggera. Le fronde delle querce che fiancheggiavano il viale frusciavano al vento, e il rumore di un tuono echeggiò nella casa. «Se vuoi che andiamo, sarà meglio sbrigarci prima che scoppi il temporale.» «Non abbiamo nessun posto dove andare, ricordi? E poi, mi sono sempre piaciuti i temporali.» La strinsi a me, aspirando il dolce profumo dei suoi capelli. Restammo a guardare la pioggia, che ben presto si infittì cadendo obliqua dal cielo. La fioca luce dei lampioni illuminava solo per metà il suo viso. Un altro tuono squarciò l'aria e l'acqua scrosciò più forte. Vedevo la pioggia formare delle pozzanghere nel fango. Scorsi in un angolo alcune casse vuote. Andai a prenderle e le impilai sul pavimento coperto di segatura in modo da creare un sedile di fortuna. Non sarebbe stato molto comodo, ma era sempre meglio che restare in piedi. Savannah si accomodò accanto a me, e io all'improvviso compresi che era stato giusto andare lì. Era la prima volta che rimanevamo veramente da soli, eppure, seduti vicini, sembrava che noi due stessimo insieme da una vita. 8 Le casse, dure e micidiali, mi fecero dubitare della saggezza della mia decisione, ma Savannah non si lamentava. Si appoggiò all'indietro, urtò la schiena in uno spigolo di legno e si tirò su facendo finta di niente. «Scusa», dissi, «credevo sarebbe stato più comodo.» «Va benissimo. Ho le gambe stanchissime e i piedi doloranti. Così è perfetto.» Proprio vero, mi dissi. Tornai con la mente alle notti in cui ero di guardia e mi immaginavo di stare seduto vicino alla ragazza dei miei sogni, sentendomi in pace con il mondo. Ora capivo che cosa mi fosse mancato in tutti quegli anni. Quando lei posò la testa sulla mia spalla, mi pentii di essermi arruolato. Rimpiansi di essere dislocato oltreoceano, e di non avere scelto un'altra strada nella vita, che mi avrebbe permesso di far parte del suo mondo. Frequentare Chapel Hill, trascorrere un mese d'estate a costruire case, andare a cavallo insieme. «Come sei silenzioso», la sentii dire. «Pensavo a noi due», risposi. «Spero in modo positivo.» «Sì, certo.» Si spostò sulla cassa e la sua gamba sfiorò la mia. «Io invece stavo pensando a tuo padre», affermò. «È sempre stato come stasera? Così timido e con lo sguardo basso quando parla con la gente?» «Sì. Perché?» «Solo curiosità.» Fuori, il temporale aveva raggiunto l'apice, con scrosci di pioggia violenti e ininterrotti. L'acqua si rovesciava dai bordi del tetto. Un altro lampo, più vicino, e poi il tuono, come una cannonata che avrebbe fatto vibrare i vetri, se ci fossero state le finestre. Le passai un braccio intorno alla vita. Lei incrociò le caviglie e si appoggiò a me, e io pensai che avremmo potuto restare così per sempre. «Sei molto diverso dagli altri ragazzi che conosco», osservò, la voce bassa e carezzevole contro il mio orecchio. «Più maturo, meno... superficiale, credo.» Sorrisi, gratificato dalle sue parole. «E non dimenticare il mio taglio a spazzola e i tatuaggi.» «Il taglio a spazzola va bene. I tatuaggi... be', credo facciano parte del pacchetto. Del resto, nessuno è perfetto.» Le diedi un pizzicotto, fingendomi offeso. «Se avessi saputo che non li gradivi, non me li sarei fatti fare.» «Non ti credo», ribatté scostandosi. «Ma ti chiedo scusa... non era quello che intendevo dire. Su di me non ce li vedrei proprio, mentre... è interessante l'immagine che danno di te.» «Che tipo di immagine?» Indicò i tatuaggi, a uno a uno, a partire dall'ideogramma cinese. «Questo indica che tu vivi in base alle tue regole, e non ti curi di quello che dice la gente. L'insegna della fanteria rivela che sei fiero di ciò che fai. E il filo spinato... ecco, è collegato alla tua personalità di quando eri più giovane.» «Che profilo psicologico accurato. E io che pensavo di averli scelti solo perché mi piacevano i disegni.» «Ho una mezza idea di dare un esame di psicologia.» «Secondo me, non avrai difficoltà.» Il vento si era rinforzato e la pioggia stava diminuendo. «Sei mai stato innamorato?» mi domandò lei, cambiando argomento. Ero sorpreso. «Me lo chiedi così, di punto in bianco?» «Dicono che l'imprevedibilità aumenti il mistero di noi donne.» «Indubbiamente. Comunque, non saprei cosa risponderti.» «Come mai?» Esitai, poi scelsi con cura le parole. «Qualche anno fa uscivo con una ragazza, ed ero convinto di essere innamorato. Almeno, era quello che mi dicevo allora. Adesso non ne sono più tanto sicuro. Le volevo bene e mi piaceva molto, ma quando eravamo distanti, non pensavo quasi mai a lei. Stavamo insieme, però non eravamo una coppia, capisci?» Savannah rimase in silenzio. Mi voltai verso di lei. «E tu? Sei mai stata innamorata?» Il suo viso si rabbuiò. «No», rispose. «Ma credevi di esserlo. Come me, giusto?» Sentendola sospirare forte, proseguii. «Anch'io devo usare un po' di psicologia con la mia squadra. E l'istinto mi suggerisce che c'è stato qualcuno nel tuo passato.» Fece un sorriso triste. «Sapevo che l'avresti capito», mormorò. «Ma per rispondere alla tua domanda: sì, è vero. È successo durante il primo anno di università. E sì, anch'io credevo di essere innamorata.» «Sei sicura che non lo amavi?» Impiegò parecchio a rispondere. «No, non l'amavo», sussurrò. La guardai. «Non sei obbligata a raccontarmelo, se...» «Non importa», mi interruppe alzando la mano. «Ma non è facile. Ho cercato di dimenticarlo e non ne ho mai parlato con i miei genitori, né con nessun altro. È così banale. Una ragazza di provincia va all'università e conosce un brillante studente del terzo anno che è anche il leader del suo gruppo. È bello, ricco e affascinante, e lei è lusingata dalle sue attenzioni. La tratta come se la ritenesse speciale, e le altre matricole sono invidiose, per questo la poveretta si illude di esserlo davvero. Accetta di partecipare con lui e con alcune coppie a un ricevimento in un hotel elegante fuori città, anche se l'hanno avvisata che quel tipo in realtà non è poi così gentile e sensibile, e che incide una tacca sulla testata del letto per ogni conquista fatta.» Chiuse gli occhi, come per raccogliere il coraggio di proseguire. «Così, va in quell'albergo nonostante gli avvertimenti delle amiche e, sebbene abbia bevuto solo acqua minerale, durante la festa non si sente bene e il ragazzo si offre di accompagnarla in camera in modo che possa sdraiarsi un po'. E poi, lei si rende conto che si stanno baciando e inizialmente le piace, ma la stanza le gira tutt'intorno... e solo in seguito realizza che lui doveva averle messo qualcosa nel bicchiere e che aggiungere un'altra tacca era il suo unico obiettivo fin dal principio.» La sua parlata si fece più veloce, affannosa. «Allora il ragazzo comincia a tastarle i seni e le strappa il vestito e anche le mutandine, poi le salta addosso e lei cerca di difendersi... si sente aggredita, inerme e vuole che smetta... perché non lo ha mai fatto prima... ma è così stordita che non riesce a chiamare aiuto... Forse lui sta quasi per ottenere quello che vuole, ma proprio in quel momento entra la coppia che divide con loro la stanza. A quel punto lei si alza in piedi barcollando e scappa via in lacrime mezza nuda. Si rifugia nel bagno della hall, dove continua a piangere per l'umiliazione e le altre ragazze della comitiva, alla vista del mascara sbavato e del vestito lacero, invece di consolarla la deridono, dicendole in pratica che è una stupida. Che cosa si aspettava? Alla fine telefona a un amico, il quale salta in macchina e viene a prenderla e ha la delicatezza di non farle domande per tutto il tragitto di ritorno. » Quando ebbe finito, sentii montare la rabbia. Non ero un santo, ma non mi sarebbe mai passato per la mente di forzare una donna a fare ciò che non voleva. «Mi spiace», mormorai. «Non devi scusarti. Non sei stato tu a comportarti così.» «È vero, ma non c'è altro da dire. A meno che...» Lasciai la frase a metà. Dopo un po' lei si girò verso di me. Aveva il viso rigato di lacrime e il fatto che avesse pianto in silenzio mi addolorò molto. «Cosa?» «A meno che tu... non so. Vuoi che gli spacchi la faccia?» Mi lanciò un'occhiata triste. «Non hai idea di quante volte abbia desiderato farlo.» «Ci penso io», dichiarai. «Basta che tu mi dia il nome di quel tizio.» Mi strinse la mano. «Sono certa che ne saresti capace.» «Parlo sul serio.» Fece un mesto sorriso, con un'aria nel contempo vissuta e terribilmente ingenua. «È per questo che non te lo dirò. Ma credimi, sono commossa. E molto carino da parte tua.» La sua frase mi fece piacere, e restammo seduti tenendoci per mano. Aveva smesso di piovere, finalmente, e sentivo di nuovo la radio dei vicini. Non riconobbi la canzone, ma sapevo che era un vecchio pezzo di jazz. Un mio compagno alla base era un fanatico di quel genere musicale. «Comunque», riprese lei, «ecco perché il mio primo anno all'università non è stato tutto rose e fiori. Era per questo motivo che volevo lasciare la scuola. I miei genitori, che Dio li benedica, credevano avessi nostalgia di casa e mi fecero rimanere lì. Era dura... comunque, alla fine sono riuscita ad affrontare una situazione del genere e a sopravvivere. Certo, so che le cose potevano andare anche molto peggio, ma per me allora si è trattato di un'esperienza davvero negativa. E ho imparato la lezione.» «Fu Tim a venirti a prendere quella notte?» le domandai. Lei mi guardò, stupita. «E chi altro potevi chiamare, sennò?» Annuì. «Già, hai ragione. Si comportò in maniera splendida. Non ha mai voluto sapere i particolari della vicenda e io non gli ho raccontato niente. Da quel momento, però, è diventato un po' protettivo con me, e devo ammettere che non mi dispiace.» Pensai alla forza d'animo che aveva dimostrato, non solo in quella circostanza, ma anche in seguito. Era sorprendente che, nonostante tutto, fosse riuscita a conservare il suo ottimismo nei confronti del prossimo. «Ti prometto che sarò un perfetto gentiluomo», dichiarai. Si girò verso di me. «Di che cosa parli?» «Di stasera. Domani sera. Sempre. Non sono come quel tizio.» Mi accarezzò il mento con un dito e io avvertii un fremito. «Lo so», rispose divertita. «Altrimenti, credi che sarei qui con te adesso?» La sua voce era tenerissima e ancora una volta mi trattenni a forza dal baciarla. Non volevo rischiare di turbare la sua sensibilità. «Sai che cosa ha detto Susan la prima sera che sei venuto a casa nostra?» Aspettai. «Che le facevi paura. Che eri l'ultima persona al mondo con cui avrebbe voluto stare da sola.» Sorrisi. «Ne ho sentite di peggio», le assicurai. «Da parte mia, pensai che lei si sbagliava di grosso perché, quando mi avevi consegnato la borsa sulla spiaggia, avevo visto in te onestà, sicurezza e anche qualcosa di tenero, ma niente di spaventoso. So che può sembrare strano, però ebbi l'impressione di conoscerti già.» Sotto il lampione, il vapore si alzava dall'asfalto per effetto del calore del giorno. I grilli avevano iniziato a cantare. Guardai lei, poi il soffitto, quindi i miei piedi e di nuovo lei. Mi strinse la mano e io feci un profondo respiro, meravigliato dal fatto che - tornato a casa per una breve licenza - mi fossi innamorato di una ragazza straordinaria che si chiamava Savannah Lynn Curtis. Lei fraintese la mia espressione. «Mi spiace di averti messo a disagio», mormorò. «A volte mi capita di farlo. Sono troppo impulsiva. Dico quello che penso senza tenere conto di come possa reagire l'altro. » «Non sono a disagio», replicai, facendole voltare il viso verso di me. «È solo che nessuno mi ha mai parlato in questo modo prima.» Fui tentato di fermarmi lì, sapendo che, se avessi lasciato passare il momento, me la sarei cavata senza rivelare i miei sentimenti. «Non hai idea di quanto siano stati importanti per me questi ultimi giorni», cominciai. «Incontrarti è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata.» Esitai di nuovo. «Ti amo», mormorai infine. Avevo sempre creduto che mi sarebbe stato difficile dirlo, invece non fu così. Dentro di me ero tranquillo e sicuro, e sebbene in fondo sperassi di sentire le stesse parole da Savannah, l'importante era che io avessi dell'amore da dare, incondizionatamente. L'aria si era rinfrescata e le pozzanghere luccicavano al chiaro di luna. Qualche stella sbucava ammiccando tra le nuvole che si diradavano, come per ricordarmi ciò che avevo appena ammesso. «Avresti mai immaginato una cosa del genere?» mi chiese. «Io e te insieme?» «No.» «Mi spaventa un po'.» Provai un tuffo al cuore e all'improvviso compresi che lei non provava i miei stessi sentimenti. «Non devi ricambiarmi», affermai. «Non volevo...» «Sì, ma non hai capito», mi interruppe. «Non mi spaventa tanto la tua dichiarazione, quanto il fatto che volevo dirtelo anch'io. Ti amo, John.» Ancora adesso, non so bene come accadde. Un attimo prima stavamo parlando, e quello dopo lei si chinava su di me. Per una frazione di secondo mi domandai se, baciandola, avrei spezzato l'incantesimo tra di noi, ma era troppo tardi per tornare indietro. E quando le nostre labbra si incontrarono, fui certo che avrei potuto vivere cent'anni e visitare tutti i paesi del mondo, ma che niente avrebbe eguagliato l'intensità di quell'istante in cui baciavo per la prima volta la ragazza dei miei sogni pensando che il nostro amore sarebbe durato per sempre. 9 Finimmo per stare fuori fino a tardi. Dopo essercene andati dal cantiere, tornammo sulla spiaggia e passeggiammo a lungo, finché Savannah cominciò a sbadigliare. La riaccompagnai a casa, e ci baciammo ancora sulla porta mentre le falene volavano impazzite intorno alla luce della veranda. Se prima avevo pensato spesso a lei, il giorno seguente ne ero quasi ossessionato. Continuavo a sorridere senza motivo, e persino mio padre se ne accorse quando rientrò dal lavoro. Non fece commenti - com'era prevedibile - ma non rimase sorpreso dalla mia affettuosa pacca sulla schiena dopo che mi aveva annunciato che avrebbe preparato le lasagne. A tavola gli parlai instancabilmente di Savannah, e un paio d'ore più tardi lui si rinchiuse nel suo studio. Anche se non me lo aveva detto a parole, sembrava felice per me e lusingato dal fatto che avessi condiviso con lui la mia gioia. Ne ebbi la conferma quando, rincasato a tarda notte, trovai un piatto di biscotti appena sfornati con un biglietto in cui mi informava che c'era una bottiglia di latte fresco in frigo. Quella sera portai Savannah a mangiare un gelato, poi a fare un giro per Wilmington. Guardammo le vetrine dei negozi del centro, e scoprii che aveva la passione dell'antiquariato. Poi andammo a visitare la nave da guerra, ma non ci trattenemmo a lungo. Aveva ragione lei; era noioso. Quindi l'accompagnai a casa e rimanemmo seduti con i suoi amici intorno al falò sulla spiaggia. Le due sere successive lei venne a cena a casa mia. La prima volta la conversazione fu stentata. Papà si limitava perlopiù ad ascoltare i nostri discorsi e, sebbene Savannah avesse provato in tutti i modi a coinvolgerlo in argomenti diversi da quello delle monete, finimmo per parlare tra di noi mentre lui continuava a tenere lo sguardo fisso sul piatto. Al termine della cena lei aveva un'aria strana, e io mi rassegnai all'idea che avesse cambiato opinione su mio padre. Rimasi molto sorpreso quando volle tornare la seconda sera, e questa volta chiese di nuovo a papà di mostrarle la collezione nello studio. Io rimasi a guardarli, pregando che Savannah fosse più paziente e comprensiva di quanto ero stato io in passato. Quando ce ne andammo, mi resi conto che non dovevo preoccuparmi. Mi parlò di nuovo di mio padre in termini entusiastici, sottolineando che aveva fatto un ottimo lavoro nell'allevarmi. Tirai un sospiro di sollievo, capendo che lo aveva accettato per quello che era. La mia presenza nella casa vicino al molo era ormai diventata una consuetudine. Quasi tutti i ragazzi adesso conoscevano il mio nome, anche se non manifestavano eccessivo interesse per me, esausti com'erano dopo una lunga giornata di lavoro. La maggior parte si raggruppava davanti alla TV, invece di bere e flirtare sulla spiaggia. Erano molto abbronzati e pieni di cerotti sulle mani. Il sabato sera, però, dovevano aver trovato delle energie di riserva, perché al mio arrivo stavano scaricando casse di birra dal furgone. Li aiutai a portarle di sopra e mi resi conto che, da quando avevo conosciuto Savannah, non avevo più toccato un goccio di alcol. Avevano preparato un barbecue e mangiammo tutti insieme accanto al falò; poi noi due andammo a fare una passeggiata sulla spiaggia. Mi ero portato dietro una coperta e un cesto da picnic con degli stuzzichini, e ci mettemmo sdraiati a guardare lo spettacolo delle stelle cadenti, pieni di meraviglia per quelle scie luminose che attraversavano il cielo. Era una serata perfetta, con un piacevole filo di brezza, e restammo lì a parlare e a baciarci per ore, prima di addormentarci l'uno tra le braccia dell'altra. La domenica mattina mi destai mentre il sole sorgeva dall'oceano. Savannah dormiva ancora con il viso inondato dalla luce dell'alba, i capelli sparsi sulla coperta. Teneva un braccio sul petto e l'altro sopra la testa, e tutto quello a cui riuscii a pensare fu che mi sarebbe piaciuto svegliarmi sempre accanto a lei. L'accompagnai di nuovo a messa e Tim fu gioviale come al solito, anche se non ci eravamo quasi rivolti la parola per tutta la settimana. Mi chiese un'altra volta se volevo dare una mano in cantiere e io gli risposi che sarei ripartito venerdì, quindi non potevo essere di grande aiuto. «Lo stai assillando», commentò Savannah sorridendo. Lui alzò le mani. «Se non altro, non puoi dire che non ci abbia provato.» Era stata forse la settimana più idilliaca della mia vita. I miei sentimenti per Savannah si erano rafforzati e, con il passare delle ore, cominciai a provare una stretta di ansia all'idea che presto avrei dovuto lasciarla. Tutte le volte che ero assalito da quel pensiero, cercavo di scacciarlo, ma la domenica sera ero troppo nervoso e non riuscivo a dormire. Continuavo a rigirarmi nel letto, chiedendomi come avrei potuto essere felice sapendo che Savannah era al di là dell'oceano, circondata da ragazzi, uno dei quali magari avrebbe finito per innamorarsi di lei quanto me. Il lunedì sera, quando arrivai alla casa, non riuscii a trovarla. Qualcuno andò a cercarla in camera sua e io infilai la testa in tutti i bagni. Savannah non era in veranda, né sulla spiaggia con gli altri. Scesi le scale e domandai in giro, ricevendo in risposta indifferenti alzate di spalle. Sembrava non si fossero nemmeno resi conto della sua assenza, finché una ragazza Sandy o Cindy, non ricordo bene - mi disse di averla vista allontanarsi lungo la spiaggia circa un'ora prima. Continuai a camminare avanti e indietro sulla riva, ma non c'era traccia di lei. Infine, seguendo l'istinto, salii i gradini del molo. Quando la scorsi, pensai che fosse andata lì per guardare i delfini o i surfisti che solcavano le onde. Era seduta con le ginocchia raccolte, appoggiata a un pilone, e solo mentre mi avvicinavo mi accorsi che stava piangendo. Rimasi turbato. In realtà, non avevo mai saputo come reagire quando mi trovavo davanti a una donna, o a una persona qualunque, che piangeva. Mio padre non lo faceva mai, comunque non in mia presenza. E l'ultima volta che io avevo pianto era stato in terza elementare, quand'ero caduto dalla casetta sull'albero, slogandomi un polso. Alla base, se succedeva a uno dei miei commilitoni, di solito gli davo una pacca sulla spalla e mi allontanavo subito, lasciando a qualcuno con più esperienza di me il compito di consolarlo. Prima che potessi prendere una decisione, Savannah mi vide. Si asciugò velocemente gli occhi gonfi e rossi, e fece un paio di profondi respiri. Teneva stretta tra le gambe la borsa di rete che avevo recuperato in mare. «Stai bene?» le chiesi. «No», rispose e io provai una stretta al cuore. «Vuoi stare da sola?» Lei ci pensò su. «Non so», mormorò infine. Non sapendo che altro fare, rimasi fermo dov'ero. Savannah sospirò. «Passerà subito, vedrai.» Mi infilai le mani in tasca e assentii. «Preferisci stare da sola?» ripetei. «Devo proprio dirtelo?» Esitai. «Sì.» Lei fece una risata malinconica. «Puoi rimanere», dichiarò. «Anzi, sarebbe carino se venissi a sederti qui accanto a me.» La raggiunsi e, dopo un attimo di esitazione, le cinsi le spalle. Restammo seduti così per un po', senza parlare. Il suo respiro a poco a poco si fece più regolare. Si asciugò le lacrime che continuavano a rigarle le guance. «Ti ho comperato una cosa», disse. «Spero di aver fatto la scelta giusta.» «Sono sicuro che sarà perfetta», borbottai. Lei tirò su con il naso. «Sai a che cosa stavo pensando mentre ero seduta qui?» Non aspettò che le rispondessi. «A noi due», proseguì. «Al modo in cui ci siamo conosciuti e abbiamo parlato la prima sera, quando hai messo in mostra i tuoi tatuaggi e hai incenerito Randy con lo sguardo. E poi alla tua buffa espressione quando sono salita sul surf e ho cavalcato l'onda fino a riva...» Tacque e io le strinsi la vita. «Devo prenderla come un complimento?» Cercò di sorridere, ma il suo tentativo fallì miseramente. «Ricordo ogni momento di quei primi giorni», continuò. «E anche di questa settimana. Il tempo trascorso insieme con tuo padre, le nostre serate... persino la visita a quella stupida nave.» «Non ci torneremo più», le promisi, ma lei alzò una mano per fermarmi. «Lasciami finire. Quello che volevo dire è che mi è piaciuto tutto tantissimo, e non me lo aspettavo. Non ero venuta in questo posto per divertirmi... o per innamorarmi di te. E per affezionarmi a tuo padre.» Ubbidiente, rimasi zitto. Lei si scostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Tuo papà è una persona fantastica. Penso che sia stato molto bravo a crescerti, anche se tu non lo credi e...» Sembrava aver esaurito le parole e io ero perplesso. «E per questo che stavi piangendo? Per ciò che provi per mio padre?» «No», rispose. «Mi stai ascoltando?» Fece una pausa, come per raccogliere le idee. «Non volevo più innamorarmi di nessuno», affermò infine. «Non ero pronta. Ci sono passata una volta, e poi è stato terribile. So che adesso è diverso, ma tu partirai tra pochi giorni e tutto questo finirà e... sarà di nuovo tremendo.» «Non deve finire per forza», protestai. «Ma accadrà», replicò. «Certo, potremo scriverci, telefonarci di tanto in tanto e incontrarci quando torni in licenza. Comunque, non sarà più lo stesso. Non vedrò le tue buffe espressioni. Né potremo stare sdraiati sulla spiaggia a guardare le stelle, o seduti al tavolo l'uno di fronte all'altra a chiacchierare e confidarci segreti. E non sentirò il tuo braccio intorno a me come in questo momento.» Girai la testa, assalito da un crescente senso di frustrazione e di panico di fronte a quella innegabile verità. «Oggi, quando sono andata in una libreria a cercare un libro per te, mi sono chiesta quale sarebbe stata la tua reazione», proseguì lei. «Poi ho pensato che, in ogni caso, l'avrei scoperto entro un paio d'ore, e anche se tu non l'avessi gradito, avremmo potuto parlarne e chiarire le cose faccia a faccia. È quello che ho capito quando sono venuta a sedermi sul molo. Se siamo insieme, ogni problema si può superare.» Esitò. «Ma presto non sarà così. Fin dall'inizio sapevo che saresti rimasto qui solo un paio di settimane, però non credevo sarebbe stato così difficile dirti addio.» «Io non voglio dirti addio», obiettai, facendole voltare con delicatezza il viso verso di me. Sentivo il fragore delle onde che si infrangevano contro i piloni sotto il pontile. Uno stormo di gabbiani passò sopra le nostre teste e io mi chinai a baciarla, sfiorandole appena le labbra con le mie. Il suo alito sapeva di cannella e di menta, ed ebbi di nuovo la sensazione di essere a casa. Sperando di distoglierla da quei tristi pensieri, la strinsi brevemente, poi indicai la sua borsa. «Allora, che libro mi hai comperato?» Savannah sembrava sconcertata. «Ah, già. È giunto il momento di dartelo, vero?» Dal suo tono capii che non si trattava dell'ultimo romanzo di Hiaasen, e quando alzai la testa lei distolse lo sguardo. «Se te lo do, mi prometti che lo leggerai?» mi chiese seria. Non sapevo bene come interpretare quella richiesta. «Certo», risposi con riluttanza. «Lo prometto.» Continuava a esitare, poi tirò fuori dalla borsa il volume e me lo porse. Io lessi il titolo: era un saggio sull'autismo e la sindrome di Asperger. Conoscevo vagamente l'argomento. «L'ha scritto una professoressa che insegna nella mia università», spiegò Savannah. «I suoi corsi sono frequentati da parecchi studenti. È nota per i suoi studi sui disturbi evolutivi ed è una dei pochi che si siano occupati di queste patologie negli adulti.» «Affascinante», commentai con scarso interesse. «Credo che potrai imparare qualcosa», insistette lei. «Non ne dubito. Di sicuro è pieno di informazioni interessanti.» «Non è solo per questo», replicò con voce tranquilla. «Vorrei che tu lo leggessi per via di tuo padre. E del vostro rapporto.» Mi irrigidii. «E che cosa c'entra?» «Non sono un'esperta in materia, ma ho studiato questo testo per dare l'esame e lo conosco a fondo. L'autrice ha fatto ricerche su più di trecento adulti con disordini comportamentali. » Ritrassi il braccio. «E?» Colse la tensione nella mia voce e mi guardò con una traccia di apprensione. «Sono solo una studentessa, però ho passato molte ore del mio tirocinio assieme a bambini affetti da questa sindrome... e ho avuto anche modo di conoscere diversi adulti che la professoressa stava intervistando.» Si inginocchiò davanti a me, allungando la mano per toccarmi il braccio. «Tuo papà mi ricorda molto un paio di loro.» Avevo capito dove voleva arrivare, ma per qualche motivo aspettavo che lo dicesse apertamente. «E questo che cosa significa?» domandai, sforzandomi di non sottrarmi al suo tocco. Rispose lentamente. «Credo... che tuo padre possa avere l'Asperger.» «Mio padre non è ritardato...» «Non ho detto questo», ribatté. «L'Asperger è un disturbo dello sviluppo.» «Non mi interessa che cosa sia», esclamai alzando la voce. «Lui non ce l'ha. Mi ha allevato, lavora, paga le bollette. Una volta è stato sposato.» «Anche con l'Asperger è possibile condurre una vita...» «Aspetta un attimo», la interruppi. «Prima hai detto che mio padre ha fatto un ottimo lavoro nel crescermi.» «Esatto», confermò. «Quello che intendevo...» Serrai le mascelle, guardandola come se la vedessi per la prima volta. «Ma è perché pensi che lui sia una specie di Rain Man. Visto il suo problema, è stato molto bravo, eh?» «No... non capisci. L'Asperger può manifestarsi in molti modi, dalle forme più lievi a quelle più gravi...» Non volevo starla a sentire. «E tu lo rispetti per questo motivo. Non è che ti piaccia per davvero.» Mi tirai indietro e mi alzai in piedi. Sentendomi soffocare, andai verso la balaustra dall'altra parte del molo. Ripensai alle sue insistenze per conoscere mio padre... non l'aveva fatto perché voleva passare del tempo con lui, ma per studiarlo. Sentii un nodo allo stomaco e mi girai a guardarla. «Sei venuta a casa mia per questo, vero?» «Cosa...» «Non perché ti stava simpatico, ma per verificare se avevi ragione. » «No...» «Smettila di mentire!» gridai. «Non sto mentendo!» «Sei stata seduta nello studio con lui, fingendoti interessata alle sue monete, mentre in realtà lo osservavi come se fosse una scimmia in un laboratorio.» «Non è affatto così!» obiettò lei, alzandosi. «Rispetto tuo padre...» «Perché pensi che abbia avuto dei problemi e sia riuscito a superarli», sibilai, concludendo la frase al posto suo. «Sì, certo, ho afferrato il concetto.» «No, ti sbagli. Tuo papà mi piace...» «È per questo che hai fatto il tuo piccolo esperimento, giusto?» La mia espressione era dura. «Vedi, devo essermi dimenticato che, quando qualcuno ti piace, ti comporti così. E ciò che stai cercando di dirmi?» «No!» esclamò. Per la prima volta sembrò mettere in dubbio la correttezza del proprio comportamento e il labbro cominciò a tremarle. Quando parlò di nuovo, la voce le tremava. «Hai ragione: non avrei dovuto farlo. Ma volevo solo che tu lo capissi.» «Perché?» chiesi, facendo un passo verso di lei. Avevo tutti i muscoli tesi. «Io lo capisco benissimo. Sono cresciuto con lui, ricordi? Ho vissuto con lui.» «Cercavo di essere utile», mormorò con gli occhi bassi. «Desideravo aiutarti a comunicare...» «Non ho chiesto il tuo aiuto, né lo voglio. E poi questo non è affar tuo, maledizione.» Si asciugò una lacrima. «È vero», ammise con un filo di voce. «Ma pensavo volessi sapere.» «Cosa?» domandai con rabbia. «Che tu credi ci sia qualcosa di sbagliato in mio padre? Che non dovrei aspettarmi di avere con lui un rapporto normale? Che devo continuare a parlare di monete, se voglio tentare di comunicare?» Con la coda dell'occhio scorsi due pescatori che venivano verso di noi. Poi tornai a fissare attonito Savannah. Stavo ancora tentando di accettare il fatto che le ore che aveva trascorso con papà erano state solo una farsa. «Forse», sussurrò infine lei. Sbattei le palpebre, perplesso. «Che cosa hai detto?» «Mi hai sentito.» Alzò le spalle. «Forse quello è l'unico argomento del quale potrai mai parlare con tuo padre. Potrebbe non essere capace di affrontarne un altro. » Strinsi i pugni lungo i fianchi. «Così tutto dipende solo da me?» Non pensavo che replicasse, invece lo fece. «Non lo so», affermò, sfidandomi con lo sguardo. I suoi occhi erano ancora lucidi, ma la sua voce sorprendentemente salda. «Per questo ti ho comprato quel libro. Magari ci troverai delle risposte. Come hai appena sottolineato, tu lo conosci meglio di me. E non ho mai sostenuto che non sia in grado di condurre un'esistenza normale. Ma prova a pensarci. Le routine sempre uguali, il fatto che non guardi mai negli occhi chi gli parla, la sua vita sociale inesistente...» Mi girai di scatto, con la voglia di colpire qualcosa, qualunque cosa. «Perché mi fai questo?» chiesi a voce bassa. «Perché io, al posto tuo, vorrei sapere. E non era mia intenzione ferirti né offendere tuo padre. Te ne ho parlato semplicemente perché desideravo che tu riuscissi a capirlo», ribadì. Il suo candore rendeva penosamente chiaro il fatto che fosse sincera. Ma non mi importava. Mi voltai e mi incamminai sul molo. Volevo andarmene. Da lì, da lei. «Dove vai?» la sentii gridare dietro di me. «John! Aspetta!» Allungai il passo senza badarle e raggiunsi le scale. Le scesi di corsa, balzai sulla sabbia e mi avviai verso la casa. Avvicinandomi al gruppo, vidi diverse facce voltarsi verso di me. Avevo l'aria furiosa, e lo sapevo. Randy, che teneva in mano una bottiglia di birra, doveva aver scorto Savannah che mi seguiva sconvolta, perché mi si parò davanti per bloccarmi la strada. Di fianco a lui si piazzarono altri ragazzi. «Che succede?» gridò. «Che cosa è successo a Savannah?» Lo ignorai e sentii che mi afferrava per un polso. «Ehi, sto parlando con te.» Pessima mossa. Il suo alito puzzava di birra e compresi che l'alcol gli dava il coraggio di affrontarmi. «Lasciami», sibilai. «Lei sta bene?» mi chiese. «Lasciami», ripetei. «Altrimenti ti spezzo il braccio.» «Ehi, che sta succedendo?» disse Tim alle mie spalle. «Che cosa hai combinato?» incalzò Randy. «Perché sta piangendo? Le hai fatto del male?» Sentii l'adrenalina entrarmi in circolo. «È la tua ultima occasione», lo avvertii. «Non fate sciocchezze», gridò Tim, più da vicino. «Rilassatevi, ragazzi. Tranquilli!» Qualcuno tentò di afferrarmi da dietro. La mia reazione fu istintiva, e tutto si svolse in una manciata di secondi. Diedi una gomitata all'indietro nel plesso solare dell'avversario e lo sentii gemere e ansimare; poi afferrai la mano di Randy e gli ruotai con forza il polso fino al punto di rottura. Lui gridò e cadde in ginocchio, e proprio in quell'istante avvertii la presenza di qualcun altro che si precipitava verso di me. Alzai di nuovo il gomito e sferrai un colpo sbattendo contro una cartilagine. Mi voltai di scatto, pronto a parare ulteriori attacchi. «Che cosa hai fatto?» esclamò Savannah raggiungendoci di corsa. Sulla sabbia, Randy si contorceva stringendosi il polso; il tizio che mi aveva preso da dietro ansimava carponi. «Lo hai ferito!» piagnucolò lei, passandomi accanto. «Stava solo cercando di fermarvi.» Mi girai in quella direzione. Tim era a terra, con le mani sul viso e il sangue che gli colava tra le dita. Quella vista sembrò paralizzare tutti, a eccezione di Savannah, che si inginocchiò di fianco a lui. Tim gemeva e, nonostante il tumulto che avevo in petto, sentii una morsa alla bocca dello stomaco. Perché avevo colpito proprio lui? Avrei voluto chiedergli se stava bene; avrei voluto dirgli che non intendevo fargli del male e che non era stata colpa mia. Non avevo cominciato io. Ma non sarebbe servito. Non in quel momento. Non potevo pretendere che accettassero le mie scuse e mi perdonassero, anche se mi dispiaceva tanto per quella brutta storia. Udivo vagamente la voce ansiosa di Savannah, mentre io indietreggiavo, lanciando occhiate truci per intimare a chiunque di non seguirmi. Non volevo causare altri danni. «Oddio... stai sanguinando... dobbiamo portarti dal dottore...» Continuai a indietreggiare, poi mi voltai e salii le scale. Attraversai velocemente la casa e tornai alla mia macchina. Prima ancora di rendermene conto ero per strada, maledicendo me stesso e tutta quella dannata serata. 10 Non sapevo dove andare, così guidai senza meta per un po'. Ero ancora arrabbiato con me stesso per quello che avevo fatto a Tim - non tanto agli altri due - e con Savannah per ciò che era successo sul molo. Stentavo a capacitarmene. Un attimo prima ero convinto di amarla più della mia vita, e quello dopo stavamo litigando. Ero indignato dal suo inganno, eppure non capivo perché mi fossi adirato in quel modo. Mio padre e io non eravamo poi molto attaccati; non potevo nemmeno dire di conoscerlo veramente bene. E allora, per quale ragione me l'ero presa tanto? E perché tutta quella collera? Forse perché lei potrebbe non avere torto, suggerì una vocina dentro di me. E anche se fosse, pensai. La situazione non sarebbe cambiata. E poi, la cosa non la riguardava. Mentre guidavo, continuavo a passare dalla rabbia alla rassegnazione e viceversa. Rivissi la sensazione del mio gomito che sbatteva contro il naso di Tim, il che mi fece stare peggio. Perché aveva tentato di fermare proprio me, invece di bloccare gli altri? Non ero stato io a cominciare. Quanto a Savannah... certo, l'indomani sarei potuto andare da lei per scusarmi. Avevo capito che era sinceramente convinta di quello che diceva e che a suo modo stava cercando di aiutarmi. E chissà, se davvero aveva ragione, forse era il caso di leggere quel libro. Avrebbe spiegato tante cose... Ma dopo che io avevo colpito Tim, come avrebbe reagito lei? Era il suo migliore amico e anche se avessi giurato che si era trattato di un incidente, mi avrebbe perdonato? E quello che avevo fatto agli altri? Savannah sapeva che ero un soldato, ma adesso che aveva visto almeno in parte cosa significava, mi avrebbe voluto bene come prima? Quando mi misi sulla via del ritorno era mezzanotte passata. Entrai nella casa buia, infilai la testa nello studio di mio padre e poi aprii la porta della sua camera. Naturalmente stava dormendo; si ritirava alla stessa ora tutte le sere. Un uomo abitudinario, come aveva sottolineato Savannah. Andai a buttarmi sul letto, sapendo che non sarei riuscito a chiudere occhio e desiderando che il tempo tornasse indietro, fino a prima della scena sul molo. Avrei voluto dimenticare tutto. Non volevo pensare a mio padre, né a Savannah, né al naso rotto di Tim. Ma rimasi per tutta la notte a fissare il soffitto, incapace di sfuggire alle mie preoccupazioni. Mi alzai quando sentii mio padre trafficare in cucina. Indossavo ancora gli stessi abiti della sera prima, ma dubitavo che lui se ne sarebbe accorto. «'giorno, papà», borbottai. «Ciao, John», disse lui. «Vuoi fare colazione?» «Volentieri», risposi. «Il caffè è pronto?» «Nel bricco.» Me ne versai una tazza. Mentre lui cucinava, lo sguardo mi cadde sui titoli di testa del giornale. Sapevo che papà avrebbe letto la prima pagina e quindi la cronaca locale, saltando lo sport e gli spettacoli. Un uomo abitudinario. «Come è andata la tua serata?» chiesi. «Al solito», rispose. Non mi sorprese che non mi chiedesse niente della mia. Mescolò attentamente le uova con la spatola di legno. Il bacon stava già rosolando sul fuoco. Dopo un istante si voltò verso di me. «Ti spiace mettere il pancarré nel tostapane?» Mio padre uscì di casa alle 7.35 in punto. Una volta rimasto solo diedi una rapida scorsa al giornale, indifferente alle notizie che conteneva. Non avevo voglia di fare surf e neppure di uscire di casa, e stavo valutando l'idea di tornare a dormire, quando sentii il rumore di una macchina che imboccava il vialetto. Immaginai fosse qualcuno che lasciava nella cassetta della posta la pubblicità di un prodotto per liberare gli scarichi o pulire le tegole e rimasi stupito udendo bussare. Aprii la porta e mi bloccai, paralizzato dalla sorpresa. Tim dondolò da un piede all'altro. «Ciao, John», mi salutò. «So che è presto, ma ti spiace se entro un attimo?» Aveva il naso coperto da un grosso cerotto e la pelle intorno agli occhi era gonfia e arrossata. «No, no... figurati», risposi, facendomi da parte mentre cercavo di rielaborare mentalmente il fatto che lui fosse lì. Entrò in salotto. «Ho faticato a ritrovare casa tua. Quando ti ho accompagnato qui era buio, e sinceramente non ho fatto molta attenzione. Ci sono passato davanti un paio di volte prima di riconoscerla.» Sorrise e io mi resi conto che aveva in mano un sacchetto di carta. «Vuoi una tazza di caffè?» gli chiesi, uscendo dal mio sbigottimento. «No, grazie. Sono stato alzato quasi tutta la notte e preferirei non prendere caffeina. Spero di riuscire a riposare più tardi.» Annuii. «Senti... a proposito di quanto è accaduto ieri sera...» cominciai, «mi spiace. Non volevo...» Sollevò le mani per fermarmi. «Non preoccuparti. So che non ne avevi intenzione. E io avrei dovuto essere più prudente. Era meglio se cercavo di placcare uno degli altri.» Lo guardai in viso. «Ti fa male?» «È tutto a posto», rispose. «Solo che il pronto soccorso era molto affollato e c'è voluto un po' prima che mi visitassero. Il medico di guardia ha dovuto chiamare un collega perché mi sistemasse il naso, comunque alla fine mi hanno assicurato che tornerà come nuovo. Potrebbe rimanermi una piccola gobba, ma spero che mi dia un'aria più vissuta.» Io sorrisi, sentendomi in colpa. «Ti chiedo di nuovo scusa.» «Scuse accettate e apprezzate. Però non sono qui per questo.» Indicò il divano. «Ti spiace se ci sediamo? Mi sento ancora un po' debole.» Mi misi sul bordo della poltrona, sporto in avanti con i gomiti sulle ginocchia. Tim si sedette sul divano, facendo una smorfia di dolore mentre cercava la posizione più comoda. Posò il sacchetto da una parte. «Sono venuto per via di Savannah», spiegò. Sentire il suo nome mi riportò tutto alla mente, e distolsi lo sguardo. «Sai che noi due siamo buoni amici, vero?» proseguì Tim. «Ieri notte in ospedale abbiamo parlato a lungo, e volevo solo dirti che non devi essere arrabbiato per quello che ha fatto. Si è resa conto di aver commesso un errore e che non spettava a lei esaminare tuo padre per arrivare a una diagnosi. Avevi ragione tu su questo.» «Allora perché non è venuta a riferirmelo di persona?» «In questo momento è in cantiere. C'è bisogno di qualcuno che sovrintenda ai lavori, mentre io mi rimetto in sesto. E non sa nemmeno che ho deciso di passare da te.» Scossi il capo. «Non capisco perché me la sia presa tanto ieri sera.» «Perché erano cose che non volevi sentire», rispose con voce pacata. «Anch'io provavo le stesse emozioni tutte le volte che qualcuno faceva osservazioni sul mio fratellino. Alan è autistico.» Alzai lo sguardo. «Alan è tuo fratello?» «Sì. Savannah ti ha raccontato di lui?» «Mi ha accennato qualcosa», dissi, ricordando che lei mi aveva parlato soprattutto del fratello maggiore, che era tanto paziente con Alan e le aveva dato l'ispirazione di studiare psicopedagogia. Tim si toccò il livido sotto l'occhio e fece un'altra smorfia. «Tanto perché tu lo sappia», proseguì, «sono d'accordo con te. Non doveva comportarsi così. Ti ricordi quando ti ho detto che è un po' impulsiva? Era questo che intendevo. Savannah vuole aiutare il prossimo, ma a volte in quel modo fa più danno che altro.» «Non ha sbagliato solo lei», obiettai. «Anch'io ho reagito in maniera esagerata.» Mi fissò serio. «Pensi che possa aver visto giusto?» «Non lo so. Non credo, però...» «Non ne sei sicuro. E anche se così fosse, ti chiedi se servirebbe a qualcosa saperlo, giusto?» Non aspettò che rispondessi. «Ti capisco. Ricordo bene quello che abbiamo passato i miei genitori e io con Alan», proseguì. «Per molto tempo non abbiamo compreso la natura dei suoi problemi. E sai a quale conclusione sono giunto alla fine? Che non ha importanza. Io continuo a volergli bene e a prendermi cura di lui, e lo farò sempre. Ma... conoscere la sua condizione è servito a semplificare le cose tra di noi. Una volta saputa la verità... ecco, credo di aver smesso di aspettarmi che si comportasse in un certo modo. E senza aspettative, mi è stato più facile accettarlo.» Ci riflettei. «E se mio padre non avesse l'Asperger?» chiesi. . «Potrebbe essere così.» «E se io invece pensassi che ce l'ha?» Tim sospirò. «Non è tanto semplice, soprattutto nei casi più lievi. Non basta un esame del sangue per scoprirlo. Potresti arrivare al punto di ritenere probabile che soffra di quella patologia, ma senza riuscire a stabilirlo con più precisione. Non ne avrai mai la certezza. E da quello che mi ha raccontato Savannah, non credo che comunque lui cambierebbe molto. D'altronde, perché dovrebbe? Lavora, ti ha cresciuto... che cosa si può volere di più da un padre?» Pensai al mio papà mentre riflettevo su quelle parole. «Savannah ti ha comperato un libro», mi ricordò Tim. «Non so dove sia finito», risposi. «Ce l'ho io», ribatté. «L'ho portato da casa.» Mi porse il sacchetto di carta. Stranamente, ora il libro mi sembrava più pesante. «Grazie.» Si alzò e io compresi che il nostro incontro stava per finire. Si avviò verso la porta, poi si girò con la mano sulla maniglia. «Non devi leggerlo per forza», mi disse. «Lo so.» Aprì la porta, e si fermò. Capii che voleva aggiungere qualcosa, ma non si voltò verso di me. «Posso chiederti un favore?» «Certo.» «Non far soffrire la mia 'sorellina', d'accordo? So che lei ti ama e io voglio soltanto che sia felice.» Compresi allora di aver indovinato i suoi veri sentimenti. Mentre si dirigeva alla macchina, lo guardai dalla finestra, sicuro che anche lui fosse innamorato di Savannah. Misi da parte il libro e andai a fare una passeggiata. Quando tornai a casa, lo evitai ancora. Il fatto era che per qualche motivo mi spaventava. Ma dopo un paio d'ore superai le mie resistenze e trascorsi il resto del pomeriggio a leggerlo, pensando a mio padre. Tim aveva ragione. Non esisteva una diagnosi univoca, non c'erano criteri fissi, né modo di giungere alla certezza. Alcuni soggetti con la sindrome di Asperger avevano un QI basso, mentre altri, con disturbi autistici più gravi - come il protagonista di Rain Man -, erano considerati veri geni in determinati campi. Alcuni erano in grado di integrarsi talmente bene nella vita sociale che nessuno si accorgeva della loro condizione; altri, invece, dovevano essere ricoverati. Lessi profili psicologici di individui con l'Asperger che erano considerati prodigi della musica o della matematica, ma si trattava di rare eccezioni, come nel resto della popolazione. Scoprii che, quando mio padre era giovane, c'erano pochissimi medici in grado di riconoscere i sintomi di quel disturbo neurologico e che quindi forse i suoi genitori non si erano resi conto di niente. I bambini affetti da Asperger o da autismo in genere erano etichettati come ritardati o timidi e, quando non venivano chiusi in un istituto, alla famiglia restava solo la speranza che, crescendo, guarissero. La differenza fondamentale tra l'Asperger e l'autismo si poteva riassumere così: chi è affetto da autismo vive nel suo mondo, mentre chi ha l'Asperger vive nel nostro mondo ma secondo le sue regole. Stando a quella definizione, si poteva affermare che quasi tutti soffrissero di Asperger. Ma alcune indicazioni lasciavano supporre che la diagnosi di Savannah su mio padre fosse giusta. Le sue abitudini immutabili, la difficoltà nei rapporti sociali, la mancanza di interesse per qualsiasi argomento che non fosse la numismatica, il desiderio di stare da solo... sembravano tutte piccole manie abbastanza diffuse, ma il suo caso era diverso. Mentre altri potevano fare liberamente queste scelte, lui - come i soggetti con quella sindrome - sembrava essere stato in qualche modo «costretto» a vivere una vita già predeterminata. Era una possibile spiegazione del suo comportamento: papà era così non perché non volesse cambiare, ma perché non era in grado di farlo. Nonostante l'incertezza di fondo, trovai la cosa consolante. E mi resi conto che poteva anche rispondere a due interrogativi che mi tormentavano da sempre riguardo a mia madre: che cosa aveva visto in lui? E perché se ne era andata? Sapevo che non l'avrei mai scoperto e non avevo intenzione di indugiarci troppo. Ma con un balzo dell'immaginazione in quella casa silenziosa visualizzai un uomo in genere taciturno che intavolava una conversazione sulla sua collezione di monete con una giovane, povera cameriera, che trascorreva le sue serate da sola, sognando una vita migliore. Forse lei aveva fatto la civetta, o forse no, ma lui era attratto dalla donna e continuò a frequentare il bar. A poco a poco lei doveva aver intuito la gentilezza e la pazienza tipiche della sua indole. O aveva valutato accuratamente il suo carattere tranquillo e concluso che non si sarebbe mai arrabbiato, né sarebbe diventato violento. Anche senza amore poteva bastare, così acconsentì a sposarlo, convinta che, vendendo le monete, sarebbero riusciti a condurre un'esistenza, se non felice, almeno agiata. Rimase incinta e poi, dopo essersi resa conto che lui non riusciva nemmeno a pensare all'idea di disfarsi della sua collezione, aveva capito di essere rimasta incastrata con un marito che non mostrava interesse per nient'altro. Forse la solitudine aveva avuto il sopravvento, oppure lei era semplicemente egoista, ma in ogni modo voleva andarsene e, dopo la nascita del bambino, aveva colto la prima occasione per farlo. Oppure no, pensai. Dubitavo che sarei mai arrivato alla verità, ma non mi importava. Però volevo bene a mio padre che, nonostante il disordine che regnava nella sua mente, era riuscito a fissare delle regole stabili nella sua vita, consuetudini che lo aiutavano a stare nel mondo. Forse non erano del tutto normali, ma lui aveva trovato un modo per aiutarmi a diventare l'uomo che ero. E questo mi bastava. Era il mio papà, e aveva fatto del suo meglio. Ora lo sapevo. Quando richiusi il libro mi misi a fissare fuori dalla finestra, pieno di orgoglio per lui mentre cercavo di sciogliere il groppo che mi si era formato in gola. Tornato dal lavoro, papà si cambiò e andò in cucina a preparare la pasta. Lo osservai mentre si muoveva, adottando consapevolmente quel comportamento di Savannah che mi aveva fatto tanto indignare. Strano come la conoscenza cambi la percezione delle cose. Notai la precisione dei suoi gesti: il modo in cui apriva la scatola degli spaghetti e poi la posava sul banco, la maniera di rosolare la cipolla inclinando la spatola con angoli perfetti. Pensai che a quel punto avrebbe aggiunto sale e pepe e, un attimo dopo, lo fece. Sapevo che avrebbe aperto il barattolo di pelati, e di nuovo non mi deluse. Come al solito, non mi chiese niente della mia giornata, preferendo cucinare in silenzio. Prima lo avrei attribuito al fatto che eravamo diventati due estranei; ora capivo che forse lo saremmo rimasti per sempre. Ma stavolta non me ne preoccupai. Durante la cena, non mi informai su com'era andato il suo lavoro, sapendo che non mi avrebbe risposto. Gli raccontai invece di Savannah e del tempo che avevamo trascorso insieme. Poi lo aiutai a sparecchiare, continuando nel mio monologo. Una volta finito, lui ripulì il bancone per la seconda volta, poi girò i contenitori del sale e del pepe in modo che fossero nella stessa posizione di quando era arrivato a casa. Avevo l'impressione che volesse contribuire alla conversazione, ma non sapesse come fare... anche se forse era solo un mio tentativo di sentirmi meglio. Non aveva importanza. Adesso era pronto a ritirarsi nel suo studio. «Ehi, papà», gli dissi. «Ti andrebbe di mostrarmi le ultime monete che hai acquistato? Voglio che mi racconti tutto. » Mi guardò con aria incerta, come se non fosse sicuro di aver capito bene, poi abbassò lo sguardo e si toccò i capelli ormai radi. Quando rialzò la testa, aveva un'espressione quasi allarmata. «D'accordo», rispose infine. Ci incamminammo insieme verso lo studio e quando lo sentii posarmi dolcemente una mano sulla schiena, provai la sensazione di essergli vicino come non mi accadeva da anni. 11 La sera successiva ero in piedi sul molo ad ammirare lo spettacolo della luce argentea della luna che si rifletteva sull'oceano, e intanto mi chiedevo se lei mi avrebbe raggiunto. Dopo avere ascoltato a lungo papà che parlava di monete, contento di percepire l'eccitazione nella sua voce, la notte precedente ero uscito e avevo raggiunto in macchina la spiaggia. Avevo scritto un biglietto per Savannah, in cui le chiedevo di incontrarci lì. Poi l'avevo infilato in una busta e l'avevo lasciato sul parabrezza dell'auto di Tim. Sapevo che lui glielo avrebbe consegnato senza aprirlo, per quanto controvoglia. Ormai avevo intuito che, come mio padre, era un uomo migliore di quanto sarei mai stato io. Quel biglietto era la mia unica chance; a causa della scazzottata, di certo non ero più un ospite gradito nella casa vicino alla spiaggia. Inoltre, non mi andava di vedere Randy o Susan né gli altri, e questo mi rendeva impossibile contattare Savannah. Non aveva un cellulare e io non conoscevo il numero di telefono di quell'abitazione. Sapevo di avere sbagliato, di avere reagito in maniera violenta ed esagerata. Non solo con lei, ma anche con il resto del gruppo. Avrei dovuto semplicemente andarmene. Sebbene fossero dei ragazzi sportivi e si ritenessero degli atleti, Randy e i suoi amici non potevano competere con chi, come me, era allenato a mettere fuori gioco la gente in maniera rapida ed efficace. Se fosse accaduto in Germania, avrei rischiato di finire in galera per quello che avevo fatto. Le autorità non erano tenere con chi usava le tecniche militari in un contesto civile. Avevo passato tutta la giornata a guardare l'orologio in preda all'ansia, e quando l'ora dell'appuntamento arrivò, mi ritrovai a lanciare compulsivamente delle occhiate alle mie spalle. Infine, tirai un sospiro di sollievo all'apparire di una figura in lontananza. Dal modo in cui si muoveva capii che doveva essere Savannah. Mi appoggiai alla balaustra e aspettai. Quando mi vide rallentò il passo, sino a fermarsi. Niente abbracci né baci... il suo improvviso distacco mi ferì. «Ho ricevuto il biglietto», disse. «Grazie di essere venuta.» «Sono dovuta uscire di nascosto, in modo che nessuno sapesse che eri qui», spiegò. «Ho sentito alcuni ragazzi parlare di quello che ti avrebbero fatto se ti fossi ripresentato.» «Mi spiace», attaccai senza preamboli. «So che volevi solo aiutarmi... io ho sbagliato a prendermela in quel modo.» «E?» «E poi mi rincresce di aver colpito Tim. E un ragazzo fantastico, e avrei dovuto stare più attento.» Mi fissava senza batter ciglio. «E?» Mi dondolai sui piedi, sapendo che stavo per fare un'affermazione non del tutto sincera, ma era ciò che lei si aspettava da me. «E mi spiace anche per Randy e l'altro tizio.» Continuò a guardarmi. «E?» Ero a corto d'idee. Cercai uno spunto, poi la guardai. «E...» mi bloccai. «E cosa?» «E...» Non mi veniva in mente proprio niente. «Non so», confessai, «ma qualunque cosa sia, mi spiace comunque. » Lei assunse un'espressione strana. «Tutto qui?» Ci pensai su. «Non so che altro dire», ammisi. > Notai sul suo viso l'ombra di un sorriso. Fece un passo verso di me. «Tutto qui?» ripetè, con voce più dolce. Io rimasi zitto. Lei fece un altro passo e, con mia sorpresa, mi gettò le braccia al collo. «Non ti devi scusare», mormorò. «Non hai motivo di sentirti in colpa. Probabilmente anch'io avrei reagito così.» «Allora perché questo interrogatorio?» «Per avere conferma che la mia prima impressione su di te era giusta», rispose. «Sapevo che sei un ragazzo di buon cuore.» «Non capisco.» «Vedi, l'altra sera... dopo l'accaduto... Tim mi ha convinto che non avevo il diritto di parlarti in quel modo. Avevi ragione. Non ho la capacità di fare una valutazione professionale, eppure ho avuto l'arroganza di provarci. E per quanto riguarda quello che è successo sulla spiaggia, ho visto tutto. Non è stata colpa tua. E non avevi neanche intenzione di colpire Tim, ma è bello che tu abbia chiesto scusa. Se non altro, ora so che anche in futuro saresti capace di farlo.» Si appoggiò a me e, quando chiusi gli occhi, capii che tutto quello che desideravo era tenerla tra le mie braccia per sempre. Più tardi quella notte, dopo aver passato ore a parlare e a baciarci sulla spiaggia, le accarezzai il mento con il dito e sussurrai: «Grazie». «Di che cosa?» «Del libro. Ora credo di capire un po' meglio mio padre. Noi due siamo stati bene insieme ieri sera.» «Ne sono contenta.» «E grazie per come sei.» Le baciai la fronte. «È tutto merito tuo se adesso sono in grado di dire questo di papà. Non sai quanto sia importante per me.» Il giorno dopo lei avrebbe dovuto lavorare in cantiere, ma era la nostra ultima possibilità di vederci prima della mia partenza per la Germania, così Tim si era mostrato comprensivo e l'aveva lasciata libera. Quando passai a prenderla a casa, lui scese i gradini e si accovacciò accanto all'auto, con la testa all'altezza del finestrino. I lividi sotto gli occhi erano diventati quasi neri. Infilò la mano dentro l'auto per salutarmi. «È stato un piacere conoscerti, John.» «Anche per me», risposi sincero. «Abbi cura di te, d'accordo?» «Ci proverò.» Ci stringemmo la mano, con la sensazione di essere uniti da un segreto legame. Savannah e io trascorremmo la mattinata all'acquario di Fort Fisher, incantati da quelle strane creature che si muovevano silenziose dietro i vetri. C'erano lucci con i loro lunghi musi e minuscoli cavallucci marini; nella vasca più grande vedemmo squali nutrice e ombrine. Ci divertimmo a toccare il paguro Bernardo, poi lei acquistò nel negozio di souvenir un portachiavi con un pinguino che trovava molto buffo, e me lo regalò. A pranzo, la portai in un locale in riva all'oceano, dove ci sedemmo all'aperto tenendoci per mano mentre guardavamo le barche a vela ormeggiate che dondolavano piano. Persi nel nostro amore, non badammo al cameriere, che dovette venire al tavolo tre volte prima che aprissimo il menu. Ero estasiato dalla facilità con cui Savannah manifestava le proprie emozioni e dalla tenerezza con cui mi ascoltava parlare di mio padre. Le baciai la mano. «Un giorno ti sposerò, sai.» «È una promessa?» «Se vuoi.» «Allora dovrai promettermi che tornerai da me, una volta lasciato l'esercito. Non posso sposarti, se non sei qui. » «Affare fatto.» Dopo pranzo passeggiammo per i giardini della Os-wald Plantation, una dimora che risaliva a prima della Guerra Civile e che vantava uno dei più bei giardini di tutto lo stato. Camminammo per i vialetti di ghiaia, in mezzo a una profusione di fiori variopinti sbocciati nel clima caldo e umido del Sud. «A che ora è il tuo volo domani?» mi chiese. Il sole cominciava a tramontare nel cielo senza nuvole. «Presto. Probabilmente sarò all'aeroporto prima che tu ti svegli.» Assentì. «E passerai la serata con tuo padre, giusto?» «Pensavo di sì. Non ho trascorso con lui tutto il tempo che meritava, ma credo che capirebbe se...» «No, non cambiare programmi. Voglio che tu stia un po' assieme a lui. Speravo che lo facessi. Ecco perché oggi sono rimasta con te.» Avanzammo lungo un vialetto fiancheggiato da un'aio-la dalla decorazione elaborata. «Allora, che cosa hai intenzione di fare?» le domandai. «Riguardo noi due, intendo. » «Non sarà facile», rispose. «Hai ragione, ma non voglio che finisca tutto...» Intuendo che le parole non sarebbero bastate, le cinsi la vita da dietro e la strinsi a me. Le baciai l'orecchio e il collo, assaporando la sua pelle vellutata. «Ti telefonerò ogni volta che posso, ti scriverò spesso e otterrò un'altra licenza per il prossimo anno. Dovunque sarai, io ti raggiungerò. » Lei voltò la testa per guardarmi in viso. «Lo farai davvero?» La strinsi più forte. «Naturalmente. Non sono felice di lasciarti e vorrei tanto non essere dislocato oltreoceano, ma per ora non posso prometterti di più. Farò richiesta di trasferimento appena tornerò al comando, anche se queste cose possono andare per le lunghe.» «Lo so», mormorò. Per qualche motivo, la sua espressione grave mi innervosì. «E tu mi scriverai?» le chiesi. «Tzè», scherzò e subito sentii il mio nervosismo dissolversi. «Ma certo», aggiunse sorridendo. «Lo farò in continuazione. E ti avverto che so scrivere lettere bellissime. » «Non ne dubito.» «Dico sul serio. Nella mia famiglia siamo tutti dei grafomani. Quando siamo in giro da qualche parte scriviamo sempre alle persone che ci sono care, per far sapere loro quanto sono importanti per noi, e che non vediamo l'ora di rivederle.» Tornai a baciarle il collo. «E io quanto sono importante per te? E quanto sei ansiosa di rivedermi?» Si appoggiò a me. «Dovrai leggere le mie lettere per capirlo.» Risi, ma avevo il cuore in pezzi. «Mi mancherai», sussurrai. «Anche tu.» «Non mi sembri tanto triste nel dirlo.» : «È perché ci ho già pianto su, ricordi? E poi, questo non è un addio. Alla fine l'ho capito. Sì, sarà difficile, ma il tempo corre... e noi ci rivedremo. Me lo sento. Così come sento il bene che mi vuoi e quanto io ti amo. Il mio cuore sa che non è finita, e che ce la faremo a superare questo periodo. Un sacco di coppie ci riescono. E quelli che falliscono non sono come noi.» Desideravo intensamente crederle, ma mi chiedevo anche se sarebbe stato tutto così semplice. Quando il sole fu scomparso dietro l'orizzonte, tornammo alla macchina e la riaccompagnai a casa. Mi fermai a una certa distanza e, una volta scesi, l'abbracciai. Ci baciammo e io la strinsi forte, con la consapevolezza che l'anno che mi aspettava sarebbe stato il più lungo della mia vita. Rimpiangevo profondamente di essermi arruolato e avrei tanto voluto essere un uomo libero, però non era così. «Sarà meglio che vada.» Lei annuì e si mise a piangere. Io provai una stretta al petto. «Ti scriverò presto», le promisi. «Okay.» Si asciugò le lacrime e infilò la mano nella borsa. Estrasse una penna e un piccolo bloc-notes e cominciò a scarabocchiarci sopra. «Qui ci sono il mio indirizzo di casa, il mio numero di telefono e la mia e-mail.» Annuii a mia volta. «Ricordati che l'anno prossimo cambierò alloggio. Ti farò avere il nuovo recapito non appena lo so. Comunque, potrai sempre contattarmi tramite i miei genitori.» «Tu hai già i miei recapiti, vero? Anche se sarò via in missione, le lettere mi arriveranno. E pure le e-mail. L'esercito è bravissimo a collegare i computer persino in mezzo al nulla.» Sembrava una bambina sperduta. «Mi spaventa il fatto che tu sia un soldato.» «Non mi accadrà niente.» Infilai il suo foglietto nel portafoglio, poi aprii la portiera. Spalancai le braccia, lei mi venne vicino e io la strinsi di nuovo imprimendomi nella mente le forme del suo corpo. Dopo un po' si staccò. Tornò a infilare la mano nella borsa e ne estrasse una busta. «Questa lettera te l'ho scritta ieri sera, così avrai qualcosa da leggere in aereo. Non aprirla prima, promesso?» Annuii e la baciai per l'ultima volta, quindi mi sedetti al volante. Avviai il motore e, mentre facevo manovra, la sentii gridare: «Saluta tuo padre da parte mia. Digli che passerò a trovarlo nelle prossime settimane». Fece un passo indietro quando la macchina partì. La vedevo ancora nel retrovisore. Mi sarei potuto fermare. Papà avrebbe capito. Sapeva che cosa significava Savannah per me, e non gli sarebbe spiaciuto se avessi passato l'ultima serata con lei. Ma continuai ad avanzare, mentre la sua immagine nello specchietto si rimpiccioliva sempre di più, come un sogno che piano piano svanisce. La cena con mio padre fu più silenziosa del solito. Non avevo la forza di abbozzare una conversazione, e persino lui se ne rese conto. Mi sedetti al tavolo mentre cucinava e mi accorsi che, invece di concentrarsi sui preparativi, di tanto in tanto mi lanciava un'occhiata di muta preoccupazione. Rimasi sbigottito quando si allontanò dai fornelli e venne verso di me. Mi si fermò davanti e mi posò una mano sulla schiena. Non disse nulla, ma non ce n'era bisogno. Comprendeva che stavo soffrendo e rimase in piedi, senza muoversi, come se cercasse di assorbire il mio dolore per alleviarmelo caricandolo su di sé. . , Il mattino seguente mi accompagnò all'aeroporto e restò con me mentre aspettavo la chiamata del volo. Quando arrivò il momento mi alzai. Lui mi diede la mano, ma io lo abbracciai. Il suo corpo era rigido, però non me la presi. «Ti voglio bene, papà.» «Anch'io ti voglio bene, John.» «Mi raccomando, trova qualche bella moneta», aggiunsi staccandomi. «Così la prossima volta mi racconti tutto.» Abbassò lo sguardo verso il pavimento. «Mi piace Savannah. È una ragazza simpatica», disse. Mi colse del tutto impreparato, ma in un certo senso era proprio ciò che volevo sentire. Una volta seduto al mio posto, tirai fuori la lettera che mi aveva dato Savannah e la posai in grembo. Smaniavo dalla voglia di leggerla, ma aspettai fino a dopo il decollo. Dal finestrino vedevo la costa e individuai dapprima il molo, poi la casa. Mi chiesi se lei stesse ancora dormendo, ma preferii pensare che fosse uscita in spiaggia a guardare l'aeroplano. Quando fui pronto aprii la busta. C'era anche una sua fotografia, e subito mi rammaricai di non avergliene data una mia. La guardai a lungo, poi la misi da parte. Feci un profondo respiro e mi misi a leggere. Caro John, ho così tanto da dirti, che non so da dove cominciare. Potrei iniziare dicendo che ti amo? Oppure che i giorni passati in tua compagnia sono stati i più felici della mia vita? O che, nel breve tempo in cui ci siamo frequentati, ho capito che eravamo fatti l'uno per l'altra? E tutto vero, ma rileggendo le mie parole riesco solo a pensare che vorrei essere con te adesso, tenendoti per mano mentre osservo il tuo buffo sorriso. So che in futuro rivivrò migliaia di volte le nostre giornate insieme. Udrò la tua risata e vedrò il tuo viso e sentirò le tue braccia che mi stringono. Mi mancheranno tutte queste cose, più di quanto tu possa immaginare. Sei un vero gentiluomo, John, e io apprezzo questa tua rara qualità. Anche quando eravamo soli, non hai mai insistito perché venissi a letto con te, e per me è stato molto importante. Ha reso ancora più speciale il nostro rapporto, ed è in questo modo che voglio ricordare il tempo che abbiamo condiviso: come una luce bianca e pura, quasi accecante. Il tuo pensiero mi accompagnerà ogni giorno. Anche se ho il timore che arrivi un momento in cui i tuoi sen-y timenti cambieranno, e piano piano comincerai a dimenticarti di noi. Ecco allora la mia proposta. Ovunque sarai e qualunque cosa stia accadendo nella tua vita, tutte le volte che ci sarà la luna piena come la sera del nostro primo incontro - tu cercala nel cielo. E mentre la guardi, pensa a me e alla nostra magica settimana, perché dovunque sarò e qualunque cosa mi stia succedendo, io farò lo stesso. Se non potremo stare insieme, almeno avremo questo a unirci, e forse così il nostro legame durerà per sempre. Ti amo, John Tyree, e cercherò di farti restare fedele alla tua promessa. Se tornerai, ti sposerò. Se invece verrai meno alla promessa, mi spezzerai il cuore. Mi manchi già, Savannah Al di là dell'oblò e attraverso un velo di lacrime vidi una cortina di nuvole sotto di me. Non avevo idea di dove fossimo. Sapevo soltanto che avrei voluto tornare indietro, a casa, nel luogo che mi spettava. PARTE SECONDA 12 Molte ore dopo, durante la mia prima, solitaria notte in Germania rilessi quella lettera, rivivendo i nostri giorni insieme. Non fu difficile; il ricordo aveva già cominciato a ossessionarmi, e a volte sembrava più vero della mia vita da soldato. Sentivo la mano di Savannah nella mia e la vedevo scrollarsi l'acqua del mare dai capelli. Scoppiavo a ridere rammentando il mio stupore quando aveva cavalcato l'onda con la massima disinvoltura fino a riva. La settimana trascorsa con lei mi aveva cambiato e anche gli uomini della mia squadra se ne accorsero. Il mio amico Tony mi prese in giro senza fine; era compiaciuto che fosse stata confermata la sua teoria sull'importanza della compagnia femminile. Avevo commesso l'errore di parlargli di Savannah, ma lui voleva sapere più di quanto io fossi disposto a rivelare. Una sera, mentre ero immerso nella lettura di un libro, si sedette di fronte a me con un sorriso idiota stampato sulla faccia. «Raccontami ancora della tua folle storia d'amore», esordì. Tenni gli occhi incollati sulla pagina, ignorandolo. «Savannah, giusto? Sa-va-nnah. Cavolo, che bel nome. Ha un suono così... delicato. Ma scommetto che era una tigre sotto le lenzuola, eh?» «Piantala, Tony.» «Non trattarmi così. Non sono stato forse io a prendermi cura di te per tutto questo tempo? A ripeterti che dovevi uscire per trovarti una ragazza? Alla fine mi hai dato ascolto, e adesso voglio tutti i particolari. » «Non sono affari tuoi.» «Avete bevuto tequila, vero? Te l'avevo detto che funziona sempre.» Rimasi in silenzio. Tony non mollava. «Avanti... non essere reticente.» «Non ne voglio parlare.» «Perché sei innamorato? Già, così hai sostenuto, ma comincio a credere che ti sia inventato tutto.» «Esatto. È solo una mia fantasia. Ora hai finito?» «Sei proprio cotto a puntino», commentò, alzandosi. Non replicai, anche se aveva ragione. Ero innamorato perso di Savannah. Volevo tornare da lei, e avevo fatto domanda di trasferimento negli Stati Uniti. Il mio austero ufficiale superiore sembrò prendere la cosa molto sul serio. Quando mi chiese le motivazioni, addussi la scusa di mio padre. Mi ascoltò in silenzio, poi si appoggiò alla spalliera e affermò: «E molto difficile ottenerlo, a meno che la salute di tuo padre non sia davvero a rischio». Uscendo dal suo ufficio capii che non sarei andato da nessuna parte almeno per i prossimi sedici mesi. Non feci nulla per nascondere la mia delusione e, alla successiva notte di luna piena, uscii dagli alloggi e raggiunsi una delle spianate erbose che usavamo come campo di calcio. Rimasi lì sdraiato a guardare il cielo e a pensare a Savannah, struggendomi di essere tanto lontano. Fin dall'inizio ci tenemmo in contatto regolarmente. Ci telefonavamo e comunicavamo attraverso la posta elettronica, ma ben presto compresi che lei preferiva inviarmi delle lettere e si aspettava che io facessi altrettanto. «So che una lettera non ha l'immediatezza di una e-mail», mi spiegò, «ma adoro la sorpresa di trovare una busta nella cassetta della posta e l'ansiosa trepidazione che provo prima di aprirla. Mi piace andare a leggerla da qualche parte, magari con la schiena appoggiata a un tronco e la brezza che mi accarezza il viso mentre scorro le tue parole. Mi piace anche immaginare quando le hai scritte: gli abiti che indossavi, l'ambiente circostante, il tuo modo di tenere la penna. So che è solo un vecchio luogo comune, ma ti penso seduto in una tenda a un tavolo di fortuna, con un lume a petrolio acceso accanto a te e il vento che soffia fuori. Così è molto più romantico che ricevere una e-mail sullo stesso computer che utilizzo per fare ricerche per gli esami o scaricare la musica.» Sorrisi. In effetti era più romantico, anche se al posto della tenda, del tavolo di fortuna e del lume a petrolio, io mi mettevo a scrivere a un'anonima scrivania dell'esercito nel mio alloggio con l'illuminazione al neon. Con il trascorrere delle settimane i miei sentimenti si rafforzarono. A volte mi allontanavo dai compagni per restare da solo. Allora tiravo fuori la foto di Savannah e la studiavo attentamente. Era strano ma, per quanto l'amassi e non mi fossi affatto dimenticato di noi due, quando l'estate lasciò il posto all'autunno e infine arrivò l'inverno fui sempre più grato di avere quella fotografia. Certo, ero convinto di ricordarmela bene, ma dovevo ammettere che alcuni particolari avevano cominciato a sfumarsi nella mia mente. Oppure non li avevo mai notati. Per esempio, guardando la foto, mi accorsi per la prima volta che Savannah aveva un piccolo neo sotto l'occhio sinistro. O che, in quel primo piano, il suo sorriso era leggermente storto. Erano piccole imperfezioni che la rendevano ancora più bella ai miei occhi, però mi disturbava il fatto che io non potessi rilevarle di persona. Bene o male, la vita andava avanti. Per quanto ci pensassi, per quanto sentissi la sua mancanza, avevo un lavoro da svolgere. A partire da settembre - per una serie di circostanze che l'esercito non fu in grado di spiegare - la mia squadra fu mandata di nuovo in Kosovo per unirsi alla Prima Divisione Corazzata in un'ennesima missione di peacekeeping, mentre il resto della fanteria rimaneva in Germania. La situazione era abbastanza tranquilla e non sparai nemmeno un colpo, ma ciò non voleva dire che passassi il tempo a raccogliere fiori e a struggermi per Savannah. Tenevo pulito il fucile, controllavo che non avvenissero incidenti... e quando sei costretto a stare sempre allerta, la sera sei sfinito. Così passavano anche un paio di giorni di seguito senza che mi chiedessi che cosa stesse facendo lei, o senza che nemmeno la pensassi. Ciò rendeva forse meno autentico il mio amore? Mi ponevo spesso quell'interrogativo, ma mi rispondevo sempre in maniera negativa, per la semplice ragione che la sua immagine mi assaliva di soppiatto quando meno me l'aspettavo, e mi riempiva dello stesso struggimento che avevo provato quand'ero partito. Bastava una minima cosa a suscitare tale stato d'animo: un compagno che parlava della moglie, la vista di una coppia che si teneva per mano, persino il modo di sorridere dei locali al nostro passaggio. Le lettere di Savannah arrivavano all'incirca ogni dieci giorni e, quando infine tornai in Germania, ce n'era un bel mucchio ad aspettarmi. Nessuna di queste assomigliava a quella che avevo letto sull'aereo; in genere erano allegre e descrittive, e lei lasciava alle ultime righe le espressioni d'affetto. Perlopiù mi teneva informato sulla sua vita quotidiana: la prima casa era stata terminata con un lieve ritardo, così avevano dovuto accelerare i tempi per costruire la seconda. Erano stati costretti a trattenersi in cantiere fino a tardi, anche se nel frattempo tutti erano diventati molto più abili. Mi raccontò che, alla conclusione dei primi lavori, avevano organizzato una grande festa a cui aveva partecipato tutto il vicinato. Poi la squadra al completo era andata a cena allo Shrimp Sback e Tim aveva dichiarato che era il locale più suggestivo dove fosse mai stato. Appresi che era riuscita a iscriversi ai corsi autunnali con gli insegnanti che voleva, ed era molto esaltata all'idea di seguire le lezioni di psicopedagogia di un certo dottor Barnes, che pareva essere un'autorità in materia. Non avevo bisogno di credere che Savannah pensasse a me ogni volta che piantava un chiodo o aiutava a mettere in sede una finestra, o che, nel bel mezzo di una conversazione con Tim, rimpiangesse che non ci fossi io al suo posto. Ero convinto che il nostro legame fosse più profondo e, con il tempo, questa idea rinforzò ulteriormente il mio attaccamento nei suoi confronti. Ovviamente, mi gratificava anche leggere frasi d'amore, e lei non mi deludeva mai. Era il motivo per cui conservavo gelosamente tutte le sue lettere. Al termine di ognuna c'era sempre qualche frase, a volte un intero paragrafo, in cui scriveva qualcosa che mi commuoveva, parole che accendevano i ricordi e che io rileggevo più volte, cercando di immaginarmi la sua voce. Si trattava di brani come questo, che concludeva la sua seconda lettera: Quando penso a noi due e a quello che abbiamo condiviso, mi rendo conto che molti lo liquiderebbero senza indugi come un effetto dei giorni e delle serate trascorsi sulla spiaggia, ossia come una «infatuazione» di breve durata. Ecco perché preferisco non parlarne con gli altri. Non capirebbero, e io non sento il bisogno di spiegare, semplicemente perché il mio cuore sa quanto sia stato vero. Quando penso a te, non posso fare a meno di sorridere, perché sento che mi hai completato. Ti amo, non solo adesso, ma per sempre, e sogno il giorno in cui mi abbraccerai di nuovo. Oppure quest'altro, dopo che le avevo spedito una mia foto: E per finire, grazie per la fotografia. Per fortuna tu hai un'aria sana e contenta, ma devo confessarti che ho pianto quando l'ho guardata. Non perché mi abbia rattristato anche se mi addolora non poterti vedere di persona - ma perché mi ha fatto troppo felice. Mi ha ricordato che sei la cosa migliore che mi sia mai capitata. O questo, che mi scrisse durante la mia permanenza in Kosovo: Devo dire che la tua ultima lettera mi ha spaventato. Desidero sapere, ho bisogno di condividere tutto con te, ma mi ritrovo a trattenere il fiato per la paura ogni volta che mi racconti la situazione che stai vivendo. Io sono qui, a prepararmi per il Giorno del Ringraziamento e ad angosciarmi per gli esami, mentre tu sei in un luogo pericoloso, circondato da gente ostile che potrebbe farti del male. Vorrei tanto che loro ti conoscessero bene quanto me, perché così saresti al sicuro. Come io mi sento quando sono tra le tue braccia. Natale fu un tormento, ma è sempre così quando sei lontano da casa. Non era la prima volta che lo trascorrevo con l'esercito in Germania, e in caserma qualcuno aveva allestito un albero di fortuna: un'incerata verde tenuta su da un bastone e decorata con luci intermittenti. Molti miei compagni erano in licenza - io ero uno degli sfortunati costretti a rimanere, nel caso i nostri nuovi amici russi avessero cambiato idea decidendo all'improvviso di attaccarci - e altri erano andati in città a festeggiare sfondandosi di birra tedesca. Avevo già aperto il pacco speditomi da Savannah - conteneva un maglione che mi ricordava quelli di Tim e una scatola di biscotti - e sapevo che lei aveva ricevuto il profumo che le avevo mandato. Ma mi sentivo solo e decisi di farmi un regalo concedendomi di telefonarle. Non si aspettava che la chiamassi e io fui sorpreso di udire la sua voce. Parlammo per più di un'ora. Come mi era mancata... mi ero dimenticato il suo accento cadenzato che si accentuava quando si metteva a parlare alla svelta. Mi appoggiai alla spalliera e l'ascoltai descrivermi la neve che cadeva nel suo giardino in quel momento. Guardando nel cortile fuori dalla finestra, mi accorsi che nevicava anche lì e, seppure solo per un istante, ebbi la sensazione che noi fossimo assieme. A partire dal gennaio 2001 cominciai il conto alla rovescia del tempo che mancava alla mia licenza, prevista per giugno, e al mio congedo dall'esercito a fine anno. Mi svegliavo la mattina e mi dicevo che ci volevano ancora 360 o 359 o 358 giorni, ma che avrei rivisto Savannah entro 178, poi 177 e 176, e così via. Era una meta tangibile e reale, abbastanza vicina da farmi sognare di tornare nel North Carolina; d'altro canto, iniziai a sentirmi impaziente come quando da bambino aspettavo le vacanze estive. Mio padre continuava a scrivermi a intervalli regolari di un mese. Con mia sorpresa, ora le sue lettere erano molto più lunghe della paginetta a cui ero abituato. Anche se le altre pagine riguardavano esclusivamente la numismatica. Nel tempo libero, mi ero messo a fare ricerche in Internet su determinate monete e poi spedivo a papà le informazioni raccolte. Ero convinto che le apprezzasse. Da parte sua, non accennò mai ai miei sforzi, ma mi piaceva credere che stesse chino sui fogli che gli inviavo con la stessa concentrazione di quando consultava il Greysheet. A febbraio partecipai a una serie di esercitazioni assieme alle truppe NATO. Dovevamo «fingere di trovarci in una battaglia nel 1944» in cui bisognava fermare un'avanzata di carri armati nella campagna tedesca. Una cosa del tutto inutile, se volete saperlo. Quel genere di scontro non esiste più, fa parte della storia, come i galeoni spagnoli che sparavano con i cannoni a breve gittata o le cariche della cavalleria yankee. Oggigiorno non ti dicono mai chi sia il nemico, ma tutti sanno che si tratta dei russi, e questo è ancora più assurdo, visto che dovrebbero essere nostri alleati. E poi non hanno tutti quei carri armati di una volta e, anche se ne stessero costruendo in segreto migliaia in qualche fabbrica della Siberia, con l'intenzione di invadere l'Europa, si troverebbero a dover fronteggiare attacchi aerei e le nostre divisioni meccanizzate, non certo la fanteria. Ma io cosa potevo farci? Pure il tempo era schifoso, con un perfido fronte freddo che scendeva dall'Artico proprio all'inizio delle manovre. Fu un'avventura epica, con neve, ghiaccio, grandine e venti che soffiavano a più di ottanta chilometri l'ora. Mi faceva venire in mente la ritirata napoleonica dalla Russia. L'aria era così gelida che avevo le sopracciglia ghiacciate, mi bruciavano i polmoni quando respiravo e le dita mi si incollavano alla canna del fucile quando per sbaglio la toccavo. Staccarle faceva un male da morire e ogni volta ci rimettevo un lembo di pelle. Alla fine tenni la faccia ben coperta e le mani sul calcio, e marciai nel fango prodotto dalle continue bufere di neve, cercando di non trasformarmi in una statua di ghiaccio mentre fingevamo di combattere il nemico. Andammo avanti così dieci giorni. Metà dei miei uomini si presero i geloni, l'altra metà soffriva di ipotermia e alla fine dell'esercitazione la squadra era ridotta a tre o quattro elementi, che finirono tutti all'ospedale della base, me compreso. Fu l'esperienza più ridicola e idiota che l'esercito mi avesse mai fatto fare. E non è poco, visto che ho fatto un sacco di cose stupide per il vecchio Zio Sam e il Grande Uno Rosso. Il nostro comandante venne a trovarci in corsia, complimentandosi per il lavoro svolto. Avrei voluto replicare che forse per noi sarebbe stato più utile imparare le moderne tattiche belliche, o almeno a sintonizzarci sul canale meteo. Invece, lo salutai impettito, da bravo soldato qual ero. I mesi restanti trascorsero alla base senza particolari eventi. A parte le lezioni sulle armi o la navigazione satellitare e qualche birra bevuta in città con i ragazzi, passai il tempo a sollevare pesi, correre per centinaia di chilometri e cercare di mettere al tappeto Tony tutte le volte che salivamo sul ring. La primavera in Germania non fu orribile come immaginavo dopo le disastrose manovre invernali. La neve si sciolse, spuntarono i fiori, la temperatura diventò più mite. Ecco, non proprio calda, ma almeno sopra lo zero e questo bastò alla maggior parte di noi per infilarci i calzoncini e andare fuori a giocare a frisbee o a calcio. Quando infine giugno fu alle porte, la mia ansia di tornare nel North Carolina raggiunse livelli incredibili. Savannah si era laureata e stava già frequentando i corsi estivi per il master, così pensai di raggiungerla a Chapel Hill. Avremmo trascorso due fantastiche settimane insieme - sarebbe venuta con me a Wilmington quando sarei andato a trovare mio padre - e la prospettiva mi riempiva alternativamente di nervosismo, esaltazione e paura. Certo, ci eravamo scritti e sentiti per telefono. Ero uscito a guardare la luna piena tutti i mesi, e nelle sue lettere mi confermava di averlo fatto anche lei. Ma non la vedevo da quasi un anno, e non avevo idea di quale sarebbe stata la sua reazione una volta che ci fossimo trovati di nuovo faccia a faccia. Mi sarebbe corsa tra le braccia, oppure mi avrebbe accolto in maniera più riservata? Avremmo subito iniziato a comunicare senza problemi, oppure avremmo parlato del tempo, profondamente impacciati? Non potevo prevedere cosa sarebbe successo e di notte restavo sveglio a immaginare un sacco di scenari possibili. Tony capiva quello che stavo passando, ma fu abbastanza furbo da far finta di niente. Solo quando si avvicinò il momento della licenza, mi diede una pacca sulla schiena e mi chiese: «La rivedrai presto, eh? Sei pronto?» «Sì.» Ammiccò. «Non dimenticarti di comperare una bottiglia di tequila prima di incontrarla.» Lo guardai torvo e lui scoppiò a ridere. «Andrà tutto bene», disse. «Lei ti ama, amico. È il minimo che possa fare, visto quanto l'ami tu.» 13 Nel giugno 2001 ottenni la licenza e partii subito, volando direttamente da Francoforte a New York e da lì a Raleigh. Era venerdì sera e Savannah aveva promesso di venire a prendermi all'aeroporto, poi saremmo andati insieme a Lenoir a casa dei suoi genitori. Mi aveva informato di questa novità il giorno prima della partenza. Sia chiaro, non avevo niente contro l'idea di conoscere i suoi. Ero sicuro che fossero persone meravigliose e tutto il resto, ma se avessi potuto fare a modo mio, avrei preferito rimanere da solo con lei almeno per un paio di giorni. E un po' difficile recuperare il tempo perduto quando ci sono in giro i parenti. Anche se non avessimo avuto rapporti fisici - conoscendola, lo mettevo in conto, ma incrociavo le dita - come avrebbero reagito loro se fossimo rimasti fuori la notte fino a tardi... a guardare le stelle? Certo, lei era un'adulta ormai, comunque si sa che i genitori tendono sempre a considerare le figlie delle bambine. Savannah però aveva le sue argomentazioni. Sarei rimasto in America per due fine settimana, e se il secondo volevamo trascorrerlo con mio padre, il primo dovevamo passarlo con i suoi. E poi, era così esaltata all'idea che non me la sentii di deluderla. Dentro di me, dubitavo di riuscire a limitarmi a tenerla per mano e speravo di convincerla a fare una piccola deviazione lungo il tragitto per Lenoir. Quando l'aereo atterrò, il cuore mi batteva in gola per la trepidazione. Non sapevo come comportarmi. Dovevo correrle incontro non appena la vedevo, oppure camminare lentamente, con aria disinvolta e controllata? Ma prima che potessi pensarci su, mi ritrovai ad avanzare nel corridoio spinto dalla folla degli altri passeggeri. Mi gettai la sacca a tracolla e sbucai dalla rampa di collegamento con il terminal. Inizialmente non la individuai - c'era molta gente in attesa - ma a una seconda occhiata la scorsi sulla sinistra e mi resi conto che tutte le mie preoccupazioni erano inutili perché, appena mi riconobbe, si precipitò verso di me a rotta di collo. Feci appena in tempo a posare la sacca prima che lei mi saltasse addosso. Il bacio che seguì mi proiettò in un regno incantato, con tanto di linguaggio e di geografia speciali, miti favolosi ed eterne meraviglie. Quando si staccò da me mormorando: «Mi sei mancato», fu come se all'improvviso mi sentissi di nuovo intero dopo aver passato un anno tagliato in due. Non so per quanto tempo restammo lì immobili, poi ci incamminammo verso il ritiro bagagli e io la presi per mano con la consapevolezza di amarla non solo più di prima, ma come non avrei mai amato nessun'altra. Durante il viaggio in macchina parlammo tranquillamente, e facemmo una piccola deviazione. Ci fermammo in una piazzola dove ci comportammo come due adolescenti. Fu bellissimo - non dico altro - e un paio d'ore più tardi arrivammo a Lenoir. I genitori ci aspettavano sulla veranda di una bella casa vittoriana a due piani. Savannah fece le presentazioni e rimasi sorpreso quando Jill, sua madre, mi abbracciò e poi mi offrì una birra. Rifiutai, soprattutto perché sapevo che sarei stato l'unico a bere, ma apprezzai lo sforzo. Quella donna somigliava molto alla figlia: era spontanea, estroversa e perspicace. Anche il padre si mostrò affabile e devo riconoscere che mi trovai a mio agio con loro. Non guastava il fatto che Savannah mi tenesse la mano per tutto il tempo, senza il minimo imbarazzo. Dopo cena uscimmo a fare una lunga passeggiata sotto la luna, e al ritorno eravamo di nuovo intimi come se non fossimo mai stati lontani. Manco a dirlo, dormii nella camera degli ospiti. La stanza era confortevole e accogliente, ma c'era odore di chiuso e aprii la finestra, in modo che l'aria di montagna rinfrescasse l'ambiente. Era stata una lunga giornata - con un cambiamento di fuso orario - e mi addormentai subito, per svegliarmi un'ora dopo sentendo cigolare la porta. Savannah comparve con indosso un pigiama di cotone e i calzini, richiuse l'uscio dietro di sé e si avvicinò al letto in punta di piedi. Si portò un dito alla bocca per indicarmi di tacere. «I miei mi ucciderebbero se sapessero che sono qui», bisbigliò. Si sdraiò accanto a me e si tirò il lenzuolo fin sotto il mento, come se fossimo in una tenda al circolo polare. Io l'abbracciai, assaporando la sensazione del suo corpo contro il mio. Ci baciammo e parlottammo per quasi tutta la notte, poi lei tornò in camera sua. Mi addormentai di botto e mi risvegliai con i raggi del sole che entravano nella stanza. Mi infilai una maglietta e un paio di jeans e scesi in cucina. Savannah era seduta al tavolo a parlare con sua madre, mentre il padre leggeva il giornale. Entrando, io avvertii il peso della loro presenza. Mi sedetti a mia volta e Jill mi versò il caffè e mi porse un piatto di uova con il bacon. Di fronte a me, Savannah aveva un'aria incredibilmente fresca e piena di energia nella morbida luce del mattino. «Dormito bene?» mi chiese con un lampo di malizia negli occhi. Annuii. «Ho fatto un sogno bellissimo», affermai. «Ah sì?» intervenne la madre. «Di che si trattava?» Savannah mi diede un calcio sotto il tavolo. Devo ammettere che mi piaceva vederla sulle spine, ma non la tormentai oltre. Finsi di concentrarmi. «Ora non me lo ricordo più», dissi infine. «Odio quando mi succede», commentò Jill. «La colazione va bene?» «Ottima, grazie», risposi. Guardai Savannah. «Che programmi ci sono per oggi?» Si chinò in avanti. «Pensavo che potremmo andare a cavallo. Sei pronto?» Vedendomi esitare, scoppiò a ridere. «Andrà tutto bene», aggiunse. «Te lo assicuro.» «È facile dirlo per te.» Savannah montò su Midas e per me scelse un cavallo robusto, Pepper, che di solito cavalcava suo padre. Passammo la giornata a percorrere sentieri e a galoppare per i prati, esplorando quella parte del suo mondo. Aveva portato con sé dei panini e pranzammo su una collina che dominava Lenoir. Mentre ammiravamo il panorama, mi indicò le scuole che aveva frequentato e le case dove abitavano i suoi conoscenti. Compresi quanto amasse quel luogo e che non avrebbe mai voluto lasciarlo. Restammo sei o sette ore in sella e io feci del mio meglio per essere alla sua altezza, anche se era un'impresa impossibile. Non finii con la faccia nel fango, ma ci fu qualche attimo da brivido, quando Pepper si imbizzarriva e io dovevo impegnarmi al massimo per evitare che mi disarcionasse. Solo mentre tornavamo a casa a cambiarci mi resi conto delle mie condizioni. Cominciai a zoppicare e i muscoli delle cosce mi dolevano come se Tony li avesse presi a pugni per tutto il giorno. Quel sabato sera cenammo in un ristorante italiano e poi lei propose di andare a ballare, ma io ormai non riuscivo più a muovermi. Mentre arrancavo verso la macchina, assunse un'espressione preoccupata, poi mi fece fermare. Chinandosi in avanti, mi afferrò la coscia. «Ti fa male se stringo qui?» Sobbalzai e lanciai un grido. Per qualche motivo, la cosa la divertì molto. «Che ti salta in mente? Certo che fa male!» Sorrise. «Volevo controllare.» «Controllare che cosa? Te l'ho già detto, che sono tutto indolenzito.» «Volevo soltanto vedere se una ragazza piccolina come me era in grado di far urlare un soldato grande e grosso.» Mi massaggiai la gamba. «Sì, va bene, ma non fare altre prove, d'accordo?» «Promesso», rispose. «E mi spiace.» «Non mi sembra.» «Invece, è così. Però è buffo, non trovi? Voglio dire, sono stata a cavallo quanto te, eppure sto benissimo.» «Tu ci vai sempre.» «Era da più di un mese che non cavalcavo.» «E lo stesso.» «Avanti, ammettilo. È buffo, no?» «Niente affatto.» La domenica mattina andammo a messa con i suoi genitori. Io ero troppo malconcio per fare altro nel resto della giornata, così mi misi a guardare una partita di baseball alla TV assieme a suo padre. La madre ci portò dei panini, e trascorsi il pomeriggio ad agitarmi sul divano in cerca di una posizione comoda intanto che la partita si prolungava ai tempi supplementari. Era facile parlare con il papà di Savannah e la nostra conversazione passò dalla vita nell'esercito all'insegnamento e alla squadra che lui allenava. Sentivo madre e figlia chiacchierare in cucina e, di tanto in tanto, Savannah arrivava in salotto con una cesta piena di bucato da piegare mentre Jill caricava di nuovo la lavatrice. Sebbene fosse adulta e laureata, continuava a portare a casa alla mamma i panni da lavare. Quella sera raggiungemmo Chapel Hill, dove mi mostrò il suo appartamento. Il mobilio lasciava a desiderare, ma l'alloggio era abbastanza nuovo e dotato di un caminetto a gas e di un balconcino che si affacciava sul campus. Nonostante la temperatura mite, Savannah accese il fuoco e cenammo con crackers e formaggio. Oltre ai cereali, era l'unico cibo che avesse a disposizione. Lo trovai estremamente romantico, ma poi mi resi conto che era sempre così quando stavamo insieme da soli. Parlammo fin quasi a mezzanotte, e lei era più tranquilla del solito. A un certo punto andò in camera e dopo un po', vedendo che non tornava, la raggiunsi. Era seduta sul letto e io mi fermai sulla soglia. Stringendosi le mani, fece un respiro profondo. «Bene...» disse. «Bene...» ripetei per esortarla a proseguire. Fece un altro respiro. «Si sta facendo tardi. E domani ho lezione presto.» Annuii. «Sarebbe meglio andare a dormire.» «Già.» Assentì, come se non ci avesse pensato, poi si girò verso la finestra. Attraverso gli scuri filtravano fasci di luce dal parcheggio sottostante. Era incantevole quando diventava nervosa. «Bene...» ricominciò, parlando con il muro. Alzai le braccia. «Che ne dici se io dormissi sul divano, eh?» «Non ti spiace?» «Niente affatto.» In realtà, non era quello che avrei voluto, ma la comprendevo. Sempre con la testa girata verso la finestra, lei aggiunse con un filo di voce: «Non sono pronta. Cioè, pensavo di esserlo e una parte di me lo vuole veramente. Ci ho pensato molto nelle ultime settimane e avevo deciso... mi sembrava giusto, capisci? Noi ci amiamo, ed è quello che si fa quando si è innamorati. Era semplice quando ero da sola, ma adesso che sei qui...» Tacque. «Non importa», dissi. Alla fine si voltò verso di me. «Tu avevi paura? La prima volta?» Riflettei un istante su quale fosse la risposta migliore. «Credo che per noi ragazzi sia diverso.» «Già, penso anch'io.» Fece finta di lisciare le lenzuola. «Sei arrabbiato?» «Niente affatto.» «Però sei deluso.» «Ecco...» ammisi e lei scoppiò a ridere. «Mi spiace», disse. «Non ti devi scusare.» Rimase un attimo assorta. «Allora perché mi sento in dovere di farlo?» «Be', sai... sono un povero soldato solitario», risposi e lei rise di nuovo. Ma era ancora un po' nervosa. «Il divano non è molto comodo. Ed è corto. Non riuscirai a sdraiarti del tutto. E poi, non ho delle lenzuola in più. Avrei dovuto portarle da casa, ma me ne sono dimenticata.» «È un bel problema.» «Già.» Attesi. «Forse potresti dormire con me?» buttò lì. Aspettai paziente mentre continuava a dibattersi nel dubbio. «Che ne dici di provare? Solo a dormire, intendo?» mi chiese infine. «Come vuoi tu.» Finalmente le sue spalle si rilassarono. «Va bene. Siamo d'accordo. Dammi solo un attimo per cambiarmi.» Si alzò e aprì un cassetto del comò. Prese un pigiama simile a quello che indossava a casa dei suoi e io la lasciai sola e tornai in salotto, dove mi cambiai a mia volta indossando calzoncini e T-shirt. Quando tornai, era già a letto. Mi infilai anch'io tra le lenzuola. Savannah sistemò le coperte, poi spense la luce e rimase sdraiata supina a fissare il soffitto. Io ero coricato sul fianco, rivolto verso di lei. «Buonanotte», bisbigliò. «Buonanotte.» Sapevo che non sarei riuscito subito a dormire. Ero troppo... agitato. Ma non volevo continuare a rigirarmi, per non disturbarla nel caso si fosse addormentata. «Ehi», sussurrò dopo un po'. «Sì?» Si girò verso di me. «Devi sapere che è la prima volta che dormo con un ragazzo. Per tutta la notte, intendo. È già un passo avanti, no?» «Certo, è un bel passo avanti.» Mi accarezzò un braccio. «E adesso, se qualcuno te lo chiede, potrai dire che siamo stati a letto insieme.» «È vero.» «Ma non lo racconterai a nessuno, vero? Non vorrei rischiare di rovinarmi la reputazione. » Soffocai una risata. «Stai tranquilla. Resterà il nostro piccolo segreto.» I giorni seguenti presero un ritmo tranquillo e rilassante. Di mattina Savannah andava a lezione e in genere tornava poco dopo l'ora di pranzo. In teoria avrei potuto approfittarne per dormire più a lungo - una cosa che tutte le reclute dell'esercito sognano di fare in licenza - ma dopo anni che mi svegliavo all'alba non ero in grado di cambiare abitudini. Così mi alzavo prima di lei e accendevo la caffettiera elettrica, poi scendevo all'edicola a comperare il giornale. A volte acquistavo delle focaccine o dei croissant; altre volte per colazione mangiavamo semplicemente i cereali che c'erano in casa. Era facile vedere in quella nostra piccola routine un anticipo di una futura convivenza, uno stato di grazia naturale che sembrava fin troppo bello per essere vero. O, almeno, era quello che cercavo di dirmi. Quando eravamo stati dai suoi genitori, Savannah era ancora la ragazza che ricordavo. Lo stesso valeva per la prima notte che avevamo trascorso insieme. Ma poi... cominciai a notare delle differenze. Probabilmente non mi ero reso conto del tutto che la sua vita era piena e appagante anche senza di me. Sullo sportello del frigorifero teneva appeso un calendario fitto di impegni quotidiani: concerti, conferenze, feste da vari amici. Mi accorsi che il nome di Tim compariva di tanto in tanto per qualche pranzo. Frequentava quattro corsi, ne teneva lei stessa uno come assistente e il giovedì pomeriggio collaborava con un professore allo studio di un caso clinico che era sicura sarebbe stato pubblicato. Faceva esattamente quello che mi aveva descritto nelle lettere e, quando tornava a casa, mi raccontava la sua giornata mentre si preparava qualcosa da mangiare in cucina. Le piaceva il suo lavoro e ne era fiera. Parlava animatamente, e io ponevo solo le domande necessarie a mantenere il flusso del suo discorso. Non c'era nulla di strano in tutto ciò. Mi rendevo conto che sarebbe stato molto più grave se non mi avesse raccontato niente. Ma a mano a mano che l'ascoltavo, dentro di me cresceva un senso di disagio al pensiero che, per quanto fossimo rimasti in contatto, in quell'anno le nostre vite avevano preso direzioni irrimediabilmente diverse. Dall'ultima volta che l'avevo vista si era laureata, aveva trovato lavoro come assistente e si era trasferita in un appartamento che aveva arredato da sola. La sua esistenza era entrata in una nuova fase, mentre per quanto mi riguardava non potevo dire che fosse cambiato granché, tolto il fatto che adesso sapevo assemblare e smontare otto diversi tipi di armi, anziché sei, e riuscivo a sollevare quindici chili in più sulla panca. E naturalmente avevo fatto la mia parte nel dissuadere i russi, casomai avessero intenzione di invadere la Germania con decine di divisioni meccanizzate. Non vorrei essere frainteso. Continuavo a sentirmi perdutamente innamorato di Savannah e certe volte avvertivo la forza del suo sentimento per me. Anzi, capitava spesso. Tutto sommato fu una settimana meravigliosa. Mentre lei non c'era, io passeggiavo o correvo per il campus, oppure mi allenavo sulla pista e nel giro di pochi giorni trovai una palestra che mi consentiva l'uso delle attrezzature senza farmi pagare niente, poiché ero un militare. Mi esercitavo la mattina e di solito avevo appena finito di farmi la doccia quando Savannah rincasava, poi trascorrevamo il pomeriggio insieme. Martedì sera uscimmo a cena con un gruppo di amici e andammo in un locale del centro a Chapel Hill. Mi divertii più di quanto mi aspettassi, considerato il fatto che ero in compagnia di un gruppo di studenti e la conversazione ruotava intorno alla psicologia dell'età evolutiva. Il mercoledì pomeriggio, Savannah mi fece fare il giro del campus e mi presentò ai suoi professori. Più tardi ci incontrammo con un paio di tizi conosciuti la sera precedente. Poi comprammo del cibo cinese e mangiammo nel suo appartamento. Lei indossava uno di quei top aderenti che mettevano in risalto la sua abbronzatura e io non riuscivo a smettere di guardarla, pensando che fosse la donna più sexy del mondo. Il giovedì decisi di sorprenderla con una serata speciale tutta per noi. Mentre era a lezione, andai al centro commerciale e spesi una piccola fortuna per un abito nuovo, una cravatta e un paio di scarpe. Volevo vederla vestita da sera e prenotai al ristorante che mi era stato indicato dal commesso del negozio di calzature come il migliore della città. Cinque stelle, menu raffinato, camerieri impeccabili e tutto il resto. È vero, non ne feci parola con Savannah - dopo tutto doveva essere una sorpresa - ma appena entrò in casa, lei mi annunciò di aver preso accordi per incontrarsi di nuovo con gli amici. Era così entusiasta che non me la sentii nemmeno di rivelarle cosa avevo organizzato. Ciononostante, non ero solo deluso, ma anche arrabbiato. Per quanto mi riguardava ero più che felice di trascorrere una serata con i suoi amici, magari anche un altro pomeriggio. Ma quasi tutti i giorni? Dopo un anno di separazione, e considerando che presto sarei ripartito? Mi addolorava il pensiero che lei non provasse il mio stesso desiderio. Nei mesi precedenti mi ero immaginato che avremmo passato insieme più tempo possibile, per recuperare i mesi di lontananza. Ma mi stavo convincendo che forse mi ero sbagliato. E questo che cosa significava? Che per Savannah ero meno importante di quanto lei lo fosse per me? Visto il mio stato d'animo, avrei fatto meglio a restare a casa e lasciarla andare da sola. Invece l'accompagnai, ma me ne rimasi in disparte, senza prendere parte alla conversazione e lanciando intorno a me occhiate ostili. Nel corso degli anni ero diventato molto bravo a intimidire e quella sera mi sentivo particolarmente in vena di farlo. Savannah si era accorta che ero contrariato, ma tutte le volte che mi chiedeva se c'era qualcosa che non andava, io lo negavo con il mio tipico atteggiamento passivo-aggressivo. «Sono solo stanco», rispondevo. Devo ammettere che cercò di tirarmi su. Di tanto in tanto mi prendeva la mano, mi faceva un sorriso, e poi mi rimpinzava di aranciata e patatine. Dopo un po', tuttavia, si stancò del mio atteggiamento e ci rinunciò. Non potevo biasimarla. Ero di pessimo umore e il fatto di vederla cominciare a incollerirsi con me mi riempiva di maligna soddisfazione. Tornammo a casa senza rivolgerci la parola e ci addormentammo voltandoci le spalle. Il mattino dopo avevo superato la cosa ed ero pronto a guardare avanti. Sfortunatamente, lei non era dello stesso parere. Mentre ero fuori a comperare il giornale, uscì senza nemmeno toccare la colazione e io bevvi il caffè da solo. Sapevo di aver esagerato e volevo rimediare al suo ritorno. Confessarle le mie preoccupazioni, raccontarle della cena che avevo organizzato e chiederle scusa per come mi ero comportato. Pensavo che avrebbe capito. Ci saremmo gettati tutto alle spalle con una bella cenetta romantica. Era proprio quello che ci voleva, dal momento che saremmo partiti per Wilmington il giorno seguente per trascorrere il fine settimana con mio padre. Che ci crediate o meno, avevo voglia di vederlo, e immaginavo che anche lui aspettasse la mia visita, a modo suo. Di fronte a Savannah, però, papà passava in secondo piano. Forse non sarà stato giusto, ma all'epoca lei giocava il ruolo più importante. Savannah, sempre Savannah, mi dissi. Tutto in quel viaggio, tutto nella mia vita mi riconduceva immancabilmente a lei. All'una avevo finito l'allenamento, mi ero lavato e avevo fatto i bagagli. Chiamai il ristorante per prenotare di nuovo. Ormai conoscevo gli orari di Savannah e sapevo che sarebbe arrivata da un momento all'altro. Non avendo nient'altro da fare, mi sedetti in salotto e accesi la televisione. Quiz a premi, sceneggiati, televendite, e talk show erano inframmezzati da spot pubblicitari di vario genere. Il tempo non passava mai. Continuavo a uscire in veranda per vedere se la sua macchina era nel parcheggio e controllai la mia sacca tre o quattro volte. Pensavo che Savannah fosse sulla via di casa e, per ingannare l'attesa, cominciai a svuotare la lavastoviglie. Una volta finito, mi lavai i denti per la seconda volta, quindi guardai di nuovo fuori dalla finestra. Nessun segno di lei. Accesi la radio, ascoltai qualche canzone, poi cambiai cinque o sei stazioni prima di spegnere. Andai in veranda. Niente. Ormai erano quasi le due. Mi chiesi dove fosse finita e sentii crescere dentro un impeto di rabbia, ma lo soffocai. Mi dissi che probabilmente aveva una spiegazione plausibile e me lo ripetei, accorgendomi di non riuscire a crederci. Aprii la sacca e l'ultimo romanzo di Stephen King. Riempii un bicchiere di acqua gelata e mi misi comodo sul divano, ma quando mi resi conto di aver letto la stessa frase una decina di volte richiusi il libro. Passarono altri quindici minuti. Mezz'ora. Quando sentii il rumore della macchina di Savannah, ero teso e digrignavo i denti. Lei era tutta sorrisi, come se non fosse successo niente. «Ciao, John», mi salutò allegramente. Si avvicinò al tavolo, vi appoggiò sopra lo zaino e lo aprì. «Scusa il ritardo, ma dopo la lezione una studentessa è venuta a farmi i complimenti e a dirmi che, per seguire il mio esempio, ha deciso di laurearsi in psicopedagogia. Ci credi? Voleva che le consigliassi quali corsi seguire, che le indicassi i professori migliori... e poi il modo in cui ascoltava le mie risposte... Era così... gratificante. Quella ragazza pendeva letteralmente dalle mie labbra... ecco, mi è sembrato di essere davvero importante per qualcuno. I docenti parlano spesso di esperienze del genere, ma non avrei mai pensato che potesse accadere a me. » Mi sforzai di sorridere e lei lo prese come incoraggiamento a proseguire. «Comunque, anche se l'avevo avvertita che potevo dedicarle solo qualche minuto, siamo andate avanti a parlare e abbiamo finito per pranzare insieme. È un fenomeno... ha solo diciassette anni, ma si è diplomata un anno in anticipo. Ha già dato parecchi esami e ora frequenta la scuola estiva per prepararsi per i prossimi. E ammirevole. » Voleva sentire un'eco del suo entusiasmo, ma non ne avevo la forza. «Fantastico», dissi soltanto. Savannah sembrò guardarmi davvero per la prima volta e io non feci nulla per nascondere il mio stato d'animo. «Che cosa c'è?» chiese. «Niente», mentii. Sospirò. «Non vuoi parlarne? Benissimo. Ma ti avverto che la cosa sta diventando un po' irritante.» «Che cosa?» Si voltò di scatto verso di me. «Questo! Il tuo modo di comportarti. Non sei tanto difficile da interpretare, John. Sei arrabbiato, ma non vuoi dirmi la ragione.» Esitai, sulla difensiva. «E va bene. Pensavo che saresti tornata prima...» affermai infine sforzandomi di tenere la voce ferma. Lei alzò le mani. «Tutto qui? Ti ho spiegato perché ho fatto tardi. Che tu ci creda o meno, adesso ho delle responsabilità. E se non sbaglio, ti ho chiesto scusa non appena ho messo piede in casa.» «Lo so, ma...» «Ma non mi sono giustificata in modo adeguato?» «Non intendevo questo.» «Allora che cos'è?» Vedendo che non trovavo le parole, si mise le mani sui fianchi ed esclamò: «Sai cosa penso? Che ce l'hai ancora con me per ieri sera. Ma lasciami indovinare... non vuoi parlare nemmeno di quello, giusto?» Chiusi gli occhi. «Ieri sera, tu...» «Io?» m'interruppe. «Oh, no... non dare la colpa a me! Non ho fatto niente di male. Non sono stata io a cominciare! Ieri sera ci saremmo potuti divertire... se tu non te ne fossi stato seduto in disparte a fulminare tutti con lo sguardo.» Stava esagerando. O forse no. In ogni caso rimasi zitto. «Sai che mi sono dovuta scusare per te oggi? E come credi che mi sia sentita? Per tutto l'anno non ho fatto altro che cantare le tue lodi, raccontando ai miei amici quanto fossi simpatico, maturo, e quanto ero orgogliosa del tuo lavoro. E loro invece hanno visto un lato di te che non conoscevo neppure io. Sei stato... maleducato.» «Non ti è venuto il dubbio che il mio comportamento dipendesse dal fatto che non volevo stare lì?» Questo la bloccò, ma solo per un istante. Incrociò le braccia. «E forse il tuo comportamento di ieri è stata la ragione del mio ritardo oggi.» La sua affermazione mi colse di sorpresa. Non ci avevo pensato, ma non era quello il punto. «Mi spiace per ieri sera...» «E fai bene!» esclamò, interrompendomi di nuovo. «Quelli sono i miei amici!» «Lo so benissimo!» ribattei alzandomi dal divano. «Li abbiamo frequentati per tutta la settimana!» «E questo che cosa significa?» «Non hai mai considerato che potrei avere voglia di stare da solo con te?» «Vuoi stare da solo con me?» ripetè lei. «Allora sappi che, da come ti comporti, non si direbbe proprio. Eravamo soli stamattina. Eravamo soli quando sono rientrata poco fa e ho cercato di essere carina e di dimenticare la faccenda, ma tu volevi soltanto litigare.» «Non ho nessuna intenzione di litigare!» replicai, urlando mio malgrado. Mi voltai, cercando di tenere a bada la rabbia, ma quando parlai di nuovo avvertii la nota risentita nella mia voce. «Io voglio che le cose tornino come prima. Come l'estate scorsa.» «In che senso?» Che situazione odiosa. Avrei voluto confessarle che non mi sentivo più così importante per lei. Ma era come chiedere a qualcuno di amarti, e non funzionava mai. Cercai di girare intorno all'argomento. «L'estate scorsa era come... se avessimo più tempo per stare insieme.» «Non è vero», mi contraddisse. «Lavoravo al cantiere ogni giorno, ricordi?» Aveva ragione, naturalmente. Almeno in parte. Ci riprovai. «Non so perché, ma mi sembra che l'anno scorso avessimo più tempo per noi. » «Ed è questo che ti disturba? Che io abbia degli impegni? Una mia vita? Che cosa vorresti che facessi? Che saltassi le lezioni tutta la settimana? Mi dessi malata quando devo insegnare? Trascurassi i miei doveri?» «No...» «Allora che cosa vuoi?» «Non lo so.» «Però sei pronto a umiliarmi di fronte ai miei amici.» «Non ti ho umiliato», protestai. «Ah no? E allora perché oggi Tricia mi ha preso da parte per dirmi che, secondo lei, noi non abbiamo niente in comune e che io meriterei di meglio?» Le sue parole mi ferirono, ma lei non se ne rese conto. La collera a volte altera la lucidità, io ne sapevo qualcosa. «Ieri sera avrei voluto stare da solo con te. È tutto qui.» Non ottenni l'effetto desiderato. «Allora perché non mi hai detto semplicemente: 'Senti, preferirei fare altro stasera, ti spiace? Non ho voglia di vedere gente'», ribatté lei. «Sarebbe bastato questo. Non sono in grado di leggerti nel pensiero, John.» Aprii la bocca per replicare, ma rimasi muto. Mi voltai e andai all'altro capo della stanza. Guardai fuori dalla porta a vetri, e non ero più tanto arrabbiato quanto... triste. Ebbi l'impressione di averla persa in qualche modo e non sapevo se stessi ingigantendo una sciocchezza, oppure se avessi la nitida percezione di ciò che stava accadendo tra di noi. Non volevo parlarne più. Non ero mai stato bravo a spiegarmi, e desideravo soltanto che lei attraversasse la stanza e mi abbracciasse, per farmi capire che comprendeva le mie angosce e che non c'era motivo di preoccuparsi. Ma non accadde. Parlai rivolto verso la porta, in preda a una strana sensazione di solitudine. «Hai ragione, avrei dovuto dirtelo. E mi spiace per come mi sono comportato ieri sera, e anche per essermela presa con te perché sei tornata tardi. È solo che volevo stare insieme il più possibile durante la mia licenza.» «E non pensi che lo voglia anch'io?» Mi voltai. «Per essere sincero, non ne sono affatto sicuro», ribattei. Detto questo, uscii. Rimasi in giro fino a tardi. Non sapevo dove andare, ma ero spinto dal bisogno di stare da solo. Mi diressi verso il campus sotto il sole a picco, passando dall'ombra di un albero a quella di un altro. Non mi voltai a guardare se lei mi avesse seguito; ero certo che non l'avrebbe fatto. Dopo un po' entrai nel centro studentesco a comperare una bottiglia di acqua, ma sebbene fosse relativamente vuoto e piacevolmente fresco, tornai subito fuori. Era come se volessi sudare per purificarmi dalla rabbia, dalla tristezza e dalla delusione che mi intossicavano. Una cosa era sicura: Savannah era tornata a casa con l'intenzione di litigare. Le sue risposte erano state troppo pronte e sembravano studiate più che spontanee, come se anche lei fosse rimasta in preda all'ira per tutta la mattina. Mi conosceva, sapeva come avrei reagito, e anche se forse meritavo il suo sdegno - dopo il mio comportamento della sera precedente - il fatto che non si fosse minimamente preoccupata delle proprie responsabilità né dei miei sentimenti continuava a tormentarmi. Le ombre della sera si allungavano, ma io non ero ancora pronto a rientrare. Ordinai una pizza e una birra in un chiosco e, quando ebbi finito di mangiare, camminai ancora un po' prima di prendere la via del ritorno. Erano quasi le nove e mi sentivo esausto per l'altalena di emozioni che mi aveva sballottato nelle ultime ore. Giunto nella sua strada, vidi che la macchina di Savannah era ancora lì e che c'era la luce accesa in camera. Mi chiesi se la porta d'ingresso sarebbe stata chiusa a chiave, ma la maniglia si abbassò liberamente. La porta della camera da letto era socchiusa ed esitai qualche istante, combattuto se andare da lei o restare in salotto. Non volevo affrontare la sua rabbia, ma feci un profondo respiro e percorsi il breve corridoio. Mi affacciai a guardare. Era seduta sul letto con una maglietta extra-large che le arrivava a metà coscia. Alzò la testa da una rivista e io le rivolsi un sorriso incerto. «Ciao», dissi. ; «Ciao.» Entrai e andai a sedermi sul bordo del letto. «Mi spiace... di tutto. Avevi ragione tu. Sono stato un idiota ieri sera e non avrei dovuto metterti in imbarazzo di fronte ai tuoi amici. E poi non mi sarei dovuto arrabbiare per il tuo ritardo. Non succederà più.» Savannah batté una mano sul materasso. «Vieni qui», sussurrò. Mi sdraiai con la schiena contro la spalliera del letto e le passai un braccio intorno alle spalle. Lei si appoggiò a me e io avvertii il movimento regolare del suo petto. «Non voglio più litigare», mormorò. «Nemmeno io.» Quando le accarezzai il braccio, sospirò. «Dove sei stato?» «Da nessuna parte di preciso», risposi. «Ho fatto un giro per il campus. Ho mangiato una pizza. Ho pensato molto.» «A me?» «A te. A me. A noi.» Annuì. «Anch'io. Sei ancora arrabbiato?» «No. Lo ero, ma ora sono troppo stanco.» «Anch'io», ripetè. Alzò il viso per guardarmi negli occhi. «Vuoi sapere che cosa ho pensato mentre non c'eri?» «Certo.» «Mi sono resa conto che ero io a dovermi scusare con te. Per avere passato tanto tempo assieme ai miei amici, intendo. Credo che sia stato questo a farmi arrabbiare oggi. Avevo capito quello che cercavi di dire, ma non volevo sentirlo perché sapevo che avevi ragione. Almeno in parte. Anche se le tue conclusioni erano sbagliate.» La fissai, perplesso. «Tu pensi che sia uscita spesso con i miei amici perché non ti ritenevo più importante come prima, giusto?» proseguì. «Ma non è così. Anzi, è esattamente il contrario.» Si fermò, titubante. «Non riesco a seguirti.» «Ti ricordi quando ho detto che stare con te mi dava forza?» Assentii e lei mi accarezzò il petto. «Parlavo sul serio. L'estate scorsa, quando sei partito, io ero a pezzi. Chiedilo a Tim. Non ho combinato quasi nulla in cantiere. Nelle lettere ti ho scritto che andava tutto bene, ma non era così. Piangevo ogni sera e di giorno me ne stavo seduta in casa con l'assurda speranza di vederti arrivare dalla spiaggia. E quando mi capitava di scorgere qualcuno con i capelli a spazzola, provavo un tuffo al cuore, anche se era impossibile che fossi tu. Certo, fin dall'inizio sapevo che eri un soldato di stanza oltreoceano, ma non avevo capito fino in fondo quanto sarebbe stata dura andare avanti senza di te. Mi sentivo morire, e ho impiegato un sacco di tempo a riprendere una vita normale. E adesso, per quanto desideri passare il tempo insieme, per quanto ti ami, in parte sono terrorizzata all'idea di finire di nuovo a pezzi una volta che sarai ripartito. Mi sento strattonata in due direzioni opposte e così, per reazione, ho preferito riempirmi di impegni pur di non diventare dipendente da te come l'anno scorso. È per questo che ho avuto sempre tante cose da fare, sai? Per evitare che il cuore mi si spezzasse di nuovo.» Ero commosso, ma non dissi niente. Dopo un po' riprese a parlare. «Oggi mi sono resa conto che questo mio atteggiamento ti ha ferito. Non sono stata giusta con te, ma volevo solo difendermi. Tra una settimana te ne andrai, e io dovrò continuare per la mia strada da sola. Alcuni ci riescono facilmente. Tu sei capace di farlo. Ma per quanto mi riguarda...» Si guardò le mani e rimase a lungo in silenzio. «Non so che cosa dire», ammisi infine. Lei rise suo malgrado. «Le cose stanno così, e non c'è niente da fare. Ma io non voglio più ferirti, e spero di trovare un modo per essere più forte quest'estate.» «Potremmo sempre allenarci insieme», buttai lì scherzando, e fui ricompensato dal suono della sua risata. «Già, potrebbe funzionare. Dieci piegamenti e tornerò come nuova, giusto? Vorrei che fosse così facile. Ma ce la farò, e stavolta non durerà così a lungo. Per Natale tu sarai a casa. È quello che ho continuato a ripetermi tutto il giorno: ancora qualche mese e questa tortura finirà.» La strinsi a me, avvertendo il calore del suo corpo. Percepii il tocco delle sue dita attraverso la stoffa leggera mentre mi sollevava piano la camicia, scoprendomi l'addome. Fu una sensazione elettrizzante. Mi chinai a baciarla. C'era una passione diversa nel suo bacio, qualcosa di vivo e di vibrante. Sentii la sua lingua contro la mia, conscio del modo in cui reagiva il suo corpo mentre faceva scivolare la mano verso la cerniera dei miei jeans. Feci un profondo respiro. Accarezzandola, mi resi conto che sotto la maglietta non indossava niente. Mi abbassò la zip e, sebbene io la desiderassi con tutte le mie forze, mi costrinsi a fermarmi, prima che succedesse qualcosa per cui lei non era ancora pronta. Come intuendo la mia esitazione, Savannah si mise a sedere e si levò la maglietta. Il mio respiro accelerò quando la vidi nuda, e lei si chinò in avanti e mi sfilò la camicia. Mi baciò l'ombelico e il ventre, poi il petto mentre cercava di abbassarmi i jeans. Mi alzai dal letto e mi spogliai a mia volta. Le baciai il collo e le spalle e sentii il suo fiato nell'orecchio. Il contatto della sua pelle con la mia era come un fuoco, e poi cominciammo a fare l'amore. Fu esattamente come avevo sognato, e alla fine l'abbracciai forte, cercando di imprimere nella memoria ogni singolo istante, ogni emozione. Nel buio le sussurrai quanto l'amavo. Facemmo l'amore una seconda volta e, quando Savannah si addormentò, rimasi a lungo a fissarla. Sembrava perfettamente serena, ma per qualche motivo non riuscivo a scrollarmi di dosso un tetro presentimento. Per quanto fosse stato tenero ed eccitante, avevo avuto l'impressione che ci fosse un qualcosa di disperato in quel nostro gesto, come se entrambi ci aggrappassimo alla speranza che potesse sostenere la nostra relazione attraverso tutto ciò che il futuro ci avrebbe riservato. 14 Per il resto della licenza trascorsi il tempo con Savannah come inizialmente avevo sperato. A parte il fine settimana con mio padre - durante il quale lui cucinò e ci parlò senza sosta di monete - restammo quasi sempre per conto nostro. Tornati a Chapel Hill, una volta che lei aveva finito con le lezioni, trascorrevamo insieme il pomeriggio e la sera. Passeggiammo lungo Franklin Street, dove c'erano i negozi più belli, visitammo il museo di storia del North Carolina a Raleigh e passammo persino un paio d'ore allo zoo. Una sera andammo nel raffinato ristorante che mi aveva consigliato il commesso del negozio di calzature. Savannah non mi permise di sbirciare mentre si preparava, ma quando uscì dalla camera da letto era decisamente affascinante. La guardai ammirato per tutta la cena, pensando a quanto fossi fortunato a stare con lei. Non facemmo più l'amore. Dopo la prima volta, al risveglio trovai Savannah che mi fissava con il volto rigato di lacrime. Prima che potessi chiederle che cosa fosse successo, mi posò un dito sulle labbra per farmi tacere. «Stanotte è stato meraviglioso, ma non voglio parlarne», disse. Si strinse a me e io la cullai a lungo, ascoltando il suo respiro. Intuii allora che qualcosa tra di noi era cambiato, e in quel momento non ebbi il coraggio di interrogarmi sulle ragioni. La mattina della partenza Savannah mi accompagnò all'aeroporto. Ci sedemmo vicino in attesa del mio volo, e lei mi accarezzava dolcemente il dorso della mano con il pollice. Quando fu il momento di imbarcarmi, si gettò tra le mie braccia e scoppiò a piangere. Alla vista della mia espressione turbata fece una risatina triste. «Ti ho promesso di essere forte, lo so, ma non sono riuscita a trattenermi», si giustificò. «Passerà in fretta, vedrai», risposi. «Soltanto sei mesi. Con tutto quello che hai da fare, vedrai che non te ne accorgerai nemmeno.» «Facile a dirsi», replicò, tirando su con il naso. «Ma hai ragione. Stavolta ti prometto che sarò più forte. Starò bene.» Le scrutai il volto per vedere se diceva la verità, e mi parve sincera. «Davvero», confermò. «Stai tranquillo.» Annuii e rimanemmo a osservarci a lungo in silenzio. «Ti ricorderai di guardare la luna piena?» mi chiese. «Tutte le volte», le assicurai. Ci scambiammo un ultimo bacio. La strinsi forte e le mormorai che l'amavo, poi la lasciai con riluttanza. Presi la sacca e mi avviai al gate. Lanciando un'occhiata alle mie spalle vidi che Savannah non c'era più, era da qualche parte confusa tra la folla. Sull'aereo, andai a sedermi al mio posto augurandomi che lei fosse stata davvero sincera. Sapevo che mi amava e che teneva a me, ma d'un tratto compresi che l'amore e la dedizione a volte non bastano. Quelli erano i mattoni di una relazione, ma restavano fragili, senza il cemento del tempo passato insieme e non rovinato dalla tensione di un'incombente separazione. Anche se non volevo ammetterlo, c'erano tante cose di Savannah che ancora ignoravo. Non mi ero reso conto di quanto fosse rimasta sconvolta dalla mia partenza l'anno precedente e, nonostante le sue rassicurazioni, non sapevo come avrebbe reagito stavolta. Con un senso di oppressione nel petto, pensai che il nostro rapporto somigliava sempre di più a una trottola. Quando eravamo insieme, avevamo la forza di tenerla in movimento e il risultato erano bellezza e magia e un senso di meraviglia quasi infantile; quando ci separavamo, la rotazione rallentava inevitabilmente. Perdevamo l'equilibrio e diventavamo instabili, e io sapevo che avremmo dovuto trovare un modo per evitare di cadere. Avevo imparato la lezione. In luglio e agosto le scrissi molte lettere dalla Germania, e le telefonai più spesso di prima. Ascoltavo attentamente la sua voce, cercando di cogliere segnali di depressione e ansioso di sentire espressioni di affetto o di desiderio. Le prime volte ero un po' nervoso quando la chiamavo; alla fine dell'estate aspettavo con ansia quei momenti. I suoi esami andarono bene. Trascorse un paio di settimane con i genitori, poi iniziò il semestre autunnale. La prima settimana di settembre cominciammo il conto alla rovescia in vista del mio congedo. Mancavano cento giorni. Era più facile parlare di giorni, anziché di settimane o di mesi: per qualche motivo, in questo modo la distanza tra di noi diventava qualcosa di più intimo, di più gestibile. Il peggio era passato, ci ripetevamo, e io mi accorgevo che, mentre facevo la spunta sul calendario, i miei timori circa la nostra relazione cominciavano a scemare. Ero sicuro che niente al mondo ci avrebbe impedito di stare insieme. E poi arrivò l'11 settembre. 15 Di una cosa sono certo: le immagini dell'11 settembre rimarranno per sempre nella mia mente. Guardai il fumo alzarsi dalle Twin Towers e dal Pentagono e vidi le facce attonite delle persone attorno a me mentre la gente si gettava nel vuoto. Assistetti al crollo delle torri e all'immensa nube di polvere e detriti che si alzò al loro posto. Provai una furia cieca quando la Casa Bianca fu evacuata. Nel giro di poche ore capii che gli Stati Uniti avrebbero risposto all'attacco e che le forze armate avrebbero guidato l'assalto. La nostra base fu messa in stato di massimo allarme, e io fui molto orgoglioso dei miei uomini. Nei giorni successivi era come se ogni differenza personale e politica si fosse appianata. Per un breve periodo fummo tutti semplicemente americani. Gli ufficiali di reclutamento cominciarono ad arrivare da tutto il paese con nuove reclute. Tra quelli di noi già arruolati, il desiderio di servire diventò più forte che mai. Tony fu il primo della mia squadra a firmare per altri due anni e, a uno a uno, gli altri seguirono il suo esempio. Anch'io, che non vedevo l'ora di ricevere il mio congedo con onore a dicembre e contavo i giorni che mi separavano da Savannah, fui preso dall'entusiasmo e firmai. Sarebbe facile dire che la mia decisione fu influenzata da quelle drammatiche circostanze. Ma è solo una scusa. Certo, anch'io ero travolto dall'ondata patriottica, ma più di tutto mi sentivo legato dal doppio vincolo dell'amicizia e della responsabilità. Conoscevo i miei uomini, mi preoccupavo per loro e il pensiero di abbandonarli in un momento come quello mi sembrava una vigliaccata. Ne avevamo passate troppe insieme perché potessi anche solo considerare l'idea di lasciare l'esercito in quello scorcio di 2001. Chiamai Savannah per darle la notizia. All'inizio fu comprensiva. Come tutti, era rimasta scioccata dall'evento e comprendeva il peso del dovere che sentivo sulle mie spalle, ancora prima che glielo spiegassi. Affermò che era fiera di me. Ma ben presto la realtà delle cose ci piombò addosso. Scegliendo di servire ancora il paese avevo compiuto un sacrificio. Sebbene le indagini sugli esecutori dell'attentato si svolgessero in fretta, l'anno si concluse senza avvenimenti di rilievo per quanto ci riguardava. La nostra divisione di fanteria non partecipò al rovesciamento del regime talebano in Afghanistan, un'amara delusione per noi. Passammo invece gran parte dell'inverno e della primavera a esercitarci in previsione di quella che tutti sapevano essere l'inevitabile guerra contro l'Iraq. Fu più o meno in questo periodo che la corrispondenza con Savannah cominciò a cambiare. Mentre prima le sue lettere avevano una cadenza settimanale, adesso arrivavano ogni dieci giorni e poi ogni due settimane. Cercavo di consolarmi dicendomi che il tono era immutato, ma con il tempo cambiò anche quello. Non c'erano più i lunghi paragrafi in cui descriveva nei dettagli come si immaginava la nostra futura vita insieme, brani che in passato mi avevano sempre riempito di trepidazione. Sapevamo che il sogno si era allontanato di due anni. Scrivere di un tempo così lontano le faceva ricordare quanta strada dovessimo ancora percorrere, una prospettiva dolorosa per entrambi. All'arrivo di maggio trovai conforto nell'idea che perlomeno l'avrei rivista in occasione della mia successiva licenza. Il fato, purtroppo, cospirò ancora una volta contro di noi a pochi giorni dalla partenza. Il comandante mi fece chiamare per un colloquio e, quando mi presentai nel suo ufficio, mi ordinò di sedermi. Mi informò che mio padre aveva avuto un grave attacco di cuore e che aveva già ottenuto per me una licenza straordinaria per ragioni famigliari. Invece di andare a Chapel Hill e trascorrere due favolose settimane con Savannah, raggiunsi Wilmington e passai le giornate al capezzale di papà, respirando quell'odore di disinfettante che mi faceva pensare alla morte più che alla guarigione. Al mio arrivo, era ricoverato nel reparto di terapia intensiva. Aveva un colorito grigiastro e il suo respiro era rapido e superficiale. Per la prima settimana alternò momenti di lucidità a lunghi periodi di incoscienza e, quando era sveglio, vidi sul suo volto emozioni che raramente aveva espresso e mai tutte insieme: paura disperata, momentanea confusione e una struggente gratitudine per la mia presenza lì. Più di una volta gli presi la mano, un'altra novità. Poiché era stato intubato e non poteva parlare, lo intrattenni raccontando quello che succedeva alla base e soprattutto dilungandomi sull'argomento monete. Gli lessi il Grey-sheet, poi recuperai i numeri precedenti che teneva in un cassetto dello studio, e gli lessi anche quelli. Facevo ricerche in Internet - su siti come David Hall Rare Coins e Legend Numismatics - e gli riferivo che cosa c'era in offerta. I prezzi mi sorprendevano, e cominciai a sospettare che la sua collezione, nonostante il ribasso dovuto alla crescente quotazione dell'oro, valesse almeno dieci volte la casa che possedeva. Mio padre, che ignorava l'arte della conversazione, era diventato l'uomo più ricco che conoscessi. Ma non era interessato al denaro. I suoi occhi si voltavano altrove ogni volta che citavo un prezzo e allora rammentai quello che avevo dimenticato: ciò che contava veramente per papà era la caccia alle monete, e ogni pezzo catturato per lui rappresentava una storia con un lieto fine. Dato che aveva un archivio formidabile, cominciai a consultarlo la sera e a poco a poco i ricordi affioravano alla mia mente. L'indomani gli parlavo dei nostri viaggi a Raleigh, a Charlotte o in qualche città della Georgia. I medici sostenevano che le sue condizioni erano ancora critiche, ma ascoltando i miei racconti ricominciò a sorridere. Fu dimesso il giorno prima della mia partenza e l'ospedale gli fornì l'assistenza domiciliare per il periodo della convalescenza. Se la mia permanenza a Wilmington aveva rafforzato il legame con papà, non aveva certo giovato alla relazione con Savannah. Naturalmente, lei mi raggiungeva tutte le volte che poteva e si mostrò partecipe e comprensiva. Ma poiché ero tutto il giorno in ospedale, non ci fu possibile sanare le piccole incrinature che si erano aperte nel nostro rapporto. E poi io avevo un atteggiamento ambivalente: quando era con me, provavo il desiderio di stare da solo con mio padre, e quando non c'era sentivo la sua mancanza. In un modo o nell'altro Savannah riusciva a procedere in questo campo minato senza badare allo stress che le buttavo addosso. Sembrava capisse quello che mi passava per la testa e si comportava in modo conciliante. In ogni caso, avevamo bisogno di tempo da passare insieme. Senza nessun altro. La nostra relazione, come una batteria, si stava esaurendo dopo mesi di separazione e doveva essere ricaricata. Un giorno, mentre ero seduto vicino al letto di mio padre ad ascoltare il monotono segnale del monitor cardiaco, calcolai che Savannah e io ci eravamo visti solo per 4 settimane nelle ultime 104. Era meno del 5 per cento. Rimasi lì a fissare il vuoto, chiedendomi come la nostra storia fosse riuscita a sopravvivere. Ogni tanto facevamo qualche passeggiata e un paio di sere uscimmo a cena. Ma siccome lei aveva ricominciato a insegnare e frequentava altri corsi, non poteva trattenersi a lungo. Io cercavo di non farglielo pesare, e l'unica volta che rimarcai la cosa finimmo per litigare. Non ne avevo intenzione, tuttavia nessuno dei due sembrava in grado di evitarlo. E anche se Savannah, quando glielo domandai, lo negò esplicitamente, ero sicuro che il problema di fondo fosse il mio mancato congedo. Fu la prima occasione in cui mi mentì. Superammo il litigio alla meno peggio e quello dei saluti fu un altro momento straziante, anche se meno della volta precedente. Sarebbe stato consolante pensare che cominciavamo ad abituarci, o che entrambi stavamo crescendo, ma mentre ero sull'aereo compresi che erano state versate meno lacrime perché l'intensità del sentimento che ci legava era diminuita. Fu doloroso rendermene conto, e alla luna piena successiva mi avviai verso il campo di calcio deserto rammentando il tempo passato con Savannah durante la prima licenza. Ricordai anche la seconda ma, stranamente, mi rifiutai di pensare alla terza, perché credo che già allora sapessi che cosa preannunciava. Nel corso dell'estate le condizioni di mio padre migliorarono costantemente, seppur con lentezza. Nelle sue lettere mi scriveva che aveva preso l'abitudine di fare il giro dell'isolato tre volte al giorno, impiegandoci esattamente venti minuti, ma anche quello gli costava fatica. Se non altro, ora che era in pensione aveva qualcosa intorno a cui far ruotare le sue giornate... a parte le monete, naturalmente. Oltre a scrivergli più spesso, cominciai a telefonargli il martedì e il venerdì quando da lui era l'una del pomeriggio in punto, per accertarmi che stesse bene. Cercavo di cogliere segni di affaticamento nella sua voce e gli ricordavo di mangiare, riposare e prendere le medicine. Ero quasi sempre io a parlare. Per papà le telefonate erano persino più difficili dei dialoghi faccia a faccia e dava l'impressione di non desiderare altro che riagganciare il prima possibile. Con il tempo, iniziai a prenderlo in giro per questo, ma non ero mai sicuro che capisse che stavo scherzando. A volte la cosa mi faceva ridere, e anche se lui non ricambiava la risata, il suo tono diventava più leggero, solo per un momento, prima che ripiombasse nel silenzio. Comunque, andava bene così. Sapevo che aspettava con ansia di sentirmi. Rispondeva sempre al primo squillo e io me lo immaginavo con gli occhi fissi sull'orologio in attesa che scattasse l'ora. Agosto lasciò il posto a settembre e poi venne ottobre. Savannah terminò gli studi a Chapel Hill, tornò a casa dai genitori e si mise in cerca di un lavoro. Sui giornali leggevo di come le Nazioni Unite e l'Europa valutassero soluzioni alternative per evitare la guerra contro l'Iraq. C'era molto fermento nelle capitali dei nostri alleati; i notiziari trasmettevano le immagini delle manifestazioni popolari e delle dichiarazioni enfatiche dei leader politici, che sostenevano che gli Stati Uniti stavano commettendo un terribile errore. Intanto i nostri leader provavano a far cambiare loro opinione. I miei uomini e io andavamo avanti con le esercitazioni, preparandoci con tetra determinazione all'ineluttabile. Ed ecco che a novembre la nostra squadra fu rimandata nel Kosovo. Di nuovo. Non ci fermammo a lungo, ma fu più che abbastanza. Ormai ero stufo dei Balcani e anche delle missioni di peacekeeping. Soprattutto, tutti noi militari sapevamo che la guerra con l'Iraq era imminente, che l'Europa lo volesse o meno. Durante quel periodo le lettere di Savannah continuavano ad arrivarmi con una certa regolarità e anch'io di tanto in tanto le telefonavo. Di solito la chiamavo prima dell'alba - che corrispondeva più o meno alla mezzanotte da lei - e mentre in passato l'avevo sempre trovata a casa, adesso capitava che non ci fosse. Cercavo di tranquillizzarmi dicendomi che sicuramente era uscita con gli amici o i genitori, ma non potevo impedire alla mia fantasia di scatenarsi. Dopo aver riattaccato, a volte mi immaginavo che avesse conosciuto un altro e si fosse innamorata. Allora richiamavo due o tre volte di seguito, finendo per arrabbiarmi sempre di più. Quando infine mi rispondeva non le chiedevo mai dove fosse andata, e non sempre lei me lo raccontava spontaneamente. So che sbagliavo a non farlo, perché non riuscivo a togliermi dalla mente quella domanda anche mentre tentavo di concentrarmi sulla conversazione. Ero teso e Savannah reagiva con altrettanto nervosismo. Troppo spesso le nostre telefonate non erano un allegro fluire di parole affettuose, ma un rudimentale scambio di informazioni. Dopo aver riagganciato, mi odiavo per la mia gelosia e mi ripromettevo che non sarebbe più accaduto. Altre volte, però, mi sembrava esattamente la ragazza che ricordavo e mi rendevo conto di quanto ancora mi volesse bene. Io continuavo ad amarla come il primo giorno e mi struggevo per la semplicità del passato. Sentivo che ci stavamo allontanando e cercavo disperatamente di salvare ciò che avevamo condiviso un tempo, ma come in un circolo vizioso, la mia disperazione ci faceva allontanare ancora di più. Cominciammo a litigare. Com'era successo quando avevamo discusso nel suo appartamento durante la mia seconda licenza, non riuscivo a comunicarle i miei sentimenti e qualunque cosa mi dicesse, avevo l'impressione che mi ingannasse, o che non si sforzasse nemmeno di alleviare le mie ansie. Odiavo quelle telefonate più ancora della mia gelosia, anche se sapevo che erano due cose collegate. Nonostante i problemi, non dubitavo che ce l'avremmo fatta. La mia voglia di trascorrere la vita con Savannah andava al di là di qualsiasi difficoltà. A dicembre, cominciai a telefonarle con regolarità, sforzandomi di tenere a freno la gelosia. Cercavo di essere allegro, nella speranza che questo la invogliasse a parlare con me. Mi sembrava che le cose andassero meglio, e in superficie era così, ma quattro giorni prima di Natale le ricordai che sarei tornato a casa in meno di un anno e lei, invece di rispondermi con l'entusiasmo che mi aspettavo, rimase in silenzio. Dalla cornetta mi giungeva solo il rumore del suo respiro. «Mi stai ascoltando?» chiesi. «Sì», rispose sottovoce. «Solo che è una frase che ho già sentito.» Era la verità, tuttavia quell'affermazione mi fece dormire male per quasi una settimana. L'ultima notte dell'anno c'era la luna piena e andai fuori a guardarla, ma nella mia mente i dolci ricordi del nostro amore erano velati dalla tristezza che mi sopraffaceva. Mentre tornavo indietro incontrai decine di soldati riuniti in gruppi a chiacchierare o appoggiati ai muri a fumare, come se non avessero un solo pensiero al mondo. Mi chiesi se, vedendomi passare, intuissero le ragioni del mio turbamento. Tutto stava per cambiare. Il mattino seguente ricevemmo l'ordine che aspettavamo da mesi e pochi giorni dopo la mia squadra si ritrovò in Turchia, in preparazione di un'invasione dell'Iraq da nord. Partecipammo a riunioni strategiche dove fummo informati delle assegnazioni, studiammo la topografia e i piani di battaglia. C'era pochissimo tempo libero, ma le rare volte che uscivamo dal campo era difficile ignorare gli sguardi ostili della popolazione. Ci giunse voce che la Turchia volesse negare l'accesso alle truppe d'invasione e che erano in corso trattative per scongiurarlo. Da tempo ormai sapevamo che le voci di corridoio vanno prese con le pinze, ma stavolta le fonti erano attendibili e la mia squadra, assieme ad altre, fu inviata in Kuwait per ricominciare da capo. Atterrammo a metà pomeriggio sotto un cielo terso e ci trovammo circondati da sabbia da ogni parte. Quasi subito fummo caricati su un pullman, viaggiammo per ore e finimmo in quella che in sostanza era la tendopoli più grande che avessi mai visto. L'esercito faceva del suo meglio per rendere il soggiorno confortevole. Il cibo era buono e allo spaccio c'era tutto quello che si poteva desiderare, ma era noioso. La consegna della corrispondenza era lenta - non ricevetti alcuna lettera - e la fila per telefonare era sempre lunghissima. Tra un addestramento e l'altro i miei uomini e io stavamo seduti a chiederci quando sarebbe cominciata l'invasione, oppure ci esercitavamo a infilarci il più in fretta possibile le tute contro le contaminazioni chimiche. Il piano prevedeva che la mia squadra si unisse ad altre unità di divisioni diverse per compiere una rapida avanzata su Bagdad. A febbraio, dopo avere trascorso quella che ci sembrava un'eternità nel deserto, eravamo più pronti che mai. A quel punto moltissimi soldati si trovavano in Kuwait da metà novembre e la macchina delle ipotesi funzionava a pieno regime. Nessuno sapeva che cosa sarebbe successo. Avevo sentito parlare di armi biologiche e chimiche; avevo sentito dire che Saddam, memore della lezione ricevuta durante l'operazione Desert Storm, aveva rinforzato la Guardia Repubblicana intorno a Bagdad, con l'intenzione di opporre una sanguinosa resistenza. Il 17 marzo avemmo la certezza di essere in guerra. L'ultima sera che trascorsi in Kuwait scrissi lettere ai miei cari, nel caso non ce l'avessi fatta: una a papà e una a Savannah. Quella notte mi ritrovai a bordo di un convoglio che si spinse un centinaio di chilometri oltre la frontiera dell'Iraq. All'inizio i combattimenti furono sporadici. Grazie alla predominanza della nostra aviazione, avevamo ben poco da temere mentre percorrevamo strade praticamente deserte. L'esercito iracheno era invisibile, e questo non faceva che accrescere la nostra tensione mentre tentavamo di prevedere che cosa avremmo dovuto affrontare durante la campagna. Ogni tanto arrivava notizia del fuoco di un mortaio nemico e ci affrettavamo a indossare l'equipaggiamento, solo per venire poi a sapere che era stato un falso allarme. I soldati erano nervosi. Io non dormivo da tre giorni. Una volta penetrati più a fondo in territorio iracheno, cominciarono a verificarsi frequenti scaramucce, e fu allora che imparai la prima legge associata con l'operazione Iraqi Freedom: civili e nemici spesso sono identici. Risuonavano degli spari, noi rispondevamo al fuoco e a volte non sapevamo neppure a chi stessimo sparando. La guerra cominciò a intensificarsi una volta raggiunto il triangolo sunnita. Ci giunse voce di battaglie combattute a Falluja, Ramadi, Tikrit da unità di altre divisioni. La mia squadra si unì all'Ottandaduesimo aviotrasportato in un assalto a Samawa e lì assaggiammo per la prima volta un vero combattimento. L'aviazione aveva spianato la via. Bombe, missili e mortai erano esplosi fin dal giorno precedente e, quando attraversammo il ponte d'ingresso alla città, rimasi stupito e attonito per il silenzio che ci circondava. La mia squadra fu assegnata a un quartiere periferico, dove dovevamo andare di casa in casa per ripulire la zona dai nemici. Mentre ci muovevamo per quelle vie deserte ci venivano incontro immagini desolanti: la carcassa annerita di un camion; il cadavere carbonizzato di un uomo; una costruzione parzialmente crollata; resti di automobili fumanti qua e là. Qualche sporadico colpo di fucile ci teneva in allerta. Durante il pattugliamento a volte i civili si precipitavano fuori con le mani alzate e noi ci adoperavamo per soccorrere i feriti. Nel primo pomeriggio eravamo pronti a tornare indietro, quando fummo assaliti da un violento fuoco proveniente da un edificio un po' più avanti. Ci rifugiammo contro un muro, ma eravamo in posizione precaria. Due uomini fornirono la copertura mentre io guidavo il resto della squadra oltre il corridoio di fuoco verso un punto più sicuro sull'altro lato della strada; mi sembrò quasi un miracolo che nessuno fosse rimasto ucciso. Da lì, sparammo un colpo di bazooka contro la postazione nemica, distruggendola. Dopodiché ci avvicinammo con cautela all'edificio. Feci saltare con una granata la porta d'ingresso e poi infilai dentro la testa. C'era molto fumo e odore di zolfo. L'interno era sventrato, ma doveva esserci ancora almeno un soldato iracheno che, quando fummo a portata di tiro, cominciò a spararci addosso da un angolo riparato. Tony fu colpito a una mano e tutti noi rispondemmo con sventagliate di mitra. Il frastuono era così assordante che non udivo le mie grida, ma tenevo il dito incollato al grilletto e miravo dappertutto, dal pavimento al soffitto. Pezzi di intonaco, di mattoni e di legno volavano ovunque. Anche se alla fine ero sicuro che non fosse sopravvissuto nessuno, per sicurezza gettai nell'angolo un'altra granata e corremmo fuori a ripararci dall'esplosione. Dopo venti minuti di quella che era stata l'esperienza più intensa della mia vita la strada era tornata silenziosa, a parte il ronzio che sentivo nelle orecchie e le voci concitate dei miei uomini che imprecavano, parlavano dell'attacco o vomitavano. Fasciai la mano a Tony e, quando tutti furono pronti, ci avviammo dalla parte dov'eravamo venuti. Dopo un po' ci dirigemmo verso la stazione ferroviaria, che era stata conquistata dai nostri, e ci lasciammo cadere a terra sfiniti. Quella notte ricevemmo il primo giro di corrispondenza dopo quasi sei settimane. Per me erano arrivate sei lettere da mio padre, ma una sola di Savannah. Mi misi a leggerla nella luce fioca dentro la tenda. Caro John, ti scrivo seduta al tavolo in cucina, e mi struggo perché non so come comunicarti la notizia che ti devo dare. Preferirei farlo di persona, ma nella nostra situazione è assolutamente impossibile incontrarci. Così eccomi qui, alla ricerca delle parole giuste con le lacrime che mi rigano le guance, e la speranza che tu in qualche modo riesca a perdonarmi. Sono consapevole che è un momento terribile per te. Anche se cerco di non pensare alla guerra, non posso sfuggire alle immagini, e mi sento terrorizzata. Guardo i notiziari e sfoglio i giornali sapendoti in mezzo a quell'inferno, e tento di immaginare dove sei e che cosa provi. Ogni sera prego che tu torni a casa sano e salvo. Noi due abbiamo condiviso qualcosa di magico, sai. Vorrei che non lo dimenticassi mai. E non credere che per me non sia stato altrettanto importante. Sei un uomo unico e meraviglioso, John, io mi sono innamorata di te, ma soprattutto, incontrandoti, ho compreso che cosa sia l'amore vero. Nei due anni e mezzo appena trascorsi ho guardato ogni mese la luna piena, rammentando tutti i momenti che abbiamo passato insieme. Ricordo che, la sera in cui parlammo per la prima volta, mi sembrò di conoscerti da una vita, e ripenso spesso alla notte in cui abbiamo fatto l'amore. Sono felice che ci siamo dati l'un l'altra in quel modo. Per me, significa che le nostre anime saranno unite per sempre. E poi, quando chiudo gli occhi, vedo il tuo viso; quando cammino, mi sembra di sentire la tua mano nella mia. Sono cose ancora reali per me, ma se un tempo mi recavano conforto, ora mi provocano sofferenza. Ho capito i motivi che ti hanno spinto a rimanere nell'esercito e ho rispettato la tua decisione. La rispetto ancora, ma sappiamo entrambi che il nostro rapporto da allora è cambiato. Noi siamo cambiati, e credo che anche tu, in cuor tuo, te ne sia reso conto. Forse la separazione è stata troppo lunga, o forse semplicemente i nostri due mondi erano troppo diversi. Non so. Tutte le volte che litigavamo io stavo molto male. Per qualche motivo, anche se ci amavamo ancora, avevamo perduto quel magico legame che ci teneva insieme. Forse può sembrare una scusa, ma ti prego di credermi se ti dico che non era mia intenzione innamorarmi di un altro. E, se nemmeno io riesco a comprendere come sia potuto accadere, come potresti farlo tu? Non mi faccio illusioni in proposito, comunque non me la sento di continuare a mentirti. Svilirebbe tutto ciò che abbiamo condiviso, e non voglio che accada, anche se so che ti sentirai tradito. Ti capirò se non vorrai più parlare con me, e perfino se mi odierai. Anch'io in parte odio me stessa. E quando mi guardo allo specchio, non sono sicura di avere davanti una donna che meriti davvero di essere amata. Magari ora non ti interessa più, ma sappi che il pensiero di te sarà sempre con me. Nel tempo trascorso insieme hai conquistato un posto speciale nel mio cuore, dove nessuno potrà mai sostituirti. Sei un eroe e un gentiluomo, sei gentile e sincero, e soprattutto sei il primo uomo che io abbia amato sul serio. E qualunque cosa ci riservi il futuro, lo resterai sempre e la mia vita sarà migliore per questo. Con infinito rimpianto, Savannah PARTE TERZA 16 Si è innamorata di un altro. L'avevo capito ancor prima di finire di leggere la sua lettera e fu come se il mondo mi crollasse addosso. Il mio primo istinto fu di dare un pugno contro il muro, invece appallottolai il foglio e lo scagliai lontano. Provavo una rabbia indicibile; più che sentirmi tradito, avevo l'impressione che lei avesse calpestato tutto ciò che aveva importanza per me. La odiavo e odiavo l'uomo senza volto e senza nome che me l'aveva rubata. Immaginai quello che gli avrei fatto se mai avesse incrociato la mia strada, e non era niente di buono. Allo stesso tempo, desideravo parlarle. Volare subito a casa, o almeno telefonarle. Non volevo, non riuscivo a crederci. Non ora, dopo tutto quello che avevamo passato. Mancavano solo nove mesi... avevamo resistito quasi tre anni: era davvero impossibile aspettare ancora un po'? Ma non tornai in America, e non la chiamai nemmeno. Non le scrissi né ebbi più sue notizie. L'unica cosa che feci fu recuperare la lettera che avevo buttato via. La lisciai alla meno peggio, la infilai nella busta e decisi di portarla sempre con me, come una ferita ricevuta in battaglia. Nelle settimane successive mi trasformai in un soldato perfetto, per rifugiarmi nell'unico mondo che mi fosse rimasto. Mi offrivo volontario per ogni azione considerata pericolosa, non parlavo quasi con nessuno e per un po' dovetti fare uno sforzo per non essere troppo veloce di grilletto durante i pattugliamenti. Non mi fidavo di nessuno di quelli che incontravo nelle varie città, e sebbene non si fossero verificati sfortunati «incidenti» - la definizione usata dall'esercito per indicare la morte di civili - mentirei se dicessi che ero paziente e comprensivo con gli iracheni di qualsiasi genere. Dormivo pochissimo, ma ero vigile e attento mentre continuavamo la nostra avanzata verso Bagdad. Per ironia, riuscivo a trovare sollievo dal pensiero di Savannah e della fine del nostro rapporto solo mentre rischiavo la vita. La mia esistenza seguiva l'alterno andamento della guerra. All'incirca un mese dopo che avevo ricevuto la lettera Bagdad cadde e, superato un primo, breve periodo di speranza, le cose non fecero che peggiorare e complicarsi. Mi resi conto che, in fin dei conti, quella guerra non era diversa dalle altre. Tutto si riduceva sempre a una lotta per la supremazia tra i vari interessi in gioco, ma saperlo non ci aiutava. In seguito alla caduta della capitale, agli uomini della mia squadra fu assegnato il ruolo di poliziotto e di giudice. E, come soldati, non eravamo preparati a svolgerlo. Guardandolo dall'esterno e con il senno di poi è facile mettere in discussione il nostro operato, ma al momento, sul campo, cercavamo di fare il possibile. Mi capitò spesso di essere interpellato da un iracheno che denunciava un furto o un crimine commesso da qualcuno, e che mi chiedeva di intervenire. Ma non era il nostro lavoro. Noi dovevamo sforzarci di mantenere una sembianza di ordine - il che sostanzialmente significava uccidere i ribelli che tentavano di ammazzare noi o i civili -finché gli abitanti della città non fossero stati in grado di gestire le cose da soli. Non si trattava di un processo semplice né rapido, nemmeno nei luoghi relativamente tranquilli. Nel frattempo, altre città piombavano nel caos e noi venivamo mandati lì a ripristinare l'ordine. Liberavamo un posto dai ribelli, ma siccome non c'erano truppe sufficienti per mantenere il controllo, loro lo rioccupavano non appena toglievamo le tende. Certi giorni i miei ragazzi dubitavano dell'utilità di quegli interventi, anche se non li criticavano mai apertamente. Non so come descrivere lo stress, la noia e la confusione di quei nove mesi, a parte il fatto che c'era sabbia dappertutto. Certo, eravamo nel deserto, ma la sabbia lì ti penetrava nei vestiti, nel fucile, nella branda, nel cibo, nelle orecchie e su per il naso, e anche se continuavo a sputare, avevo sempre i granelli che scricchiolavano sotto i denti. Queste sono le cose che la gente riesce a capire, mentre nessuno desidera sentire la verità, e cioè che il tempo passato in Iraq in genere era piuttosto noioso, ma a volte era peggio che stare all'inferno. Volete che vi racconti che ho visto un mio commilitone sparare per sbaglio a un ragazzino che aveva avuto la sfortuna di capitare nel posto sbagliato al momento sbagliato? O soldati ridotti a brandelli in un quartiere periferico di Bagdad? Oppure il sangue che formava delle pozzanghere per strada, uscendo da corpi orrendamente mutilati? A ogni modo, feci il mio dovere al massimo delle mie capacità, firmai di nuovo e rimasi in Iraq fino al febbraio 2004, quando fui finalmente rimandato in Germania. Non appena rientrato alla base, mi comperai una Harley e finsi di essermi lasciato alle spalle la guerra senza traumi; ma ero tormentato da incubi senza fine e la mattina mi svegliavo in un bagno di sudore. Di giorno ero sempre nervoso e mi arrabbiavo per ogni minima sciocchezza. Quando camminavo per le strade, non potevo fare a meno di tenere d'occhio le persone raggruppate vicino alle case, e scrutavo le finestre in cerca di qualche cecchino. Lo psicologo - tutti fummo obbligati ad andarci - mi spiegò che era una reazione normale e che con il tempo sarebbe passata, ma io a volte lo dubitavo. Dopo la partenza dall'Iraq, il periodo in Germania fu abbastanza privo di senso. Continuavo ad addestrarmi al mattino e a seguire corsi sulle armi e la navigazione satellitare, ma le cose erano cambiate. A causa della ferita alla mano, Tony era stato congedato con una medaglia al valor militare, ed era tornato a Brooklyn poco dopo la caduta di Bagdad. Altri quattro miei compagni furono congedati con onore alla fine del 2003, al termine del periodo di ferma; per loro era giunto il momento di riprendere la vita normale, mentre io avevo deciso di rimanere nell'esercito, non avendo idea di cos'altro fare. A quel punto, guardando la mia squadra, mi rendevo conto di essere fuori posto. Era piena di reclute che, pur essendo dei bravi ragazzi, non erano gli amici con cui avevo condiviso l'addestramento, le missioni nei Balcani e la guerra, e in fondo sapevo che non mi sarei mai affezionato a loro come ai miei vecchi commilitoni. Mi sentivo un outsider e da tale mi comportavo. Mi allenavo da solo, evitavo il più possibile ogni contatto personale e interpretavo perfettamente la parte del vecchio sergente coriaceo, che voleva soltanto assicurarsi di rimandarli a casa sani e salvi dalle loro madri. Glielo ripetevo a ogni addestramento, e lo pensavo sul serio. Avrei fatto tutto il possibile per tenerli al sicuro, ma non mi interessava altro. Dopo la partenza dei miei amici, mi dedicai a papà. Trascorsi una lunga licenza con lui nella primavera del 2004, e un'altra a fine estate. In quelle quattro settimane passammo più tempo insieme che nei dieci anni precedenti. Mi adattai senza problemi alle sue abitudini. Facevamo colazione, uscivamo per tre brevi passeggiate al giorno e poi cenavamo. Per il resto parlavamo di monete, e ne acquistammo persino qualcuna durante la mia permanenza a Wilmington. Grazie a Internet, ora era molto più facile e, anche se la ricerca non era altrettanto esaltante, non credo che per mio padre facesse differenza. Ricontattai mercanti che non vedevo da più di quindici anni, ma si mostrarono tutti disponibili e amichevoli come sempre, e si ricordavano ancora di me, dato che l'ambiente della numismatica è molto ristretto. Quando il nostro ordine arrivava per corriere, noi due esaminavamo a turno le monete, rilevando eventuali difetti, e infine in genere concordavamo con la valutazione fatta dal Professional Coin Grading Service. Se dopo un po' mi capitava di perdere la concentrazione, papà poteva restare a fissare per ore un singolo pezzo, come se contenesse il segreto della vita. Come al solito, non avevamo molti altri argomenti di conversazione. Mio padre non aveva voglia di parlare della guerra, e neppure io. Nessuno dei due aveva una vita sociale da raccontare: l'Iraq non mi aveva certo aiutato in tal senso, e papà... ecco, non era neanche il caso di chiederglielo. Ero un po' preoccupato per la sua salute. Durante le nostre passeggiate il suo respiro era affannoso. Quando provai a suggerirgli che venti minuti - anche con la sua andatura lenta - forse erano troppi, mi rispose che così gli aveva detto il dottore, e capii che era inutile sperare di fargli cambiare idea. Ma alla fine sembrava sempre molto più stanco del dovuto, e ci voleva un'ora prima che le sue guance tornassero di un colorito normale. Allora andai dal medico, il quale mi spiegò che purtroppo il suo cuore aveva subito gravi danni, e che era un miracolo che lui riuscisse ancora a camminare un po'. Se non avesse fatto esercizio, sarebbe stato peggio. Forse fu grazie a quel colloquio, oppure perché volevo semplicemente migliorare il rapporto con mio padre, ma in quei giorni andammo più d'accordo che mai. Invece di incalzarlo a parlare, stavo seduto nel suo studio a leggere un libro o a fare un cruciverba, mentre lui esaminava le monete. C'era qualcosa di sereno e di onesto nella mia assenza di aspettative, e credo che anche papà si rendesse conto piano piano del cambiamento subentrato tra di noi. A volte mi sbirciava di sottecchi in maniera strana. Passavamo ore insieme, di solito senza aprire bocca, e fu in questo modo semplice e silenzioso che alla fine diventammo amici. Spesso rimpiangevo che avesse buttato via la nostra fotografia e, quando giunse per me il momento di tornare in Germania, fui davvero dispiaciuto di lasciarlo. L'autunno del 2004 trascorse lentamente, poi arrivarono l'inverno e la primavera. Tutto proseguiva senza grandi scossoni; di tanto in tanto le voci di un mio possibile ritorno in Iraq spezzavano la monotonia delle giornate, e poiché ci ero già stato, l'idea di andarci di nuovo non mi sgomentava granché. Mi era indifferente rimanere in Germania o trasferirmi lì. Mi tenevo aggiornato sugli avvenimenti in Medioriente, ma non appena posavo il giornale o spegnevo la TV la mia mente vagava altrove. Avevo ventotto anni e non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che, pur avendo accumulato più esperienze di molti miei coetanei, dovessi ancora prendere in mano la mia vita. Ero entrato nell'esercito per crescere e, sebbene in parte ciò fosse avvenuto, a volte mi domandavo se non ero rimasto sempre lo stesso. Non possedevo una macchina né una casa e, a parte papà, ero completamente solo al mondo. Gli uomini della mia età avevano nel portafoglio le foto della moglie e dei figli, nel mio c'era solo l'istantanea sbiadita di una donna che avevo amato e perduto. Sentivo gli altri soldati manifestare speranze per il futuro, mentre io non avevo progetti. Mi capitava di chiedermi che cosa pensassero i miei ragazzi di me, perché a volte li sorprendevo a fissarmi con aria incuriosita. Non raccontavo mai del mio passato, né davo informazioni personali. Non sapevano niente di Savannah o di mio padre o dell'amicizia con Tony. Quei ricordi erano soltanto miei e avevo imparato che certe cose è meglio tenerle segrete. ;.!¦¦â€¢â€¢¦ *¦ Nel marzo del 2005 papà ebbe un altro infarto, e venne ricoverato ancora in terapia intensiva. Si ammalò pure di polmonite e, quando fu dimesso, a causa dei farmaci che assumeva non poteva più guidare, ma l'assistente sociale mi aiutò a trovare una persona che gli portasse a casa la spesa. Ad aprile tornò in ospedale, dove gli fu detto che doveva rinunciare anche alle sue passeggiate quotidiane. A maggio prendeva una decina di pillole al giorno e trascorreva la maggior parte del tempo a letto. Le lettere che mi scriveva erano quasi illeggibili, perché era molto debole e gli tremavano le mani. Dopo un po' di insistenze e di suppliche al telefono, convinsi una sua vicina - che faceva l'infermiera - a passare da lui regolarmente, e tirai un sospiro di sollievo mentre contavo i giorni che mi separavano dalla licenza di giugno. Tuttavia, le sue condizioni continuavano a peggiorare e sentivo la sua voce dall'altra parte del filo diventare sempre più stanca e spossata. Allora presentai di nuovo domanda di trasferimento in patria. Stavolta il mio ufficiale superiore si mostrò più comprensivo. Avviammo la pratica e cercai persino di farmi assegnare all'addestramento aereo a Fort Bragg, ma parlando di nuovo con il medico, compresi che la mia vicinanza non sarebbe servita a molto e che avrei dovuto valutare l'ipotesi di far ricoverare mio padre in una struttura per lungodegenti. Il dottore mi informò che ormai aveva bisogno di continua assistenza e che aveva provato lui stesso a convincerlo, ma che papà aspettava il mio ritorno. Per qualche motivo, voleva che andassi a trovarlo a casa un'ultima volta. Fu una notizia devastante e, mentre viaggiavo sul taxi dall'aeroporto fino a Wilmington, tentai di convincermi che quel medico stava esagerando. Ma non era così. Quando aprii la porta, vidi che mio padre non riusciva nemmeno ad alzarsi dal divano e mi resi conto che, nel mio anno di assenza, sembrava invecchiato di trent'anni. Aveva la pelle grigiastra ed era dimagrito in maniera impressionante. «Ciao, papà», dissi, posando a terra la sacca con un groppo in gola. All'inizio dubitai che mi avesse riconosciuto, poi udii il suo sibilo. «Ciao, John.» Andai a sedermi accanto a lui sul divano. «Stai bene?» «Sì», rispose a fatica, e per un po' restammo lì senza parlare. Alla fine mi alzai per andare in cucina, ma rimasi esterrefatto dalla vista che mi si parò davanti. Barattoli di zuppa vuoti sparsi dappertutto. I fornelli erano sporchi, il secchio dell'immondizia straripava e il lavandino era pieno di piatti da lavare. Sul tavolo c'era un mucchio di posta ancora chiusa. Era ovvio che la casa non veniva pulita da giorni. Il mio primo impulso fu di precipitarmi dalla vicina che aveva promesso di occuparsi di lui, ma non potevo farlo subito. Per prima cosa frugai negli armadietti, trovai della zuppa di pollo e la riscaldai. Poi la versai in un piatto e la portai a papà con un vassoio. Mi rivolse un debole sorriso, pieno di gratitudine. Mangiò tutta la minestra fino all'ultimo cucchiaio e io gli riempii di nuovo il piatto, chiedendomi furioso da quanto tempo non mangiasse. Una volta finito anche quello, lo aiutai a sdraiarsi e si addormentò nel giro di pochi minuti. La vicina non era in casa, così passai l'intero pomeriggio a fare le pulizie, cominciando dalla cucina e dal bagno. Quando andai in camera a cambiare le lenzuola mi accorsi che erano bagnate di urina; chiusi gli occhi e mi venne voglia di strozzare quella donna. Alla fine tornai in salotto e mi sedetti a guardare papà che dormiva. Era così piccolo sotto la coperta e, quando gli accarezzai i capelli, me ne rimasero in mano alcune ciocche. Scoppiai a piangere, assalito dalla certezza che stesse morendo. Erano anni e anni che non versavo lacrime ed era la prima volta che lo facevo per lui, ma ora non riuscivo più a smettere. Mio padre era una brava persona, un uomo gentile e sebbene avesse condotto una vita menomata, aveva fatto del suo meglio per allevarmi. Non aveva mai alzato le mani su di me, e io cominciai a tormentarmi al ricordo di tutti gli anni che avevo sprecato disprezzandolo. Rammentai le mie due visite precedenti e il pensiero che non avremmo più condiviso quei semplici momenti era sconvolgente. Più tardi, lo portai a letto. Era leggero tra le mie braccia, troppo leggero. Gli rimboccai le coperte, poi mi preparai un giaciglio sul pavimento e rimasi ad ascoltare il suo respiro rantolante. Si svegliò nel cuore della notte, scosso da un accesso di tosse che sembrava interminabile. Ero pronto a portarlo in ospedale, quando infine smise di tossire. Capendo le mie intenzioni, mi fissò terrorizzato. «Resto... qui», implorò con un filo di voce. «Non voglio andare.» Io ero combattuto, ma alla fine lo accontentai. Per un abitudinario come lui, l'ospedale era un luogo non solo estraneo, ma anche spaventoso, che per adattarsi gli richiedeva più energie di quante ne potesse raccogliere. Fu allora che mi resi conto che aveva bagnato di nuovo il letto. La vicina arrivò il giorno successivo, e subito iniziò a scusarsi. Spiegò che quella settimana non aveva avuto tempo di pulire la cucina perché aveva una figlia malata, ma che aveva cambiato le lenzuola ogni giorno e si era assicurata che papà avesse una provvista di cibo in scatola. Mentre mi parlava in piedi sulla veranda, vidi i segni della stanchezza sul suo viso e tutte le parole di rimprovero mi morirono sulle labbra. Dissi che le ero molto grato per il suo aiuto. «L'ho fatto volentieri», rispose. «In questi anni lui è sempre stato carino con noi. Non si è mai lamentato quando i miei figli da piccoli facevano chiasso, e comprava qualcosa da loro se mettevano un banchetto per raccogliere qualche soldo. Teneva in ordine il giardino e tutte le volte che gli ho chiesto di dare un'occhiata a casa mia, si è mostrato disponibile. Era un vicino ideale.» Sorrisi. Incoraggiata, lei proseguì. «Ma deve sapere che ultimamente è cambiato. Mi ha detto che non gli piace dove metto le cose. O come pulisco. O che io gli sposti le carte sulla scrivania. In genere faccio finta di niente, ma certe volte, quando si sente bene, è piuttosto categorico e cerca di impedirmi di entrare, minacciando di chiamare la polizia se non lo ascolto. Non so più...» Lasciò la frase in sospeso e io la conclusi al posto suo. «Non sa più che cosa fare.» Sul suo viso comparve un'espressione colpevole. «È stata bravissima», dissi. «Senza di lei, non so come se la sarebbe cavata.» Annuì, sollevata, poi distolse lo sguardo. «Sono contenta che lei sia tornato a casa... perché volevo parlarle della situazione.» Si tolse di dosso un invisibile granello di polvere. «C'è un istituto dove si prenderebbero cura di lui nel modo migliore. Il personale è di ottimo livello. È quasi sempre al completo, ma conosco il direttore, che a sua volta è amico del medico di suo padre. So quanto è difficile, ma credo che sia la cosa migliore per lui, altrimenti non vorrei...» Tacque e io capii che era sinceramente preoccupata per papà. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma rimasi in silenzio. In effetti, non era una decisione facile. Casa sua era l'unico posto dove lui si sentisse a proprio agio, dove le sue abitudini avessero un senso. Se stare in ospedale lo spaventava, trasferirsi altrove l'avrebbe ucciso. La questione non era soltanto dove dovesse morire, ma anche come. Da solo a casa, dormendo tra lenzuola bagnate e soffrendo la fame, oppure in mezzo a persone che lo avrebbero lavato e nutrito, ma in un luogo che lo terrorizzava? Con un tremito incontrollabile nella voce, chiesi: «Come si chiama questo istituto?» Passai le due settimane seguenti a badare a papà. Cercavo di farlo mangiare, gli leggevo il Greysheet quando era sveglio, e dormivo sul pavimento accanto al suo letto. Si bagnava tutte le notti e alla fine fui costretto a comperare i pannolini per adulti, con suo grande imbarazzo. Nel pomeriggio sonnecchiava sul divano, e intanto io andai a visitare diverse case di riposo, compresa quella consigliatami dalla vicina. Alla fine conclusi che lei aveva ragione. La struttura era pulita, il personale era gentile ed efficiente e, soprattutto, il direttore sembrava aver preso a cuore il caso di mio padre, forse proprio perché conosceva la donna e il nostro medico. La retta era estremamente cara, ma poiché lui aveva la pensione statale, l'assistenza sanitaria e anche un'assicurazione privata (me lo immaginavo mentre firmava la polizza sulla linea punteggiata indicata dall'agente, senza sapere bene in che cosa si stesse impegnando) mi garantirono che l'unico costo per me sarebbe stato quello emotivo. Il direttore - sulla quarantina, capelli castani e modi gentili che mi facevano pensare a Tim - capì la mia esitazione e non mi incalzò a prendere una decisione immediata. Mi porse invece un opuscolo informativo e mi fece gli auguri per mio padre. Quella sera affrontai con lui l'argomento. Sarei dovuto ripartire entro pochi giorni e non mi restava scelta, anche se avrei preferito evitarlo. Non disse nulla mentre parlavo. Gli spiegai le mie ragioni, le mie preoccupazioni, la mia speranza che potesse capire. Non fece domande e i suoi occhi rimasero sgranati per lo sgomento, come se avesse appena ascoltato la propria condanna a morte. Quando terminai, provai un terribile impulso di stare da solo. Gli accarezzai la gamba e andai in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Tornato in salotto, lo trovai chino sul divano. Raggomitolato su se stesso e tremante. Era la prima volta che lo vedevo piangere. Il mattino seguente cominciai a fare i suoi bagagli. Aprii cassetti e armadi. Nel cassetto dei calzini, trovai solo calzini; in quello delle camicie, solo camicie. Nel mobiletto dove teneva i documenti era tutto ordinatamente etichettato. Anche se c'era da aspettarselo, rimasi sorpreso. Mio padre, a differenza di gran parte dell'umanità, non aveva niente da nascondere. Nessun vizio segreto né diario personale, nessun interesse imbarazzante, nessuna scatola piena di oggetti privati. Non trovai nulla che potesse illuminarmi ulteriormente sulla sua vita interiore, o che potesse aiutarmi a capirlo una volta che se ne fosse andato. Mio padre, lo capii in quel momento, era esattamente com'era sempre sembrato, e d'un tratto provai una profonda ammirazione per lui. Quando terminai di raccogliere le sue cose, giaceva sveglio sul divano. Dopo qualche giorno di alimentazione regolare aveva ritrovato un po' di forze. I suoi occhi erano illuminati da una debole scintilla di vita e notai una pala appoggiata al tavolino laterale. Mi porse un foglio di carta. C'era disegnata quella che sembrava una mappa tracciata frettolosamente con mano incerta, con la scritta GIARDINO. «Che cos'è?» «È tua», mi disse. E indicò la pala. La presi e, seguendo le indicazioni sulla mappa, raggiunsi la quercia in giardino, feci qualche passo e cominciai a scavare. Dopo pochi minuti la pala batté contro qualcosa di metallico e io tirai fuori una cassetta. E poi un'altra sotto di essa. E una terza di lato. In tutto, erano sedici cassette molto pesanti. Mi sedetti sulla veranda e mi asciugai il sudore dalla fronte prima di aprirle. Sapevo già quello che ci avrei trovato dentro e socchiusi gli occhi, abbagliato dal riflesso del caldo sole del Sud sulle monete d'oro. In fondo alla prima c'era il Buffalo Nickel 1926-D, quello che avevamo cercato e trovato insieme; era l'unica moneta che avesse un significato per me. Il giorno dopo, l'ultimo della mia licenza, mi occupai della casa; diedi la disdetta dei contratti delle varie utenze, indirizzai la posta a me, trovai qualcuno che tenesse tosato il prato. Portai anche le monete in una cassetta di sicurezza in banca. Per cena, mangiammo insieme un'ultima minestra di pollo e le verdure al vapore, poi accompagnai mio padre alla casa di riposo. Sistemai le sue cose, decorai la camera con oggetti che pensavo potessero fargli piacere, impilai sotto lo scrittoio almeno una decina di annate del Greysheet. Ma non bastava e, dopo aver spiegato la situazione al direttore, tornai a casa a raccogliere altre cianfrusaglie, rimpiangendo di non conoscere abbastanza papà da sapere che cosa fosse davvero importante per lui. Per quanto cercassi di tranquillizzarlo, era paralizzato dalla paura e il suo sguardo mi straziava il cuore. Più di una volta mi assalì la sensazione che lo stessi uccidendo. Mi sedetti accanto a lui sul letto, consapevole che mi restavano poche ore prima di dovermi recare all'aeroporto. «Andrà tutto bene», lo rassicurai. «Si prenderanno cura di te.» Le sue mani continuavano a tremare. «D'accordo», mormorò con un filo di voce. Mi sentivo le lacrime agli occhi. Feci un bel respiro, concentrandomi sui miei pensieri. «Senti, voglio che tu sappia che sei il padre migliore del mondo. Sei stato davvero grande a tirare su un tipo come me.» Non rispose. Nel silenzio, sentii salire in superficie tutte quelle cose che avrei sempre voluto dirgli, parole che si erano formate lentamente nel corso degli anni. «Parlo sul serio, papà. Mi spiace per i problemi che ti ho dato, e di non esserti stato abbastanza vicino. Sei l'uomo più fantastico che conosca. Non ti sei mai arrabbiato con me, non mi hai mai giudicato e, a tuo modo, mi hai insegnato a vivere più di quanto un figlio possa aspettarsi dal proprio genitore. Vorrei poter restare con te, e mi sento male per averti portato via dalla tua casa. Ma ho paura a lasciarti solo, papà. E non so cos'altro fare.» La mia voce era arrochita e incerta, e avrei voluto tanto che lui mi abbracciasse. «D'accordo», disse alla fine. Non potei fare a meno di sorridere. «Ti voglio bene, papà.» A questo sapeva esattamente come rispondere, perché aveva sempre fatto parte della sua routine. «Anch'io ti voglio bene, John.» Lo abbracciai, poi gli porsi l'ultimo numero del Grey-sheet. Giunto sulla porta, mi girai a guardarlo. La sua paura ora sembrava quasi scomparsa. Si teneva il giornale vicino alla faccia e il foglio sussultava lievemente. Muoveva le labbra mentre si concentrava nella lettura e lo osservai a lungo, per imprimermi per sempre il suo viso nella memoria. Fu l'ultima volta che lo vidi da vivo. 17 Mio padre morì un mese e mezzo dopo e io ottenni una licenza straordinaria per partecipare al funerale. Sull'aereo per gli Stati Uniti ero intontito dal dolore. Tenevo gli occhi fissi sul grigio uniforme dell'oceano qualche migliaio di metri sotto di me, rimpiangendo di non essere stato vicino a lui negli ultimi istanti. Non mi ero fatto la barba, né lavato, né cambiato da quando avevo ricevuto la notizia, come se compiere quei gesti quotidiani significasse accettare completamente l'idea che non ci fosse più. Mentre ero sul taxi, sentii crescere dentro la rabbia per le scene di vita che vedevo fuori dal finestrino. La gente andava in macchina, camminava, entrava e usciva dai negozi come in un giorno qualsiasi, ma per quanto mi riguardava, niente era più normale. Una volta giunto davanti a casa mi ricordai di aver disdetto la corrente. Senza luci, l'edificio sembrava stranamente isolato, quasi non facesse parte della strada. Un po' come mio padre, pensai. O come me. Per qualche motivo, questa consapevolezza mi diede la forza di raggiungere la porta. Infilato nello stipite c'era il biglietto da visita di un certo avvocato William Benjamin, che mi chiedeva di chiamarlo. Gli telefonai dalla casa dei vicini, e il mattino dopo di buon'ora arrivò con in mano una ventiquattrore. Lo feci entrare nel salotto in penombra e si sedette sul divano. Il suo abito doveva costare più di due mesi del mio stipendio. Dopo essersi presentato e avermi fatto le condoglianze, si chinò in avanti. «Sono qui perché ero affezionato a suo padre. È stato uno dei miei primi clienti, quindi lei non deve pagarmi nessuna parcella. È venuto da me dopo la sua nascita per redigere un testamento e ogni anno, lo stesso giorno, ricevevo per posta una lettera certificata in cui elencava tutte le monete che aveva acquistato. Gli avevo spiegato che c'erano delle tasse di successione, così gliele ha donate fin da quando lei era bambino.» Ero troppo scioccato per parlare. «Comunque, sei settimane fa mi ha scritto per informarmi che finalmente le monete erano entrate in suo possesso, e voleva essere sicuro che tutto il resto fosse in ordine, così ho aggiornato il suo testamento per l'ultima volta. Quando ho saputo che si era trasferito in una casa di riposo, ho immaginato che non stesse bene, allora gli ho telefonato. Mi ha dato qualche indicazione e mi ha permesso di parlare con il direttore, che mi ha promesso di avvertirmi se fosse successo qualcosa, in modo che potessi mettermi in contatto con lei.» Si mise a frugare nella ventiquattrore. «So che deve occuparsi del funerale, e che è un brutto momento. Ma suo padre mi ha detto che lei non avrebbe potuto rimanere qui a lungo, e che dovevo sistemare le sue faccende. Sono le sue esatte parole. Vediamo, ecco qua.» Mi porse una busta piena di documenti. «Il testamento, l'elenco delle monete della collezione, con le relative certificazioni di acquisto, e le disposizioni per il funerale... che tra l'altro è già pagato. Gli ho assicurato che mi sarei occupato dell'eredità fino alla convalida, ma questo non sarà un problema, visto che le proprietà sono limitate, e lei è l'unico erede. Se vuole, potrei trovare qualcuno che porti via tutto ciò che non le interessa e prendere accordi per la vendita della casa. Suo papà sosteneva che forse lei non avrebbe avuto il tempo di fare neanche questo.» Richiuse la valigetta. «Come ho detto, gli ero affezionato. In genere devi convincere la gente dell'importanza delle questioni legali, ma non nel caso di suo padre. Era un uomo molto metodico.» «Già», annuii. «Ha proprio ragione.» Papà aveva pensato a tutto. Aveva scelto il tipo di funerale, il vestito che voleva indossare, e persino il feretro. Conoscendolo, avrei dovuto immaginarlo, ma la cosa servì solo a rafforzare la mia convinzione di non averlo mai capito bene. Al suo funerale, in un caldo e piovoso pomeriggio d'agosto, parteciparono poche persone. Accanto a me al cimitero c'erano soltanto due ex colleghi, il direttore della casa di riposo, l'avvocato e la vicina che lo aveva aiutato negli ultimi tempi. Mi ruppe il cuore - in mille pezzi - vedere che soltanto loro avevano riconosciuto le qualità umane di mio padre. Dopo aver concluso il rito funebre, il prete mi chiese sottovoce se volevo fare un discorso, ma avevo la gola così secca che mi costò una gran fatica anche solo fargli segno di no. *** Tornato a casa, andai a sedermi con esitazione sul bordo del letto. Aveva smesso di piovere e la luce del sole filtrava dalla finestra. La casa sapeva di muffa e di polvere. Sul cuscino c'era ancora l'odore di mio padre. Vicino a me era posata la busta lasciata dall'avvocato. Rovesciai il contenuto sulla coperta. In cima c'era il testamento e, sotto gli altri documenti, scoprii la fotografia incorniciata che papà aveva tolto dalla sua scrivania tanto tempo prima, l'unica foto esistente di noi due insieme. Me l'avvicinai al viso e la fissai, finché gli occhi mi si riempirono di lacrime. Qualche ora più tardi venne a trovarmi Lucy, la mia prima fidanzata. Quando me la trovai lì sulla soglia, dapprincipio non seppi cosa dire. Dov'era finita la ragazza abbronzata della mia gioventù? Avevo davanti una donna con un tailleur scuro molto raffinato e una camicia di seta. «Mi spiace, John», mormorò, facendo un passo verso di me. Ci abbracciammo, stringendoci forte, e la sensazione del suo corpo contro il mio fu rigenerante come un bicchiere d'acqua fresca in un'afosa giornata estiva. Avvertivo la lieve traccia di un profumo a me sconosciuto, che mi fece pensare a Parigi, anche se non c'ero mai stato. «Ho letto il necrologio», spiegò dopo che ci fummo sciolti dall'abbraccio. «Mi spiace di non aver fatto in tempo a venire al funerale.» «Non importa», risposi. Le indicai il salotto. «Vuoi entrare?» Si sedette accanto a me sul divano e, quando mi accorsi che non portava più la fede, istintivamente spostò la mano. «Non ha funzionato», disse semplicemente. «Abbiamo divorziato l'anno scorso.» «Mi spiace.» «Anche a me», ribatté prendendomi la mano. «Tu stai bene?» «Sì», mentii. «Abbastanza.» Parlammo per un po' dei vecchi tempi; lei non credeva che fosse stata la sua ultima telefonata a indurmi ad arruolarmi. Io le assicurai che era esattamente ciò di cui avevo bisogno all'epoca. Mi parlò della sua carriera - si occupava dell'allestimento e dell'organizzazione degli spazi per i saldi nei grandi magazzini - e mi domandò com'era in Iraq. Le raccontai della sabbia. Rise e non mi chiese altro. Dopo un po' la nostra conversazione si fece stentata, a mano a mano che ci rendevamo conto quanto fossimo cambiati. Forse perché in passato eravamo stati insieme, oppure perché lei era una donna, ma sentivo che mi stava esaminando accuratamente e già sapevo quale sarebbe stata la sua domanda successiva. «Sei innamorato, vero?» bisbigliò. Strinsi le mani in grembo e mi girai a guardare fuori dalla finestra. Il cielo era tornato a coprirsi, minacciando nuova pioggia. «Sì», ammisi. «Come si chiama?» «Savannah», risposi. «È qui?» Esitai. «No.» «Ti va di parlarmene?» No, avrei voluto risponderle. Nell'esercito avevo imparato che le vicende sentimentali come la mia erano noiose e prevedibili, e che anche se te lo chiedevano, in realtà nessuno aveva voglia di ascoltarle. Ma le raccontai la storia dall'inizio alla fine, compresi i dettagli più dolorosi, e ogni tanto lei mi stringeva la mano. Non mi ero reso conto quanto fosse stato difficile tenermi tutto dentro, e quando ebbi finito, Lucy capì che avevo bisogno di restare da solo. Mi baciò su una guancia e se ne andò. Io mi misi a camminare a lungo su e giù per la casa. Passavo da una stanza all'altra, pensando a papà e a Savannah, sentendomi un estraneo... e a poco a poco affiorò in me la consapevolezza che c'era un altro luogo dove dovevo assolutamente andare. 18 Quella notte dormii per la prima e unica volta nel letto di mio padre. Il temporale era passato e la temperatura era risalita a livelli insopportabili. Non trovavo refrigerio nemmeno con le finestre aperte e continuai a rigirarmi per ore. Al risveglio, presi le chiavi dell'auto di papà dalla mensola in cucina. Gettai la mia sacca nel bagagliaio e presi alcune cose a cui tenevo. A parte la fotografia, non c'era molto altro. Andai a telefonare all'avvocato per dirgli che accettavo la sua offerta di far sgomberare la casa e cercare un acquirente. Poi gli lasciai le chiavi nella cassetta della posta. La macchina non partì subito. La spinsi fuori dal garage e richiusi la saracinesca. Guardai la casa dal vialetto, pensando che non avrei mai più rivisto quel posto. Raggiunsi la casa di riposo per ritirare gli oggetti personali di mio padre, poi mi allontanai da Wilmington imboccando l'interstatale e guidando come un automa. Erano passati anni dall'ultima volta che avevo percorso quella strada, ed ero solo parzialmente consapevole del traffico, ma a ondate mi invadeva un senso di déjà-vu. Attraversai le città della mia giovinezza, superai Raleigh e mi diressi verso Chapel Hill, dove i ricordi mi assalirono con dolorosa intensità. Accelerai inconsciamente per lasciarmeli alle spalle. Proseguii ancora attraverso Burlington, Greensboro e Winston-Salem. Mi fermai soltanto a fare benzina e a comperare una bottiglia d'acqua. Avevo lo stomaco chiuso e non sarei riuscito a mandare giù neanche un boccone. La fotografia incorniciata era sul sedile di fianco al mio e di tanto in tanto cercavo di rammentare com'era il bambino che vi compariva. Alla fine svoltai verso nord, seguendo una statale che serpeggiava tra catene montuose dalle vette ancora innevate. Era quasi sera quando mi fermai davanti a uno squallido motel. Ero indolenzito e, dopo essermi sgranchito un po' i muscoli, feci una doccia e mi rasai. Indossai un paio di jeans e una maglietta puliti e valutai brevemente l'idea di mangiare qualcosa, ma continuavo a non avere fame. Il sole era basso sull'orizzonte e l'aria aveva perso la pesantezza salmastra della costa. Riconoscevo il profumo di resina che scendeva dalle montagne. Era il luogo natale di Savannah e per qualche motivo sentivo che lei si trovava ancora da quelle parti. Potevo andare a casa dei suoi a chiedere informazioni, ma non sapevo come avrebbero reagito vedendomi. Così raggiunsi Lenoir e percorsi le strade dei quartieri nuovi, con il loro assortimento di fast-food e self-service, poi rallentai entrando nella parte più caratteristica della città. Lì non era cambiato niente e i turisti erano i benvenuti come visitatori, ma non sarebbero mai stati considerati gente del posto. Mi fermai nel parcheggio di un bar dimesso, che mi ricordava quelli che frequentavo da ragazzo. Insegne al neon con pubblicità di birra alle finestre, una sala da biliardo, un sacco di macchine ferme davanti. Era in un locale del genere che avrei trovato la risposta che cercavo. Entrai. Dal juke-box usciva la voce inconfondibile di Hank Williams e l'aria era densa di fumo di sigaretta. C'erano quattro tavoli da biliardo ammassati; tutti i giocatori portavano berretti da baseball e due di loro avevano la guancia rigonfia di tabacco da masticare. Vidi i trofei automobilistici alle pareti, circondati da foto scattate nei circuiti di Talladega e Martinsville, North Wilkesboro e Rockingham, e anche se non avevo mai avuto una passione per quello sport, mi sentii a mio agio. In un angolo del bar - sotto l'immagine sorridente di un vecchio campione morto in un incidente sulla pista - c'era un barattolo con una richiesta di donazioni per un malato di cancro. Provando un impeto di compassione, vi infilai dentro un paio di dollari. Poi mi sedetti al banco e cominciai a parlare con il barista. Aveva all'incirca la mia età e il suo accento montano mi ricordava Savannah. Dopo una ventina di minuti di chiacchiere banali, tirai fuori dal portafoglio la foto di lei e gli spiegai che ero un amico di famiglia. Feci il cognome dei genitori e osservazioni che indicavano che ero già stato lì. All'inizio il barista era guardingo. Nelle piccole città la gente si protegge a vicenda, ma venne fuori che lui era stato arruolato un paio d'anni nei marines e questo facilitò le cose. Alla fine annuì. «Certo, la conosco», disse. «Abita su in Old Mill Road, accanto alla casa dei suoi.» Erano solo le otto, il cielo si andava oscurando mentre calavano le prime ombre della sera. Dieci minuti dopo lasciai una mancia generosa sul bancone e mi avviai verso l'uscita. Senza pensare a quello che stavo facendo, mi diressi in macchina verso il paese dei cavalli. Era così che ricordavo quel posto dall'ultima volta che c'ero stato. La strada era in lieve salita e cominciai a riconoscere i punti di riferimento; entro pochi minuti sarei passato davanti al ranch dei genitori di Savannah. Dopo averlo superato, mi protesi sul volante in cerca del vialetto d'accesso successivo. Mentre lo imboccavo notai un cartello scritto a mano, che recitava speranza e cavalli. Lo scricchiolio della ghiaia sotto i pneumatici era stranamente confortante. Fermai l'auto sotto un salice, accanto a un pickup malmesso. Guardai verso la casa. Squadrata, con il tetto spiovente, l'intonaco bianco che si sfogliava e un comignolo solitario puntato verso il cielo, sembrava ergersi dalla terra come un'immagine spettrale di un'altra epoca. Sopra la vecchia porta d'ingresso c'era una nuda lampadina e una pianta in vaso era appesa accanto a una bandiera americana, agitata dalla brezza. Poco distante si vedevano una stalla male in arnese e un piccolo recinto; più oltre, un pascolo verde smeraldo cinto da una ordinata palizzata bianca si estendeva fino a un bosco di grandi querce nodose. Una specie di tettoia sorgeva accanto alla stalla, e alla luce fioca della sera scorsi delle vecchie attrezzature agricole. Mi chiesi di nuovo che cosa ci facessi lì. Non era troppo tardi per andarsene, ma non trovai la forza di girare la macchina. Il cielo era solcato da striatu-re rosse e gialle mentre il sole calava dietro l'orizzonte, ammantando le montagne di tenebra. Scesi dall'auto e mi incamminai verso la casa. La rugiada sull'erba mi bagnò la punta delle scarpe e di nuovo colsi il profumo delle conifere. Udii il frinire dei grilli e il canto melodico di un usignolo. Quei suoni mi diedero il coraggio di salire i gradini della veranda. Cercai di inventarmi qualcosa da dire, se lei mi avesse aperto la porta. O se invece mi fossi trovato davanti il marito. Mentre ci riflettevo, si avvicinò un retriever scodinzolante. Allungai la mano e il cane me la leccò amichevolmente, prima di voltarsi e ridiscendere i gradini. Continuava a scodinzolare mentre girava intorno alla casa e, sentendo lo stesso richiamo che mi aveva portato a Lenoir, lo seguii. Accucciandosi sul ventre, passò sotto la staccionata e trotterellò nella stalla. Non appena il cane fu scomparso, vidi Savannah uscire con due balle di fieno sottobraccio. I cavalli che erano al pascolo si avvicinarono l'uno dopo l'altro mentre gettava il fieno nelle mangiatoie. Si stava scrollando la polvere dai vestiti, pronta a tornare nella stalla, quando per caso guardò dalla mia parte. Fece un passo, guardò di nuovo e poi rimase immobile. Restammo entrambi fermi. Mentre sentivo i suoi occhi su di me, capii che avevo sbagliato a capitare lì senza avvisarla. Sapevo che avrei dovuto dire qualcosa, qualunque cosa, ma non mi veniva in mente niente. Non riuscivo a fare altro che fissarla a mia volta. I ricordi mi assalirono, tutti insieme, e notai quanto poco fosse cambiata dall'ultima volta che l'avevo vista. Come me, indossava i jeans e una maglietta, oltre a un paio di vecchi stivali di cuoio tutti infangati. Quel look trasandato le dava un'aria concreta. Ora portava i capelli più lunghi, ma vidi subito quella fessura tra gli incisivi che mi era sempre piaciuta tanto. «Savannah», dissi infine. Solo quando parlai, mi resi conto che anche lei era rimasta senza parole. Di colpo il suo viso si illuminò di un sorriso di innocente piacere. «John?» esclamò. «È bello rivederti.» Scosse la testa, come per schiarirsi le idee, poi tornò a scrutarmi. Convincendosi infine che non ero un miraggio, corse verso il cancello e lo scavalcò di slancio. Un attimo dopo sentivo le sue braccia intorno a me, il suo corpo caldo e accogliente. Per un secondo fu come se tra di noi non fosse cambiato niente. Avrei voluto tenerla stretta per sempre, ma quando si staccò, l'illusione si infranse e tornammo di nuovo a essere due estranei. Nella sua espressione leggevo la domanda alla quale avevo tentato invano di rispondere durante il viaggio in macchina. «Che cosa ci fai qui?» Distolsi lo sguardo. «Non lo so. Avevo bisogno di venirci.» Non mi chiese niente, ma mi fissò con un misto di curiosità ed esitazione, come se non fosse sicura di volere altre spiegazioni. Feci un passo indietro per lasciarle spazio. Osservai nell'ombra le sagome scure dei cavalli, e tutto il peso degli avvenimenti degli ultimi giorni mi piombò addosso. «Mio padre è morto», sussurrai dal profondo dell'anima. «Sono appena stato al suo funerale.» Rimase zitta, manifestando la spontanea compassione che un tempo mi aveva tanto attirato. «Oh, John... mi spiace tanto», mormorò. Mi abbracciò ancora, con una nuova urgenza. «Com'è accaduto?» chiese poi, prendendomi per mano. La sua voce esprimeva un dolore sincero e io rimasi zitto per un po', incapace di riassumere un paio di anni in una singola frase. «È una lunga storia», dissi infine. Nell'alone delle luci della stalla, mi parve di scorgere sul suo viso tracce di ricordi che voleva tenere sepolti, brandelli di una vita passata. Quando mi lasciò la mano, vidi la sua fede luccicare sull'anulare sinistro. Fu come ricevere una secchiata d'acqua gelata. , Lei se ne accorse. «Sì, sono sposata», affermò. «Scusami», replicai allora. «Non sarei dovuto venire.» «Non importa», disse, piegando la testa di lato. «Come sei riuscito a trovarmi?» «È una piccola città. Ho chiesto in giro.» «E ti hanno risposto senza fare difficoltà?» «Sono stato convincente.» Era una situazione imbarazzante, e nessuno dei due sapeva cosa fare. Da una parte, mi aspettavo che saremmo rimasti lì a chiacchierare come due vecchi amici che si rivedono dopo tanto tempo. Dall'altra, temevo di veder sbucare fuori di casa suo marito, che mi avrebbe accolto con una stretta di mano o un pugno. Nel silenzio udii un nitrito. Davanti alla stalla c'erano quattro cavalli con il muso chino sulla mangiatoia, mentre altri tre, compreso Midas, fissavano Savannah come per chiederle perché si fosse dimenticata di loro. «Devo nutrire anche quelli», spiegò lei. «È ora di mangiare e stanno diventando nervosi.» Annuii e Savannah si voltò per andarsene. Mentre si avviava verso il cancello, mi gridò: «Ti va di darmi una mano?» Esitai, lanciando un'occhiata alla casa. Lei seguì il mio sguardo. «Non preoccuparti, non è qui. E mi servirebbe davvero un po' d'aiuto.» La sua voce era sorprendentemente decisa. Sebbene la sua risposta mi avesse lasciato confuso, assentii. «Volentieri.» Mi aspettò, poi richiuse il cancello. Mi indicò un mucchio di letame. «Fai attenzione. Ti rovinerai le scarpe.» Sbuffai. «Ci proverò.» Nella stalla, afferrò due balle di fieno e me le passò. «Gettale nella mangiatoia, assieme alle altre. Vado a prendere l'avena.» Feci come mi aveva ordinato e i cavalli mi si strinsero intorno. Savannah uscì con due grossi secchi. «Farai meglio a tenerti a distanza. Altrimenti potrebbero calpestarti accidentalmente.» Arretrai e lei appese i secchi alla staccionata. Guardò con orgoglio i cavalli che si avvicinavano. «Quante volte devi dargli da mangiare?» «Due volte al giorno. Ma il cibo non è tutto. È incredibile la facilità con cui si fanno male. Il veterinario viene qui di continuo.» Sorrisi. «Mi pare che tu abbia un sacco di lavoro.» «Infatti. Dicono che possedere un cavallo sia come vivere con una zavorra. È impossibile andare via, anche per un week-end, se non c'è nessuno a sostituirti.» «I tuoi genitori ti aiutano?» «A volte, quando ne ho davvero bisogno. Ma mio padre sta invecchiando, e c'è una bella differenza tra occuparsi di un cavallo e badare a sette di loro.» «Non lo metto in dubbio.» Nel caldo abbraccio della notte, ascoltai il regolare frinire delle cicale, respirando la pace di quel rifugio e cercando di fermare i miei pensieri vorticanti. «È proprio il posto che immaginavo per te», dissi alla fine. «Anch'io», rispose. «Ma è molto più faticoso di quanto pensassi. C'è sempre qualcosa da riparare. Non immagini neanche quante perdite c'erano nel tetto della stalla e tutti gli inverni ci sono pezzi di staccionata che crollano. Passiamo la primavera ad aggiustarli.» Sebbene avesse usato il plurale, non ero ancora pronto ad affrontare l'argomento del marito. Né lei sembrava ansiosa di farlo. «Ma è molto bello qui, nonostante la fatica. Nelle serate come questa, mi piace stare seduta in veranda in mezzo alla natura. Il traffico è inesistente, ed è tutto così... pacifico. Aiuta a schiarire la mente, specie dopo una lunga giornata.» Mentre parlava, intuii che voleva mantenere la conversazione su un terreno neutro. «Ci credo.» «Devo pulire gli zoccoli. Mi daresti ancora una mano?» chiese. «Non so come si faccia», ammisi. «È facile. Ora ti mostro.» Scomparve nella stalla e tornò con due ferri ricurvi. Me ne porse uno, poi si avvicinò ai cavalli che stavano mangiando. «Basta che afferri lo zoccolo e premi la parte posteriore della zampa in questo modo», disse, dandomi una dimostrazione. Il cavallo, concentrato sul fieno, sollevò lo zoccolo docilmente. Lei se lo appoggiò sulle gambe. «E poi, scavi il fango che si è accumulato intorno. Tutto qui.» Mi avvicinai a un altro cavallo e cercai di imitare i suoi gesti, ma non accadde nulla. Quell'animale era troppo grosso e troppo testardo. Tirai di nuovo lo zoccolo e premetti nel punto giusto, poi lo feci ancora. Il cavallo continuò a mangiare, ignorandomi del tutto. «Non vuole ubbidire», mi lamentai. Savannah mi raggiunse e si chinò vicino a me. In un attimo teneva lo zoccolo tra le gambe. «Certo che ubbidisce. È solo che sente che non sai quello che fai, e che sei a disagio. Devi mostrarti sicuro.» Lasciò cadere lo zoccolo e io presi il suo posto, riprovandoci. Il cavallo rimase immobile. «Guarda come faccio io», mi disse seria. «Ma ti ho guardato.» Ripetè l'operazione; il cavallo sollevò la zampa. Un attimo dopo la imitai alla perfezione e lui non si mosse. Avevo la netta impressione che si divertisse a prendermi in giro. Esasperato, tirai e spinsi incessantemente, e alla fine, come per magia, il cavallo sollevò di nuovo la zampa. Nonostante l'esiguità del mio successo, provai un moto di orgoglio. Per la prima volta da quando ero arrivato Savannah rise. «Ottimo lavoro. Adesso gratta via lo sporco e passa allo zoccolo successivo.» Si occupò degli altri sei cavalli mentre io mi davo da fare con il mio. Una volta finito, aprì il cancello e gli animali uscirono al pascolo. Non sapevo che cosa fare, ma lei si incamminò verso la tettoia tenendo in mano due pale. «Adesso bisogna pulire», annunciò, porgendomene una. «Pulire?» «Il letame», spiegò. «Altrimenti, senti tu che puzza.» Presi la pala. «Lo fai tutti i giorni?» «La vita è una passeggiata, vero?» scherzò. Si allontanò di nuovo e tornò con una carriola. Mentre raccoglievamo il letame, una falce di luna si levò sopra la cima degli alberi. Lavorammo in silenzio, tenendo un ritmo regolare. Alla fine mi appoggiai al manico della pala e la osservai. All'ombra del fienile era incantevole ed elusiva come una visione. Non disse niente, ma sentivo che mi stava studiando a sua volta. «Tutto bene?» domandai. «Perché sei qui, John?» «Me lo hai già chiesto.» «Lo so», replicò. «Ma tu non mi hai risposto.» No, infatti. Non riuscivo nemmeno io a spiegarmi la mia presenza lì e mi dondolai sui piedi. «Non sapevo dove altro andare», dichiarai. Lei annuì, cogliendomi di sorpresa. «Uh-uh», fece. Fu il suo tono di neutra accettazione a spingermi a proseguire. «Parlo sul serio. Per certi versi, sei stata la mia migliore amica.» Vidi la sua espressione intenerirsi. «D'accordo», disse. La sua risposta mi fece pensare a quelle di mio padre, e anche lei se ne rese conto. Mi sforzai di distogliere lo sguardo. «Questo ranch è la realizzazione del tuo progetto, giusto? Speranza e cavalli per i bambini autistici.» Si passò una mano tra i capelli, scostandosi una ciocca dietro l'orecchio. Sembrava compiaciuta che me ne fossi ricordato. «Esatto.» «È tutto come volevi?» Rise, alzando le mani. «A volte, ma non credere che basti a pagare i conti. Entrambi abbiamo un altro lavoro, e ogni giorno capisco di non aver imparato abbastanza all'università.» «No?» «Con certi bambini che vengono qui, oppure al centro, non è facile entrare in contatto.» Si fermò, per cercare le parole giuste. «Forse mi immaginavo che tutti fossero come Alan.» Alzò la testa. «Ricordi quando ti ho parlato di lui?» Annuii, e lei continuò. «Invece, ho scoperto che la sua situazione era speciale. Non so... forse dipendeva dal fatto che era cresciuto in una fattoria, ma si è adattato a questa terapia molto meglio degli altri.» «Se non ricordo male, mi avevi raccontato che anche Alan all'inizio era terrorizzato.» «È vero, però... alla fine si è abituato. Invece ci sono un sacco di bambini che non si adatteranno mai, nonostante i nostri sforzi. Noi lavoriamo al centro di valutazione dello sviluppo, perciò abbiamo passato molto tempo con loro e, quando avviammo la fattoria, decidemmo che tutti potevano provare questo metodo, indipendentemente dalle loro condizioni. Eravamo convinti che si trattasse di un'iniziativa importante, ma con alcuni bambini... vorrei solo sapere come riuscire a comunicare. A volte ci sembra di girare a vuoto.» Mi resi conto che stava facendo un bilancio. «Non dico che sia stato tutto inutile», proseguì. «Altri bambini traggono un reale beneficio dal rapporto con i cavalli. Vengono qui a passare un paio di week-end ed è come... se un bocciolo si schiudesse lentamente diventando un bellissimo fiore. Com'è successo con Alan. La loro mente si apre a nuove idee e possibilità e, quando infine cavalcano con un grande sorriso stampato sulla faccia, ogni fatica è dimenticata. È una sensazione inebriante... però non sempre accade. Un tempo pensavo fosse solo questione di perseveranza, credevo di essere in grado di aiutare tutti, invece alcuni non arrivano neppure ad avvicinarsi ai cavalli, figurarsi poi a montarli. » «Sai che non è colpa tua. Nemmeno io ero troppo entusiasta dell'idea di cavalcare, ricordi?» Ridacchiò come una ragazzina. «Già, la prima volta che salisti in sella eri più spaventato di molti dei miei bambini.» «Non è vero», protestai. «E poi, Pepper era vivace.» «Come no!» esclamò. «Altrimenti pensi che te l'avrei lasciato montare? È uno dei cavalli più docili al mondo, credimi.» «Era vivace», insistetti. «Parli come un autentico pivello», scherzò. «Ma anche se ti sbagli, mi commuove il fatto che te ne ricordi. » La sua giovialità risvegliò in me vecchie memorie. «Non potrei mai dimenticarlo. Quelli furono tra i giorni più belli della mia vita.» Oltre la sua spalla, vidi il cane trotterellare verso il pascolo. «Forse è per questo che non mi sono ancora sposato. » Alle mie parole, il suo sguardo si oscurò. «Anche per me sono stati indimenticabili.» «Davvero?» «Certo», confermò. «Forse non ci crederai, ma è così.» Le sue parole rimasero sospese nell'aria tra di noi. «Sei felice, Savannah?» le chiesi infine. Mi offrì un mesto sorriso. «Quasi sempre. E tu?» «Non so», dissi e lei rise di nuovo. «Questa è la tua risposta standard, sai? Quando ti fanno una domanda personale. E come un riflesso condizionato. Sei sempre stato così. Perché invece non mi chiedi quello che volevi sapere veramente?» «E che cosa vorrei sapere?» «Se amo mio marito. Non è questo che intendevi?» esclamò, distogliendo lo sguardo. Per un attimo rimasi a bocca aperta. E all'improvviso compresi che era quella la ragione che mi aveva spinto ad andare fin lì. «Sì», disse infine, leggendomi di nuovo nel pensiero. «Lo amo.» L'assoluta sincerità del suo tono mi ferì, ma prima che potessi rimuginarci su, tornò a guardarmi. Sul suo viso passò un'ombra di apprensione, come se stesse pensando a qualcosa di doloroso, e subito scomparve. «Hai già mangiato?» mi domandò. Io stavo ancora cercando di interpretare quello che avevo appena visto. «No», risposi. «Veramente non ho nemmeno pranzato.» «Ho un po' di stufato in frigo. Hai tempo di fermarti a cena?» Mi chiesi ancora fugacemente dove fosse suo marito, e annuii. «Volentieri.» Ci avviammo verso la casa e salimmo sulla veranda dove c'era una fila di stivali di cuoio lisi e infangati. Savannah si appoggiò al mio braccio con grande naturalezza e spontaneità, e si sfilò i suoi. Fu forse il suo atteggiamento a rendermi più audace e per la prima volta la guardai sul serio. Oltre alla maturità e al velo di mistero che me l'avevano sempre fatta trovare attraente, notai una traccia di tristezza e anche di reticenza. Questo la rendeva ancora più bella per il mio cuore spezzato. 19 La piccola cucina era come ci si poteva aspettare in una vecchia casa che probabilmente era stata ristrutturata almeno cinque o sei volte negli ultimi cento anni: pavimento di linoleum scolorito; armadietti bianchi semplici e funzionali - coperti da diverse mani di pittura - e un lavandino di acciaio inossidabile sotto una finestra malandata. Il piano da lavoro era crepato e in un angolo c'era una stufa a legna. Qua e là, sprazzi di modernità: un grande frigorifero e una lavastoviglie accanto all'acquaio; un forno a microonde sistemato di traverso sul bancone. L'insieme mi ricordava l'abitazione di mio padre. Savannah aprì la credenza e tirò fuori un bicchiere. «Ti va un po' di vino?» «No, grazie. Non lo bevo spesso.» Lei prese una bottiglia già aperta e riempì il bicchiere, poi si mise seduta al tavolo. Mi sedetti anch'io e la guardai sorseggiare il vino. «Sei cambiata», osservai. «Sono cambiate un sacco di cose dall'ultima volta che ci siamo visti.» Posò il bicchiere. «Non avrei mai pensato di diventare una persona che trova conforto nel bere un po' di vino la sera, ma è così», sussurrò. Cominciò a ruotare il bicchiere sulla tavola e io mi chiesi che cosa le fosse accaduto. «E poi, sto davvero attenta al sapore. All'inizio non capivo se fosse buono o cattivo. Ma adesso sono diventata molto esigente quando vado a comperarlo. » Non riconoscendo del tutto la donna che mi stava seduta davanti, non sapevo come reagire. «Non fraintendermi», proseguì, «ricordo ancora bene gli insegnamenti ricevuti, e in genere sono morigerata. Ma visto che anche Gesù ha trasformato l'acqua in vino, penso che non possa essere considerato un vero peccato.» Sorrisi nel sentire il suo ragionamento, e riconobbi che non era giusto restare attaccato all'immagine del passato che avevo di lei. «Non ti ho chiesto niente.» «Lo so. Ma eri curioso.» Per un attimo, l'unico rumore in cucina fu il lieve ronzio del frigorifero. «Mi spiace per tuo padre», disse, seguendo con il dito una crepa nel tavolo. «Davvero. Ho pensato spesso a lui negli ultimi anni.» «Grazie», risposi. Savannah ricominciò a girare il bicchiere, lo sguardo fisso sul liquido rubino. «Vuoi parlarne?» chiese. Mi appoggiai alla spalliera della sedia, e le parole mi vennero fuori da sole con sorprendente facilità. Le parlai del primo e del secondo infarto di papà; dei periodi che avevo passato a casa, delle sue brevi passeggiate, della nostra crescente amicizia e della sensazione di serenità che provavo mentre stavo con lui. Descrissi anche gli ultimi giorni trascorsi insieme e la sofferenza di doverlo ricoverare in una casa di riposo. Quando le raccontai del funerale e della foto che avevo trovato nella busta, mi strinse la mano. «Sono contenta che l'avesse messa da parte per te», affermò. «Ma la cosa non mi sorprende.» «A me sì», replicai e lei rise. La sua risata aveva un suono confortante. «Se l'avessi saputo, sarei venuta al funerale.» «Non è stato gran cosa.» «Non era necessario. Lui era tuo padre, e questo è tutto ciò che conta.» Esitò prima di lasciare la mia mano e bevve un altro sorso di vino. «Sei pronto a mangiare?» chiese. «Non so», risposi, e arrossii al ricordo della sua osservazione di prima. Si chinò in avanti sorridendo. «Senti, io scaldo lo stufato e poi vediamo, d'accordo?» «E buono?» chiesi. «Voglio dire... quando ti ho conosciuto, hai detto che non sapevi cucinare.» «È una ricetta di famiglia», rispose, fingendosi offesa. «Ma per essere sincera, l'ha cucinato mia madre. Me l'ha portato ieri.» «La verità alla fine viene sempre a galla.» «E proprio questa la sua caratteristica più singolare», concordò lei. Si alzò e aprì il frigorifero, mentre io mi domandavo di nuovo dove potesse essere il marito. Tirò fuori un contenitore, mise un po' di carne su un piatto e lo infilò nel microonde. «Vuoi qualcos'altro? Magari del pane e del burro?» «Magnifico.» Pochi minuti dopo il piatto era in tavola davanti a me, e il profumo dello stufato mi fece capire quanto fossi affamato. Savannah tornò a sedersi al suo posto. «Tu non mangi?» chiesi, sorpreso. «Non ho fame», rispose. «Ultimamente non mangio molto.» Presi un boccone senza commentare la sua risposta, mentre lei beveva un altro sorso di vino. «È squisito», dissi. Sorrise. «La mamma è un'ottima cuoca. Purtroppo non ho mai imparato da lei. Ero sempre troppo occupata. Prima a studiare e poi a ristrutturare.» Indicò verso il salotto. «È una vecchia casa. So che non si vede, ma abbiamo fatto un sacco di lavori negli ultimi due anni.» «È deliziosa.» «Lo dici solo per essere gentile, ma grazie lo stesso», replicò. «Avresti dovuto vedere in che stato era quando siamo venuti ad abitarci. Sembrava un fienile, sai? Abbiamo dovuto rifare completamente il tetto, e poi cambiare i termosifoni, mettere i doppi vetri, disinfestare le fondamenta dalle termiti... non era mai finita.» Assunse un'aria sognante. «Abbiamo fatto quasi tutto da soli. So che in cucina c'è bisogno di nuovi armadietti e di un altro pavimento, ma quando siamo venuti qui pioveva in salotto e nelle camere da letto. C'erano delle priorità. In quel periodo ci saranno stati quaranta gradi e io ero lassù a staccare con una pala le vecchie tegole; avevo le mani piene di vesciche. Ma... era gratificante, capisci? Due giovani che si vogliono bene e che lavorano insieme per sistemare la loro casa. C'era un senso di grande affiatamento. E lo stesso accadde con il pavimento del salotto. Ci abbiamo messo almeno due settimane per sabbiarlo e farlo tornare in piano. Poi lo trattammo con il mordente e la vernice, e quando finalmente ci camminammo sopra, era come se avessimo fondato le basi per il resto della nostra vita.» «Da come ne parli, sembra quasi romantico.» «In un certo senso lo è stato», concordò. Si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Ma ultimamente non è più così romantico. Sta diventando tutto vecchio e basta.» Risi mio malgrado, poi tossii e allungai la mano per prendere un bicchiere che non c'era. Lei si alzò da tavola. «Ti porto dell'acqua», disse. Riempì un bicchiere dal rubinetto e me lo porse. Mentre bevevo, mi accorsi che mi fissava. «Cosa c'è?» le chiesi. «Non riesco a capacitarmi di quanto sei cambiato.» «Io?» Mi riusciva difficile crederlo. «Sì, tu», insistette. «Sei... invecchiato.» «Infatti sono più vecchio.» «Lo so, ma non in quel senso. I tuoi occhi sono diventati... più seri, come se avessero visto cose che non dovevano vedere. Sono guardinghi, in un certo senso.» Non feci commenti, ma notando la mia espressione, lei assunse un'aria imbarazzata. «Ho detto una stupidaggine. Chissà quante ne avrai passate negli ultimi tempi.» Mangiai un altro boccone di stufato, assorto nei miei pensieri. «Veramente sono venuto via dall'Iraq nel 2004, e da allora sono sempre rimasto in Germania. C'è solo una piccola parte dell'esercito sul campo e le rotazioni sono frequenti. Probabilmente finirò per tornarci, ma non so quando. Speriamo che per allora la situazione si sia calmata.» «Non dovresti essere in congedo ormai?» «Ho firmato di nuovo», risposi. «Non c'era motivo di non farlo.» Capendo che mi riferivo a lei, annuì. «Fino a quando stavolta?» «Fino al 2007.» «E poi?» «Non ho deciso. Magari ci resterò ancora per qualche anno. Oppure, andrò all'università. Chissà... potrei persino laurearmi in psicopedagogia. Ho sentito dire grandi cose sulla materia.» Fece un sorriso triste e per un po' rimanemmo in silenzio. «Da quanto tempo sei sposata?» le chiesi infine. Si agitò sulla sedia. «Saranno due anni il prossimo novembre. » «Ti sei sposata qui?» «Come se avessi avuto scelta.» Alzò gli occhi al cielo. «Mia madre ha messo in piedi una cerimonia nuziale perfetta. So che sono la loro unica figlia, ma a ripensarci adesso, mi sarei accontentata anche di qualcosa di più intimo. Cento invitati sarebbero andati benissimo.» «E ti sembrano pochi?» «In confronto a com'è finita per noi? Certamente. In chiesa non c'erano abbastanza posti a sedere e mio padre continua a ripetermi che impiegherà anni a rimborsare il debito. Scherza, naturalmente. Metà dei presenti erano amici dei miei, ma immagino che succeda sempre così quando ti sposi nel tuo paese. Sono stati invitati proprio tutti, dal postino fino al barbiere.» «Ma sei contenta di essere tornata a casa?» «Qui sto bene. I miei genitori sono vicini e ne ho bisogno, specialmente adesso.» Non aggiunse altro. Io ero meravigliato - e pieno di domande - mentre mi alzavo per mettere il piatto nel lavandino. Lo sciacquai e poi sentii la sua voce dietro di me. «Lascialo pure lì. Non ho ancora svuotato la lavastoviglie. Lo farò dopo. Vuoi qualcos'altro? La mamma mi ha portato anche una torta.» «No, grazie, ma berrei volentieri un po' di latte.» Quando fece per alzarsi, aggiunsi: «Mi servo da solo». Presi un bicchiere nella credenza e andai verso il frigo. Il latte era sul ripiano superiore; gli altri erano occupati da una decina di contenitori con del cibo già pronto. Riempii il bicchiere e tornai a tavola. «Che sta succedendo, Savannah?» Si girò verso di me. «A cosa ti riferisci?» «Tuo marito.» «Che cosa c'entra lui?» «Quando potrò conoscerlo?» Invece di rispondere, Savannah si alzò da tavola con il suo bicchiere. Svuotò ciò che restava del vino nel lavandino, poi prese una tazza e il barattolo del tè. «Lo conosci già», disse, voltandosi. Raddrizzò le spalle. «ÈTim.» Sentii il tintinnio del cucchiaino che sbatteva contro la tazza mentre Savannah tornava a sedersi di fronte a me. «Che cosa vuoi sapere precisamente?» mormorò, guardando il tè nella tazza. «Tutto», risposi. Mi appoggiai allo schienale. «Oppure niente. Non ne sono ancora sicuro.» Lei sbuffò. «Spara.» Intrecciai le mani. «Quando è cominciata?» «Puoi anche non crederci, ma non è successo come probabilmente ti immagini. Nessuno dei due voleva che accadesse.» Posò il cucchiaino sul tavolo. «Comunque, per risponderti, penso che in un certo senso sia cominciata all'inizio del 2002.» Pochi mesi dopo il mio secondo arruolamento, calcolai. Cinque o sei mesi prima che mio padre avesse il primo infarto e più o meno nel periodo in cui notai un cambiamento nelle lettere che lei mi scriveva. «Sai che eravamo amici. Lui era già laureato, però frequentavamo qualche corso negli stessi posti quando io ero all'ultimo anno. Finite le lezioni, prendevamo un caffè o a volte andavamo a studiare insieme. Ma non stavamo insieme, non ci tenevamo neppure per mano. Tim sapeva che ti amavo... però lui era lì, capisci? Mi ascoltava quando gli raccontavo che sentivo molto la tua mancanza, e quanto fosse dura per me la prospettiva di rimanere ancora separati. Allora tu avresti già dovuto essere in congedo. » Quando alzò la testa, i suoi occhi erano pieni di... che cosa? Rimpianto? Non riuscivo a decifrare. «Comunque, ci frequentavamo spesso e Tim cercava sempre di consolarmi quando ero triste. Mi ripeteva che saresti arrivato in licenza prima di quanto pensassi. E io morivo dalla voglia di rivederti. Poi tuo padre si ammalò. So che dovevi stare con lui... anch'io, al tuo posto, avrei fatto lo stesso, ma egoisticamente ne ho sofferto perché, in quel momento, non era quello che ci voleva per il nostro rapporto. Era come se il destino congiurasse contro di noi.» Ricominciò a mescolare il tè, per raccogliere le idee. «In autunno, dopo aver finito i corsi, tornai a casa per lavorare al centro di valutazione dello sviluppo che c'è in città. In quel periodo i genitori di Tim ebbero un terribile incidente stradale. Stavano tornando da Asheville quando il padre ha perso il controllo dell'auto, che si è schiantata contro un autocarro proveniente dalla corsia opposta. L'autista del camion rimase illeso, ma loro due morirono sul colpo. Tim fu costretto ad abbandonare gli studi... voleva prendere un dottorato... e a tornare a sua volta a casa per occuparsi di Alan.» Fece una pausa. «Era sconvolto. Oltre a dover superare il dolore della perdita, era preoccupato per il fratello. Alan aveva delle crisi di nervi, urlava sempre e cominciò a strapparsi i capelli. Solo lui riusciva a calmarlo, ma era sfinito. Fu allora che cominciai a venire qui a dargli una mano.» Vedendo la mia espressione perplessa, aggiunse: «Questa era la casa dei suoi genitori. Tim è cresciuto qui». Ricordai allora che una volta mi aveva detto che loro due abitavano vicini. «Finimmo per consolarci a vicenda. Io cercavo di aiutarlo, lui faceva lo stesso con me e insieme aiutavamo Alan. E a poco a poco ci siamo innamorati.» Mi guardò negli occhi per la prima volta. «So che sei arrabbiato con me e con Tim. E probabilmente ce lo meritiamo. Ma non immagini la situazione in cui ci trovavamo. Stavano succedendo tante cose... eravamo emotivamente molto scossi. Io provavo un senso di colpa, e pure lui. Ma dopo un po' cominciammo a sentirci una coppia. Tim si mise a lavorare nel mio stesso centro e poi decise di avviare un programma per bambini autistici qui alla fattoria nei fine settimana. Era il sogno dei suoi genitori e anche il mio. E così iniziammo a stare insieme praticamente sempre. Sistemare questo posto ci diede un obiettivo a cui dedicarci e servì anche ad Alan. Lui adora i cavalli e c'era sempre così tanto da fare che piano piano si abituò all'idea che i suoi non ci fossero più. Era come se ci appoggiassimo l'uno all'altro... Un anno dopo Tim mi chiese di sposarlo.» Mi voltai dall'altra parte, cercando di assorbire il senso delle sue parole. Restammo in silenzio per un po', lottando con le nostre emozioni. «A ogni modo, questa è la storia», concluse lei. «Non so se ti interessa altro.» Non lo sapevo nemmeno io. «Alan vive ancora qui?» domandai. «Ha la sua stanza di sopra. Ma non è difficile come sembra. Dopo aver dato da mangiare e aver accudito i cavalli, in genere passa il tempo da solo. Gli piacciono i videogiochi. Va avanti per ore. Ultimamente non riesco a farlo smettere, e ci giocherebbe anche tutta la notte, se glielo permettessi. «Dov'è adesso?» «E con Tim.» «Dove?» Prima che potesse rispondere, il cane si mise a raspare con insistenza contro la porta e Savannah si alzò per aprirgliela. Il retriever entrò, la lingua di fuori, scodinzolando. Mi venne vicino e mi annusò la mano. «Gli piaccio», dissi. Savannah era rimasta accanto alla porta. «Le piace chiunque. Si chiama Molly. Non serve a niente come cane da guardia, ma è più dolce di una caramella. Cerca di evitare la bava. Se la lasci fare, ti bagna da capo a piedi.» Mi guardai i jeans. «Troppo tardi.» Lei indicò l'aia. «Senti, mi sono appena ricordata che devo mettere al riparo degli attrezzi. Stanotte forse pioverà. Non ci metterò molto.» Mi accorsi che non aveva risposto alla mia domanda su Tim, né aveva intenzione di farlo. «Ti serve una mano?» «Veramente no, ma potresti farmi compagnia. È una nottata stupenda.» La seguii fuori, mentre Molly ci precedeva, del tutto dimentica di aver appena chiesto di entrare in casa. Una civetta stridette da un albero e il cane partì al galoppo verso il buio e scomparve. Savannah si infilò di nuovo gli stivali. Ci incamminammo verso la stalla. Ripensai a tutto quello che mi aveva detto, e mi domandai di nuovo perché fossi andato lì. Ero incerto se essere contento perché aveva sposato Tim - sembravano fatti l'uno per l'altra - o sconvolto per lo stesso motivo. Né mi rallegrava il fatto di avere scoperto la verità; mi resi conto che era più facile non sapere, e di colpo fui assalito da un'infinita stanchezza. Eppure... sentivo che mi teneva nascosto qualcosa. Lo capivo dalla sua voce, dall'ombra di tristezza onnipresente. Mentre eravamo avvolti dall'oscurità, ero acutamente consapevole di quanto fossimo vicini e mi chiesi se anche lei lo avvertisse. I cavalli erano solo ombre in lontananza, forme vaghe e appena abbozzate. Savannah recuperò un paio di briglie e le portò nella stalla per appenderle a un gancio. Io intanto presi le pale che avevamo usato e le riposi assieme agli altri attrezzi. Quando uscimmo, lei si assicurò di chiudere bene il cancello. Guardai l'ora e vidi che erano quasi le dieci. Si era fatto tardi. «Sarà meglio che vada», affermai. «La città è piccola. Non vorrei far nascere pettegolezzi.» «Hai ragione.» Molly spuntò dal nulla e venne ad accucciarsi accanto a noi. Quando leccò la gamba di Savannah, lei si scostò. «Dove stai?» mi chiese. «Ho trovato un motel lungo la strada.» Fece una smorfia, ma solo per un attimo. «Conosco il posto.» «In effetti, è una specie di buco», ammisi. «Non mi sorprende», ribatté sorridendo. «Hai sempre avuto un talento per scovare i posti più strani. » «Come lo Shrimp Shack?» «Esattamente.» Infilai le mani in tasca, domandandomi se fosse l'ultima volta che l'avrei vista. In tal caso, la nostra conversazione era assurda; non volevo che finisse così, chiacchierando del più e del meno, ma non trovavo niente da dire. Mentre ci incamminavamo verso casa, i fari di un'auto di passaggio illuminarono fugacemente la proprietà. «Allora è tutto», dissi, in mancanza d'altro. «Mi ha fatto piacere rivederti.» «Anche a me, John. Sono contenta che tu sia passato a trovarmi.» Feci un cenno d'assenso. Lei si voltò e io lo presi come il segno di congedo. «Arrivederci.» «Arrivederci.» Mi avviai alla macchina, stordito dalla consapevolezza che fosse finito davvero tutto e per sempre. Forse in fondo in fondo mi aspettavo qualcosa di diverso, e l'irrevocabilità della fine fece riaffiorare in me tutte le emozioni che avevo represso da quando avevo letto la sua ultima lettera. Stavo aprendo la portiera, quando sentii che mi chiamava. «Ehi, John?» «Sì?» Scese dalla veranda per venirmi incontro. «Sarai ancora da queste parti domani?» Mentre si avvicinava, il volto per metà in ombra, ebbi l'assoluta certezza di essere ancora innamorato di lei. Nonostante la sua lettera, nonostante il marito. Nonostante il fatto che non saremmo mai più stati insieme. «Perché?» domandai. «Mi chiedevo se ti andrebbe di passare di qui, verso le dieci. Sono sicura che a Tim farebbe piacere vederti...» Cominciai a scuotere il capo ancora prima che terminasse la frase. «Non credo che sia una buona idea...» «Potresti farlo per me?» Capii che voleva dimostrarmi che Tim era rimasto quello di un tempo e che, a suo modo, desiderava il mio perdono. Eppure... Mi prese la mano. «Ti prego. Per me sarebbe davvero importante.» Nonostante il calore della sua mano, non volevo tornare lì. Non volevo vedere Tim, non volevo vederli insieme, o sedere a tavola con loro fingendo che fosse tutto a posto. Ma il tono di supplica della sua richiesta mi rendeva impossibile dirle di no. «Va bene», risposi. «Alle dieci.» «Grazie.» Un attimo dopo, si voltò. Io rimasi dov'ero e aspettai che salisse i gradini d'ingresso prima di entrare in macchina. Accesi il motore e feci manovra. Savannah si girò e mi salutò con la mano. Ricambiai il saluto, poi mi diressi verso la strada. Quando sbirciai la sua immagine nel retrovisore, rimasi impietrito. Non perché lei fosse sposata con Tim, né al pensiero di vederli insieme l'indomani. Dipendeva dal fatto che si era messa a piangere sulla veranda, tenendosi il viso tra le mani. 20 Il mattino seguente Savannah mi aspettava in piedi davanti alla porta e mi fece un cenno con la mano quando imboccai il vialetto. Scese i gradini della veranda mentre io fermavo la macchina. Pensavo di vedere Tim comparire sulla soglia, ma non c'era traccia di lui. «Ciao», mi salutò, sfiorandomi un braccio. «Grazie di essere venuto.» «Già», risposi, con aria rassegnata. Mi parve di cogliere un lampo di comprensione nel suo sguardo prima che mi chiedesse: «Hai dormito bene stanotte?» «Veramente, no.» Lei replicò con un sorriso tirato. «Sei pronto?» «Come non mai.» «Bene. Vado a prendere le chiavi. A meno che non voglia guidare tu.» Non riuscivo a capire. «Andiamo via?» Indicai la casa. « Credevo di incontrare Tim. » «Infatti», disse. «Ma non è qui.» «E dov'è?» Fece finta di non avermi sentito. «Guidi tu, allora?» «Sì, certo», risposi confuso, anche se intuivo che mi avrebbe chiarito la situazione quando si fosse sentita pronta. Le aprii la portiera poi mi misi al volante. Savannah passò la mano sul cruscotto, come per accertarsi che l'auto fosse reale. «Ricordo questa macchina.» La sua aria era nostalgica. «Apparteneva a tuo padre, giusto? Accidenti, non riesco a credere che funzioni ancora.» «Non la usava molto», spiegai. «Soltanto per andare al lavoro e a fare la spesa.» «È lo stesso.» Mentre si allacciava la cintura, non potei fare a meno di chiedermi se avesse trascorso la notte da sola. «Da che parte?» domandai. «Arrivati alla strada, prendi a sinistra», rispose. «Verso la città.» Rimase silenziosa durante il viaggio; stava a braccia conserte, la testa girata verso il finestrino. Avrei potuto offendermi per quell'atteggiamento, ma qualcosa mi diceva che la sua preoccupazione non riguardava me, e così preferii lasciarla in pace. Solo quando arrivammo ai margini della città sembrò rendersi conto del silenzio che regnava tra di noi. «Mi spiace», disse. «Non devo essere granché come compagnia. » «Non importa», affermai, cercando di mascherare la mia crescente curiosità. Indicò fuori dal parabrezza. «Al prossimo incrocio, gira a destra.» «Dove andiamo?» Non mi rispose subito, ma si voltò di nuovo a guardare fuori dal finestrino. «All'ospedale.» La seguii per corridoi in apparenza interminabili, finché ci fermammo al banco della reception. Una volontaria anziana ci porse un registro da firmare. Savannah lo prese e lo firmò automaticamente. «Ce la fai a reggere, Savannah?» chiese la donna. «Ci provo», mormorò lei. «Andrà tutto bene, vedrai. Tutti in città pregano per lui.» «Grazie», rispose. Restituì il registro, poi si voltò verso di me. «È al terzo piano», spiegò. «Gli ascensori sono da quella parte.» La seguii, con un nodo allo stomaco. Quando arrivammo, l'ascensore era al piano e noi ci salimmo al volo. Le porte si chiusero, ed ebbi la sensazione di essere in una tomba. Arrivati al terzo piano, Savannah si avviò nel corridoio. Si fermò davanti a una stanza con la porta aperta e si girò a guardarmi. «Sarà meglio che entri io per prima», affermò. «Puoi aspettare qui?» «Certo.» Mi sorrise con gratitudine, poi fece un profondo respiro e varcò la soglia. «Ciao, tesoro», la sentii dire in tono allegro. «Come va oggi?» Non udii nient'altro. Rimasi lì in piedi, in un ambiente sterile e impersonale come quello in cui era stato ricoverato papà quando aveva avuto l'infarto. L'aria odorava di disinfettante e un inserviente stava spingendo un carrello dentro una camera più avanti. A metà corridoio, un gruppo di infermiere era riunito davanti alla postazione della caposala. Da dietro la porta alle mie spalle mi giunsero i rumori di qualcuno che vomitava. «Bene», disse Savannah, sporgendo la testa. Sotto la facciata coraggiosa, vedevo la sua tristezza. «Puoi venire. E pronto a riceverti. » Entrai, preparandomi al peggio. Tim era seduto sul letto con una flebo nel braccio. Aveva l'aria sfinita, e la pelle di un pallore quasi trasparente. Era dimagrito persino più di mio padre e, guardandolo, non potei fare a meno di pensare che stesse morendo. Solo la gentilezza del suo sguardo era rimasta immutata. In un angolo vidi un ragazzo sui vent'anni che dondolava il capo da una parte all'altra, e capii che doveva essere Alan. La stanza era piena di fiori: decine di mazzi sistemati su tutti i tavoli e i ripiani disponibili. Savannah si sedette sul letto accanto al marito e gli prese la mano. «Ciao, Tim», dissi. Fece uno sforzo per sorridermi. «Ciao, John. Mi fa piacere rivederti.» «Anche a me. Come stai?» Subito mi resi conto di quanto fosse stupida la mia domanda. Tim, però, doveva esserci abituato, perché non batté ciglio. «Bene», rispose. «Ora mi sento meglio.» Annuii. Alan continuava a dondolare il capo e io lo osservai, sentendomi un intruso in eventi a cui avrei preferito non assistere. «Lui è mio fratello Alan», disse Tim. «Ciao», lo salutai. Il ragazzo non mi rispose e allora Tim gli sussurrò: «Ehi, Alan? È tutto a posto. Non è un dottore, ma un amico. Avanti, digli ciao». Ci volle qualche istante, ma alla fine lui si alzò dal suo posto. Attraversò la stanza con passo goffo e, senza guardarmi in faccia, mi porse la mano. «Ciao, sono Alan», disse con voce sorprendentemente baritonale. «Piacere di conoscerti», replicai prendendogli la mano, che rimase inerte nella mia. La mosse su e giù per una volta, poi tornò a sedersi «Accomodati», mi invitò Tim. Avanzai nella camera e mi sedetti vicino al letto. Prima che potessi aprire bocca, Tim rispose alla domanda che mi frullava per la mente. «Melanoma», disse. «Nel caso te lo chiedessi.» «Ma guarirai, vero?» Alan dondolò il capo più forte e cominciò a darsi sberle su una coscia. Savannah si voltò nella sua direzione e io compresi che avevo combinato un guaio. «I dottori servono a questo», mormorò Tim. «Sono in buone mani.» A quel punto Alan sembrò calmarsi un Po'Tim chiuse gli occhi, poi li riaprì, come se cercasse di raccogliere le forze. «Sono contento di vederti sano e salvo. Ho pregato per te per tutto il tempo che sei stato in Iraq», continuò. «Grazie.» «Che cosa fai? Sei ancora arruolato, immagino.» Indicò il mio taglio a spazzola, e mi passai una mano sui capelli. «Già. Sembra che io abbia preso la strada della carriera militare.» «Bene. L'esercito ha bisogno di uomini come te», osservò. Rimasi zitto. Tutta la scena mi sembrava surreale, come se stessi sognando. Tim si rivolse a Savannah. «Tesoro, che ne dici di portare Alan al bar? Non ha bevuto niente da stamattina. E vedi se riesci anche a convincerlo a mangiare un boccone.» «Ma certo», rispose lei. Lo baciò sulla fronte e si alzò dal letto. Si fermò sulla soglia. «Vieni, Alan. Andiamo a prendere qualcosa da bere, d'accordo?» Ebbi l'impressione che lui impiegasse un tempo infinito a rielaborare quelle parole. Alla fine si alzò e la raggiunse. Savannah gli posò delicatamente una mano sulla schiena mentre lo guidava fuori. Una volta usciti, Tim e io tornammo a guardarci. «Questa faccenda è davvero molto difficile per Alan. Non la sta prendendo bene. » «E come potrebbe?» «Non lasciarti ingannare da come dondola il capo. Non c'entra niente con l'autismo o le sue facoltà mentali. E un tic che gli viene quando è nervoso. Lo stesso vale per le sberle sulle cosce. Capisce che cosa sta succedendo, e ha delle reazioni che alcuni trovano imbarazzanti.» Mi strinsi le mani. «Non mi ha messo a disagio», obiettai. «Anche mio padre aveva dei tic. E tuo fratello, ed è naturale che sia preoccupato.» Tim sorrise. «Sei gentile nei suoi confronti. Molta gente invece si spaventa quando lo vede.» «Io no», affermai. «So che potrei gestirlo.» Rise di gusto, anche se ciò sembrava costargli una gran fatica. «Non ne dubito. E poi Alan non è così aggressivo. Anzi, non sarebbe capace di fare del male a una mosca.» Annuii, rendendomi conto che quelle chiacchiere innocue erano il suo modo per farmi sentire più a mio agio. Ma non funzionava. «Quando lo hai scoperto?» «Un anno fa. Avevo un neo sul polpaccio che cominciò a prudermi. Quando lo grattavo, sanguinava. All'inizio non ci badai molto, ma poiché continuava a sanguinare, sei mesi fa decisi di andare dal medico. Me lo ricordo ancora. Era un venerdì. Mi operarono il sabato e il lunedì cominciai la terapia con l'interferone. E adesso, sono qui.» «Sei rimasto in ospedale per tutto questo tempo?» «No. Entro ed esco. In genere l'interferone si somministra ambulatorialmente, ma lui e io non andiamo d'accordo. Non lo tollero e così ogni volta mi ricoverano, per poter intervenire nel caso mi disidratassi troppo. Come mi è successo ieri.» «Mi spiace», dissi. «Anche a me.» Guardai in giro per la stanza e notai una foto incorniciata che ritraeva Tim e Savannah con in mezzo Alan. «Come l'ha presa lei?» chiesi. «Come ci si poteva aspettare.» Tim accarezzò il lenzuolo con la mano libera. «È stata grande. Non solo con me, ma si è fatta anche carico di tutto il lavoro con i cavalli, e non si lamenta mai. E quando siamo insieme, cerca di darmi coraggio. Continua a ripetermi che me la caverò.» Sul suo viso comparve l'ombra di un sorriso. «Certe volte le credo addirittura.» Tentò di mettersi a sedere più dritto. Fece una smorfia, ma poi il dolore passò e lui tornò impassibile. «Savannah mi ha detto che sei stato al ranch ieri sera.» «Sì.» «Scommetto che era contenta di vederti. Il modo in cui è finita la vostra storia l'ha fatta soffrire molto. Anch'io ci sono stato male. Ti devo delle scuse.» «Non serve.» Alzai le mani. «Va bene così.» Fece un sorriso storto. «Lo dici solo perché sono malato. Se stessi bene, come minimo avresti voglia di rompermi di nuovo il naso.» «Forse», ammisi e, quando lo sentii ridere di nuovo, avvertii nella sua risata tutto il peso della malattia. «Me lo meriterei», proseguì interrompendo le mie riflessioni. «Forse non ci crederai, ma mi sento in colpa per quello che è successo. So che voi due vi volevate molto bene.» Mi chinai in avanti, sorreggendomi sui gomiti. «Acqua passata», dichiarai. Non ci credevo, e nemmeno lui. Ma bastò a entrambi per archiviare l'argomento. «Che cosa ti ha portato qui? Dopo tutto questo tempo?» «Mio padre... è morto la settimana scorsa.» Nonostante le sue condizioni, reagì con sincera compassione. «Mi spiace, John. E capisco il tuo dolore. È successo all'improvviso?» «Alla fine è sempre all'improvviso. Ma era malato da tempo.» «Anche così, non diventa più facile.» Mi chiesi se si riferisse a me, oppure a Savannah e Alan. «So che tu hai perso entrambi i genitori.» «Un incidente d'auto», confermò controvoglia. «È stato... inconcepibile. Un paio di sere prima cenavamo insieme, e poi mi sono trovato a prendere accordi per il funerale. Ancora non mi sembra vero. Quando sono alla fattoria, mi aspetto sempre di vedere la mamma in cucina o papà che lavora in giardino.» Esitò, e mi resi conto che stava rievocando quelle immagini. «E capitato anche a te? Quando eri in casa di tuo padre?» mi chiese poi. «Ogni istante.» Reclinò la testa all'indietro. «Sono stati anni difficili per noi due. Ce n'è abbastanza da mettere a dura prova la fede.» «Anche nel tuo caso?» Fece un mezzo sorriso. «Ho detto mettere alla prova. Non di averla perduta.» «Hai ragione.» Udii la voce di un'infermiera che si avvicinava e pensai che dovesse entrare, invece proseguì per il corridoio. «Sono contento che tu sia venuto a trovare Savannah», continuò lui. «So che può sembrare banale, considerando i sentimenti che un tempo vi legavano, ma in questo momento lei ha bisogno di un amico. » La gola mi si chiuse. «Già.» Tim tacque e io capii che non avrebbe detto altro sull'argomento. Dopo un po' si addormentò e io rimasi lì a guardarlo, la mente stranamente vuota. «Scusa se non te l'ho detto ieri», si giustificò Savannah un'ora più tardi. Quando era tornata in camera con Alan, aveva trovato Tim addormentato, allora mi aveva fatto segno di seguirla fuori ed eravamo scesi al bar. «Ma la tua visita mi ha colto di sorpresa e, tutte le volte che ci provavo, non ci riuscivo proprio.» Sul tavolo davanti a noi c'erano solo due tazze di tè, dato che nessuno dei due se la sentiva di mangiare. Lei prese in mano la sua, poi la posò di nuovo. «Era stata una giornata tremenda, sai? Ore e ore trascorse in ospedale, con le infermiere che mi lanciavano occhiate compassionevoli... era straziante. So che non è niente in confronto a quello che sta passando Tim, ma è molto dura per me vederlo soffrire in quel modo. Ogni volta che vado lì con lui per stargli vicino e dargli sostegno, è peggio di come mi aspettassi. Ieri è stato così male dopo il trattamento che ho temuto morisse. Continuava a vomitare, anche quando non aveva più niente nello stomaco. Passava qualche minuto e ricominciava a gemere e ad agitarsi, cercando inutilmente di fermare i conati. Io lo tenevo stretto, lo confortavo, ma non riesco neanche a spiegare quanto mi sentissi impotente.» Sollevò la bustina di tè e la immerse più volte nell'acqua bollente. Io giocherellavo con il manico della tazza. «Vorrei sapere cosa dire.» «Non c'è niente da dire. Te ne parlo solo perché so che sei capace di ascoltarmi. Non ho nessun altro con cui mi possa confidare. I miei amici non hanno idea di come mi sento. Mamma e papà... be', sono disposti a fare qualsiasi cosa per me e si offrono sempre di aiutarmi. Mia madre cucina per noi, ma tutte le volte che viene a trovarci è un fascio di nervi. E sempre sull'orlo delle lacrime. Sembra terrorizzata di fare o dire qualcosa di sbagliato, così in pratica devo essere io a confortarla, anziché il contrario. Sommato a tutto il resto, è troppo da sopportare. Mi spiace criticarla, perché sta facendo del suo meglio e io le voglio bene, ma preferirei che fosse più forte, capisci?» Ripensai a sua madre e annuii. «E con tuo papà?» «E lo stesso, anche se per ragioni diverse. Lui evita l'argomento. Quando siamo insieme, parla della fattoria o del mio lavoro... di qualsiasi cosa, tranne che di mio marito. È come se cercasse di far finta di niente per rimediare alla costante ansia della mamma, ma non mi chiede mai che cosa provo, né come me la cavo.» Fece una pausa. «E poi c'è Alan. Tim è sempre molto bravo con lui e anch'io ora riesco a relazionarmi meglio, ma... certe volte comincia a farsi del male, oppure a rompere tutto, e così finisco per alzare la voce, perdendo la pazienza. Non fraintendermi... ci provo, ma non sono come Tim, e lo so bene.» Il suo sguardo rimase fisso nel mio, finché non abbassai gli occhi. Bevvi un sorso di tè, cercando di immaginarmi la sua vita. «Tim ti ha detto del melanoma?» «Sì, mi ha spiegato che è iniziato tutto con un neo che sanguinava. Lui ha rimandato per un po' e alla fine è andato dal medico.» Annuì. «È incredibile, vero? Voglio dire, capirei se fosse un tipo che sta sempre al sole. E sul polpaccio! Lo conosci... e te lo immagini con i bermuda? Non porta mai i calzoni corti, nemmeno in spiaggia, e ha sempre insistito con gli altri perché si mettessero la crema protettiva. Non beve, non fuma, sta attento a quello che mangia, ma per qualche motivo gli è venuto un melanoma. Gli hanno asportato la zona intorno al neo e, viste le dimensioni del melanoma, gli hanno tolto anche diciotto linfonodi. All'esame istologico uno è risultato positivo. Allora ha cominciato l'interferone... è il trattamento standard, che dura un anno... e noi abbiamo cercato di essere ottimisti. Ma poi sono iniziati i problemi. Prima con l'interferone, e poche settimane dopo l'intervento si è sviluppato un focolaio infettivo intorno all'incisione pelvica.» Io la guardai partecipe. «Era un'infezione piuttosto grave. Tim passò dieci giorni nel reparto terapia intensiva. Temevo di perderlo, ma lui è un lottatore, sai? Si riprese e proseguì il trattamento, «ma il mese scorso hanno trovato lesioni cancerose intorno alla zona del melanoma iniziale. Questo significava un altro intervento, ma soprattutto che l'interferone non stava funzionando. Gli hanno fatto una PET e una risonanza magnetica e in effetti gli hanno trovato cellule cancerogene in un polmone. » Fissò la sua tazza, io mi sentivo abbattuto e incapace di parlare, e per un po' restammo in silenzio. «Mi spiace», mormorai alla fine. Le mie parole la riscossero. «Non ho intenzione di mollare», disse con voce rotta. «Tim è un uomo eccezionale. È dolce e paziente, e io gli voglio così bene. Non è giusto. Siamo sposati da meno di due anni.» Mi guardò, facendo qualche respiro profondo per calmarsi. «Deve andare via da questo ospedale. Tutto quello che possono fargli qui è l'interferone, che non funziona abbastanza. Ci vuole un posto specializzato come l'MD Anderson o la Mayo Clinic o il Johns Hopkins. Ospedali all'avanguardia nella ricerca. Se l'interferone non fa effetto, potrebbero aggiungere qualche altro farmaco... provano sempre combinazioni diverse, anche se in via sperimentale. Loro fanno biochemioterapia e prove cliniche. L'MD Anderson dovrebbe addirittura cominciare a testare un vaccino a novembre... non per la prevenzione, ma per la cura dei tumori... e i dati preliminari sono molto promettenti. Voglio che entri a far parte di quel protocollo.» «Allora portalo là», la spronai. Fece una risatina amara. «Non è così semplice.» «E perché no? A me sembra di sì. Una volta uscito di qui, lo carichi in macchina, e partite.» «L'assicurazione non coprirebbe i costi», spiegò. «Non ora, comunque. Tim sta ricevendo le cure standard appropriate... e fino a questo momento loro hanno pagato tutti i ricoveri, i cicli di interferone e gli extra senza batter ciglio. Mi hanno persino assegnato un consulente personale, una donna che è molto sensibile ai nostri problemi. Ma non può fare niente, visto che l'oncologo ritiene meglio continuare ancora per un po' con l'interferone. Nessuna compagnia di assicurazioni rimborserebbe il costo di cure sperimentali. E nessun assicuratore acconsentirebbe mai a pagare trattamenti fuori dallo standard, specie se vengono forniti in altri stati e non c'è la garanzia che diano dei risultati.» «Denunciali, se necessario.» «Come ti ho detto, finora il nostro agente si è mostrato più che disponibile, ma il fatto è che io non posso dimostrare che Tim migliorerebbe da un'altra parte, con cure alternative. Penso che lo aiuterebbero a guarire, spero che sia così, però non c'è la certezza. E poi, anche se denunciassi l'assicurazione e vincessi la causa, ci vorrebbero mesi, se non anni... e noi abbiamo fretta.» Sospirò. «Non si tratta solo di un problema di denaro, ma anche di tempo.» «Di che cifra stai parlando?» «Molto alta. E se Tim dovesse essere di nuovo ricoverato in terapia intensiva per un'altra infezione... non voglio nemmeno pensarci. Sarebbe più di quanto possiamo permetterci, questo è sicuro.» « Che cosa farai, allora ? » «Troverò i soldi», affermò. «Non ho scelta. La nostra comunità si è attivata. Non appena hanno saputo della malattia di Tim, hanno trasmesso un servizio sull'emittente locale, pubblicato un articolo sul giornale e iniziato una colletta su un conto corrente speciale. I miei hanno contribuito, il centro dove lavoro anche, e così i genitori di alcuni bambini di cui ci occupiamo. Ho sentito che hanno messo anche cassette per la raccolta fondi in vari esercizi pubblici.» Mi tornò in mente il barattolo che avevo visto sul bancone del bar appena arrivato a Lenoir. Ci avevo infilato dentro un paio di dollari, ma d'un tratto il mio contributo mi sembrava assolutamente inadeguato. «Hai già raggiunto la cifra che ti serve?» «Non lo so. La raccolta è cominciata poco tempo fa e, da quando Tim è in terapia, sono sempre qui o alla fattoria. Ma pare ci sia già una grossa somma.» Spostò la tazza di lato e mi sorrise mestamente. «Non sono affatto sicura che in un altro ospedale Tim guarirà, però sono certa che, se resta qui, morirà. Magari alla fine sarà tutto inutile, ma almeno il mio è un tentativo... e in questo momento è l'unica speranza a cui possa aggrapparmi.» Sopraffatta dall'emozione, si mise a fissare distrattamente la tovaglia macchiata. «Vuoi sapere una cosa pazzesca?» chiese alla fine. «Tu sei l'unico a cui abbia raccontato tutto questo. Non so perché, ma sento che sei in grado di comprendere quello che sto vivendo senza che io debba stare attenta alle parole che dico. Anche se non è giusto, perché tuo padre...» «Non c'è problema», la tranquillizzai. «Forse, ma mi sento un po' egoista. Sei ancora sconvolto per la perdita di tuo padre, e io ti faccio carico delle mie angosce.» Guardò fuori dalla finestra del bar, ma sapevo che non vedeva il prato digradante all'esterno. «Ehi», le dissi, prendendole la mano. «Sono contento che tu me ne abbia parlato, se non altro per toglierti un peso dal cuore.» Dopo un po' Savannah riprese: «Eccoci qui, eh? Due guerrieri feriti in cerca di sostegno reciproco». «Mi sembra giusto.» Si voltò e mi fissò negli occhi. «Certo che siamo fortunati, noi due», mormorò. Nonostante tutto, provai un tuffo al cuore. «Già», confermai. «Proprio fortunati.» Trascorremmo il pomeriggio nella camera di Tim. Quando tornammo dormiva ancora, poi si svegliò per qualche istante e si riaddormentò. Alan era di guardia ai piedi del letto e ignorava la mia presenza, completamente concentrato sul fratello. Savannah stava un po' accanto a Tim e un po' sulla sedia vicino a me. Ogni volta che eravamo vicini parlavamo delle condizioni di suo marito, del cancro della pelle in generale e delle caratteristiche dei possibili trattamenti alternativi. Aveva passato settimane a fare ricerche in Internet e conosceva i progressi di ogni cura in via di sperimentazione. Parlava a voce bassissima, per non farsi sentire da Alan. Una volta che ebbe finito, sapevo più cose di quanto ritenessi possibile sul melanoma. Era quasi l'ora di cena, quando si alzò. Tim aveva sonnecchiato tutto il pomeriggio e, dal tenero bacio con cui lo salutò, capii che prevedeva che dormisse anche per tutta la notte. Lo baciò ancora una volta, poi gli strinse la mano e mi indicò la porta. Uscimmo in silenzio. «Andiamo a casa», mi disse una volta fuori in corridoio. «Tornerai qui?» «Domani. Voglio che riposi tranquillo.» «E Alan?» «È venuto in bicicletta», rispose. «Arriva qui tutte le mattine e rincasa a tarda notte. Non verrebbe con me nemmeno se glielo chiedessi. Ma se la caverà. Fa le stesse cose da mesi, ormai.» Lasciammo il parcheggio dell'ospedale e ci immettemmo nel traffico serale. Il cielo si era coperto e i densi nuvoloni all'orizzonte preannunciavano un violento temporale come quelli consueti sulla costa. Savannah era immersa nei suoi pensieri. Sul suo viso vedevo riflesso lo stesso sfinimento che provavo io. Non riuscivo a immaginarmi di dover tornare lì l'indomani e il giorno dopo e quello dopo ancora, sapendo che esisteva la possibilità che lui fosse curato meglio da qualche altra parte. Quando ci fermammo nel vialetto, mi girai a guardarla e notai una lacrima solitaria che le scorreva sulla guancia. Rimasi turbato, ma quando lei si accorse che la fissavo, se l'asciugò distrattamente con la mano, quasi sorpresa della sua presenza. Posteggiai la macchina sotto il salice, accanto al vecchio pickup. Proprio in quel momento le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere sul parabrezza. Ancora una volta mi chiesi se quello fosse un addio. Prima che mi venisse in mente qualcosa da dire, Savannah si voltò verso di me. «Hai fame?» chiese. «C'è un sacco di cibo in frigorifero.» Qualcosa nel suo sguardo mi fece capire che avrei dovuto rifiutare l'invito, ma mi ritrovai ad annuire. «Mangerei volentieri qualcosa», risposi. «Mi fa piacere», mormorò. «Non voglio restare da sola stasera.» Quando scendemmo dall'auto, la pioggia si infittì. Raggiungemmo di corsa la veranda, ma mentre salivo i gradini, sentii l'umidità penetrarmi sotto la stoffa della camicia. Molly ci seguiva e, quando Savannah aprì la porta, mi superò di slancio per correre verso il salotto. Guardando il cane, ripensai al mio arrivo lì il giorno prima e a tutte le cose che erano cambiate durante la nostra separazione. Troppe, da gestire in una volta. Come mi capitava quando ero di pattuglia in Iraq, mi sforzai di concentrarmi sul presente, restando tuttavia vigile su quello che poteva accadere. «C'è di tutto», mi disse Savannah mentre entrava in cucina. «E il modo che ha mia madre di affrontare la situazione. Cucinando. Abbiamo stufato, pollo in umido, maiale arrosto, lasagne...» Aprì il frigorifero. «C'è qualcosa che ti ispira?» «Va bene quello che vuoi tu», risposi. Vidi un lampo di delusione comparirle sul volto e compresi subito che era stanca di dover prendere decisioni. Mi schiarii la gola. «Mi piacerebbero le lasagne.» «D'accordo, le metto subito a scaldare. Quanta fame hai? Molta o normale?» Ci pensai su. «Normale, direi.» «Un po' d'insalata? Potrei metterci delle olive nere e dei pomodori. È buonissima con i crostini.» : «Ottimo.» «Bene. Non ci vorrà molto.» La guardai tirare fuori un cespo di lattuga e dei pomodori dal cassetto inferiore del frigo. Li lavò, poi li tagliò e li mise in una ciotola di legno. Aggiunse delle olive e la portò in tavola. Depose due generose porzioni di lasagne nei piatti e li infilò uno alla volta nel microonde. I suoi movimenti erano sicuri, come se portare a termine quel semplice compito la tranquillizzasse. «Non so se ti va, ma io mi berrei un bicchiere di vino.» Indicò una piccola rastrelliera sul bancone accanto al lavandino. «Ho un buon pinot nero.» «Lo provo volentieri», risposi. «Vuoi che apra la bottiglia?» «No, ci penso io. Il cavatappi ogni tanto fa le bizze.» Aprì il vino e riempì i bicchieri. Poco dopo era seduta a tavola di fronte a me. Dopo aver assaggiato il primo boccone, indicai le lasagne con la forchetta. «Complimenti alla mamma, sono buonissime.» «Vero?» concordò lei. Invece di mangiare, bevve un sorso di vino. «È il piatto preferito di Tim. Quando stava bene, chiedeva continuamente a mia madre di prepararcele. A lei piace cucinare ed è contenta se vede che gli altri apprezzano le sue pietanze.» Notai che faceva scorrere un dito sul bordo del bicchiere. Il vino rosso catturava la luce come un rubino. «Se ne vuoi ancora, ce n'è in abbondanza», disse. «Mi faresti un favore, credimi. Di solito sono costretta a buttare via tutto. So che dovrei dirle di portarmi meno roba, ma si offenderebbe.» «È dura anche per lei. Sa che tu stai soffrendo.» «Hai ragione.» Bevve un altro sorso di vino. «Non mangi niente?» chiesi, indicando il suo piatto ancora intatto. «Non ho fame», rispose. «E sempre così quando Tim è all'ospedale... scaldo del cibo e mi viene appetito, ma non appena ce l'ho davanti, lo stomaco mi si chiude.» Fissò il piatto come per tentare di convincersi a provare, poi scosse il capo. «Accontentami. Mangia almeno un boccone. Devi nutrirti.» «Non ne ho voglia.» Rimasi fermo con la forchetta a mezz'aria. «Allora fallo per me. Non sono abituato ad avere davanti persone che mi guardano mangiare. È imbarazzante.» «E va bene.» Prese la sua forchetta, infilò un pezzetto minuscolo e se lo portò alla bocca. «Contento ora?» «Come no», sbuffai. «E proprio quello che intendevo. Adesso sì che mi sento meglio. Per dolce, magari potremmo dividerci una briciola di biscotto. Però, mi raccomando, fino ad allora tieni in mano quella posata e fingi di farmi compagnia.» Rise. «Sono contenta che tu sia qui. In questi giorni sei l'unico che abbia il coraggio di parlarmi in questo modo.» «E come? Con sincerità?» «Sì.» Appoggiò la forchetta e spinse da parte il piatto, ignorando la mia richiesta. «Sei sempre stato bravissimo in questo.» «Ricordo di aver pensato la stessa cosa di te.» Abbandonò il tovagliolo sulla tavola. «Che tempi quelli, vero?» Il modo in cui mi guardò riaccese in me i ricordi, e per un istante rivissi tutte le emozioni del passato, i sogni e le speranze che avevo coltivato per noi. Savannah tornò la ragazza che avevo conosciuto sulla spiaggia, con tutta una vita davanti a sé, di cui anch'io avrei fatto parte. Poi lei si passò una mano tra i capelli e l'anello che portava al dito luccicò. Abbassai lo sguardo sul mio piatto. «Davvero memorabili.» Presi un boccone cercando invano di cancellare quelle immagini. Mentre deglutivo, infilzai di nuovo le lasagne. «Che cosa c'è?» mi chiese. «Sei arrabbiato?» «No», mentii. «Ti comporti come se lo fossi.» Era davvero la stessa donna che ricordavo... solo che era sposata. Presi una lunga sorsata di vino che equivaleva a tutti i piccoli sorsi che lei aveva bevuto fino a quel momento, poi mi appoggiai allo schienale. «Perché sono qui, Savannah?» «Non capisco che cosa vuoi dire.» «Questo», risposi, indicando la cucina intorno a me. «Mi hai invitato a cena, e poi non mangi. Rivanghi il passato. Che cosa succede?» «Niente.» «Allora che cos'è? Perché mi hai invitato?» Lei si alzò e si riempì di nuovo il bicchiere. «Forse avevo bisogno di qualcuno con cui parlare», mormorò. «Come ti ho detto, non posso farlo con i miei. E nemmeno con Tim.» La sua voce era quasi un sussurro. «Tutti ne hanno bisogno, sai?» Aveva ragione. Era quello il motivo che mi aveva spinto a Lenoir. «Capisco», dissi, chiudendo gli occhi. Quando li riaprii, sentii che mi stava osservando. «Ma non so bene che farmene di tutto questo. Di noi. Del passato. Di te che sei sposata. Anche di ciò che sta accadendo a Tim. Sono tutte cose senza senso per me.» Il suo sorriso era pieno di tristezza. «E pensi che per me ce l'abbiano?» Posò il bicchiere. «Vuoi la verità? Sto solo cercando di superare questa giornata conservando le energie sufficienti per affrontare il domani.» Chiuse a sua volta gli occhi, come se quell'ammissione le fosse costata molta fatica, e poi mi guardò. «Capisco quello che provi ancora per me, e vorrei poterti dire che ho il segreto desiderio di sapere tutto quello che ti è successo da quando ti spedii quell'orribile lettera.» Esitò. «Ma per essere sincera, non ne sono sicura. So solamente che, quando ti ho visto ieri all'improvviso, io... non mi sono sentita felice, né bene, ma neanche male. Ed è questo il punto. Negli ultimi mesi mi sono sempre sentita uno schifo. Mi sveglio tutte le mattine nervosa, tesa, arrabbiata, esasperata e terrorizzata al pensiero di perdere l'uomo che ho sposato. E queste emozioni mi accompagnano fino al tramonto... Ogni giorno, per tutto il giorno, da sei mesi a questa parte. È così la mia vita adesso, e d'ora in avanti potrà solo andare peggio. Adesso si è aggiunta anche la responsabilità di cercare un modo per aiutare mio marito. Un trattamento che possa aiutarlo. Una cura per salvarlo.» Mi scrutò attentamente, in attesa della mia reazione. Sapevo che esistevano parole per consolarla, ma come al solito non riuscivo a dirle. Era rimasta la donna di cui mi ero innamorato, quella che amavo ancora... ma che non avrei mai potuto avere. «Scusami», riprese, vedendo che stavo zitto. «Non volevo metterti a disagio.» Mi rivolse un fragile sorriso. «Comunque, sappi che mi fa piacere averti qui.» Fissai il piano di legno del tavolo, cercando di tenere a freno i miei sentimenti. «Bene», replicai. Lei si avvicinò al tavolo e mi versò dell'altro vino, sebbene il mio bicchiere fosse ancora quasi pieno. «Io ti apro il mio cuore, e tutto quello che hai da dire è : 'Bene'?» «Che cosa vorresti che dicessi?» Savannah si voltò e si diresse verso la porta della cucina. «Per esempio, che anche tu sei contento di essere venuto qui», rispose a voce bassa. Poi uscì dalla stanza. Non sentendo il rumore della porta d'ingresso, dedussi che fosse andata in salotto. La sua osservazione mi aveva turbato, ma non volevo seguirla. Le cose tra di noi erano cambiate e non era possibile farle tornare indietro. Continuai a mangiare con caparbietà, chiedendomi che cosa volesse da me. Era lei ad avermi spedito la lettera, era lei ad aver scritto la parola fine. Era lei che si era sposata. Dovevamo forse fingere che non fosse accaduto niente? Terminai di mangiare e sparecchiai. Mentre sciacquavo i piatti nel lavandino, guardai fuori dalla finestra e vidi la mia macchina oltre il vetro sferzato dalla pioggia. Capii che sarebbe stato meglio andare via senza voltarmi indietro. Sarebbe stato più facile per entrambi. Ma quando infilai la mano in tasca per cercare le chiavi, rimasi bloccato. Dal salotto, al di sopra del tamburellare della pioggia sul tetto, mi giunse un suono che mi fece dimenticare la rabbia e la confusione. Savannah stava piangendo. Era seduta sul divano e stringeva il bicchiere di vino tra le mani. Quando entrai, alzò la testa. Il vento intanto si era rinforzato e la pioggia era aumentata. Fuori dalla finestra i lampi si susseguivano, accompagnati dal rombo cupo e prolungato dei tuoni. Mi misi seduto accanto a lei e posai il mio bicchiere sul tavolino. Mi guardai intorno. Sulla mensola del camino c'erano diverse fotografie di Savannah e di Tim nel giorno del loro matrimonio. In una stavano tagliando la torta, nell'altra erano in chiesa. Lei era raggiante e io mi sorpresi a desiderare di essere l'uomo che le stava accanto nella foto. «Scusa. So che non dovrei piangere, ma non riesco a trattenermi.» «È comprensibile», mormorai. «È un brutto periodo per te.» Nel silenzio, ascoltai la pioggia che sferzava i vetri. «Che temporale», osservai, tanto per spezzare quel silenzio. «Già», rispose distrattamente. «Pensi che Alan avrà dei problemi a rientrare?» Lei tamburellò sul bicchiere con le dita. «Non si metterà per strada finché non avrà finito di piovere. Ha paura dei lampi. Ma non dovrebbe durare a lungo. Il vento spingerà le nuvole verso la costa. Almeno, di solito è così che succede.» Fece una pausa. «Ricordi quel temporale che ci sorprese all'aperto? Quando ti portai alla casa che stavamo costruendo?» «Certo.» «Ci penso ancora. Fu la prima volta che ti dissi di amarti. Stavo ripensando a quella sera anche pochi giorni fa. Ero seduta proprio qui. Tim era in ospedale, Alan era con lui e la pioggia mi fece tornare in mente tutto. Il ricordo era così vivo che mi sembrava fosse appena successo. E poi smise di piovere e io andai a dare da mangiare ai cavalli. Tornai alla mia vita di sempre, e di colpo fu come se mi fossi immaginata tutto. Come se fosse successo a un'altra persona, a qualcuno che non conosco più.» Si chinò verso di me. «Che cos'è che ricordi meglio?» mi chiese. «Tutto quanto», risposi. Mi guardò con aria maliziosa. «Non c'è nessun momento particolare?» Il temporale fuori dava un'aria intima e buia alla stanza e io provai un brivido di colpevole trepidazione al pensiero di come sarebbe potuta andare a finire. La desideravo più di quanto l'avessi mai voluta, ma ero anche conscio che lei non mi apparteneva più. Sentivo la presenza di Tim tutt'intorno a me e capivo che Savannah non era del tutto in sé. Bevvi un sorso di vino e posai di nuovo il bicchiere. «No», risposi con voce salda. «Non c'è nessun momento più vivido degli altri. Ma è per questo che volevi sempre che guardassi la luna, giusto? Per ricordare tutto quanto.» Quello che non dissi è che continuavo a guardare la luna piena, e nonostante i sensi di colpa che provavo per essere lì in quel momento, mi chiesi se lo facesse anche lei. «Vuoi sapere che cosa ricordo io più di tutto?» mi domandò. «Quando ho rotto il naso a Tim?» «No.» Rise, poi tornò seria. «Le domeniche in cui andammo in chiesa. Ti rendi conto che furono le uniche volte che ti vidi con la cravatta? Dovresti vestirti più spesso così. Stavi molto bene con la giacca.» Parve riflettere sulla cosa, prima di voltarsi a guardarmi di nuovo. «Frequenti qualche donna?» «No.» Annuì. «Lo immaginavo. Sapevo che altrimenti me l'avresti detto.» Si girò verso la finestra. In lontananza vidi un cavallo che galoppava sotto la pioggia. «Tra un po' dovrò uscire a dar loro da mangiare. Si staranno già chiedendo dove sia finita.» «Se la caveranno», la tranquillizzai. «È facile dirlo per te. Fidati... possono diventare irritabili come gli uomini, quando hanno fame.» «Dev'essere dura gestire tutto da sola.» «Lo è. Ma ho forse scelta? Se non altro, il nostro datore di lavoro è stato comprensivo. Tim è in malattia e, ogni volta che lui entra in ospedale, io posso assentarmi per tutto il tempo che mi occorre.» Con una nota canzonatoria nella voce, aggiunse: «Come nell'esercito, giusto?» «Già. Esattamente.» Ridacchiò, poi tornò seria. «Com'è andata in Iraq?» Stavo per darle la mia risposta standard sulla sabbia, invece dissi: «È difficile descriverlo». Savannah aspettò e io presi il mio bicchiere, indeciso. Non ero sicuro di volerne parlare, neppure con lei. Ma tra di noi stava succedendo qualcosa, qualcosa che desideravo e non desideravo allo stesso tempo. Mi costrinsi a guardare la sua fede e a immaginare i sensi di colpa che avrebbe provato dopo. Chiusi gli occhi e cominciai dalla notte dell'invasione. Non so per quanto tempo parlai, ma quando tacqui, aveva smesso di piovere. Il sole al tramonto tingeva il cielo dei colori dell'arcobaleno. Savannah riempì di nuovo il suo bicchiere. Io mi sentivo sfinito, e sapevo che non ne avrei parlato mai più. Lei mi aveva ascoltato in silenzio, facendo solo qualche domanda di tanto in tanto, per indicarmi che stava seguendo la storia. «È diverso da come immaginavo», osservò. «Ah sì?» «Quando leggi i giornali, in genere i nomi dei militari e delle città restano astratti. Ma per te, è tutto personale... è reale. Forse fin troppo.» Non avevo nient'altro da aggiungere e sentii che mi prendeva per mano. Il suo tocco fece scattare qualcosa in me. «Mi spiace che tu abbia dovuto vivere simili esperienze», mormorò. Le strinsi la mano e lei mi ricambiò. Quando infine mi lasciò, il contatto delle sue dita rimase con me e, come riscoprendo una vecchia abitudine, la osservai scostarsi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Fu un gesto che mi causò una fitta di dolore. «Il destino è davvero strano», disse in un sussurro. «Avresti mai pensato che la tua vita avrebbe preso questa strada?» «No», risposi. «Nemmeno io. La prima volta che tornasti in Germania, ero sicura che noi due un giorno ci saremmo sposati. Non ne avevo il minimo dubbio.» Fissai il bicchiere mentre lei proseguiva. «E poi, durante la tua seconda licenza, la mia sicurezza aumentò ancora, specialmente dopo che facemmo l'amore.» «Per favore... Non parliamone.» «Perché?» chiese. «Te ne sei pentito?» «No.» Non riuscivo a guardarla. «Certo che no. Ma adesso sei sposata.» «Però è successo», replicò. «Vuoi che lo dimentichi e basta?» «Non so», risposi. «Forse.» «Non posso», ribatté sorpresa e ferita. «Era la mia prima volta. Non la scorderò mai e a suo modo sarà sempre speciale per me. Ciò che accadde tra di noi fu meraviglioso.» Non osai risponderle. Dopo qualche istante si chinò in avanti e chiese: «Quando hai scoperto che avevo sposato Tim, che cosa hai pensato?» Scelsi con cura le parole. «Il mio primo pensiero è stato che in un certo senso era logico. Lui era innamorato di te da un sacco di anni. L'avevo capito fin dal primo giorno che lo incontrai.» Mi passai una mano sulla faccia. «E poi mi sono sentito... combattuto. Ero felice che tu avessi scelto uno come lui, perché è una brava persona e voi due avete molte cose in comune, ma poi mi sono sentito terribilmente... triste. Non mancava tanto tempo, ormai. Adesso sarei stato in congedo da quasi due anni.» Strinse le labbra. «Mi dispiace», mormorò. «Anche a me.» Cercai di sorridere. «Se vuoi la mia sincera opinione, credo che avresti dovuto aspettarmi.» Rise incerta e io rimasi sorpreso dall'espressione di desiderio dei suoi occhi. Alzò il bicchiere di vino. «Ci ho riflettuto anch'io, sai. Mi sono chiesta dove saremmo stati, dove avremmo vissuto, che vita avremmo fatto. Soprattutto negli ultimi tempi. Ieri sera, dopo che sei andato via, non ho pensato ad altro. So che mi fa sembrare cinica, ma negli ultimi due anni ho cercato in ogni modo di convincermi che, anche se il nostro era vero amore, non sarebbe mai durato.» Aveva un'aria malinconica. «Tu mi avresti sposato sul serio, eh?» «Senza un attimo di esitazione. E lo farei ancora, se potessi.» Il passato di colpo sembrò incombere su di noi, travolgente nella sua intensità. «Era tutto vero, allora?» La sua voce era esitante. «Io e te?» La luce grigia del crepuscolo si rifletteva nei suoi occhi mentre aspettava la mia risposta. In quegli istanti sentii tra di noi il peso della prognosi di Tim. I miei pensieri vorticosi erano perversi e sbagliati, ma c'erano lo stesso. Mi odiavo anche solo per il fatto di pensare alla vita dopo Tim e cercai di scacciare l'idea. Ma non potevo. Volevo abbracciare Savannah, stringerla, recuperare tutto ciò che avevamo perduto negli anni di lontananza. Istintivamente, mi chinai verso di lei. Lei capì le mie intenzioni e non si sottrasse, almeno al principio. Ma quando le mie labbra furono vicinissime alle sue, si voltò di scatto e rovesciò il vino contenuto nel suo bicchiere. Balzò in piedi, posandolo sul tavolo e tenendosi la camicia macchiata scostata dalla pelle. «Scusami», dissi. «Non importa», rispose. «Però devo cambiarmi. Voglio mettere in ammollo questa camicia. È la mia preferita.» «Va bene.» La guardai uscire dal salotto e avviarsi lungo il corridoio. Entrò nella camera sulla destra e quando fu scomparsa, imprecai. Scossi la testa per la mia stupidità, poi mi accorsi di avere anch'io una macchia di vino sulla camicia. Mi alzai per andare a cercare un bagno. Aprendo una porta a caso, mi ritrovai a guardare la mia immagine riflessa nello specchio sopra il lavandino. Sullo sfondo, vidi Savannah oltre la porta socchiusa della sua camera. Era a torso nudo e mi voltava le spalle. Cercai di distogliere gli occhi, ma senza riuscirci. Doveva essersi accorta della mia presenza, perché girò la testa. Pensavo che avrebbe chiuso di scatto la porta per nascondersi, e invece incrociò il mio sguardo e rimase così, chiedendomi tacitamente di ammirarla. E poi, piano piano, si voltò verso di me. Restammo a guardarci allo specchio, separati soltanto dallo stretto corridoio. Aveva le labbra socchiuse e teneva il mento leggermente sollevato; capii che, anche se fossi vissuto fino a cent'anni, non avrei mai dimenticato quanto era bella in quel momento. Avrei voluto attraversare il corridoio per raggiungerla, sapendo che lo desiderava anche lei. Ma rimasi dov'ero, raggelato al pensiero che un giorno mi avrebbe odiato per quello che entrambi volevamo con tanta intensità in quel momento. E Savannah, che mi conosceva meglio di chiunque altro, abbassò gli occhi, come se di colpo fosse giunta alla mia medesima conclusione. Si voltò dall'altra parte proprio mentre la porta d'ingresso si spalancava e il silenzio era squarciato da un grido penetrante. Alan... Girai sui tacchi e mi precipitai in salotto. Alan era già scomparso in cucina, da dove proveniva un rumore di sportelli sbattuti, e continuava a gemere come se fosse in punto di morte. Mi bloccai, non sapendo che cosa fare. Un attimo dopo Savannah mi passò accanto di corsa, riallacciandosi la camicetta. «Alan! Arrivo!» esclamò frenetica. «Non devi preoccuparti!» Lui continuava a gridare, mentre apriva e richiudeva le ante in cucina. «Hai bisogno di aiuto?» le chiesi. «No. Ci penso io. A volte fa così quando torna dall'ospedale.» Entrò in cucina e la sentii rivolgersi ad Alan con voce ferma, nonostante il fracasso. Mi spostai da una parte e la vidi in piedi accanto a lui, che cercava di calmarlo. Non sembrava riuscirci e provai l'istinto di accorrere in suo aiuto, ma lei restava calma e continuava a parlargli, poi posò una mano sulla sua, seguendone i movimenti. Alla fine, dopo un tempo interminabile, lo sbattere degli sportelli rallentò e si fece più ritmato per poi cessare del tutto. Anche le grida di Alan seguirono lo stesso schema. La voce di Savannah si fece dolce e non riuscivo più a distinguere le singole parole. Mi misi seduto sul divano. Poco dopo mi alzai e andai alla finestra. Era buio; il cielo si era rasserenato e sopra le montagne brillava una spruzzata di stelle. Volevo sapere che cosa stava succedendo, così mi spostai nel punto da cui potevo vedere la cucina. Savannah e Alan erano seduti sul pavimento. Lei aveva la schiena appoggiata alla credenza e lui le teneva la testa posata sul petto, lasciandosi accarezzare i capelli ma continuando a battere rapidamente le palpebre, come se fosse condannato a restare sempre in movimento. Savannah aveva gli occhi pieni di lacrime, anche se, notando la sua espressione concentrata, compresi che era decisa a non fargli capire quanto stesse soffrendo. «Gli voglio bene», sentii dire da Alan. La sua non era più la voce profonda dell'ospedale, ma la supplica singhiozzante di un bambino spaventato. «Lo so, tesoro. Anch'io gli voglio bene. Lo amo tanto. So che hai paura, e ho paura anch'io.» Dal tono della sua voce compresi che lo pensava veramente. «Gli voglio bene», ripetè Alan. «Uscirà dall'ospedale tra qualche giorno. I dottori stanno facendo il possibile.» « Gli voglio bene. » Gli baciò la sommità del capo. «Anche lui ti vuole bene, Alan. E anch'io. E so che non vede l'ora di tornare a cavalcare assieme a te. Me lo ha detto. Ed è così fiero di te. Mi ripete sempre come sei bravo qui alla fattoria.» «Ho paura.» «Anch'io, tesoro. Ma i dottori stanno facendo tutto il possibile.» «Gli voglio bene.» «Lo so. Anch'io lo amo. Più di quanto tu possa immaginare. » Continuai a osservarli, e all'improvviso sentii che non facevo parte di quella scena. Per tutto il tempo che ero rimasto lì in piedi, Savannah non aveva mai alzato lo sguardo e io ero angosciato dal pensiero di ciò che noi avevamo perso. Mi tastai la tasca, tirai fuori le chiavi e mi avviai alla porta, gli occhi che mi bruciavano di lacrime. L'uscio si aprì con un cigolio, ma di sicuro lei non ci avrebbe fatto caso. Scesi i gradini barcollando, assalito da un senso di spossatezza. E poi mi diressi in macchina verso il motel. Mentre mi fermavo ai semafori rossi, ero consapevole che i passanti avrebbero visto la scena sconcertante di un uomo grande e grosso che singhiozzava disperato al volante. Trascorsi il resto della serata in camera. Da fuori mi arrivavano i rumori degli altri ospiti che passavano davanti alla mia porta trasportando valigie. Tutte le volte che un'auto entrava nel parcheggio, i fari illuminavano per un attimo la camera, creando ombre spettrali sulle pareti. Gente in movimento, gente che andava avanti con la propria vita. Sdraiato a letto, ero pieno di invidia per loro e mi chiedevo se un giorno sarei riuscito a fare lo stesso con la mia. Non provai neppure a dormire. Pensai a Tim ma, stranamente, invece della figura emaciata che avevo trovato nella stanza d'ospedale, vedevo il giovane che avevo conosciuto sulla spiaggia, lo studente preciso e pulito con un sorriso per tutti. Pensai a mio padre, e mi domandai come fossero state le sue ultime settimane. Cercai di immaginare il personale che lo ascoltava raccontare delle sue monete e mi augurai che il direttore non avesse mentito, quando mi aveva informato che era morto sereno nel sonno. Pensai ad Alan e al mondo sconosciuto dove abitava la sua mente. Ma soprattutto, a Savannah. Rivissi la giornata passata insieme e indugiai all'infinito sul passato, tentando di sfuggire a un vuoto che non voleva abbandonarmi. All'alba, guardai il sole sorgere all'orizzonte come una palla di marmo dorato. Mi feci la doccia e poi caricai in macchina la mia sacca. Ordinai la colazione al bar sul lato opposto della strada, ma quando mi trovai davanti il piatto con le uova e il bacon, lo misi da parte e bevvi solo un caffè, mentre mi chiedevo se lei si fosse già alzata per accudire i cavalli. Alle nove arrivai all'ospedale. Firmai il registro e salii al terzo piano con l'ascensore. Percorsi il corridoio e mi fermai davanti alla camera di Tim. La porta era socchiusa e si sentiva il rumore della televisione accesa. Quando mi vide, sorrise sorpreso. «Ciao, John», disse, spegnendo la TV. «Entra. Stavo ingannando il tempo.» Mentre mi accomodavo accanto al letto, notai che aveva un colorito migliore. Si mise seduto più dritto, poi posò gli occhi su di me. «Che cosa ti porta qui di buon mattino?» «Sono in partenza. Domani devo prendere il volo di ritorno in Germania. Sai com'è.» «Già», concordò. «Io spero di essere dimesso oggi pomeriggio. Ho passato una buona nottata.» «Mi fa molto piacere.» Lo guardai attentamente, alla ricerca di una traccia di sospetto nel suo sguardo per quello che poteva essere successo la sera prima, ma non trovai nulla. «Perché sei venuto qui, John?» mi chiese serio. «Non ne sono sicuro», confessai. «Sentivo il bisogno di rivederti. E pensavo che forse anche tu volessi vedermi.» Annuì e si voltò verso la finestra, da cui si scorgeva soltanto un enorme condizionatore. «Sai qual è la cosa peggiore di tutta questa storia? Sono in ansia per Alan», affermò. «A questo punto non mi illudo più di avere molte possibilità di guarire. E ho trovato in me la forza di accettarlo. Come ti ho detto ieri, non ho perso la fede e credo... o almeno lo spero... che non finisca tutto in questo mondo. E quanto a Savannah... se mi succedesse qualcosa, sarebbe distrutta dal dolore. Ma ho capito una cosa dalla morte dei miei genitori.» «Che la vita è ingiusta?» «Sì, certo. Però ho imparato anche che è possibile andare avanti; per quanto all'inizio l'idea sia inconcepibile, con il tempo il dolore diminuisce. Non passerà mai del tutto, ma dopo un po' non è più così devastante. È quello che accadrà a lei. E giovane e forte, e alla fine riuscirà a cavarsela. Ma Alan... chi si prenderà cura di lui? Dove andrà a vivere?» «Ci penserà Savannah.» «So che lo farebbe. Ma sarebbe giusto nei suoi confronti? Aspettarsi che si accolli una responsabilità del genere?» «Non importa che sia giusto o meno. Starà attenta che non gli succeda niente di male.» «E come? Dovrà lavorare... e durante la giornata, chi sorveglierà Alan? E poi bisogna considerare che lui ha solo diciannove anni. Posso pretendere che se ne prenda cura per i prossimi cinquanta? Per me era semplice. Era mio fratello. Ma Savannah... È una donna bella e intelligente... e si può escludere che si risposi?» «Ma di che cosa stai parlando?» «Il suo nuovo marito sarebbe disposto a occuparsi di Alan?» Si voltò a guardarmi. «Tu, per esempio, lo faresti?» chiese. Aprii la bocca, e la richiusi subito. La sua espressione si addolcì. «Ecco a cosa penso quando sono qui. Quando non sto male, cioè. Veramente, rifletto su un sacco di cose. Te compreso.» «Me?» «Tu l'ami ancora, vero?» Mantenni un'espressione neutra, che non gli impedì di leggermi nell'animo. «Non importa», affermò. «Lo sapevo già. L'ho sempre saputo.» Sembrava rassegnato. «Ricordo ancora la faccia di Savannah la prima volta che mi parlò di te. Non l'avevo mai vista così. Io ero felice per lei, dato che tu in qualche modo mi ispiravi fiducia. Quell'anno, Savannah soffrì molto a causa della tua lontananza. Sentiva continuamente nostalgia di te, ed eri in ogni suo pensiero. E poi scoprì che non saresti tornato a casa, e noi finimmo qui a Lenoir e i miei genitori morirono e...» Non terminò la frase. «Tu avevi capito subito che l'amavo, vero?» Annuii. «Lo immaginavo.» Si schiarì la gola. «L'amo da quando avevo dodici anni. E a poco a poco anche Savannah si è innamorata di me.» «Perché me lo stai dicendo?» «Perché so che c'era una differenza. Certo, lei mi amava, ma non ha mai avuto per me la passione che nutriva nei tuoi confronti. Però ci stavamo costruendo una bella vita insieme. Era così entusiasta quando sistemammo la fattoria... e io mi sentivo fiero di poterle offrire quell'opportunità. E ora mi sono ammalato, ma Savannah è sempre qui, a occuparsi di me come farei io se dovesse trovarsi in una situazione simile.» Tacque, alla ricerca delle parole giuste, e vidi un'ombra di angoscia attraversargli lo sguardo. «Ieri, quando sei arrivato, ho visto come ti guardava e ho capito che ti ama ancora. E soprattutto che non smetterà mai di farlo. Questo mi spezza il cuore, ma sai una cosa? Io sono profondamente innamorato di lei, e per me questo significa che voglio solo e soprattutto la sua felicità. E l'unica cosa che abbia sempre contato davvero per me.» «Che cosa intendi dire?» chiesi con voce rauca. «Non scordarti di Savannah, se dovesse capitarmi qualcosa. E promettimi che ne avrai cura come faccio io.» «Tim...» «Non importa, John.» Sollevò una mano per fermarmi, oppure in segno di saluto. «Ricorda solo quello che ti ho detto, d'accordo?» Girò la testa di lato e io compresi che la nostra conversazione era terminata. Mi alzai e uscii in silenzio dalla camera, richiudendomi la porta alle spalle. Fuori dall'ospedale, socchiusi gli occhi accecato dal sole del mattino. Udivo il cinguettio degli uccelli tra le fronde degli alberi in controluce. Il parcheggio era quasi pieno. C'era molta gente che stava uscendo dall'ospedale, e molti apparivano abbattuti come me, come se l'ottimismo mostrato di fronte ai loro cari svanisse non appena erano di nuovo soli. Ero consapevole che a volte, quando sembrano non esserci più speranze, accadono dei miracoli, e che le donne nel reparto maternità stringevano felici al seno i loro neonati, ma intuivo che la maggior parte dei visitatori era in preda alla mia stessa angoscia. Mi sedetti su una panchina, chiedendomi perché fossi andato lì e rimpiangendo di averlo fatto. Ripensai al mio dialogo con Tim e l'immagine della sua evidente sofferenza mi diede una stretta al cuore. Per la prima volta, il mio amore per Savannah mi sembrava... sbagliato. L'amore dovrebbe essere fonte di gioia e di serenità, ma in questo caso stava provocando solamente dolore. A Tim, a Savannah, persino a me. Non ero venuto a Lenoir per metterla in tentazione, né per rovinare il suo matrimonio... oppure sì? Non ero sicuro che il mio comportamento fosse nobile come avrei voluto, e quella consapevolezza mi fece stare male. Tirai fuori dal portafoglio la sua foto. Era tutta stropicciata e consunta. Guardando il suo viso, mi domandai che cosa avrebbe portato l'anno nuovo. Non potevo prevedere se Tim ce l'avrebbe fatta, e non volevo nemmeno pensarci. Ma comunque fosse finita, il rapporto tra me e Savannah non sarebbe mai più tornato quello di un tempo. Ci eravamo conosciuti in un periodo spensierato e pieno di promesse; adesso era arrivato il momento delle dure lezioni della vita reale. Mi massaggiai le tempie, colpito dal pensiero che Tim sapesse quello che era quasi accaduto tra noi due la sera precedente, e che se lo fosse addirittura aspettato. Le sue parole lo avevano lasciato trasparire, e anche il fatto che mi avesse chiesto di prendermi cura di lei con la sua stessa devozione. Capivo bene che cosa mi suggeriva di fare nel caso lui fosse morto, ma per qualche motivo il suo permesso mi faceva sentire ancora peggio. Mi alzai e mi avviai lentamente verso l'auto. In quel momento volevo solo allontanarmi il più possibile dall'ospedale, e da Lenoir. Avevo bisogno di riflettere con calma. Infilai la mano in tasca e tirai fuori le chiavi. Solo quando giunsi vicino alla macchina, mi accorsi che il pickup di Savannah era parcheggiato lì accanto. Lei era seduta dentro e, quando mi vide, aprì la portiera e scese. Mentre aspettava che la raggiungessi, si lisciò la gonna. Mi fermai a qualche passo di distanza. «Ieri sera te ne sei andato senza salutarmi, John», disse. «Lo so.» Fece un lieve cenno d'assenso. Ne conoscevamo entrambi il motivo. «Come facevi a sapere che ero venuto in ospedale?» «Non lo sapevo», rispose. «Sono passata dal motel e mi hanno detto che avevi lasciato la camera. Arrivata qui, ho visto la tua auto e ho deciso di aspettarti in macchina. Hai visto Tim?» «Sì. Sta meglio. Dice che lo dimetteranno oggi pomeriggio.» «Una buona notizia.» Indicò la mia auto. «Te ne vai?» «Devo tornare in Germania. La licenza è finita.» Incrociò le braccia. «Saresti passato a salutarmi?» «Non so», ammisi. «Non ci avevo ancora pensato.» Vidi un lampo di delusione nel suo sguardo. «Di che cosa avete parlato tu e Tim?» Guardai l'ospedale, poi tornai a posare lo sguardo su di lei. «È meglio che tu lo chieda a lui.» Strinse le labbra e il suo corpo si irrigidì impercettibilmente. «Allora questo è un addio?» Udii un colpo di clacson provenire dalla strada e vidi una fila di auto rallentare all'improvviso. Una Toyota rossa imboccò la corsia opposta, per cercare di aggirare l'ingorgo. Mentre osservavo la scena, mi resi conto che stavo tergiversando e che lei si meritava una risposta. «Sì», dissi, voltandomi a guardarla. «Credo di sì.» Teneva i pugni stretti e le braccia conserte. «Posso scriverti?» Mi sforzai di non distogliere lo sguardo, rimpiangendo ancora una volta che il destino non avesse deciso altrimenti per noi. «Non credo sia una buona idea.» «Non capisco.» «Sì, invece», replicai. «Sei sposata con Tim, non con me.» Feci una pausa per raccogliere il coraggio di dire ciò che dovevo. «È un brav'uomo, Savannah. Persino migliore di me, e io sono felice che tu lo abbia sposato. Per quanto ti ami, non voglio rovinare un matrimonio. E in fondo so che non lo desideri nemmeno tu. Forse sei ancora innamorata di me, ma ami anche lui. Ci ho messo un po' a capirlo, adesso però ne sono sicuro.» Evitai di parlare dell'incerto futuro di Tim, e vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime. «Ci rivedremo?» «Non so.» Le parole mi bruciavano in gola. «Ma spero di no.» «Come puoi dire una cosa simile?» chiese con voce rotta. «Perché significherebbe che Tim ce l'ha fatta. E ho la sensazione che per fortuna le cose andranno proprio così. » «Ma non puoi esserne certo!» «No, infatti.» «E allora perché deve finire adesso? In questo modo?» Una lacrima le rigò la guancia e, pur sapendo che avrei fatto meglio ad andarmene, avanzai di un passo verso di lei e le accarezzai il viso. Nei suoi occhi lessi paura e tristezza, rabbia e frustrazione. Ma soprattutto, un'implorante richiesta nei miei confronti di cambiare idea. Deglutii a fatica. «Sei sposata con Tim, e lui ha bisogno di te. E anche Alan. Non c'è spazio per me, e non sarebbe giusto.» Le lacrime le scendevano più copiose ora e anch'io mi sentivo gli occhi umidi. Mi sporsi in avanti e la baciai con dolcezza sulle labbra, poi l'abbracciai e la strinsi forte a me. «Ti amo, Savannah, ti amerò sempre», mormorai. «Sei la cosa più bella che mi sia mai accaduta. Sei stata la mia migliore amica e la mia amante, e mi è piaciuto ogni momento che abbiamo trascorso insieme. Mi hai fatto sentire di nuovo vivo e, soprattutto, mi hai aiutato a ritrovare mio padre. Non ti dimenticherò mai per questo. Sarai sempre la parte migliore di me. Ma ora, anche se mi spiace che sia così, io devo partire e tu devi andare da tuo marito.» Mentre parlavo, il suo corpo era scosso dai singhiozzi e continuai a tenerla stretta per un po'. Quando ci separammo, pensai che quella era l'ultima volta che la toccavo. Indietreggiai, gli occhi fissi nei suoi. «Anch'io ti amo, John», disse. «Addio.» Alzai una mano in segno di saluto. E lei allora si asciugò il viso e si incamminò verso l'ospedale. ..... Lasciarla era stato molto difficile. Avrei voluto girare la macchina e tornare all'ospedale per rassicurarla che ero sempre disponibile per lei, per confidarle quello che mi aveva detto Tim. Ma proseguii diritto. Uscito dalla città, mi fermai a una stazione di servizio a fare il pieno e comperare una bottiglia d'acqua. Avvicinandomi al bancone, vidi una cassetta per la raccolta fondi per Tim e rimasi a fissarla. Era piena di monete e di banconote. C'era anche un'etichetta con l'indicazione di conto corrente di una banca locale. Pagai l'acqua e chiesi al ragazzo dietro il banco se poteva darmi il resto in spiccioli. Tornai alla macchina e, con gesti meccanici, aprii la portiera e cominciai a rovistare tra i documenti che mi aveva lasciato l'avvocato. Poi presi una matita e mi diressi verso la cabina telefonica. Stava vicino alla strada e il rumore del traffico era incessante. Chiamai il servizio informazioni e, premendomi la cornetta all'orecchio, annotai su un foglio il numero che avevo richiesto. Riagganciai, e poi lo composi. Una voce computerizzata mi invitò ad aggiungere altre monete. Lo feci e subito dopo sentii lo squillo della linea libera. Quando un uomo mi rispose, mi presentai e gli chiesi se si ricordava di me. «Ma certo, John. Mi fa piacere sentirti. Perché mi hai chiamato?» «Mio padre è morto.» Ci fu una breve pausa. «Mi spiace molto. Tu stai bene?» «Non so.» «Posso fare qualcosa per te?» Chiusi gli occhi, pensando a Savannah e a Tim, e sperando che papà potesse perdonarmi. «Sì», risposi al mercante di monete. «Vorrei che vendesse la collezione di mio padre, e ho bisogno del denaro al più presto.» Epilogo Lenoir, 2006 Che cos'è il vero amore? L'interrogativo continua a girarmi per la testa mentre sono seduto sul fianco della collina a guardare Savannah che si muove tra i cavalli. Per un attimo torno con il pensiero alla sera in cui mi presentai alla fattoria... ma quella visita, che risale a oltre un anno fa, mi sembra sempre più simile a un sogno. Ho venduto le monete a un valore inferiore a quello di mercato e una alla volta, smembrando così l'amata collezione di mio padre. Ho tenuto per me solo il Buffalo Nickel, perché non sono riuscito a separarmene. A parte la foto, è tutto ciò che mi rimane di lui, e lo porto sempre con me. È una specie di talismano, che contiene molti ricordi; di tanto in tanto lo prendo dalla tasca e lo guardo. Accarezzo l'astuccio di plastica trasparente e d'un tratto rivedo papà che legge il Greysheet nel suo studio o sento l'aroma del bacon che sfrigola in cucina. Allora sorrido e per un attimo non mi sento più solo. Ma lo sono, e in un certo senso lo resterò sempre. Pensando a questo, cerco con lo sguardo le figure di Savannah e di Tim, e li vedo camminare tenendosi per mano e poi toccarsi in un modo che rivela sincero affetto reciproco. Devo ammettere che sono una bella coppia. Poi chiamano Alan, che li raggiunge, e tutti e tre rientrano in casa. Mi domando di cosa stiano parlando, poiché sono curioso dei piccoli dettagli della loro vita, anche se so bene che la cosa non mi riguarda. Comunque, ora Tim non è più in cura, e ci sono buone probabilità che guarisca del tutto. Durante la mia ultima visita a Lenoir, sono andato nello studio di un avvocato per consegnargli un assegno da depositare sul conto aperto per Tim. Sapevo che, vincolato dal segreto professionale, non lo avrebbe detto a nessuno. Era importante che Savannah non scoprisse che ero stato io. In un matrimonio c'è spazio soltanto per due persone. Tuttavia, ho chiesto all'avvocato di tenermi informato e nell'ultimo anno lui mi ha chiamato spesso in Germania. Mi ha raccontato che, quando aveva telefonato a Savannah per riferirle che un suo cliente intendeva fare una donazione anonima - e in cambio voleva solo essere aggiornato sugli eventuali progressi nelle cure - lei era scoppiata a piangere e poi aveva lanciato un grido di gioia nel sentire l'importo. Nel giro di una settimana aveva portato Tim all'MD Anderson, e lì avevano accertato che era un soggetto ideale per la sperimentazione sul vaccino che sarebbe iniziata in novembre. Prima di ricevere il vaccino, era stato sottoposto a biochemioterapia e a terapia coadiuvante, e i medici erano fiduciosi di poter debellare le cellule tumorali che stavano proliferando nel suo polmone. Un paio di mesi fa l'avvocato mi ha informato che il trattamento era stato addirittura più efficace del previsto, e che la malattia di Tim era in fase di remissione. Questo non garantiva che avrebbe raggiunto la vecchiaia, ma almeno gli concedeva la possibilità di lottare, ed era ciò che io desideravo per loro. Volevo che fossero felici. Che lei fosse felice. E da quanto ho visto oggi, è così. Sono venuto qui perché avevo bisogno di sapere che avevo fatto la scelta giusta, vendendo le monete per aiutare Tim a curarsi, e decidendo di non mettermi più in contatto con lei. Ho ceduto la collezione perché alla fine ho capito che cosa sia il vero amore. Tim mi aveva detto - e dimostrato - che amare significa avere a cuore la felicità dell'altro più della propria, per quanto ciò comporti delle scelte dolorose. Ero uscito dalla sua camera d'ospedale convinto che avesse ragione. Ma fare la cosa giusta non è stato facile. Ancora oggi ho la sensazione che manchi qualcosa per rendere la mia vita completa. So che i sentimenti per Savannah resteranno immutabili e che continuerò sempre a interrogarmi sulla decisione presa. E a volte, mio malgrado, mi domando se anche lei nutra i miei stessi dubbi. Il che, naturalmente, spiega l'altra ragione per cui sono venuto qui. Rimango seduto a guardare la fattoria mentre cala la sera. È la prima notte di luna piena e presto per me torneranno i ricordi. Trattengo il respiro, mentre la luna comincia a spuntare lentamente dietro le montagne, tingendo l'orizzonte di un alone lattiginoso. Gli alberi diventano d'argento e, sebbene io non veda l'ora d'immergermi in quei ricordi dolceamari, mi volto di nuovo verso il ranch. Per un lungo tempo aspetto invano. La luna continua la sua ascesa nel firmamento e a una a una le luci nella casa si spengono. Mi ritrovo a fissare ansiosamente la porta d'ingresso, sperando nell'impossibile. So che non succederà, ma resto in attesa. Respiro profondamente, come per attirarla fuori. E quando la vedo uscire, provo un brivido alla schiena. Si ferma sui gradini della veranda e gira lo sguardo nella mia direzione. Resto paralizzato senza motivo... so che non può scorgermi. La osservo dall'alto mentre si chiude piano la porta alle spalle. Poi scende i gradini e si ferma in mezzo all'aia. Incrocia le braccia sul petto, lanciando un'occhiata alle sue spalle per essere sicura che nessuno la segua. Alla fine, sembra rilassarsi. E poi, come se stessi assistendo a un miracolo, la vedo alzare lentamente la testa verso la luna. La guardo dissetarsi di quella vista, avverto la marea di ricordi che la sommerge e desidero disperatamente farle sapere che ci sono anch'io. Invece, resto dove sono e guardo a mia volta la luna. E per un fugace istante, ho l'impressione che siamo ancora insieme.