François-René de Chateaubriand Atala

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François-René de Chateaubriand Atala
François-René de Chateaubriand
Atala
François-René de Chateaubriand. Saint-Malo 1768; Parigi 1848.
Scrittore francese.
Avviato alla carriera militare, fu testimone a Parigi dei primi anni della
Rivoluzione. Nel 1791 compì un viaggio nel Nordamerica, ma fece ritorno
in patria dopo l'arresto di Luigi XVI per unirsi alle forze
controrivoluzionarie.
Ferito a Thionville, riparò in Inghilterra, dove visse dal 1793 al 1800.
A Londra pubblicò il Saggio storico sulle rivoluzioni (1797).
Legittimista e cattolico, ottenne dopo la restaurazione una posizione
politica eminente: pari di Francia, ambasciatore e ministro. Visse in modo
appartato la maturità, mantenendo salda l'amicizia con Juliette Rècamier.
Il genio del cristianesimo (1802) apparve nel momento del risveglio
religioso in Francia; ai propositi teorici di quest'opera (la letteratura al
servizio della fede) si ricollegano i due romanzi in essa inclusi: Atala e
Renè.
Il primo, attraverso le vicende d'amore di due indiani della Louisiana,
vuole conciliare la religione con le scene della natura e le passioni del cuore
umano; il secondo, dai toni velatamente autobiografici, è un piccolo
romanzo intimo. Noti anche I martiri, apologia del cristianesimo primitivo e
le Memorie d'oltretomba (1848-50), rievocazione della sua vita, nel quadro
di un tormentato periodo storico.
François-René de Chateaubriand .
LETTERA PUBBLICATA NEL JOURNAL DES DÉBATS E NEL
PUBLICISTE, 31 marzo, 1° aprile 1801.
Cittadino, nella mia opera sul Genio del Cristianesimo, o Le bellezze
poetiche e morali della Religione cristiana, c'è un'intera sezione dedicata
alla poetica del Cristianesimo. Questa sezione si divide in tre parti: poesia,
belle arti, letteratura. A conclusione di queste tre parti ce n'è una quarta che
s'intitola Armonie della Religione, con le scene della natura e le passioni del
cuore umano. In questa parte prendo in esame molti soggetti che non hanno
potuto entrare nelle precedenti, come l'impressione delle rovine gotiche in
confronto ad altri tipi di rovine, la collocazione dei monasteri in luoghi
solitari, l'aspetto poetico di quella religione popolare, che metteva croci
nelle foreste ai crocevia delle strade, che a difesa di fontane e vecchi olmi
poneva immagini di vergini e di santi; che credeva ai presentimenti e ai
fantasmi, ecc. Questa parte si conclude con un aneddoto che viene dai miei
viaggi in America, scritto sotto le stesse capanne dei selvaggi. Si intitola:
Atala, ecc. Essendo andata dispersa qualche copia di questa piccola storia,
per prevenire incidenti che mi causerebbero grandissimi torti, mi vedo
costretto a pubblicarla a parte, prima dell'opera maggiore.
Se voi, cittadino, voleste farmi il favore di pubblicare questa lettera, mi
rendereste un importante servizio.
Ho l'onore di essere, ecc.
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
Dalla lettera precedente si capisce perché Atala sia stata pubblicata prima
della mia opera sul Genio del Cristianesimo, o Le bellezze poetiche e morali
della Religione cristiana, di cui essa fa parte. Mi resta da spiegare come sia
stata composta questa piccola storia.
Ero ancora giovanissimo quando concepii l'idea di fare un'epopea
dell'uomo naturale, o di raffigurare i costumi dei selvaggi, riconducendoli a
qualche avvenimento noto. Dopo la scoperta dell'America non vidi soggetto
più interessante, soprattutto per dei Francesi, del massacro della colonia dei
Natchez in Louisiana, nel 1727. Tutte quelle tribù indiane che, dopo due
secoli d'oppressione, cospiravano per restituire la libertà al Nuovo Mondo,
mi parvero offrire alla penna un soggetto felice quasi quanto la conquista
del Messico. Misi qualche frammento dell'opera sulla carta, ma mi accorsi
subito che mancava la verosimiglianza dei colori, e che se volevo fare un
quadro credibile, bisognava, come Omero, visitare i popoli che intendevo
dipingere.
Nel 1789 parlai con il Signor de Malesherbes del mio progetto di andare
in America. Ma, avendo al tempo stesso intenzione di dare al viaggio uno
scopo pratico, formulai il proposito di scoprire quel passaggio via terra tanto
cercato, e su cui lo stesso Cook aveva espresso dei dubbi. Partii, vidi le
solitarie distese americane, e tornai con il piano per un altro viaggio, che
doveva durare nove anni. Mi proponevo di attraversare tutto il continente
dell'America settentrionale, di risalire in seguito le coste a nord della
California, e di fare ritorno attraverso la baia di Hudson, girando sotto il
polo. Se non fossi morto in quel secondo viaggio, avrei potuto fare delle
scoperte importanti per la scienza e utili per il mio paese. Il Signor de
Malesherbes s'incaricò di presentare i miei progetti al Governo; e fu in
quell'occasione che egli udì i primi frammenti di questa piccola opera che
oggi presento al pubblico. È ben noto ciò che divenne la Francia fino al
momento in cui la Provvidenza ha fatto apparire uno di quegli uomini che
essa, quando è stanca di punire, invia in segno di riconciliazione. Con
addosso il sangue del mio unico fratello, di mia cognata, dell'illustre
vecchio loro padre; dopo aver visto morire mia madre e un'altra sorella
piena di talenti in seguito al trattamento subito in prigione, andai errando in
terra straniera, dove il solo amico che avessi conservato si pugnalò tra le
mie braccia.
Di tutti i miei manoscritti sull'America, non ho salvato che pochi
frammenti, in particolare Atala, che non era se non un episodio dei Natchez.
Atala fu scritta nel deserto e sotto le capanne dei selvaggi. Non so se il
pubblico apprezzerà questa storia che esula dai tracciati consueti, e che
presenta una natura e dei costumi del tutto estranei all'Europa. In Atala non
ci sono avventure. È una specie di poema, in parte descrittivo, in parte
drammatico: tutto si riduce alla vicenda di due amanti che camminano e
discorrono nella solitudine; tutto si svolge nella rappresentazione dei
turbamenti d'amore, in mezzo alla calma dei deserti e della religione. Ho
dato a questo piccolo lavoro la forma più antica; esso è diviso in prologo,
racconto e epilogo. Le parti principali del racconto hanno dei titoli, come i
cacciatori, gli agricoltori, ecc.; così, nei primi secoli della Grecia, i rapsodi
cantavano, sotto titoli diversi, i frammenti dell'Iliade e dell'Odissea. Non
negherò di aver cercato un'estrema semplicità di sfondo e di stile, eccetto la
parte descrittiva; è anche vero che, nelle descrizioni, c'è come un tono di
sontuosa semplicità. Dire ciò che ho tentato, non vuol dire ciò che ho fatto.
Da molto tempo non leggo che Omero e la Bibbia; è una fortuna se il lettore
se ne accorge, e se sono riuscito a fondere con le tinte del deserto e con i
particolari sentimenti del mio cuore, i colori di quei due grandi ed eterni
modelli del bello e del vero.
Dirò anche che il mio scopo non è stato quello di strappare molte lacrime;
mi sembra un errore pericoloso, avanzato come tanti altri da Voltaire,
affermare che le opere migliori sono quelle che più fanno piangere.
Ci sono drammi tali che nessuno vorrebbe esserne l'autore, e che straziano
il cuore ben altrimenti dell'Eneide. Non si è grandi scrittori perché si mette
l'anima alla tortura. Le vere lacrime sono quelle che fa scorrere una bella
poesia; è necessario che vi si mescolino in egual misura ammirazione e
dolore.
Quando Priamo dice ad Achille: Giudica l'eccesso della mia sventura, dal
momento che bacio la mano che ha ucciso i miei figli.
Quando Giuseppe esclama: Ego sum Joseph, frater vester, quem
vendidistis in Aegyptum. Io sono Giuseppe, vostro fratello, che avete
venduto per l'Egitto.
Ecco le sole lacrime che devono inumidire le corde della lira,
addolcendone i suoni. Le muse sono femmine celesti che non sfigurano i
loro lineamenti con smorfie; se piangono, è per il segreto disegno di
rendersi più belle.
D'altra parte, non sono certo come Rousseau un entusiasta dei selvaggi; e
per quanto forse io abbia da lamentarmi della società almeno quanto quel
filosofo aveva da lodarla, non sono affatto convinto che la pura natura sia la
cosa più bella del mondo. L'ho sempre trovata bruttissima, dovunque abbia
avuto l'occasione di vederla. Ben lontano dal credere che l'uomo che pensa
sia un animale depravato, ritengo che sia il pensiero a fare di un uomo un
uomo.
Con questa parola natura si è guastato tutto. Da qui quei fastidiosi dettagli
di mille romanzi dove si descrivono persino i berretti da notte e le vestaglie
da camera; da qui quegli infami drammi che sono venuti dopo i capolavori
di Racine. Rappresentiamo la natura, ma quella bella: l'arte non deve
occuparsi di imitare dei mostri.
Non parlerò qui del significato morale che ho voluto dare a Atala, poiché
è facilmente scopribile e si trova riassunto nell'epilogo; dirò solo una parola
dei miei personaggi.
Atala, come il Filottete, ha solo tre personaggi. Può darsi che nella donna
che ho cercato di raffigurare si scopra un carattere davvero nuovo. Le
contraddizioni del cuore umano non sono state ancora abbastanza
sviluppate: meriterebbero d'esserlo, in quanto attengono all'antica tradizione
di una originaria degradazione, e quindi aprono profonde prospettive su
tutto ciò che vi è di grande e di misterioso nell'uomo e nella sua storia.
Chactas, l'amante di Atala, è un selvaggio, che si suppone nato con del
talento, e che per più di metà è civilizzato, perché, non solo conosce le
lingue viventi, ma anche quelle morte dell'Europa. Egli dunque deve
esprimersi in uno stile composito, adatto alla linea lungo la quale cammina,
tra società e natura. Ciò mi è stato di grande utilità, potendolo far parlare da
selvaggio nella descrizione dei costumi, e da europeo nel dramma e nella
narrazione.
Senza di ciò avrei dovuto rinunciare all'opera: se mi fossi sempre servito
di uno stile indiano, Atala sarebbe stato ebraico per il lettore.
Quanto al missionario, mi è sembrato di capire che quelli che fino ad ora
hanno voluto rappresentare un prete, ne hanno fatto o uno scellerato
fanatico, o una specie di filosofo. Padre Aubry non è nulla di tutto ciò. È un
semplice cristiano che parla senza arrossire della croce, del sangue del suo
divino maestro, della corruzione della carne, ecc., in una parola, è un prete.
So che è difficile tratteggiare un simile carattere agli occhi di certa gente,
senza toccare il ridicolo. Se non avessi commosso, avrei fatto ridere: agli
altri il giudizio.
Dopo tutto, se si esamina ciò che ho fatto entrare in un quadro così
piccolo, se si considera che non c'è una sola circostanza interessante delle
abitudini dei selvaggi che io non abbia toccato, non un solo bell'effetto della
natura, non un luogo bello della Nuova Francia che non abbia descritto; se
si osserva come accanto al ritratto di un popolo di cacciatori io abbia messo
quello completo di un popolo contadino, per mostrare i vantaggi della vita
sociale su quella selvaggia; se si pone attenzione alle difficoltà a cui sono
andato incontro nel tener vivo l'interesse drammatico tra due soli
personaggi, sullo sfondo di tutto un lungo affresco di costumi, e di
numerose descrizioni di paesaggi; se si nota infine che anche nella
catastrofe ho rinunciato ad ogni soccorso, sforzandomi di riuscire, come gli
antichi, solo con la forza del dialogo: queste considerazioni potrebbero forse
valermi un po' d'indulgenza da parte del lettore. Ancora una volta, non mi
vanto di essere riuscito; ma si deve sempre essere grati a uno scrittore che si
sforza di ricondurre la letteratura al gusto antico, oggigiorno troppo
dimenticato.
Mi resta ancora una cosa da dire; non so per quale motivo, una mia lettera
indirizzata al cittadino Fontanes, ha eccitato l'attenzione del pubblico più di
quanto mi aspettassi. Pensavo che poche righe di un autore sconosciuto
sarebbero passate senza che qualcuno se ne accorgesse; mi sono sbagliato. I
giornali hanno voluto parlare di questa lettera, e mi è stato fatto l'onore di
scrivermi personalmente, e di scrivere ai miei amici, pagine di complimenti
e d'ingiurie. Benché mi sia stupito più delle prime che delle ultime, ritenevo
di non aver meritato né le une, né le altre. Riflettendo poi su questo
capriccio del pubblico, che ha posto attenzione a una cosa di così poco
valore, ho pensato che ciò potesse derivare dal titolo della mia grande
opera: Genio del Cristianesimo, ecc. Forse qualcuno ha potuto pensare che
si trattasse di una faccenda politica, e che io, in questo libro, avrei parlato
molto male della rivoluzione e dei filosofi.
Oggi, sotto un governo che non vieta alcuna opinione pacifica, è
certamente permesso prendere le difese del Cristianesimo, come soggetto
morale e letterario. C'è stato un tempo in cui solo gli avversari di questa
religione avevano il diritto di parlare. Ora siamo in lizza, e chi pensa che il
Cristianesimo sia poetico e morale, può dirlo a voce alta, così come i
filosofi possono sostenere il contrario. Oso credere che se la grande opera
che ho intrapreso, e che non tarderà ad uscire, fosse stata trattata da una
mano più abile della mia, la disputa sarebbe decisa una volta per tutte.
Comunque, sento il dovere di dichiarare che nel Genio del Cristianesimo
non si parla della rivoluzione; e che non parlo frequentemente se non di
autori morti; per quanto riguarda gli autori viventi che vi si trovano
nominati, non avranno motivo di dolersene: in genere mi sono trattenuto
entro limiti che, secondo ogni probabilità, non verranno rispettati nei miei
confronti.
Mi hanno detto che la celebre donna, la cui opera costituiva il soggetto
della mia lettera, si è lamentata di un passo di questa. Mi sarà concesso
osservare che non sono stato certo io il primo ad usare l'arma che mi si
rimprovera, e che mi è odiosa. Io non ho fatto che respingere il colpo
portato ad un uomo di cui mi vanto d'ammirare i talenti, e la cui persona
amo affettuosamente. Ma, nell'offesa, sono andato troppo lontano; che sia
dato dunque per cancellato quel passaggio. D'altra parte, quando si possiede
l'esistenza brillante e i bei talenti di Madame de Staël, si dimenticano
facilmente le piccole ferite che ci possono fare un uomo isolato e ignoto,
quale io sono.
Per spendere un'ultima parola su Atala: se, per un progetto di alta politica,
il governo francese pensasse un giorno di rivendicare il Canada
all'Inghilterra, la mia descrizione della Nuova Francia prenderebbe un
nuovo interesse. Infine, il soggetto di Atala non è tutta invenzione mia;
risulta che ci fu un selvaggio nelle galere e alla corte di Luigi XIV; risulta
che un missionario francese fece le cose che ho riferito; è certo che io ho
incontrato dei selvaggi che si portavano dietro le ossa dei loro avi, e una
giovane madre che esponeva il corpo del figlio sui rami di un albero; anche
altre circostanze sono vere: ma, non essendo d'interesse generale, ritengo
inutile parlarne.
AVVERTENZA ALLA TERZA EDIZIONE (1801)
Ho tratto profitto da tutte le critiche per rendere questa piccola opera
maggiormente degna dei successi ottenuti. Ho avuto la fortuna di vedere che
la vera filosofia e la vera religione sono un'identica cosa; infatti persone
molto autorevoli, che pure non hanno le mie idee sul Cristianesimo, sono
state le prime a decretare la fortuna di Atala. Questa constatazione da sola
risponde a quelli che vorrebbero far credere che la moda di questo apologo
indiano, sia una faccenda politica. Per questo io sono stato amaramente, per
non dire grossolanamente, censurato; si è arrivati al punto da volgere in
ridicolo questa apostrofe agli Indiani:
Sfortunati Indiani che ho visto errare per i deserti del Nuovo Mondo, con
le ceneri dei vostri avi, voi che mi avreste dato ospitalità malgrado la vostra
miseria, oggi io non potrei restituirvela, perché, come voi, erro alla mercé
degli uomini; ma io, meno fortunato di voi nel mio esilio, non ho potuto
portare con me le ossa dei miei padri.
Il rimprovero del critico cade proprio su quest'ultima frase. Le ceneri
della mia famiglia, confuse con quelle del Signor de Malesherbes; sei anni
d'esilio e di sventure, non gli hanno suggerito che spiritosaggini. Non debba
mai rimpiangere la tomba dei padri!
Del resto, è facile conciliare i giudizi diversi formulati su Atala: quelli che
mi hanno biasimato non hanno pensato che al mio talento; quelli che mi
hanno lodato, non hanno pensato che alle mie sventure.
P.S.
Apprendo ora che a Parigi è stata appena scoperta una contraffazione
delle due prime edizioni di Atala, e che molte altre vengono fatte a Nancy e
a Strasburgo. Spero che il pubblico vorrà acquistare questa piccola opera
solo da Migneret e presso l'antica Libreria di Dupont.
AVVERTENZA ALLA QUARTA EDIZIONE (1801)
Da qualche tempo sono apparse nuove critiche su Atala. Non ho potuto
metterle a profitto in questa quarta edizione. I suggerimenti che ho avuto
l'onore di ricevere esigevano troppi cambiamenti, e il pubblico sembra
essersi ora abituato a questa piccola opera, con tutti i suoi difetti. Questa
quarta edizione è dunque perfettamente simile alla terza. Ho solo ristabilito,
in qualche punto, il testo delle due prime.
PREFAZIONE A ATALA (1805)
L'indulgenza con cui si sono volute accogliere benevolmente le mie
opere, mi ha imposto come norma di obbedire al gusto del pubblico, e di
cedere ai consigli della critica.
Quanto al primo, ho messo ogni cura nel soddisfarlo. Persone incaricate
di educare la gioventù, hanno espresso il desiderio di un'edizione del Genio
del Cristianesimo che fosse spogliata di questa parte dell'Apologia destinata
unicamente alla gente di mondo: malgrado la naturale ripugnanza a mutilare
la mia opera, e nell'esclusiva considerazione della pubblica utilità, ho
pubblicato il compendio che si attendeva da me.
Un altro tipo di lettori chiedeva un'edizione separata dei due episodi
dell'opera: si tratta dell'edizione odierna.
Dirò ora ciò che ho fatto in relazione alla critica.
Per il Genio del Cristianesimo mi sono ispirato a idee differenti da quelle
che ho adottato per gli episodi.
Prima di tutto mi è sembrato che, per rispetto verso quelli che hanno
acquistato le prime edizioni, io non dovevo introdurre, almeno per adesso,
nessun cambiamento notevole in un libro così caro come il Genio del
Cristianesimo. L'amor proprio e l'interesse non mi sono sembrate ragioni
sufficienti, neppure in un secolo come questo, per mancare di sensibilità.
In secondo luogo, non è trascorso abbastanza tempo dalla pubblicazione
del Genio del Cristianesimo, perché mi siano perfettamente chiari i difetti di
un'opera di questa estensione. In una folla di opinioni contraddittorie dove
troverei la verità? Uno vanta il soggetto a spese dello stile; l'altro approva lo
stile e disapprova il soggetto. Se, da una parte, mi si assicura che il Genio
del Cristianesimo è un monumento che resterà sempre memorabile per la
mano che lo costruì, e per gli inizi del XIX secolo, dall'altra, ci si è affrettati
ad avvertirmi, uno o due mesi dopo la pubblicazione dell'opera, che le
critiche erano in ritardo, poiché l'opera era già stata dimenticata.
So bene che un amor proprio più forte del mio troverebbe forse qualche
motivo di speranza per rassicurarsi riguardo a quest'ultima affermazione. Le
edizioni del Genio del Cristianesimo si moltiplicano, malgrado le
circostanze che hanno tolto alla causa da me difesa l'interesse urgente della
sventura.
L'opera, se non presumo, sembra perfino crescere nella stima
dell'opinione pubblica quanto più invecchia, e sembra che vi si cominci a
vedere qualcosa di diverso da un'opera di pura immaginazione. Ma Dio non
voglia che io abbia la pretesa di persuadere dei miei deboli meriti coloro
che, senza dubbio, hanno buone ragioni per non credervi. Al di fuori della
religione e dell'onore, ho troppo poca stima delle cose del mondo, per non
sottoscrivere gli appunti della critica più esigente. Sono così poco accecato
dal successo, e così lontano dal ritenere qualche elogio un definitivo
giudizio in mio favore, che non ho ritenuto di dover dare l'ultima mano alla
mia opera. Aspetterò ancora, così da lasciare tempo ai pregiudizi di
calmarsi, e allo spirito di parte di spegnersi; solo allora l'opinione che si sarà
formata sul mio libro sarà certamente quella vera; saprò ciò che occorrerà al
Genio del Cristianesimo per renderlo conforme a come vorrei lasciarlo dopo
di me, qualora mi sopravviva.
Ma, se ho resistito alle critiche dirette contro l'opera nella sua totalità, per
i motivi appena esposti, riguardo a Atala, preso separatamente, ho seguito
un sistema del tutto opposto. Nel correggerlo non ho potuto essere frenato
né dalle considerazioni sul prezzo del libro, né da quelle sulla lunghezza
dell'opera. Pochi anni sono stati più che sufficienti per farmi conoscere i
punti deboli o difettosi di questo episodio. Docile su questo punto alla
critica, fino a farmi rimproverare per troppa arrendevolezza, ho dimostrato a
quelli che mi attaccavano che non sono mai volontariamente in errore, e che
sempre e in qualsiasi circostanza sono pronto a cedere a ragioni più sensate
delle mie. Atala è stata ripubblicata undici volte: cinque volte
separatamente, e sei nel Genio del Cristianesimo; se si confrontassero
queste undici edizioni, difficilmente se ne troverebbero due del tutto
identiche.
La dodicesima, che pubblico oggi, è stata rivista con la massima cura. Ho
consultato amici pronti a censurarmi; ho pesato ogni frase, esaminato le
singole parole. Lo stile, sbarazzato dagli epiteti che lo appesantivano,
cammina forse con maggior scioltezza e semplicità. Ho messo più ordine e
consequenzialità in qualche idea; ho fatto scomparire le minime scorrettezze
di lingua. Il Signor de La Harpe, riguardo a Atala, mi diceva: Se volete
ritirarvi con me solo per qualche ora, questo tempo sarà sufficiente a
cancellare le macchie che fanno strillare i vostri censori. Ho trascorso
quattro anni a rivedere questo episodio, e ora è tale quale deve rimanere. È
la sola Atala che riconoscerò per il futuro.
Vi sono tuttavia dei punti su cui non ho ceduto interamente alla critica.
Si è voluto che alcuni dei sentimenti espressi da padre Aubry
racchiudessero una dottrina desolante. Si è rimasti sconcertati, ad esempio,
per questo passaggio (quanta sensibilità c'è al giorno d'oggi!):
Ma che dico? (O vanità delle vanità!) Cosa raccontare della forza delle
amicizie terrene? Vuoi, figlia cara, conoscerne l'estensione? Se un uomo
tornasse alla luce qualche anno dopo la sua morte, dubito che lo
rivedrebbero con gioia, persino quelli che più hanno sparso lacrime sul suo
ricordo: con tanta rapidità si formano nuovi legami, così facilmente si
prendono altre abitudini, tanto è connaturata all'uomo l'incostanza, tanto
poco vale la nostra vita anche nel cuore dei nostri amici!
Non si tratta di sapere se questo sentimento sia penoso da confessare, ma
se è vero e fondato sulla comune esperienza. Sarebbe difficile non
convenirne.
Non sono certo i Francesi che possono vantarsi di non dimenticare niente.
Senza parlare dei morti, di cui non ci si ricorda affatto, quanti vivi sono
tornati alle loro famiglie e non vi hanno trovato che oblio, cattivo umore e
ripulsa! Dunque, in cosa consiste qui lo scopo di padre Aubry? Non è forse
quello di togliere a Atala ogni rimpianto per un'esistenza a cui ha voluto
strapparsi volontariamente, e a cui vorrebbe invano fare ritorno? Per questo
motivo, il missionario, pur esagerando davanti alla sventurata i mali della
vita, non fa che compiere un atto d'umanità. Ma non è necessario ricorrere a
questa spiegazione. Padre Aubry esprime un concetto sfortunatamente
anche troppo vero. Se non si deve calunniare la natura umana, è però del
tutto inutile vederla migliore di quello che in effetti è.
Lo stesso critico, l'abate Morellet, si è sollevato anche contro quest'altro
pensiero, ritenendolo falso e paradossale:
Credimi, figlio mio, nessun dolore è eterno; prima o poi finisce, perché il
cuore dell'uomo è finito; è una delle nostri grandi miserie: non siamo
neppure capaci di essere troppo a lungo infelici.
Il critico pretende che questa sorta d'incapacità dell'uomo nei confronti
del dolore sia, al contrario, una delle grandi fortune della vita. Potrei
rispondergli che, se questa riflessione fosse vera, essa distruggerebbe
l'osservazione che egli ha fatto sul primo passaggio del discorso di padre
Aubry. In effetti ciò vorrebbe dire, da una parte, che non ci si dimentica mai
degli amici; ma dall'altra, che si è molto contenti di non pensarvi più. Farò
osservare soltanto come quell'abile grammatico mi sembri qui confondere le
parole. Io non ho detto: È una delle nostre grandi sfortune; cosa che sarebbe
senza dubbio falsa; ma: È una delle nostre grandi miserie, e questo è
verissimo. Eh! Chi non avverte che questa incapacità, in cui si trova il cuore
umano, di nutrire per lungo tempo un sentimento, fosse anche quello del
dolore, è la prova più completa della sua sterilità, della sua indigenza, della
sua miseria? L'abate Morellet sembra farne, con molta ragione, un infinito
caso di buon senso, di giudizio, di naturalezza. Ma è sempre in grado di
osservare nella pratica la teoria che professa? Sarebbe davvero singolare che
le sue idee ottimiste sull'uomo e sulla vita, mi fornissero il diritto di
sospettarlo, a mia volta, di trasferire nei suoi sentimenti l'esaltazione e le
illusioni della giovinezza.
La nuova natura e i nuovi costumi che ho descritto mi sono valsi anche un
altro rimprovero poco meditato. Si è pensato che io inventassi dettagli
straordinari, là dove mi rifacevo semplicemente a cose conosciute da tutti i
viaggiatori. Alcune note aggiunte a questa edizione di Atala mi avrebbero
facilmente reso giustizia; ma se avessi dovuto metterne in tutti i punti in cui
il lettore poteva averne bisogno, esse avrebbero certo superato la lunghezza
dell'opera. Ho dunque rinunciato a fare delle note. Mi accontenterò qui di
trascrivere un passaggio della Difesa del Genio del Cristianesimo. Si tratta
degli orsi ebbri di uva, che i miei dotti censori avevano preso per una
stranezza della mia immaginazione. Dopo aver citato autorità rispettabili e
la testimonianza di Carver, Bartram, Imley, Charlevoix, aggiungo: Quando
in un autore si trova una circostanza che di per sé non è bella, ma che serve
per dare verosimiglianza alla rappresentazione; se questo autore ha in
qualche modo mostrato del buon senso, sarebbe molto naturale supporre che
quella circostanza non se l'è inventata, e che non ha fatto altro che riportare
un fatto reale, anche se non molto noto. Niente impedisce che si giudichi
Atala un cattivo lavoro, ma posso affermare che la natura americana vi è
dipinta con l'esattezza più scrupolosa. È un atto di giustizia che le rendono
tutti i viaggiatori che hanno visitato la Louisiana e la Florida. Le due
traduzioni inglesi di Atala sono arrivate in America; i giornali ne hanno
annunciata, inoltre, una terza, pubblicata con successo a Filadelfia; se i
paesaggi di questa storia avessero mancato di verità, avrebbero forse potuto
essere accolti da un popolo che, ad ogni passo, poteva dire: Quelli non sono
i nostri fiumi, le nostre montagne, le nostre foreste? Atala ha fatto ritorno
nel deserto, e sembra che la sua patria l'abbia riconosciuta come autentica
figlia della solitudine.
René, che nella presente edizione accompagna Atala, non era ancora stato
stampato separatamente. Non so se continuerà a ottenere la preferenza che
molte persone gli concedono rispetto a Atala. È la naturale continuazione di
quell'episodio, da cui differisce, tuttavia, per stile e tono. Si tratta in realtà
degli stessi luoghi e degli stessi personaggi, ma i costumi sono diversi e
sentimenti e idee appartengono a un'altra temperie. Come prefazione, vorrei
ancora citare quei passaggi del Genio del Cristianesimo e della Difesa, che
si riferiscono a René.
Estratto dal Genio del Cristianesimo, parte II, libro III, cap. IX, intitolato:
L'indeterminatezza delle Passioni.
Resta da parlare di una condizione dell'anima che, ci sembra, non è
ancora ben stata osservata: è quella che precede lo sviluppo delle grandi
passioni, quando tutte le facoltà, giovani, attive, intatte ma inespresse, non
si sono esercitate che su di sé, senza uno scopo e senza oggetto. Più i popoli
progrediscono
nella
civilizzazione,
più
questa
condizione
d'indeterminatezza delle passioni aumenta; capita allora un fatto davvero
triste: il gran numero d'esempi che si hanno sotto gli occhi, la quantità di
libri che trattano dell'uomo e dei suoi sentimenti, rendono capaci, ma senza
esperienza. Ci si sente disincantati senza aver gioito; ci sono ancora
desideri, ma non si hanno più illusioni. L'immaginazione è ricca,
abbondantemente meravigliosa, l'esistenza povera, secca e disillusa.
Abitiamo, con il cuore gonfio, in un mondo vuoto; e senza aver pratica di
nulla, si è disgustati di tutto.
È incredibile l'amarezza che questo stato d'animo diffonde nella vita; il
cuore si rigira e si ripiega in cento modi, per impiegare delle forze che sente
essergli inutili. Gli Antichi hanno conosciuto poco questa segreta
inquietudine, questa acredine di passioni soffocate che fermentano tutte
insieme: una grande vitalità politica, i giochi del ginnasio e del campo di
Marte, gli affari del foro e della pubblica piazza, riempivano ogni loro
momento, senza lasciare alcun posto al tedio del cuore.
D'altra parte essi non erano inclini alle esagerazioni, alle speranze, ai
timori privi d'oggetto, alla instabilità delle idee e dei sentimenti, alla
perpetua incostanza, che non è che un costante disgusto: attitudini che noi
acquisiamo nell'intima frequentazione delle donne. Le donne, presso i
popoli moderni, indipendentemente dalle passioni che ispirano, esercitano
influenza anche su tutti gli altri sentimenti. Nel loro esistere esse
manifestano un certo abbandono, che poi ci trasmettono; rendono meno
deciso il nostro carattere d'uomini; e le nostre passioni, rese molli dalla
confusione con le loro, assumono un po' di quella irresoluta tenerezza.
Infine, i Greci e i Romani, non riuscendo ad estendere i loro sguardi al di
là della vita, e non sospettando piaceri più perfetti di quelli di questo
mondo, non erano portati, come noi, dal carattere della loro religione, alle
fantasticherie e al desiderio. È soprattutto nel Genio del Cristianesimo che
bisogna cercare la ragione di quella indeterminatezza dei sentimenti,
frequente tra gli uomini moderni. Concepita per le nostre miserie e per i
nostri bisogni, la religione cristiana ci offre incessantemente la
rappresentazione dei dolori terreni e delle gioie celesti, e in questo modo
essa ci ha messo nel cuore la sorgente dei mali presenti e di lontane
speranze, da cui sgorgano inesauribili fantasticherie. Il cristiano si pensa
sempre come un viaggiatore di passaggio quaggiù, in una valle di lacrime, il
cui riposo può essere solo la tomba. Non è il mondo l'oggetto dei suoi voti,
perché egli sa che l'uomo ha pochi giorni da vivere, e che questo oggetto gli
sfuggirebbe velocemente.
Le persecuzioni che misero alla prova i primi fedeli accrebbero in essi
questo disgusto per le cose della vita. L'invasione dei Barbari fece
raggiungere il colmo, e lo spirito umano ricevette un'impronta di tristezza, e
forse anche una lieve sfumatura di misantropia, che non si è mai
completamente cancellata. Sorsero dovunque dei conventi, dove si
ritirarono i disgraziati ingannati dal mondo, o le anime che preferivano
ignorare certi sentimenti della vita, piuttosto che esporsi a vederli
crudelmente traditi. Il frutto di quella vita monastica fu una melanconia
prodigiosa; e questo sentimento, di natura un po' confusa, unendosi a tutti
gli altri, impresse loro il suo carattere d'incertezza. Ma al tempo stesso, per
un effetto davvero notevole, quella medesima indeterminatezza in cui la
melanconia immerge i sentimenti, è ciò che la fa rinascere; perché essa si
genera in mezzo alle passioni, quando queste passioni, prive d'oggetto,
consumano se stesse all'interno di un cuore solitario.
Sarebbe sufficiente aggiungere qualche sventura a questo stato indefinito
delle passioni, perché possa servire da sfondo a un dramma ammirevole. È
incredibile che gli scrittori moderni non abbiano ancora pensato a
rappresentare questa singolare condizione dell'anima. Dal momento che ci
mancano gli esempi, ci sarà permesso dare ai lettori un episodio come
Atala, estratto dai nostri vecchi Natchez? Si tratta della vita di quel giovane
René, a cui Chactas ha raccontato la sua storia. Si tratta, per così dire, di un
pensiero; è la raffigurazione dell'indeterminatezza delle passioni, non
mischiata ad alcuna avventura, tranne una grande sventura inviata per
punire René, e per spaventare quei giovani che, abbandonandosi ad inutili
fantasticherie, si sottraggono criminalmente ai doveri della società.
L'episodio serve anche a provare la necessità del rifugio del chiostro per
certe calamità della vita, che se fossero private della protezione della
religione, porterebbero alla disperazione e alla morte. Così, il doppio fine
della nostra opera, che consiste nel far vedere come il Genio del
Cristianesimo abbia modificato le arti, la morale, l'intelligenza, il carattere,
e persino le passioni dei popoli moderni, e di mostrare quale previdente
saggezza abbia diretto le istituzioni cristiane; questo doppio fine, dicevamo,
si trova egualmente realizzato nella storia di René.
Estratto dalla Difesa del Genio del Cristianesimo:
È già stata fatta notare l'affettuosa sollecitudine dei critici per la purezza
della religione; era dunque lecito attendersi che essi si formalizzassero sui
due racconti che l'autore ha introdotto nel suo libro. La particolare obiezione
rientra nell'obiezione più grande che essi hanno fatto a tutta l'opera, e viene
dunque demolita dalla risposta generale che le è stata data precedentemente.
Per l'ultima volta, l'autore ha dovuto combattere poemi e romanzi empi, con
poemi e romanzi devoti; egli ha indossato le medesime armi di cui era
rivestito il nemico: è la naturale e necessaria conseguenza del genere
apologetico che aveva scelto. Egli ha cercato di dare insieme l'esempio e il
precetto. Nella parte teorica del suo lavoro, egli aveva detto che la religione
abbellisce la nostra esistenza, corregge le passioni senza spegnerle, dona un
interesse singolare a tutti i soggetti a cui si applica; egli aveva detto che la
sua dottrina e il suo culto si accordano meravigliosamente alle emozioni del
cuore e ai paesaggi della natura; che essa è, infine, la sola risorsa nei grandi
mali della vita; ma non era ancora sufficiente dire tutto ciò, bisognava anche
provarlo. È quanto l'autore ha tentato di fare nei due racconti del suo libro.
Gli episodi erano inoltre un'esca preparata per il tipo di lettori in vista dei
quali l'opera era scritta. L'autore aveva dunque conosciuto così male il cuore
umano, quando aveva teso quella trappola innocente agli increduli? E non è
forse probabile che quel tale lettore non avrebbe mai aperto il Genio del
Cristianesimo, se non vi avesse cercato René e Atala?
Sai che là corre il mondo, ove più versi
Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
E che 'l vero, condito in molli versi,
I più schivi allettando ha persuaso.
Tutto quello che un critico imparziale, che volesse entrare nello spirito
dell'opera, era in diritto d'esigere dall'autore, è che gli episodi dell'opera
avessero un'evidente tendenza a far amare la religione e a dimostrarne
l'utilità. Ora, la necessità dei chiostri per certe disgrazie della vita, e proprio
per quelle che sono le più grandi, la forza di una religione che è la sola a
poter richiudere le piaghe che tutti i balsami della terra non saprebbero
guarire, non sono forse definitivamente provati dalla storia di René?
L'autore vi combatte inoltre la particolare malattia dei giovani di questo
secolo, la malattia che conduce direttamente al suicidio. È stato J.-J.
Rousseau a introdurre per primo in mezzo a noi queste fantasticherie così
disastrosamente colpevoli. Isolandosi dagli uomini, abbandonandosi ai
sogni, egli ha fatto credere a una folla di giovani che è bello gettarsi così
nell'indeterminatezza della vita. Il romanzo di Werther ha quindi sviluppato
questo germe velenoso. L'autore del Genio del Cristianesimo, costretto a far
entrare nel quadro della sua apologia qualche descrizione adatta
all'immaginazione, ha voluto denunciare questa specie di nuovo vizio, e
dipingere le funeste conseguenze dell'amore eccessivo per la solitudine. Un
tempo i conventi offrivano un rifugio a quelle anime contemplative che la
natura chiama imperiosamente alla meditazione. Esse vi trovavano, accanto
a Dio, di che riempire il vuoto che sentivano in se stesse, e spesso
l'occasione di esercitare virtù rare e sublimi. Ma dopo la distruzione dei
monasteri e il progredire dell'incredulità, ci si deve attendere una
moltiplicazione in seno alla società (com'è accaduto in Inghilterra) di una
specie di solitari, appassionati e filosofi, che non potendo rinunciare ai vizi
del secolo, né riuscendo ad amarlo, confonderanno l'odio degli uomini con
l'altezza del genio, rinunceranno ad ogni dovere umano e divino, si
nutriranno, in disparte, con le più vane chimere, e affonderanno sempre di
più in una misantropia orgogliosa che li condurrà alla follia, o alla morte.
Allo scopo di ispirare una maggior ripulsa per queste criminali
fantasticherie, l'autore ha pensato di dover prendere la punizione di René dal
cerchio di quelle spaventose disgrazie che appartengono meno all'individuo
che alla famiglia umana, e che gli Antichi attribuivano alla fatalità. L'autore
avrebbe scelto il soggetto di Fedra, se non fosse già stato trattato da Racine.
Non rimanevano che quelli di Europa e di Tieste presso i Greci, o di Amnon
e Thamar presso gli Ebrei; ma, per quanto sia già stato portato sulle nostre
scene, esso è tuttavia meno noto di quello di Fedra. Può anche darsi che si
accordi meglio al carattere che l'autore ha voluto raffigurare. In effetti, le
folli fantasticherie di René danno inizio al male, e le sue stravaganze lo
colmano: con le prime, egli confonde l'immaginazione di una donna debole;
con le ultime, volendo attentare ai suoi giorni, egli costringe la sventurata a
ricongiungersi con lui; così la disgrazia nasce dal soggetto, e la punizione
viene dalla colpa.
Non restava che santificare, per mezzo del Cristianesimo, quella
catastrofe presa in prestito sia dall'antichità pagana, che da quella sacra.
Ma anche allora l'autore non dovette fare tutto; perché trovò questa storia,
quasi resa cristiana, in una vecchia ballata di Pélerin, che i contadini
cantano ancora in molte province. La moralità di un'opera non deve essere
giudicata dalle sentenze che vi si trovano sparse, ma dall'impressione che
lascia in fondo all'anima. Ora, quella specie di spaventoso mistero che regna
nell'episodio di René, stringe e rattrista il cuore senza eccitarvi alcun
sentimento criminale. Non bisogna perdere di vista che Amelia muore felice
e guarita, e che René finisce miseramente. Così, il vero colpevole è punito,
mentre la sua troppo debole vittima, rimettendo l'anima ferita tra le mani di
chi rivolta il malato nel suo giaciglio, sente rinascere dal fondo stesso delle
tristezze del suo cuore una gioia ineffabile. Del resto, il discorso di padre
Souël non lascia alcun dubbio sul fine e sulla moralità religiosa della storia
di René.
Dal capitolo appena citato del Genio del Cristianesimo, si vede quale tipo
di nuova passione io abbia tentato di rappresentare; e, dall'estratto della
Difesa, quale vizio non ancora combattuto io abbia voluto contrastare.
Aggiungerò che, per quanto riguarda lo stile, René è stato rivisto con uno
scrupolo pari a quello di Atala, e che ha ricevuto quel grado di perfezione
che sono capace di dargli.
PROLOGO
Un tempo la Francia possedeva nell'America settentrionale un vasto
impero, che si estendeva dal Labrador fino alla Florida, e dalle rive
dell'Atlantico fino ai più remoti laghi dell'Alto Canada.
Quelle immense regioni erano divise da quattro grandi fiumi con le
sorgenti nelle medesime montagne: il fiume San Lorenzo, che si perde a est
nel golfo omonimo; il corso d'acqua occidentale, che porta le sue correnti
verso mari sconosciuti; il fiume Bourbon che si precipita da mezzogiorno a
nord nella baia di Hudson, e il Meschacebé che scende da nord a sud nel
golfo del Messico.
Quest'ultimo fiume, lungo un corso di oltre mille leghe, bagna una
deliziosa contrada che gli abitanti degli Stati Uniti chiamano nuovo Eden, e
a cui i Francesi hanno lasciato il dolce nome di Louisiana. Mille altri fiumi,
tributari del Meschacebé, il Missouri, l'Illinois, l'Akanza, l'Ohio, il
Wabache, il Tenase, l'ingrassano con il loro limo e la rendono fertile con le
loro acque. Quando tutti quei fiumi sono gonfi per i diluvi invernali, quando
le tempeste hanno abbattuto intere distese di foreste, gli alberi sradicati si
ammucchiano alle sorgenti. Ben presto il fango li cementa, le liane li
incatenano, e le piante che vi mettono radici da ogni parte finiscono di
consolidare quelle rovine. Trasportati dalle onde schiumeggianti scendono
nel Meschacebé. Il fiume se ne impadronisce, le spinge verso il golfo del
Messico, facendole arenare sui banchi di sabbia e aumentando così il
numero dei suoi sbocchi alla foce. A tratti ingrossa la voce passando sotto le
montagne, e deborda le acque invadendo i colonnati delle foreste e le
piramidi delle tombe indiane; è il Nilo dei deserti. Ma negli scenari naturali
alla magnificenza è sempre unita la grazia: mentre al centro della corrente i
cadaveri dei pini e delle querce vengono trascinati verso il mare, si vedono
sulle correnti laterali le isole fluttuanti delle pistiadi e delle ninfee che
risalgono lungo le sponde, con le rose gialle svettanti come piccole
bandiere. Verdi serpenti, aironi azzurri, fenicotteri rosa, giovani coccodrilli
s'imbarcano come passeggeri su quei vascelli floreali, e la colonia,
spiegando al vento le sue vele d'oro, approderà addormentata a qualche ansa
nascosta del fiume.
Le due rive del Meschacebé presentano il più straordinario dei quadri.
Sulla costa occidentale si distende a perdita d'occhio la savana; l'onda
delle sue verzure, allontanandosi, sembra salire nell'azzurro del cielo, dove
svanisce. In queste praterie sconfinate si vedono errare alla ventura mandrie
di tre o quattromila bufali selvaggi. Capita che un bisonte carico d'anni,
fendendo i flutti a nuoto, vada a coricarsi tra l'erba alta di un'isola del
Meschacebé. Dalla sua fronte ornata di corna, dalla sua barba antica e
limacciosa, lo prendereste per il dio del fiume che getta uno sguardo
soddisfatto sulle sue ampie onde, e sulla selvaggia abbondanza delle sue
rive.
Questo è lo scenario della riva occidentale; ma dall'altra parte cambia,
dando luogo a uno stupefacente contrasto. Sospesi sul corso delle acque,
aggruppati sugli scogli e sulle montagne, dispersi nelle valli, alberi d'ogni
forma, d'ogni colore, d'ogni profumo, si mescolano, crescono insieme,
salgono nell'aria ad altezze che mettono alla prova gli occhi. Le viti
selvatiche, le bignonie, le coloquintidi, s'intrecciano ai piedi degli alberi,
danno la scalata ai loro ramoscelli, si arrampicano fino all'estremità dei
rami, si lanciano dall'acero alla tulipifera, dalla tulipifera all'alcea, creando
mille grotte, mille volte, mille portici. Spesso perdendosi d'albero in albero
queste liane attraversano bracci di fiume, su cui gettano ponti di fiori. Dal
seno di quelle macchie la magnolia innalza il suo cono immobile; coronata
da larghe rose bianche, domina tutta la foresta, e non ha rivali al di fuori
della palma, che le oscilla lievemente accanto i suoi ventagli vegetali.
Una moltitudine d'animali, che la mano del Creatore ha messo in quei
recessi, vi diffondono le meraviglie della vita. Dall'estremità dei viali si
scorgono orsi ebbri d'uva che barcollano sui rami dei giovani olmi; i caribù
si bagnano in un lago; neri scoiattoli giocano nel folto del fogliame; tordi
beffeggiatori, colombe della Virginia grandi come passeri, scendono sui
prati rossi di fragole; verdi pappagalli dalla testa gialla, picchi imporporati,
cardinali di fuoco, si arrampicano girando sulla cima dei cipressi; colibrì
luccicano sul gelsomino della Florida, serpenti uccellatori fischiano appesi
alle cupole dei boschi, lasciandosi oscillare come liane.
Se nelle savane dall'altra parte del fiume tutto è silenzio e riposo, qui, al
contrario, tutto è movimento e mormorio: colpi di becco sul tronco delle
querce, fruscio d'animali in cammino che brucano o frantumano tra i denti i
noccioli dei frutti, lo stormire delle onde, deboli gemiti, sordi muggiti, un
dolce tubare riempiono questi luoghi deserti di una tenera e selvaggia
armonia. Ma quando una brezza viene ad animare quelle solitudini, a
dondolare quei corpi fluttuanti, a confondere le masse bianche, azzurre,
verdi, rosa, mischiando tutti i colori, riunendo tutti i mormorii, allora escono
dal fondo delle foreste certi rumori, scorrono davanti agli occhi cose tali,
che invano tenterei di descriverle a quelli che non hanno percorso i campi
primordiali della natura.
Dopo la scoperta del Meschacebé da parte di padre Marquette e dello
sfortunato La Salle, i primi francesi che si stabilirono a Biloxi e a Nuova
Orléans, strinsero alleanza con la nazione indiana dei Natchez, potente e
temibile in quelle contrade. Liti e gelosie insanguinarono in seguito la terra
dell'ospitalità. C'era tra quei selvaggi un vecchio chiamato Chactas che, per
età, saggezza, e conoscenza delle cose della vita, era il patriarca e il
prediletto dei deserti. Come tutti gli uomini, egli aveva acquistato la virtù a
prezzo della sventura. Non solo le foreste del Nuovo Mondo furono piene
delle sue disgrazie, egli le portò perfino sulle coste della Francia.
Trattenuto nelle prigioni di Marsiglia per una crudele ingiustizia, reso alla
libertà, presentato a Luigi XIV, aveva conversato con i grandi uomini di
quel secolo e assistito alle feste di Versailles, alle tragedie di Racine, alle
orazioni funebri di Bossuet: in una parola, quel selvaggio aveva potuto
contemplare la società nel suo massimo splendore.
Rientrato in seno alla patria dopo molti anni, Chactas si godeva il riposo.
Il cielo tuttavia gli faceva pagar caro questo favore; il vecchio era diventato
cieco. Una giovane l'accompagnava sulle coste del Meschacebé, come
Antigone che guidava i passi di Edipo sul Citerone, o come Malvina che
conduceva Ossian sugli scogli di Morven.
Malgrado le numerose ingiustizie subite da Chactas ad opera dei Francesi,
egli li amava. Si ricordava sempre di Fénelon, di cui era stato ospite, e
desiderava rendere qualche servigio ai compatrioti di quell'uomo virtuoso.
Finché se ne presentò un'occasione favorevole. Nel 1725 arrivò in
Louisiana, spinto da passioni e disgrazie, un francese di nome René. Egli
risalì il Meschacebé fino ai Natchez, e domandò a quella nazione di essere
accolto come guerriero. Chactas, dopo averlo interrogato, trovandolo
irremovibile nella sua decisione, l'adottò come figlio e gli diede in sposa
un'indiana, di nome Céluta. Poco tempo dopo il matrimonio, i selvaggi si
prepararono per la caccia al castoro.
Chactas, benché cieco, viene designato dal consiglio dei Sachem per
comandare la spedizione, in virtù del rispetto che le tribù indiane gli
portavano. Iniziano preghiere e digiuni: gli Stregoni interpretano i sogni; si
consultano i Manitù; si compiono sacrifici di tabacco; si bruciano filetti di
lingua d'alce e per scoprire la volontà dei Geni si scruta se scoppiettano tra
le fiamme; alla fine si parte, dopo aver mangiato il cane sacro. René è del
gruppo. Con l'aiuto delle controcorrenti le piroghe risalgono il Meschacebé
ed entrano nel letto dell'Ohio. È autunno. Agli occhi stupiti del giovane
francese si distendono i magnifici deserti del Kentucky. Una notte, al
chiarore della luna, mentre tutti i Natchez dormono sul fondo delle loro
piroghe, e la flotta indiana, levando le vele di pelle animale, fugge davanti a
una lieve brezza, René, rimasto solo con Chactas, gli chiede di raccontargli
le sue avventure. Il vecchio acconsente a soddisfarlo e, seduto con lui sulla
poppa della piroga, inizia con queste parole:
IL RACCONTO
I cacciatori
È ben singolare, figlio mio, il destino che ci riunisce. Io vedo in te l'uomo
civilizzato che si è fatto selvaggio; tu vedi in me l'uomo selvaggio che il
grande Spirito (ignoro per quale disegno) ha voluto civilizzare. Giunti
entrambi nel cammino della vita dai due lati opposti, tu sei venuto a
riposarti al mio posto, e io andai a sedermi al tuo: così abbiamo avuto una
prospettiva del tutto diversa delle cose. Chi tra noi due ha guadagnato o
perso di più in questo cambio di posizioni? Solo i Geni lo sanno, il più
ignorante dei quali ha più saggezza di tutti gli uomini messi insieme.
Alla prossima luna dei fiori saranno trascorse settanta nevi più tre da
quando mia madre mi ha messo al mondo, sulle rive del Meschacebé. Gli
spagnoli si erano stabiliti da poco nella baia di Pensacola, ma nessun bianco
abitava ancora la Louisiana. Vantavo appena diciassette cadute di foglie,
quando marciai con mio padre, il guerriero Outalissi, contro i Muscogulgi,
la potente nazione della Florida. Raggiungemmo gli Spagnoli, nostri alleati,
e demmo battaglia su una delle branche della Maubile. Areskui e i Manitù
non ci furono favorevoli. I nemici trionfarono; mio padre perse la vita; nel
difenderlo io venni ferito due volte. Oh! Perché non scesi allora nel paese
delle anime, avrei evitato le sventure che mi attendevano sulla terra! Gli
Spiriti disposero altrimenti: fui trascinato dai fuggiaschi a Sant'Agostino.
In quella città, ricostruita dagli Spagnoli, correvo il rischio di essere
portato nelle miniere del Messico, quando un vecchio castigliano, di nome
Lopez, commosso dalla mia giovinezza e dalla mia semplicità, mi offrì
asilo, presentandomi a una sorella con cui, non essendo sposato, viveva.
Tutti e due nutrirono per me i sentimenti più teneri. Mi allevarono con
molto scrupolo, dandomi ogni tipo di maestri. Ma dopo trenta lune trascorse
a Sant'Agostino, fui preso dall'avversione per la vita di città. Deperivo a
vista d'occhio: a volte rimanevo immobile per ore a contemplare le cime di
lontane foreste; oppure mi trovavano seduto sulla riva di un fiume, mentre
lo guardavo scorrere tristemente. Mi raffiguravo i boschi che l'onda aveva
attraversato, e la mia anima era interamente immersa nella solitudine.
Non riuscendo più a resistere al desiderio di tornare nel deserto, un
mattino mi presentai a Lopez, con i miei indumenti da selvaggio, tenendo in
una mano l'arco e le frecce, e nell'altra i miei abiti europei. Li restituii al
mio generoso protettore, cadendogli ai piedi e versando torrenti di lacrime.
Mi coprii con i peggiori insulti, mi accusai d'ingratitudine: Ma infine, gli
dissi, padre mio, tu lo vedi: se non riprendo a vivere da indiano, morirò.
Lopez, sconvolto, volle distogliermi dal mio progetto. Mi illustrò i
pericoli che avrei corso, rischiando di cadere di nuovo tra le mani dei
Muscogulgi. Ma, vedendo che ero risoluto ad andare fino in fondo,
sciogliendosi in lacrime e stringendomi tra le braccia, esclamò: Va', figlio
della natura! Riprenditi la tua indipendenza d'uomo, non sarà certo Lopez a
portartela via. Se fossi stato più giovane, ti avrei accompagnato nel deserto
(dove anch'io ho dolci ricordi!) per riconsegnarti nelle braccia di tua madre.
Quando sarai nelle tue foreste, pensa qualche volta a questo vecchio
spagnolo che ti diede ospitalità, e ricorda che la prima esperienza che hai
fatto del cuore umano è stata tutta a suo vantaggio.
Lopez terminò con una preghiera rivolta al Dio dei cristiani, di cui avevo
rifiutato di abbracciare il culto, e ci lasciammo tra i singhiozzi.
Non passò molto tempo che fui punito della mia ingratitudine.
L'inesperienza mi fece smarrire tra i boschi, così venni catturato da un
gruppo di Muscogulgi e di Seminole, come aveva predetto Lopez. Dai
vestiti e dalle piume che mi ornavano la testa riconobbero in me un Natché.
Mi legarono ma, per riguardo alla mia giovinezza, in modo leggero.
Simaghan, il capo della banda, volle sapere il mio nome. Risposi: Mi
chiamo Chactas, figlio di Outalissi, figlio di Miscou, che hanno tolto più di
cento scalpi agli eroi Muscogulgi. Simaghan mi disse: Chactas, figlio di
Outalissi, figlio di Miscou, rallegrati; sarai bruciato nel grande villaggio. Io
ribattei: Benissimo, e intonai il mio canto di morte.
Per quanto fossi prigioniero, durante i primi giorni non potei impedirmi di
ammirare i miei nemici. Il Muscogulge, e soprattutto il Seminole suo
alleato, traspira allegria, amore, contentezza. La sua andatura è leggera, si
rivela aperto e sereno. Parla molto ed è volubile; ha una lingua armoniosa e
facile. Neppure l'età può togliere ai Sachem quella gioiosa semplicità: come
i vecchi uccelli dei nostri boschi, essi uniscono ancora le loro vecchie
canzoni ai nuovi motivi della gioventù.
Le donne che accompagnavano il gruppo dimostravano una tenera pietà e
una curiosità amabile per la mia giovinezza. Mi interrogavano su mia
madre, sui miei primi giorni di vita; volevano sapere se la mia culla di
muschio fosse sospesa ai rami fioriti degli aceri, se mi cullavano le brezze,
accanto al nido degli uccellini. Facevano inoltre mille altre domande sul
mio cuore: mi chiedevano se avessi visto in sogno una cerva bianca, e se gli
alberi della valle segreta mi avevano suggerito di amare. Alle madri, alle
figlie e alle spose di quegli uomini, rispondevo candidamente. Dicevo loro:
Voi siete le grazie del giorno, e la notte vi ama come la rugiada. L'uomo
esce dal vostro seno per attaccarsi alla vostra mammella e alla vostra bocca;
voi conoscete le parole magiche che fanno addormentare tutti i dolori. Ecco
ciò che mi ha detto colei che mi ha messo al mondo e non mi rivedrà più!
Mi ha detto anche che le vergini sono fiori misteriosi che si trovano nei
luoghi solitari.
Queste lodi facevano molto piacere alle donne; mi colmavano d'ogni tipo
di doni; mi portavano crema di noce, zucchero d'acero, sagamité, prosciutti
d'orso, pelli di castoro, conchiglie per agghindarmi e muschio per il mio
giaciglio. Cantavano, ridevano con me, e poi iniziavano a versare lacrime,
quando pensavano che sarei stato bruciato.
Una notte che i Muscogulgi avevano sistemato il loro accampamento ai
bordi di una foresta, io ero seduto accanto al fuoco della guerra, con il
cacciatore incaricato di sorvegliarmi. Ad un tratto udii il fruscio di un abito
sull'erba, e una donna, per metà velata, venne a sedermisi vicino.
Lacrime scendevano dalle sue palpebre; al bagliore del fuoco un piccolo
crocifisso d'oro brillava sul suo seno. La sua bellezza era armoniosa;
appariva sul volto qualcosa di virtuoso e appassionato, che attraeva in modo
irresistibile. Univa a ciò una grazia tenerissima; un'estrema sensibilità e una
melanconia profonda trasparivano dai suoi sguardi; aveva un sorriso
celestiale.
Pensai che fosse la Vergine degli ultimi amori, la vergine che si manda al
prigioniero di guerra come incantesimo per la sua tomba. Convinto di ciò,
balbettando, e con un turbamento che non veniva certo dalla paura del rogo,
le dissi: Vergine, voi siete degna del primo, non dell'ultimo amore. I
movimenti di un cuore che tra poco cesserà di battere, risponderebbero male
ai movimenti del vostro. Come si può confondere la morte con la vita? Mi
fareste rimpiangere troppo il giorno. Che un altro sia più fortunato di me,
che lunghi abbracci congiungano la liana alla quercia!
Allora la giovane mi disse: Io non sono affatto la Vergine degli ultimi
amori. Sei cristiano? Risposi che non avevo tradito i Geni del mio focolare.
A queste parole l'indiana ebbe un sussulto involontario. Mi disse: Ti
compiango per la tua miserabile idolatria. Mia madre mi ha fatto cristiana;
mi chiamo Atala, figlia di Simaghan dai bracciali d'oro, e capo dei guerrieri
di questa banda. Ci rechiamo a Apalachucla, dove sarai bruciato.
Pronunciando queste parole, Atala si alza e si allontana.
Qui Chactas fu costretto a interrompere il suo racconto. La folla dei
ricordi si accalcò nella sua anima; quegli occhi spenti inondarono di lacrime
le guance avvizzite: così due sorgenti nascoste nella profonda notte della
terra si rivelano per via delle acque che lasciano filtrare tra le rocce.
Figlio mio, continuò poi, come vedi Chactas è ben poco saggio, malgrado
la sua fama di saggezza. Ahimè, caro ragazzo, anche quando gli uomini non
possono più vedere, essi possono ancora piangere! Trascorsero parecchi
giorni; la figlia del Sachem tornava da me ogni sera per parlarmi. Il sonno
era fuggito dai miei occhi, e Atala occupava il mio cuore come il ricordo del
talamo paterno.
Il diciassettesimo giorno di marcia, al tempo in cui l'efemera esce dalle
acque, entrammo nella grande savana Alachua. Essa è circondata da colli
che, in fuga gli uni dietro gli altri, portano, innalzandosi fino alle nuvole,
foreste digradanti di copaive, limoni, magnolie e querce verdi. Il capo diede
il segnale che erano arrivati, e la banda si accampò ai piedi delle colline.
Mi relegarono un po' distante, ai bordi di uno di quei Pozzi naturali, così
famosi in Florida. Ero legato ai piedi di un albero, un guerriero vigilava
impaziente accanto a me. Avevo trascorso solo qualche istante in quel
luogo, quando, da sotto i liquidambar della fontana, mi apparve Atala.
Cacciatore, disse all'eroe Muscogulge, se tu vuoi inseguire il capriolo, io
farò la guardia al prigioniero. Il guerriero, alle parole della figlia del capo,
fece un salto di gioia; si slancia dalla sommità della collina e allunga i suoi
passi nella pianura.
Strana contraddizione del cuore umano! Proprio io, che avevo tanto
desiderato dire cose ineffabili a quella che già amavo come il sole, ora ero
interdetto e confuso, e credo che avrei preferito essere gettato ai coccodrilli
della fontana, piuttosto che trovarmi solo così con Atala. La figlia del
deserto era turbata come il suo prigioniero; rispettavamo un profondo
silenzio; i Geni dell'amore ci avevano derubato della parola. Alla fine Atala,
con uno sforzo, disse: Guerriero, la tua prigionia è ben leggera; puoi
facilmente scappare. A quelle parole mi tornò il coraggio sulla lingua, e
risposi: Una prigionia leggera, o donna ...! Non seppi come concludere.
Atala esitò qualche istante; poi disse: Salvati. E mi liberò dal tronco
dell'albero.
Io afferrai la corda, la rimisi in mano a quella fanciulla straniera,
costringendo le sue belle dita a chiudersi sulla catena. Riprendila!
Riprendila!, gridai. Sei pazzo, disse Atala con voce commossa.
Disgraziato!
Non sai che ti bruceranno? Che vuoi? Non sai che io sono la figlia di un
temibile Sachem? Un tempo, replicai tra le lacrime, anch'io fui portato nella
pelle di castoro, sulle spalle di mia madre. Anche mio padre aveva una bella
capanna, e i suoi caprioli si abbeveravano all'acqua di mille torrenti; ma ora
vago senza patria. Quando non ci sarò più, nessun amico metterà un po'
d'erba sul mio corpo, per proteggerlo dalle mosche. Il corpo di uno straniero
sfortunato non interessa a nessuno.
Quelle parole impietosirono Atala. Le sue lacrime caddero nella fontana.
Ah!, continuai con slancio. Se il tuo cuore parlasse come il mio! Non è
libero il deserto? Non ci sono recessi nelle foreste dove potremmo
nasconderci? Ci vuole poi tanto, ai figli delle capanne, per essere felici? O
fanciulla più bella del primo sogno dello sposo! O mia amata! Abbi il
coraggio di seguire i miei passi. Così parlai. Atala mi rispose con voce
dolce: Giovane amico, tu hai imparato a parlare come i bianchi, è facile
ingannare un'indiana. Come!, esclamai. Mi chiami giovane amico! Ah! Se
un povero schiavo .... Sì!, disse chinandosi su me. Un povero schiavo .... Io
continuai con foga: Giuralo con un bacio! Atala ascoltò la mia preghiera.
Come il cerbiatto che sembra pendere dai fiori delle rosee liane, che egli
afferra con la sua lingua delicata tra le scarpate della montagna, così io
rimasi sospeso alle labbra dell'amata.
Ahimè! Figlio mio, il dolore è assai vicino al piacere. Chi avrebbe potuto
pensare che il momento in cui Atala mi dava il primo pegno del suo amore,
sarebbe stato anche quello che avrebbe distrutto le mie speranze?
Bianchi capelli del vecchio Chactas, quale fu il vostro stupore quando la
figlia del Sachem pronunciò queste parole! Bel prigioniero, la follia mi ha
fatto cedere al tuo desiderio; ma dove ci condurrà la passione? La mia
religione mi separa da te per sempre... O madre mia! Cosa hai fatto?... Atala
tacque improvvisamente, e si trattenne dal lasciarsi sfuggire non so quale
fatale segreto dalle labbra. Le sue parole mi immersero nella disperazione.
Ebbene!, esclamai. Sarò crudele quanto te; non fuggirò. Mi vedrai avvolto
nel fuoco; udrai i gemiti della mia carne, e ne proverai piacere. Atala afferrò
le mie mani tra le sue. Povero giovane idolatra, esclamò. Mi fai davvero
pietà!
Vuoi dunque che pianga con tutto il mio cuore? Che peccato che io non
possa fuggire con te! Il ventre di tua madre è stato sventurato, o Atala!
Perché non ti getti in pasto ai coccodrilli della fontana!
Proprio in quel momento i coccodrilli, all'avvicinarsi del tramonto,
iniziavano a far sentire i loro ruggiti. Atala mi disse: Lasciamo questo
luogo. Trascinai la figlia di Simaghan ai piedi delle colline che formavano
golfi di verzura, spingendo i loro promontori fin nella savana. Tutto nel
deserto era calmo e superbo. La cicogna gridava dal suo nido, i boschi
risuonavano del canto monotono delle quaglie, del fischio dei pappagalli,
del muggito dei bisonti e del nitrito delle giumente seminole.
La nostra passeggiata fu quasi senza parole. Camminavo a fianco di
Atala; teneva un capo della corda che l'avevo costretta a riprendersi. A volte
piangevamo; a volte ci sforzavamo di sorridere. Ora uno sguardo levato al
cielo, o fisso a terra, l'orecchio intento al canto degli uccelli, un gesto verso
il sole che tramontava, la dolce stretta di una mano, il seno di volta in volta
ansioso o tranquillo, i nomi di Chactas e di Atala teneramente ripetuti ogni
tanto... Oh! Prima passeggiata d'amore, bisogna che il tuo ricordo sia ben
forte perché, dopo tanti anni di disgrazie, tu possa ancora agitare il cuore del
vecchio Chactas!
Come sono incomprensibili i mortali in preda alle passioni! Avevo
appena abbandonato il generoso Lopez, mi ero esposto a ogni tipo di
pericoli per essere libero; in un istante lo sguardo di una donna aveva
mutato le mie inclinazioni, le mie decisioni, i miei pensieri! Dimenticando
la patria, mia madre, la mia capanna e la spaventosa morte che mi
attendeva, ero diventato indifferente a tutto quanto non fosse Atala!
Incapace di elevarmi alla ragionevolezza dell'uomo, ero improvvisamente
ricaduto in una specie d'infanzia; e lungi dal poter fare qualcosa per
sottrarmi ai mali che mi attendevano, avrei quasi avuto bisogno che
qualcuno si occupasse del mio sonno e del mio nutrimento!
Fu dunque invano che Atala, dopo i nostri giri nella savana, gettandosi
alle mie ginocchia, m'invitò di nuovo a lasciarla. Le assicurai che, se si
fosse rifiutata di legarmi al mio albero, sarei tornato da solo al campo. Fu
costretta ad accondiscendere, nella speranza di convincermi un'altra volta.
Il giorno seguente a questo, che decise il destino della mia vita, ci
fermammo in una valle non lontano da Cuscowilla, capitale dei Seminole.
Questi Indiani, insieme ai Muscogulgi, formano la confederazione dei
Creeks. La figlia del paese delle palme venne a trovarmi nel mezzo della
notte. Mi condusse in una grande foresta di pini e rinnovò le preghiere per
convincermi a fuggire. Senza risponderle, le presi la mano e costrinsi quella
cerva tremante a vagabondare con me nella foresta. Era una notte deliziosa.
Il Genio dell'aria scuoteva la sua capigliatura turchina, che odorava di pino,
e si respirava il lieve profumo d'ambra che emanavano i coccodrilli coricati
sotto i tamarindi dei fiumi. La luna brillava in mezzo a un azzurro
immacolato, e il suo chiarore perlaceo scendeva sulla cima indistinta delle
foreste. Non si udiva alcun rumore, al di fuori di quella vaga e lontana
armonia che regnava nella profondità dei boschi: si sarebbe detto che
l'anima stessa della solitudine sospirasse in tutta l'estensione di quei luoghi
deserti.
Attraverso gli alberi scorgemmo un giovane che, con in mano una
fiaccola, assomigliava al Genio della primavera che percorresse le foreste
per rianimare la natura. Si trattava di un innamorato che andava alla
capanna dell'amata per conoscere la propria sorte.
Se la vergine spegne la fiaccola, essa accetta le promesse; se prende il
velo senza spegnerla, essa respinge lo sposo.
Il guerriero, scivolando nell'ombra, cantava sottovoce queste parole:
Precederò i passi del giorno sulla cima delle montagne, per cercare la
mia colomba solitaria tra le querce della foresta.
Ho appeso al suo collo una collana di porcellane; sono visibili tre grani
rossi per il mio amore, tre viola per i miei timori, tre azzurri per le mie
speranze.
Mila ha gli occhi di un ermellino e la capigliatura leggera di un campo
di riso; la sua bocca è una conchiglia rosa, ornata di perle; i suoi seni
sono
come due capretti immacolati, nati lo stesso giorno dalla stessa madre.
Che
Mila spenga questa fiaccola! Che la sua bocca vi versi un'ombra di
voluttà!
Renderò fertile il suo seno.
La speranza della patria penderà dalla sua feconda mammella, e io
fumerò
il calumet della pace sulla culla di mio figlio!
Ah! Lasciate che io preceda i passi del giorno sulla cima delle
montagne,
per cercare la mia colomba solitaria tra le querce della foresta!
Così cantava il giovane, con accenti che turbarono fino in fondo la mia
anima, alterando il viso di Atala. Le nostre mani congiunte fremettero una
nell'altra. Ma fummo distratti da quello spettacolo, a causa di un altro non
meno pericoloso per noi.
Passammo accanto alla tomba di un bambino, che serviva da confine tra
le due nazioni. L'avevano messa sul bordo del sentiero, secondo gli usi, così
che le giovani donne potessero attirare al loro seno l'anima di quella
creatura innocente, per restituirla alla patria. In quel momento c'erano delle
spose novelle che, desiderando le dolcezze della maternità, cercavano,
schiudendo le labbra, di raccogliere l'anima del piccolo, che credevano di
veder errare sui fiori. Quindi venne la madre vera, per deporre sulla tomba
un mazzo di granturco e di gigli bianchi. Bagnò la terra con il suo latte, si
sedette sull'erba umida, e con voce commossa parlò al suo bambino: Perché
piangerti nella tua culla di terra, o mio neonato? Quando l'uccellino diventa
grande deve cercarsi il nutrimento, e nel deserto trova semi amari. Tu
almeno non hai conosciuto le lacrime; il tuo cuore non è stato esposto
all'insaziabile respiro degli uomini. Anche la gemma che secca nel suo
involucro, passa con tutti i suoi profumi, come te, figlio mio! Con tutta la
tua innocenza.
Fortunati quelli che muoiono nella culla, che hanno conosciuto solo i baci
e i sorrisi di una madre!
Già prostrati dal nostro cuore, fummo schiacciati da quelle immagini
d'amore e di maternità, che sembravano inseguirci in quelle solitudini
incantate. Portai via Atala, tenendola tra le mie braccia, in fondo alla
foresta, e le dissi cose che invano oggi cercherei sulle mie labbra. Il vento
del sud, mio caro figlio, passando sui ghiacciai perde calore. I ricordi
d'amore nel cuore di un vecchio sono come il fuoco del giorno riflesso dalla
flebile sfera della luna, quando il sole è tramontato e scende il silenzio sulle
capanne dei selvaggi.
Chi poteva salvare Atala? Chi poteva impedirle di soccombere alla
natura?
Solo un miracolo, senza dubbio; e questo miracolo accadde! La figlia di
Simaghan ricorse al Dio dei cristiani; si gettò a terra e pronunciò
un'appassionata preghiera, rivolta a sua madre e alla Regina delle Vergini.
Da quel momento, o René, compresi la meraviglia di questa religione che,
nelle foreste, in mezzo a tutte le privazioni della vita, può colmare di mille
doni gli sfortunati; una religione che, opponendo il suo potere al torrente
delle passioni, è in grado di vincerle da sola, proprio quando tutto è loro
favorevole, la segretezza dei boschi, e l'assenza degli uomini, e la fedeltà
delle ombre. Ah! Come mi apparve divina quella semplice selvaggia,
l'ignorante Atala, che in ginocchio davanti a un vecchio pino caduto, come
fosse ai piedi di un altare, offriva al suo Dio i voti per un amante idolatra! I
suoi occhi alzati verso l'astro notturno, le sue guance che brillavano per le
lacrime della religione e dell'amore, erano di una bellezza immortale. Più di
una volta credetti che prendesse il volo verso il cielo; più di una volta pensai
di veder scendere sui raggi della luna e udire tra i rami degli alberi quegli
Spiriti che il Dio dei cristiani invia agli eremiti delle rocce quando si
appresta a richiamarli presso di sé. Ne fui afflitto, perché temetti che a Atala
rimanesse poco tempo da trascorrere sulla terra.
Tuttavia versò tante lacrime e si mostrò così addolorata che avrei forse
acconsentito ad allontanarmi, quando un grido di morte risuonò nella
foresta.
Quattro uomini armati si precipitano su me: eravamo stati scoperti; il capo
dei guerrieri aveva dato l'ordine di inseguirci.
Atala, che per l'orgoglio del portamento sembrava una regina, non si
degnò di parlare ai guerrieri. Lanciò loro uno sguardo superbo e si recò da
Simaghan.
Non ottenne nulla. Raddoppiarono i miei carcerieri, moltiplicarono le
catene, allontanarono la mia innamorata. Dopo cinque notti scorgiamo
Apalachucla, posta in riva al fiume Chata-Uche. Subito mi mettono una
corona di fiori; mi attaccano perle al naso e alle orecchie e mi mettono in
mano un chichikoué.
Così bardato per il sacrificio, entro in Apalachucla, tra le ripetute grida
della folla. La mia vita era finita, quando a un tratto si udì un rumore di
conchiglia, e il Mico, o capo della nazione, ordina un'adunata.
Tu conosci, figlio mio, quali tormenti i selvaggi fanno subire ai
prigionieri di guerra. I missionari cristiani, a rischio della vita, e con
infaticabile carità, erano riusciti, presso molte nazioni, a far sostituire una
forma abbastanza mite di schiavitù agli orrori del rogo. Ma i Muscogulgi
non avevano ancora adottato quell'usanza; anche se una parte consistente si
era espressa a suo favore. Il Mico convocava i Sachem per pronunciarsi su
questa importante decisione. Fui condotto nel luogo dove si doveva
deliberare.
Poco lontano da Apalachucla si elevava, su un poggio isolato, il
padiglione del consiglio. Tre cerchi di colonne formavano l'elegante
architettura di quella rotonda. Le colonne erano di cipresso levigato e
scolpito; quanto più si avvicinavano al centro, segnato da un unico pilastro,
esse crescevano d'altezza e di spessore, diminuendo di numero. Dalla cima
di quel pilastro partivano strisce di scorza che, passando sulla cima delle
altre colonne, coprivano il padiglione come un ventaglio da giorno.
Il consiglio si riunisce. Cinquanta anziani, con il mantello di castoro, si
sistemano su una specie di gradini davanti alla porta del padiglione. Il gran
capo è seduto in mezzo a loro, con in mano il calumet della pace, colorato
per metà con i colori della guerra. Alla destra degli anziani si mettono
cinquanta donne coperte con una veste di piume di cigno. I capi dei
guerrieri, tomahawk alla mano, le penne sulla testa, le braccia e il petto
dipinti col sangue, si mettono a sinistra.
Ai piedi della colonna centrale arde il fuoco del consiglio. Il primo
stregone, circondato da otto guardiani del tempio, vestito di lunghi abiti e
con un gufo impagliato sulla testa, versa del balsamo di copaive sulla
fiamma e offre un sacrificio al sole. La triplice fila di anziani, matrone e
guerrieri, quei sacerdoti, quelle nuvole d'incenso, il sacrificio, tutto serve
per conferire al consiglio un aspetto imponente.
Io stavo in piedi, incatenato in mezzo all'assemblea. Terminato il
sacrificio, il Mico prende la parola ed espone con semplicità la questione
per cui il consiglio si raduna. Egli getta una collana azzurra nella sala, a
testimonianza di ciò che ha detto.
Allora si alza un Sachem della tribù dell'Aquila, e dice:
O Mico, padre mio, Sachem, matrone, guerrieri delle quattro tribù
dell'Aquila, del Castoro, del Serpente e della Tartaruga, non cambiamo in
nulla i costumi dei nostri avi; bruciamo il prigioniero senza infiacchire il
nostro coraggio. Quella che vi propongono è un'usanza dei bianchi, non può
essere che dannosa. Date la collana rossa che contiene le mie parole. Ho
detto.
E getta una collana rossa nell'assemblea.
Si alza una matrona e dice:
Aquila, padre mio, voi avete l'intelligenza della volpe e la prudente
lentezza di una tartaruga. Insieme a voi io voglio levigare la catena
dell'amicizia, e insieme pianteremo l'albero della pace. Ma cambiamo i
costumi dei nostri avi in ciò che hanno di funesto. Avremo schiavi per
coltivare i nostri campi, e non udremo più le grida del prigioniero che
inquietano il seno delle madri. Ho detto.
Il consiglio si agitava e mormorava come i flutti del mare che si frangono
durante una tempesta, come le foglie secche che il turbine in autunno si
porta via, come i giunchi del Meschacebé quando si piegano e si rialzano
durante un'improvvisa inondazione, come una grande mandria di cervi che
bramisce dal fondo di una foresta. Uno alla volta, o tutti insieme, parlano i
Sachem, i guerrieri, le matrone. Gli interessi si urtano, le opinioni si
dividono, il consiglio sta per dissolversi; ma alla fine la spunta l'antica
consuetudine, e io sono condannato al rogo.
Il mio supplizio venne ritardato da una circostanza; si avvicinava la Festa
dei morti o Festino delle anime. È consuetudine di non far morire nessun
prigioniero durante i giorni consacrati a quella cerimonia. Mi affidarono a
una guardia severa; e senza dubbio i Sachem allontanarono la figlia di
Simaghan, perché non la rividi più.
Nel frattempo arrivarono in folla nazioni da più di trecento leghe
tutt'intorno, per celebrare il Festino delle anime. Avevano costruito in un
luogo appartato una lunga capanna. Nel giorno stabilito, ogni capanna
esumò i resti dei padri dalle tombe individuali, e gli scheletri vennero
appesi, in ordine di rango e di famiglia, ai muri della Sala comune degli avi.
Mentre gli anziani delle diverse nazioni concludevano tra loro trattati di
pace e d'alleanza sulle ossa dei padri, fuori muggivano i venti (si era alzata
una tempesta), le foreste e le cateratte.
Si disputano i giochi funebri, la corsa, la palla, gli aliossi. Due vergini
cercano di strapparsi una bacchetta di salice. I capezzoli dei loro seni si
toccano, le mani volteggiano sulla bacchetta che tengono alta sulle teste. I
loro bei piedi nudi s'intrecciano, le bocche s'incontrano, si confondono i
dolci respiri; si chinano, mescolando i capelli; guardano le madri,
arrossiscono: vengono applaudite. Lo stregone invoca Michabou, genio
delle acque. Egli racconta le guerre del grande Lepre contro Matchimanitu,
dio del male. Parla del primo uomo e di Atahensic, la prima donna,
precipitati dal cielo per aver perso l'innocenza; della terra rossa di sangue
fraterno, perché l'empio Jouskeka ha immolato il giusto Tahouistsaron;
parla del diluvio che è sceso dalla voce del grande Spirito e di Massou, che
si è salvato da solo nella sua canoa di scorza, e del corvo inviato a scoprire
la terra; parla anche della bella Endaé, sottratta alla contrada delle anime
dalle dolci canzoni del suo sposo.
Dopo i giochi e i canti, si apprestano a dare eterna sepoltura agli avi.
Sulle rive del fiume Chata-Uche c'era un fico selvatico, consacrato dal
culto dei popoli. C'era l'usanza per le vergini di lavare le loro vesti di
corteccia in quel luogo, e di esporle al vento del deserto, sui rami di
quell'albero antico. In quel punto era stata scavata una tomba immensa. Si
parte dalla sala funebre, cantando l'inno alla morte; ogni famiglia porta
qualche reliquia sacra. Si arriva alla tomba; si calano le reliquie; le si stende
a strati; si separano con pelli d'orso e di castoro; il cumulo della tomba si
alza, e sopra vi piantano l'Albero delle lacrime e del sonno.
Compiangiamo gli uomini, mio caro figlio! Quegli stessi indiani, dai
costumi così commoventi; quelle donne che mi avevano testimoniato un
interesse così tenero, ora chiedevano con grandi grida il mio supplizio; e
intere nazioni ritardavano la loro partenza per avere il piacere di vedere un
giovane uomo soffrire tormenti spaventosi.
In una valle del nord, a qualche distanza dal grande villaggio, si levava un
bosco di cipressi e di abeti, chiamato il Bosco del sangue. Vi si arrivava
attraverso le rovine di uno di quei monumenti di cui s'ignora l'origine, e che
sono opera di un popolo ora sconosciuto. Al centro del bosco si estendeva
un'arena dove venivano sacrificati i prigionieri di guerra. Mi ci condussero
in trionfo. Prepararono ogni cosa per la mia morte: piantano il palo
d'Areskoui; cadono sotto la scure pini, olmi, cipressi; il rogo si alza; gli
spettatori costruiscono anfiteatri con rami e tronchi d'alberi. Ognuno inventa
un supplizio: uno propone di strapparmi la pelle dal cranio, l'altro di
bruciarmi gli occhi con asce ardenti. Io intono il mio canto di morte.
Non temo i tormenti: io sono coraggioso, o Muscogulgi, io vi sfido! Vi
disprezzo più delle donne. Mio padre Outalissi, figlio di Miscou, ha bevuto
nel cranio dei vostri guerrieri più famosi; non strapperete un solo sospiro dal
mio cuore.
Provocato dal mio canto, un guerriero mi colpisce il braccio con una
freccia; io dico: Ti ringrazio, fratello.
Malgrado l'attività dei carnefici, i preparativi del supplizio non poterono
essere terminati prima del tramonto. Lo stregone, consultato, proibì di
disturbare i Geni delle ombre, e la mia morte fu ancora sospesa fino
all'indomani. Ma nell'impazienza di godersi lo spettacolo, e per essere già
pronti al levarsi del sole, gli indiani non abbandonarono il Bosco del
sangue; accesero grandi fuochi e diedero inizio ai banchetti e alle danze.
Intanto mi avevano disteso sul dorso. Le corde che partivano dal mio
collo, dai piedi, dalle braccia, erano fissate a paletti conficcati nel terreno.
Alcuni guerrieri stavano coricati sulle corde, così che non potevo fare un
movimento senza che se ne accorgessero. È notte inoltrata: poco alla volta
canti e danze finiscono; i fuochi non emanano che bagliori rossastri, davanti
a cui passa l'ombra di qualche selvaggio; tutto si addormenta; quanto più si
affievolisce il rumore degli uomini, di tanto cresce quello del deserto, e al
tumultuare delle voci si sostituisce il lamento del vento nella foresta.
Era l'ora in cui la giovane indiana che è appena diventata madre si sveglia
con un soprassalto nel cuore della notte, perché le è sembrato di udire le
grida del suo primogenito che chiede il dolce nutrimento. Gli occhi fissi al
cielo, dove la falce di luna errava tra le nubi, io riflettevo sul mio destino.
Atala mi sembrava un mostro d'ingratitudine. Abbandonarmi nel momento
del supplizio, proprio me che mi ero consegnato alle fiamme piuttosto che
abbandonarla! E tuttavia sentivo di amarla sempre, e che sarei morto con
gioia per lei.
Nei piaceri supremi c'è un pungiglione che ci sveglia, come per avvertirci
di approfittare di quell'attimo fuggente; nei grandi dolori, al contrario, c'è
qualcosa di pesante che ci addormenta; gli occhi affaticati dalle lacrime
cercano naturalmente di chiudersi, così, anche nelle nostre disgrazie, la
bontà della Provvidenza ha modo di farsi notare. Cedevo, malgrado me, a
quel sonno pesante di cui, a volte, godono i miserabili.
Sognavo che mi toglievano le catene; mi sembrava di provare quel
sollievo che si avverte quando, dopo essere stati stretti a forza, una mano
pietosa allenta i ferri.
Quella sensazione divenne così vivace da farmi sollevare le palpebre. Al
chiarore della luna, un raggio della quale sfuggiva tra due nuvole, intravidi
una grande figura bianca china su me, intenta a sciogliere in silenzio i miei
lacci. Stavo per lanciare un grido, quando una mano, che riconobbi subito,
mi chiuse la bocca. Rimaneva una sola corda, ma sembrava impossibile
tagliarla senza urtare un guerriero che la copriva tutta intera con il suo
corpo. Atala allunga una mano, il guerriero si risveglia a metà, alzandosi a
sedere. Atala rimane immobile, e lo guarda. L'indiano crede di vedere lo
Spirito delle rovine; si corica di nuovo, chiudendo gli occhi e invocando il
suo Manitù. Il laccio è spezzato. Io mi alzo; seguo la mia liberatrice che mi
tende un capo dell'arco, di cui tiene in mano l'altra estremità. Ma quanti
pericoli ci circondano! A volte rischiamo di urtare i selvaggi che dormono;
a volte una guardia ci interroga, e Atala risponde cambiando voce. Dei
bambini gridano, cani abbaiano. Siamo appena usciti dal funesto recinto che
urla scuotono la foresta. L'accampamento si risveglia, mille fuochi vengono
accesi; si vedono accorrere da ogni parte selvaggi con le fiaccole;
affrettiamo la corsa.
Quando l'aurora si levò sugli Apalachi, noi eravamo già lontani. Quale fu
la mia felicità quando mi trovai ancora una volta solo con Atala, con Atala
la mia liberatrice, con Atala che si dava a me per sempre! La mia lingua non
seppe trovare le parole, caddi in ginocchio, e dissi alla figlia di Simaghan:
Sono ben poca cosa gli uomini; ma quando i Geni li visitano, allora non
sono nulla del tutto. Tu sei un Genio, mi hai fatto visita, e io non posso
parlare davanti a te. Atala mi tese la mano con un sorriso: È necessario che
ti segua, poiché non vuoi fuggire senza me. Questa notte ho corrotto lo
stregone con regali, ho ubriacato i tuoi carnefici con essenza di fuoco, e ho
dovuto rischiare la mia vita per te, dal momento che tu hai rischiato la tua
per me.
Sì, giovane idolatra, aggiunse con un tono che mi spaventò, il sacrificio
sarà reciproco.
Atala mi diede le armi che si era preoccupata di portare; in seguito mi
medicò la ferita. Asciugandola con una foglia di papaia, la bagnò di lacrime.
Questo è un balsamo, le dissi, che spargi sulla mia piaga. Temo piuttosto
che sia un veleno, mi rispose. Strappò una benda dal seno e ne fece una
prima compressa, che fermò con un ricciolo dei suoi capelli.
L'ebbrezza, che presso i selvaggi dura a lungo e che rappresenta per loro
una specie di malattia, impedì d'inseguirci nei primi giorni. Se in seguito ci
cercarono è probabile che fosse verso ovest, essendo convinti che avremmo
tentato di raggiungere il Meschacebé; ma noi ci eravamo diretti verso la
stella immobile, orientandoci con il muschio sui tronchi degli alberi.
Non tardammo ad accorgerci che non avevamo guadagnato molto con la
mia liberazione. Ora il deserto stendeva davanti a noi le sue smisurate
solitudini. Senza esperienza della vita delle foreste, sviati dal nostro vero
cammino, e andando alla ventura, che sarebbe stato di noi? Spesso,
guardando Atala, mi ricordavo l'antica storia di Agar, che Lopez mi aveva
fatto leggere, che era arrivata nel deserto di Bersabea, molto tempo fa,
quando gli uomini vivevano tre volte l'età delle querce.
Atala mi fece un mantello con il secondo strato di scorza del frassino,
poiché ero quasi nudo. Mi intrecciò dei mocassini in pelle di topo muschiato
con pelo di porcospino. Mi occupai a mia volta del suo abbigliamento. Ora
le mettevo sulla testa una corona di quelle malve azzurre che trovavamo per
strada, nei cimiteri indiani abbandonati; ora le facevo delle collane con
chicchi rossi d'azalea; e poi mi mettevo a sorridere, contemplando la sua
meravigliosa bellezza.
Quando incontravamo un fiume, lo attraversavamo con una zattera o a
nuoto. Atala mi appoggiava una mano sulla spalla, e fendevamo la
solitudine di quelle acque come due cigni viaggiatori.
Spesso, nella grande calura del giorno, cercavamo riparo sotto il muschio
dei cedri. Quasi tutti gli alberi della Florida, e in particolare il cedro e la
quercia verde, sono ricoperti da un muschio bianco che scende dai rami fino
a terra. Quando di notte, al chiaro di luna, scorgete nella nudità della savana
un leccio solitario rivestito di quei drappeggi, vi sembra di vedere un
fantasma che si trascina i suoi lunghi veli. In pieno giorno la scena non è
meno pittoresca; perché uno stuolo di farfalle, di mosche luccicanti, di
colibrì, di pappagalli verdi, di ghiandaie dell'azzurro, vanno ad impigliarsi
su quel muschio che appare allora come una tappezzeria di lana bianca,
dove un operaio europeo abbia ricamato insetti e uccelli sfolgoranti.
Era in quei ridenti rifugi, preparati dal grande Spirito, che noi riposavamo
all'ombra. Quando i venti scendevano dal cielo per fare oscillare il grande
cedro, e il castello aereo costruito sui suoi rami andava fluttuando con
uccelli e viandanti addormentati al suo riparo, e mille sospiri uscivano dai
corridoi e dalle volte di quell'edificio in movimento, mai come in quel
momento le meraviglie del mondo antico sono state così inferiori a quel
monumento del deserto.
Ogni sera accendevamo un gran fuoco, e costruivamo la capanna da
viaggio con una scorza alzata su quattro picchetti. Se avevo ucciso un
tacchino selvatico, un colombaccio, un fagiano dei boschi, lo appendevamo
sopra un fuoco di quercia, in cima a una pertica impiantata nel terreno,
lasciando al vento la cura di girare la preda del cacciatore. Mangiavamo un
muschio chiamato trippa delle rocce, scorze zuccherate di betulla, mele di
primavera che sanno di pesca e di lampone. Il noce nero, l'acero, il
sommacco rifornivano di vino la nostra tavola. A volte andavo a cercare, tra
le canne, una pianta il cui fiore, che si allunga in forma di cono, conteneva
un bicchiere di purissima rugiada. Benedivamo la Provvidenza che, sul
debole stelo di un fiore, aveva messo nella corruzione delle paludi quella
limpida sorgente, così come in fondo ai cuori ulcerati dal dolore ha messo la
speranza, e ha fatto scaturire la virtù dalle miserie della vita.
Ahimè! Presto scoprii che mi ero ingannato sulla calma apparente di
Atala. Più avanzavamo, più diventava triste. Spesso trasaliva senza motivo,
voltando di scatto la testa. La sorprendevo mentre mi guardava in modo
appassionato, per poi distogliere lo sguardo verso il cielo con profonda
melanconia. Ciò che soprattutto mi spaventava era come un segreto, un
pensiero riposto in fondo alla sua anima che le leggevo negli occhi. Mi
attirava e mi respingeva, mi ridava vita e distruggeva le mie speranze,
quando credevo di essermi aperto un po' di strada nel suo cuore mi ritrovavo
allo stesso punto.
Quante volte mi ha detto:
O giovane amante! Ti amo come l'ombra dei boschi in pieno giorno! Sei
bello come il deserto con tutti i suoi fiori e tutte le sue brezze. A chinarmi
su te, fremo; se la mia mano si posa sulla tua, mi sembra di morire. L'altro
giorno il vento gettò i tuoi capelli sul mio viso, mentre ti riposavi sul mio
seno, e ho creduto di sentire il lieve tocco degli Spiriti invisibili. Sì, ho visto
le caprette della montagna di Occone; ho udito i propositi degli uomini sazi
di giorni; ma la dolcezza dei capretti e la saggezza dei vecchi sono meno
piacevoli e meno forti delle tue parole. Ebbene, povero Chactas, io non sarò
mai la tua sposa!
Le continue contraddizioni dell'amore e della religione di Atala, il suo
tenero abbandono e la castità dei suoi costumi, il suo carattere fiero e la sua
profonda sensibilità, l'anima elevata nelle grandi cose, la suscettibilità nelle
piccole, tutto ne faceva per me un essere incomprensibile. Atala non poteva
esercitare su un uomo un debole dominio; piena di passione, emanava
potenza; bisognava adorarla o odiarla.
Dopo quindici notti di cammino affannoso entrammo nella catena dei
monti Allegheni, raggiungendo uno dei rami del Tenase, un fiume che si
getta nell'Ohio. Grazie ai consigli di Atala costruii un canotto che spalmai
con gomma di prugno, dopo averne ricucito le scorze con radici di pino.
Quindi m'imbarcai con Atala, e ci abbandonammo alla corrente del fiume.
Alla curva di un promontorio, sulla nostra sinistra, apparve il villaggio
indiano di Sticoe, con le sue tombe piramidali e le sue capanne in rovina;
lasciavamo a destra la vallata di Keow, chiusa dalla prospettiva delle
capanne di Jore sospese sul fronte della montagna con lo stesso nome. Il
fiume che ci trascinava scorreva tra alte rocce, in cima alle quali si scorgeva
il sole al tramonto. Quelle profonde solitudini non erano affatto turbate dalla
presenza dell'uomo. Vedemmo solo un cacciatore indiano che, appoggiato
all'arco e immobile sulla punta di una roccia, assomigliava a una statua
eretta sulla montagna al Genio di quei deserti.
Atala e io univamo il nostro silenzio al silenzio di quella scena.
Improvvisamente la figlia dell'esilio fece echeggiare nell'aria una voce
piena d'emozione e di melanconia; cantava la patria assente:
Fortunati quelli che non hanno visto il fumo delle feste dello straniero, e
che si sono seduti solo ai banchetti dei loro padri! Se la ghiandaia azzurra
del Meschacebé dicesse all'impareggiabile della Florida: Perché ti lamenti
con tanta tristezza? Non ci sono qui belle acque e belle ombre, e cibi come
nelle tue foreste? Sì, risponderebbe l'impareggiabile in fuga; ma il mio nido
sta nel gelsomino, chi me lo porterà? E il sole della mia savana, ce l'hai
forse tu?
Fortunati quelli che non hanno visto il fumo delle feste dello straniero, e
che si sono seduti solo ai banchetti dei loro padri!
Dopo ore di marcia penosa, il viaggiatore si siede tristemente. Contempla
attorno a sé i tetti degli uomini; il viaggiatore non ha un luogo dove riposare
la testa. Il viaggiatore bussa alla capanna, mette il proprio arco dietro la
porta, chiede ospitalità; il padrone fa un gesto con la mano; il viaggiatore
riprende l'arco e torna nel deserto!
Fortunati quelli che non hanno visto il fumo delle feste dello straniero, e
che si sono seduti solo ai banchetti dei loro padri!
Storie meravigliose raccontate attorno al focolare, tenere effusioni del
cuore, antiche consuetudini dell'amore tanto necessarie alla vita, voi avete
riempito i giorni di quelli che non hanno abbandonato il paese natale! Le
loro tombe sono in patria, con i tramonti, il pianto degli amici e il fascino
della religione.
Fortunati quelli che non hanno visto il fumo delle feste dello straniero, e
che si sono seduti solo ai banchetti dei loro padri!
Così cantava Atala. Nulla interrompeva i suoi lamenti, tranne
l'impercettibile rumore del nostro canotto sulle onde. Solo in due o tre punti
essi furono raccolti da una debole eco, che li ripeté a una seconda più
debole, e questa a una terza più debole ancora: si sarebbe potuto credere che
le anime dei due amanti, un tempo sventurati come noi, attratte da quella
toccante melodia, si divertissero a sospirarne gli ultimi suoni nella
montagna.
Intanto la solitudine, la continua presenza dell'oggetto amato, le nostre
stesse disgrazie, raddoppiavano ad ogni istante il nostro amore. Le forze
cominciavano ad abbandonare Atala e la passione, prostrandone il corpo,
stava per trionfare sulla sua virtù. Pregava continuamente la madre, di cui
sembrava voler placare l'ombra irritata. A volte mi chiedeva se non udissi
una voce che si lamentava, se non vedessi delle fiamme uscire dalla terra.
Quanto a me, sfinito dalla fatica ma sempre ardente di desiderio, con il
pensiero che forse ero irrimediabilmente perso in quelle foreste, cento volte
fui sul punto di prendere la mia sposa tra le braccia, cento volte le proposi di
costruire una capanna su quelle rive dove ci saremmo ritirati insieme. Ma
mi resistette sempre: Pensa, mi diceva, giovane amico, che un guerriero
appartiene alla patria. Che cos'è una donna davanti ai doveri che ti
aspettano? Fatti coraggio, figlio di Outalissi, non mormorare contro il tuo
destino. Il cuore dell'uomo è come la spugna del fiume che a volte beve
l'onda pura dei tempi sereni, a volte si gonfia d'un'acqua melmosa, quando il
cielo ha turbato le acque. Forse la spugna ha il diritto di dire: Pensavo che
non ci sarebbero mai state tempeste, che il sole non sarebbe mai stato
incandescente?
O René, se temi i turbamenti del cuore, diffida della solitudine: le grandi
passioni sono solitarie, portarle nel deserto significa restituirle al loro regno.
Oppressi da preoccupazioni e da timori, esposti a cadere nelle mani degli
Indiani nemici, a essere inghiottiti dalle acque, morsi dai serpenti, divorati
dalle fiere, trovando a fatica uno scarso nutrimento e senza più sapere da
che parte volgere i passi, i nostri mali sembravano non potersi più
accrescere, quando un fatto venne a colmare la misura.
Era il ventisettesimo sole dalla nostra partenza dalle capanne: la luna di
fuoco aveva iniziato il suo corso, e tutto annunciava un temporale. Verso
l'ora in cui le matrone indiane appendono il vomero del contadino ai rami
del ginepro, e i pappagalli si ritirano nella cavità dei cipressi, il cielo iniziò a
coprirsi. Le voci della solitudine si spensero, il deserto fece silenzio, e le
foreste rimasero in una calma totale. Ben presto il lontano brontolio del
tuono, prolungandosi in quei boschi vecchi come il mondo, ne fece uscire
dei rumori sublimi. Temendo di venire sommersi, ci affrettammo a
guadagnare la riva del fiume, rifugiandoci nella foresta.
Era un luogo paludoso. Avanzavamo a fatica sotto una volta di smilace, in
mezzo a ceppi di vite, indachi, fagioli, liane rampicanti che ci intralciavano
i piedi come reti. Il suolo spugnoso, attorno a noi, tremava, e ad ogni istante
potevamo essere inghiottiti dagli acquitrini. Innumerevoli insetti, pipistrelli
enormi ci accecavano; da ogni lato veniva il rumore dei serpenti a sonagli; e
i lupi, gli orsi, i tassi, i tigrotti, che venivano a nascondersi in quei rifugi, li
riempivano con i loro ruggiti.
Intanto l'oscurità raddoppia: le nuvole si abbassano ed entrano nell'ombra
dei boschi. In uno squarcio della nuvolaglia il lampo disegna una rapida
losanga di fuoco. Un vento impetuoso sbucato dal tramonto affolla nuvole
su nuvole; le foreste si piegano; brano a brano il cielo si apre, attraverso i
suoi crepacci si scorgono cieli nuovi e ardenti campagne. Che spettacolo
spaventoso e stupendo! Il fulmine appicca il fuoco nei boschi; l'incendio si
estende come una capigliatura in fiamme; colonne di scintille e di fumo
assediano le nuvole, che vomitano fulmini in quel vasto avvampare.
Allora il grande Spirito copre le montagne di spesse tenebre; dal mezzo di
quel vasto caos si leva un confuso muggito, prodotto dal frastuono dei venti,
dal gemito degli alberi, dall'urlo delle bestie feroci, dal brusio dell'incendio,
e dai fulmini che cadono continuamente sibilando, e si spengono nelle
acque.
Il grande Spirito lo sa! In quei momenti non vidi che Atala, non pensai
che a lei. Riuscii a metterla al riparo dalla pioggia torrenziale sotto il tronco
piegato di una betulla. Mi sedetti anch'io sotto l'albero, tenendo la mia
amata sulle ginocchia, e riscaldandole i piedi nudi tra le mie mani ero più
felice della sposina che, per la prima volta, sente trasalire in seno il frutto
del suo amore.
Prestavamo orecchio al rumore della tempesta; quando all'improvviso
sentii una lacrima di Atala cadermi sul petto: Tempesta del cuore, esclamai,
è questa una goccia della tua pioggia? Poi, abbracciando stretta la donna che
amavo, le dissi: Atala, tu mi nascondi qualcosa. Aprimi il tuo cuore, o mia
cara! Fa tanto bene lasciarsi guardare nell'anima da un amico! Raccontami
questo nuovo e doloroso segreto che ti ostini a tacere. Ah! Capisco, tu
piangi per la patria. Mi rispose subito: Figlio degli uomini, come potrei
piangere la mia patria, dal momento che mio padre non apparteneva al
paese delle palme?
Come, replicai profondamente stupito, tuo padre non era del paese delle
palme?
Chi dunque ti ha messo al mondo in queste terre? Rispondi. Atala
pronunciò queste parole:
Prima che mia madre portasse in dote al guerriero Simaghan trenta
giumente, venti bufali, cento misure d'olio di ghianda, cinquanta pelli di
castori e molte altre ricchezze, aveva conosciuto un uomo dalle carni
bianche.
Ora, sua madre le gettò dell'acqua in faccia, e la costrinse a sposare il
magnanimo Simaghan, simile in tutto a un re e onorato dai popoli come un
Genio. Ma mia madre disse al nuovo sposo: Il mio ventre ha concepito,
uccidimi. Simaghan le rispose: Il grande Spirito mi proibisce di compiere
un'azione così malvagia. Non voglio mutilarti, non ti taglierò né il naso, né
le orecchie, poiché sei stata sincera e non hai ingannato il mio letto. Il frutto
delle tue viscere sarà il mio frutto, e non verrò a farti visita che dopo la
partenza dell'uccello della risaia, quando brillerà la tredicesima luna.
Proprio allora ruppi il seno di mia madre, e cominciai a crescere, fiera
come una spagnola e come una selvaggia. Mia madre mi volle cristiana,
perché il suo Dio e quello di mio padre fosse anche il mio Dio. Poi la prese
il mal d'amore, scese nella piccola caverna ornata di pelli, da dove non si
esce più.
Questo fu il racconto di Atala. Ma chi era dunque il tuo povero padre,
povera orfana? le chiesi. Come lo chiamano gli uomini sulla terra, e qual è il
suo nome tra i Geni? Non ho mai lavato i piedi di mio padre, disse Atala, so
solo che viveva con una sorella a Sant'Agostino, e che fu sempre fedele a
mia madre: tra gli angeli il suo nome era Filippo, ma gli uomini lo
chiamavano Lopez.
A queste parole, gettai un grido che risuonò in quella solitudine; il rumore
dei miei sentimenti si confuse con il rumore della tempesta. Stringendo
Atala sul cuore, gridai tra i singhiozzi: O sorella! O figlia di Lopez! Figlia
del mio benefattore! Atala, spaventata, mi chiese perché fossi così turbato;
ma quando seppe che Lopez era l'ospite generoso che mi aveva adottato a
Sant'Agostino e che io l'avevo lasciato per essere libero, cadde lei stessa
nella confusione e nella gioia.
Quell'amicizia fraterna che si era appena rivelata e che aveva aggiunto
amore al nostro amore, era troppo per i nostri cuori. Le lotte di Atala erano
ormai inutili: la sentii portare invano una mano al seno per fare un estremo
movimento; l'avevo già presa, mi ero ormai inebriato del suo respiro, avevo
già bevuto sulle sue labbra la magia dell'amore. Gli occhi levati al cielo, alla
luce dei lampi, tenevo la mia sposa tra le braccia, alla presenza dell'Eterno.
Fasto nuziale, degno delle nostre sventure e della grandezza del nostro
amore: superbe foreste che agitavate le vostre liane e le vostre cupole come
tende e cielo del nostro giaciglio, pini infuocati che eravate le fiaccole dei
nostri imenei, fiume straripante, muggiti delle montagne, sublime e
spaventosa natura, non eravate dunque che lo scenario predisposto per
ingannarci, e non riusciste a nascondere un solo momento nei vostri
misteriosi orrori la felicità di un uomo!
Atala non offriva più che una debole resistenza; stavo per raggiungere la
felicità quando, all'improvviso, un lampo impetuoso, seguito dallo scoppio
di un fulmine, solca quelle spesse ombre, riempie la foresta di zolfo e di
luce, e spezza un albero ai nostri piedi. Fuggiamo. O sorpresa!.. Nel silenzio
che segue, udiamo il suono di una campana! Stupiti entrambi, prestiamo
orecchio a quel rumore così strano in un deserto. Intanto un cane abbaia in
lontananza; si avvicina, raddoppia i suoi versi, arriva, guaisce di gioia ai
nostri piedi; un vecchio solitario, con una piccola lanterna, lo segue nelle
tenebre della foresta. Sia benedetta la Provvidenza! esclamò appena ci vide.
È molto che vi cerco! Il cane vi ha sentiti dall'inizio della tempesta, e mi ha
condotto qui.
Mio Dio! Come sono giovani! Poveri ragazzi! Quanto hanno dovuto
soffrire!
Andiamo: ho portato una pelle d'orso, sarà per questa giovane donna; ed
ecco un po' di vino nella mia zucca. Che Dio sia lodato per tutte le sue
opere! La sua misericordia è ben grande, e la sua bontà è infinita!
Atala era ai piedi del religioso: Maestro di preghiera, gli diceva, io sono
cristiana, e il cielo t'invia per salvarmi. Figlia mia, disse l'eremita facendola
rialzare, di solito suoniamo la campana della Missione di notte e durante le
tempeste, per chiamare gli stranieri; e, come fanno i nostri fratelli delle Alpi
e del Libano, abbiamo insegnato al cane a scoprire i viaggiatori che si sono
persi. Per quanto mi riguarda, capivo appena l'eremita; quella compassione
mi sembrava così superiore alla natura umana, che credevo di sognare. Alla
luce della piccola lanterna tenuta dal religioso, intravedevo la sua barba e i
suoi capelli tutti imbevuti d'acqua; aveva piedi, mani e capelli insanguinati
dai rovi. Vecchio, esclamai alla fine, hai davvero un gran cuore, se non hai
paura di essere colpito dal fulmine! Aver paura!, disse il padre,
accalorandosi. Aver paura quando ci sono degli uomini in pericolo, quando
posso essere loro utile! Sarei dunque un ben indegno servitore di Gesù
Cristo! Ma sai, gli dissi, che io non sono cristiano!
Ragazzo, rispose l'eremita, vi ho forse domandato di che religione siete?
Gesù Cristo non ha detto: Il mio sangue laverà questo, ma non quello. Egli è
morto per l'ebreo e per il gentile, in ogni uomo egli ha visto un fratello e
uno sventurato. Ciò che io faccio qui per voi è davvero poca cosa, troverete
altrove ben altri soccorsi; nessuna gloria per noi preti. Chi siamo noi, poveri
eremiti, se non rozzi strumenti di un piano celeste? Quale soldato sarebbe
così vile da indietreggiare quando il suo capo, con la croce in mano, la
fronte coronata di spine, cammina davanti a lui in aiuto degli uomini?
Quelle parole catturarono il mio cuore; mi caddero dagli occhi lacrime di
ammirazione e di tenerezza. Cari figlioli, disse il missionario, io amministro
in queste foreste un piccolo gruppo di vostri fratelli selvaggi. La mia grotta
nella montagna è vicinissima a qui; venite da me a riscaldarvi; non vi
troverete certo le comodità della vita, ma un rifugio; e anche per questo
bisogna ringraziare la Bontà divina, perché molti uomini ne sono privi.
I contadini
Ci sono giusti la cui coscienza è così tranquilla, che è impossibile
avvicinarsi a loro senza condividere la pace che emanano, per dir così, dal
cuore e dalle parole. Più il Solitario parlava, più sentivo le passioni
acquietarmisi in petto, e la sua voce sembrava allontanare anche la tempesta
del cielo. Ben presto le nuvole si dispersero, permettendoci di abbandonare
il nostro rifugio. Uscimmo dalla foresta e cominciammo ad inerpicarci sul
versante di un'alta montagna. Il cane, che ci precedeva, portava in cima a un
bastone la lanterna spenta. Tenevo Atala per mano e seguivamo il
missionario.
Spesso si voltava per guardarci, contemplando con pietà le nostre
disgrazie e la nostra gioventù. Aveva un libro appeso al collo; si appoggiava
a un bastone bianco. Era alto, pallido in volto e magro, d'aspetto semplice e
sincero. Non aveva la fisionomia smorta e scialba dell'uomo nato senza
passioni; si vedeva che aveva conosciuto giorni duri, e le rughe sulla fronte
mostravano le belle cicatrici delle passioni che la virtù, e l'amore di Dio e
degli uomini, avevano guarito. Quando ci parlava, diritto e immobile, la
lunga barba, gli occhi abbassati in segno di modestia, il tono affettuoso della
sua voce, tutto in lui aveva qualcosa di calmo e di sublime. Chiunque, come
me, abbia visto padre Aubry camminare nel deserto, solo, con il bastone e il
breviario, si è fatto una giusta idea del viandante cristiano sulla terra.
Dopo una mezz'ora di pericoloso cammino per i sentieri della montagna,
raggiungemmo la grotta del missionario. Vi entrammo attraversando edere e
zucche umide, che la pioggia aveva sradicato dalle rocce. In quel luogo non
c'era che una stuoia di foglie di papaia, una zucca per attingere l'acqua,
qualche recipiente di legno, un badile, un serpente addomesticato e, su una
pietra che serviva da tavola, un crocifisso con il libro dei cristiani.
Quell'uomo antico si affrettò ad accendere il fuoco con liane secche;
spezzò del granturco tra due pietre e, dopo averne fatto un dolce, lo mise a
cuocere sotto la cenere. Quando il fuoco ebbe dato un bel colore dorato al
dolce, ce lo servì che scottava con della crema di noce in un vaso d'acero.
Poiché la sera aveva riportato la serenità, il servitore del grande Spirito ci
propose di andare a sedere all'ingresso della grotta. Lo seguimmo in quel
luogo da cui si dominava un immenso panorama. Ciò che restava della
tempesta era in fuga disordinata verso oriente; i fuochi dell'incendio che il
fulmine aveva acceso nella foresta brillavano ancora in lontananza; un
intero bosco di pini, ai piedi della montagna, era rovesciato nel fango, e il
fiume trascinava nella confusione le argille sciolte, i tronchi degli alberi, i
corpi degli animali e i pesci morti, di cui si vedeva il ventre argentato
fluttuare sulla superficie delle acque.
Fu in mezzo a quello scenario che Atala raccontò la nostra storia al
vecchio Genio della montagna. Il suo cuore parve toccato, e dalla sua barba
scesero lacrime: Figlia mia, disse a Atala, devi offrire le tue sofferenze a
Dio, per la cui gloria hai già fatto tanto; egli ti renderà la pace. Vedi fumare
le foreste, seccare i torrenti, dissiparsi le nuvole; non credi forse che colui
che può calmare una simile tempesta possa acquietare i turbamenti del
cuore umano? Se non hai un rifugio migliore, figlia cara, ti offro un posto
tra quelli che ho avuto la fortuna di accostare a Gesù Cristo. Istruirò
Chactas, e quando sarà degno te lo darò come sposo.
A quelle parole caddi in ginocchio davanti al Solitario, versando lacrime
di gioia; Atala, al contrario, divenne pallida come la morte. Il vecchio mi
fece rialzare con aria benevola, e solo allora mi accorsi che aveva le mani
mutilate. Atala comprese subito la sua sventura, ed esclamò: I barbari!
Figlia mia, continuò il padre con un dolce sorriso, cosa vuoi che sia ciò a
confronto con quello che ha subito il mio divino Maestro? Se gli indiani
idolatri mi hanno tormentato, essi non sono che poveri ciechi e Dio un
giorno li illuminerà. Mi sono ancora più cari per il male che mi hanno fatto.
Non ho potuto restare in patria, dove ero tornato, e dove un'illustre regina
mi ha fatto l'onore di voler contemplare questi deboli segni del mio
apostolato. E quale ricompensa più gloriosa per la mia fatica potevo
ricevere, del permesso, ottenuto dal capo della mia religione, di celebrare
con queste mani mutilate il sacrificio divino? Dopo un simile onore non mi
rimaneva altro che tentare di rendermene degno: sono tornato nel Nuovo
Mondo per consumare il resto della mia vita al servizio di Dio. Tra poco
saranno trent'anni che vivo in questa solitudine, e domani saranno ventidue
da quando ho preso possesso di questa roccia. Quando arrivai in questi
luoghi non vi trovai che famiglie vagabonde, i cui costumi erano feroci, e la
vita davvero miserabile. Io ho fatto udire loro la parola di pace, e i costumi
si sono gradatamente addolciti. Ora vivono insieme alle pendici di questa
montagna. Insegnando le vie della salvezza, mi sono sforzato di trasmettere
i primi rudimenti della vita, ma senza spingermi troppo lontano, lasciando
questa gente onesta in quella semplicità che è la loro fortuna. Quanto a me,
temendo di turbarli con la mia presenza, mi sono ritirato sotto questa grotta,
dove vengono a consultarmi. Qui, lontano dagli uomini, nella vastità di
queste solitudini, ammiro Dio e mi preparo alla morte annunciata dai miei
vecchi giorni.
Dopo aver pronunciato queste parole, il Solitario si mise in ginocchio e
noi lo imitammo. Iniziò ad alta voce una preghiera, a cui Atala rispondeva.
Muti lampi aprivano ancora i cieli ad oriente, e tre soli brillavano insieme
sulle nuvole del tramonto. Qualche volpe che si era smarrita durante la
tempesta allungava il muso nero sul bordo dei precipizi, e si udivano
fremere le piante che si asciugavano alla brezza della sera, rialzando da ogni
parte i loro gambi abbattuti.
Tornammo nella grotta dove l'eremita stese un letto di muschio di
cipresso per Atala. Negli occhi e nei gesti della vergine si dipinse un
profondo languore; guardava padre Aubry come se avesse voluto
comunicargli un segreto; ma qualcosa sembrava trattenerla, la mia presenza,
o una certa vergogna, o l'inutilità della confessione. La sentii alzarsi nel
mezzo della notte; cercava l'eremita, ma dopo averle dato il giaciglio egli
era andato a contemplare la bellezza del cielo e a pregare Dio sulla sommità
della montagna. Il giorno dopo mi disse che era una sua abitudine, anche
durante l'inverno, poiché gli piaceva vedere le foreste far oscillare le cime
spoglie, le nuvole che volavano nei cieli, e udire in quella solitudine il
brontolio dei venti e dei torrenti. La mia sorellina fu dunque costretta a
tornare nel suo giaciglio, dove si assopì. Ahimè! Colmo di speranza, nella
debolezza di Atala non vidi che le tracce effimere della fatica!
Il giorno seguente mi svegliai al canto dei cardinali e dei tordi
beffeggiatori, annidati tra le acacie e gli allori che circondavano la grotta.
Andai a cogliere una rosa di magnolia e, umettata dalle lacrime del
mattino, la deposi sul capo addormentato di Atala. Speravo che, come vuole
la religione del mio paese, l'anima di qualche bambino morto in fasce
sarebbe scesa su quel fiore dentro una goccia di rugiada, e che un sogno
felice l'avrebbe portata in seno alla mia futura sposa. Quindi andai alla
ricerca del mio ospite; lo trovai, la veste rialzata nelle due tasche, una
corona del rosario in mano, che mi aspettava seduto sul tronco di un pino
caduto per la vecchiaia. Mi propose di andare con lui alla Missione, mentre
Atala continuava a riposarsi; accettai la proposta, e ci mettemmo subito in
cammino.
Scendendo dalla montagna vidi delle querce su cui sembrava che i Geni
avessero disegnato i caratteri di una lingua straniera. L'eremita mi disse che
li aveva tracciati lui stesso, e che si trattava dei versi di un antico poeta di
nome Omero, e di qualche sentenza di un poeta ancora più antico, di nome
Salomone. C'era non so quale misteriosa armonia tra quella saggezza dei
tempi passati, quei versi smangiati dal muschio, il vecchio solitario che li
aveva incisi e quelle vecchie querce che gli servivano da libri.
Su un giunco della savana, ai piedi degli alberi, c'era segnato anche il suo
nome, la sua età e la data della sua missione. Mi stupii della fragilità di
quest'ultimo monumento: Durerà più di me, mi rispose il padre, e avrà
sempre più valore del poco bene che ho fatto.
Da lì, arrivammo all'entrata di una valle dove vidi uno splendido lavoro:
si trattava di un ponte naturale, simile a quello della Virginia, di cui forse
hai sentito parlare. Gli uomini, figlio mio, soprattutto quelli del tuo paese,
spesso imitano la natura, ma le loro copie sono sempre piccole; non così
accade alla natura quando sembra voglia imitare le opere degli uomini,
offrendo loro, in realtà, dei modelli. Allora essa getta ponti dalla cima di
una montagna alla cima di un'altra, sospende strade tra le nuvole, diffonde
fiumi come canali, scolpisce monti come colonne, e come bacini scava mari
interi.
Passammo sotto l'unico arco di quel ponte e ci trovammo davanti a
un'altra meraviglia: era il cimitero indiano della Missione, o i Boschetti
della morte. Padre Aubry aveva permesso ai suoi neofiti di seppellire i morti
alla loro maniera, e di conservare a quel luogo di sepoltura il suo nome
selvaggio; si era solo riservato di santificarlo con una croce. Il terreno era
stato diviso, come il comune campo dei raccolti, in tanti lotti quante erano
le famiglie. Ogni lotto era un bosco che variava a seconda del gusto di
quelli che l'avevano piantato. Tra quei boschetti serpeggiava un ruscello
silenzioso; lo chiamavano il Ruscello della pace. Quel ridente asilo d'anime
era chiuso ad oriente dal ponte sotto cui eravamo passati; due colline lo
limitavano a settentrione e a mezzogiorno; solo a occidente era aperto, là
dove s'ergeva un grande bosco di pini. I tronchi di quegli alberi, rossi,
venati di verde, che salivano fino in cima senza rami, assomigliavano ad
alte colonne, e formavano il peristilio di quel tempio della morte; vi regnava
un rumore religioso, simile al sordo muggito dell'organo sotto le volte di
una chiesa; ma quando si penetrava in fondo al santuario, non si udiva altro
che l'inno degli uccelli che celebravano una festa eterna in memoria dei
morti.
Uscendo dal bosco scoprimmo il villaggio della Missione, situato ai bordi
di un lago, in mezzo a una savana disseminata di fiori. Ci si arrivava per
mezzo di un viale di magnolie e di verdi querce che costeggiavano una di
quelle antiche strade che si trovano verso le montagne che dividono il
Kentucky dalla Florida. Appena gli indiani scorsero il loro pastore nella
pianura, smisero di lavorare e gli corsero incontro. Gli uni baciavano la
veste, gli altri lo aiutavano a camminare; le madri alzavano sulle braccia i
piccoli per far loro vedere l'uomo di Gesù Cristo che si effondeva in
lacrime.
Camminando, egli s'informava di ciò che accadeva al villaggio; a uno
dava un consiglio, un altro lo rimproverava con dolcezza, parlava delle
messi da raccogliere, dei bambini da istruire, di pene da consolare, e a tutti
questi discorsi univa l'idea di Dio.
Così scortati, arrivammo ai piedi di una grande croce che si trovava sulla
strada. Lì, il servo di Dio era solito celebrare i misteri della sua religione:
Miei cari neofiti, disse rivolgendosi verso la folla, vi sono arrivati un
fratello e una sorella; e come soprappiù di fortuna, vedo che la divina
Provvidenza ieri ha risparmiato le vostre messi: ecco due grandi motivi per
ringraziarla. Offriamo dunque il santo sacrificio, e che ciascuno vi porti un
profondo raccoglimento, una fede viva, un'infinita riconoscenza e un cuore
umile.
In breve quel prete divino indossò una tunica bianca di scorza di gelso; da
un tabernacolo ai piedi della croce vengono estratti i vasi sacri, su un blocco
di roccia si prepara l'altare, si attinge l'acqua al torrente vicino, e un
grappolo d'uva selvatica fornisce il vino per il sacrificio. Ci mettiamo tutti
in ginocchio nell'erba alta: ha inizio il mistero.
Dietro le montagne appariva l'aurora che infiammava l'oriente. In quella
solitudine tutto era oro o rosa. L'astro, annunciato da tanto splendore, uscì
finalmente da un abisso di luce e il suo primo raggio incontrò l'ostia
consacrata che il prete, in quello stesso momento, sollevava in aria. O
fascino della religione! O magnificenza del culto cristiano! Un vecchio
eremita come officiante, una roccia come altare, il deserto per chiesa, e ad
assistere dei selvaggi innocenti! No, non dubito affatto che nel momento in
cui ci prosternammo, si realizzasse il gran mistero, e che Dio scendesse
sulla terra, dal momento che lo sentii scendere nel mio cuore.
Dopo il sacrificio, dove non mi mancò altro che la figlia di Lopez, ci
recammo al villaggio. Là regnava la più toccante mescolanza di vita sociale
e vita naturale: in un angolo della cipressaia dell'antico deserto, c'era da
scoprire una coltura allo stato nascente; le spighe rotolavano a flotti dorati
sul tronco della quercia abbattuta, e il covone d'una estate rimpiazzava
l'albero di tre secoli. Dovunque si vedevano le foreste in preda alle fiamme
lanciare in aria grandi pennacchi di fumo, e l'aratro che si aggira lentamente
tra quelle rovine di radici. Agrimensori con lunghe catene misuravano il
terreno; arbitri assegnavano le prime proprietà; l'uccello cedeva il suo nido;
il rifugio della bestia feroce si mutava in capanna; si udiva il brontolio delle
fucine e i colpi di scure, per l'ultima volta, facevano muggire gli echi che
spiravano essi stessi con gli alberi che servivano loro d'asilo.
Vagabondavo, rapito, in quello scenario reso più dolce dall'immagine di
Atala e dai sogni di felicità con cui cullavo il mio cuore. Ammiravo il
trionfo del Cristianesimo sulla vita selvaggia; vedevo l'indiano civilizzarsi
alla voce della religione; assistevo alle nozze primitive dell'Uomo con la
Terra: con quel patto, l'uomo lasciava alla terra l'eredità dei suoi sudori e la
terra s'impegnava, per contro, a portare fedelmente le messi, i figli e le
ceneri dell'uomo.
Intanto presentarono un bambino al missionario, che lo battezzò in mezzo
ai gelsomini in fiore, in riva a una sorgente, mentre una bara, tra giochi e
lavori, si avviava ai Boschetti della morte. Due sposi ricevettero sotto una
quercia la benedizione nuziale, e in seguito andammo a sistemarli in un
angolo di deserto. Il pastore camminava davanti a noi, benedicendo qua e là
la roccia, l'albero, la fontana, come un tempo, secondo il libro dei cristiani,
Dio stesso benedisse la terra incolta, dandola in eredità ad Adamo. La
processione che, mescolata agli armenti, di roccia in roccia seguiva il suo
venerabile capo, rappresentava al mio cuore intenerito quelle prime
migrazioni di famiglie, quando Sem, con i suoi figli, avanzava attraverso un
mondo sconosciuto seguendo il sole, che gli camminava davanti.
Volli sapere dal santo eremita come governasse i suoi figli; mi rispose
con grande gentilezza: Non ho dato loro alcuna legge; ho solo insegnato ad
amarsi, a pregare Dio, e a sperare in una vita migliore: tutte le leggi del
mondo sono lì. Tu vedi in mezzo al villaggio una capanna più grande delle
altre: serve da cappella nella stagione delle piogge. Vi si riuniscono al
mattino e alla sera per lodare il Signore, e quando io sono assente, un
vecchio intona la preghiera; perché la vecchiaia, come la maternità, è una
specie di sacerdozio. Poi, vanno a lavorare nei campi, e se le proprietà sono
divise, affinché ciascuno possa imparare l'economia sociale, il raccolto
viene deposto in granai comuni, per mantenere la carità fraterna. Quattro
vecchi distribuiscono con equità il prodotto del lavoro. Aggiungi a questo le
cerimonie religiose, molti canti, la croce dove ho celebrato il mistero, il
giovane olmo sotto cui, nei giorni di bel tempo, io predico, le tombe
vicinissime ai campi di grano, i fiumi dove immergo i piccoli e i San
Giovanni di questa nuova Betania, ed ecco che avrai un'idea completa del
regno di Gesù Cristo.
Le parole del Solitario mi rapirono, e avvertii la superiorità di quella vita
stabile e operosa sulla vita errabonda e pigra del selvaggio.
Ah! René, non mormoro contro la Provvidenza, ma confesso che mai mi
ricordo di quella società evangelica senza provare la tristezza del rimpianto.
Una capanna insieme ad Atala su quelle rive avrebbe reso felice la mia
vita!
Là finiva la mia corsa; là, con una sposa, sconosciuto agli uomini,
nascondendo la mia felicità in fondo alle foreste, sarei passato come quei
fiumi che attraversano i deserti senza neppure un nome. Ma al posto di
quella pace che allora osavo ripromettermi, in quali turbamenti non ho
trascorso i miei giorni! Giocattolo continuamente in mano alla fortuna,
infranto su tutte le rive, a lungo esiliato dal mio paese e non trovandovi
altro, al mio ritorno, che una capanna e amici nella tomba: questo doveva
essere il destino di Chactas.
Il dramma
Il sogno della mia felicità fu vivo, ma anche di corta durata, e nella grotta
del Solitario mi attendeva il risveglio. Fui sorpreso quando, arrivando a
metà giornata, non vidi Atala correrci incontro. Un indefinibile orrore mi
afferrò all'improvviso. Avvicinandomi alla grotta, non osavo chiamare la
figlia di Lopez: la mia immaginazione era ugualmente spaventata, dal
rumore o dal silenzio che avrebbe accompagnato le mie grida. Ancor più
impaurito dalla notte che regnava all'ingresso della roccia, dissi al
missionario: O voi, che il cielo accompagna e fortifica, penetrate in queste
ombre.
Com'è debole chi viene dominato dalle passioni! Com'è forte chi si affida
a Dio! C'era più coraggio in quel cuore religioso provato da settantasei anni,
che in tutto l'ardore della mia giovinezza. L'uomo di pace entrò nella grotta,
e io rimasi fuori, in preda al terrore. Ben presto un debole mormorio, simile
a lamenti, uscì dal fondo della roccia, colpendo il mio orecchio. Lanciai un
grido e, ritrovando le forze, mi spinsi nella notte della caverna... Spiriti dei
miei padri! Solo voi conoscete lo spettacolo che si presentò ai miei occhi!
Il Solitario aveva acceso una torcia di pino; la teneva con mano tremante
sopra il giaciglio di Atala. Quella donna giovane e bella, sollevata a metà
sul gomito, appariva pallida e scarmigliata. Sulla fronte le brillavano penose
gocce di sudore; lo sguardo, quasi spento, cercava ancora di esprimermi il
suo amore, e la bocca tentava di sorridere. Come colpito da un fulmine, gli
occhi fissi, le braccia allargate, la bocca semiaperta, io rimanevo immobile.
Per un istante, tra i tre personaggi di quella scena dolorosa, regna un
silenzio profondo. Il Solitario lo rompe per primo: Dev'essere una febbre
causata dalla fatica, ma se ci rimettiamo alla volontà di Dio, egli avrà pietà
di noi.
A quelle parole, il sangue che mi si era fermato riprese a correre nel mio
cuore, e con la volubilità del selvaggio passai improvvisamente da un
eccessivo timore a un'eccessiva fiducia. Ma Atala non me lo permise troppo
a lungo. Dondolando tristemente la testa, ci fece segno di accostarci al suo
giaciglio.
Padre, disse con voce debole, rivolgendosi al religioso, sto per morire.
O Chactas! Ascolta senza disperarti il funesto segreto che ti ho nascosto,
per non avvilirti troppo e per obbedire a mia madre. Sforzati di non
interrompermi con i segni di un dolore che farebbe precipitare quei pochi
istanti che mi restano da vivere. Ho molte cose da raccontare, ma dai battiti
sempre più lenti del mio cuore... a un peso gelido che il mio seno solleva a
fatica... sento che non sarei capace di affrettarmi eccessivamente.
Dopo qualche istante di silenzio, Atala proseguì in questo modo:
Il mio triste destino è iniziato quasi prima che vedessi la luce. Mia madre
mi aveva concepito nella sofferenza; avevo messo alla prova il suo seno, e
mi mise al mondo con grande strazio di viscere: temettero per la mia vita.
Per salvarmi, mia madre fece un voto: promise alla Regina degli Angeli
che le avrei consacrata la mia verginità, se fossi scampata alla morte... Voto
fatale che mi precipita nella tomba!
Quando compii sedici anni, persi mia madre. Poche ore prima di morire,
mi chiamò ai piedi del suo letto. Figlia mia, mi disse, alla presenza di un
missionario che consolava i suoi ultimi istanti, figlia mia, tu conosci il voto
che ho fatto per te. Vorresti smentire tua madre? O mia Atala! Ti lascio in
un mondo che non è degno di possedere una cristiana, in mezzo a idolatri
che perseguitano il Dio di tuo padre e mio, il Dio che, dopo averti dato la
vita, con un miracolo te l'ha conservata. Ah! Cara bambina, accettando il
velo delle vergini non fai che rinunciare alle preoccupazioni della capanna,
e alle passioni funeste che hanno turbato il seno di tua madre! Vieni,
dunque, mia amata, vieni; giura su questa immagine della madre del
Salvatore, tra le mani di questo santo prete e di tua madre che sta per
spirare, che non mi tradirai davanti al cielo. Rifletti che mi sono impegnata
per te, per salvarti la vita, e che se non mantieni la mia promessa affonderai
l'anima di tua madre nei tormenti eterni.
O madre! Perché parlasti così! O religione, che sei causa a un tempo dei
miei mali e della mia felicità, che mi perdi e che mi consoli! E tu, caro e
triste oggetto di una passione che mi consuma fin nelle braccia della morte,
tu ora vedi, o Chactas, ciò che ha fatto il rigore del nostro destino!..
Sciogliendomi in pianto e precipitandomi sul seno di mia madre, promisi
tutto ciò che volle farmi promettere. Il missionario pronunciò su di me le
temibili parole, e mi diede lo scapolare che mi lega per sempre. Mia madre
mi minacciò della sua maledizione se mai avessi rotto i voti, e dopo avermi
raccomandato un inviolabile segreto verso i pagani, persecutori della mia
religione, morì, tenendomi abbracciata.
Non conobbi subito il pericolo dei miei giuramenti. Piena d'ardore, vera
cristiana, fiera di quel sangue spagnolo che mi scorre nelle vene, non scorsi
attorno a me che uomini indegni di avere la mia mano; mi congratulai con
me stessa per non avere altro sposo che il Dio di mia madre. Poi ti vidi,
giovane e bel prigioniero, la tua sorte mi commosse, nel rogo della foresta
osai parlarti; allora sentii tutto il peso dei miei voti.
Quando Atala finì di pronunciare quelle parole, io, stringendo i pugni e
guardando il missionario con aria minacciosa, gridai: Eccola dunque questa
religione che mi avete tanto vantato! Muoia il giuramento che mi porta via
Atala! Muoia il Dio che va contro la natura! Uomo, prete, cosa sei venuto a
fare in queste foreste?
Sono venuto per salvarti, disse il vecchio con voce terribile, per domare le
tue passioni e impedirti, o blasfemo, di attirare su di te la collera celeste!
Non ti è difficile, giovane, appena entrato nella vita, lamentarti dei tuoi
dolori! Dove sono i segni delle tue sofferenze? Dove sono le ingiustizie che
hai dovuto sopportare? Dove sono quelle virtù che, sole, potrebbero darti
qualche diritto di lamentarti? Che servizio hai reso? Che bene hai fatto? Ah!
Sventurato, non hai da offrirmi che passioni, e oseresti accusare il cielo!
Quando, come padre Aubry, avrai trascorso trent'anni in esilio sulle
montagne, tu sarai meno pronto a giudicare i disegni della Provvidenza;
allora capirai che non sai nulla, che non sei nulla, e che non esiste una
punizione così dura, né un male così terribile, che la carne corrotta non
meriti di sopportare.
I lampi che uscivano dagli occhi del vecchio, la barba che gli urtava il
petto, quelle parole tuonanti, tutto lo rendeva simile a un Dio. Schiacciato
dalla sua maestosità, caddi alle sue ginocchia, chiedendogli perdono per la
mia collera. Figlio mio, mi rispose con un tono così dolce che il rimorso mi
penetrò nell'anima, figlio mio, non è certo per me che ti ho rimproverato.
Ahimè! Tu hai ragione, caro ragazzo: sono venuto per fare ben poco in
queste foreste, e Dio non ha servo più indegno di me. Ma, figlio mio, il
cielo, il cielo, ecco ciò che non dobbiamo mai accusare! Perdonami se ti ho
offeso, ma diamo ascolto a tua sorella. Forse c'è rimedio, non smettiamo di
sperare.
Chactas, è una religione ben divina quella che ha fatto della speranza una
virtù!
Giovane amico, continuò Atala, tu sei stato testimone della mia lotta, e
tuttavia non ne hai visto che una minima parte; ti nascondevo il resto. No, lo
schiavo negro che bagna con il suo sudore le sabbie ardenti della Florida è
meno miserabile di quanto non lo sia stata Atala. Spingendoti a fuggire,
eppure certa di morire se ti allontanavi da me; con il timore di fuggire con te
nei deserti, e tuttavia anelando l'ombra dei boschi... Ah! Se non avessi
dovuto abbandonare che i genitori, gli amici, la patria; se non fosse stata in
gioco che la perdita (pur orribile) della mia anima! Ma la tua ombra, o
madre, la tua ombra era sempre là, per rimproverarmi i suoi tormenti! Udivo
i tuoi lamenti, vedevo le fiamme dell'inferno che ti consumavano. Le mie
notti erano aride e piene di fantasmi, i miei giorni desolati; la rugiada della
sera, cadendo sulla mia pelle ardente, si asciugava; socchiudevo le labbra
alle brezze, ma le brezze, lungi dal portarmi frescura, s'infiammavano al
mio respiro. Quale tormento vederti continuamente accanto a me, lontano
da tutti gli uomini, in quelle solitudini profonde, e sentire tra te e me una
barriera invincibile! Passare la vita ai tuoi piedi, servirti come una schiava,
prepararti il pasto e il giaciglio in qualche angolo dimenticato dell'universo,
questa sarebbe stata la mia felicità suprema; quella felicità era alla mia
portata, ma non potevo gioirne. Che progetti non ho sognato! Che sogno
non è uscito da questo cuore così triste! A volte, fissando il mio sguardo su
te, arrivavo a concepire desideri tanto insensati quanto colpevoli: avrei
voluto essere la sola creatura vivente con te sulla terra; oppure, sentendo
che una divinità mi fermava in quegli orribili trasporti, avrei desiderato
l'annientamento di quella divinità, purché, stretta tra le tue braccia, rotolassi
d'abisso in abisso con le rovine di Dio e del mondo! Anche ora... lo
confesserò? Anche ora che l'eternità sta per inghiottirmi e vado a
presentarmi davanti al Giudice inesorabile, nel momento in cui, per
obbedire a mia madre, vedo con gioia la verginità che mi divora la vita;
ebbene! Per una spaventosa contraddizione, mi porto via il rimpianto di non
essere stata tua!
Figlia mia, l'interruppe il missionario, tu sei sconvolta dal dolore.
Questo eccesso di passione a cui ti abbandoni, raramente è giusto, non è
neppure naturale; e ciò lo rende meno colpevole agli occhi di Dio, perché si
tratta più di un errore della mente che di un vizio del cuore. Bisogna dunque
allontanare da te questi furori, che non sono degni della tua innocenza. Ma
d'altra parte, cara fanciulla, la tua impetuosa immaginazione ti ha troppo
allarmato riguardo ai voti che hai fatto. La religione non esige affatto un
sacrificio disumano. I suoi autentici sentimenti, la temperanza delle sue
virtù, sono ben al di sopra dei sentimenti esaltati e delle forzate virtù di un
preteso eroismo. Se tu avessi ceduto, ebbene, povera pecorella smarrita, il
buon Pastore ti avrebbe cercata, per ricondurti nel gregge. Ti si sarebbero
schiusi i tesori del pentimento: agli occhi degli uomini sono necessari
torrenti di sangue per cancellare le nostre colpe, ma a Dio basta una sola
lacrima. Rinfrancati dunque, mia cara figlia, la tua situazione esige un po' di
calma; rivolgiamoci a Dio, che guarisce tutte le piaghe dei suoi servitori.
Se, come spero, è sua volontà che tu sfugga alla malattia, scriverò al
vescovo di Québec; egli ha il potere necessario per scioglierti dai tuoi voti,
che sono voti semplici, e potrai finire i tuoi giorni vicino a me con Chactas,
tuo sposo.
Alle parole del vecchio, Atala fu presa da una lunga convulsione, da cui
uscì solo con i segni di un dolore spaventoso. Come!, disse congiungendo
appassionatamente le mani. C'era un rimedio! Potevo essere sciolta dai miei
voti! Sì, figlia, rispose il padre, e ancora lo puoi. È troppo tardi, è troppo
tardi!, esclamò. Devo morire proprio quando vengo a sapere che avrei
potuto essere felice! Avessi conosciuto prima questo santo vecchio! Come
sarei felice ora, con te, con Chactas cristiano... consolata, rassicurata da
questo prete augusto... nel deserto... per sempre... oh! troppa felicità!
Calmati, le dissi, prendendo una mano della sventurata. Calmati, quella
felicità sarà nostra. Mai! Mai!, disse Atala. Perché?, domandai. Tu non sai
ancora tutto, esclamò la vergine. È stato ieri... durante la tempesta... Stavo
per infrangere i voti; avrei immerso mia madre nelle fiamme dell'abisso; la
sua maledizione era già su di me; mentivo ormai al Dio che mi ha salvato la
vita... Mentre baciavi le mie labbra tremanti, tu non sapevi, non sapevi di
stringere tra le braccia la morte! O cielo!, gridò il missionario. Bambina
mia, cosa hai fatto? Un crimine, padre, disse Atala, con gli occhi stravolti,
ma ero io a perdermi, mia madre era salva. Vai avanti dunque, esclamai
impaurito. Ebbene! disse. Avevo previsto la mia debolezza; lasciando le
capanne, avevo portato con me.... Cosa? la interruppi con orrore. Un
veleno!, disse il padre. Lo porto in seno, gridò Atala.
La torcia sfugge di mano al Solitario, io cado come morto accanto alla
figlia di Lopez, il vecchio ci prende entrambi tra le braccia, e tutti e tre,
nell'ombra, per un momento mescoliamo i nostri singhiozzi su quel letto
funebre.
Risvegliamoci, risvegliamoci!, disse ben presto il coraggioso eremita
accendendo una lampada. Perdiamo tempo prezioso: intrepidi cristiani,
fronteggiamo gli assalti dell'avversità; la corda al collo, la cenere sul capo,
gettiamoci ai piedi dell'Altissimo, per implorare la sua clemenza, o per
sottometterci ai suoi decreti. Forse siamo ancora in tempo. Figlia, avresti
dovuto avvertirmi ieri sera.
Ahimè, padre, disse Atala, la notte scorsa vi ho cercato; ma il cielo, in
punizione dei miei peccati, vi ha allontanato da me. Ogni aiuto sarebbe stato
comunque inutile, perché anche gli Indiani, così abili in tutto ciò che
riguarda i veleni, non conoscono rimedi per quello che ho preso. O Chactas,
pensa al mio turbamento quando ho visto che il colpo non era veloce come
mi attendevo! L'amore ha raddoppiato le mie forze, la mia anima non ha
saputo separarsi da te così in fretta.
Non interruppi il racconto di Atala con singhiozzi, ma con gli eccessi noti
solo ai selvaggi. Mi rotolai furiosamente a terra, torcendomi le braccia,
divorandomi le mani. Il vecchio prete, con la sua meravigliosa dolcezza,
correva dal fratello alla sorella, prodigandoci mille soccorsi. Con la calma
del suo cuore e sotto il fardello degli anni, egli sapeva come farsi capire
dalla nostra giovinezza, e la religione gli suggeriva un tono più tenero e più
infiammato delle nostre passioni stesse. Quel prete, che da quarant'anni,
ogni giorno, s'immolava al servizio di Dio e degli uomini su quelle
montagne, non ti ricorda forse gli olocausti d'Israele, che fumano
perpetuamente sulle alture, al cospetto del Signore?
Ahimè! Invano tentò di portare qualche rimedio ai mali di Atala. La
fatica, il dolore, il veleno e una passione più mortale di qualsiasi veleno, si
erano uniti per rapire quel fiore alla solitudine. Verso sera si manifestarono
dei terribili sintomi; un generale torpore s'impossessò delle membra di
Atala, e le estremità del suo corpo iniziarono a raffreddarsi:
Toccami le dita, mi diceva, non le trovi già fredde? Non sapevo cosa
rispondere, mi si rizzavano i capelli dall'orrore; quindi aggiungeva: Ancora
ieri, mio caro, il tuo tocco mi faceva trasalire, ed ecco non sento più la tua
mano, non odo quasi più la tua voce, tutto attorno gli oggetti della grotta
scompaiono. Non cantano gli uccelli? Il sole sta per tramontare? Chactas, i
suoi raggi saranno bellissimi nel deserto, sulla mia tomba!
Atala, accorgendosi che quelle parole ci facevano scoppiare in lacrime, ci
disse: Perdonatemi, cari amici, sono davvero debole; ma forse sto per
diventare più forte. Eppure, morire così giovane, improvvisamente, con il
cuore così pieno di vita! Maestro di preghiere, abbi pietà di me; sostienimi.
Pensi che mia madre sia contenta, e che Dio mi perdoni per quello che ho
fatto?
Figlia mia, rispose il buon religioso, versando lacrime e asciugandole con
le sue dita tremanti e mutilate, figlia mia, tutte le tue sventure provengono
dalla tua ignoranza; sono la tua educazione da selvaggia e la mancanza
d'istruzione necessaria che ti hanno persa; tu non sapevi che una cristiana
non può disporre della propria vita. Consolati, dunque, povera pecorella;
Dio ti perdonerà a causa della tua semplicità di cuore. Tua madre e
l'imprudente missionario che la consigliava, furono più colpevoli di te; essi
sono andati oltre i loro poteri, strappandoti un voto inopportuno; ma che la
pace del Signore sia con loro. Tutti e tre voi offrite un terribile esempio dei
pericoli dell'entusiasmo e della mancanza di discernimento in materia di
religione. Rassicurati, bambina mia; colui che sonda le reni e i cuori vi
giudicherà dalle vostre intenzioni, che erano pure, e non dall'azione, che è
da condannare.
Quanto poi alla vita, se è giunto il momento di addormentarti nel Signore,
ah! figlia mia, perdi davvero poca cosa, perdendo questo mondo!
Malgrado la solitudine in cui hai vissuto, tu hai conosciuto il dolore; ma
cosa penseresti se tu fossi stata testimone dei mali della società, se
giungendo sulle rive d'Europa il tuo orecchio fosse stato colpito dal lungo
grido di dolore che si alza da quella vecchia terra? Tutti gemono quaggiù,
chi vive nelle capanne e chi vive nei palazzi; si sono viste piangere regine
come semplici donne, e ci si è stupiti di quante lacrime contengano gli occhi
dei re!
È l'amore che rimpiangi? Figlia mia, sarebbe come piangere per un sogno.
Conosci forse il cuore dell'uomo, e sapresti contare le incostanze del suo
desiderio? Sarebbe più facile calcolare il numero delle onde che scorrono
nel mare in tempesta. Atala, i sacrifici, gli altruismi, non sono legami eterni:
forse un giorno con la sazietà sarebbe arrivato il disgusto, il passato non
avrebbe contato più nulla, e non avreste scorto che gli inconvenienti di una
povera e disprezzabile unione. Non c'è dubbio, figlia mia, che gli amori più
belli furono quelli tra l'uomo e la donna usciti dalla mano del Creatore. Per
loro era stato preparato un paradiso, essi erano innocenti e immortali.
Perfetti nell'anima e nel corpo, si corrispondevano in tutto: Eva era stata
creata per Adamo, e Adamo per Eva. Se ciò nondimeno non hanno saputo
conservarsi in quello stato di felicità, quale coppia vi riuscirà dopo di loro?
Non voglio parlarti dei matrimoni dei primi uomini, di quelle unioni
ineffabili, quando la sorella andava sposa al fratello, quando amore e
amicizia fraterna si confondevano nello stesso cuore, e la purezza di uno
accresceva le delizie dell'altro. Tutte queste unioni sono state turbate;
sull'altare d'erba dove s'immolava il capretto è scivolata la gelosia e ha
regnato fin sotto la tenda d'Abramo, e anche nei talami dove i patriarchi
prendevano tanto piacere da dimenticare la morte delle loro madri.
Ti saresti dunque illusa, figlia mia, d'essere più innocente e più felice nei
tuoi legami di quelle sante famiglie da cui Gesù Cristo ha voluto
discendere? Ti risparmio i dettagli delle preoccupazioni della vita
domestica, le dispute, i rimproveri reciproci, le inquietudini e tutte quelle
pene segrete che vegliano sul guanciale del letto coniugale. La donna, ogni
volta che diventa madre, rinnova il suo dolore, e si sposa piangendo. E
quanti dolori per la sola perdita di un neonato a cui si dava il latte, e che
muore sul tuo seno! La montagna è stata piena di gemiti; niente poteva
consolare Rachele, perché i suoi figli non c'erano più. Queste tristezze
radicate negli affetti umani sono così forti che ho visto nella mia patria delle
gran dame, amate dai re, abbandonare la corte per seppellirsi nei chiostri e
mutilare la carne in rivolta, i cui piaceri non sono che dolori.
Ma forse dirai che questi ultimi esempi non ti riguardano; che la tua
ambizione si riduceva a voler vivere in un'oscura capanna con l'uomo che
avevi scelto; che cercavi meno le dolcezze del matrimonio che le seduzioni
di quella follia che la gioventù chiama amore? Illusione, chimera, vanità,
sogno di un'immaginazione ferita! Anch'io, figlia mia, ho conosciuto i
turbamenti del cuore: questa testa non è sempre stata calva, né questo seno
calmo come vi appare oggi. Abbiate fede nella mia esperienza: se l'uomo,
costante nei suoi affetti, potesse continuamente soddisfare un sentimento
continuamente rinnovato, solitudine e amore lo renderebbero senz'altro
simile a Dio; perché questi sono i due eterni piaceri del grande Essere. Ma
l'animo umano si stanca, e mai ama pienamente e a lungo lo stesso oggetto.
C'è sempre qualche punto dove due cuori non si toccano, e quei punti col
passar del tempo sono sufficienti per rendere insopportabile la vita.
Infine, figlia cara, gli uomini, nel loro sogno di felicità, hanno il grande
torto di dimenticare l'infermità della morte che è connessa alla loro natura:
la fine è necessaria. Presto o tardi, quale che fosse la vostra felicità, il bel
viso si sarebbe mutato nell'aspetto uniforme che il sepolcro dà alla famiglia
d'Adamo; neppure l'occhio di Chactas avrebbe potuto riconoscerti tra le tue
sorelle di tomba. Il dominio d'amore non si estende sui vermi della bara. Ma
che dico? (O vanità delle vanità!) Cosa raccontare del potere delle amicizie
terrene? Vuoi conoscerne, figlia cara, l'estensione?
Se un uomo tornasse alla luce qualche anno dopo la sua morte, dubito che
lo rivedrebbero con gioia, persino quelli che più hanno sparso lacrime sul
suo ricordo: così rapidamente si formano nuovi legami, così facilmente si
prendono altre abitudini, tanto è connaturata all'uomo l'incostanza, tanto
poco vale la nostra vita anche nel cuore dei nostri amici!
Ringrazia dunque la Bontà divina, figlia cara, che ti sottrae così
rapidamente a questa valle di miseria. Già le bianche vesti e l'abbagliante
corona delle vergini si preparano per te sulle nuvole; sento già la Regina
degli Angeli che ti grida: Vieni, degna serva, vieni mia colomba, vieni a
sederti sul trono immacolato, tra tutte queste fanciulle che hanno sacrificato
bellezza e gioventù al servizio dell'umanità, all'educazione dei bambini e ai
capolavori della penitenza. Vieni, rosa mistica, a riposarti in seno a Gesù
Cristo. Questa bara, questo letto nuziale che ti sei scelta, non sarà deluso, e
gli abbracci del tuo sposo celeste non finiranno mai!
Come l'ultimo raggio del giorno attenua i venti e diffonde la calma in
cielo, così le tranquille parole del vecchio acquietarono le passioni in seno
alla mia amata. Non sembrò più preoccupata che del mio dolore e di come
farmi sopportare la sua perdita. A volte mi diceva che sarebbe morta felice
se le avessi promesso di asciugare le mie lacrime; a volte mi parlava di mia
madre, della patria; cercava di distrarmi dal dolore presente risvegliando in
me un dolore passato. Mi esortava alla pazienza, alla virtù.
Non sarai infelice per sempre, mi diceva, se oggi il cielo ti mette alla
prova, è solo per renderti più compassionevole verso i mali degli altri. Il
cuore, o Chactas, è come quegli alberi che danno il loro balsamo per le
ferite degli uomini solo quando sono stati feriti a loro volta dal ferro.
Dopo aver parlato in questo modo, si voltava verso il missionario,
cercando da lui quel sollievo che mi aveva comunicato, e di volta in volta
consolatrice e consolata, sul letto di morte dava e riceveva la parola di vita.
Intanto l'eremita raddoppiava il suo zelo. Al fuoco della carità le sue
vecchie ossa si erano rianimate, e sempre apprestava rimedi, riaccendendo il
fuoco, riassettando il giaciglio, e teneva ammirevoli discorsi su Dio e sulla
felicità dei giusti. Con in mano la fiaccola della religione, egli sembrava
precedere Atala nella tomba, per mostrarne le segrete meraviglie. La
maestosità di quel trapasso cristiano riempiva l'umile grotta, e certo gli
spiriti celesti seguivano con attenzione quella scena, dove la religione
lottava da sola contro l'amore, la giovinezza e la morte.
Quella religione divina trionfava, ci accorgevamo della sua vittoria da una
santa tristezza che prendeva il posto, nei nostri cuori, ai primi trasporti delle
passioni. Verso metà della notte, sembrò che Atala si rianimasse per ripetere
le preghiere che il religioso recitava ai bordi del suo giaciglio. Poco dopo,
ella mi allungò una mano e con voce appena udibile, mi disse: Figlio di
Outalissi, ti ricordi di quella prima notte, quando mi scambiasti per la
Vergine degli ultimi amori? Singolare presagio del nostro destino! Si fermò,
poi riprese: Quando penso che ti lascio per sempre il mio cuore fa un tale
sforzo per tornare a vivere, che mi sento quasi capace di rendermi
immortale a forza d'amore. Ma, o mio Dio, sia fatta la tua volontà!
Per qualche istante Atala tacque, quindi aggiunse: Non mi resta che
chiederti perdono per i mali che ti ho causato. Ti ho molto tormentato con il
mio orgoglio e con i miei capricci. Chactas, un po' di terra gettata sul mio
corpo metterà un mondo intero tra te e me, e ti libererà per sempre dal peso
delle mie disgrazie.
Perdonarti?, risposi soffocato dalle lacrime. Non sono forse io la causa
delle tue sventure? Amico mio, disse, interrompendomi, tu mi hai reso
molto felice, e se dovessi ricominciare a vivere, preferirei ancora la felicità
di averti amato qualche istante in un esilio sfortunato, a tutta una vita di
quiete nella mia patria.
Qui la voce di Atala si spense; attorno agli occhi e alla bocca le si
adunarono le ombre della morte; le dita vagavano, cercando di toccare
qualcosa; parlava a voce bassissima con spiriti invisibili. In breve, facendo
uno sforzo, tentò, ma invano, di staccarsi dal collo il piccolo crocifisso; mi
pregò di scioglierlo io stesso, e mi disse:
Quando ti parlai per la prima volta, tu vedesti al bagliore del fuoco
brillare questa croce sul mio seno; è il solo bene posseduto da Atala. Lopez,
tuo e mio padre, lo inviò a mia madre pochi giorni dopo la mia nascita.
Ricevi dunque da me questa eredità, fratello mio, conservalo in ricordo
delle mie sventure. Nei dolori della tua vita ricorrerai al Dio degli
sventurati.
Chactas, ho un'ultima preghiera da farti. Amico, la nostra unione sarà
stata breve sulla terra, ma dopo questa vita ce n'è una più lunga. Sarebbe
spaventoso essere separata da te per sempre! Oggi io non faccio che
precederti, vado ad aspettarti nel regno celeste. Se mi hai amata, fatti
istruire nella religione cristiana, che preparerà il nostro ricongiungimento.
Proprio sotto i tuoi occhi questa religione sta compiendo un grande
miracolo, poiché mi rende capace di abbandonarti senza morire nelle
angosce della disperazione. Nel frattempo, Chactas, non voglio da te che
una semplice promessa, so bene quanto costa un giuramento per
domandartelo. Forse questo voto ti separerà da qualche donna più fortunata
di me... O madre mia, perdona tua figlia. O Vergine, trattenete il vostro
corruccio. Ricado nelle mie debolezze, ti sottraggo, mio Dio, pensieri che
non dovrebbero essere che per te!
Straziato dal dolore, promisi a Atala che un giorno avrei abbracciato la
religione cristiana. A questo spettacolo, il Solitario, alzandosi con aria
ispirata, e tendendo le braccia verso la volta della grotta, esclamò: È tempo,
è tempo d'invocare Dio in questo luogo!
Appena ebbe pronunciate queste parole, una forza soprannaturale mi
costringe a cadere in ginocchio, e mi piega la testa ai piedi del letto di Atala.
Il prete apre un luogo segreto dove teneva rinchiusa un'urna d'oro, coperta
da un velo di seta; egli si prosterna in profonda adorazione.
Improvvisamente la grotta parve illuminata; si udivano nell'aria le parole
degli angeli e i fremiti delle arpe celesti; e quando il Solitario estrasse il
vaso sacro dal tabernacolo, credetti di vedere Dio stesso uscire dal fianco
della montagna.
Il prete scoperchiò il calice; prese tra le dita un'ostia bianca come la neve
e si avvicinò a Atala, pronunciando parole misteriose. La santa aveva gli
occhi levati al cielo, in estasi. Tutti i suoi dolori parvero sospesi, tutta la vita
le si raccolse sulla bocca; le labbra si schiusero e cercarono rispettosamente
quel Dio nascosto sotto il pane mistico. Quindi, quel vecchio divino intinge
un po' di cotone nell'olio consacrato; ne sfrega le tempie di Atala, guarda
per un istante la giovane moribonda, e all'improvviso gli sfuggono queste
forti parole: Parti, anima cristiana: va' a ricongiungerti al tuo Creatore!
Rialzando allora il mio capo chino, guardando il vaso dove c'era l'olio santo,
esclamai: Padre mio, questo rimedio renderà la vita a Atala? Sì, figlio, disse
il vecchio cadendomi tra le braccia, una vita eterna! Atala era spirata.
A questo punto, per la seconda volta dall'inizio del racconto, Chactas fu
costretto a interrompersi. Era inondato dalle lacrime, e la voce non lasciava
sfuggire che parole smozzicate. Il Sachem cieco si scoprì il petto e ne
estrasse il crocifisso di Atala.
Eccolo, gridò, il pegno dell'avversità! O René, figlio mio, tu lo vedi; ma
io, io non posso più vederlo! Dimmi se dopo tanti anni l'oro si è alterato.
Non vi scorgi la traccia delle mie lacrime? Sapresti riconoscere il luogo
che una santa ha toccato con le sue labbra? Perché Chactas non è ancora
cristiano?
Quali frivole ragioni di politica e di patriottismo l'hanno fin qui trattenuto
negli errori dei padri? No, non voglio tardare più a lungo. La terra mi grida:
Quando scenderai nella tomba, e cosa aspetti ad abbracciare una religione
divina? O terra, non attenderai a lungo: appena un prete avrà ringiovanito
nell'acqua questa testa bianca per i dolori, spero di riunirmi a Atala. Ma
concludiamo ciò che ancora rimane da raccontare della mia storia.
I funerali
Non cercherò, o René, di descriverti oggi la disperazione che afferrò la
mia anima quando Atala ebbe reso l'ultimo respiro. Bisognerebbe avere più
calore di quanto me ne resti; bisognerebbe che i miei occhi chiusi potessero
riaprirsi al sole, per chiedergli conto delle lacrime versate alla sua luce.
Sì, la luna che ora brilla sulle nostre teste si stancherà di rischiarare le
distese solitarie del Kentucky; sì, il fiume che ora trasporta le nostre
piroghe, sospenderà il corso delle sue acque prima che le mie lacrime
smettano di scorrere per Atala! Per due interi giorni rimasi insensibile ai
discorsi dell'eremita. Tentando di calmare le mie pene, quell'uomo
eccellente non si serviva certo di vane ragioni terrene, si limitava a dirmi:
Figliolo, è la volontà di Dio, e mi stringeva tra le braccia. Mai avrei creduto
che in quelle poche parole di cristiana rassegnazione ci fosse tanta
consolazione, se io stesso non lo avessi provato.
La tenerezza, l'umiltà, l'inalterabile pazienza di quel vecchio servitore di
Dio, ebbero infine ragione del mio ostinato dolore. Provai vergogna delle
lacrime che gli facevo versare. Padre, gli dissi, ora basta: che le passioni di
un giovane non turbino più la pace dei tuoi giorni. Lasciami portar via le
spoglie della mia sposa; le seppellirò in qualche angolo del deserto, e se
ancora sarò condannato a vivere, cercherò di essere degno di quelle nozze
eterne che mi sono state promesse da Atala.
A quell'insperato ritorno di coraggio, il buon padre trasalì di gioia,
esclamò: O sangue di Gesù Cristo, sangue del mio divino maestro, in questo
riconosco i tuoi meriti! Tu salverai sicuramente questo giovane. Dio mio
completa la tua opera. Rendi la pace a un'anima turbata, e non lasciarle che
l'umile e utile ricordo delle sue sventure.
Quel giusto rifiutò di abbandonarmi il corpo della figlia di Lopez, ma mi
propose di far venire i suoi neofiti per seppellirla con ogni fasto cristiano; a
mia volta rifiutai. Le disgrazie e le virtù di Atala, gli dissi, sono state
sconosciute agli uomini; che la sua tomba, scavata furtivamente dalle nostre
mani, partecipi di quella oscurità! Decidemmo di partire il giorno
successivo al levar del sole per seppellire Atala sotto l'arco del ponte
naturale, all'entrata dei Boschetti della morte. Decidemmo anche di passare
la notte in preghiera presso il corpo della santa.
Verso sera trasportammo le sue preziose spoglie a un'imboccatura della
grotta che dava a nord. L'eremita le aveva avvolte in una specie di lino
europeo, tessuto dalla madre: era l'unica cosa che gli restava della patria, e
da molto tempo l'aveva destinato alla propria tomba. Atala era distesa su un
prato di sensitive di montagna; i piedi, la testa, le spalle e un tratto di seno
erano scoperti. Tra i capelli era visibile un fiore di magnolia appassito... lo
stesso che io avevo deposto sul suo letto di vergine, per renderla feconda.
Le labbra languide sembravano sorridere come un bocciolo di rosa colto da
due mattine. Sulle sue guance di un bianco luminoso si distingueva qualche
vena azzurra. I suoi occhi erano chiusi, i piedi modesti erano giunti, e le
mani d'alabastro le premevano sul cuore un crocifisso d'ebano; lo scapolare
dei suoi voti le stava attorno al collo. Sembrava che l'angelo della
malinconia le avesse fatto un incantesimo con il doppio sonno
dell'innocenza e della tomba. Non ho visto nulla di più celestiale. Chiunque
avesse ignorato che la giovane aveva goduto della luce, avrebbe potuto
prenderla per la statua della Verginità addormentata.
Il religioso non smise di pregare per tutta la notte. Io ero seduto in
silenzio a capo del letto funebre della mia Atala. Quante volte, mentre
dormiva, avevo tenuto sulle ginocchia la sua bella testa! Quante volte mi
ero chinato su lei, per udire e per respirare il suo respiro! Ma ora, nessun
rumore usciva da quel seno immobile, e invano attendevo il risveglio della
bellezza!
La luna prestò a quella veglia funebre la sua pallida fiaccola. Si levò a
metà della notte, come una bianca vestale che vada a piangere sulla bara
dell'amica. In breve sparse nei boschi quel grande segreto della malinconia
che ama raccontare alle vecchie querce e alle antiche rive dei mari. Di
quando in quando, il religioso immergeva un ramoscello fiorito nell'acqua
consacrata, poi, scuotendo il ramo umido, profumava la notte con i balsami
del cielo. A volte ripeteva su un'aria antica i versi di un vecchio poeta di
nome Giobbe, diceva:
Sono passato come un fiore; sono avvizzito
come l'erba dei campi.
Perché è stata data la luce a un miserabile,
e la vita a quelli che hanno l'amarezza nel cuore?
Così cantava quell'uomo antico. La sua voce grave e un po' cantilenante si
perdeva nel silenzio dei deserti. I nomi di Dio e della tomba uscivano da
tutti gli echi, da tutti i torrenti, da tutte le foreste. La colomba della Virginia
che tubava, la caduta di un torrente nella montagna, i rintocchi della
campana che chiamava i viaggiatori, si univano a quei canti funebri, ed era
come ascoltare nei Boschetti della morte il coro lontano dei defunti che
rispondevano alla voce del Solitario.
Nel frattempo una lingua d'oro si formò ad oriente. Sulle rocce gli
sparvieri gridavano, e le martore rientravano nelle cavità degli olmi: era il
segnale del corteo di Atala. Mi caricai il corpo sulle spalle; l'eremita
camminava davanti a me, con un badile in mano. Cominciammo a scendere
di roccia in roccia; vecchiaia e morte insieme rallentavano i nostri passi.
Alla vista del cane che ci aveva trovati nella foresta, e che ora, saltellando
per la gioia, ci indicava un'altra strada, scoppiai in lacrime. Spesso i lunghi
capelli di Atala, trastullo per le brezze del mattino, stendevano sui miei
occhi il loro velo d'oro; spesso, piegato sotto quel peso, ero costretto a
deporlo sul muschio, e a sedermi accanto per riprendere le forze. Alla fine
raggiungemmo il luogo indicato dal mio dolore; scendemmo sotto l'arco del
ponte. Figlio mio, avresti dovuto vedere il giovane selvaggio e il vecchio
eremita, uno di fronte all'altro, in ginocchio nel deserto, mentre scavavano
con le loro mani una tomba per la povera fanciulla il cui corpo era disteso lì
vicino, nel greto asciutto di un torrente!
Quando il nostro lavoro fu terminato, trasportammo la bellezza nel suo
letto d'argilla. Ahimè, ben altro giaciglio avevo sperato di preparare per lei!
Presi allora un po' di polvere nella mano, e serbando quel terribile silenzio,
posai per l'ultima volta i miei occhi sul viso di Atala. Quindi sparsi la terra
del sonno su quella fronte di diciotto primavere; vidi poco a poco
scomparire i lineamenti della sorella, la sua grazia nascondersi dietro la
cortina dell'eternità; il seno spuntò per un po' dalla terra annerita, come un
giglio bianco che s'innalza sulla scura argilla: Lopez, gridai allora, guarda
tuo figlio che seppellisce tua figlia! E terminai di coprire Atala con la terra
del sonno.
Tornammo alla grotta, e misi al corrente il missionario del mio progetto di
stabilirmi presso di lui. Il santo, che conosceva perfettamente il cuore
dell'uomo, mise a nudo i miei pensieri e le astuzie del dolore. Mi disse:
Chactas, figlio di Outalissi, finché Atala era in vita, io stesso ti ho
sollecitato a rimanere con me; ma ora la tua sorte è mutata: sei in obbligo
con la patria. Credimi, figlio mio, nessun dolore è eterno; prima o poi
finisce, perché il cuore dell'uomo è finito; è una delle nostre grandi miserie:
non siamo neppure capaci di essere troppo a lungo infelici. Fai ritorno al
Meschacebé: vai a consolare tua madre, che piange tutti i giorni, e che ha
bisogno del tuo sostegno. Fatti istruire nella religione della tua Atala,
appena ne avrai occasione, e ricordati che le hai promesso di essere un
cristiano virtuoso. Quanto a me, veglierò sulla sua tomba. Parti, figlio mio.
Dio, l'anima della sorella, e il cuore del tuo vecchio amico saranno con te.
Così parlò l'uomo delle rocce; la sua autorità era troppo grande, la sua
saggezza troppo profonda, perché io non gli obbedissi. Il giorno successivo
lasciai il mio venerabile ospite che, stringendomi al cuore, mi diede gli
ultimi consigli, l'ultima benedizione e le sue ultime lacrime. Passai dalla
tomba; fui sorpreso di trovarvi una piccola croce che si ergeva al di sopra
della morte, come quando si può ancora scorgere l'albero di un vascello che
sta naufragando. Pensai che il Solitario fosse venuto, durante la notte, a
pregare sulla tomba; quel segno d'amicizia e di religiosità mi fece scorrere
abbondanti lacrime. Fui tentato di scoprire la fossa per vedere ancora una
volta la mia amata; mi trattenne un religioso timore. Mi sedetti sulla terra
smossa di fresco. Con un gomito sulle ginocchia, e la testa sulla mano,
rimasi avvolto nelle fantasticherie più amare. O René, là, per la prima volta,
feci serie riflessioni sulla vanità dei nostri giorni, e sulla ancor più grande
vanità dei nostri progetti! Ah! Ragazzo mio, chi non le ha fatte queste
riflessioni! Sono solo un vecchio cervo bianco d'inverni; i miei anni fanno a
gara con quelli della cornacchia: ebbene, malgrado tanti giorni che si sono
accumulati sul mio capo, malgrado una così lunga esperienza di vita, non ho
ancora incontrato un uomo che non sia stato ingannato nei suoi sogni di
felicità, neppure un cuore che non nasconda una piaga nascosta. Il cuore in
apparenza più sereno assomiglia al pozzo naturale della savana di Alachua:
la superficie sembra calma e pura, ma se guardi in fondo al bacino vi scorgi
il largo coccodrillo, che il pozzo nutre con le sue acque.
Dopo aver assistito al levarsi e al tramontare del sole su quel luogo di
dolore, il giorno seguente, al primo grido della cicogna, mi apprestai a
lasciare la sacra sepoltura. Me ne partii come da un confine, da dove volevo
lanciarmi nel cammino della virtù. Tre volte invocai l'anima di Atala; tre
volte il Genio del deserto rispose alle mie grida da sotto l'arco funebre.
M'inchinai quindi verso oriente, e in lontananza, sui sentieri della
montagna, vidi l'eremita che si recava nella capanna di qualche ammalato.
Cadendo in ginocchio, avvinghiato alla fossa, gridai: Dormi in pace in
questa terra straniera, fanciulla troppo sfortunata! Come ricompensa per il
tuo amore, per l'esilio e per la morte, anche Chactas sta per abbandonarti!
Solo allora, versando fiotti di lacrime, mi separai dalla figlia di Lopez, solo
allora mi strappai da quei luoghi, lasciando ai piedi del monumento della
natura, un monumento più augusto: l'umile tomba della virtù.
EPILOGO
Questo è il racconto fatto da Chactas, figlio di Outalissi, il Natché, a
René, l'Europeo. I padri l'hanno ripetuto ai figli, e io, viaggiatore in terre
lontane, ho fedelmente riportato quanto ho appreso dagli Indiani. Vedo in
questo racconto l'immagine di un popolo cacciatore e contadino, e la
religione, prima legislatrice degli uomini; i pericoli dell'ignoranza e
dell'entusiasmo religioso, opposti alla ragione, alla carità e all'autentico
spirito dei Vangeli; i combattimenti delle passioni e delle virtù in un cuore
semplice, e infine il trionfo del Cristianesimo sul più focoso dei sentimenti e
sulla più terribile delle paure, l'amore e la morte.
Quando un Seminole mi raccontò quella storia, la trovai molto istruttiva e
bellissima, perché vi mise il fiore del deserto, la grazia della capanna, e una
semplicità nel raccontare il dolore che non posso vantarmi di aver
conservato. Ma mi rimaneva una cosa da sapere. Chiesi cosa ne fosse stato
del padre Aubry, ma nessuno me lo sapeva dire. Lo avrei ignorato per
sempre se la Provvidenza, che tutto dirige, non mi avesse svelato quanto
cercavo. Ecco cosa accadde:
Avevo percorso le rive del Meschacebé, che un tempo costituivano il
confine meridionale della Nuova Francia, ed ero curioso di vedere a nord
l'altra meraviglia di quel dominio, la cascata del Niagara. Ero arrivato
vicinissimo al salto, nell'antico paese degli Agonnonsioni, quando un
mattino, attraversando una radura, vidi una donna seduta sotto un albero,
che teneva sulle ginocchia un bambino morto. Mi avvicinai adagio alla
giovane madre, e udii che diceva:
Se tu fossi rimasto con noi, caro figlio, con quanta grazia la tua mano non
avrebbe teso l'arco! Il tuo braccio avrebbe domato la furia dell'orso; e in
cima alla montagna le tue gambe avrebbero sfidato alla corsa il capriolo.
Bianco ermellino della roccia, andare così giovane nel paese delle anime!
Come farai a viverci? Non ci sarà tuo padre a nutrirti con il frutto della sua
caccia. Avrai freddo, ma nessuno spirito ti darà pelli per coprirti. Oh!
Bisogna che mi affretti a raggiungerti, per cantarti le canzoni, per porgerti
il seno.
E la giovane madre, che cantava con voce tremante, cullava il suo
bambino sulle ginocchia, gli inumidiva le labbra con il latte materno,
prodigando alla morte quelle cure che si riservano alla vita.
La donna voleva far seccare il corpo del figlio sui rami di un albero,
secondo l'usanza indiana, così da poterlo poi condurre nelle tombe dei padri.
Spogliò dunque il neonato, e dopo aver respirato per qualche istante sulla
sua bocca, disse: Anima di mio figlio, anima bella, un giorno tuo padre ti
creò sulle mie labbra con un bacio; ahimè, le mie labbra non hanno il potere
di darti una seconda nascita! Quindi si scoprì il seno e abbracciò quelle
spoglie gelide, che certo si sarebbero rianimate al fuoco del cuore materno,
se Dio non avesse riservato a se stesso il soffio che dà la vita.
La donna si alzò, e cercò con lo sguardo un albero sui rami del quale
poter esporre il figlio. Scelse un acero dai fiori rossi, inghirlandato d'appio,
che emanava i più soavi profumi. Abbassò con una mano i rami inferiori, e
con l'altra vi sistemò il corpo; lasciando poi la presa sul ramo, il ramo tornò
alla sua posizione naturale, portandosi dietro la spoglia dell'innocenza
nascosta nel fogliame odoroso. Oh! Com'è commovente questa usanza
indiana! Vi ho visti nelle vostre desolate campagne, pomposi monumenti
dei Crasso e dei Cesari, ma a voi preferisco ancora le aeree tombe del
selvaggio, questi mausolei di fiori e verzure che l'ape profuma, cullati da
zefiro, e dove l'usignolo costruisce il nido, lasciando udire il suo melodioso
lamento. Se poi sono le spoglie di una fanciulla ad essere sospese dalla
mano dell'amante all'albero della morte; se sono i resti del caro figlio, che la
madre ha messo nella dimora degli uccellini, l'incanto raddoppia. Mi
avvicinai alla donna che gemeva ai piedi dell'acero; le imposi le mani sul
capo, lanciando le tre grida di dolore. Poi, senza parlarle, prendendo come
aveva fatto lei un ramo, scostai gli insetti che ronzavano attorno al corpo del
bambino. Ma feci attenzione a non spaventare una colomba che era lì
vicino.
L'Indiana le diceva: Colomba, se non sei l'anima di mio figlio che è volata
via, tu sei certo una madre in cerca di qualcosa per fare un nido. Prendi
questi capelli che non laverò più nell'acqua di giunco; prendine per mettere
a letto i tuoi piccoli: voglia il grande Spirito conservarteli!
Intanto la madre piangeva di gioia vedendo la gentilezza dello straniero.
Mentre eravamo intenti a fare ciò, si avvicinò un giovane e disse: Figlia di
Céluta, riprendi nostro figlio, non ci fermeremo più a lungo in questo luogo,
partiremo al primo sole. Allora io dissi: Fratello, ti auguro un cielo azzurro,
molti caprioli, un mantello di castoro e la speranza. Non sei dunque di
questo deserto? No, rispose il giovane, siamo in esilio, alla ricerca di una
patria. Così dicendo, il guerriero abbassò la testa sul petto, e con la cima
dell'arco colpiva la sommità dei fiori. Capii che in fondo a quella storia
c'erano delle lacrime, e tacqui. La donna riprese il figlio dai rami dell'albero,
e lo diede da portare allo sposo. Allora dissi: Permettete che questa notte vi
accenda il fuoco? Non abbiamo una capanna, continuò il guerriero. Se vuoi
seguirci, ci accamperemo ai bordi della cascata. Lo voglio senz'altro,
risposi, e partimmo insieme.
In breve arrivammo sulle rive della cateratta, che si annunciava con uno
spaventoso muggito. Essa è formata dal fiume Niagara, che esce dal lago
Erie e si getta nel lago Ontario; l'altezza a perpendicolo è di
centoquarantaquattro piedi. Dal lago Erie fino al salto il fiume vi accorre
con una china rapida, e al momento della caduta è più un mare che un
fiume, i cui torrenti si affrettano verso la bocca spalancata di un abisso. La
cateratta si divide in due rami, curvandosi a ferro di cavallo. Tra le due
cascate si spinge un'isola scavata al di sotto, che si affaccia con tutti i suoi
alberi su quel caos di onde. La massa del fiume che si precipita a
mezzogiorno si arrotonda in un vasto cilindro, poi si srotola in una coltre
nevosa, luccicando al sole in una miriade di colori. Quella che cade a
levante scende in un'ombra spaventosa; la si direbbe la colonna d'acqua del
diluvio. Mille arcobaleni si curvano e s'incrociano sull'abisso. L'acqua,
colpendo la roccia tremante, zampilla in turbini di schiuma che si alzano
sopra le foreste, come il fumo di un vasto braciere. Pini, noci selvatici,
rocce tagliate in forma di fantasmi, addobbano la scena. Aquile trascinate
dalla corrente d'aria scendono volteggiando nel fondo dell'abisso; i tassi si
sospendono con le loro code flessibili alla cima di un ramo abbassato, per
afferrare nell'abisso i cadaveri straziati dalle rapide e dagli orsi.
Mentre, con un piacere vicino al terrore, contemplavo quello spettacolo,
l'Indiana e il suo sposo mi abbandonarono. Li cercai, risalendo il fiume a
monte della cascata, e ben presto li trovai in un angolo adatto al loro
cordoglio. Erano stesi sull'erba con dei vecchi, accanto ad alcune ossa
umane avvolte in pelli d'animali. Meravigliato per tutto ciò che vedevo da
qualche ora, mi sedetti accanto alla giovane madre, e le dissi: Sorella, cosa
significa tutto ciò? Mi rispose: È la terra della patria, fratello; sono le ceneri
dei nostri avi, che ci seguono nell'esilio. Ma come avete potuto ridurvi in
una simile disgrazia?, esclamai. La figlia di Céluta continuò: Noi siamo
quanto rimane dei Natchez. Dopo il massacro che compirono i Francesi ai
danni della nostra nazione per vendicare i loro fratelli, quelli di noi che
sfuggirono ai vincitori, trovarono asilo presso i Chikassas, nostri vicini.
Molto a lungo vi abitammo in pace; ma sette lune or sono i bianchi della
Virginia si sono impadroniti delle nostre terre, dicendo che erano state loro
donate da un re europeo. Abbiamo alzato gli occhi al cielo e, caricati i resti
dei nostri avi, abbiamo ripreso il cammino attraverso il deserto. Durante il
viaggio io ho partorito; e poiché il mio latte, a causa del dolore, era cattivo,
ha fatto morire il bambino. Così dicendo, la giovane madre si asciugò gli
occhi con i capelli; anch'io piangevo.
In breve le dissi: Sorella, adoriamo il grande Spirito, tutto accade per
volontà sua. Siamo tutti viandanti; i nostri padri lo erano come noi; ma c'è
un luogo dove ci riposeremo. Se non temessi di avere la lingua leggera
come quella di un bianco, vi chiederei se avete sentito parlare di Chactas, il
Natché. A queste parole, l'Indiana mi guardò e disse: Chi ti ha parlato di
Chactas, il Natché? La saggezza, risposi. L'Indiana continuò: Ti dirò ciò che
so, dal momento che tu hai allontanato le mosche dal corpo di mio figlio, e
hai detto belle parole sul grande Spirito. Io sono la figlia della figlia di
René, l'Europeo, che Chactas aveva adottato. Chactas, che aveva ricevuto il
battesimo, e René, il mio sventurato progenitore, sono periti nel massacro.
L'uomo non fa che andare di dolore in dolore, risposi inchinandomi.
Potresti darmi notizie di padre Aubry? Non è stato più fortunato di Chactas,
disse l'Indiana. I Cherochesi, nemici dei Francesi, penetrarono nella sua
missione; vi arrivarono condotti dal suono della campana che veniva
suonata per soccorrere i viaggiatori. Padre Aubry poteva salvarsi, ma non
volle abbandonare i suoi figli, e rimase per dar loro il coraggio di morire,
con il suo esempio. Fu bruciato in mezzo a grandi torture; ma non gli
estorsero un solo grido che potesse suonare ingiurioso verso il suo Dio, o
disonorante per la sua patria. Durante il supplizio non smise di pregare per i
suoi carnefici e di compatire la sorte delle vittime. Per strappargli un segno
di debolezza, i Cherochesi condussero ai suoi piedi un selvaggio cristiano,
che avevano orribilmente mutilato. Ma rimasero molto stupiti nel vedere
quel giovane gettarsi in ginocchio, e baciare le ferite del vecchio eremita
che gli gridava: Figlio mio, stiamo dando spettacolo agli angeli e agli
uomini. Gli Indiani, furiosi, gli immersero un ferro rovente nella gola, per
impedirgli di parlare. Allora, non potendo più consolare gli uomini, spirò.
Si dice che i Cherochesi, per quanto abituati a vedere i selvaggi soffrire
pazientemente, non poterono impedirsi di confessare che nell'umile
coraggio di padre Aubry c'era qualcosa di sconosciuto per loro, e che
superava ogni coraggio terreno. Molti di essi, colpiti da quella morte, si
sono fatti cristiani.
Qualche anno dopo, Chactas, di ritorno dalla terra dei bianchi, avendo
appreso le disgrazie di quel maestro di preghiera, partì per andare a
raccogliere le sue ceneri e quelle di Atala. Arrivò nel luogo dove era situata
la Missione, ma riuscì appena a riconoscerlo. Il lago era straripato, e la
savana era diventata una palude; il ponte naturale, crollando, aveva sepolto
sotto le sue macerie la tomba di Atala e i Boschetti della morte. Chactas
vagabondò a lungo in quei luoghi; visitò la grotta del Solitario, che trovò
piena di rovi e di lamponi, e dove una cerva allattava il suo cerbiatto. Si
sedette sulla roccia della veglia funebre, dove non vide che le piume d'ala
degli uccelli di passaggio. Mentre piangeva, il serpente amico del
missionario uscì dai cespugli vicini, e venne ad attorcigliarsi ai suoi piedi.
Chactas riscaldò sul suo petto l'amico fedele, l'unico rimasto in mezzo a
quelle rovine. Il figlio di Outalissi ha raccontato che più volte,
all'approssimarsi della notte, aveva creduto di vedere le ombre di Atala e di
padre Aubry levarsi nel vapore del crepuscolo. Quelle visioni lo riempirono
di un timore religioso e di una triste gioia.
Dopo aver invano cercato la tomba della sorella e quella dell'eremita,
stava già per abbandonare quei luoghi quando la cerva della grotta si mise a
saltargli davanti. Si fermò solo davanti alla croce della Missione. La croce,
allora, era per metà circondata dall'acqua; il legno era consumato dal
muschio, e il pellicano del deserto era solito sporgersi dai suoi bracci tarlati.
Chactas pensò che la cerva, riconoscente, l'avesse condotto sulla tomba del
suo ospite. Si fece il segno della croce sotto la roccia che un tempo serviva
da altare, e vi trovò i resti di un uomo e di una donna. Non dubitò affatto
che non fossero quelli del prete e della vergine, che forse gli angeli avevano
sepolto in quel luogo: li avvolse in pelli d'orso, e riprese il cammino verso il
suo paese, portando con sé le spoglie preziose che risuonavano sulle sue
spalle come la faretra della morte. Di notte, se le metteva sotto la testa, e
faceva sogni d'amore e di virtù. O straniero, tu puoi qui contemplare quella
polvere, insieme a quella dello stesso Chactas!
Quando l'Indiana finì di pronunciare quelle parole, mi alzai; mi avvicinai
a quelle ceneri sacre, e mi prosternai davanti a loro in silenzio.
Poi, allontanandomi a grandi passi, esclamai: Così passa sulla terra tutto
ciò che fu buono, virtuoso, sensibile! Uomo, tu non sei che un sogno veloce,
un sogno doloroso; la tua esistenza è fatta di sventura; solo la tristezza della
tua anima e l'eterna malinconia dei tuoi pensieri fanno di te qualcosa!
Queste riflessioni mi tennero occupato tutta la notte. Il giorno successivo,
all'alba, i miei ospiti mi lasciarono. Aprivano il cammino i giovani guerrieri,
le spose lo chiudevano; i primi si portavano le sacre reliquie, le seconde i
loro neonati; i vecchi, in mezzo, camminavano lentamente, tra gli avi e la
posterità, tra i ricordi e la speranza, tra la patria persa e quella a venire.
Oh! Quante lacrime si spargono quando si deve abbandonare la terra natia
in questo modo, quando dall'alto della collina dell'esilio si scorgono per
l'ultima volta il tetto sotto cui fummo nutriti e il fiume della capanna, che
continua a scorrere triste attraverso i campi solitari della patria!
Sfortunati indiani che ho visto errare per i deserti del Nuovo Mondo, con
le ceneri dei vostri avi, voi che mi avete dato ospitalità malgrado la vostra
miseria, oggi io non potrei restituirvela, perché, come voi, erro alla mercé
degli uomini; ma io, meno fortunato di voi nel mio esilio, non ho potuto
portare con me le ossa dei miei padri.