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Spedizione in Abbonamento Postale 70% - Filiale di Savona
Vol. XX, N. 4, 2012
TRA PRASSI E TEORIA
APPUNTI DI VIAGGIO
Edizioni
QUATTRO PASSI PER STRADA
OLTRE...
* Omaggio a Hermann Zapf *
Progetto informatico di Tiziano Stefanelli
IL VASO DI PANDORA
Edizioni
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XXI, N.3, 2013
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane
<<Il Vaso di Pandora>>
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IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXI, N. 3, 2013
Sommario
Editoriale
Maurizio Marcenaro
pag. 7
TRA PRASSI E TEORIA
Bisogna usare i farmaci antidepressivi con i pazienti depressi?
Una domanda non retorica e una risposta non scontata
G. Corsini, E. Maura
pag. 13
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Quale psicoterapia per la depressione?
M.D. Fiaschi
pag. 31
APPUNTI DI VIAGGIO
Variazioni della “distanza” nella relazione psicoterapeutica
M. Briselli, P. Buonsanti, M. Devale, P. Gianotti, M. Moccafighe
pag. 51
QUATTRO PASSI PER STRADA
L’anoressia come disperata volontà di esistere
P.F. Cerro, L. Pasero
pag. 69
OLTRE…
La formazione del Prof. Giovanni Carlo Zapparoli alle Comunità
“La Redancia”
M. Solari
pag. 85
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXI, N. 3, 2013
Table of contents
Editorial
Maurizio Marcenaro
pag. 7
TRA PRASSI E TEORIA
You have to use antidepressant drugs with depressed patients?
A question not rhetorical and a not obvious answer
G. Corsini, E. Maura
pag. 13
Which psychotherapy for depression?
M.D. Fiaschi
pag. 31
APPUNTI DI VIAGGIO
Variations of “distance” in the psychotherapeutic relationship
M. Briselli, P. Buonsanti, M. Devale, P. Gianotti, M. Moccafighe
pag. 51
QUATTRO PASSI PER STRADA
Handicap and anorexia a desperate will of life
P.F. Cerro, L. Pasero
pag. 69
OLTRE…
The professional and personal training of Prof. Giovanni Carlo
Zapparoli in Therapeutic Communities “La Redancia”
M. Solari
pag. 85
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Editoriale
In questo numero della rivista i primi due articoli affrontano il tema dei disturbi
depressivi sia dal punto di vista diagnostico e del trattamento psicofarmacologico sia
da quello psicoterapeutico.
Corsini e Maura facendo un aggiornamento della letteratura pongono due questioni
cruciali del processo terapeutico psicofarmacologico nei disturbi depressivi: la
correttezza dell’inquadramento diagnostico e della scelta del farmaco (le altre
attengono quanto meno allo stile prescrittivo e alla qualità della relazione
terapeutica).
Le argomentazioni sviluppate dagli autori confermano le evidenze acquisite fino ad
oggi in questo campo mettendo in evidenza risorse e limiti dei criteri diagnostici dei
Disturbi dell’Umore e facendo luce sia sulle zone d’ombra del processo della
diagnosi differenziale (ancora non risolte del tutto dai criteri del DSM-V) sia sui
dubbi e sulle controversie emergenti nella scelta dei farmaci antidepressivi e degli
stabilizzatori dell’umore (anticonvulsivanti, neurolettici atipici) da soli o in
associazione tra di loro.
Al termine del loro excursus Corsini e Maura formulano alcune proposte operative
per il processo diagnostico differenziale e per l’appropriatezza dei percorsi
terapeutici al fine di migliorare l’efficacia delle risorse, psicofarmacologiche e non,
disponibili. Gli autori pongono infine l’accento su un’altra questione fondamentale
per la prevenzione dei Disturbi dell’Umore: il loro riconoscimento precoce in età
evolutiva e l’importanza ai fini prognostici del trattamento (con tutte le cautele del
caso) in questi periodi cruciali sia sul versante psicologico per la strutturazione della
personalità sia su quello patofisiologico per il rischio del kindling.
L’articolo è di utile lettura anche per i medici di medicina generale e di altre
specialità a cui infatti gli autori in alcuni passi si rivolgono.
Sull’argomento del trattamento psicofarmacologico della Depressione in adolescenza
segnalo un mio contributo in collaborazione con Repetti pubblicato nel 2006 sul N.
2 del Vol. XIV di questa rivista “Il trattamento psicofarmacologico dei disturbi
depressivi in adolescenza. Attualità della ricerca scientifica e la centralità della
relazione terapeutica in uno studio osservazionale prospettico”.
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Il contributo di Fiaschi si colloca utilmente a completamento della cura della
Depressione rivolgendo la propria attenzione al versante psicologico e
psicoterapeutico; in premessa l’autrice conferma ancora una volta il famoso verdetto
di Dodo sulla mancanza di differenze significative nell’efficacia delle diverse forme
di psicoterapia e sull’esistenza appunto di fattori curativi comuni (c.d. aspecifici) per
le differenti tecniche psicoterapeutiche, e sottolinea altresì la necessità di
personalizzare e rendere l’intervento tecnico adatto al singolo paziente.
Per rispondere al quesito che si è posta − Quale psicoterapia per la depressione? −
prende in considerazione due modelli psicoterapeutici per lei consueti: quello
dell’integrazione funzionale di G.C. Zapparoli e quello dell’intervento breve focale
di M.C. Gislon. Ripercorrendo le tappe di due esperienze psicoterapeutiche in
situazioni depressive, l’autrice mostra al lettore i criteri su cui si fonda la tecnica
psicoterapeutica integrata breve da lei adottata.
In maniera sistematica mette in evidenza il protocollo su cui sviluppa l’alleanza
terapeutica indispensabile e la formulazione del caso, estrapolando in ciascuna
situazione esaminata il core conflictual relational theme, i fattori di rischio, i fattori
protettivi e quelli di resilienza, per intervenire poi sui pensieri automatici e sugli
assunti di base (sec. Beck) disfunzionali. L’isolamento del tema conflittuale centrale
e la presa in carico del paziente in relazione a questo focus permette di produrre
un’opportunità di rivitalizzazione di aree psicologiche rese bloccate dal conflitto, di
creare in quei luoghi mentali uno spazio vitale per pensare e anche di recuperare
una ragione di vita nel percorso di ri-mentalizzazione prodotto dalla relazione
terapeutica.
La seconda storia tocca in maniera emblematica questo punto mostrando come
l’accompagnamento del terapeuta, la sua presenza e il recupero dell’autoriflessione
rendono possibile il senso di esistere fino all’estremo limite della morte reale.
È una lettura suggestiva di numerosi rimandi soprattutto riguardo ai trattamenti
psicoterapeutici istituzionali (e non) “as usual”, che debbono poter integrare
equipaggiamento tecnico e flessibilità riguardo ai bisogni del paziente, alle risorse e
ai tempi disponibili.
Il contributo del gruppo di lavoro della Comunità Terapeutica Redwest di Sanremo
pone un tema di per sé fondamentale per l’operatore psichiatrico con formazione
psicoterapeutica in contesti istituzionali.
Si tratta della giusta distanza nella relazione terapeutica tra empatia e collusione;
il gruppo svolge riflessioni cliniche su questo aspetto nei diversi ambiti del contesto
terapeutico istituzionale esprimendo innanzi tutto un’autentica partecipazione
emotiva al proprio lavoro che restituisce a chi legge il sentimento del gruppo di un
desiderio formativo professionale e delle emozioni vissute nelle tappe di un percorso
evolutivo/maturativo da questo punto di vista in progress. Un valore di questo
contributo è la sua freschezza, quasi lo stupore di fronte agli stati d’animo che
accompagnano il loro lavoro e che sappiamo lo punteggeranno sempre.
Penso mentre leggo che la giusta distanza relazionale ha a che vedere con la
funzione di rêverie del terapeuta, una funzione di sentimento e di comprensione che
non risolve mai i problemi a monte ma necessita di sentire prima e di comprendere
poi, nel momento in cui gli avvenimenti relazionali accadono. La giusta distanza si
costruisce sul campo e la funzione di rêverie concorre a garantire che il
coinvolgimento necessario e inevitabile non diventi collusione, o quando questo
accade, e accade, si possa recuperare la comprensione in un secondo momento.
L’accenno che gli autori fanno all’importanza del gruppo di lavoro nel breve
paragrafo dedicato alla supervisione va in questa direzione: quando uno di noi è in
difficoltà la presenza dei colleghi è salutare per rimettere in moto questa funzione.
Questo contributo sollecita i ricordi formativi e le esperienze terapeutiche personali,
le letture fatte, e soprattutto la storia della psicoterapia istituzionale in Italia; non
possiamo non ricordare qui i contributi fondamentali degli psicoanalisti italiani che
si sono occupati di psicoterapia istituzionale a orientamento psicoanalitico e hanno
sviluppato un modo originale di intendere la prassi applicativa della psicoanalisi ai
trattamenti istituzionali. Perché non ricordare pertanto “Quale psicoanalisi per le
psicosi” e “Psicoanalisi e psichiatria” (due volumi editi da Cortina rispettivamente
nel 1997 e nel 1999)? E i numerosi contributi di Carmelo Conforto? E infine
anche un mio contributo, scritto con Vecchiato, “Fattori curativi di base strutturali
e procedurali della psicoterapia istituzionale del paziente grave”, oggetto di una
relazione ad una riunione scientifica tenutasi all'Istituto Superiore di Sanità e
pubblicato nel 1998 sulla rivista Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale.
Per finire Cerro e Pasero ci portano la loro esperienza di trattamento di una
giovane con Deficit Intellettivo Lieve e Disturbo del Comportamento Alimentare.
Nel loro contributo ripercorrono la storia di questa persona e le tappe di un percorso
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terapeutico complesso e complicato, e mostrano il progressivo svilupparsi della
relazione terapeutica e della comprensione del sintomo anoressico della giovane come
donatore di senso della propria esistenza. Vengono riconosciute angosce di
abbandono e di separazione, vissuti di non riconoscimento, bisogni di dipendenza, e
tentativi manipolativi di recuperare accudimento.
Gli autori sottolineano anche l’importanza della correttezza della diagnosi di
DCA a fronte di usi impropri o troppo estensivi. Nel caso che loro ci propongono il
Disturbo Alimentare sembra avere una caratteristica peculiare che è quella di una
richiesta di aiuto seppur connotata da notevole ambivalenza e il modo con cui si
esprime per certi versi richiama i disturbi fittizi; per non dimenticare infine che la
comprensione della qualità di questo disturbo deve fare i conti da un lato con la
ridotta capacità di simbolizzazione che il Deficit Intellettivo se pur lieve comporta e
dall’altro con il sovrapporsi a tutto questo della fase evolutiva adolescenziale in cui
la giovane si trova.
Il cenno che gli autori fanno al DSM-V in tema di DCA sollecita a considerare
per questa giovane − e a scopo meramente speculativo − oltre alle altre componenti
diagnostiche occorrenti per la formulazione diagnostica completa del suo caso, un
quesito: potrebbe essere preso in considerazione il disturbo Avoidant/Restriction
food intake disorder?
Lascio la risposta agli autori e ai lettori.
Buona Lettura
Maurizio Marcenaro
Tra prassi e teoria
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Giovanni Corsini, Emilio Maura
Bisogna usare i farmaci antidepressivi con i
pazienti depressi?
Una domanda non retorica e una risposta non
scontata
“…Quello che voglio indietro è ciò che ero
prima che il letto, prima che il coltello,
prima che la spilla e l’unguento
mi inchiodassero in questa parentesi;
cavalli trascorrenti nel vento,
un luogo, un tempo ormai lontano dalla mente”.
Sylvia Plath (La pagliuzza nell’occhio, 1959)
La Depressione, soprattutto per l’elevata prevalenza e per la frequente
invalidità che può comportare rappresenta un problema indubbiamente
importante per la medicina. I farmaci antidepressivi, soprattutto della
generazione successiva a quella degli IMAO e ai triciclici sono apparsi
una soluzione molto promettente per la maneggevolezza e per la
relativa scarsità di effetti collaterali, attualmente sono senza dubbio
largamente prescritti dai medici di famiglia oltre che dagli psichiatri e
un po’ in tutto il mondo congressi e convegni sono stati organizzati per
diffondere tra i medici di famiglia le conoscenze per riconoscere e
trattare la Depressione.


Dirigente Medico DSM e Dipendenze ASL 3 Genovese − SPDC Osp. San Martino.
Psichiatra.
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Tuttavia vi sono difficoltà, sia da parte del medico che del paziente, a
far emergere la diagnosi di Depressione (Fornaro et al., 2001) e quindi
probabilmente molti pazienti rimangono senza trattamento.
Il medico, infatti, spesso non è stato sufficientemente preparato a
valutare gli stati depressivi specie se si manifestano con equivalenti
depressivi o in forma mascherata (Giberti, 1985). Oltre a ciò sovente
non è stato formato per condurre un colloquio che mette in evidenza
le variazioni dell’umore e ultimo, ma non ultimo, può non avere il
tempo, anche mentale, di dedicarsi a queste patologie né la competenza
per svolgere una terapia adeguata, per scelta di molecole e dosaggi e/o
indirizzare ad un sostegno psicologico-psicoterapico. D’altra parte
anche il paziente può avere difficoltà a percepire i propri Disturbi
dell’Umore e ad accettare che gli stessi (spesso celati come dicevamo
sopra da equivalenti e/o mascherature sintomatologiche) possano
essere curati con farmaci.
Accanto alla preoccupazione per la mancata diagnosi di Depressione
negli ultimi anni è andata però diffondendosi nella pratica clinica e
nella letteratura l’insoddisfazione e la delusione per molti casi non
responsivi alla terapia con antidepressivi.
È noto da tempo che nei trials di antidepressivi contro placebo,
quest’ultimo determina una risposta molto elevata, seppure inferiore a
quella del farmaco antidepressivo, con una differenza statisticamente
significativa ma di piccola entità. È interessante notare che lo stesso
trattamento con placebo non può essere considerato un trattamento
“finto”, ma è comunque “un prendersi cura”, un segnale di
cambiamento, un interessamento che viene percepito dal paziente e
che innesca delle modificazioni metaboliche cerebrali, che le stesse
tecniche di brain imaging hanno potuto documentare (Beauregard,
2009).
Se la Depressione però è di grado moderato-severo l’effetto del
farmaco si rivela nettamente più consistente rispetto al placebo
(Fournier et al., 2010). Da ciò consegue che l’antidepressivo dovrebbe
essere prescritto nelle diagnosi di Depressione almeno moderate e in
quelle gravi, mentre nelle Depressioni Lievi, a nostro parere, come
prima scelta dovrebbe essere evitato, e il paziente dovrebbe essere
trattato con consigli e sostegno psicologico dal medico stesso, o inviato
ad un trattamento psicoterapico. Per completezza dobbiamo
aggiungere che un’obiezione a questa nostra dichiarazione potrebbe
derivare dalla convinzione che una terapia con antidepressivi, a fronte
di effetti collaterali solitamente lievi, garantirebbe comunque forse un
effetto neurotrofico (Ladea & Bran, 2013) che potrebbe giustificare
l’estensione della prescrizione di antidepressivi a pazienti depressi
anche di gravità moderata.
Ma il problema più importante per valutare l’opportunità e un’adeguata
scelta della terapia antidepressiva è sicuramente la diagnosi del tipo di
Depressione che si deve trattare.
È essenziale ricostruire l’anamnesi per valutare la presenza di un
Disturbo Bipolare e a questo fine è raccomandabile coinvolgere in ciò
un familiare per informarsi se il paziente presenta fasi euforiche o
subeuforiche o periodi in cui appare sopra le righe, più energico,
insonne ma instancabile, logorroico con propensione a spendere e con
interessi sessuali più accentuati… È sospettabile che la Depressione
costituisca un episodio di un Disturbo Bipolare, quando è ricorrente,
specie se in un soggetto caratterizzato da episodi più o meno
prolungati di iperattività, o di labilità e mutevolezza dell’umore, quando
siamo in presenza di una familiarità per il Disturbo Bipolare, o quando
siamo davanti a sintomi psicotici o a idee suicidarie (Solomon et al.,
2006), oppure vi sono sintomi atipici come ipersonnia o la cosiddetta
paralisi plumbea (sensazione di pesantezza o di avere le gambe e le
braccia di piombo) o vi è rallentamento motorio importante. Questi
elementi, specie se concomitanti, sono campanelli d’allarme che
dovrebbero condurre ad un’attenta valutazione diagnostica del caso e
anche ad un più attento monitoraggio dell’evoluzione clinica da parte,
preferibilmente, di uno specialista – esiste anche un questionario messo
a punto per evidenziare un Disturbo Bipolare con domande mirate su
periodi d’iperattività, spese, tendenza a parlare molto, maggior
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interesse per il sesso, per iniziative avventate… (The Mood Disorder
Questionnaire; Hirschfeld, 2007) –.
Nel trattamento del Disturbo Bipolare gli antidepressivi hanno infatti
un ruolo controverso; è infatti accertato che in questi casi gli
antidepressivi possono dimostrarsi inefficaci (Dudek et al., 2010) o
anche dannosi, determinando instabilità dell’umore con accorciamento
dei periodi intervallari di benessere, comparsa di stati misti e aumento
degli episodi di Disturbo dell’Umore. Spesso proprio i pazienti che
rispondono più rapidamente agli antidepressivi sono quelli che
ricadono velocemente e si nota in costoro un’accelerazione dei cicli
euforia/subeuforia e Depressione.
Il trattamento di un paziente bipolare deve infatti prevedere quanto
meno un’associazione di stabilizzatori dell’umore, antidepressivi e
spesso antipsicotici atipici. A volte gli antidepressivi possono essere
anche evitati. A favore dell’uso degli antidepressivi associati ad uno
stabilizzatore dell’umore nella Depressione Bipolare, abbiamo una
metanalisi (Gijsman, 2005), però la solidità di questa conclusione è
limitata dall’avere escluso, per problemi metodologici, una precedente
ricerca (Nemeroff et al., 2001), che confrontava in doppio cieco
pazienti che assumevano paroxetina o imipramina o placebo in
aggiunta al litio, e otteneva il risultato che l’associazione di litio e
antidepressivo non superava l’associazione litio-placebo.
Più recentemente anche lo studio STEP-BD (Sachs et al., 2007) non ha
rivelato vantaggi nell’aggiunta di un antidepressivo ad uno
stabilizzatore. Il problema in questo caso non è stato lo switch in mania,
ridotto al 10%, quasi senza differenza tra i pazienti in cura con placebo
o antidepressivo, ma l’efficacia: perché sia il placebo che
l’antidepressivo associati entrambi ad uno stabilizzatore dell’umore
(litio, valproato, carbamazepina), hanno dimostrato efficacia in un
deludente 25%!
Se spostiamo l’attenzione alla terapia di prevenzione nel Disturbo
Bipolare, la maggioranza degli studi con antidepressivi triciclici da soli
o in aggiunta al litio, aveva dimostrato una mancanza di beneficio
dell’uso di antidepressivi. Uno studio più recente (Post et al., 2006;
Leverich et al., 2006) ha paragonato venlafaxina, bupropione e
sertralina in aggiunta ad uno stabilizzatore dell’umore per un anno.
Tutti e tre questi farmaci risultavano efficaci nella fase acuta
(percentuale di risposta dal 50-60%, basando il criterio di risposta su
una riduzione del 50% della sintomatologia depressiva al secondo
mese), ma sulla fase di mantenimento i dati si fanno molto più
deludenti: solo il 15-25% dei pazienti in un anno non va incontro ad un
nuovo episodio di Disturbo dell’Umore. Questo studio, in quanto
privo di un braccio di controllo con placebo, non può portare a
conclusioni sulla reale efficacia di questi farmaci, ma dà l’idea che i
vantaggi che si possono ottenere con questi antidepressivi nella
Depressione Bipolare, possono anche essere buoni nelle prime
settimane di cura ma poi si perdono nel lungo tempo.
Da notare che in questa ricerca si rilevavano più frequenti viraggi
maniacali con la venlafaxina rispetto a bupropione e sertralina e questo
conferma precedenti studi per i quali antidepressivi a più largo spettro
neurotrasmettitoriale e con una componente noradrenergica, come
appunto venlafaxina (e i triciclici), siano più inclini a causare un
viraggio in mania dei farmaci super selettivi per la serotonina o
debolmente dopaminergici.
Una ricerca nell’ambito del programma STEP-BD, estesa ad una
terapia di mantenimento per tre anni, ha dimostrato che l’associazione
antidepressivo stabilizzatore nel mantenimento del Disturbo Bipolare,
protegge da più rapide ricadute depressive ma non conduce ad un
numero minore di episodi patologici di Disturbo dell’Umore né ad una
minor gravità di essi mentre per un sottogruppo particolare, quello a
cicli rapidi, si assisteva ad un peggioramento per aumento degli episodi
depressivi (Ghaemi, 2007).
Le indagini, che suggeriscono l’inefficacia o la relativa efficacia dei
farmaci antidepressivi sulla Depressione Bipolare, sono ancora più
stridenti con l’opinione prevalente se si pensa che troviamo un farmaco
antipsicotico, la quetiapina, così efficacie nella Depressione Bipolare da
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poter entrare nelle linee guida, come molto raccomandato nella fase
acuta della Depressione Bipolare (Yatham et al., 2009).
È stato osservato che è possibile che molti dei casi con Depressione
Bipolare trattati con successo con quetiapina, fossero in realtà con
sintomi misti, cioè avessero sintomi maniacali ma in un numero
inferiore a tre, il che consente con la classificazione del DSM-IV la
diagnosi di Episodio Depressivo e non di Episodio Misto. Si può
anche pensare che gli antidepressivi avrebbero sovente un risultato
deludente sulla Depressione Bipolare perché questa sarebbe in realtà
un Episodio Misto non diagnosticato, sempre perché i sintomi
maniacali presenti sarebbero inferiori alla soglia di tre (Ghaemi, 2007).
Ma questa soglia ci sembra del tutto arbitraria, sarebbe meglio valutare,
infatti, come segni di Episodio Misto aspetti come l’agitazione,
l’iperattività, la rabbia…
Esistono comunque anche importanti studi che confermano
l’opportunità della terapia antidepressiva nella Depressione Bipolare
(Altshuler et al., 2003). In questa ricerca per un anno sono stati seguiti
84 soggetti che avevano ottenuto la remissione da un episodio di
Depressione Bipolare con una terapia di associazione stabilizzatore
dell’umore e antidepressivo, in 43 pazienti l’antidepressivo fu sospeso
dopo sei mesi, negli altri 41 proseguito. Nel gruppo che sospese
l’antidepressivo la ricaduta depressiva fu significativamente più precoce
rispetto al gruppo che lo continuò e il rischio di un Episodio Maniacale
non è stato maggiore nei pazienti che hanno proseguito
l’antidepressivo.
In definitiva appare che la scelta di una terapia antidepressiva nel
Disturbo Bipolare deve tener conto dei rischi verso i quali in quel
singolo paziente è più opportuno proteggersi: occorre quindi valutare
la gravità della Depressione, la facilità ad innescare viraggi maniacali e
induzione di cicli rapidi, per come può risultare nell’anamnesi, la
gravità dei sintomi maniacali (Harel & Levkovitz, 2008).
Anche nella Depressione Unipolare però si registra una certa delusione
dall’uso di farmaci antidepressivi. Lo studio STEP-D che ha riguardato
pazienti “del mondo reale”, cioè non ha escluso quelli con comorbilità,
Depressioni Ricorrenti ecc., ha dimostrato una capacità di remissione
con un SSRI, il citalopram, del 33%. Considerando anche i casi di
semplice risposta (in cui la sintomatologia viene ridotta di almeno il
50%) si arriva al 50% di pazienti responder. È vero ed è consolante che
cambiando antidepressivo o con strategie di augmentation si guadagna
come responder un altro 50% di pazienti non responder al citalopram, e del
rimanente non responder il 20% risponde ad un terzo tentativo con un
triciclico o con un IMAO o al potenziamento con litio, ma i dati
veramente deludenti vengono dopo un anno di terapia: quando si è
verificato che i soggetti di questo studio che avevano mostrato
remissione o per lo meno avevano risposto al trattamento solo nella
metà dei casi stavano ancora bene o mantenevano la risposta. In
pratica, dopo un anno di terapia, solo un quarto dei pazienti entrati
nello studio mostravano di avere beneficio dal trattamento (Rush et al.,
2006; Ghaemi, 2008).
Una metanalisi sugli studi di trattamento di lunga durata con
antidepressivi ha documentato che nel periodo molto lungo (dieci anni)
è difficile avere certezze sul beneficio di terapie antidepressive di
mantenimento (Hughes & Cohen, 2009). In uno studio con
venlafaxina (Keller et al., 2007) abbiamo 1.096 soggetti che furono
inizialmente randomizzati a venlafaxina vs fluoxetina e di questi il 65%
(715) ebbe una risposta clinica nella fase acuta. Questi 715
continuarono per sei mesi con lo stesso farmaco con cui erano stati
trattati nella fase acuta, dopo sei mesi poteva essere considerato
responder il 35,9%, cioè 258 su 715; di questi 258 (circa la metà) era
ancora responder dopo 18 mesi, ma questo dato corrisponde al solo 18%
dei pazienti entrati originariamente nello studio. Effettivamente il 92%
di questo ridotto 18% sarà ancora responder dopo un secondo anno e
siamo quindi autorizzati a pensare che solo a questo piccolo gruppo
l’antidepressivo (in questo caso venlafaxina) faccia molto bene.
(Ghaemi, 2008).
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Forse a questo punto medici di medicina generale e psichiatri
dovrebbero ripensare alla diagnosi di Depressione, che non può
innescare un automatismo alla prescrizione di antidepressivi.
Probabilmente vanno ripensate le antiche distinzioni che l’uso della
diagnosi troppo frequente di Depressione Maggiore ci ha portato a
dimenticare. Ghaemi (2008) ha suggerito il recupero del concetto (se
non della dicitura) di Depressione Nevrotica: quei casi cioè di
depressione prolungata, nella pratica almeno sei mesi, simile alla
tristezza accompagnata da ansia o sintomi somatici (forse più ansia che
tristezza), con un alto grado di sensibilità/vulnerabilità ai fattori di stress
psicosociale. Si tratta di quadri più cronici che episodici e che
probabilmente rispondono poco agli antidepressivi. Un’evenienza
episodica della Depressione senza aspetti misti, senza caratteristiche
premorbose di temperamento ciclotimico, è probabilmente il caso della
miglior risposta ai farmaci antidepressivi.
Quest’acquisizione legata alla clinica tradizionale ha ancora la sua
validità, in attesa che in un futuro non troppo lontano, la ricerca ci
consegnerà strumenti consolidati per riconoscere la predittività dei
trattamenti attraverso tecniche ad esempio di brain imaging (Liao et al.,
2013), o elettrofisiologiche (Rentzsch et al., 2013). La terapia di
mantenimento prolungata è probabilmente da riservare a quei casi di
particolare gravità e con tendenza alla recidiva, e benché sostenuta da
studi in ambito specialistico, non sembra possa essere garantita da un
sostegno basato sulle evidenze nella Depressione usualmente trattata
nella medicina generale (Piek et al., 2010).
Quando invece nella biografia del paziente siamo davanti ad un
ripetersi particolarmente frequente di episodi depressivi unipolari, è
opportuno pensare ad una Depressione Ricorrente (figura ancora mal
definita nella nosografia attuale), probabilmente in qualche modo
simile al Disturbo Bipolare o che per lo meno sembra giovarsi
dell’associazione antidepressivo con litio (Coppen et al., 1983; Kupfer et
al., 1975), strategia terapeutica promettente anche se ancora non
pienamente chiarita (Cipriani et al., 2006; Lepkifker et al., 2007; Bschor
et al., 2013).
Accenniamo infine e brevemente alle note polemiche sul rischio
suicidario indotto da farmaci antidepressivi.
Tra il 2003 e il 2004 la FDA emise vari warning contro l’uso degli SSRI
e degli antidepressivi perché avrebbero dimostrato la possibilità di
aumentare il rischio d’idee e comportamenti suicidari nell’età pediatrica
e adolescenziale. La FDA disponeva che in caso di prescrizione di
antidepressivo a un minore, questo dovesse essere controllato
settimanalmente dal medico nelle prime quattro settimane. Queste
misure, successive anche al rinvenimento di ricerche che le case
farmaceutiche avevano condotto e non pubblicato, hanno promosso
una nuova ondata di ricerca sul rapporto farmaci antidepressivisuicidio. È emerso che tutti gli antidepressivi sembrano avere un
piccolo rischio di pensieri suicidari e tentativo di suicidio in soggetti
sotto i 25 anni, mentre sopra i 30-40 anni questo rischio si riduce
(Moller et al., 2008). Deve comunque essere sottolineato che specie nel
primo mese di trattamento con antidepressivi è sempre possibile un
piccolo ma significativo aumento dei pensieri suicidari (Jick et al.,
2004), per cui è soprattutto in questo periodo che questo rischio
dev’essere valutato e monitorato, prendendo in considerazione per i
casi più gravi l’ospedalizzazione e la scelta di farmaci meno tossici e la
prescrizione di minori quantitativi.
Bisogna ricordare che dopo la pubblicazione dell’ammonimento della
FDA del 2003 (seguita dalle Autorità Regolatorie Europee) contro
l’uso degli antidepressivi nella fascia d’età sotto i 18 anni, in alcuni
paesi come negli stessi USA, in Olanda (Gibbons et al., 2007), e in
Canada (Katz et al., 2008) si è registrata una marcata diminuzione delle
prescrizioni di antidepressivi ai minori e contemporaneamente un
aumento dei suicidi nell’età pediatrica-giovanile. Questo dato potrebbe
essere in relazione anche con un mancato sviluppo di offerta di terapie
psicologiche alternative alla farmacoterapia, ma ci riporta all’attenzione
che il rischio suicidario è inerente alla malattia della Depressione.
21
La nostra personale opinione è che in molti casi di Depressione in età
giovanile sia facile omettere una diagnosi di Disturbo Bipolare per la
difficoltà di riconoscere nell’anamnesi i periodi di umore maniacale,
perché brevi, perché caratterizzati da disforia, irritabilità, rabbia,
sintomi attribuibili a generiche sofferenze adolescenziali; in questi casi
un trattamento con antidepressivi può precipitare in uno stato misto
con facile passaggio all’atto suicidario, per cui la pericolosità del
trattamento con antidepressivi è insita più nella diagnosi del medico
che nel farmaco e quindi è sbagliato escludere radicalmente, e sempre,
il trattamento con farmaci antidepressivi nell’età minore.
Vogliamo ancora ricordare che il principale presidio farmacologico che
oggi abbiamo a disposizione nella prevenzione del rischio suicidario
nella Depressione Bipolare ma anche Unipolare è il litio, specie in
quelle situazioni di Depressione Ricorrente con disforia, irritabilità,
impulsività, rabbia (Tondo & Baldessarini, 2009).
22
In conclusione, volendo riassumere dei suggerimenti in presenza di
sintomi depressivi, si consiglia:
1) evitare l’uso di farmaci antidepressivi, almeno in prima battuta,
nelle Depressioni Lievi, indicando piuttosto trattamenti
psicoeducativi, psicologici, problem solving, psicoterapia;
2) assicurarsi che non si tratti di un paziente affetto da Disturbo
Bipolare (anamnesi con un familiare); nel caso di un Disturbo
Bipolare, o nel sospetto di un tale disturbo, è consigliabile l’invio
allo specialista e comunque l’uso degli antidepressivi dovrebbe
essere evitato in monoterapia e dovrebbe essere affiancato da
uno stabilizzatore dell’umore, e probabilmente in molti casi
evitato nella terapia di mantenimento;
3) l’invio ad uno specialista o al Servizio di Salute Mentale appare
consigliabile oltre che nei casi di Disturbo Bipolare (accertati o
sospetti) e nei casi di persistenza della sintomatologia depressiva
anche a un livello modesto (sottosoglia), nei casi di risposta
insufficiente alla terapia iniziale praticata, in presenza d’idee di
suicidio o di sintomi psicotici, o di sintomi depressivi gravi, o
d’importanti comorbilità, e di gravi problemi sociali (problemi
familiari, economici, d’isolamento e solitudine);
4) nel corso di depressione unipolare di grado almeno moderato gli
episodi dovrebbero essere trattati con antidepressivi per ottododici settimane, in caso di risposta dovrebbe seguire una
terapia di continuazione per sedici-venti settimane (alle stesse
dosi che hanno ottenuto la risposta nella fase acuta). La terapia
ulteriore di prevenzione dovrebbe essere praticata solo nei casi
di recidiva. Ricordiamo che la sospensione degli SSRI dev’essere
graduale, con riduzione progressiva del dosaggio nel corso di
almeno due settimane, ma a volte con tempi anche molto più
lunghi nei casi di composti ad emivita breve (paroxetina), e nei
casi di prolungata terapia alle spalle, per evitare la sintomatologia
da sospensione. Nelle forme “nevrotiche” croniche è opportuna
la scelta di una psicoterapia in associazione con l’antidepressivo,
ma riteniamo probabile sulla scorta di una crescente letteratura e
della nostra esperienza, che forme d’aiuto psicosocialepsicoterapico possano giovare sempre alla prognosi dei Disturbi
Affettivi: trattare questo argomento, i vari approcci
psicoterapeutici e i confronti fra essi è oltre i limiti di questo
lavoro. Nelle forme depressive unipolari particolarmente
ricorrenti sarà opportuno valutare l’associazione con litio, in un
ambito specialistico.
23
24
RIASSUNTO
Alcuni studi hanno stimolato dubbi circa il beneficio di antidepressivi
in Depressione Maggiore. Come è noto, in generale, l’efficacia degli
antidepressivi vs placebo è più evidente nelle forme di Depressione, di
Depressione Moderata-Grave, mentre il vantaggio di antidepressivi sul
placebo diminuisce nelle forme più lievi. Probabilmente l’approccio più
appropriato per il trattamento, piuttosto che differenziare la
Depressione per gravità, è capire le distinzioni nel campo della
definizione di Depressione Maggiore che è troppo generica e allargata e
finisce per coprire distinzioni nosografiche. Sicuramente discutibile è
l’uso di antidepressivi nella Depressione Bipolare e di certo la
Depressione Episodica e Unipolare è la forma che risponde meglio al
trattamento con antidepressivi. È più problematico invece il
trattamento delle forme unipolari ricorrenti in cui si potrebbe pensare
al litio, tratto dal repertorio di trattamenti per le forme bipolari.
Difficili da trattare con antidepressivi appaiono anche quelle forme che
in passato sono state chiamate Nevrotiche. Non è ancora chiarito in
dettaglio il ruolo della terapia con antidepressivi a lungo termine. Gli
autori esaminano poi brevemente il problema del rapporto tra
antidepressivi e suicidio e cercano di fornire una guida pratica per l’uso
di antidepressivi e l’invio da parte del medico di medicina generale allo
psichiatra specialista.
PAROLE CHIAVE
Antidepressivi, Depressione Bipolare, Depressione, Depressione
Maggiore, Depressione Nevrotica, suicidio.
SUMMARY
Some studies have stimulated doubts about the benefit of
antidepressants in major depression. It’s known that, in general, the
effectiveness of antidepressants vs placebo is more evident in
moderate-severe depression, while the superiority of antidepressants
on placebo decreases in milder forms. Probably the most appropriate
approach for treatment is not based only on depression's severity;
furthermore the definition of major depression is too general and
enlarged and includes different nosographic forms. Certainly the use of
antidepressants in bipolar depression is questionable, and the episodic
and unipolar depression responds better than the other forms. A hard
problem is the treatment of recurrent unipolar forms: a possible
treatment is lithium, considering the repertoire of treatments for
bipolar disorder. An other form that appears difficult to treat with
antidepressant was called, in the past, neurotic depression; it might be
useful to recover this concept. It is still unclear the role of
antidepressants in the long term. The authors will examine briefly the
problem of the relationship between antidepressants and suicide, and
will provide a practical guidance about the use of antidepressants and
about cooperation between general practitioners and psychiatrists.
KEY WORDS
Antidepressants, Bipolar Depression, Depression, Major Depression,
Nevrotic Depression, suicide.
25
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29
Mara Donatella Fiaschi
Quale psicoterapia per la depressione?
Nell’affrontare l’argomento relativo a quale tipo d’intervento
psicologico o psicoterapia per i Disturbi dell’Umore, dalle forme più
lievi a quelle medio gravi, dobbiamo fare una breve premessa.
È importante sottolineare che, come numerose ricerche hanno messo
in evidenza, non vi sono differenze significative sia dal punto di vista
teorico, che della durata e frequenza delle sedute, tra le diverse forme
di psicoterapia e tra le terapie brevi e quelle a lungo termine (Smith et
al., 1980; Shapiro & Shapiro, 1982; Lambert & Bergin, 1994).
Secondo i numerosi studi in materia sembra che vi sia un’equivalenza
fra i diversi modelli psicoterapici (Lampropoulos, 2000) e che i fattori
curativi risiedano nella presenza di elementi comuni implicitamente
presenti in ogni psicoterapia: non sarebbe precipuamente il modello di
riferimento a fare la differenza, quanto piuttosto alcuni elementi che
risultano diffusi nella prassi clinica (Castonguay, 2000). Occorre
precisare che non vi è un accordo pieno sul numero, sulla definizione e
sul tipo di fattori comuni che sarebbero responsabili del processo
terapeutico (Lampropoulos, 2000). Inoltre, se è vero che ogni terapia
ha elementi comuni con le altre terapie, non tutte agiscono allo stesso
modo, ma ognuno offre un contributo unico, che può anche divenire
complementare ad altri contributi.
Da questi studi si evidenzia che nessuna forma di psicoterapia si è
dimostrata valida per qualsiasi categoria di pazienti e per dirla con le
parole di un autorevole psicoanalista possiamo affermare che “non è il
paziente a doversi adattare a un modello psicoterapico precostituito,
ma il contrario” (Zapparoli, 2009).

Dirigente Psicologo DSM e Dipendenze ASL 3 Genovese − SPDC Osp. San Martino.
31
32
Tuttavia bisogna rilevare che l’argomento è di tale ampiezza e interesse
che occorre limitarne il campo di studio, approfondendo il modello di
psicoterapia che meglio conosciamo e che utilizziamo nella nostra
attività psicoterapeutica.
Dopo brevi considerazioni preliminari, si farà riferimento a due
esperienze cliniche, descrivendo alcuni presupposti teorici che fanno
capo al modello dell’integrazione funzionale di Giovanni Carlo
Zapparoli e alla psicoterapia focale integrata di Maria Clotilde Gislon.
Se per la scelta della farmacoterapia è necessaria un’accurata diagnosi
del tipo di Depressione, anche per la scelta dell’approccio psicoterapico
più indicato per il paziente depresso dobbiamo tenere conto non solo
della gravità della diagnosi ma anche in che misura il paziente vuole, si
aspetta ed è in grado di modificare il proprio comportamento e
raggiungere un cambiamento, sulla base del suo funzionamento
mentale, delle sue risorse e dei suoi deficit (Gislon, 2004).
La tecnica di trattamento che scegliamo dipende quindi da quale o
quali sono gli aspetti del complesso funzionamento psichico di quel
paziente che vogliamo curare. L’esperienza della psicoterapia integrata
insegna che due diversi tipi di terapia possono essere usati
contemporaneamente o in sequenza, per raggiungere effetti migliori.
Il modello d’intervento psicoterapico proposto si definisce integrato in
quanto le sue basi concettuali comprendono le teorie freudiane e postfreudiane, la teoria cognitiva-comportamentale di Beck (1984), il
contributo delle teorie evolutive e del ciclo di vita e la teoria
dell’integrazione funzionale di Zapparoli (1985, 2008, 2009).
Prendendo a prestito il concetto di continuum della psicopatologia
(Winston A. & B. 2002; Winston A. et al., 2004), questo modello si
rivolge a due principali popolazioni di utenti (Gislon, 2005):
- pazienti con disturbi psicopatologici più gravi, ossia le condizioni
psicotiche e borderline nel capo sinistro di un’ipotetica linea, e
all’altro capo destro quello dei soggetti che presentano un
migliore funzionamento mentale, quali pazienti con diagnosi di
Disturbo Dipendente, Evitante, Ossessivo, Distimico, Disturbo
di Panico e di Adattamento, Depressione Lieve;
- nell’area intermedia si situano quei pazienti il cui adattamento e
comportamento è disomogeneo, quali i Disturbi Narcisistici,
Depressione Media, Ipocondria.
Nel presente lavoro si farà riferimento più specificatamente, attraverso
l’esemplificazione di due casi clinici, al modello della psicoterapia breve
integrata che si rivolge ai pazienti che appartengono all’area media
(caso di Liliana, Depressione Media) e al lato destro del continuum (caso
di Cinzia, Depressione Lieve).
La caratteristica principale di questo modello è l’intervento a carattere
focale, ossia l’individuazione di un focus o problema significativo
identificato, la risoluzione del quale aiuta il paziente a raggiungere la
finalità desiderata.
Lo scopo dell’intervento psicoterapeutico è quello d’individuare
interventi differenziati volti a modificare i fattori che ostacolano il
percorso evolutivo. La prospettiva evolutiva è utile per identificare i
fattori e i processi che possono determinare crisi normative nel corso
dello sviluppo che ha luogo durante tutta l’esistenza, senza la
mediazione terapeutica. Il modello psicoanalitico per individuare il
conflitto intrapsichico che ostacola il superamento della crisi evolutiva
e il modello cognitivo per individuare la disfunzione cognitiva che
agisce anch’essa come ostacolo al superamento della crisi.
Dal punto di vista metodologico i due modelli forniscono le tecniche
più adatte al paziente al fine di unire brevità ed efficacia dell’intervento.
Questa forma di psicoterapia è dunque indicata per quei pazienti in
grado di collegare l’origine della loro sofferenza con problematiche
intrapsichiche e interpersonali, dotati di capacità autoriflessive e
sufficientemente motivati al cambiamento e alla risoluzione del proprio
stato di sofferenza (Gislon, 2005; Gislon et al., 2010).
A conferma della nostra esperienza anche altri autori (Fosha, 2004;
Goldfried, 1991, 1999; Ramsay, 2001) sostengono che ogni
33
34
psicoterapia che produce dei risultati positivi è integrata o integrativa,
in modo da rispettare e rispecchiare la complessità dell’essere umano.
Il modello psicoterapico utilizzato nei trattamenti che verranno
presentati è stato sviluppato come già espresso a partire dal modello
dell’integrazione funzionale di Zapparoli, tra i più conosciuti, discussi,
ma anche tra i più diffusi nell’istituzione psichiatrica italiana. Questo
modello si è sviluppato nell’arco di quarant’anni ed è nato dall’analisi
della specificità e molteplicità dei bisogni del paziente psicotico e della
conseguente necessità di attuare interventi diversificati a livello
farmaco-terapeutico, psicoterapeutico e assistenziale-riabilitativo.
Zapparoli insisteva molto sull’importanza della diagnosi basata sui
bisogni specifici del paziente, finalizzata a costruire un’alleanza
terapeutica quale condizione indispensabile per scegliere il trattamento
più efficace per quel paziente in quel determinato momento. Oltre alle
potenzialità evolutive il terapeuta deve dedicare grande attenzione alle
resistenze al cambiamento, per comprendere se il potenziale paziente è
in grado di capitalizzare l’aiuto, ed è la comprensione delle resistenze al
cambiamento uno dei più importanti mezzi per capire come favorire la
strutturazione dell’alleanza terapeutica (Zapparoli, 2009).
Tale modello è stato arricchito nel corso degli anni con nuove e
preziose intuizioni contenute in testi più recenti rispetto ai testi più
conosciuti tra i quali: La psicoanalisi del delirio (1967), La follia e
l’intermediario (2002), La Diagnosi (2004), Psicopatologia grave, una guida al
trattamento (2008).
Si sottolinea che le basi concettuali e la metodologia della tecnica
presentata nei due casi affondano le loro radici nell’insegnamento di
Zapparoli e sono state applicate alla strutturazione dell’intervento
breve e focale integrato da Gislon unitamente all’apporto della
prospettiva evolutiva e dei dati relativi alla resilienza.
Per una migliore comprensione del modello di psicoterapia utilizzato,
al termine della presentazione di ciascun caso, saranno evidenziate
alcune tra le principali concettualizzazioni e tecniche psicoterapiche
relative all’insegnamento di Zapparoli e Gislon.
Primo caso
Problemi e sintomi di presentazione
Cinzia, ventisei anni, viene inviata dal medico con il quale sta
preparando la tesi in biologia. Le manca un esame alla laurea.
Dall’inverno appena trascorso lamenta un calo nello studio, avrebbe
voluto laurearsi in primavera ma non è riuscita per uno stato di apatia,
di preoccupazione e di ansia: “sono un soggetto che si sposa bene con
l’ansia”. Si sente in colpa e si vergogna per non essersi laureata nei
tempi previsti. Lamenta inoltre umore depresso, inattività e difficoltà di
concentrazione. Descrive insonnia con risveglio precoce che motiva
per la paura di non svegliarsi in tempo e di sottrarre ulteriore tempo
allo studio. In passato riusciva a gestire i suoi stati d’animo con una
sorta di auto convincimento e con qualche goccia di valeriana.
Dalla valutazione dei fattori di resilienza di questa paziente emerge fin
dal primo colloquio che Cinzia nei periodi di crisi si è sempre potuta
appoggiare alla zia medico e al fidanzato con il quale ha un rapporto
solido.
Storia di vita
Cinzia vive con i genitori ed è figlia unica. Dopo aver provato i test
d’ingresso alla facoltà di Medicina, ha scelto e frequentato con interesse
e soddisfazione gli studi universitari in Biologia. La madre è ipovedente
(soffre di una forma di maculopatia retinica) bisognosa di accudimento,
al quale provvedono la paziente e il padre, architetto in pensione. I
nonni, materni e paterni, sono deceduti da qualche tempo. La paziente
non parla molto con i genitori e afferma di avere problemi con la
mamma “come tutte le femmine”. A proposito del rapporto con la
mamma dice che non si sente sostenuta perché non è una figura dalla
quale trae sicurezza. Con il papà riesce a confrontarsi ed è percepito
35
dalla paziente come una figura più forte. Si sente spesso limitata nella
sua libertà dai bisogni della mamma che aumentano con gli anni, per
via della malattia che è di tipo degenerativo.
Cinzia riferisce di essere stata discretamente bene durante il periodo,
circa venti giorni, nel quale i genitori si erano assentati in occasione di
una vacanza all’estero.
È fidanzata da un anno e mezzo con un ragazzo più grande di lei.
Focus e tecniche d’intervento
36
Cinzia fa fatica ad autonomizzarsi da una madre bisognosa di cure e
attenzioni per un conflitto tra bisogni di dipendenza e protezione e
bisogni di emancipazione e crescita emotiva. I bisogni reali di
assistenza della madre “oscurano” i suoi bisogni di dipendenza ed
emancipazione. Cinzia riconosce sentimenti di “ambivalenza” nei
confronti della madre, rabbia e pena, i ruoli sono rovesciati. Il conflitto
d’individuazione-separazione si manifesta con il blocco negli studi e
rappresenta l’ostacolo che interrompe il suo percorso fisiologico di
crescita.
L’esperienza di ascolto empatico, il riconoscimento dei suoi bisogni di
autonomia e di emancipazione favoriscono l’instaurarsi di una
esperienza emotiva correttiva che insieme all’interpretazione del
conflitto intrapsichico mobilitano in breve tempo (come succede
spesso nelle terapie brevi sia psicodinamiche che cognitive) le risorse e
la ripresa degli studi con la riduzione dei sintomi con i quali la paziente
era stata inviata.
Fattori di rischio
- nucleo familiare ristretto;
- handicap della madre.
Fattori di protezione
- insight;
- motivazione al cambiamento.
Dopo poche sedute (tre) la situazione degli studi si sblocca in
concomitanza all’elaborazione del focus. Dopo l’espletamento
dell’ultimo esame Cinzia si concentra sulla preparazione della tesi e si
laurea nei tempi programmati. I rapporti con la madre sono più distesi.
Cinzia vede la mamma più serena e più “attiva” e questo cambiamento
nella madre consente alla paziente di riconoscere e rispettare i suoi
bisogni e nello stesso tempo accettare l’invalidità e quindi i bisogni
della madre.
Follow-up dopo tre mesi
È confermato il miglioramento nei rapporti con i genitori. Ha trovato
un lavoro di sostituzione per una maternità in un importante Istituto
Scientifico. Cinzia considera l’esperienza lavorativa più faticosa dello
studio ma più “emancipante”. Da quando lavora, va a dormire sempre
più spesso dal fidanzato. La paziente ha occasione in questa seduta di
follow-up di riflettere sul fatto che l’esperienza lavorativa e l’autonomia
economica sono tutori di resilienza (nell’accezione usata da Boris
Cyrulnik, neuropsichiatra e psicoanalista francese), perché si sente
legittimata nell’allontanamento da casa.
Numero sedute: sei.
In questo primo caso segnaliamo l’importanza che nel modello di
Zapparoli, sia per i casi di psicopatologia grave che per quelli di
patologia minore, è attribuita alla diagnosi dei bisogni che risponde alla
domanda di che cosa ha paura il paziente e da che cosa si difende.
37
Cinzia ha paura della sua aggressività non costruttiva vissuta in termini
di rabbia e si difende dai sensi di colpa provati nei confronti della
madre malata e bisognosa di cure. Questa valutazione insieme ai punti
di forza e di vulnerabilità è utile per individuare il focus centrale,
finalizzato alla comprensione del blocco evolutivo, nel processo
emancipativo e di crescita di questa paziente.
Secondo caso
38
Liliana cinquantanove anni.
La prima volta che incontrai Liliana fu nell’aprile del 2007, inviata
dall’allergologo per un problema di orticaria che la paziente attribuiva
ad un effetto conseguente al ciclo di chemioterapia somministratole
per un tumore all’utero. Mi riferì di essere stata sottoposta nei cinque
anni precedenti all’asportazione dell’utero e delle ovaie per un tumore.
Nel gennaio 2006 subì un altro intervento per una recidiva al colon,
seguì a luglio chemioterapia. Sia l’oncologo sia il dermatologo che la
seguirono esclusero che il disturbo da lei riferito dipendesse dal ciclo di
chemioterapia e la inviarono dall’allergologo che oltre a sottoporla a dei
test allergologici, me la inviò in consulenza. Dal primo colloquio si
delineò un quadro di sintomatologia depressiva reattiva alla situazione
fisica e di lutto, ancora attuale, per la separazione dal marito avvenuta
dieci anni prima.
Storia di vita
Già dalle prime battute del colloquio emerse una vita costellata da
patologie somatiche successive alla separazione dal marito avvenuta nel
1996. La paziente dopo pochi anni dalla separazione, molto sofferta,
“si ammalò di cuore”, ebbe un infarto.
Liliana sembrava non aver elaborato la separazione dal marito che
rappresentava, anche a distanza di tanti anni, una ferita subita, poiché
fu il marito a lasciarla per un’altra donna.
Raccontò che si era sposata dopo essersi laureata in lingue e dopo poco
tempo era nata la sua unica figlia di trentun anni che vive e lavora a
Milano.
La paziente originaria dell’Emilia Romagna, dopo essersi laureata,
iniziò ad insegnare inglese e si trasferì a Genova per seguire il marito.
La sua famiglia di origine, le tre sorelle e i genitori rimasero in Emilia
Romagna.
Dall’anamnesi risultò una familiarità per patologia oncologica poiché
sia una sorella che il padre erano deceduti per un tumore.
Mentre nel periodo doloroso della separazione la paziente non chiese
alcun aiuto, quando si ammalò di tumore, sviluppò una sintomatologia
depressiva e un’amica l’accompagnò da uno specialista psichiatra che le
prescrisse una terapia antidepressiva e le fornì un supporto
psicoterapico, dai quali la paziente trasse beneficio.
Mi disse che ora non aveva più paura della malattia, “non me ne frega
più niente”.
Appariva piuttosto arrabbiata e delusa nei confronti dei medici che non
l’avevano saputa proteggere dal rischio di una recidiva.
Cominciai a pensare che il sintomo dermatologico poteva inquadrarsi
in questo contesto depressivo-reattivo.
Tuttavia i sentimenti di rabbia e di delusione sembravano sentimenti
caratteristici della sua personalità che avevo riconosciuto nella gestione
del lutto coniugale e nel rapporto con la figlia che mi apparve da subito
molto conflittuale.
Fattori di resilienza
- Ambizione e desiderio di riscatto sociale;
39
- relazioni sociali significative (con ex colleghe di lavoro, ex alunni).
Fattori di vulnerabilità
- Rigidità caratteriale e tendenza al pessimismo;
- scarso sostegno parentale.
Focus e tecniche d’intervento
40
Mi domandai fin da subito come potevo aiutare questa paziente, che
non aveva chiesto volontariamente il mio aiuto, ma che manifestava
chiare aree di sofferenza somatica e psichica.
Durante i colloqui la paziente piangeva, si arrabbiava, si sentiva sola e
percepiva, trasmettendomi una scarsa volontà di approfondire, la
precarietà della sua vita. Era tormentata dalla rabbia e delusione nei
confronti del marito che l’aveva abbandonata, del tumore che si era
ripresentato e della figlia che era andata via e aveva deciso di fare scelte
diverse da quelle che lei avrebbe voluto.
Nonostante le diverse aree emerse, decisi di approfondire il focus nel
quale la paziente mi sembrava disposta a lavorare e che in qualche
modo sembrava premerle di più, il conflitto tra la figlia ideale e la figlia
reale. L’obiettivo che mi prefissai fin da subito fu quello di svolgere
una mediazione tra questi due poli. La paziente non accettava che la
figlia pur essendosi laureata in architettura svolgesse un lavoro
impiegatizio che non la ripagava, a suo giudizio, degli sforzi compiuti.
Il ragazzo che si era scelta non era all’altezza e veniva descritto come
un opportunista che la plagiava e mirava ad acquistare una casa con il
suo contributo. Era criticata anche la scelta della figlia di convivere e di
non sposarsi con il ragazzo.
Inoltre Liliana non accettava che Sara mantenesse un buon rapporto
con il padre, giudicava ciò una sorta di tradimento. Emergeva il quadro
di una figlia “sbagliata”, non rispondente alle sue aspettative. La
paziente non era in grado di vedere le risorse di questa figlia che anche
lei aveva contribuito a sviluppare, come non era abbastanza
consapevole dei suoi meriti di madre.
Liliana, cresciuta in una famiglia descritta come poco accogliente sul
piano emotivo e con poche risorse economiche, era riuscita con le sue
forze e la sua determinazione a laurearsi e svolgere un lavoro che
tuttora le dava grande soddisfazione. La sua casa era frequentata
quotidianamente, pur essendo prepensionata per motivi di salute, da
giovani ai quali impartiva ripetizioni d’inglese.
L’interpretazione del conflitto intrapsichico e il lavoro di
consapevolezza degli elementi descritti avevano contribuito a rendere
la paziente più serena e fiduciosa anche nei confronti della malattia.
In questo percorso di riavvicinamento alla figlia le avevo suggerito di
scrivere emozioni e sentimenti provati nel corso della settimana.
Questo suggerimento aveva portato la paziente a scrivere una bella
lettera alla figlia nella quale era stata capace di esprimere parole e
sentimenti che non riusciva a comunicare a voce o di persona.
Dopo pochi mesi dal nostro primo incontro la paziente arrivò
allarmata poiché gli esami clinici relativi al tumore erano alterati. Le
ulteriori indagini evidenziarono la presenza di un’altra recidiva a livello
intestinale. La paziente era spaventata, mi disse che non aveva paura di
morire ma aveva paura di affrontare da sola questo momento. Le dissi
che avrei continuato a seguirla finché ne avesse avuto bisogno e
tacitamente concordammo un accompagnamento fino alla fine della
sua vita.
Liliana fin da subito mi apparve non completamente disponibile ad
elaborare le reali paure di morte che la recidiva del tumore le suscitava,
mi chiedeva di muovermi cautamente nell’elaborazione del limite
rappresentato dalla prevedibile fine della sua vita.
Il focus sul presente fu occupato, fino a che le sue condizioni fisiche lo
consentirono, nel proseguimento della conciliazione con la figlia.
41
42
Il tentativo del chirurgo di rimuovere la massa tumorale fallì. La figlia,
chiese al personale medico di comunicare parzialmente l’esito
dell’intervento alla madre. La paziente si sentì presa in giro e mi
espresse rabbia e delusione nei confronti del chirurgo che non le aveva
parlato con chiarezza.
La figlia, l’oncologa, il chirurgo ed anche la sottoscritta cogliemmo
l’ambivalenza della paziente nella conoscenza completa della
situazione. Pur non convinta della decisione di non informare la
paziente del quadro prognosticamente sfavorevole, mi adeguai alla
volontà della figlia. Durante la terapia mi ero dichiarata disponibile a
parlare con lei. Quest’attivismo, non consueto nella mia pratica clinica,
era forse indotto dalla consapevolezza che il tempo a disposizione,
anche per una terapia focale, non fosse sufficiente. Gli eventi della
malattia somatica di Liliana ci avevano fatto incontrare. Fu la figlia a
chiedermi di potermi parlare. Era una ragazza graziosa, dai bei modi,
preoccupata per la sorte della madre, ma allo stesso tempo rammaricata
dalla consapevolezza di non essere completamente accettata. Il
rapporto conflittuale rendeva la situazione più difficile.
La figlia aveva chiesto un mio consiglio sull’opportunità di comunicare
alla madre il suo stato di gravidanza. La ragazza temeva, ciò che poi si
avverò, che la madre non accettasse la sua condizione. Le consigliai di
attendere un poco e mi dichiarai disponibile nel caso avesse avuto
bisogno di parlarmi. Informai la paziente del colloquio avvenuto e della
disponibilità telefonica data alla figlia.
Sara che si rivelò come la madre poco flessibile e comprensiva nei
confronti delle caratteristiche della madre, scelse forse il metodo meno
indicato per comunicare la sua gravidanza portando in visione alla
madre l’ecografia della bambina che aveva in grembo. In una sorta di
acting out indusse la risposta che temeva, cioè la disapprovazione e la
chiusura al dialogo da parte della madre.
Dopo l’intervento chirurgico Liliana si recava da me nonostante i
dolori. Sembrava aggrappata allo spazio di riflessione che le offrivo che
si connotava sempre di più come spazio d’intermediazione tra la
ribellione e la resa alla malattia, tra la vita e l’ineluttabilità della morte,
tra l’onnipotenza e l’impotenza del chirurgo, dell’oncologo, dello
psicoterapeuta, tra l’accettazione e non accettazione della figlia e della
sua scelta di diventare madre…
Liliana nella ricerca di uno spiraglio di miglioramento delle sue
condizioni fisiche insistette per cercare un chirurgo che riprovasse ciò
che il primo non era riuscito a fare. Non ci fu il tempo per un secondo
intervento poiché fu sottoposta, d’urgenza, ad un intervento palliativo
per via di un’occlusione intestinale che subentrò nel frattempo.
Ebbi un ulteriore colloquio telefonico con la figlia negli ultimi giorni di
vita di Liliana. La situazione fu complicata dal fatto che la figlia non
poté recarsi a trovare la madre perché, ormai all’ottavo mese di
gravidanza, aveva minacciato un parto prematuro. La penultima volta
che vidi Liliana mi lesse un’affettuosa lettera scritta alla figlia che
esprimeva il suo dolore per non poterla vedere e aveva parole di
comprensione ed affetto per la sua sofferenza.
In questo caso la tecnica d’intervento principalmente utilizzata è stata
quella dell’intermediario, sviluppata da Zapparoli.
Nel testo La follia e l’intermediario (Zapparoli, 2002) la tesi principale
proposta è che l’operatore psichiatrico, nel trattamento dei pazienti
gravi, può assumere la funzione di “intermediario” tra la follia e la
realtà, tra le richieste “impossibili” del folle (o del suo ambiente
familiare e sociale) e le risposte “possibili”, percorribili e attuabili nel
contesto della cura. Nel caso di Liliana è stato necessario svolgere il
ruolo d’intermediario durante tutta la psicoterapia, intermediario tra la
figlia ideale e reale, ribellione alla malattia e la resa, tra la vita e
l’ineluttabilità della morte, tra l’onnipotenza e l’impotenza della
paziente, del chirurgo, dell’oncologo, dello psicoterapeuta. Nel
trattamento di questa paziente sono state fondamentali anche le
riflessioni e il contributo di Zapparoli sul ruolo e le funzioni
dell’Ortothanasista nell’importante testo scritto insieme a Segre Vivere e
morire (1997). Il ruolo che è stato svolto ha riguardato il mantenimento
43
dell’illusione della paziente di poter sopravvivere quel tanto, per
portare a termine il progetto di recuperare minimamente un rapporto
con la figlia.
Per concludere, il clinico che si trova di fronte alla necessità d’indicare
un trattamento psicoterapico dovrebbe conoscere i vari modi di
accostarsi alla psicopatologia in generale ed in particolare a quella
depressiva, per essere capace di applicare con etica, conoscenza e
flessibilità, una determinata tecnica per raggiungere una o più finalità
che portino il paziente a stare meglio.
44
RIASSUNTO
In questo lavoro si evidenzia che, come testimoniato da molte ricerche,
non ci sono differenze significative tra le diverse forme di psicoterapia.
I fattori curativi dei diversi modelli psicoterapici risiedono in alcuni
elementi comuni. Non sembra essere il modello di riferimento a fare la
differenza, quanto alcuni elementi che risultano diffusi nella prassi
clinica. Tuttavia non tutte le psicoterapie agiscono allo stesso modo ma
ognuno può offrire un contributo unico che può divenire
complementare ad altri contributi. Si sottolinea quindi l’importanza
dell’integrazione dei modelli (psicoanalitico, cognitivo, evolutivo) e
l’integrazione delle tecniche. La valutazione della resistenza al
cambiamento, del funzionamento mentale, delle risorse e dei deficit del
paziente sono gli indicatori che ci possono aiutare a rispondere alla
domanda: “Quale psicoterapia per la depressione?”. Dobbiamo però
avere sempre in mente che: “non è il paziente a doversi adattare ad un
modello psicoterapico precostituito, ma il contrario”. Nell’articolo
vengono presentati due casi di Depressione Lieve e Moderata seguiti
con il modello della psicoterapia focale integrata secondo gli
insegnamenti di G.C. Zapparoli e M.C. Gislon.
PAROLE CHIAVE
Depressione, psicoterapia focale, integrazione.
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46
SUMMARY
This paper, as already shown in past research, seeks to underline that
there are not significant differences between different types of
psychotherapy. Therapeutic factors belonging to different models of
psychotherapy can be found in a few common elements. It seems that
the model makes little difference whereas other elements common in
clinical practice could be more relevant. However not all
psychotherapies act in the same way but each one offers a unique
contribution that could be complementary to other contributions. We
must stress the importance of integration between different models
(psychoanalytic, cognitive and developmental) and between different
techniques. Evaluation of the patient's resistance to change, mental
functioning, resources and deficits are precious indicators that can help
us answer the question: “What kind of psychotherapy for
depression?”. We should also always bare in mind that : “It is not the
patient who should adapt to a particular type of psychotherapy but the
opposite”. In the following article I present two cases in which mild
and moderate depression are treated following the integrated focal
psychotherapy model of G.C. Zapparoli and M.C. Gislon.
KEY WORDS
Depression, focal psychotherapy, integration.
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Challenges of Assimilative Integration. Journal of Psychotherapy
Integration, 11, 21-42.
Appunti di viaggio
49
Marina Briselli, Paola Buonsanti, Marcella Devale, Piero
Gianotti, Michela Moccafighe
Variazioni della
psicoterapeutica
“distanza”
nella
relazione
Perché l’équipe della Comunità Terapeutica Redwest ha sentito il
bisogno di trattare questo tema?
La difficoltà maggiore avuta nello svolgere il ruolo dell’operatore di
comunità con persone adulte con Disturbo di Personalità e
Schizofrenici, è stato quello di gestire i diversi ruoli che le diverse
situazioni impongono.
Ci troviamo continuamente in situazioni che alternano momenti che
sono diametralmente opposti (dal colloquio al servire il pasto, dal
condurre un’attività strutturata a preparare la lavatrice). Queste
situazioni richiamano un ruolo differente che comporta una
modulazione della distanza. Nel concreto il bisogno nasce dalla
consapevolezza di ritrovarsi, ad esempio nel colloquio, a chiedere ad un
paziente che ha bevuto come “ti senti, cosa provi” e fuori da questo
momento strutturato, avere una funzione più normativa/educativa e
quindi trovarsi a riformularne il progetto terapeutico e limitarne le
uscite.
Nel lavoro psichiatrico il paziente s’impone sempre in primo luogo
come persona con la quale è necessario e prioritario stabilire una
relazione interpersonale.
Quando l’individuo che soffre incontra chi è in grado di farsi

Psicologa, Psicoterapeuta.
Psichiatra, Direttore Sanitario CT Redwest (IM); Consulente Medico Psichiatra e Psicoterapeuta
Centro Terapeutico Riabilitativo La Tolda (SV).

Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica.

51
52
professionalmente e tecnicamente carico della sua sofferenza si
stabilisce una relazione terapeutica.
Nei disturbi mentali, in cui è alterato in modo significativo il vissuto del
soggetto, la sua capacità di comunicare e di stare insieme agli altri in
una realtà condivisa, la relazione rappresenta prima ancora di qualsiasi
risorsa tecnica specifica, lo strumento indispensabile per potersi
accostare a questa condizione di sofferenza.
La malattia psichica è avvicinabile solo attraverso la relazione e
l’operatore dispone di se stesso con tutta la propria persona per
rispondere alla richiesta di relazione, spesso ambivalente che il paziente
esprime. Questo fa della psichiatria una scienza e una terapia centrate
sulla relazione. Essa è già di per sé uno strumento terapeutico.
Il suo impiego dunque dev’essere attento, misurato, calibrato, paziente
per paziente e momento per momento illuminato dalla tecnica e
riscaldato da un buon uso delle emozioni.
Al di là di ogni risorsa tecnica è l’irriducibile “fattore umano”
l’irripetibile equazione personale dell’operatore, l’unico strumento in
grado di accostare più possibile il mondo lontano, estraneo, bizzarro e
spesso incomprensibile del paziente cogliendone comunque un senso.
L’operatore dev’essere qualcosa in più di tecnico e deve sapere di sé le
infinite potenzialità e gli enormi limiti.
Il primo passo per costruire con lui una relazione è quello d’instaurare
un buon clima emotivo in cui stare bene insieme, fidarsi, parlare e più
tardi esprimere dei bisogni. Definiamo ciò “clima empatico”.
Il clima empatico permette all’operatore di sintonizzarsi sulla
lunghezza d’onda emotiva del paziente, di coglierne i bisogni e di
emettere risposte adeguate. Questo consente all’operatore di ridurre le
sensazioni di fastidio, di non comprensione, di fuga e di noia.
In questo clima anche una risposta negativa ad una richiesta, trasmette
il messaggio che comunque la sua richiesta è stata ascoltata, accolta e
compresa.
Occorre sottolineare che nella relazione terapeutica l’operatore
psichiatrico non è solo “cronista” della realtà, ma anche “attore” inteso
come colui che partecipa attivamente con i propri sentimenti e le
proprie emozioni. Le emozioni e il bagaglio di esperienza non solo
professionale ma anche umano, sono strumenti indispensabili nel
lavoro psichiatrico. In questo contesto dunque l’operatore non può
limitarsi ad essere osservatore, ma deve necessariamente entrare nel
campo da lui osservato: deve partecipare.
Nella relazione con il paziente psichiatrico tale partecipazione rischia
però di trasformarsi in un coinvolgimento che annulla ogni distanza
critica ed ogni efficacia terapeutica. Gran parte delle energie di cui
l’operatore dispone dev’essere impiegata nel mantenere una giusta
distanza che consente di non avvicinarsi troppo ma anche di non
interporre un eccessivo spazio di sicurezza. Frapporre tra sé e il
paziente uno spazio, protegge la relazione da una serie di rischi,
consentendo di stabilire una distanza equa, per cui l’operatore non
rischia di venire inglobato dal paziente e quest’ultimo non viene
mantenuto difensivamente ad una distanza eccessiva. La relazione e la
comunicazione con questi pazienti rimangono comunque difficili e
precarie nel tempo.
Spesso l’operatore deve confrontarsi con una richiesta ambivalente. Di
fronte alla possibilità di cambiamenti il paziente può rifugiarsi nella sua
patologia, può cercare di rendere inefficace le strategie impiegate,
svalorizzando e attaccando umanamente e professionalmente
l’operatore.
La relazione per quanto cercata, può essere nello stesso tempo
attaccata e rifuggita, perché avvertita come pericolosa per l’integrità e
l’autonomia del soggetto. Soprattutto per questo motivo è
determinante che dello strumentario tecnico dell’operatore psichiatrico
facciano parte la capacità di tollerare la frustrazione e di continuare ad
esistere nonostante gli attacchi distruttivi provenienti dalla relazione col
paziente.
53
La capacità di tollerare la frustrazione ha alla base la capacità di
essere flessibili nel variare la distanza?
54
In questa oscillazione instabile e continua del paziente tra paura e
desiderio della relazione, tra realtà e fantasia delirante, è difficile per
l’operatore stabilire uno spazio di negoziazione ed una stabile e
positiva alleanza terapeutica. Ma questo deve comunque rimanere
l’obiettivo di tutto il lavoro relazionale. Un lavoro lento, volto a
conquistare la sua fiducia che può durare anche molti anni con fasi di
arresto e molti attacchi distruttivi.
Il giusto atteggiamento per stabilire una relazione ideale con il malato
non può essere insegnato in un manuale, esso s’impara con la pratica e
con l’esperienza, ma soprattutto un operatore psichiatrico deve avere
un buon equilibrio emotivo e una ricca esperienza umana. Il che non
significa essere perfetti ma semplicemente delle persone autentiche.
Dice Paolo Quattrini in un’intervista del 2009: “Una delle difficoltà
consiste in genere nel fatto che conoscendo fenomenologicamente, si è
costretti a conoscere contemporaneamente anche sé stessi e non si può
rimanere in posizione asettica. Conoscere fenomenologicamente è una
lama a due tagli che obbliga il terapeuta a fare i conti con la propria
realtà esistenziale anche mentre è in seduta con i pazienti”.
Quindi, un terapeuta non deve avere paura di quello che prova e vive;
non deve avere vergogna, anche se in senso paradossale può
permettersi di averla, di sperimentare confusione, tristezza, che “oggi
non è giornata” ecc., al contrario dev’essere in grado di usare e di avere
la capacità di trasmettere questo tipo di vissuti, che è normalmente
molto rilassante per il paziente e lo aiuta ad accettare le proprie
difficoltà con maggiore dignità. La terapia si fa con la presenza, ovvero
avendo realizzato dentro di sé questa umanità.
La chiave dell’intervento riabilitativo nelle comunità terapeutiche sta
nell’accento posto sul rapporto personale in ambito gruppale, che
investe della funzione terapeutica non tanto il singolo operatore quanto
la comunità nel suo complesso.
La comunità è un insieme di persone che condividono tempi, spazi ed
emozioni, il numero di persone presenti all’interno della struttura
permette che si verifichino scambi non anonimi, tipici invece di luoghi
più vasti. All’interno della comunità si ha la sicurezza di ricevere cibo,
alloggio, accudimento e di essere riconosciuti come persone; tale
riconoscimento costituisce un potente strumento di costruzione e
mantenimento dell’identità personale ed ha una sicura valenza
terapeutica.
Fornire al paziente uno spazio che possa personalizzare e che abbia per
lui caratteristiche di comfort e accudimento, realizzare una quotidianità
regolare e familiare che non deve comunque scadere nella monotonia
ripetitiva ma deve prevedere momenti di apertura e di cambiamento.
La quotidianità residenziale dev’essere protettiva, accogliente,
prevedibile, ma deve anche offrire piccoli dubbi e incertezze. La
consuetudine residenziale non è fatta solo di muri e oggetti inanimati
ma di persone e di comuni regole di vita. Le regole sono importanti
per creare una cornice e al tempo stesso aprire spazi d’innovazione che
rinnovano la consapevolezza del fatto che le regole sono fatte per le
persone e non viceversa.
La comunità terapeutica impone un tipo di rapporto tra operatori e
ospiti diverso da quello abituale delle strutture sanitarie: caratteristica di
questo particolare rapporto è lo stare insieme, è il condividere la
quotidianità al di là di ruoli definiti, tollerando la diversità. La
dimensione terapeutica introduce però una differenziazione: c’è chi è lì
per curare e chi per essere curato, i primi stanno nella comunità a
tempo parziale i secondi no, i primi sono pagati, i secondi pagano o
qualcuno paga per loro.
Se dunque lavorare in comunità richiede all’operatore di tollerare una
minor differenziazione fra sé ed il paziente, ponendo l’accento sugli
aspetti condivisibili non c’è dubbio che tuttavia la differenziazione
esiste, che il terapeuta deve sostenere un ruolo diverso dal paziente e
che per sostenerlo ha bisogno di conoscenze tecniche. Ma queste
ultime non devono costituire una difesa e fargli dimenticare che la
55
56
propria persona è il fondamento di ogni possibile intervento curativo.
In altre parole, l’operatore ha il delicato compito di muoversi tra due
modalità opposte di rapporto con il paziente: la scissione e la
confusione (Conforto et al., 2005).
È importante che l’accoglienza si alterni alla stimolazione e il codice
materno a codice paterno; il dosaggio di queste due componenti è
delicato. Utile sarà per l’operatore il concetto di stimolazione ottimale,
vale a dire quel grado di stimolazione utilmente fruibile dal paziente: se
la stimolazione sarà scarsa si potrà favorire una regressione
comportamentale ma questa potrà verificarsi anche in seguito ad
un’eccessiva stimolazione ansiogena.
Quello che si è voluto dire finora è che in una comunità tutto è terapia.
Attenzione però! La dimensione terapeutica data ad esempio dalle
attività riabilitative o ricreative (anche loro hanno un loro perché) non è
sufficiente, per cui oltre alla dimensione gruppale occorre tener ben
presente anche quella del singolo. In tal senso vogliamo mettere in
evidenza la dimensione psicoterapica all’interno di quel setting che
chiamiamo comunità, spostare la nostra attenzione dall’asse gruppale e
puntare il riflettore sul singolo ospite. Nel fare ciò possiamo allora
vedere come alla fin fine si realizzi anche in comunità un classico
percorso psicoterapico che inizia dal momento in cui ci viene
presentato il caso e come varia la distanza a seconda delle varie fasi in
cui ci si trova.
L’assessment del paziente e il momento del suo ingresso
Nella fase iniziale il professionista utilizza gli strumenti che ha a
disposizione per decidere quali interventi hanno maggiori possibilità di
successo per quel determinato paziente, con quelle determinate risorse
cognitive ed emotive, con le sue particolari disabilità, inserito in quel
particolare ecosistema.
L’obiettivo di questa prima fase, è l’identificazione di un percorso
terapeutico, con la scelta del tipo, o dei tipi d’interventi, che possono
essere programmati in successione o in parallelo e la proposta di una
serie di verifiche nel tempo che aiutino a fare il punto della situazione e
proporre eventuali correzioni di rotta.
Il percorso può essere in buona parte negoziato con il paziente: la
scelta di un approccio per quanto possibile “breve”, quindi centrato
sulla soluzione dei sintomi, piuttosto che “profondo” e quindi mirante
ad una ristrutturazione più ampia della personalità, l’eventuale
coinvolgimento del coniuge o di altri familiari.
In questo modo, fin dall’inizio, la parte che si propone al paziente è
molto più attiva di quanto si possa immaginare. Se il terapeuta può
essere considerato l’esperto dei processi di crescita e di cambiamento
psicologico, il paziente, paritariamente, resta il massimo esperto di se
stesso.
A questo livello d’intervento quindi lo psicoterapeuta si pone come un
consulente tecnico impegnato in uno scambio paritario con il paziente.
Questo è il momento in cui dare del Lei al paziente, col quale ha
ancora da svilupparsi la necessaria partnership; ha una valenza differente
del Lei che viene dato nel momento in cui l’aggancio è avvenuto. Se in
questo secondo caso, col dare del Lei ci si riferisce ad un insieme di
fattori fra cui la differenziazione dei ruoli all’interno della struttura o la
veicolazione di una vicinanza/distanza autentica, nel primo caso ha una
valenza maggiormente simile a quella data al di fuori di un contesto
comunitario: una norma sociale che lo impone per questioni di buona
educazione a due persone che si conoscono per la prima volta.
La psicoterapia individuale
Scopo della psicoterapia è quello di aiutare il paziente a riconoscere le
proprie emozioni, le proprie difficoltà e collocarle nel contesto
57
58
relazionale attuale ed evolutivo in cui sono emerse.
Anche in questo caso la relazione terapeutica nasce come
collaborazione paritaria. Tuttavia ben presto questa cornice non è più
sufficiente: l’accesso ai contenuti mentali esclusi dalla consapevolezza
richiede un coraggio che per definizione il paziente non ha. Solo se il
terapeuta riesce a porsi come nuova e rassicurante figura capace di
contenere e alleviare il dolore del paziente, l’esplorazione delle
emozioni potrà procedere.
In questa fase la modulazione della distanza ha un valore fondamentale
al fine del mantenimento della cornice terapeutica la quale per
funzionare deve rimanere stabile.
Tutti i terapeuti sanno che occorre mantenere un’adeguata distanza per
cui non accettano inviti a pranzo, non accettano regali e non
permettono di essere contattati più di tanto nella loro vita privata.
Insomma occorre non stabilire rapporti così vicini perché poi si entra
in dinamiche per cui la cornice terapeutica non regge più e se da una
parte il paziente può sentirsi frustrato da tale distanza, dall’altro è
proprio quella che gli permette di fidarsi.
L’esposizione in vivo
Altro punto in comune con un classico percorso psicoterapico che
utilizza interventi differenti lo possiamo ritrovare ad esempio nella
terapia della padronanza guidata di stampo cognitivo-comportamentale
(attualmente utilizzata in Inghilterra) la quale agisce sul
comportamento per provocare cambiamenti a livello cognitivo; tende
cioè a modificare le convinzioni che la persona ha rispetto alla propria
capacità di affrontare le situazioni temute attraverso una verifica dal
vivo dell’erroneità delle proprie convinzioni. Per fare questo il
terapeuta guida personalmente ad affrontare le proprie difficoltà.
Tale tipo di terapia è da considerarsi uno sviluppo della tecnica
dell’esposizione graduale in vivo, finora applicata nella gran parte dei
trattamenti mirati all’Ansia (Panico, Ossessioni, Ipocondria, Ansia
Sociale) in cui il terapeuta chiede al paziente di scomporre l’obiettivo
(comportamento problematico) in sotto-obiettivi di difficoltà minori e
di esporsi a questi, ossia affrontarli in modo graduale dal più facile al
più difficile.
Dal punto di vista del tipo di relazione terapeutica che si stabilisce va
osservato che il terapeuta tende a condividere il più possibile le
“fatiche” della terapia con il proprio paziente. Il paziente percepisce il
sostegno del terapeuta anche per il fatto che ha lasciato la sua comoda
poltrona per accompagnarlo dove più forte è la sua angoscia.
Questo è il caso di un paziente con diagnosi di Schizofrenia di Tipo
Indifferenziato e Ritardo Mentale Moderato.
Tale ospite in passato si era mostrato in grado di far uso autonomo dei
mezzi pubblici ma in seguito ad eventi negativi ripetuti nel tempo in
cui aveva subito diversi agiti aggressivi, aveva sviluppato un rifiuto
totale a ricorrere a tale risorsa.
Al fine di preservare questa capacità, la mini équipe aveva deciso di
formulare un progetto che prevedesse l’accompagnamento del paziente
durante l’uscita con la corriera, dove l’operatore una volta seguitolo più
volte fino a destinazione, iniziasse a scendere ogni volta ad una fermata
precedente. Tale progetto è stato necessario comunque protrarlo per
un periodo di tempo considerevole ma ha poi comunque portato agli
effetti desiderati.
La terapia di coppia o familiare
Un altro tipo d’intervento che attuiamo in parallelo agli altri può
benissimo essere paragonato alla terapia familiare e questo perché una
presa in carico, anche se minima, dei congiunti del paziente è sempre
presente.
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Nel momento in cui il nucleo familiare si mostra particolarmente
aggressivo/espulsivo nei riguardi del congiunto, della struttura, del
percorso terapeutico o quando si rendono evidenti alti livelli d’Ansia
che comportano un’intromissione corposa del familiare nel lavoro
svolto con l’ospite presente in struttura, l’équipe imposta, ad esempio,
incontri o telefonate a cadenza settimanale in modo da rielaborare le
diverse situazioni che si presentano nella quotidianità durante il
percorso del paziente.
Tutto ciò poi viene “riutilizzato” durante le riunioni psicoeducazionali
svolte mensilmente, le quali sono indirizzate non solo ai familiari ma a
tutti coloro che sono in stretto contatto col paziente (amici, compagni
di vita, ecc.).
Nel lavoro con i partner o con le famiglie, la posizione del terapeuta
tende ad essere equidistante ed il suo lavoro di mediazione ha la
funzione di ricreare, nell’ecosistema del paziente, legami sicuri con la
convinzione che il paziente adulto può ottenere sicurezza nella
relazione anche imparando a darla all’altro.
60
La supervisione
Lo psicoterapeuta dovrebbe essere inserito in una rete di professionisti
che collaborano tra loro in modo organico, perché nessuno può
pretendere di poter rispondere sempre e da solo a tutte le esigenze che
può porre la psicoterapia.
Lo staff di psicoterapeuti di riferimento può discutere insieme, in
assenza del paziente, alcuni passaggi problematici e/o fasi di stallo della
psicoterapia dei pazienti che risultano “difficili”.
Un collega, dall’esterno, può “vedere” cose invisibili a chi è dentro il
processo. Ma soprattutto i colleghi possono sostenere chi è in
difficoltà, evitando anche il senso d’isolamento e d’impotenza che
spesso si avverte di fronte a situazioni che sembrano essere più grandi
del singolo terapeuta.
Anche a questo livello esiste una relazione con il paziente anche se
questi non ne è consapevole. Non è detto che però sia meno
importante (Conforto et al., 2005).
Conclusioni
La terapia residenziale richiede interventi a vari livelli.
Nel processo psicoterapeutico la “distanza” personale tra terapeuta e
paziente varia sia nell’uso di una specifica tecnica sia nel passaggio da
una tecnica all’altra. Questo più che una necessità cui assoggettarsi
rappresenta una potenzialità per il trattamento: il paziente può fare
esperienza concreta dell’intimità e dell’autonomia e se la terapia
funziona, impara a sentirsi a suo agio sia in un caso che nell’altro.
Tornando alla domanda iniziale: quale giusta distanza?
Dal nostro ingresso in società abbiamo sempre avuto a che fare con la
regolazione della giusta distanza con i parenti, con gli amici, con gli
insegnanti, i datori di lavoro, i colleghi quindi dovremmo essere allenati
da questo punto di vista. Ciò che cambia nel lavoro o comunque nella
relazione col paziente psichiatrico è che occorre avere piena
consapevolezza, momento per momento, dei vari cambiamenti
necessari, della variazione continua che dobbiamo misurare da un
minuto all’altro, da paziente a paziente, da intervento a intervento.
Che strumenti abbiamo che ci aiutano in ciò al di là della
consapevolezza?
Il nostro lavoro sarà influenzato dalla curiosità del desiderio, dalla
passione, fantasia, invenzione, creatività, improvvisazione (Cecchin,
1997).
Gli uomini vivono immersi in un tessuto di storie a cui tutti
partecipano, storie che possono dar origine a problemi ma che
rinarrate contengono anche le risorse necessarie per risolverli. Gli
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62
esseri umani traducono i loro sistemi di credenze in storie che si
raccontano allo scopo di organizzare ed interpretare le esperienze della
vita.
Le storie possono essere più o meno rigide in quanto definite da
contesti sociali e culturali specifici, attribuzioni di ruolo, schemi
prefissati, vincoli narrativi: le storie rigide hanno di solito un forte
potenziale anticipatorio, si sa già all’inizio come andranno a finire.
Anderson e Goolishian (1992), sostengono che solo mantenendo una
posizione di apertura il terapeuta può favorire la creazione di altre
storie, di altre realtà più funzionanti.
Avremo dalla nostra l’irriverenza che è un atteggiamento mentale, un
modo di guardare sé stessi e gli altri. L’irriverenza consiste nel non
lasciarsi mai sedurre del tutto da un modello al punto da esserne
irretiti. Il terapeuta irriverente cerca di non sentire il bisogno di seguire
una teoria particolare o le regole che gli sono imposte dai clienti,
istituzioni, ambiti in cui opera. L’entusiasmo verso un modello o
un’ipotesi aiuta il terapeuta ad entrare in contatto con un paziente
senza perdere quella posizione di relativo distacco che rende possibile
ed alimenta la curiosità (Cecchin et al., 2003).
Quando il terapeuta comincia a riflettere sulle conseguenze del suo
modo di porsi e dei suoi presupposti di base, assume una posizione che
è terapeutica ed etica al tempo stesso. Per acquisire la capacità di
osservarsi e riflettere su di sé è necessaria una certa dose d’irriverenza e
senso di humor che si ottiene mettendosi in gioco a vari livelli con gli
interlocutori, psichiatri, colleghi.
Le ipotesi del terapeuta sono descrizioni di ciò che vede o crede di
vedere non sono spiegazioni. Il terapeuta non si preoccupa di sapere
che cosa effettivamente produce il cambiamento ma è interessato al
cambiamento che si verifica.
L’irriverenza è un’attitudine mentale, una particolare flessibilità che si
applica in primo luogo a noi stessi, alle nostre convinzioni. Il nostro
modo di essere non si basa sui nostri giudizi quanto sui nostri
pregiudizi (Cecchin et al., 2003).
I pregiudizi indicano le linee lungo cui si muove la nostra apertura al
mondo, ci imbattiamo in qualche cosa che ha per noi un significato.
Diamo il benvenuto proprio a quegli ospiti che promettono qualcosa di
nuovo alla nostra curiosità.
L’idea d’irriverenza ha solidi fondamenti nel passato, quanto più ci
avventuriamo in quelle acque agitate e pericolose più sentiamo il
bisogno di cercare approdi sicuri rivolgendoci ai nostri maestri e
precursori.
“La nostra posizione riflette il desiderio di non essere così ingenui da
credere di poter risolvere tutti i problemi dei nostri pazienti, senza però
finire intrappolati nella convinzione cinica di non poter fare nulla
quando i problemi sono difficili. Dobbiamo essere capaci di
sopravvivere allo scoraggiamento e allo sconforto che qualche volta ci
assalgono quando ci confrontiamo con le tragedie della vita.
Dobbiamo essere sempre capaci di cogliere gli aspetti comici di
situazioni assurde e apparentemente impossibili. Per questo è
importante alimentare la nostra capacità di entusiasmarci e ricaricarci
anche quando sperimentiamo il fallimento” (Cecchin et al., 1997).
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RIASSUNTO
Nel lavoro psichiatrico il paziente s’impone sempre in primo luogo
come persona con la quale è necessario e prioritario stabilire una
relazione interpersonale. Nei disturbi mentali, in cui è alterato in modo
significativo il vissuto del soggetto, la sua capacità di comunicare e di
stare insieme agli altri in una realtà condivisa, la relazione rappresenta
lo strumento indispensabile per potersi accostare a questa condizione
di sofferenza. Il suo impiego dunque dev’essere attento, misurato,
calibrato, paziente per paziente e momento per momento, illuminato
dalla tecnica e riscaldato da un buon uso delle emozioni.
Nella relazione terapeutica l’operatore psichiatrico partecipa
attivamente con i propri sentimenti e le proprie emozioni. Tale
partecipazione rischia però di trasformarsi in un coinvolgimento che
annulla ogni distanza critica ed ogni efficacia terapeutica. Una delle
maggiori difficoltà consiste in genere nel fatto che conoscendo
fenomenologicamente, si è costretti a conoscere contemporaneamente
anche sé stessi e non si può rimanere in posizione asettica. La capacità
di tollerare le frustrazioni, ha alla base la capacità di essere flessibili nel
variare la distanza? Che strumenti abbiamo che ci aiutano in ciò, al di là
della consapevolezza? Dove vanno posti gli accenti in un intervento
curativo all’interno di una comunità terapeutica?
PAROLE CHIAVE
Giusta distanza, differenziazione, irriverenza, spazio di negoziazione,
storie narrate, conoscenza fenomenologica.
SUMMARY
In the psychiatric work the patient is always put in the first place as the
person with whom it is both necessary and a priority to establish an
interpersonal relationship. In Mental Disorders, which is significantly
altered the experience of the subject, his ability to communicate and to
get along with others in a shared reality, the relationship is the essential
tool to be able to approach to this condition of suffering. Therefore its
use should be careful, measured, calibrated, from patient to patient and
from moment to moment, illuminated by technique and heated by a
good use of emotions. In the therapeutic relationship, the psychiatric
operator is actively involved with their feelings and emotions. Such
participation, however, is likely to turn into an involvement that
cancels any critical distance, and every therapeutic efficacy. A major
difficulty lies in the fact that generally knowing phenomenologically, at
the same time you are also forced to learn about yourself and you can
not stay in aseptic position. The ability to tolerate frustration, has at the
base the ability to be flexible in varying the distance? What tools do we
have to help us in this, beyond the awareness? Where should the
accents be placed in a curative intervention within a therapeutic
community?
KEY WORDS
Right distance, differentiation, disrespect, space in dealing, stories,
phenomenological knowledge.
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BIBLIOGRAFIA
Anderson H. & Goolishian H. (1992): Il cliente è l’esperto: il “non
sapere” come approccio terapeutico, In: La terapia come
costruzione sociale, Franco Angeli, Milano.
Conforto C., et al., (2005): Lavorare in psichiatria. Manuale per gli operatori
della salute mentale. Bollati Boringhieri, Torino, capp. 14-21.
Cecchin G., et al., (1997): Verità e pregiudizi. Raffaello Cortina, Milano.
Cecchin G., et al., (2003): Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i
terapeuti. Franco Angeli, Milano.
66
Quattro passi per strada
67
Pier Fabrizio Cerro, Laura Pasero
L’anoressia come disperata volontà di esistere
Partendo da un caso clinico, proporremo alcune riflessioni che ruotano
essenzialmente intorno a due temi:
- l’importanza di un accurato percorso di diagnosi differenziale nel
campo della sintomatologia anoressica per non correre il rischio
di non saturare troppo presto, attraverso una diagnosi stabilita da
un sintomo, il vuoto dell’identità che potrebbe celarsi dietro il
disordine alimentare;
- l’anoressia come tentativo estremo di sopravvivenza psichica in
persone con grave vulnerabilità narcisistica.
Il tema dell’utilizzo più o meno consapevole della diagnosi di
Anoressia all’interno della psicopatologia ci sembra inoltre si collochi a
pieno titolo nell’attuale dibattito sul possibile cambiamento
dell’inquadramento diagnostico dei Disturbi Alimentari, dibattito che
sta imperversando tra i clinici in vista della prossima uscita del DSM-V.
Vari autori nel corso del tempo, trattando patologie diverse,
provenendo da scuole di pensiero separate, hanno individuato alla base
della psicopatologia il tentativo, più o meno consapevole,
dell’individuo di sopravvivere anche usando “mezzi” estremi per farlo
(Grava, 2004, 2005).
A proposito di questo, Joyce McDougall (1995, p. 252) si domanda:
“Ma cos’è esattamente la sopravvivenza psichica? Forse la potremmo
concettualizzare come la capacità di mantenere da una parte il senso


Psichiatra, Centro dei Disturbi dell’Alimentazione e dell’Adolescenza, ASL 2 Savonese.
Psicologa, Dipartimento Attività Distrettuali e Cure Primarie, ASL 2 Savonese.
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della propria identità, nelle sue dimensioni soggettive e sessuali,
dall’altra un senso di stabilità narcisistica... Tutti i sintomi sono tentativi
infantili di auto-trattamento di fronte a una sofferenza mentale
ineluttabile... che il senso così creato sia liquidato dagli altri come
patologico, sintomatico o perverso, non invalida quello che è il fine di
tale comportamento: l’impulso a sopravvivere”.
L’autrice che forse più di ogni altro ha trattato la psicopatologia
dell’Anoressia Mentale, Hilde Bruch (1973, 1978) afferma che le
giovani anoressiche assumono un tal comportamento e pensiero
distorti per ottenere il dominio almeno sul proprio corpo.
A un livello più profondo queste ragazze derivano la loro estrema
magrezza dal tentativo di appropriarsi di se stesse passando prima di
tutto dall’appropriarsi del proprio corpo. Qual è il pensiero implicito?
Forse è che stati d’animo, condotte, pensieri estremi, possono essere
funzionali alla sopravvivenza dell’individuo stesso.
Strettamente correlato a questo discorso sull’anoressia come bisogno di
sopravvivenza psichica, ci pare ce ne sia un altro con il quale
ultimamente siamo sempre più chiamati a confrontarci, quello
dell’utilizzo inconsapevole della diagnosi di Disturbo del
Comportamento Alimentare come tentativo estremo di appropriazione
di una “identità” in persone con grave vulnerabilità narcisistica.
Naturalmente tale “scelta” appare fortemente condizionata dall’humus
socio-culturale di cui la nostra società è pervasa, e dal fatto che i
Disturbi Alimentari siano diventati un disturbo per così dire di
“tendenza”.
Una suggestione di Simona Argentieri (2009) sulla trasformazione del
Disturbo Alimentare negli ultimi anni, da sindrome a sintomo
generico, dilagante, aspecifico, ci ha sollecitati a riflettere sulla storia di
una ragazza diciottenne alle prese con il problema del cibo.
Angela, al primo incontro, parlando del vomito e del digiuno, pone
direttamente la questione, sulla quale ancora ci interroghiamo:
“Come possiamo definirlo? Un disturbo alimentare? Lascio a lei la
definizione”.
Argentieri ben descrive il comportamento di queste ragazze che
arrivano al primo colloquio con la diagnosi già pronta e con la pretesa
della cura e per cui l’impresa diventa quella di smantellare questa
costruzione e osservare cosa vi sia dietro.
Ma la storia di Angela è particolare, giunge reclamando un’attenzione
sul suo sintomo, ma ci porta anche a riflettere su come un Disturbo
Alimentare si possa innestare su una Disabilità Mentale, in un incrocio
di diagnosi che sfumano una nell’altra come a cercare, come lei stessa
chiede, una definizione, un confine preciso che possa delimitare la sua
identità.
La domanda che la ragazza pone non è di diagnosticare un disturbo,
ma descrivere la sua persona, per rendersi viva agli occhi degli altri.
Angela, infatti, non nasconde il suo problema, ma cerca in ogni modo
di evidenziarlo, raccontandolo a tutti e lamentandosi perché non viene
preso in seria considerazione.
Angela è seguita dal Servizio di Assistenza Consultoriale per un quadro
di Insufficienza Mentale Lieve conseguente a grave prematurità: nasce
alla ventiquattresima settimana da gravidanza complicata da distacco
placentare e sofferenza fetale. Alla nascita presenta importante
sofferenza respiratoria, emorragia subependimale cui è conseguita lieve
dilatazione ventricolare e sofferenza ai nuclei della base e ittero trattato
con fototerapia. Durante lo sviluppo, ha effettuato terapia riabilitativa
(fisioterapia e psicomotricità) per ritardo psicomotorio, turbe
dell’equilibrio e sfumato emilato e difficoltà di coordinazione oculomanuale.
Ogni tappa della sua crescita è avvenuta in ritardo (deambulazione a tre
anni, prime frasi a sei), ma il suo sviluppo è stato progressivamente
migliorativo, ed oggi restano alcuni postumi del suo traumatico inizio
alla vita (impaccio motorio globale, lieve deficit mentale con discrete
capacità espressive).
Anche la sua storia familiare è stata segnata da vicissitudini: i suoi
genitori si separano quando Angela ha circa sei anni, ne segue
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l’affidamento al padre e alla nonna paterna, mentre la madre si
trasferisce in un’altra regione.
Il rapporto con la madre appare connotato da precoci separazioni, dalla
prematurità al distacco successivo a sei anni: un legame fragile, che non
riuscirà a ricomporsi nemmeno successivamente (Angela comunica con
la madre solo con sporadici messaggi).
La sua è una storia di traumi cumulativi ed un presente di solitudine, in
cui la compagnia della nonna e del padre, fra loro conflittuali, non
sembra fornire una cornice di crescita adeguata.
All’età di diciotto anni Angela confida alle insegnanti di soffrire di un
Disturbo Alimentare. Inizialmente nessuno le crede, ma a forza
d’insistere, ottiene di poter parlare con una psicologa, alla quale dice:
“Per me vomitare è come piangere”.
L’aggravarsi dei sintomi (episodi di vomito ricorrenti, dimagrimento,
pensiero persistente sul cibo) induce a richiedere una consulenza
presso il Centro per i Disturbi del comportamento Alimentare di
natura psicogena (CDAA), centro che ha sede nello stesso territorio in
cui Angela vive.
L’osservazione presso il CDAA prevede una valutazione nutrizionale
ed internistica e alcuni colloqui con lo psichiatra.
Al primo colloquio con lo psichiatra, Angela racconta spontaneamente
la storia della sua vita: inizia a parlare ponendo in primo piano sulla
scena la sua nascita, dicendo di essere stata lasciata in sala parto su un
lettino perché tutti pensavano fosse nata morta e solo in seguito
rianimata. Angela si sofferma a lungo su questa scena, ponendo molta
enfasi soprattutto sul fatto che nessuno immaginava che lei potesse
sopravvivere.
Al di là della veridicità o meno di questo episodio, colpisce come
questo rappresenti per la ragazza una vera e propria scena “modello”
(nel senso utilizzato da Lichtenberg et al., 2000) e come lei l’abbia
“scelta”, anche con un certo compiacimento, come modo per
rappresentare se stessa nel mondo.
La scena della sala parto porta con sé la paura di essere dimenticata,
che Angela proietta sui curanti: il Disturbo Alimentare può essere il
medesimo segnale della sala parto, un tentativo di fare sentire a tutti:
“ci sono! Sono viva! Aiutatemi, voglio vivere”. Dimagrire è anche
tornare sottopeso, come alla nascita. Essere magra sembra l’unico
modo per essere coccolata, l’unico modo di esistere per l’altro.
Il sintomo andrebbe qui in direzione della vita, piuttosto che in quello
della morte? Forse è per questo che per lungo tempo le richieste di
aiuto di Angela non hanno preoccupato nessuno?
Simona Argentieri sostiene che la diagnosi di anoressia offre una sorta
d’identità: dire “sono anoressica” colma il vuoto di dire “io sono”.
L’identità è frutto di un lungo processo, che si costruisce in un doppio
movimento d’assimilazione e rifiuto, d’introiezione e proiezione.
La disabilità rappresenta un’offesa invalidante all’integrità
somatopsichica della persona, che viene intralciata per questo nel suo
corpo, nella sua mente, nel suo divenire adulta. Cionondimeno, i
bambini con insufficienza mentale seguono le stesse tappe di sviluppo
affettivo dei bambini cosiddetti “normali”. La loro vita immaginaria e
la nozione che hanno della loro identità non sono necessariamente
connotate da questa disabilità. Se questo accade, fa osservare Simone
Korff-Sausse (1996) è per altre ragioni, non riconducibili al loro
patrimonio genetico o congenito, ma alle ripercussioni psicologiche
dell’handicap sull’accesso al pensiero simbolico.
Ricerche sulle sequele psicologiche della grave prematurità individuano
la frequenza di una grande insicurezza interna, dominata da
un’angoscia di separazione e da una depressività che ostacolano il
processo d’individuazione. Questi aspetti sembrano tradurre una
patologia precoce dei legami d’attaccamento indotta dalle circostanze
eccezionali della nascita di questi bambini (Sibertin-Blanc, 2002).
Romana Negri (1994) nel suo ormai classico lavoro sui neonati in
terapia intensiva, scorrendo in rassegna i diversi studi sui bambini
pretermine, individua una linea di continuità dai Disturbi Alimentari
Precoci (inscrivibili nella più vasta cornice di “Sindrome
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Psicosomatica”) ai successivi severi Disturbi di Apprendimento e di
Identità, che già Kreisler inseriva nella categoria diagnostica di Psicosi.
Se diversi studi individuano una correlazione fra prematurità e
vulnerabilità narcisistica, ricerche più recenti escludono invece
l’associazione specifica fra complicazioni perinatali e disordini
alimentari in adolescenza (Feingold et al., 2002).
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Tornando ad Angela…
Sulla soglia della maggiore età, qualcosa accade nel processo di
costruzione della sua identità: la ragazza sembra spogliarsi del ruolo di
handicappata, e cerca un nuovo abbigliamento trovandolo nella ricerca
della magrezza.
Cresciuta con la nonna paterna e il padre, sembra sprovvista di
un’identificazione femminile: questa viene cercata prima in
un’insegnante anoressica, che diventa un involontario modello, poi in
una compagna di scuola anch’essa sottopeso.
“Mi sento insignificante, mi sembra di non significare niente per
nessuno. Monica, la mia compagna di scuola che è anoressica, la
guardano tutti, ha l’attenzione di tutti. Perché tutti si occupano di lei, e
non di me? Mi capita poi una cosa… c’è un’altra mia compagna che
mangia poco. Ho paura che voglia essere anoressica. Mi fa venire
rabbia. L’anoressia è mia e nessuno me la toglie!”.
Korff-Sausse (2002) osserva una linea di congiunzione fra handicap e
Anoressia nel fenomeno comune della ricerca dell’accentuazione della
bruttezza.
Non è raro, infatti, incontrare bambini disabili che esibiscono la loro
diversità, anziché rendersi invisibili, in una ricerca narcisistica quasi
insaziabile dello sguardo dell’altro. Similmente le anoressiche spesso si
vestono in modo tale da esibire di fronte a tutti il loro aspetto orribile,
cadaverico, mostruoso.
In entrambi i casi, si cerca lo sguardo dell’altro come specchio che
restituisca un’immagine di sé. Tutto sembra avvenire come se la loro
identità fosse sempre riportata a ciò che, nella loro persona, è visibile.
La loro ricerca incessante di una rassicurazione narcisistica esprime una
profonda inquietudine sull’esistenza e sulla permanenza degli oggetti
interni.
Con l’ingresso di Angela al CDAA si avvia il percorso di legittimazione
della diagnosi di Disturbo Alimentare.
Nonostante le perplessità dei curanti, per il rischio di rafforzare la
pseudo identità anoressica, si rende necessario un periodo di ricovero
per il progressivo dimagrimento, ma soprattutto per le condotte
eliminative (episodi di vomito pluriquotidiani). Il ricovero viene vissuto
da Angela come l’entrata trionfale nel mondo delle anoressiche.
Angela aderisce da subito, e apparentemente senza alcun problema, a
tutte le attività terapeutiche proposte.
È evidente il suo tentativo di farsi accettare e di essere una paziente
modello sia per il gruppo curante, ma ancor più per quello dei pazienti.
Nel corso del ricovero, con il progressivo venir meno dei suoi timori di
espulsione, lascia trasparire contenuti più autentici e vissuti di grande
tenerezza e sensibilità.
L’équipe curante è spesso colpita da come Angela, forse perché meno
prigioniera degli schemi rigidi e perfezionisti delle altre ragazze
anoressiche, sia in grado, soprattutto nei gruppi di psicoterapia, di
esprimere considerazioni lucide e puntuali sulle dinamiche del gruppo e
sull’atmosfera emotiva presente in reparto.
La remissione della sintomatologia legata al Disturbo del
Comportamento Alimentare avviene abbastanza rapidamente. Angela
viene dimessa dopo circa due mesi in condizioni di normopeso, in
buone condizioni fisiche e compensata sul piano della sintomatologia
psichiatrica.
Dopo la dimissione, Angela riprende i colloqui in consultorio,
frequentando il CDAA solo per visite di controllo e periodici accessi in
day hospital che progressivamente si riducono di frequenza.
Questo progetto sembra muovere in Angela l’idea di dover
abbandonare l’identità di anoressica e ritornare in una sorta di limbo. Il
limbo non è in fondo il luogo dei bimbi morti prima di ricevere il
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battesimo? Pontalis (1998, p. 9) dedicando a questo non-luogo un
libro, afferma: “forse mi colpiscono coloro che non hanno un’identità
ben definita, coloro che non sono ciò che sono o che credono di
essere”.
In un recente incontro con la psicologa, Angela arriva con venti minuti
di ritardo, esibendo quasi compiaciuta la borsa del supermercato in cui
aveva appena fatto la spesa.
La terapeuta fa osservare il ritardo e prova ad esplorarne le ragioni.
Angela prima si giustifica dicendo di essere andata a fare compere e poi
di essere passata in ospedale a cercare il Dottor C. (medico psichiatra
del CDAA) per avere un appuntamento, lamentandosi del fatto che al
CDAA l’avrebbero dimenticata.
L’abbandono è l’angoscia prevalente, tanto che, di fronte
all’osservazione della terapeuta di come questi passaggi l’avessero
portata a perdere quasi metà della seduta, Angela reagisce piangendo:
“adesso anche lei non mi darà più appuntamenti? Non potrò più
venire?”.
La psicologa cerca di mostrarle che nella sua ricerca di un posto in
ospedale rischia di perdere quello che ha invece di sicuro, le sedute di
psicoterapia. Angela inizia a scusarsi e aggiunge:
“Non è che io preferisco il Dottor C. a lei, per me siete importanti tutti
e due. Sono una stupida, non sono altro che una stupida!”.
Il ricorrere alla stupidità sembra un volersi ricollocare nella relazione:
“non sono stata cattiva con te, non ti ho voluto allontanare per andare
dal dottore, ritorno ad essere stupida, situazione che conosco
benissimo”.
Il lavoro psicoterapico prova a farle sentire che il deficit, l’identità della
stupida, è qualcosa di rassicurante, qualcosa che l’ha protetta, ma che la
sua ricchezza interna va esplorata, al costo di vedere anche le parti
spiacevoli.
Nel mosaico transferale che la ragazza mette in gioco sembra esserci
una competizione fra psicologa-madre, da cui staccarsi, e psichiatra-
padre da cercare di sedurre per farsi coccolare. La richiesta pressante di
ricoveri e colloqui allo psichiatra sembra andare in questa direzione.
Nel momento in cui lo psichiatra accogliendola la tiene a distanza
(anche per scoraggiare l’identificazione con il mondo fascinoso delle
anoressiche), riesce a svolgere la funzione del padre dell’adolescente
che non la mette a letto con sé.
Al contempo, i due transfert (psichiatra vs psicologa) forse riflettono
anche la scissione fra l’identità di anoressica e quella di disabile (o
stupida): s’insegue la prima e si cerca di sfuggire la seconda, ma si ha
anche paura di non trovare più niente, nessun posto in nessun luogo.
Conclusioni
L’incontro terapeutico con l’adolescente o giovane adulto porta con sé
la necessità di concepire, al di là della coppia terapeuta-paziente, altri
spazi psichici nei quali possa dispiegarsi e mettersi alla prova il mondo
interno adolescente. La complessità organizzativa e funzionale di tali
luoghi istituzionali (consultorio, ospedale, day hospital) sarà direttamente
proporzionale alla fragilità delle basi narcisistiche dell'adolescente
(Marinelli, 1995a, 1995b).
Più l’adolescente è sofferente, più è impedito nel suo processo di
soggettivazione, più la relazione duale avrà bisogno di allargarsi a più
organizzati contesti istituzionali, che dispongano di una capacità di
tessere una rete che accolga le diverse sfaccettature e le diverse
domande che il sintomo pone. È così che lo spazio psichico
istituzionale può connotarsi come “terzo”, con funzioni organizzative
e strutturanti per il paziente e per l’équipe curante (Monniello, 2007).
In questo senso ci sembra che la storia di Angela metta una volta di più
in evidenza come, affinché questa funzione di contenitore si mantenga,
sia necessario sfuggire alla trappola di etichettare troppo presto, in una
diagnosi, la domanda che il sintomo dell’adolescente porta con sé.
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È necessario permettere al sintomo di continuare a parlare, a tracciare
linee, a riallacciare nessi, a proporre immagini, a non diventare
“insensato”.
Ci piace concludere riprendendo le parole di Philippe Jeammet (1972,
p. 87):
“…in adolescenza in modo particolare ogni sintomo acquista
rapidamente un potere organizzatore sulla formazione della
personalità: conferisce un’identità, instaura un neo linguaggio, diventa
mezzo per trattare l’angoscia e per regolare piacere e dispiacere. Il
sintomo psichiatrico, man mano che dura e s’instaura, perde i suoi
legami con i conflitti che hanno presieduto alla sua nascita. Diventa
sempre più insensato nella sua espressione, indifferenziato nel suo
significato. Detto in una parola, diventa stupido”.
78
RIASSUNTO
In questo lavoro i due autori intendono sottolineare l’importanza di un
accurato percorso di diagnosi differenziale nel campo della
sintomatologia anoressica. Viene avanzata l’ipotesi che l’Anoressia
possa rappresentare un tentativo estremo di sopravvivenza psichica in
persone con grave vulnerabilità narcisistica. In particolare viene
illustrato il caso clinico di Angela, una ragazza con Deficit Cognitivo
Lieve, che sembra ricorrere al Disturbo Alimentare per strutturare
un’identità ancora troppo incerta, per dare forma alla propria
personalità. Il contesto istituzionale viene a costituire la cornice
terapeutica che può accogliere le diverse sfaccettature e le diverse
domande che il sintomo pone.
PAROLE CHIAVE
Anoressia, disabilità, vulnerabilità narcisistica, terapia istituzionale.
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SUMMARY
In this paper, the Authors intend to underline the importance of an
accurate pathway of differential diagnosis in anorexic symptomatology
field. They advance the hypothesis that Anorexia could represent an
extreme attempt of psychic survival in people afflicted by severe
narcissistic vulnerability. In particular, they are presenting here the
clinical case of Angela, a girl with a light Cognitive Deficit, who
seemed to recur to the Eating Disorder to structure her still uncertain
identity and shape her personality. Institutional context becomes the
therapeutic framework able to receive the various aspects and the
many answers that the symptom points out.
KEY WORDS
Anorexia, handicap, narcissistic vulnerability, institutional therapy.
80
BIBLIOGRAFIA
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82
83
Michele Solari
La formazione del Prof. Giovanni Carlo Zapparoli
alle Comunità “La Redancia”1
Col passare degli anni alcuni dei concetti base dell’insegnamento del
Professore, sono divenuti parte integrante della nostra pratica
comunitaria.
Con i colleghi, che hanno condiviso questa esperienza di formazione,
ci siamo spesso detti che molto di ciò che abbiamo appreso allora è
oggi nella pratica quotidiana e che molti dei nostri collaboratori giovani
non sanno a chi lo dobbiamo.
L’alleanza terapeutica, la residenza emotiva, la lettura dei bisogni,
la conoscenza dei bisogni specifici compreso il bisogno di non
avere bisogni e ancora la funzione di oggetto inanimato, il ruolo
dell’operatore meno qualificato, definiscono solo alcuni dei concetti
che costituiscono già soli un bagaglio di conoscenza e strumenti
straordinario.
Ognuna di queste idee non solo concettualizza un aspetto specifico del
paziente e dell’ambiente, nella loro interazione, ma indica nell’insieme
gli elementi costitutivi di una cultura teorica e operativa della cura.
Come soleva dire il Professore: “il paziente è il nostro migliore
maestro nonché datore di lavoro”.
Questo assunto implica la capacità di privilegiare l’ascolto della teoria
del paziente, la comprensione della sua filosofia, che ne rivela i bisogni
e che non può essere mai trascurata rispetto a qualsiasi programma di
cura si pensi per lui.

1
Psichiatra, Direttore Sanitario CT Redancia 1 (SV).
Relazione presentata al Seminario: “Il centro di psicologia clinica. Giancarlo Zapparoli e la
saggezza clinica”, Genova 8 febbraio 2013.
85
86
Questo atteggiamento, assieme clinico, profondamente umano,
rispettoso e rigorosamente etico, ha improntato in modo determinante
il nostro lavoro, fornendoci gli elementi alla base della nascita di
un’identità di gruppo grazie all’utilizzo di strumenti e tecniche
condivise.
Prendiamo ad esempio il concetto di residenza emotiva:
nell’insegnamento di Zapparoli può essere definita come “uno spazio
che può essere collocato in un luogo che lo favorisce, ma è
essenzialmente un rapporto con un oggetto animato o inanimato, a
seconda delle capacità di relazione del paziente, nel quale quest’ultimo
vive la possibilità che i suoi bisogni vengano salvaguardati”.
L’organizzazione mentale degli operatori che conoscono l’esercizio di
queste prime funzioni e strumenti di cura, definisce il perimetro di un
setting di lavoro ben preciso, dando un primo senso all’azione o alla sua
sospensione.
Allo stesso tempo si pongono le premesse per l’individuazione dei
bisogni specifici, risultato della dinamica paura-difesa: paura di fronte
al vissuto di pericolo e difesa o strategia difensiva, disadattiva,
disfunzionale o patologica per superarla.
L’importanza del riconoscimento dei bisogni specifici dell’individuo
psicotico, sapendo distinguere il superfluo dall’essenziale è quindi una
premessa fondamentale all’avvio di un trattamento efficace.
Presenterò una sintetica esemplificazione, tratta dalla supervisione di
un caso clinico che richiese tre successivi incontri.
Paola aveva richiesto il ricovero in comunità perché in famiglia si
sentiva angosciata; cercava un posto per stare più tranquilla e trovare
protezione.
Faceva risalire la sua storia di malattia all’età di ventun anni quando:
“mi sono sentita puntare qualcosa contro la schiena e in quel momento
mi hanno messo un computer dentro la testa con un’operazione di
microchirurgia”.
I sintomi si erano organizzati attorno ad un sistema delirante in cui i
potenti della terra si sarebbero accaniti contro di lei, mediante un
microcomputer, trasparente ai raggi x, collocato nel suo cervello “perché
sapevo i segreti del mondo”.
Il desiderio dei suoi persecutori sarebbe stato di piegarla totalmente
rinchiudendola in un manicomio, non creduta da nessuno e ridotta allo
stato vegetale.
Il cibo era l’unico piacere che le rimaneva e l’unica sua arma per
contrastarli.
Le frequenti crisi erano caratterizzate da vissuti corporei terrifici con
sentimenti depressivi, dispercezioni somatiche, allucinazioni uditive e
condotte bulimiche.
Ogni sollecitazione verso una maggiore autonomia produceva un ritiro
immediato. Ciò avveniva soprattutto in relazione a stimolazioni o
punizioni autoinflitte che la portavano a “vivere emozioni gradevoli”.
Il trattamento risultava assai difficoltoso per il suo bisogno di essere
lasciata in pace, senza stimoli e senza dover corrispondere alle attese di
miglioramento da parte degli operatori.
Lo stallo nel quale ci trovavamo indusse a sottoporre il caso al
Professor Zapparoli.
Egli fece subito notare che si manifestava una condizione abbastanza
particolare e che il rifiuto della paziente di entrare in relazione era da
attribuirsi al bisogno di rimanere in uno stato di costanza di dolore.
Di conseguenza ogni fonte di piacere le ingenerava colpa e tormenti,
per punirsi ed espiare.
La gestione di questo caso metteva la comunità in una situazione
paradossale perché il nostro mandato di fare tutto il possibile per
riabilitare la paziente e darle sollievo, si scontrava col suo bisogno di
mantenere, appunto, una costanza di dolore.
Scrive in merito Zapparoli: «una delle più importanti dinamiche che ho
potuto osservare attraverso il trattamento dei pazienti psicotici riguarda
una paradossale inversione del sistema motivazionale che caratterizza
l’essere umano, che ricerca il piacere e fugge il dolore: la possibilità cioè
che la ricerca della costanza di oggetto possa in certi casi comprendere
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un oggetto particolare, il dolore…
…La cessazione del piacere suscita angosce di abbandono, mentre la
cessazione del dolore non le suscita: questo è il motivo per cui di
fronte all’angoscia di abbandono, che il piacere evoca in quanto la fine
del piacere non è sotto il controllo assoluto dell’individuo, coloro che
sono fortemente vulnerabili rispetto ad angosce di abbandono,
ricercano il dolore e sfuggono il piacere...
...Lo psicotico tradisce colui che lo cura quando non sente capito il suo
bisogno di costanza del dolore: rifiuta cioè le cure finalizzate al
benessere ed al piacere. Si spiegano così le reazioni paradossali dei
pazienti che interrompono le terapie che hanno raggiunto questo
scopo».
Comprendemmo che Paola esprimeva un bisogno specifico che
Zapparoli definì algofilia, il cui mancato riconoscimento impediva il
costituirsi dell’alleanza terapeutica e l’avvio del trattamento, inteso
come possibilità di favorire un graduale accesso cognitivo della
paziente alle ragioni della sua sofferenza, senza che incorresse in stati
di profonda angoscia, sentendo minacciato il suo peculiare sistema di
sicurezza.
Il lavoro con Paola prese quindi un differente indirizzo.
Apparve chiaro che i nostri tentativi di farla stare bene: le uscite con
l’educatore, il controllo alimentare, i permessi a casa, l’incontro con i
parenti in struttura, il prodigarsi dell’équipe per darle sollievo, si erano
rivelati strumenti inefficaci. Dovevamo, al contrario, organizzare
qualcosa che le evitasse il divertimento.
Occorreva passare ad un atteggiamento inanimato perché potesse
sviluppare la credenza, ossia la fiducia di essere capita senza che il suo
sistema di difesa fosse misconosciuto e minacciato.
Le trascrizioni dei colloqui con la psicoterapeuta incaricata del caso
mostrano che, in seguito alle modificazioni strategiche che operammo,
la paziente iniziò l’elaborazione cognitiva dei suoi bisogni, con una
notevole attenuazione della sintomatologia, il diradarsi delle crisi e la
loro cessazione.
È quindi la comprensione del paziente e dei suoi diritti adattativi,
compreso il diritto di delirare, a tracciare la rotta del trattamento.
Una delle eredità più note di Zapparoli è legata al modello della
integrazione funzionale e al metodo che ne discende.
Anzitutto il modello integrativo presuppone una disposizione mentale,
una cultura clinica e operativa specifica.
Si tratta quindi e primariamente di assumere e perseguire un
atteggiamento integrativo. L’immagine che s’impone è quella di un
movimento concentrico, che si sviluppa attorno e col paziente stesso,
compiendo un primo sforzo integrativo tra le sue e le nostre risorse.
La prima cerchia è costituita, quindi, dagli operatori che se ne
prendono cura. I professionisti in gioco hanno però funzioni e
formazioni differenti, talvolta contrastanti o perlomeno diffidenti le
une delle altre.
Zapparoli ha ben descritto le conseguenze che possono derivare da
conflitti di potere sterili tra culture contrapposte e non comunicanti.
Anche a questo livello si rende evidente la necessità di un lavoro
d’integrazione.
Il presupposto per il superamento di questa situazione anti-terapeutica
è stato da Lui identificato col passaggio dal potere assoluto a quello
relativo. La difesa, una vera e propria resistenza, della personale
cultura formativa e professionale produce, infatti, una rivalità
all’interno del gruppo di lavoro, con la tendenza a difendere ognuno le
proprie posizioni, sino al determinarsi dell’autoinganno con la
propensione, più o meno inconsapevole, a privilegiare le informazioni
che confermano le proprie conoscenze e contraddicono quelle dei
collaboratori.
A questo livello l’integrazione presuppone quindi la capacità di dialogo
fra professionalità, che non debbono essere in rapporto gerarchico fra
loro, ma piuttosto in ascolto le une delle altre. Bisogna quindi favorire
una democrazia interna al gruppo di lavoro che, analogamente a
quanto facciamo col paziente, privilegi l’ascolto e il rispetto delle
funzioni e dei bisogni di ognuno. Questo atteggiamento non solo libera
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le energie di tutti, valorizzandone le competenze, ma è anche un
presupposto fondamentale per la ricerca di soluzioni creative.
Per proseguire nell’immagine, attorno al paziente e all’istituzione, in
un’altra cerchia, si collocano i familiari e gli affetti a lui legati. Anche a
questo livello possiamo trovarci in conflitto con altri progetti di cura
che non possiamo trascurare, per quanto inadeguati, per il potere che
possono esercitare sul paziente stesso, confermandone le resistenze.
Siamo di nuovo chiamati ad uno sforzo integrativo, piuttosto che di
contrapposizione. Difficilmente riusciremo a portare avanti un
percorso terapeutico senza aver costruito un’alleanza sufficiente con i
congiunti del paziente, per quanto disfunzionali possano essere.
Così come sarà più difficile comprendere i suoi bisogni specifici
ignorando, più o meno volutamente, i bisogni insorti all’interno delle
sue relazioni primarie e secondarie.
Attorno ed assieme a tutto ciò dobbiamo anche perseguire una buona
integrazione con i curanti esterni alla struttura e con le figure
professionali a vario titolo coinvolte.
Infine, in un cammino di cura che presupponga il recupero di una
condizione di sufficiente benessere, di guarigione sociale, se non
clinica, dovremo anche preoccuparci, in una prospettiva di
reinserimento, di lavorare sull’integrazione tra le esigenze proprie del
nostro paziente e quelle dell’ambiente che lo accoglierà.
I terapeuti debbono perciò saper svolgere un ruolo d’intermediazione
tra le diverse forze in gioco delle quali è necessario fare una sorta di
mappa dei poteri. Come scrive Zapparoli: «una delle questioni più
difficili da affrontare e che crea maggiori ostacoli nel trattamento degli
stati psicotici, è la questione legata all’esistenza di gruppi di potere in
conflitto tra loro; si rende necessario, infatti, delineare fin dall’inizio,
quella che può essere definita la mappa dei poteri per poter cercare, nei
limiti del possibile, di arrivare ad una riduzione della conflittualità.
Quando questo non avviene, infatti, si crea una situazione di forze
opposte che si combattono e che distruggono ogni possibilità di
operare costruttivamente verso un obiettivo terapeutico».
Quanto detto ci riporta ad una specifica funzione terapeutica che il
professor Zapparoli ha diffusamente descritto: la funzione
intermediaria dell’operatore. Il concetto di oggetto intermediario,
deriva dalla ricerca sugli spazi transizionali e porta con sé l’idea di uno
spazio mentale e relazionale intermedio, che permette lo sviluppo
psichico ed in particolare il passaggio da una fase ad un’altra,
considerando l’esigenza di una gradualità fondamentale nelle
trasformazioni relative allo sviluppo psichico stesso e al processo
terapeutico.
Zapparoli ci porta quindi a considerare la funzione dell’operatore quale
intermediario tra patologia e normalità, tra follia e realtà, tra i diversi
sistemi illusionali del paziente che fanno parte del fondamentale
bisogno di non avere bisogni. Egli propone una tecnica che si basa
sulla possibilità di porsi come intermediario tra i due poli opposti del
dilemma che caratterizza il bisogno del paziente. Non solo essa
rinuncia a voler modificare, con qualsiasi mezzo, le convinzioni
onnipotenti del paziente, ma lo aiuta nella ricerca di quelle situazioni
illusionali che gli mantengano la sicurezza di poter non avere bisogni,
ma anzi di essere lui ad avere la padronanza dei bisogni stessi,
negandoli.
Il paziente, grazie all’esercizio di questa funzione d’intermediazione,
può acquisire la sicurezza di avere una residenza emotiva dove sono
riconosciuti sia il diritto di delirare, che la possibilità di parlarne.
Questa funzione permette al terapeuta di passare gradualmente da una
posizione senza potere ad una con potere grazie alla possibilità di
comprendere la filosofia di vita dello psicotico, considerando
principalmente il folle un individuo che sta vivendo un’esperienza
umana.
Possiamo quindi descrivere l’intermediario come una persona che
riesce ad accedere e poi a comprendere la vita segreta dello psicotico,
ad entrare nella relazione senza “farsi risucchiare”, cercando di stabilire
una giusta distanza sia per i bisogni del paziente, che per la propria
sicurezza emotiva. È proprio questa distanza che permette di svolgere
91
92
la funzione d’intermediario tra la realtà dei bisogni e la necessità di
costruire un mondo illusionale senza bisogni, tra la nostra realtà e
la loro realtà, cercando di farle coesistere ma mantenendo dentro di noi
i confini necessari per non perderci. L’intermediario si propone quale
«oggetto transizionale che lo psicotico è in grado di costruire e
utilizzare per la rottura, o la riduzione, della fusione simbiotica».
Così l’intermediario è il traditore dell’onnipotenza psicotica, ma anche
colui che fornisce la credenza che fornisce al paziente un senso di
fiducia e di sicurezza sufficiente a permettergli di comunicare e di
elaborare le sue angosce e ad attrezzarsi per la sopravvivenza. La
comunità terapeutica si connota così, come spazio transizionale, area
racchiusa tra il segreto, il tradimento del segreto e la credenza dove, per
tappe successive, si costruisce l’alleanza terapeutica, indispensabile
all’emergere ed alla comprensione dei bisogni. Diventa quindi possibile
la guarigione sociale, togliendo lo schizofrenico dall’isolamento e
dalla solitudine del non essere capito.
In questo percorso si affianca il programma riabilitativo che non
dev’essere in contrasto, ovviamente per quanto possibile, con la lettura
e il soddisfacimento dei bisogni.
Se la residenza emotiva è spazio, accoglimento, contenitore, gli spazi
intermediari sono il movimento, il percorso, il ponte che può portare al
cambiamento e l’intermediario colui che lo può permettere.
Vorrei aggiungere qualcosa in merito al concetto di area illusionale e
alle tecniche relative. Zapparoli stesso scrive quanto questo concetto
evochi facilmente l’ostilità dei familiari e degli operatori stessi, ma può
essere la miglior strada da percorrere con pazienti gravi, per i quali la
guarigione non può essere completa. Si tratta di una modalità di cura
che non solo rinuncia a voler modificare le convinzioni onnipotenti del
paziente, ma lo aiuta nella ricerca di quelle situazioni illusionali che
preservano la sicurezza di cui ha bisogno. Sperimentando uno spazio
sicuro, dove vivere questo ambito illusionale, può accettare
maggiormente un contatto con la realtà e con gli altri, che diventa
affrontabile e gestibile.
Questi concetti potrebbero risultare abbastanza familiari poiché ciò che
il Professor Zapparoli ha insegnato è divenuto un patrimonio comune
dato quasi per scontato.
È giusto invece ricordare chi ha gettato il seme di una pianta, che nel
frattempo è molto cresciuta, sapendo, come dicevano gli antichi, che i
nani, solo se si siedono sulle spalle dei giganti possono guardare più
lontano.
In ricordo del Professore
Ricordo molto bene il funerale del Professor Zapparoli.
Era agosto, a Bergamo, e la gente arrivava alla spicciolata attraverso il
grande giardino della sua casa. Mano a mano che mi avvicinavo alla
villa sentivo le note cupe di un’orchestrina di soli fiati che suonava,
all’ombra di un porticato, a fianco alla piccola e spoglia cappella di
famiglia. Quel giorno tutto sembrava coperto da una foglia sottile
d’argento ed era di una bellezza dolorosamente malinconica.
Non mi era capitato spesso di vedere tante persone disperse assieme in
completo silenzio, come se fossero sbalordite e sole per aver perso
qualcuno che non potrà essere sostituito. Sarà stata la musica, troppo
bella per essere coperta anche soltanto da un lieve brusio, il profilo
cupo della grande casa che incuteva soggezione, immersa dentro una
macchia ombrosa di alberi secolari, ma tutti si comportavano come chi
non voglia turbare il sonno di una persona cara.
Durante la funzione, nella piccola cappella, una nipote ha preso la
parola leggendo una lettera che gli inviava idealmente. La ragazza
parlava al nonno come se fosse lì e raccontava di un’intimità fra loro,
così gioiosa e scanzonata che mi pareva di vederli a farsi i dispetti e poi,
all’improvviso, diventare seri a parlare dell’uomo e delle sue complesse
e misteriose meraviglie.
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Così, nel giorno della sua partenza, ho fatto il mio ultimo viaggio per
andare a trovarlo. L’amico Giovanni Folco mi ha fatto acutamente
notare quanto la metafora del viaggio sia calzante per descrivere la
nostra storia con Zapparoli. Ma non si tratta solo di una metafora
perché per poter navigare, anche solo due ore, nel mare della sua
umanissima conoscenza, dovevamo davvero viaggiare.
Tutto è iniziato molti anni fa con l’intuizione del Professor Giusto di
chiedergli di prenderci in supervisione. A quel tempo, che io ricordi,
c’erano solo le prime “Redancie”. Lavoravamo molto, con grandissimo
entusiasmo ma con poca esperienza. Ogni giorno ci misuravamo col
compito, che spesso appariva impossibile, di comprendere e curare la
follia. I nostri pazienti, perlopiù psicotici, ci ponevano sfide
affascinanti e misteriose. La buona volontà, la tolleranza,
l’atteggiamento sinceramente democratico, lo spirito di sacrificio, che
pure sono ingredienti fondamentali del nostro operare, non potevano
essere sufficienti. Dovevamo capire di più e iniziare a costruire un
metodo, a partire da una maggiore conoscenza dei nostri pazienti, ma
anche di come lavorare assieme per loro.
Ci si accordò per iniziare le supervisioni a Milano. Ogni due settimane
partivamo in macchina, nel tardo pomeriggio, per raggiungere il suo
studio. Si lasciavano le comunità in fretta e furia, sempre un po’ in
ritardo e in apprensione per qualche guaio lasciato in sospeso, con
l’incognita del tempo e del traffico. L’emozione era forte già molto
prima di partire. Poi, una volta in auto, iniziava l’avventura. Nel tragitto
eravamo sempre stipati e si parlava del caso, del materiale che avevamo
inviato, talvolta piuttosto scadente e delle figuracce che temevamo di
fare.
Si stava costituendo “l’anima” di un gruppo di lavoro che, anche grazie
a quell’esperienza, emozionante e amicale, è cresciuto senza troppo
disperdersi.
Trafelati, si arrivava nello studio del Professor Zapparoli.
I casi dovevano essere presentati con qualche giorno di anticipo,
mediante una relazione descrittiva, che avrebbe voluto fosse il più
accurata possibile. Con la Dottoressa Pinciara, sua collaboratrice e
recorder, leggevano attentamente il materiale inviato, in modo da
risparmiare tempo e avere, al nostro arrivo, già in mente le domande
d’approfondimento. Tutta la seduta veniva poi sbobinata e ci veniva
spedita perché potessimo rileggerla e rifletterci.
Come ha scritto Rodolfo Reichmann (2007): «Zapparoli privilegiava
l’approccio fenomenologico e quindi intraprendeva un viaggio volto ad
esplorare le varie espressioni delle Psicosi, a partire dal delirio, per
passare alle perversioni, alla paura, alla noia al tema della morte e di
come affrontarla, in un percorso in cui diventavamo di volta in volta i
suoi compagni di avventura e il suo pubblico».
Usava dire spesso che i pazienti sono i nostri migliori maestri, oltre che
i nostri datori di lavoro. Questo concetto implicava: in primo luogo il
richiamo ad un profondo rispetto per l’ammalato, lui solo vero titolare
dei propri bisogni o del “bisogno di non avere bisogni”, dei propri
progetti e diritti; in secondo luogo, un’osservazione attenta rispetto al
riconoscimento delle modalità specifiche d’espressione proprie della
Psicosi.
Finita la supervisione si tornava a casa. Si ricreava quel clima d’amicizia
e comunanza dell’andata con qualcosa di più: una nuova scoperta, un
sollievo, un’idea che riorganizzava i nostri disordinati pensieri. Talvolta
una gratificazione, talvolta una mortificazione.
Zapparoli era, scrive Foresti, «una persona molto riservata e totalmente
aliena dai sentimentalismi».
Ma le cose sono per ognuno diverse a seconda di come gli appaiono.
Nella mia percezione era un Uomo Grande e Segreto nel corpo e nella
mente. C’era per me qualcosa di misterioso in lui. Era contadino e
signore e non avrei saputo dire quali fossero le sue origini. I suoi modi
erano bruschi e spicci ed al tempo stesso gentili e delicati. Era umorale
e talvolta sprezzante, specie nei giudizi su alcuni autori e sulle loro
teorie e insieme umilmente curioso e attento ad ogni segno che possa
svelare un significato. Passando dal dialetto bergamasco ad una lingua
precisa e tecnica era sempre perfettamente chiaro e comprensibile,
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riuscendo a dare a ciò che diceva una coloritura emotiva divertita e
cangiante. Forse anche per questo era difficile dimenticare le sue geniali
e fulminanti osservazioni. Sembrava che qualsiasi cosa gli si
raccontasse lui già la conoscesse. Ma soprattutto sentivo che amava i
folli, che per lui erano infinitamente più interessanti degli altri. Lo
affascinava “l’intelligenza” che i nostri pazienti debbono adoperare per
potersi difendere e sopravvivere. La curiosità per il paziente, amorevole
e al tempo stessa distaccata, era uno dei suoi grandi talenti.
Ripensandoci, in trasparenza dietro a certe sue intuizioni teoriche, si
potevano scorgere alcuni tratti suo carattere. Forse anche questo
contribuiva a dare verità al suo pensiero e alle sue parole.
Zapparoli è morto in pochi minuti, a ottantacinque anni, al largo di
Camogli, dove aveva quello che lui chiamava “un Quartierino”, mentre
faceva il bagno durante una gita in motoscafo.
Mi sembra abbia scelto un bel giorno e un bel modo per morire.
Concludo con una frase, tratta dal suo bellissimo libro Vivere e Morire
che, come è stato giustamente osservato, “può essere considerata
l’emblema simbolo del suo pensiero sulla morte”:
«La prospettiva della vita come un dono
e della morte come di un evento naturale
aiuta a contrastare la disperazione e il
senso d’impotenza di fronte all’ignoto».
Caro Lettore,
lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra
i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria.
A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei
loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad
un arricchimento dei temi trattati.
La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo
di referee esterni al Comitato Editoriale.
Note per gli Autori
1.
Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare
che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di
Pandora”.
2.
Preferibilmente, l’elaborato proposto dovrà essere inviato tramite mail come file di WORD allegato
agli indirizzi di posta elettronica: [email protected] e [email protected]
Qualora ciò non fosse possibile, l’Autore potrà inviare il file WORD, salvato su CD, al seguente recapito:
Segreteria de “Il Vaso di Pandora”, Via Montegrappa 43 – 17019 Varazze (SV), all’attenzione della
Dott.ssa Federica Olivieri
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3.
Ogni testo dovrà essere accompagnato da:
 Nome e Cognome per esteso degli Autori;
 una breve nota biografica relativa ad ognuno (la Segreteria si fa carico di omettere questi dati dalle
copie che invia ai referee per la valutazione);
 almeno un indirizzo postale a cui i lettori possano inviare eventuali loro comunicazioni agli autori, un
indirizzo di posta elettronica e un numero di telefono per eventuali comunicazioni della Segreteria;
 titolo in italiano ed inglese;
 alcune parole chiave in Italiano ed Inglese;
 un breve riassunto in Italiano ed Inglese;
4.
Qualora l’elaborato si sia ispirato ad una relazione presentata ad un Convegno (è questo il caso
degli “estratti”), dovrà comunque essere accompagnato da un breve riassunto, sia in Italiano che in
Inglese e dalle parole chiave.
5.
Le note dovranno essere ridotte al minimo e numerate progressivamente.
6.
Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie (anche le virgolette
usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I corsivi originali dovranno essere
sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi aggiunti dovranno essere indicati tra parentesi con:
(corsivo aggiunto), oppure (sottolineatura mia). Ogni aggiunta dell’Autore dell’articolo dovrà essere
posta in parentesi quadra; per esempio. “egli [S. Freud] intendeva”. Le omissioni nel testo verranno
segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in lingua diversa dall’italiano saranno senza virgolette,
ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite, nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota.
7.
I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome
dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma
(Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se
gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due:
(Racamier et al. 1981, p.184).
8.
I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in
riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà
corrispondere una voce nella bibliografia finale.
9.
La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere
unicamente gli Autori citati nello scritto.
La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello:
- Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford.
Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato,
editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della
traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in
originale. La data della traduzione va in fondo. Es.:
- Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983.
Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome
dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere:
- Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19.
- Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19.
Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et
al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore
singolo.
La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello:
- Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni
sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977.
Oppure, quando l’Autore è lo stesso:
- Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions
to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952
La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello:
- Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168.
10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e
numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere
numerate in cifre romane. Sia le tavole, sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere
accompagnate da una legenda esplicativa.
La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni,
qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni
qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione.
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Comunità Terapeutica Psichiatrica Redwest
Via S. Antonio 25 – 18038 Verezzo (IM)
Tel. 0184.559508 – Fax. 0184.559949
email: [email protected]
Direttore Sanitario:
Dott. Piero Gianotti
Coordinatore:
Dott.ssa Marcella Devale
Coordinatore:
Dott.ssa Paola Buonsanti
Consulente:
Dott. Dario Nicora
Supervisore Clinico:
Prof.ssa Roberta Antonello
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Red West (Redancia dell'ovest) è collocata nel piccolo borgo di Verezzo
sulle alture di Sanremo, un tempo adibita a convento e orfanotrofio, ad
oggi si presenta come una grande casa bianca circondata da un cortile
ed affacciata su una piccola cappella.
La struttura si propone di offrire i diversi setting d’intervento per adulti
(trattamento residenziale: 25 posti letto di cui 5 riservati ai DCA).
Patologie quali Disturbi dell’Umore, Disturbi di Personalità, Disturbi
Psicotici Subacuti, possono accedere a programmi di trattamento
residenziali di medio-breve durata finalizzati ad un più accurato
inquadramento diagnostico, ad una valutazione prognostica e
all’individuazione di programmi terapeutico-riabilitativi da svolgere in
un contesto di trattamento integrato che prevede il coinvolgimento
della altre agenzie interessate alla cura del paziente (SPDC, CSM,
Strutture Intermedie, Medici di base, curanti privati, ecc.).
Oltre a questi interventi la struttura prevede la gestione di un Centro
Diurno (10 posti) rivolto ad un’utenza caratterizzata prevalentemente
da Disturbi del Comportamento Alimentare.
È possibile accedere alla comunità in seguito a segnalazione da parte
del Servizio Sanitario, del Medico curante, autosegnalazione,
segnalazione da parte dei familiari.
La valutazione viene condotta attraverso una o più visite presso la
struttura.
Il programma terapeutico individuale viene concordato con l’inviate e
condiviso con il paziente.
Il Centro Diurno (Modulo 1) segue un programma terapeutico
individualizzato che prevede un’iniziale visita di valutazione clinica,
visita medica e visita psicodiagnostica e successivamente la
formulazione di una proposta d’interventi individuali e di gruppo che
possono comprendere: psicoterapia individuale e di gruppo, attività
terapeutiche e riabilitative.
La comunità terapeutica residenziale per DCA (Modulo 2) e la
comunità terapeutica per i Disturbi dell’Umore, dell’Affettività e di
Personalità (Modulo 3) organizzano per i pazienti un programma
similare che prevede la partecipazione dell’ospite alla quotidianità della
struttura (cura degli spazi propri e comuni). Il programma prevede
attività di risocializzazione e recupero delle funzioni sociali,
affiancamento nella realizzazione di percorsi individuali, di crescita
volti all’autonomizzazione e recupero di risorse relazionali e/o
lavorative, partecipazione alle attività terapeutico e riabilitative previste
all’interno del modulo funzionale del Centro Diurno.
L’équipe è composta da diverse figure professionali; tutti gli operatori
partecipano ad una riunione d’équipe settimanale e alla supervisione.
L’équipe utilizza il Redancia System: un modello psicodinamico che
viene integrato a seconda delle esigenze interne con modelli di tipo
cognitivo-comportamentale e sistemico-familiare. Il programma
terapeutico del paziente è registrato in una cartella clinica
computerizzata che permette di avere una fotografia dettagliata durante
il percorso comunitario.
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Comunità Terapeutica Psichiatrica Redwest