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ROSANE MANHÃES PRADO
UN VIAGGIO A DOPPIO SENSO
Mettere su un piano di correlazione l’antropologia e il viaggio –
quest’ultimo nelle sue molteplici, diverse, accezioni – è orientamento
condiviso da tutti coloro che operano come antropologi, a causa di un
tema strutturante e determinante dell’antropologia che si propone come
un viaggio verso “l’altro”, che spesso, ma non necessariamente, implica
anche un viaggio riconducibile a uno spostamento spaziale. Questo tipo
di approccio riguarda anche il riconoscimento dell’antropologia sorta nel
XIX secolo, attraverso le ricerche e i viaggi realizzati dai “primi antropologi” che trovarono identità sotto l’egida del colonialismo e della ricerca
del diverso, dell’esogeno in ogni caso, la linea di fondo di questo “viaggio
antropologico” è la distanza rispetto all’altro che studiamo e che, in alcuni casi è in molte forme già “lontano” rispetto a noi; in altri casi, se appartiene al nostro stesso universo, è realtà che dobbiamo “allontanare”,
per renderlo estraneo a noi, così da poterlo modificare e tentare di comprendere, come affermato dagli antropologi brasiliani Roberto Da Matta
(1978) e Gilberto Velho (1981).
Riguardo a questa distanza/viaggio, è importante riconoscere che cosa esso preveda, o quali effetti produca attraverso il rapporto fra ricercatore (in base alla sua origine, identità, posizione sociale) e il contesto studiato, come ho potuto osservare personalmente in due esperienze di ricerca, rispettivamente in una piccola città brasiliana e in una cittadina
americana. In ciascuna di queste situazioni sono giunta a rivelazioni e
scoperte che in gran parte sono derivate dalla considerazione della mia
identità e provenienza: ovvero, chi ero e da dove venivo (Prado, 1995).
Sebbene l’antropologia sia decisamente focalizzata sul tema dell’alterità – per la comprensione dell’altro, “della prospettiva originaria” –, a
scala globale, questo esercizio dell’antropologia, così come di molte altre
scienze nate in Occidente e ad essa riferite, sta diventando molto più di
una prospettiva tipica dei Paesi “del centro del mondo” – questo insieme
territoriale che chiamiamo Occidente – nei confronti di quelli “della periferia”, ovvero l’insieme di Paesi esterni al mondo occidentale. Considero
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questo orientamento di pensiero come un punto di vista strettamente
correlato a ciò che il collega indiano Rajeev Bhargava (2013) chiama “ingiustizia epistemica del colonialismo”. Egli non si riferisce specificamente al campo epistemologico, ma a qualcosa di più ampio, quando afferma:
[...] à injustiça econômica e política que a colonização implica, juntase uma injustiça cultural, da qual a injustiça epistêmica é uma das
formas: ela ocorre quando os conceitos e as categorias graças aos
quais um povo se compreende a si próprio e ao seu universo são
substituídos ou afetados pelos conceitos e categorias dos
colonizadores (Bhargava, 2013, p. 44).
Naturalmente gli antropologi “del Centro” non entrano facilmente in
una dimensione idonea a definire e imporre concetti ai nativi delle diverse aree periferiche che studiano, – come, invece, manager, imprenditori e
intellettuali di altra formazione avrebbero fatto nell’ambito di un processo di colonizzazione. Ma il modo in cui il loro operare nei confronti degli
“altri” dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina è riconosciuto nel
mondo accademico/scientifico – come uno sguardo che valuta, classifica, qualifica (e può addirittura stigmatizzare) popoli e gruppi umani diversi, mette questo problema su un piano di affinità nei riguardi del tema
dell’ingiustizia epistemica suggerito da Bhargava. In questo senso, va ricordato il caso della mia ricerca sulla small town americana.
Durante il periodo in cui ho frequentato le lezioni presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università del Michigan, tra il 1990 e il 1991,
i colleghi americani erano affascinati dal mio progetto relativo allo studio
di una small town. Erano impressionati dalla prospettiva di essere “essi
stessi” l’oggetto studiato, loro che sono abituati a studiare “gli altri” in
tutto il mondo, anche perché era molto recente l’attenzione
dell’antropologia americana nei confronti della propria società. «It is funny
to have you look at us», diceva la gente della cittadina di Dundee, quella che
ho studiato, sorpresa nel trovarsi in una posizione di “oggetto” di uno
sguardo doppiamente straniero, cioè di una «Brazilian anthropologist». Ma i
colleghi antropologi non trovavano questa situazione “divertente” né
“strana”, come gli abitanti di Dundee; la ritenevano “interessante” e
“importante”. Per loro, era come se il mio lavoro li riscattasse da questa
sorta di posizione di egemonia del proprio sguardo nei confronti degli
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altri, e uno di loro addirittura mi disse, con la volontà di scherzare, con
aria complice: «Ecco, e scriva tutto in portoghese, e non lo traduca mai
in inglese, e non lo pubblichi mai qui». Era come se mi avesse chiesto di
fare una sorta di “vendetta”, mediante questa inversione di modelli di
comportamento.
A quel tempo si era già diffusa l’attenzione nei confronti del tema
dell’asimmetria della produzione di conoscenza da parte dei “Paesi centrali” nei confronti di quelli “periferici”. Era la fine del 1980, quando i
post-moderni americani avevano già iniziato una forte critica del modo
tradizionale di fare etnografia, e in questa critica si concentravano proprio sulla modalità gerarchica dei rapporti tra i ricercatori del mondo egemone e gli “altri” che venivano studiati, associati ai nativi del resto del
mondo (Clifford, 1998).
Bisogna riconoscere, inoltre, che si tratta di una gerarchia che viene
riprodotta nell’ambito di questi “altri Paesi” quando noi ricercatori abbiamo come oggetto di osservazione i territori interni al Paese medesimo, come accade nell’antropologia in Brasile, da sempre focalizzata sulla
realtà brasiliana stessa (Peirano, 2000).
Credo che la reazione dei miei colleghi americani di fronte alla mia ricerca sulla small town dia il segno di un cambiamento in relazione a queste
posizioni asimmetriche. Non che esse abbiano cessato di esistere – si veda, ad esempio, la “necessità” che i “periferici” hanno di collegarsi e riferirsi ai “centrali”, per i quali non si pone, invece, un comportamento in
direzione inversa –. Ma il cambiamento c’è nel senso che, con la globalizzazione, da una parte questi approcci in termini di riconoscimento e di
attenzione, come hanno dimostrato i miei colleghi americani, sono diventati inevitabili e non c’è modo di ignorarli; dall’ altra i “periferici” e gli
ex colonizzati studiano sempre più spesso non solo i processi e i soggetti
centrali, ma anche se stessi.
D’altronde, ancora per quanto riguarda la gerarchia, sia a livello internazionale sia ai livelli interni ai diversi Paesi, essa si relativizza quando
cerchiamo di definire condizioni di parità fra lo sguardo e le metodologie
conoscitive degli intervistati e lo sguardo e le metodologie conoscitive
dei ricercatori. In questo riconoscimento si evidenziano varie prospettive
nel contesto della produzione antropologica, tutte nella direzione di un
dialogo fra visioni e conoscenze: da quella, critica, dei post-moderni intorno all’ “agire” etnografico (Clifford, 1998), ad altre proposte che van51
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no in direzione simile, come, ad esempio, quella della “antropologia condivisa”, definita da Jean Marc Piault (Piault, 2000) e l’idea di “interscience”, proposta da Paul Little (2002). In questo senso, sottolineo il punto
di vista della “cartografia sociale” o “mappatura sociale”, un approccio
che si basa sulla fusione di conoscenze locali e nuove tecnologie informative geografiche (SIGs, Geographical Information Systems, e GPS, Global
Positioning System):
Em sua positividade, a atuação de populações locais nos
processos de mapeamento tem estimulado afirmações
identitárias, traduzidas na ideia de empoderamento, e parece
promover um suporte para a elaboração de uma narrativa
sobre o espaço, o território, a paisagem – narrativas estas
ancoradas nos referenciais compartilhados pelos sujeitos
envolvidos nas oficinas e nos processos de consecução das
novas cartografias. Neste sentido, não se trata apenas de se
inserir no mapa ou de ser inserido no mapa, mas de se
inscrever no mundo (Daou, 2009).
Come si può osservare, sembra che in tutto quanto abbiamo detto
emerga il significato del viaggio antropologico verso l’ “altro”, sia a livello internazionale, sia a livello locale, in terre lontane, oppure vicine ai
viaggiatori antropologi. Il marchio distintivo dell’antropologia, legato alla
ricerca di un’alterità associata a ciò che è culturalmente “diverso”, si va
sempre più definendo come il tratto esperienziale di un dialogo fra alterità nell’acquisire e nell’affermare il significato e il valore di un viaggio “a
doppio senso”, che credo meriti di essere raccontato e “celebrato”.
BIBLIOGRAFIA
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colonialisme. Socio 01, mars 2013.
CLIFFORD, James. A experiência etnográfica. Em GONÇALVES, José Reginaldo (org.). Rio de Janeiro: EDUFRJ, 1998.
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para uma antropologia da sociedade contemporânea. Rio de Janeiro: Jorge
Zahar, 1981.
A trip on a two way street. – The correlation between anthropology and
traveling is admitted by all anthropologists due to a structural and defining aspect of anthropology: that it is a trip towards “the other” related to
transposing the distance between researcher and researched. However,
in worldwide scale, the exercise of anthropology – just like that of other
“scientific disciplines” born in the West – is done much more from the
perspective of the “center” countries (the Western world) than from the
perspective of the “periphery” ones (non-Western). The article points
out examples of such tendency as well as examples of an opposite tendency, which is represented by different movements towards an equal
perspective between “center and periphery” as well as between researchers and researched – thereby suggesting a trip on a two way street between them.
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Keywords. – travel, anthropology, comparison, otherness
Universidade do Estado do Rio de Janeiro - UERJ, Departamento de Ciências
Sociais
[email protected]
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