1 ripercussioni teorico-cliniche dell`infant research: dalla madre

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1 ripercussioni teorico-cliniche dell`infant research: dalla madre
RIPERCUSSIONI TEORICO-CLINICHE DELL'INFANT RESEARCH:
DALLA MADRE SUFFICIENTEMENTE BUONA
ALLA MADRE REALISTICAMENTE FALLACE*
Andrea Seganti, Pier Christian Verde, Riccardo Caporale,
Nicoletta Faccenda, Alessandro Grignolio
Articolo presentato al convegno online 1-­‐31 ottobre 2011 Evento convegno online di psicopatologia forense dell'età evolutiva: “Al di là del... PTSD: il trauma e le sue categorizzazioni tra psicoanalisi, psicopatologia e psichiatria forense” In questo articolo intendiamo sviluppare l'idea che le più diffuse concezioni dello sviluppo che
oggi sostengono l’esercizio della psicoterapia siano portatrici di una visione contraddittoria
dell’esperienza infantile tanto da rendere necessaria e auspicabile una riformulazione teorica più
accorta dei punti di forza e di debolezza dei neonati e dei bambini alla luce delle nuove acquisizioni
provenienti dall’infant research. Dal nostro punto di vista, infatti, la stragrande maggioranza delle
attuali teorie dello sviluppo poggiano ancora, in modo non trascurabile anche se non sempre
esplicito, sulla concezione di un neonato fortemente dipendente – non solo, com’è ovvio, per la sua
carenza dal punto di vista linguistico e locomotorio – ma anche dal punto di vista del suo
funzionamento mentale. Dall'altro lato, nel tentativo di riparare a questa visione asimmetrica dello
sviluppo e di riconoscere ai neonati (e ai pazienti) quelle competenze che sono state messe in luce
sia dal lavoro clinico che dalla ricerca sull'interazione madre bambino, alcune teorie psicodinamiche
hanno finito per attribuirgli intenzioni adultomorfe. Cercheremo pertanto di dimostrare che la
convivenza di queste visioni contraddittorie dello sviluppo infantile si ripercuote inevitabilmente
nel lavoro clinico, lasciando aperta la possibilità di interpretazioni troppo progressive e/o troppo
regressive del significato inconscio dei comportamenti dei pazienti. Questa nostra posizione non è
del tutto originale, basti pensare al saggio di Peterfreund (1978) sulla persistenza di teorie
patomorfiche dello sviluppo nella teoria psicoanalitica e sulla loro incongruenza con i dati
provenienti dall’osservazione. Simile alla nostra è anche la ben nota posizione di Stern (1985),
critico rispetto alla teoria della fase autistica e simbiotica che precederebbe il processo di
separazione e individuazione nella teoria della Mahler.
Tuttavia, l’idea che i risultati dell’osservazione madre bambino abbiano profonde ripercussioni
sul piano clinico e non soltanto sul piano speculativo è stata fortemente osteggiata negli ultimi anni.
Wolff (1996) e Green (Green & Stern, 2000) a più riprese hanno proposto i loro argomenti per
controbattere alla radice questa eventualità. Il loro punto di vista è che i ricercatori dello sviluppo
infantile operino facendo delle inferenze arbitrarie circa il vissuto soggettivo dei bambini partendo
dai loro comportamenti senza tenere conto della conoscenza del funzionamento dell'inconscio
proveniente invece dal lavoro sul divano. In conseguenza, secondo Wolff (1996), i dati della ricerca
sono “essenzialmente irrilevanti per la psicoanalisi intesa come psicologia dei significati, delle idee
inconsce e delle motivazioni nascoste”. Dall’altro lato della barricata, Fonagy (1998) propone
invece l’urgenza di un nuovo modello del cambiamento clinico che sia basato sul ruolo centrale che
la memoria procedurale svolge nelle evidenze osservative e si lamenta della pubblicazione
dell’articolo liquidatorio di Wolff (1996) da parte del Journal of the American Association,
sostenendo che “la riluttanza a collegare i dati della ricerca con le osservazioni cliniche hanno
minato il progresso della nostra disciplina”.
Dal nostro punto di vista, tuttavia, mentre il dibattito è stato spostato sul piano di un’accesa
contrapposizione epistemologica, si è finito per trascurare un punto centrale che proviene dalle
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Questo articolo è stato scritto all'interno di un progetto di ricerca sostenuto dalla Fondazione Pensiero e
Linguaggio, di cui fanno parte gli autori.
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osservazioni dell’infant research, quello della scoperta delle notevoli – anche se limitate - capacità
di elaborazione degli aspetti traumatici della realtà interpersonale da parte del neonato. Delle
capacità che, essendo difficilmente osservabili in assenza di un videoregistratore, non erano affatto
previste nel momento in cui erano state formulate le teorie dello sviluppo nate dall’esperienza del
divano. Pertanto, anche se possiamo essere d’accordo con Green che il rapporto tra comportamento
osservato e realtà soggettiva non può essere un rapporto d'identità, ci sembra tuttavia che le notevoli
capacità reattive e propositive scoperte nei neonati non possano non avere un qualche rilievo nella
loro vita soggettiva. Oggi possiamo dire che esistono esperienze soggettive provenienti dalla
elaborazione degli aspetti traumatici della realtà interpersonale, esperienze che hanno certamente un
ruolo nel formare il senso d’identità delle persone e che sono in attesa di una collocazione nella
teoria come nella clinica. Pertanto, dal nostro punto di vista, il potenziale innovativo di alcune
scoperte dell’infant research non è stato sufficientemente metabolizzato dalle teorie
psicodinamiche, forse perché alcune affermazioni provenienti dal mondo della ricerca sono state
confuse con altre posizioni ipercritiche degli ultimi anni (Masson, 1990, Meyer, 2005), in larga
parte strumentali, quelle che indicavano che la teoria di Freud avesse contribuito a mistificare la
percezione dei traumi reali subiti dai suoi pazienti.
Il bambino competente
I dati provenienti dalla ricerca sull’interazione madre bambino depongono massicciamente per
un neonato con un robusto funzionamento mentale autonomo fin dall’inizio, grazie alla sua capacità
di produrre una rappresentazione soggettiva del flusso continuo degli eventi che riguardano le
modificazioni dei propri stati corporei nei suoi rapporti interpersonali: la cosiddetta memoria
procedurale (Stern, 1985). Una memoria che, nella misura in cui riesce a funzionare come una
piccola ma significativa arma di difesa e di offesa, fornisce al neonato la capacità di esercitare
un’importante influenza sulla mente dell’adulto con il quale il neonato riesce a stabilire un rapporto
d’interdipendenza contrattuale, sempre che l’adulto gli riconosca questo suo piccolo ma
significativo potere.
Molto vicina alla concezione procedurale che andiamo esponendo potrebbe apparire l’idea che il
neonato sia in grado di sviluppare un proprio mondo soggettivo attraverso la fantasia inconscia
(Klein, 1957, Isaacs, 1948, Segal, 1964). Recentemente, infatti, il concetto di fantasia inconscia è
stato accostato a una lettura corretta da parte del bambino della influenza degli eventi interpersonali
salienti sui suoi stati corporei (Petrelli, 1995). Tuttavia, non essendo mai stata smentita dagli autori
kleiniani l’idea di una fondamentale asimmetria mentale tra adulto e bambino, è rimasta largamente
aperta la possibilità di intendere la fantasia inconscia come una compensazione dallo stato
d’inermità del bambino. Una concezione compensatoria che traspare in modo evidente quando si
consideri sia l’aspetto violentemente aggressivo sia quello altrettanto violentemente persecutorio
con il quale viene descritta la “fisiologia” delle fantasie inconsce nella clinica e nella teoria (fantasie
d’incorporazione, fare a pezzi, etc.). All'interno della concezione compensatoria possiamo anche far
rientrare la forte sottolineatura dell’aspetto onnipotente di queste fantasie, tale da suggerire l’idea di
un “vorrei ma non posso” come un perno soggettivo fondante dell'esperienza del bambino. Traspare
pertanto da questo insieme di notazioni l’idea adultomorfa del bambino come un piccolo adulto che
non possiede tuttavia di mezzi sufficienti per comportarsi come un adulto. D’altra parte, come fa
notare Giaconia (2005), pesa su queste posizioni l’antica concezione (Freud, 1911) della fantasia
come fuga della realtà sotto l’impulso del principio del piacere.
A riprova della persistenza dell’idea pregiudizievole di una fondamentale asimmetria mentale tra
bambino e adulto, le più moderne teorie psicodinamiche di orientamento relazionale hanno
introdotto negli anni concetti sofisticati quali empatia, contenimento, rispecchiamento,
riconoscimento, rêverie materna, funzione alfa, intersoggettività, empatia, mentalizzazione, tutte
funzioni certamente importanti per lo sviluppo, che vengono tuttavia in larga parte descritte a senso
unico, elargizioni di un adulto capace e concentrato verso un bambino poco organizzato e
bisognoso. Nessuna di queste funzioni è veramente considerata reciproca da queste teorie o, se di
reciprocità raramente si parla, essa viene considerata avere un’influenza secondaria. Oscurando con
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ciò il fatto che, trattandosi di funzioni non verbali e non locomotorie, il bambino potrebbe essere in
grado di esercitarle simmetricamente a quanto viene fatto dai suoi caretakers. La qualcosa sembra
alquanto probabile quando si esamini al videoregistratore il ben noto fenomeno del role reversal
(Tronick, 1989) – il bambino che si prende carico dell’adulto – guardandolo non soltanto nei suoi
aspetti patologici (Fraiberg, 1987, Borgogno 2008) ma come una forma di adattamento reversibile e
contrattabile, fisiologica e universale.
Prima di sviluppare ulteriormente questa nostra posizione, vogliamo subito chiarire che non è
nostra intenzione ignorare quanto detto dal punto di vista teorico e fatto dal punto di vista clinico in
una direzione simile a quella nella quale noi proponiamo di andare. Gli sforzi per individuare un
bambino realisticamente competente sono stati costanti in campo psicoanalitico, a partire da quelli
di Ferenczi (1932) che proponeva la visione di un bambino in buona parte vittima
dell’incompetenza degli adulti. Molti contributi in questa direzione sono poi provenuti dalla
psicoanalisi nord americana a partire dagli anni cinquanta, sia per l’importante apporto di Sullivan
(1953) nella direzione di indicare una maggiore reciprocità negli scambi bambino adulto, sia per il
precedente apporto della Psicologia dell’Io di Hartmann (1939) nel restituire l’idea di una
fondamentale autonomia dell’Io con la sua capacità di mettere in piedi delle difese con un
importante aspetto adattativo. Ricorderemo inoltre il lavoro di autori come Rapaport (1959), Holt
(1989) e Gill (1982) – per indicare solo alcuni capiscuola - che in vario modo hanno contribuito a
restituire una maggior simmetria e bilateralità esperienziale tra bambino e adulto e tra paziente e
analista. Senza dimenticare infine alcuni autori delle cosiddette correnti relazionali – a partire da
Fairbairn (1953-63), Winnicott (1958, 1965) ), Lichtenberg (1989), Mitchell (1988) e Modell
(1990) – che hanno fornito numerosi contributi intenzionati a valorizzare la competenza e la
capacità di adattamento del bambino.
Rimane tuttavia una questione cruciale proveniente dalle osservazioni madre bambino, una
questione che a noi sembra sia stata raramente esplicitata fino in fondo – tranne il caso di Merton
Gill come diremo in seguito - e cioè il fatto che il neonato e il bambino registrano e reagiscono
appropriatamente non solo a quanto gli adulti trasmettono loro consapevolmente ma anche a quanto
gli adulti trasmettono loro involontariamente. Pertanto i bambini restituiscono agli adulti dei
messaggi inconsci che, nel bene e nel male, gli adulti recepiscono e a loro volta restituiscono
altrettanto inconsapevolmente ai loro bambini così come fanno gli analisti con i loro pazienti.
Differenti capacità di astrazione
Un bambino percepisce una parola, una carezza o uno sguardo utilizzando il medesimo metro
soggettivo – per effetto della percezione amodale - e cioè registrando in termini di memoria
prodedurale l’effetto che queste azioni producono su di lui indipendentemente dal canale percettivo
coinvolto (Emde, 1982, 1983, Stern, 1985, 1989, Sander, 1980, 1985, 1995, 2007, Fonagy, 1998).
Secondo le circostanze, parola, carezza e sguardo possono pertanto produrre analoghe sensazioni di
allineamento dello stimolo al movimento dei propri stati interni e provocare segnali di apertura
(engagement), che stanno a indicare che gli stati interni del bambino vengono a loro volta allineati
in direzione dello stimolo. Allo stesso modo, un altro tipo di parola o di carezza - o lo stesso tipo di
parola e di carezza fatte in un contesto diverso - possono produrre una reazione di chiusura, segnali
di ritiro parziale o totale (disengagement.)1. Il neonato e il bambino non sono quindi dotati di quella
capacità di astrazione che all’adulto è data dall’uso del linguaggio, una capacità di astrazione che
permette agli adulti di prendere le distanze dagli aspetti immediati delle loro sensazioni in vista di
obiettivi futuri. Tuttavia il fatto che il neonato e in misura minore il bambino non possiedano il
linguaggio non significa che non possiedano un’esperienza soggettiva che permette loro di
sperimentare un rudimentale grado di astrazione rispetto a quanto viene accadendo. La loro capacità
di astrazione si limita pertanto al loro tirarsi indietro parzialmente o totalmente rispetto agli stimoli
che non sono allineati al movimento dei loro stati interni, in attesa che si ricrei una situazione
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E implicito in queste nostre affermazioni il riferimento al contributo di Stern (1985) su come il bambino
centralizza l’esperienza che egli fa delle proprie relazioni attraverso la percezione amodale e le memorizza come
procedure di regolazione congiunta (Regular Interactions Generalised o RIG).
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favorevole. Basti guardare in proposito come il neonato partecipa attivamente al gioco del
bubusettete tirandosi indietro parzialmente al bubu, prefigurando tuttavia con un mezzo sorriso
l’arrivo del liberatorio settete e la conseguente fase di apertura. In questo modo il bambino si regola
per accordarsi con gli stimoli provenienti dall’ambiente e riesce a contribuire alla stabilità dei suoi
rapporti interpersonali dando per scontato che debbano essere attraversate delle fasi instabili
attraverso una riduzione della sua adesione agli stimoli immediati: il che può essere fatto equivalere
a una proto capacità di astrazione che attraversa la propria esperienza soggettiva e che fornirà la
base alle più sofisticate capacità di astrazione che saranno sviluppate nella vita adulta.
Quello che ci preme qui sottolineare è che l’attenzione del neonato e del bambino si rivolge
correttamente alla configurazione d’insieme, prefigurando il movimento dell’intero sistema
relazionale verso il futuro, intuendo e partecipando a quelli che potrebbero essere gli inceppi
(misfits) di questo movimento. Essi possiedono pertanto il loro piccolo vademecum che gli
suggerisce alcune probabilità circa gli accadimenti che essi prefigurano essere più o meno allineati
ai loro stati interni. In questo modo l’esperienza soggettiva del bambino può essere tradotta nella
sensazione di vivere una serie di impatti con il mondo, alcuni con esito positivo, altri con esito
negativo. E' plausibile pertanto formulare l'ipotesi che il neonato nasca e viva in un mondo
soggettivamente costituito da entità benevole e da entità malevole che si avvicendano sulla scena
(Seganti 2009). Entità malevole che egli può cercare di blandire o sfidare, segnalando la sua ostilità
o la sua sottomissione nel momento in cui può ritirarsi più o meno in anticipo, entità benevole che
egli può più o meno stimolare nel momento in cui segnala la sua maggiore o minore disponibilità ad
accettarne devotamente l’influenza.
E’ essenziale ad ogni modo tener presente che a noi adulti non sembra di vivere in un mondo del
genere, in quanto l’uso del linguaggio ci ha abituato a disporre di capacità di astrazione molto più
sofisticate che ci permettono di aderire a una cultura, un set d’idee astratte che condividiamo con
altri e che ci danno stabilità e senso di appartenenza, anche se questo significa per noi pagare il
prezzo di una riduzione della nostra sensibilità individuale (Stern, 1985, Freeman, 2002) che ci
permettiamo di esprimere soltanto in alcuni ambiti socialmente concordati. Pertanto non avvertiamo
– se non in situazioni particolari in cui sentiamo di potercelo permettere – né l’aspetto benigno, né
quello maligno con cui gli altri influenzano la nostra individualità, ed esprimiamo con minore
immediatezza il nostro dissenso e il nostro consenso rispetto alle minute azioni – parole, carezze o
sguardi che siano – che gli altri indirizzano nei nostri confronti.
Fratture interpersonali
Non è infrequente il fatto che un bambino possa urtarci leggermente i nervi – per infiniti motivi
del tutto fisiologici – e che noi adulti si preferisca inconsciamente non farlo trapelare, ma questo
non significa che il bambino non sia in grado di leggere immediatamente la nostra mente e di
accorgersi dei nostri stati d'animo reconditi. Questo rimane vero, anche se noi possiamo ribadire in
buona fede, attraverso parole e comportamenti, che noi siamo sostanzialmente disponibili nei suoi
confronti, la qualcosa egli potrebbe essere più o meno disponibile ad assecondare. E' fisiologico,
infatti, che gli adulti si orientino nei loro rapporti interpersonali con delle teorie di se stessi, delle
visioni d’insieme che, pur non essendo affatto false, si pongono tuttavia a un diverso livello di
astrazione rispetto al livello delle minute sensazioni sul quale il bambino si muove. Esiste quindi
una forte asimmetria culturale tra adulto e bambino, prima ancora che una relativa asimmetria
biologica, e i problemi suscitati dal loro incontro potrebbero essere simili a quelli che incontriamo
nel metterci in rapporto con culture con minori capacità di astrazione linguistica della nostra ma con
maggiori sensibilità intuitive. L’incontro tra bambino e adulto è quindi un incontro di due individui
con diverse abilità di astrazione, oggi si direbbe diversamente abili: le abilità del bambino sono
quelle che si esprimono in una sorta di lettura del pensiero dell’adulto mentre quelle di un adulto
sono quelle di qualcuno che ha messo da parte buona parte delle sue capacità di lettura del pensiero
altrui, poiché ha preferito (e/o dovuto) trovare accordi con i suoi simili attraverso il linguaggio circa
ciò che in quel momento è opportuno leggere o non leggere dei propri e altrui stati d'animo per un
buon funzionamento dei suoi rapporti interpersonali (Seganti, 2009).
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Le capacità di astrazione degli adulti non sono tuttavia così astratte dalle circostanze da
permettergli di essere totalmente sicuri di quanto si sentono legittimamente convinti di trasmettere.
Per questo motivo il loro linguaggio, per quanto possa astrarsi dalla loro esperienza contestuale per
esercitare funzioni simboliche, rimane visceralmente collegato con le stesse valutazioni gobali dei
rapporti interpersonali che anche gli adulti fanno ma che sono tipiche dell’esperienza del bambino.
E' per questi motivi, infatti, che non possiamo convincere un bambino – tranne che non si tratti di
situazioni altamente patologiche - di volergli bene "veramente", se non facciamo anche trapelare il
fatto che a volte egli possa procurarci del fastidio, così come, nella nostra professione, non
possiamo conquistare la fiducia dei nostri pazienti se non riconosciamo di avere una nostra, sia pur
piccola, parte (Gill, 1978) nell'alimentare i loro vissuti persecutori. Nessuno di noi può, infatti,
garantire una disponibilità totale, né garantire di non tradire in assoluto, anche se tutti possiamo in
buona fede prometterlo e poi anche cercare di farlo.
Ravvedimenti operosi
Arriviamo con questo al punto principale, quello secondo il quale le fratture che possono
avvenire tra il mondo soggettivo del bambino e il mondo soggettivo dell'adulto sono dovute al fatto
che la diversa abilità dell'uno possa essere sentita come una minaccia per la diversa abilità dell'altro.
Quando un bambino avverte un’interferenza da parte della madre nei propri stati d’animo, le sue
reazioni equivalgono a una segnalazione per la madre circa l’esistenza di suoi stati che
interferiscono con quelli del bambino. A questo punto facilmente può accadere che la madre, non
avendo piacere a leggere i propri stati d’animo, reagisca inconsapevolmente con un moto depressivo
e/o contrastando attivamente quegli stati d'animo del bambino che lei stessa gli ha causato. In
questo modo può succedere che la madre diventi antagonista del linguaggio non verbale con il quale
il bambino si orienta nel suo mondo e che allontani con impeto quei segnali che essa vive in modo
persecutorio. Quando si crea una situazione di questo genere appare evidente il rischio che il
sistema di comunicazione possa scivolare in una direzione patologica, tale per cui il bambino
potrebbe assecondare la richiesta di rinunciare a emanare i propri segnali, e sviluppare il proprio
contenzioso in modo occulto per mantenere altrettanto occulto l'inconsapevole contenzioso
proveniente dalla madre. Per evitare questi sviluppi negativi, occorre pertanto che la madre operi un
“ravvedimento operoso”, riconoscendo che i messaggi emanati dal bambino potrebbero essere delle
risposte al suo operato. Sarebbe infine auspicabile e a volte anche necessario, che la madre si
mettesse a cercare anche i messaggi reconditi nel caso in cui il bambino avesse già smesso di
emanarli in modo palese.
Diventa cruciale a questo punto – visto che stiamo parlando di cose che succedono a livello
largamente inconsapevole - capire in quale modo questo ravvedimento operoso della madre possa
essere favorito e in quali circostanze possa essere invece scoraggiato. Intanto, potrebbe essere
d’aiuto considerare fisiologico e per niente eccezionale il fatto che la madre faccia degli errori di
questo tipo e che sia necessaria la loro correzione. Le mamme sono inevitabilmente condizionate da
molti fattori, affettivi, economici, relazionali e culturali che le portano a chiedere ai loro bambini di
svolgere ogni sorta di funzioni, consolarle dai lutti della loro vita e dalle insoddisfazioni, riscattarle
dai traumi, dar loro sicurezza, stabilità e tant’altro. Per cui non può essere considerato come un fatto
eccezionale che esse trasmettano il loro nervosismo ai figli e si alterino nel momento in cui questi
ultimi non assecondano pienamente le loro richieste inconsapevoli. Richieste che potrebbero anche
risultare legittime nel momento in cui – diventando consapevoli – la madre si assumesse la
responsabilità di averle emanate. In un’atmosfera culturalmente tollerante, non è per niente
impossibile che una madre si chieda perché il bambino è nervoso e che arrivi a ottenere effetti
positivi ammettendo, innanzi tutto a se stessa, di aver avuto un qualche ruolo con il proprio
nervosismo. Certamente anche il fatto di avere una buona amica o un marito che dia loro una mano
potrà avere un’influenza positiva sulle madri, ma ancora più cruciale sarà il fatto che esse vengano
sostenute ad accettare l’inevitabile fallacia del loro operato. Utili saranno pertanto quelle teorie che
siano in grado di suggerire alle madri che il loro bambino – per quanto vulnerabile - non è del tutto
inerme rispetto alla loro fallacia e, a modo suo, riesce ad adattarsi e continua a emanare segnali in
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attesa che le mamme si ravvedano. Al contrario, una teoria che dipingesse il bambino come
totalmente dipendente dalla madre non aiuterebbe a operare il necessario ravvedimento, in quanto è
soltanto nel caso in cui si riconosca una dipendenza relativa del bambino che l’errore della madre
diventa in qualche modo riparabile. Secondo le teorie che prevedono una fase più o meno lunga di
totale dipendenza, invece, il bambino, non possedendo difese sufficienti, vivrebbe i traumi
relazionali in modo intollerabile:
“Essere stuprati o essere mangiati dai cannibali sono cose di poco conto rispetto alla violazione
del nucleo del sé mediante la comunicazione che si insinua attraverso le difese” ci dice Winnicott
(1965, p. 242) e noi non dubitiamo che un’esperienza del genere possa accadere quando si parli di
madri che aggrediscono in modo virulento le capacità percettive ed espressive dei bambini. Anzi
pensiamo che sia grande il merito clinico di Winnicott per essere riuscito a capire che cose tanto
gravi possano succedere al di là delle apparenze. Pensiamo tuttavia che un bambino possa sentirsi
soggettivamente aggredito in un modo così estremo soltanto quando, avendo ripetutamente risposto
con una forte chiusura all’esperienza di violazione della madre, egli comincia a temere - non del
tutto e non sempre a torto - che la madre reagisca con un’ulteriore aggressione ai suoi tentativi di
difesa.
Resistenza ai traumi
Pertanto, pur non pretendendo di avere il monopolio della lettura della soggettività dei bambini
ci vogliamo opporre con fermezza all’idea che esperienze così forti facciano parte dello sviluppo
normale per causa della supposta totale dipendenza del bambino. Piuttosto pensiamo che vada
maggiormente considerata l’esistenza di una fisiologica presa in carico dei genitori e delle loro
fallacie da parte dei bambini, il cosiddetto rovesciamento dei ruoli. Un fenomeno universale già
indicato da Bowen (1960) e Boszormenyi Nagi (Boszormenyi Nagi & Spark, 1973, Boszormenyi
Nagy & Krasner 1986), quando descrissero la cosiddetta parentificazione2 dei bambini da parte
delle loro famiglie – distinguendo una parentificazione esplicita e responsabile, dove ai bambini
viene apertamente chiesto di assumere dei ruoli di responsabilità, da una cosiddetta parentificazione
"strutturale" con forte distribuzione di ruoli in famiglie dove è scarsa la differenziazione tra ciò che
è mio e ciò che è tuo. Solo in quest’ultimo caso, dal nostro punto di vista, quando profonde
incapacità dei genitori si accompagnano con fallaci strategie comunicative, il bambino può
sviluppare la sensazione di un obbligo a coartare la propria individualità talmente forte da portarlo a
sperimentare qualcosa che potrà assomigliare a uno stupro psicologico. Una situazione intollerabile
che venne indicata efficacemente da Bateson (1969) nella sua definizione del doppio legame
secondo la quale il bambino finisce intrappolato in una relazione paradossale con la madre, la quale,
mentre infligge traumi che possono essere più o meno importanti, agisce inconsapevolmente in
modo tale da "punire qualsiasi indicazione che il figlio potrebbe dare circa il fatto di sapere il
trauma che subisce”(ibid. p. 293).
Oggi è possibile proporre una visione meno drammatica della fragilità del bambino quando si
faccia riferimento agli studi di Tronick (1978, 1989, 2007) sulla reazione del neonato e del bambino
alla madre still face3, seguendo i quali l’evento relazionale traumatico – il diniego dell’esperienza
del bambino e della sua iniziativa - è registrato e ricordato in termini di memoria procedurale, e
mantenuto come aspettativa di sottofondo di una certa imprevedibile bizzarria di comportamento.
Questo vuol dire che una volta che ci siamo adattati a operare un ritiro per fronteggiare un
comportamento da noi avvertito come contraddittorio continuiamo ad aspettarci che comportamenti
simili avvengano, anticipando il ritiro nel momento in cui quel comportamento ci viene ripresentato
anche ad anni di distanza. In questo modo siamo preparati fin dalla nascita al fatto che gli adulti
siano traumatici e collaboriamo per minimizzare gli effetti negativi che essi hanno su di noi,
fornendo loro delle micro segnalazioni circa il fatto che li consideriamo bizzarri nell’eventualità che
essi se ne accorgano. A riprova dell'impegno che i bambini mettono per "salvare" i loro genitori sta
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Preferiamo, con un anglicismo, parentificazione al più corretto genitorializzazione per diminuire l’asimmetria che
il termine genitore suggerisce in italiano.
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Esposizione del bambino al fatto che la madre mantenga il volto impassibile per pochi minuti.
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il fatto che, se ci si mette a osservare le loro reazioni davanti alla madre still face, si provano
sentimenti di commozione per la loro dedizione a tirar fuori un messaggio dalla madre piuttosto che
di compassione per il trauma che subiscono. Pertanto, le reazioni dei bambini ci fanno capire che
anche un adulto palesemente manipolativo o quantomeno fallace ha buone possibilità di essere
amato dalla sua controparte infantile, in quanto, diventando consapevole dei suoi comportamenti
fallaci potrà trovare occasioni per potersi ravvedere, riconoscendo il contributo dato dal bambino
nel segnalargli la questione.
La situazione appare più critica a fronte di un adulto che – indipendentemente dal grado di
traumaticità che egli esercita verso il bambino - pretende impetuosamente di non essere abusivo in
assoluto, pretendendo che il bambino gli fornisca un’idealizzazione forsennata della propria
funzione e che faccia scomparire le proprie micro segnalazioni che vengono vissute
persecutoriamente. Tale adulto si pone pertanto al di fuori di quella logica contrattuale che il
bambino tenderebbe fisiologicamente a sviluppare e determina un’ipertrofia di sensazioni
persecutorie che non possono essere integrate e si sviluppano in modo scisso, facendo vivere il
bambino in una realtà diversa da quella in cui l’adulto vive con la sua capacità di astrazione, con le
sue teorie.
Sorveglianza degli effetti inavvertiti delle nostre teorie
Siamo oggi nelle condizioni di poterci attrezzare per prevenire il rischio che possa rimanere del
tutto occultata la formazione di correnti persecutorie bilaterali nei rapporti con i nostri bambini
come nei rapporti con i nostri pazienti, dal momento in cui cominciamo a pensare che essi
inconsciamente registrano le nostre inevitabili contraddizioni. Anche qui non stiamo dicendo
qualcosa di completamente nuovo, considerando i numerosi autori, a partire dalla Heimann (1950),
che hanno perorato la causa dell’utilizzazione del cosiddetto controtransfert nella psicoterapia
psicoanalitica. Tuttavia l’attenzione al nostro controtransfert non può metterci del tutto al riparo dal
rischio che il paziente percepisca ciò che noi non riusciamo a percepire. Va considerato, piuttosto,
che il rischio di emanare messaggi contraddittori nei confronti dei pazienti senza accorgercene
possa aumentare nel momento in cui diamo la nostra adesione a teorie contraddittorie senza badare
al fatto che esse sono contraddittorie. Una teoria contraddittoria è quella che ci lascia un margine
troppo ampio per poter dire, quando siamo di buonumore, che il bambino o il paziente hanno ottime
competenze relazionali, ma anche di poter dire che sono totalmente dipendenti dalle relazioni nel
momento in cui ci troviamo in qualche difficoltà e il nostro buonumore viene meno.
A dimostrazione di quanto andiamo dicendo prenderemo un ben noto esempio, che può essere
considerato come un fiore all’occhiello della posizione relazionale, quello in cui Winnicott (1965),
riconosce al bambino "la capacità di essere solo" (ibid. p. 29)4. Un riconoscimento che va
controcorrente rispetto alle teorie psicodinamiche dello sviluppo tanto che Winnicott stesso
suggerisce che "nella letteratura psicoanalitica è stato scritto di più sulla paura di essere solo che
sulla capacità di essere solo"(ibid. p.29). Per ammissione dello stesso Winnicott egli si era convinto
dell'importanza di essere soli a partire da dati clinici e da dati osservativi che lo avevano portato a
una rivalutazione degli "stati di ritiro" dalla relazione, mentre nella teoria psicoanalitica venivano
abitualmente considerati - con le sue parole - come "un'organizzazione difensiva che implica
un'attesa di essere perseguitato" (ibid. p. 29). Winnicott si mantenne poi fedele a questa sua
posizione riproponendola in molti saggi tra cui Comunicare non comunicare (ibid. 1965, p. 231)
dove collega la capacità di essere solo a una "capacità di ritirarsi senza perdere l'identificazione con
ciò da cui ci si è ritirati" (ibid, p. 243). In quest'ultimo saggio egli trasporta ancor più decisamente la
questione anche sul piano clinico, sostenendo che "la non comunicazione del paziente può essere un
contributo positivo e ci impone di chiederci se la nostra tecnica permette al paziente di comunicare
ciò che non comunica" (ibid. p. 243). Pertanto, possiamo affermare che la concezione che Winnicott
andava sviluppando è quella di un bambino competente, quello che oggi noi descriveremo come un
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Prendiamo l’esempio da Winnicott in quanto è uno degli autori che raccoglie un diffuso consenso nella comunità
psicoanalitica, anche se ciò che diremo sul mantenimento di un mix di teorie progressive e di teorie patomorfiche dello
sviluppo può essere applicato a molti altri autori altrettanto importanti.
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bambino che utilizza delle procedure di ritiro dalla relazione in forma contrattuale e strategica.
Interessante tuttavia notare come fin dall'inizio Winnicott fosse consapevole che la sua concezione
del bambino (e del paziente) competente entrava in collisione con le concezioni correnti dello
sviluppo infantile che consideravano come punto centrale la totale dipendenza del bambino dalla
madre. Un conflitto che, tuttavia, Winnicott esplicitava come un "paradosso" affermando che " la
capacità di essere solo ha un fondamento paradossale, e cioè l'esperienza di essere solo in presenza
di un'altra persona" (ibid. p.31).
Ora Winnicott cercò esplicitamente di spiegare questo "paradosso" proponendo una divisione tra
la relazionalità dell'Io e la relazionalità dell'Id. La prima veniva definita come la materia con cui è
fatta l'amicizia mentre la seconda rimaneva collegata agli impulsi. Nella sfera della relazionalità
dell'Io, l'Io debole del bambino è naturalmente equilibrato dal sostegno fornito dall'Io della madre
(p.34, corsivo suo) mentre le relazioni fondate sull'Id rafforzano l'Io quando si verificano in base
ad uno schema di relazionalità dell'Io. (p. 36, corsivo suo). In questo modo Winnicott sembra
volerci dire che il paradosso esiste per davvero, quasi fosse un dato osservativo, e che non è
pertanto dovuto, come invece noi pensiamo, a un’incompatibilità tra la teoria di un bambino
competente e la teoria del bambino completamente dipendente. Ecco quindi che teorie
contraddittorie dello sviluppo infantile finiscono per coesistere in quanto possono accadere due
eventualità contrapposte: che la pulsione dell'Id "o sconvolge un Io debole" - ed eccoci di nuovo
nella dipendenza totale - o "raffroza un Io già forte" (ibid. p. 35) - ed eccoci di nuovo alla capacità
di essere soli.
Quello che invece noi andiamo sostenendo è che prima che intervenga il riconoscimento da parte
della madre si possa determinare più di una frattura in cui il bambino può sviluppare la sua capacità
di sentirsi solo, e che sia alla portata delle sue competenze il fatto di mantenersi positivamente
legato alla speranza che la madre lo riconosca, anche nel caso in cui questo riconoscimento non
fosse mai avvenuto prima. La capacità basilare di mantenere questo filo di speranza ci sembra
essenziale non solo per la vita del bambino ma anche per il buon funzionamento della madre, tanto
da far si che nel momento in cui il bambino incontra la fortuna di un riconoscimento della sua
capacità di supplire alle carenze della madre e di star solo, egli si possa sentire artefice - e questo
non del tutto a torto - della creazione di una madre sufficientemente buona a partire da una madre
realisticamente fallace.
Il mantenimento del paradosso permette invece a Winnicott di mantenere fianco a fianco la
visione del bambino competente con una visione drammatica che egli spiega perfettamente, dal suo
punto di vista, con il riferimento all’idea di un bambino completamente inerme in una supposta
prima fase dominata dall'Id e dalla debolezza dell'Io. Leggiamo infatti : “Dipendenza assoluta. In
questo stato l'infante non ha nessuna nozione delle cure materne, che sono soprattutto una questione
di profilassi. Egli non può avere il controllo su ciò che è ben fatto o mal fatto, ma solamente si trova
nella situazione di trarre profitto o di subire danni.”(ibid. p. 53)
In questa prospettiva non trova posto nella teoria di Winnicott l'idea che un neonato possa
ritirarsi fisiologicamente e strategicamente su se stesso per favorire la propria madre che se ne vuole
star sola molto prima che lui se ne voglia stare solo. Tralasciando l'eventualità che una madre possa
incontrare la fortuna di avere un bambino che prestissimo si accorge che a lei non mancano desideri
di star sola e che quindi si adatta a star solo e fornisce il proprio importante contributo per gli
equilibri della propria madre.
Problemi analoghi si pongono per un’altra idea di Winnicott (1970) secondo la quale - essendo
fisiologica la possibilità di un ritiro reattivo negativamente sperimentato in conseguenza a "ferite
nucleari" - la regressione potrebbe essere intesa come un’apertura verso una dipendenza volta a
sanare le ferite subite. Quello che tuttavia ci appare problematico, alla luce dell'osservazione delle
interazioni madre bambino, è l’idea che situazioni del genere siano la norma e che non si possano
evitare per causa di una supposta immaturità del bambino. Non potrebbe anche accadere che il
bambino regredisca in uno sforzo di compiacere una madre che vuole da lui una restituzione perché
si sente in colpa di aver fatto qualcosa che ha determinato il ritiro del bambino? In un caso del
genere sarebbe sbagliato o perlomeno inesatto considerare la regressione come una forma di
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dipendenza ma la si potrebbe vedere come un contributo che il bambino cerca di dare, sviluppando
la propria dipendenza per favorire la salute di una madre, la quale inconsapevolmente gliela chiede.
Bisogna ricordare a questo proposito come il rischio di un fraintendimento a proposito del
concetto di regressione era stato chiaramente indicato da Merton Gill (1982), il quale, non solo
perorava la causa che si facesse maggiore attenzione al contributo inconsapevole che l’analista da al
formarsi del transfert nel paziente – anche attraverso le relazioni inconsapevoli che egli intrattiene
con il setting e con la teoria - ma proponeva anche l’idea che la nevrosi di transfert, con il suo
portato regressivo, andasse considerata come un artefatto dovuto alle teorie dell’analista.
Un'ultima conseguenza della drammatica visione dello sviluppo che Winnicott (1970) ha
continuato a portarsi dietro a dispetto della sua lungimiranza clinica si riverbera sulla ben nota
questione del recupero dell’aspetto positivo del sentimento di onnipotenza del bambino. Un aspetto
positivo che, anche in questo caso, rimane fondamentalmente dipendente dalla benevolenza di una
madre che deve riconoscerlo. Che dire a questo punto della possibilità che il bambino si senta
onnipotente indipendentemente dal riconoscimento materno poiché ha realmente fatto qualcosa che
egli avverte essere di estrema importanza per gli equilibri sostanziali della madre, come ad esempio
il riuscire a starsene solo? Ecco che allora l'onnipotenza non sempre andrebbe concepita come
un'illusione che una madre benevolente concede al suo bambino, bensì come una sensazione di
orgoglio che proviene dal sentirsi al centro degli equilibri relazionali e di aver dato un vero
contributo alla loro stabilizzazione. Mentre l’onnipotenza potrebbe diventare presto patologica nel
momento in cui la madre non volesse ammettere la centralità per lei del ruolo del bambino e
pretendesse attivamente di essere lei a concedergli di sentirsi onnipotente.
In conclusione, dal nostro punto di vista, dovrebbe suonare un campanello di allarme di fronte al
fatto che le vigenti teorie relazionali tendano a premiare una concezione asimmetrica della
relazionalità madre bambino e lascino il fianco aperto a un’idealizzazione del lavoro del terapeuta
nello stesso modo in cui le teorie dello sviluppo dominanti tendono a premiare l’operato della
madre sufficientemente buona. Dimenticando che madre e terapeuti non sono buoni per
antonomasia ma, com’è giusto che sia, sono limitati dai vincoli culturali e linguistici e dalle lealtà
che essi portano ad altre persone che possono realisticamente interferire nelle lealtà che essi portano
verso i loro bambini come verso i loro pazienti. Il campanello d’allarme dovrebbe suonare ancor più
forte quando ci accorgiamo che larga parte degli psicoterapeuti sottovalutano o rigettano - con
Green (2000) - gli apporti dell’infant research e la sua capacità di farci toccar con mano l’esistenza
delle lealtà invisibili di cui parlava Bszormenyi Nagy, mentre preferiscono mantenere un canale
aperto con teorie dello sviluppo patomorfiche che sono ormai entrate nel senso comune. Il
mantenimento dell’idea di fondo del bambino dipendente e inerme di fronte a un adulto capace e
consapevole è quindi, dal nostro punto di vista, una delle idee ancor oggi ampiamente diffuse nel
senso comune e insufficientemente smentite che lasciano il fianco aperto al rischio che dei doppi
legami si vengano a creare anche nei rapporti terapeutici.
Psicopatologia del ritiro
La formulazione che noi abbiamo proposto a difesa di una visione contrattuale del ritiro dalle
relazioni potrebbe sembrare superflua dal punto di vista clinico quando non si consideri quanto sia
frequente che il ritiro dalle relazioni possa essere premiato ed esaltato da coloro che del ritiro altrui
si sono giovati giacché sono stati esentati dall’esser messi in discussione. Per cui il ritiro dell’uno
può essere avvertito come motivo di salvezza per una controparte insicura ed essere oggettivamente
esaltato sia dal "beneficiario" che dal "benefattore". Quando questo avviene compare in primo piano
un’idealizzazione dell’oggetto, il quale a sua volta si compiace di venire idealizzato mentre il
soggetto si compiace a idealizzarlo. In altre circostanze può accadere il contrario, e cioè il fatto che
il ritiro venga avvertito dalla controparte come una minaccia di colpevolizzazione. Nel primo caso
quindi il proprio ritiro è vissuto come una fonte di sostegno idealizzante per gli altri (rovesciamento
dei ruoli), mentre nell’altro caso può essere vissuto come un’arma impropria di tipo distruttivo che
ci si ritrova in mano, anche se questo non corrispondeva alle proprie intenzioni iniziali.
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In entrambi i casi (Seganti, 2009) si possono costruire singolari accordi interpersonali riguardanti
l'utilizzazione dei segnali di ritiro in senso strategico, accordi sadomasochisti ai quali entrambe le
controparti partecipano in modo largamente inconsapevole. Si tratta di accordi iperadattivi nel
senso che si basano sulla specializzazione che le persone sviluppano nell’indulgere reciprocamente
sui loro limiti e sui loro difetti. Accordi attraverso i quali le persone implicate si procurano una
sensazione di stabilità e di appartenenza a basso costo, lasciando in sottofondo imponenti
contenziosi che non sono sperimentati nella parte centrale dell'esperienza di se stessi. Accordi,
infine, che possono svilupparsi soggettivamente in modo talmente bizzarro da costituire la base per
ogni forma di psicopatologia.
A questo proposito va considerato che se un individuo porta con sé l'esperienza di relazioni nelle
quali gli altri hanno tratto, magari inconsapevolmente, qualche vantaggio dal suo ritiro in relazione,
usandolo in chiave manipolativa nei confronti degli altri, costui non avrà certo difficoltà a reperire
nella realtà la stessa sfumatura in tutte le persone che incontra. E va notato che non si tratta
propriamente di distorsione della realtà ma dell'esaltazione di cose che, per quanto parziali, sono
banalmente vere. Come vero è il fatto universale che ciascuno di noi preferisce una persona che si
comporta in modo amichevole e magari anche un filino compiacente, almeno in alcuni momenti.
Così come ognuno di noi, tutto sommato, tende a temere coloro che diventano meno amichevoli o
meno compiacenti per quanto possiamo essere fondamentalmente disposti ad accettare le critiche
altrui.
La nozione di accordo interpersonale inconsapevole potrebbe pertanto essere di notevole aiuto
nella clinica, nel momento in cui si prendesse in considerazione la possibilità che i viraggi
psicopatologici, nella vita come nella relazione terapeutica, siano sostenuti dal continuo ricrearsi di
accordi interpersonali che esaltano la sensazione d’interconnessione soggettiva tra soggetti e oggetti
che si salvano e si distruggono a turno in un malinteso patto di reciprocità. Se un paziente ha in
mente persone che si giovano del suo ritiro, egli può avvertire di salvarle nel momento in cui opera
un ritiro parziale e distruggerle nel momento in cui non opera il ritiro. Se invece il paziente si porta
dietro l'esperienza di stare in relazione con persone che hanno implicitamente temuto i suoi ritiri
sarà facile per lui sentirsi una persona in grado di distruggere il prossimo ma anche capace di
salvarli nel momento in cui, invece di ritirarsi, passa all'attacco e si mette dalla parte del torto.
Questa esagerata percezione dei propri poteri mentali e dei poteri mentali altrui - l'onnipotenza nel
senso maligno del termine - non dipende quindi da meccanismi intrapsichici, ma dalla connivenza
che viene attribuita agli oggetti all'interno di questi sistemi di relazione a meno di una loro esplicita
smentita. Essendo dato, infine, che questi sottofondi soggettivi hanno comunque un fondamento di
verità, l'unica smentita possibile è quella che proviene dalla consapevolezza della loro esistenza e
dal conseguente ridimensionamento del loro ruolo guida nel mondo soggettivo e oggettivo.
Una concezione contrattuale del ritiro dalle relazioni: il sistema dei debiti e dei crediti
Abbiamo fin qui fornito alcuni esempi - provenienti sia dall'esperienza clinica che
dall'osservazione dell'interazione madre bambino – a supporto della tesi che il ritiro dalle relazioni
svolga una funzione adattiva molto più consistente di quanto non gli sia stato attribuito dalle teorie
dominanti, siano esse esplicite o implicite. Prove che ci portano a concludere che la modulazione
dei segnali di ritiro di cui il bambino si mostra capace possa oggi essere considerata come una base
per la propria partecipazione a relazioni parzialmente asimmetriche nell'attesa strategica di un
successivo momento di riequilibrio della propria situazione esistenziale, una restituzione. La
nozione di contrattazione interpersonale diventa in questo modo centrale per poter coniugare il
punto di vista osservativo con il punto di vista del vissuto soggettivo. Infatti, la qualità degli esiti
contrattuali e l’infinita variabilità di soluzioni provvisorie che essi offrono potrebbero fornire, fin
dai primi giorni di vita, una base fondante dell'esperienza di se stessi come individui unici in
rapporto con altri individui. Stiamo qui parlando della fondamentale esperienza soggettiva di se
stessi come nuclei consistenti in rapporto con altri nuclei consistenti (vitalità di Stern, 1985). Dove
la consistenza è data dai limiti che ciascuno di noi può opporre alla influenza altrui, attraverso il
ritiro contrattuale dalla relazione. In questo modo gli individui disporrebbero di un senso di relativa
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stabilità proveniente dai loro accordi interpersonali, ma contemporaneamente manterrebbero in
sottofondo la percezione di un qualche prezzo – un costo - da loro pagato per raggiungerla e una
qualche previsione del costo che andrebbero a pagare nel momento in cui tentassero di ricontrattare
gli accordi pattuiti.
Non è difficile, infatti, immaginare come i segnali di apertura e chiusura, gli stop and go di Stern
(1985) possano essere combinati in sequenze elementari che possono essere trasportate di relazione
in relazione fino a diventare i pilastri fondanti dell'esperienza soggettiva della propria identità nel
mondo adulto. Basta considerare che, quando a un segnale di apertura segue un segnale di apertura
della controparte, questo evento possa essere registrato come un micro segnale di consenso, mentre
se segue un segnale di chiusura viene registrato un segnale di dissenso. Potremo esprimere questo
versante dell’esperienza soggettiva affermando che chi riceve un segnale di consenso riceve un
microcredito da qualcun altro che si pone in debito con lui. Mentre colui che riceve un segnale di
dissenso riceve un microdebito - un invito ad allinearsi forzosamente ritirandosi parzialmente di
fronte alla proposta altrui - da parte di qualcun altro che a sua volta sta esigendo un credito a
proprio nome. Il debitore in questo contesto è colui che si tira indietro rispetto alle altrui minacce di
ritiro, mentre il creditore è quello che "minaccia" il proprio ritiro per ottenere un maggiore
allineamento da parte dell'altro. La parola minaccia viene qui usata per rendere l'idea, anche se nella
realtà abbiamo a che fare con micro minacce. In questo modo si stabilizzano le regole del gioco
nelle relazioni interpersonali, nella misura in cui viene accettata una momentanea asimmetria tra un
creditore e un debitore all'interno di un regime di reciproche promesse.
Anche la parola promesse è troppo forte, anche se serve a rendere l'idea. Ciò di cui stiamo
parlando è il fatto che alcuni segnali di ritiro dalla relazione, essendo stati inclusi e ordinati
all'interno dei segnali di apertura, sono stati mandati nel sottofondo dell'esperienza soggettiva, allo
stesso modo in cui, a livello macroscopico, un sorriso può mandare in sottofondo un pianto. Lo
stesso avviene per gli accordi interpersonali che riguardano l'espressione concordata del dissenso,
attraversi i quali si conviene di portare in primo piano gli aspetti negativi dell'esperienza relazionale
attraverso manifestazioni di ritiro più o meno drammatiche, lasciando in secondo piano - ma inclusa
in sottofondo - l'esperienza di apertura, come avviene a livello macroscopico quando un pianto
manda in secondo piano un sorriso. Quello che stiamo pertanto descrivendo è una rete di accordi
impliciti che facilita continuamente la stabilizzazione dei rapporti interpersonali con notevole
vantaggio per entrambi a breve termine. Accordi che suggellano l'esistenza di una certa asimmetria
nelle reciproche intenzioni e lasciano pertanto un residuo soggettivo nel sottofondo di entrambi i
partecipanti. Residuo che sarà un credito di sottofondo, una promessa ricevuta, per tutte le occasioni
in cui qualcuno dei due avrà accettato un debito in primo piano rinviando in secondo piano i segnali
di chiusura. Si tratterà invece di un debito avvertito in secondo piano - una promessa fatta - per tutte
le occasioni in cui uno dei due avrà potuto pretendere un credito in primo piano.
Se partiamo infine dalla considerazione che l'accordo per la momentanea accettazione di un
debito e la contestuale erogazione di una linea di credito permettono di rimandare a un momento
migliore l'apertura dei contenziosi interpersonali, ecco che si apre la possibilità di ordire imbrogli
consensuali da entrambe le parti rimandano all'infinito sia il ripianamento dei propri debiti sia la
riscossione dei propri crediti. Chi accetta un debito ed evita di esigere troppi crediti, infatti, in
alcuni contesti può sentirsi il salvatore dei rapporti interpersonali e può essere indotto, da coloro che
non vogliono assolutamente sentirsi in debito con lui per le più varie ragioni, a sentirsi tanto forte in
questo suo ruolo salvifico da tralasciare le occasioni per esigere i propri crediti e far pagare agli altri
i propri debiti. Oppure accontentarsi di esigere crediti soltanto nei "recinti" che sono stati
concordati. Così come, colui che pretende un credito continuo potrebbe essersi soltanto adeguato
alla sensazione che gli altri si sentono troppo in colpa a sentirsi in credito con lui e preferiscono
sostare nell’area debitori. Anche in quest'ultimo caso, quindi, costui potrebbe essere tentato di
proporre un imbroglio, optando per un accordo volto a far sentire in debito esclusivamente la
propria controparte e tralasciando ogni possibilità di sentirsi in debito con essa. Oppure
assumendosi il debito soltanto in quei recinti che sono stati concordati. In entrambi i casi può
nascere la sensazione di acquisire potere gli uni sugli altri attraverso inconsapevoli imbrogli - intesi
11
qui come dissociazione più o meno funzionale dell'esperienza unitaria di se stessi (Bromberg, 1998,
2006) - indipendentemente dalla ricerca di una sana gestione dei debiti e dei crediti, equa e solidale.
Infine, essendo dato che l’imbroglio nasce lì dove viene trascurata la necessità di costruire dei
contesti interpersonali per la riscossione dei crediti accumulati e il pagamento dei debiti contratti,
ecco che torna in primo piano l’influenza negativa di quelle teorie o concezioni della natura umana
che trascurano l'onnipresenza della contrattazione inconscia nei rapporti interpersonali. Concezioni
del mondo che lasciano la porta aperta all’idea di un’irreparabile frattura tra il mondo infantile e il
mondo adulto, in quanto trascurano la possibilità di portare alla luce i contenziosi interpersonali
nascosti e di costruire dei contesti adatti per ricontrattare gli accordi interpersonali in modo equo e
solidale.
Riassunto. Quali le conseguenze cliniche della ricerca sull'interazione madre bambino? Questo punto è stato finora
affrontato attraverso un aspro dibattito (Green & Stern, 2000) caratterizzato da una contrapposizione epistemologica
riguardo la legittimità di inferire i vissuti soggettivi dai comportamenti osservati. Gli autori esprimono la loro
considerazione che in questo modo sia stato trascurato il punto centrale dell’impatto dell’infant research sulle teorie
psicodinamiche dello sviluppo e sull’attività clinica. Dal punto di vista degli autori, indipendentemente dalla modalità di
traduzione dei dati dell'infant research in termini di esperienza soggettiva, esistono prove convergenti circa la presenza
nel bambino di una notevole capacità di elaborazione delle esperienze traumatiche provenienti dalle sue relazioni
interpersonali. Per cui sembrerebbe altamente probabile che i bambini siano in grado di intuire e prevenire l’inevitabile
fallacia materna fornendo un contributo rilevante per il funzionamento dei rapporti interpersonali. I dati suggeriscono
anche che i bambini conservano l’aspettativa che un giorno il loro contributo gli verrà riconosciuto anche quando non
gli fosse stato precedentmente riconosciuto da una madre sufficientemente buona. Gli autori sostengono anche che
molte teorie psicodinamiche hanno mantenuto un legame implicito con l'idea di un bambino totalmente dipendente che
interferisce negativamente con il lavoro clinico.
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