Rassegna stampa 23 marzo 2016
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Rassegna stampa 23 marzo 2016
RASSEGNA STAMPA di mercoledì 23 marzo 2016 SOMMARIO Tante pagine di cronaca, analisi e commenti sui giornali di oggi per raccontare l’ennesimo atto di terrore che ha colpito, stavolta, direttamente il “centro” politico dell’Europa: la città di Bruxelles. Ecco l’editoriale di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera: “È più di una guerra; è un’epoca. E in questa nuova epoca l’Europa - ieri centrata al cuore - torna a essere campo di battaglia, come nella prima metà del Novecento. Stavolta non è un conflitto tradizionale, con un inizio e una fine; è una stagione di attacchi diffusi e imprevedibili, perché contro il nichilismo di chi è disposto a sacrificare la propria vita pur di bruciarne altre è difficile predisporre difese. La proliferazione nucleare apre scenari spaventosi, unita alla capacità dei terroristi islamici di intervenire come attori della scena politica mondiale: la bomba di Madrid del 2004 cambiò il verdetto delle elezioni spagnole. e si pensi a come può essere influenzata la campagna elettorale americana in questo anno cruciale. Nello stesso tempo, proprio nei giorni del lutto, si comincia a respirare un sentimento comune europeo. Lo si è visto il 13 novembre a Parigi, dove morirono 130 persone di 18 Paesi diversi. Lo si è sentito nell’emozione per le giovani vite spezzate in Catalogna. Lo si vede ora a Bruxelles. La città belga non ha lo stesso potere evocativo di Parigi, la stessa capacità di creare miti letterari e di accendere lumi filosofici. Almeno fino a ieri, ai nostri occhi era la capitale dell’Europa carolingia, persa nelle lande brumose del Nord, ai confini tra il mondo gallico e quello germanico; oltre a essere la sede di istituzioni non particolarmente amate. Ma in queste ore, forse per la prima volta, Bruxelles è davvero la capitale dell’Europa che le nostre generazioni sono chiamate a costruire, con l’apporto dei popoli e non solo dei burocrati. L’Europa è nata dalla tragedia della Seconda guerra mondiale. Ha mosso i primi passi nel clima di energia e fiducia della ricostruzione. Si è impantanata nello scetticismo e negli egoismi su cui si è innestata la grande crisi finanziaria. Oggi l’emergenza economica e gli attacchi terroristici possono contribuire a generare quella spinta all’integrazione che era venuta meno. Il dolore condiviso è la base su cui edificare una casa comune. La nuova Europa deve affrontare per prima cosa il tema epocale del rapporto con l’Islam: quello del Medio Oriente, e quello di casa. È stato un grave errore lasciare che sorgessero enclaves musulmane - la parola ghetto è sbagliata, i ghetti da Venezia a Varsavia sono stati luoghi di ingiustizia ma anche di resistenza e costruzione di civiltà - come Molenbeek e altri quartieri ai margini o in mezzo alle metropoli, dove non si parla francese o inglese o fiammingo, dove le leggi sono sospese, dove le donne spesso sono costrette a vivere come a Gaza o a Riad. Eppure consegnare l’Islam europeo ai radicali sarebbe un suicidio. La jihad lavora per esportare nel nostro continente la guerra civile per il potere sul mondo islamico. Non a caso colpisce negli aeroporti, nelle metropolitane, nei giornali, nei teatri, per minare le libertà di circolazione e di espressione: un disegno che va respinto; ad esempio l’idea, che già circola sul web, di rinviare i campionati di calcio in Francia del prossimo giugno sarebbe una resa inaccettabile. Se l’Europa riuscirà a difendere la legalità e i valori - a cominciare dai diritti delle donne - senza esporre i suoi cittadini di fede musulmana alla tentazione ideologica e mediatica degli estremisti, la trama della jihad potrà ancora spargere altro sangue; ma sarà sconfitta”. E sul Gazzettino Romano Prodi osserva: “Il terrorismo vuole colpire il nostro futuro che, nonostante i problemi di oggi, può essere garantito solo da forti istituzioni comuni. I primi commenti a questa tragedia si sono subito concentrati nel condannare le debolezze dei nostri sistemi di protezione e, in questo caso, soprattutto delle strutture della sicurezza belga. Tutto ciò può anche essere vero e dobbiamo perciò moltiplicare protezione e vigilanza ma è anche vero che non possiamo proteggere tutti i luoghi nei quali noi ci raduniamo per mangiare, per divertirci, per pregare o, semplicemente, per stare assieme. Non solo questo non è possibile ma, anche se lo fosse, sancirebbe la distruzione delle fondamenta della nostra società. Sarebbe il trionfo del terrorismo. Per difenderci in modo più efficace abbiamo di fronte a noi una doppia strada. La prima è quella di rafforzare il lavoro dell'intelligence, ancora insufficiente e, sopratutto, ancora frammentato fra i diversi paesi europei. Mentre il terrorismo colpisce il cuore dell'Europa, le nostre strutture di intelligence lavorano infatti in ordine sparso, in modo cioè del tutto inefficace in una situazione in cui esiste la libera circolazione delle persone, delle merci e del denaro. Ogni paese agisce in modo separato, con limitati scambi di informazioni perché fondamentalmente dedicato alla custodia delle proprie prerogative. Il Belgio, con le sue frammentazioni politiche e amministrative e con i suoi sei governi che dialogano tra di loro con difficoltà, rappresenta in modo particolare questa debolezza, ma dobbiamo avere ben presente che nessun paese europeo è in grado da solo di conoscere e interpretare il funzionamento dei complicati rami dell'estesa rete del nuovo terrorismo. E quindi nessun paese europeo è in grado da solo di contrastarla. Questo ci porta ad affrontare il percorso della seconda strada. Il terrorismo che si è espresso negli ultimi anni non può vivere con il solo supporto locale ma ha bisogno di protezioni e aiuti internazionali che possono essere scoperti ed affrontati unicamente da un'azione comune. Ad uno sforzo di conoscenza delle intelligence deve quindi seguire un'azione comune dei governi. Le organizzazioni terroristiche dispongono infatti di cospicui finanziamenti che hanno reso possibile la nascita e l'espansione dell'ISIS, il suo insediamento territoriale e la sua capacità di reclutamento e di coordinamento dei criminali che operano oramai a livello globale. La vendita di petrolio, i traffici di armi e di droga, i rapimenti e, soprattutto, i trasferimenti di denaro, hanno bisogno di strutture organizzative e di coperture che vanno ben al di là delle possibilità degli esecutori materiali delle azioni criminali o dei loro protettori locali. È quindi necessario un atteggiamento fermo nei confronti delle autorità governative dei paesi che permettono a strutture che da essi hanno origine di costruire e alimentare organizzazioni che, accanto ad apparenti scopi culturali o caritativi, si trasformano in reti di protezione e di alimentazione dei movimenti terroristi. Nel recente passato abbiamo assistito a troppi casi di mancanza di attenzione e, assai spesso, a un gioco ambiguo, nel quale i governi "amici" si proclamavano solidali nella lotta contro il terrorismo mentre le strutture organizzative e le associazioni ad essi collegate svolgevano un ruolo (consapevole o inconsapevole) di aiuto e copertura a gruppi estremisti. Per porre fine all'ambiguità e operare con la necessaria trasparenza occorre naturalmente mettere in atto una strategia che va ben oltre i confini dell'Europa. Anche questo non è tuttavia un obiettivo impossibile perché Stati Uniti, Cina, Russia ed Europa sono in ugual modo sotto la minaccia del terrorismo e tutti vedono nell'ISIS il loro principale nemico. Non vedo però nascere il senso di emergenza che è necessario assumere in questi frangenti. La lotta contro il terrorismo sarà quindi lunga e non sarà vinta finché non si useranno le armi di un'appropriata cooperazione internazionale” (a.p.) IN PRIMO PIANO DELL’EUROPA – STRAGE E TERRORE A BRUXELLES, NEL CUORE CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I nichilisti e l’argine dei valori di Aldo Cazzullo Il terrore, la civiltà Pag 1 Le colpe di governi indecisi di Antonio Polito Una polizia dell’Ue Pag 10 Parigi Bruxelles di Paolo Giordano Viaggio oltre la frontiera con la sorpresa che la sera vince la normalità Pag 11 Il cuore ferito della città simbolo diventata la capitale di tutta l’Europa di Federico Fubini Non è solo la sede della burocrazia, ma il luogo in cui si decidono i destini di milioni di persone Pag 16 Lo psicoanalista Massimo Ammaniti: “L’era dell’ansia permanente, il loro obiettivo è portarci alla paralisi” di Paolo Conti Pag 17 Lo storico Gilles Kepel: “Colpiscono in Belgio perché ormai somiglia a uno Stato fallito” di Lorenzo Cremonesi LA REPUBBLICA Pag 1 Il pericolo dell’abitudine di Mario Calabresi Pag 30 Un antidoto alla paura di Alberto Melloni IL GIORNALE La Pasqua ci riporti alle radici cristiane di Renato Farina AVVENIRE Pag 1 Ciò che noi possiamo fare di Marco Tarquinio La risposta al male che noi conosciamo Pag 2 I semi dell’estremismo piantati da troppo tempo di Andrea Lavazza Il Belgio e l’attacco, le sottovalutazioni e una lezione Pag 2 Tempo di credere nel Dio che soffre con noi di Maurizio Patriciello Le domande disperate e la fede che deve sorreggere IL GAZZETTINO Pag 1 Serve una difesa comune senza ambiguità di Romano Prodi Pag 1 Questa strage è l’11 settembre dell’Europa di Fabio Nicolucci LA NUOVA Pag 1 Il fronte interno di Andrea Sarubbi Pag 1 La rete di Salah di Renzo Guolo Pag 1 Imbelli alla sfida di Bruno Manfellotto Pag 8 Musulmani in crisi d’identità di Diego Marani 1 – IL PATRIARCA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Lavanda dei piedi con profughi e detenuti, Moraglia e l’esempio di Papa Francesco Misure di sicurezza a San Marco per il triduo pasquale 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Poche vocazioni, preti “a scavalco” di Alvise Sperandio Moraglia: “Collaborazioni pastorali anche in città”. Le parrocchie in bilico LA NUOVA Pag 27 Settimana santa, attesa per il triduo pasquale di n.d.l. Le celebrazioni dei cattolici 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 33 Una Chiesa capace di intercettare il messaggio del Papa di Andrea Riccardi 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Il futuro dell’euro alla prova. Economia reale da risollevare di Antonio Fazio Accrescere la domanda in Europa e la produttività in Italia 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 26 Dal Ghetto escono 500 anni di cultura di Vettor Maria Corsetti Da Venezia storia ed arte per trasmettere messaggi di libertà e memoria verso un futuro di dialogo IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Ghetto, massima allerta per il giorno dei 500 anni di Paolo Navarro Dina Fenice blindata per il concerto del 29 con la presidente Boldrini e il ministro Boschi. Rafforzata la sorveglianza a San Marco, stazione e Tessera Pag XIII “Seguire l’esempio di don Franco” di r.ros. Premio Sinopoli: ieri la consegna del riconoscimento ai familiari LA NUOVA Pag 17 Pasqua, città blindata e allerta in Ghetto di Carlo Mion Controlli rigidi al concerto alla Fenice per i 500 anni della comunità ebraica Pag 27 Ghetto, nove mesi di eventi per ricordare di Nadia De Lazzari Il presidente della Comunità ebraica Gnignati: “Un momento storico”. Il rabbino capo: “Venezia resti città del dialogo” Pag 34 Coniglio: “Da Mestre parta la beatificazione di don Franco” di Giacomo Costa L’idea lanciata dal coordinatore di Mestre Off Limits durante la premiazione del Memorial Sinopoli: “De Pieri ha salvato migliaia di ragazzi dalla droga, con persone come lui la società sarebbe migliore” Pag 34 Senzatetto, i volontari sono ancora con loro di Paola Filippini Scaduto il contratto Caracol – Comune, continua l’assistenza: “Importante mantenere i rapporti umani” … ed inoltre oggi segnaliamo… AVVENIRE Pag 13 La Consulta mette in salvo gli embrioni di Marcello Palmieri e Enrico Negrotti Respinto il ricorso per usare nella ricerca quelli creati in provetta e scartati. Gli scienziati: “Sono esseri umani sin dall’inizio”. Le staminali embrionali sorpassate da altre soluzioni Torna al sommario IN PRIMO PIANO DELL’EUROPA – STRAGE E TERRORE A CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I nichilisti e l’argine dei valori di Aldo Cazzullo BRUXELLES, NEL CUORE Il terrore, la civiltà È più di una guerra; è un’epoca. E in questa nuova epoca l’Europa - ieri centrata al cuore - torna a essere campo di battaglia, come nella prima metà del Novecento. Stavolta non è un conflitto tradizionale, con un inizio e una fine; è una stagione di attacchi diffusi e imprevedibili, perché contro il nichilismo di chi è disposto a sacrificare la propria vita pur di bruciarne altre è difficile predisporre difese. La proliferazione nucleare apre scenari spaventosi, unita alla capacità dei terroristi islamici di intervenire come attori della scena politica mondiale: la bomba di Madrid del 2004 cambiò il verdetto delle elezioni spagnole. e si pensi a come può essere influenzata la campagna elettorale americana in questo anno cruciale. Nello stesso tempo, proprio nei giorni del lutto, si comincia a respirare un sentimento comune europeo. Lo si è visto il 13 novembre a Parigi, dove morirono 130 persone di 18 Paesi diversi. Lo si è sentito nell’emozione per le giovani vite spezzate in Catalogna. Lo si vede ora a Bruxelles. La città belga non ha lo stesso potere evocativo di Parigi, la stessa capacità di creare miti letterari e di accendere lumi filosofici. Almeno fino a ieri, ai nostri occhi era la capitale dell’Europa carolingia, persa nelle lande brumose del Nord, ai confini tra il mondo gallico e quello germanico; oltre a essere la sede di istituzioni non particolarmente amate. Ma in queste ore, forse per la prima volta, Bruxelles è davvero la capitale dell’Europa che le nostre generazioni sono chiamate a costruire, con l’apporto dei popoli e non solo dei burocrati. L’Europa è nata dalla tragedia della Seconda guerra mondiale. Ha mosso i primi passi nel clima di energia e fiducia della ricostruzione. Si è impantanata nello scetticismo e negli egoismi su cui si è innestata la grande crisi finanziaria. Oggi l’emergenza economica e gli attacchi terroristici possono contribuire a generare quella spinta all’integrazione che era venuta meno. Il dolore condiviso è la base su cui edificare una casa comune. La nuova Europa deve affrontare per prima cosa il tema epocale del rapporto con l’Islam: quello del Medio Oriente, e quello di casa. È stato un grave errore lasciare che sorgessero enclaves musulmane - la parola ghetto è sbagliata, i ghetti da Venezia a Varsavia sono stati luoghi di ingiustizia ma anche di resistenza e costruzione di civiltà - come Molenbeek e altri quartieri ai margini o in mezzo alle metropoli, dove non si parla francese o inglese o fiammingo, dove le leggi sono sospese, dove le donne spesso sono costrette a vivere come a Gaza o a Riad. Eppure consegnare l’Islam europeo ai radicali sarebbe un suicidio. La jihad lavora per esportare nel nostro continente la guerra civile per il potere sul mondo islamico. Non a caso colpisce negli aeroporti, nelle metropolitane, nei giornali, nei teatri, per minare le libertà di circolazione e di espressione: un disegno che va respinto; ad esempio l’idea, che già circola sul web, di rinviare i campionati di calcio in Francia del prossimo giugno sarebbe una resa inaccettabile. Se l’Europa riuscirà a difendere la legalità e i valori - a cominciare dai diritti delle donne - senza esporre i suoi cittadini di fede musulmana alla tentazione ideologica e mediatica degli estremisti, la trama della jihad potrà ancora spargere altro sangue; ma sarà sconfitta. Pag 1 Le colpe di governi indecisi di Antonio Polito Una polizia dell’Ue Come possiamo proteggerci? Ne usciremo mai? Per quanto tempo ancora rischieremo la vita semplicemente vivendo? Durerà decenni questa guerra, come fu per le «nostre» guerre di religione, che sconvolsero l’Europa tra il ‘500 e il ‘600? Di fronte alla facilità con cui si può uccidere se si è disposti a morire, restiamo senza fiato, come pietrificati dal soffio gelido che ci vediamo passare affianco in quelle immagini filmate sullo sfondo della nostra vita di ogni giorno: un bambino che trema accovacciato nello shopping mall di un aeroporto, una donna che fugge nel buio di un tunnel della metropolitana. Come fermarli? Partiamo da quello che sappiamo. Il nuovo terrorismo islamista ha la testa in Iraq e in Siria, se ne sta costruendo un’altra in Libia, dispone di un piccolo esercito pronto a tutto in Francia e in Belgio. Forse non è vero che hanno dichiarato guerra all’Europa, ma di certo hanno esportato da noi la loro: Bruxelles come Damasco, Parigi come Beirut. Qui in Europa si nutrono di disperazione esistenziale, di scontro tra civiltà, di rabbia generazionale, di sradicamento sociale e culturale. Tra di noi c’è un sacco di gente che ci odia. Per buttare giù le Torri gemelle di New York, Bin Laden dovette infiltrare un commando negli Stati Uniti. In Europa non c’è bisogno, l’Isis nuota nello stagno delle comunità mediorientali e magrebine che si radicalizzano. Per questo l’epicentro è l’asse franco-belga, non il Londonistan dove prevalgono i pachistani e gli asiatici, non Berlino dove ci sono i turchi. E nemmeno, ringraziando Dio, le nostre banlieue dove forse l’immigrazione è troppo recente per aver già covato l’uovo del serpente. Quindi la prima cosa da fare è prosciugare lo stagno. Certo con l’integrazione e la cultura, ma anche con un’opera severissima ed efficace di polizia. Di fronte a questa emergenza, l’Europa dei 28 ha invece polizie divise e frontiere aperte. Ora la tentazione è di chiudere le frontiere: ma come si fa a chiudere quella tra Belgio e Francia? Abdeslam Salah ha viaggiato liberamente in Italia, in Austria, in Olanda, in Germania. Forse una soluzione migliore sarebbe unire le polizie. Gli Stati Uniti inventarono l’Fbi e la Cia quando gli sceriffi non furono più in grado di inseguire i criminali lungo gli Stati. Abbiamo bisogno della stessa cosa, di una polizia federale europea, con poteri sovranazionali e metodi di indagine unificati, e anche di leggi comuni (per esempio sulle intercettazioni). Nello stesso tempo dobbiamo agire fuori dall’Europa, nei centri dai quali si irradia il messaggio politico e ideologico del Califfato, nei luoghi dove grandi vecchi, probabilmente barbuti, impartiscono comandi ai giovani soldati nelle nostre città. Mettiamoci l’anima in pace: il terrorismo non finirà finché ci saranno gli Stati del terrore. Gli attentati di Bruxelles sono stati probabilmente decisi in Siria. La Libia è candidata a diventare la nuova succursale dell’Isis. Con tutta la cautela e il buon senso di questo mondo, bisogna fare qualcosa. Ma i governi europei non hanno ancora deciso che cosa, quando, e come. L’indecisione non è prudenza, è ignavia. Un peccato che Dante mise nell’Antinferno. Pag 10 Parigi Bruxelles di Paolo Giordano Viaggio oltre la frontiera con la sorpresa che la sera vince la normalità Quando sono arrivato a Bruxelles, poco prima del tramonto, la città sembrava avere ripreso il suo normale funzionamento. Circolavano molte macchine della polizia, qualche veicolo dell’esercito, e la gente per le strade non era molta, vero, eppure di gente ce n’era e si comportava come si comporta di solito la gente. Ho perfino visto qualche turista aggirarsi con la guida, una coppia farsi una fotografia davanti a un palazzo storico. Partendo da Parigi, pensavo che non sarei riuscito neppure ad attraversare il confine fra la Francia e il Belgio, che mi sarei trovato bloccato e allora sarei tornato indietro. Invece non ho incontrato nessun ostacolo, né fuori né dentro la città. Ho parcheggiato l’automobile a meno di cinquecento metri dalla stazione di Maelbeek, poi ho camminato fino a dove la polizia lo concedeva. Nella vetrina di un’edicola sull’angolo della Wetstraat era affissa la copertina di Charlie Hebdo che commemorava l’anniversario dall’attentato del 7 gennaio scorso: una copertina nera, un uomo con un kalashnikov in spalla. Mi è sembrata di molto tempo fa, come se nel frattempo avesse avuto inizio un’altra epoca. Forse avrei preferito non riuscire ad arrivare a Bruxelles. Che i telefoni qui non funzionassero, com’era stato detto, che al loro ingresso le macchine venissero scandagliate una a una dai militari. Avrei voluto accorgermi che siamo davvero in grado di bloccare una città intera, uno Stato, quando diventa necessario. Ma sembra che non sia così. Ho sempre interpretato la capacità di riattivarsi in fretta del sistema nel quale viviamo come una manifestazione di forza della nostra civiltà, come la migliore resilienza che possiamo esprimere di fronte agli attentati. Eppure, con l’avanzare di questa guerra in casa, essa inizia ad apparirmi anche come una forma di ostinazione nella quale siamo intrappolati, come una delle cause principali della nostra vulnerabilità. A più di un anno da Charlie Hebdo e a quasi quindici dalle Torri Gemelle, possiamo dire che non sia cambiato molto nelle strategie per garantire la nostra incolumità, nella nostra condotta in generale. A volte negli aeroporti ci fanno togliere le scarpe, ma il bisogno di efficienza e sveltezza ha sempre prevalso, almeno fino a ora. Sul treno che collega Parigi e Milano sono più numerose le occasioni nelle quali i documenti non vengono nemmeno controllati. Gli ingranaggi delle nostre vite non possono tollerare di incepparsi né di rallentare, neanche davanti a questo fronte di distruzione che migra da una città all’altra come un flagello. Così ieri, dopo avere sentito la notizia degli attentati, ho deciso di incepparmi io, volontariamente. D’un tratto avevo la nausea dei miei piccoli piani per la giornata, che di certo sarebbero sopravvissuti anche a questo nuovo attentato, che avrei portato avanti a tutti i costi, caparbiamente, seppure con un sottofondo di spaesamento e pena. Per una volta ho deciso che mi sarei lasciato invadere invece, che mi sarei lasciato paralizzare. Ho comprato un biglietto del treno per Bruxelles, sono arrivato fino alla Gare du Nord per scoprire che i treni di quella tratta erano soppressi. Così ho preso un’auto a noleggio e mi sono messo a guidare contro ogni logica, con la certezza di trovarmi presto o tardi imbottigliato, e soltanto per non concedere ai miei automatismi di prevalere sullo sgomento. Invece sono arrivato a Bruxelles, a un passo dal centro della tragedia, nel tempo esatto previsto dal navigatore satellitare. All’imbocco dell’autostrada non avevo caricato due autostoppisti per paura che mi facessero tardare troppo. Andavano a Lille, su un cartello avevano scritto: «La mamma ci aspetta». Lungo la strada fra Parigi e Bruxelles si attraversano le zone della battaglia della Somme. Prima che tutto questo cominciasse, prima che questo stato di guerra fosse installato in Europa, mi ero sempre domandato come fosse possibile proseguire la vita quotidiana durante i conflitti. È uno dei grandi misteri della guerra: la facilità con cui gli esseri umani ci si abituano. Ci stiamo forse abituando anche noi, troppo in fretta e inesorabilmente? Ed è questo un male oppure un bene? Guidando ascoltavo la radio, prima una radio commerciale francese, in cui lo speaker metteva qua e là delle frasi di circostanza sugli attentati e poi le collegava al lancio di un brano di David Guetta; poi la radio belga, che era più funerea, ma dove la parola ripetuta più spesso era normalité , la normalità, che anche a Bruxelles sarebbe stata ristabilita nel minor tempo possibile, e infatti alcune linee della metropolitana erano già in funzione e il traffico aereo sarebbe presto ripreso. Per la prima volta, attraversando quella campagna piatta verso una meta che mi sembrava sprofondata nell’orrore, mi sono trovato a pensare: ma quale normalità? E chi la desidera, adesso, la normalità? Qualche ora fa dei bambini camminavano al buio dentro i tunnel della metropolitana, e c’erano dei mutilati a terra che aspettavano di essere soccorsi. Però non si dovrebbe dire. È un pensiero disfattista e il disfattismo, in guerra, è la peggiore delle diserzioni. Non intendo suggerire che la giornata di Bruxelles di ieri non abbia stravolto gli animi di tutti, ovviamente lo ha fatto, ma purtroppo lo ha fatto già un po’ meno della notte di Parigi. Anche i messaggi di partecipazione sulla Rete erano più scarichi, per lo più ricopiavano formule già usate, cambiando solo il nome della città. Si possono accampare mille distinzioni a questo proposito, sulle modalità, sulle simbologie in gioco, perfino sul numero di vittime, ma resta l’impressione che le bombe di ieri ci abbiano fatti scoprire un po’ più assuefatti di come ci credevamo. E di sicuro un po’ più nudi e istupiditi, perché nei mesi scorsi non siamo riusciti a cambiare nulla, neppure nella Bruxelles che ormai tutti sapevamo essere la succursale del terrorismo islamico. Il nostro funzionamento è la nostra salvezza. Il nostro funzionamento è anche il nostro delirio. Pag 11 Il cuore ferito della città simbolo diventata la capitale di tutta l’Europa di Federico Fubini Non è solo la sede della burocrazia, ma il luogo in cui si decidono i destini di milioni di persone Nessuno affiderebbe la sicurezza di Washington alla polizia del Distretto di Columbia o ai servizi segreti della Virginia. Nessuno sarebbe sfiorato dall’idea di proteggere così la Casa Bianca o il Congresso Usa, eppure è esattamente quanto accade a Bruxelles. La capitale dell’Unione Europea e sede dell’Alleanza atlantica, la città al centro di un sistema da 508 milioni di abitanti e di un’economia vasta come quella degli Stati Uniti, è protetta come un vecchio insediamento di campagna. Le sue difese dicono tutto della riluttanza dell’Europa ad accettare il ruolo politico che, perversamente, persino gli islamisti gli hanno riconosciuto attraverso il sangue versato ieri. A Bruxelles si decide in questi mesi il futuro di milioni di profughi siriani e quello della seconda moneta del mondo. Angela Merkel vi si gioca la cancelleria di Berlino, e il suo posto nei libri di storia. Nel frattempo la sicurezza è nelle mani delle autorità belghe e della Région BruxellesCapitale. Questo significa che non può neanche contare su un corpo di polizia unificato in città operano sei distinte forze, su base rionale e clientelare - né su un servizio segreto paragonabile anche solo a quello di una media potenza occidentale. Dopo gli attacchi a Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015, il governo belga scoprì che gli mancavano 150 su 750 agenti dell’intelligence; da allora ne ha reclutati 42 ma, scrive Politico, resteranno in addestramento per almeno due anni. Forse il problema è che Bruxelles è troppe cose in una, riunisce troppe contraddizioni in uno spazio più piccolo di Milano. La popolazione araba è iniziata ad arrivare negli anni 50 dal Marocco, dalla Tunisia e dall’Algeria assieme a quella italiana, turca o portoghese: tutti reclutati nei loro Paesi per le miniere o le acciaierie della Vallonia. Oggi sono di religione musulmana 300 mila bruxellesi, poco più di un quarto degli abitanti della capitale; dal 2013 la Valonia, la regione francofona, ha rinominato la sosta natalizia nelle scuole «vacanze d’inverno» per non urtare nessuna suscettibilità. La grande maggioranza dei musulmani coesiste in pace con le altre comunità. C’è poi una minoranza ambigua abbastanza ampia da aver garantito per mesi la copertura del terrorista Salah Abdeslam a Molenbeek, a mezz’ora di bicicletta dalla Commissione Ue. Lì accanto, al mercato degli scannatoi di Anderlecht, si fatica a riconoscere una sola persona di origine europea in una folla da stadio. A Bruxelles si cammina per pochi isolati, e può cambiare la lingua ammessa negli uffici pubblici (dal francese al fiammingo). Ancora più spesso in una passeggiata di cinque minuti cambiano gli odori e gli abiti dei passanti, dalle cravatte firmate, alle tuniche salafite, ai copricapo tribali del Congo. La Tour Madou, da dove i funzionari della Concorrenza della Commissione Ue decidono il futuro delle banche italiane, all’interno è perfettamente asettica. Pratica e disadorna in perfetto stile eurocratico. Fuori invece è avvolta dalla popolazione musulmana di Saint Josse, demograficamente debordante e sempre più spesso radicalizzata nei suoi giovani in cerca di identità. Dall’altra parte del quartiere europeo, alle spalle del nuovo e enorme Parlamento, le vie principali di Ixelles sono piene di caffé di gusto francese e di giovani laureati da ogni angolo d’Europa. Ma le piccole traverse sono disseminate di obsoleti Internet café dove figli di immigrati marocchini o bengalesi passano le notti sempre sugli stessi siti web in arabo. Bruxelles è troppo complessa, importante e simbolica per considerare quello di ieri un attacco solamente al Belgio. Persino i nostri nemici, tragicamente, dichiarano con un atto di guerra che questa è la capitale politica d’Europa e per i cittadini come per i governi è tempo di trattarla come tale. Bruxelles si era preparata per mesi a questa giornata. Sotto Natale il governo belga aveva persino imposto un lungo coprifuoco; eppure ieri, più di un’ora dopo la prima strage in aeroporto, nessuno si era curato di fermare le metropolitane per prevenire il secondo colpo. Lasciare la sicurezza di Bruxelles al governo belga e alle sue polizie rionali è come pretendere che il governo greco e i pescatori di Lesbo gestiscano da soli le ondate dei rifugiati. Serve una forza di sicurezza europea, lungo i confini e anche nel centro nevralgico dell’Unione. I terroristi che hanno colpito il cuore dell’Unione sembrano capire queste contraddizioni più di noi stessi europei. Facendo esplodere le bombe nell’aeroporto di Zaventem e nel metrò a due passi dalla Commissione e dal Paramento Ue trattano Bruxelles - nel loro modo orrendo - da capitale degli Stati uniti d’Europa. Si vedrà presto se la risposta sarà a questa altezza. O se dopo le lacrime prevarranno ancora le fughe illusorie dietro i muri o le piccole frontiere, dove proprio i nostri nemici vorrebbero rinchiuderci. Pag 16 Lo psicoanalista Massimo Ammaniti: “L’era dell’ansia permanente, il loro obiettivo è portarci alla paralisi” di Paolo Conti Professor Massimo Ammaniti, famoso psicoanalista e psicopatologo: qual è il pericolo che corre l’inconscio collettivo dell’Occidente dopo questo nuovo attacco del terrorismo nel cuore dell’Europa? «Il pericolo più ovvio è lo stesso osservato dagli esperti di psicoanalisi negli Stati Uniti dopo l’11 settembre: l’istinto di chiudersi in casa, il rifiutarsi di uscire per guardare ossessivamente le notizie in tv, l’isolarsi dalla vita quotidiana. Il fenomeno, studiato con attenzione, riguardò migliaia di persone. Si cade in una sorta di “evitamento passivo”, si evita cioè la ripresa della normalità e si lascia spazio alla paura e all’ansia...». Sembra il progetto del terrorismo così come lo stiamo conoscendo. «Non c’è dubbio. Il progetto dell’Isis è la paralisi dell’Occidente. Il piano è convincerlo della sua impotenza. Una vera guerra psicologica. L’obiettivo è bloccare l’economia che è alla base del nostro modello: in questo caso gli spostamenti legati agli affari, al turismo, allo studio, alla nostra vita quotidiana. L’aeroporto, la metropolitana». Colpiscono i tempi, progettati in perfetto automatismo: l’arresto di Salah Abdeslam proprio a Bruxelles, immediatamente dopo l’atroce attentato. «Anche qui il messaggio è trasparente. Avete compiuto mille sforzi per arrestare Salah, avete mobilitato tutte le polizie d’Europa, lo avete cercato ovunque, finalmente lo avete trovato e tirate un sospiro di sollievo con l’illusione di averci fermati... Invece ecco qui la dimostrazione che ci siamo. Tutto questo suscita un’ondata di paura, direi soprattutto di ansia molto forte, di terrore». Lei distingue nettamente tra paura e ansia. In che senso? «La paura è un’emozione motivata, nasce come reazione da una minaccia reale. Le bombe di Bruxelles hanno provocato una inevitabile paura collettiva. Ma poi, se non si controlla questa paura, si sfocia nell’ansia e nel terrore. Ovvero quella condizione in cui il timore è meno focalizzato su un dato oggettivo di realtà, e si allarga all’idea di un pericolo vasto, indistinto, non circoscritto. Quindi si vive in una condizione costante di allarme e di preoccupazione». Quali sono i meccanismi “tecnici” alla base di questo? «Il nostro cervello è una macchina ben organizzata. L’ansia è prodotta dall’amigdala, una sorta di relè che scatta in condizioni di pericolo. Ed è la parte più “antica” del cervello umano rispetto all’evoluzione. Poi ci sono le parti più “recenti” destinate alla capacità di autocontrollo e di programmazione, cioè le zone frontali e prefrontali. In casi di forte stress emotivo come questo si crea uno squilibrio “a favore” dell’ansia. L’importante è riuscire a controllare tutto questo». Si dice sempre che il terrorismo si batte proseguendo il nostro stile di vita, difendendo il modello occidentale di convivenza e anche economico. Diventa sempre più difficile farlo. Come si batte l’ansia? «Non è facile, ma è possibile. I neurobiologi parlano spesso della fisiologia dell’ansia e affrontano il problema di come trovare forme “pro-attive” per fronteggiarla, per non lasciarsi divorare da reazioni di passività, di rinuncia alla vita quotidiana, e qui torniamo al progetto dell’Isis. La migliore arma è fermarsi, guardare se stessi, centrarsi sulla propria personalità e ricorrere anche a qualche esercizio noto, per esempio, grazie allo yoga. Ovvero respirare profondamente, concentrarsi, dominare le ondate più emotive e irrazionali. Se di fronte a un pericolo io resto passivo e inerte, sarò in sua balìa. Invece se mi attivo, decido di fronteggiare l’ansia e di controllare le mie scelte, il pericolo resta certo, sta lì, ma diventa più chiaro il come fronteggiarlo. Penso sia fondamentale, a livello personale ma soprattutto a livello collettivo, riuscire a costruire strategie per contenere l’ansia. Di fronte a un terrorismo che costituirà purtroppo una futura presenza costante ci dobbiamo equipaggiare sia sul piano dell’intelligence e della tutela della nostra sicurezza che sul piano psicologico per non soccombere all’ansia». E quale potrebbe essere un modello ideale di riferimento? «Io ho in mente un’immagine legata alla Seconda guerra mondiale quando la Gran Bretagna guidata da Winston Churchill riuscì a fronteggiare la Germania nazista difendendo i propri valori. L’immagine riguarda il bombardamento di una biblioteca inglese e ci sono persone che, tra le macerie, cercano libri per leggerli. È una bellissima rappresentazione di ciò che si dovrebbe fare oggi» In certi frangenti, si teme meno per se stessi e più per le persone care: figli, coniugi, amici. Per quale meccanismo? «In una condizione di pericolo, tu sai bene dove sei e cosa puoi fare. Immaginare le persone care in un altrove indistinto, scatena paure profonde. Soprattutto quando si tratta di figli: li si pensa esposti per strada, a scuola o all’università, in viaggio. Ed è più che umano temere per loro». Pag 17 Lo storico Gilles Kepel: “Colpiscono in Belgio perché ormai somiglia a uno Stato fallito” di Lorenzo Cremonesi «Non è affatto strano che Isis, o Daesh come lo chiamano in arabo, colpisca in Belgio. I terroristi si muovono particolarmente bene dove le strutture statali sono deboli. Lo abbiamo visto in Iraq e Siria: Isis prospera nei cosiddetti Stati falliti. E quello belga è uno di questi. La questione linguistica lacera la società belga. Lo scontro tra fiamminghi e valloni francofoni ha ormai raggiunto livelli da guerra civile strisciante. Siamo arrivati al punto che le due polizie non si parlano tra loro. Analisti e politici europei continuano ad avocare maggiore cooperazione tra le forze di sicurezza dei Paesi membri, senza rendersi conto che in Belgio questa cooperazione non esiste neppure tra quartieri di lingua diversa nella stessa capitale Bruxelles. In una situazione di questo genere gli estremisti islamici operano come pesci nell’acqua». Sono diversi mesi che il noto storico e politologo francese Gilles Kepel ha iniziato a esaminare il fenomeno jihadista in Belgio. Dopo i suoi studi pionieristici sul fenomeno qaedista negli anni Ottanta in Medio Oriente, da tempo ormai si occupa del radicalismo islamico in Europa. Pochi giorni fa è stato persino minacciato da alcuni giovani arabi del quartiere di Molenbeek mentre riprendeva un blitz della polizia locale. A suo dire le banlieue francesi ormai hanno perso la loro unicità di marginalizzazione violenta, in Belgio si trova anche di peggio e le sue conclusioni sono allarmanti. «Inevitabilmente ci saranno altri attentati. Nel caos sociale belga i terroristi sono ormai una realtà profondamente radicata sul territorio e trovano sostegno in piccole comunità islamiche omogenee e coese. In luoghi come Molenbeek le attività criminali del traffico della droga sono legate ai gruppi del jihadismo, banditi comuni ed estremismo religioso spesso vanno a braccetto», ci ha detto ieri sera per telefono da Parigi. Paradossale no? Il Paese che ospita alcune delle istituzioni comunitarie europee più importanti è anche il più fragile. «Paradossale e anche molto pericoloso. Il Belgio è oggi il ventre molle dell’Europa, che per molti aspetti ne sintetizza le debolezze strutturali. Non a caso Abu Musab al Suri, il noto reclutatore-ideologo di origine siriana che teorizza il terrorismo di piccole cellule jihadiste completamente separate le une dalle altre, da tempo ormai guarda a Bruxelles come a un fantastico campo di battaglia. È facile muoversi nella città. La presenza di tanti stranieri rende più semplice per chiunque viaggiare indisturbato, i controlli sono minimi e gli obiettivi da colpire ben visibili». Questi attentati vanno messi in connessione con l’arresto venerdì di Salah Abdeslam, l’ultimo sopravvissuto degli attentati a Parigi del 13 novembre? «Direi di sì. Anche se è ovvio che i terroristi avevano già pronte azioni del genere, si erano preparati e addestrati per compierle. Avevano l’esplosivo, i detonatori, avevano individuato i luoghi da colpire. A dettare il loro calendario e accelerare i tempi è stata però la necessità di rispondere con violenza dura e su larga scala all’arresto di Abdeslam». Che significa? «Per Isis il comportamento di Abdeslam è stata una sconfitta totale. Doveva morire assieme ai suoi compagni. Avrebbe dovuto farsi saltare in aria, morire da martire della guerra santa uccidendo il massimo numero possibile di infedeli. Invece all’ultimo minuto ha avuto paura, si è tirato indietro, è stato un codardo e un vigliacco clamoroso. È scappato ed è tornato a cercare rifugio e conforto sotto le gonne e la protezione della mamma nella sua casa natale a Molenbeek. Addirittura sta collaborando con gli inquisitori. L’immagine di Isis ne ha sofferto in modo notevole. È insopportabile che i suoi supposti eroi abbiano paura. La forza della loro propaganda sta anche nell’aureola di coraggio e invincibilità che trasmettono sulla Rete dei social network». Era così importante per Isis rilanciare la propria immagine? «Assolutamente sì. Oltretutto Isis è in difficoltà da dopo gli attentati del 13 novembre. Allora tra le vittime c’erano anche giovani arabi, giovani musulmani. E la cosa è stata criticata anche nei circoli estremisti islamici. Un conto è infatti colpire degli obbiettivi precisi che offendono l’Islam, come poteva essere Charlie Hebdo . E un altro invece sparare nel mucchio. Isis oggi ha difficoltà nel trovare reclute. Non sa come parlare alle masse musulmane. Già Al Qaeda aveva avuto difficoltà simili. Dunque questi ultimi attentati possono anche essere visti come un tentativo per rilanciare la posta. Isis mira al terrore per il terrore, deve lavare l’onta del tradimento di Abdeslam». In Italia cresce l’apprensione. È giustificata? «Il fatto che in Italia non vi siano ancora stati attentati maggiori significa molto poco. Tutte le grandi città europee oggi sono potenzialmente a rischio. Roma in particolare è carica di simboli e Isis ha già annunciato che la colpirà. Resta necessaria la massima vigilanza». LA REPUBBLICA Pag 1 Il pericolo dell’abitudine di Mario Calabresi È coraggio o rassegnazione? È capacità di resistere alla paura o passiva accettazione di un destino annunciato? L'esplosione alla fermata della metropolitana di Maelbeek è avvenuta da pochi minuti, una moto della polizia si è appena messa di traverso di fronte all'ingresso della Commissione europea per cercare di bloccare il fiume d'auto che all'ora di punta intasa Rue de la Loi, arriva la prima ambulanza, poi un furgone dei vigili del fuoco e due auto della polizia, la folla si ferma e scruta i telefoni. Nessuno qui sopra ha sentito il rumore di cosa è accaduto lì sotto, nessuno ha idea delle grida, dei corpi dilaniati, dei feriti. Ma sugli schermi degli smartphone la notizia fa presto ad arrivare: c'è chi indica l'ingresso della stazione, chi accelera il passo, chi si mette a mandare messaggi rassicuranti, ma nessuno pensa di correre, nessuno grida e i funzionari europei entrano regolarmente nei loro palazzi. Mezz'ora dopo non ci sarà più nessuno per strada, completamente svuotate le arterie principali della capitale europea, solo militari in assetto da guerra, uomini delle forze speciali con il volto coperto, artificieri e ambulanze. Nel silenzio del traffico, nell'assenza dei clacson e delle voci si sentono solo le sirene. Centinaia di sirene a scandire l'angoscia, a convincere chi non lo aveva ancora fatto ad abbassare la saracinesca, a chiudere bar, ristoranti e negozi. Nessuna scena di panico. Eppure i feriti sono sdraiati sul marciapiede e la hall dell'hotel Thon si sta riempiendo di corpi martoriati. Nel palazzo della Commissione, a 400 metri di distanza dall'esplosione che ha fatto almeno 20 morti, le riunioni continuano regolari, tutti scrutano il telefono e si alzano per guardare dalla finestra ma senza reazioni visibili. Poi i Palazzi vengono sigillati e gli incontri sospesi, chi è dentro non può più uscire, chi è fuori è pregato di allontanarsi velocemente. Il cordone dei militari si allarga sempre di più, la zona di sicurezza si gonfia e non si capisce se serve a proteggere chi è ancora dentro o ad evitare pericoli a chi è rimasto fuori. Nessuno parla per strada, anche perché la rete telefonica dei cellulari è saltata, persone mute mandano messaggi e stanno immerse nei piccoli schermi cercando risposte. Poi le sirene si diradano: non ci sono più feriti da trasportare, sono stati usati anche i pullman per sfollare chi è in stato di shock, restano solo le pale degli elicotteri. "Sapevamo tutti che doveva arrivare: doveva succedere, è successo", è l'unica risposta che raccolgo da chi si allontana camminando a testa bassa. Sono 15 anni che, quasi senza accorgercene, facciamo i conti con il terrorismo islamico. È il mondo dopo l'11 settembre: ci siamo abituati a controlli di ogni genere, ad avere la pazienza di togliere scarpe, cinture, di consegnare accendini e liquidi chiusi in piccole buste, di fare la fila e mostrare i documenti. Hanno già colpito tutto quello che costruisce le nostre esistenze: i treni a Madrid, gli autobus e le metropolitane a Londra, le sinagoghe, le scuole, i supermercati kosher, i teatri, gli stadi, i ristoranti e un giornale satirico a Parigi, musei, spiagge, resort e aerei di turisti dall'altra parte del Mediterraneo dove sognavamo il mare d'inverno. Siamo ormai anche stanchi di cercare simbolismi nella scelta degli obiettivi, di ripeterci che il marchio di fabbrica è l'attacco multiplo, abbiamo scoperto che in Europa colpiscono ragazzi cresciuti in casa nostra, che trovano nella violenza e nel terrore un senso alle loro esistenze perdute. La domanda che mi pone amaro un francese che lavora in una compagnia americana è semplice: "Perché i servizi di sicurezza non sono riusciti a fermarli? Quattro mesi di paure e quattro mesi di speranze, paura che attaccassero, speranza che li trovassero. Invece hanno fatto come hanno voluto, hanno colpito la zona delle partenze all'aeroporto e la fermata della metropolitana della Commissione europea". La gente cerca di tornare a casa, vuole andare a prendere i bambini a scuola. Ai genitori al telefono dicono di stare tranquilli che i loro figli sono al sicuro nelle classi, ma se ti presenti al portone ti consegnano subito il bambino, sperando di chiudere presto. Ci sono gli ostinati della normalità: al bordo della zona chiusa dai cordoni di polizia, nel Parco del Cinquantenario intorno al centro islamico dove poco prima dell'una è in corso la preghiera e si diffonde la litania del muezzin, in molti fanno footing con le cuffiette nelle orecchie. Mi sembra il loro modo di correre via, di scappare dall'angoscia, dal terrore. Di ripetere anche oggi un'abitudine quotidiana per sopravvivere, per convincersi che nulla è cambiato. Lunedì sera nel viaggio dall'aeroporto avevo chiesto al tassista che clima ci fosse in città, se l'arresto di Salah avesse fatto tirare un sospiro di sollievo o aumentato la paura. Mi aveva risposto in modo laconico e asciutto: "Accadrà anche qui, ma con le stesse possibilità che accada di nuovo a Londra o Parigi. Dobbiamo abituarci a vivere così. Il problema però non è il terrorismo che colpirà pochi sfortunati, ma la crisi economica che ci piega tutti da anni e che sta scivolando in secondo piano". Il mondo fuori è sconvolto, si informa, manda messaggi di cordoglio, si infervora, commenta e ragiona sul fatto che i terroristi hanno colpito il cuore dell'Europa, la capitale. Qui non riesco a trovare questa convinzione, nonostante la rivendicazione dell'Is, nonostante i luoghi scelti non siano casuali. Si pensa che questa sia una nuova tappa di una via crucis che percorre il continente, sia l'emergere di un cancro che abbiamo lasciato crescere dentro i nostri paesi. Raggiungo un diplomatico di carriera che ha visto conflitti di ogni genere e lui allarga le braccia: "La pentola era in ebollizione da tempo, sentivamo il coperchio ballare, era tutto chiaro e presente ma speravamo che si riuscisse a fermarli in tempo. Ma quando ci siamo resi conto che Salah era rifugiato a poche centinaia di metri dalla casa dei suoi genitori abbiamo capito che aveva acqua in cui nuotare, una rete di protezioni e complicità". Tutti i nascondigli del terrorista fuggito da Parigi sono in uno spicchio di città che è stato ribattezzato il croissant pauvre, la mezzaluna della povertà che ha la forma di un croissant e taglia il centro di Bruxelles e in cui la disoccupazione giovanile raggiunge il 60 per cento. Gli occhi erano tutti puntati su questa terra perduta. "Viviamo dentro l'attentato da quattro mesi, ogni giorno - mi racconta Christophe Berti, direttore del quotidiano Le Soir - ci chiedevamo: "Oggi Salah uscirà dal suo rifugio per colpirci?". Lo sapevamo, eravamo preparati. Per tre giorni a novembre l'allarme è stato massimo, scuole chiuse, teatri e cinema spenti, metropolitana ferma, ma poi la gente ha cominciato a dire che non potevamo vivere così, che si deve respirare, andare avanti. E ci siamo messi a vivere in modo inconsapevole, sapevamo ma fingevamo che tutto fosse normale. Gli attentati non sono il punto di arrivo di un incubo, non sono la fine di una storia ma l'inizio. L'inizio di un mondo in cui dobbiamo vivere facendo attenzione a tutto e sospettando di tutti". Oggi le scuole saranno aperte, dopo gli attentati di Parigi le avevano chiuse. Sembra un controsenso e di nuovo ci porta alla domanda iniziale: coraggio o rassegnazione? Si vuole rispondere al terrore con un messaggio forte di normalità o la barca è alla deriva e nessuno sa più dove andare? Dopo gli attentati di novembre in Francia il governo aveva deciso 34 misure eccezionali per combattere il terrorismo, solo 13 sono in vigore, le altre 21 sono in attesa. Ora senza discussioni, ma automaticamente, si attende che aumentino intercettazioni, metodi speciali, arresto per chi torna dalla Siria, braccialetto elettronico per chi è ritenuto una minaccia, l'isolamento dei detenuti pericolosi e lo smantellamento dei luoghi di culto dove si predica la jihad. Nella piazza della Borsa si tenta timidamente di ripetere la mobilitazione dei parigini, fiori e lumini per fermarsi a pensare, pregare, per non sentirsi soli. Qualcuno porta dei gessetti colorati e molti cominciano a scrivere frasi di pace sull'asfalto. Ma sono soprattutto turisti, le scritte sono in spagnolo, in greco, in inglese. Ci sono mazzi di tulipani e chi offre "abbracci gratis", ma alle nove di sera sono di più i giornalisti, i fotografi e le telecamere rispetto ai belgi. Non è scattata l'onda emotiva e non ci sono "Je suis..." a farci sentire tutti bruxellesi. Forse nell'Europa dei populismi, dei no euro, della guerra alle burocrazie comunitarie non scatta l'identificazione con una capitale poco amata. Le grida disperate di una bambina in fuga nel tunnel della metropolitana, che le televisioni ripropongono fino a tarda notte, dovrebbero spingerci a rispondere al dilemma: dobbiamo trovare il coraggio di affrontare la minaccia, non rassegnarci a sperare che anche la prossima volta non tocchi a noi. Dobbiamo ricordarci cosa significhi essere cittadini, persone responsabili che non perdono la testa, non perdono la dignità ma non abbassano gli occhi per non vedere cosa succede 300 metri più in là. Pag 30 Un antidoto alla paura di Alberto Melloni Forse il ritornello della propaganda islamista - quello che promette a chi muore nella battaglia per Dio un cielo triste sessista, dove le donne sono un premio al guerriero - è scritto così proprio per ingannare chi adora in sé la Bestia della guerra. Forse, dando per scontato che chi si batte per l'inerme abbia un premio degno della sua fede, per chi ammazza l'inerme ci deve essere un inferno senza fiamme: ma una lunga eternità claustrofobica, passata in compagnia di assassini e bombaroli, l'uno condannato a temere per sempre la vigliaccheria dell' altro. Una affollata e maleodorante metropolitana, con i colpevoli di piazza Fontana, gli attentatori dei bus e delle sinagoghe, i bestemmiatori armati del Dio di Abramo. Tutti immobili in una grande paura. Delitti come quelli di ieri tentano di far finire anche noi, da vivi, in questo inferno di paura. E per sfuggirvi non basta un atto volontaristico: come spiegava l'ultimo numero di Le Monde des religions (uno strumento che l'Italia non ha...) "il Male nel nome di Dio" si combatte col sapere. Senza un sapere che divarichi le paure e le decisioni, saranno le paure a prendere le decisioni e tutte le decisioni produrranno paure. Di questo sapere l'Europa colpita a Bruxelles ne ha poco. Tentata dalle identità nazional-muscolari ad Est e dalla retorica dei valeurs républicaines ad Ovest, essa manca di una conoscenza storico-teologica che attribuisca alla ricerca (non alla cultura genericamente intesa) un compito civile di prima linea e lo consegni agli studi, agli insegnanti, alle leggi, come antidoti alla paura. Altrimenti la paura ci impedirà di guardare alla nostra storia. L'Europa che conosciamo è uscita dalle guerre di religione fra cristiani attraverso un percorso storico-teologico di cui ammiriamo oggi i risultati sbalorditivi, ai quali resiste solo la sacca di violenza, alimentata da opposte mitologie, fra ortodossi e greco-cattolici in Ucraina. Quel percorso ha prodotto un terreno politicoculturale da cui la fede non è uscita indebolita, ma migliore. Ed è questa fiducia nel dialogo infra-religioso e fra fedi e modernità che va incoraggiata anche politicamente, come e anzi più delle cortesie fra capi di fedi, attraverso tutti gli strumenti a disposizione. Se non si combatte la paura, la paura ci impedirà di vedere che la pace religiosa europea non ha bisogno di astratte formule di integrazione o di improponibili discriminazioni, ma di sapere incarnato negli insegnanti e nella scuola, come s'è proposta di fare la riforma Renzi-Giannini. Se no si continueranno a fare errori pacchiani come quello di chiamare "radicali" gli omuncoli sanguinari, che usano il Corano come fosse cocaina e con gli stessi effetti, e di degradare a "moderati" coloro che pregano il Dio clemente e misericordioso per assomigliargli, e vengono esauditi. La paura finirà per occultare problemi vistosissimi e facili. Tutti sanno, ad esempio, che il carcere è un luogo di indottrinamento e di reclutamento per il terrorismo. Da noi gli ostacoli che si frappongono alla stipula di un'intesa con gli islam impediscono di far entrare qualcuno in prigione per guidare la preghiera del venerdì. Gli strumenti ci sarebbero. La proposta di creare dei master per dar modo ad educatori musulmani di aver titolo per insegnare la grande etica e la grande filosofia morale islamica nella preghiera del venerdì gira da mesi fra molti organi senza che si trovi la quadra. E venerdì prossimo qualche migliaio di musulmani nelle carceri italiane si sentiranno spiegare l'attentato di Bruxelles da un detenuto, che non è detto sia in grado di spiegare che i vigliacchi bombaroli sono i nemici della fede, perché seminano paura. Se però si uscisse dalla paura, come raccomandavano ieri sia Renzi sia Alfano, ci si renderebbe conto che questo è il momento di pensare una politica del pluralismo religioso e di fare una legge sulla libertà religiosa che l'Italia non ha. Una legge che non lasci spazio a quella cultura della rupture che spinge gli aspiranti assassini a presentarsi come un islam "vero" e trova nelle forze razziste un insperato alleato. Ma una legge che stabilisca senza infingimenti le aggravanti di quei reati che vanno perseguiti con durezza per proteggere una società pluralista e aperta. Una società nella quale l'antico sogno italiano della pace religiosa consolidi, con la forza del sapere, la fraternità fra i cristiani e la conoscenza del percorso che ha reso i popoli delle guerre di religione la terra dei diritti umani. Una società che possa fecondare col polline del sapere la riconciliazione dentro l'islam, restituirgli una dignità teologica perduta da oltre un secolo, trasformare le frustrazioni patogene in ambizioni sociali. IL GIORNALE La Pasqua ci riporti alle radici cristiane di Renato Farina I terroristi, programmando la morte di uomini e donne proprio adesso, avevano pensato alla Settimana Santa? Questi guerrieri infami del Califfo hanno voluto che il loro attacco al cuore dell' Europa coincidesse in tempistica con il cuore del cristianesimo? Se sì, probabilmente sono stati gli unici a ricordarselo, perché in Europa il cristianesimo non esiste proprio. È stato strappato via dalle coscienze dei popoli, che se lo sono fatto portare via dai burocrati e dai giuristi, dai politici ma anche dai cattolici dell'immagine alpasso-coi-tempi. L'Europa ha fatto di tutto per svellere le radici di se stessa e chiudere con un tombino di indifferenza la sorgente dove potersi abbeverare di fronte alle sfide del nemico, che oggi sventola la bandiera nera dell'islam totalitario. Ha rifiutato con un gesto simbolico di potenza devastante la memoria della propria origine. Ha detto di no al riconoscimento del cristianesimo, e prima del giudaismo, come sostanza e scopo del suo esistere. Così si è condannata alla osteoporosi della sua spina dorsale. L'intellighenzia progressista e anche quella di tipo massonico conservatore hanno brindato. In realtà, senza saperlo, hanno alzato il calice in anticipo sul proprio funerale. L'illuminismo si regge sul Vangelo, testo fondativo anche dei valori volteriani e laici. Senza il cristianesimo non esiste il concetto di persona, che infatti l'islam ignora. È stata un' operazione di negazionismo sciagurato che ora ci fa essere in balia, assai più dell'America, dei colpi dei jihadisti. Perché la nostra corazza interiore è diventata di carta velina, e le nostre convinzioni un blablà di libertà e di tolleranza senza nerbo e senza pietre angolari. Così la tolleranza è diventata la maschera sotto cui c'è il niente. Niente Pasqua, niente Occidente, né Oriente, ma solo prima la noia e poi la tomba. Eppure senza memoria di chi siamo, da dove siamo venuti, di quella croce e della tomba vuota, moriremo tutti. Da dove viene la capacità di resistere al male? Dall'organizzazione certo, dalla professionalità di forze dell'ordine e servizi segreti, dal benessere che dovrebbe asciugare il disagio dove nuotano i reclutatori di terroristi. Tutto vero. Ma senza quella cosa impalpabile ma più reale delle ossa, che è la forza spirituale, «loro» vinceranno. Anzi, noi perderemo perché abbiamo già perso noi stessi. Senza coltivare con delicatezza e severità in noi e nei nostri figli e nipoti quella che la cultura greca, latina e poi cristiana chiama anima, non ci sarà partita. Ci potranno essere strategie meravigliosamente repressive o, all'opposto, stupidamente buoniste, ma non avremo gli occhi di tigre di coloro che amano qualcosa che è più grande dei loro piccoli e grandi interessi di denaro, di potere e di piacere, e il cui nome ciascuno può cercare nel crepuscolo della coscienza, e che per i nostri popoli europei per due millenni somigliava all'alba della Pasqua. Occorre oggi più che mai, accanto ai doverosi appelli alla coesione europea e alle alleanze di civiltà, si dica anche chi siamo, chi sono nostro padre è nostra madre. Basta che l'Europa che ha scelto come capitale Strasburgo guardi a quale significato sta appesa la civiltà e la cultura, la vita stessa di quella città travolta da guerre intraeuropee ma sempre risorta: ed è la sua cattedrale, sono le croci che cospargono campagne e paesi, metropoli e borghi del Continente dalla Lapponia a Creta e Malta. È la croce. Non simbolo di un supplizio ma di Uno che ci ha amato ed è risorto. Si può credere o no, ma se al pieno spirituale orrendo dell'islam nella sua fase assassina non sarà il relativismo malinconico o gaudente a darci la forza di resistere, che fascino ha? Ha il sapore snobistico e fintamente esistenzialista dell'ultima sigaretta. C'è bisogno di una ripresa drammatica della tradizione, non come museo di valori da lucidare, ma che grazie a testimoni credibili rifiorisca come per miracolo. In fondo senza miracoli che vita sarebbe? AVVENIRE Pag 1 Ciò che noi possiamo fare di Marco Tarquinio La risposta al male che noi conosciamo Ciò che possono fare i terroristi jihadisti ormai lo sappiamo bene: possono odiare a morte, possono covare a lungo i loro progetti distruttivi, possono uccidere e possono uccidersi (anche se non tutti, come stiamo scoprendo, alla fine si fanno esplodere). Insomma e per principio, i sicari del califfo nero di Raqqa come i loro predecessori (e concorrenti) di al-Qaeda possono fare del male. Terribilmente. Perché sono nemici senza onore, soldati senza divisa, uomini e donne senza umanità, credenti senza Dio. Sì, tutto questo ormai lo sappiamo bene. Così come sappiamo che la vulnerabilità delle nostre città e delle nostre società 'aperte' è strutturale, quasi inevitabile se il mondo della libertà vuol rimanere tale, anzi intende diventare più responsabilmente se stesso, senza rassegnarsi ad ammainare la propria bandiera al cospetto degli atroci diktat degli strateghi dell’orrore. Proprio per questo davanti al sangue innocente che ieri è stato di nuovo versato dai fanatici del Daesh, stavolta a Bruxelles, nel cuore – o nel ventre molle – dell’Europa che si definisce «unita», è tempo di cominciare a chiedersi, con più decisione e senza presunzione, che cosa possiamo fare, noi, europei di ogni fede e di ogni visione filosofica e politica, per rispondere alla sfida del terrore e per fermare e, poco a poco, svuotare la minaccia che incalza la nostra quotidianità, attaccando i nostri luoghi di vita e di lavoro. Non sono solo i cristiani ad avere netta consapevolezza dei limiti di ogni intenzione e azione umana. E non sono soli nemmeno nel dare giusto valore alla forza di una stessa misura (etica e legale) accettata come bene comune. Chi ragiona così si rende facilmente conto di una basilare verità: i terroristi jihadisti si possono e si debbono affrontare con il corale ricorso ad adeguate misure di sicurezza, cioè ad azioni di polizia e di intelligence rigorose ed efficaci, ma la loro «violenza cieca» – secondo la dolente parola di papa Francesco – eppure miratissima non potrà mai essere neutralizzata se ci si limiterà solo a questo. Se cioè, come ha ricordato ieri il Papa stesso e come sottolineano molte voci religiose, a cominciare da quelle di diversi nostri vescovi, non si sarà capaci di netta e concreta rinuncia alla logica dell’odio, resistendo alla tentazione di operare scelte di «chiusura» che proprio da quella logica discendono. I muri non fermano gli scorpioni: offrono loro riparo, e condizioni ideali per allevare nidiate. Fuor di metafora: i politici più seriamente realisti – e fa piacere registrare che il presidente del Consiglio italiano Renzi si sia schierato con determinazione tra questi – vedono e dicono con chiarezza che nessuna barriera convenzionale potrà mai garantire la sicurezza degli europei. E che non sarà certo la decisione di trasformare 'a tavolino' le vittime della guerra in Siria, in Iraq e in Afghanistan in nemici dell’ordine pubblico a darci tranquillità e, ancor meno, a salvarci l’anima. È invece indispensabile lo strumento di una cultura condivisa, fondata sui valori saldi e riconoscibili della intangibile dignità di ogni persona umana e di tutto ciò che ne discende, comunicata nella scuola – per questo è giustissimo che, oggi, nel Belgio in lutto nazionale, le scuole siano tutte ostinatamente aperte – e attraverso reti sociali che contribuiscano a un’autentica integrazione dei nuovi cittadini immigrati e dei vecchi europei marginalizzati. Lo sappiamo, qualcuno pensa e grida che questa sia un’idea velleitaria e buonista, un’«arma spuntata» (o addirittura controproducente) nella civile battaglia per costruire e garantire la convivenza nella differenza, ma è vero esattamente il contrario: solo questa base comune forte è l’antidoto al sospetto, allo scontro e alla sopraffazione. Senza di essa si creano le condizioni dell’incomunicabilità, dell’antagonismo settario, delle ghettizzazioni, delle strumentalizzazioni, della disgregazione e infine dell’assassinio pianificato. Cioè della guerra, in tutte le sue forme. Questo è il nemico che possiamo e dobbiamo sconfiggere insieme. Il terrorismo islamista è un sintomo lancinante del grande male. Che va riconosciuto e lavato via. Pag 2 I semi dell’estremismo piantati da troppo tempo di Andrea Lavazza Il Belgio e l’attacco, le sottovalutazioni e una lezione È stato fin troppo breve il sollievo per la cattura di Salah Abdeslam. E forse c’è stata una sottovalutazione del rischio che da quel momento di venerdì scorso si era aperto per il Belgio. A quattro giorni dall’arresto di una delle presunte menti degli attacchi di novembre a Parigi, il terrorismo jihadista con base a Bruxelles è riuscito infatti a colpire tragicamente con un’azione coordinata, seminando morte all’aeroporto internazionale e in una centralissima stazione della metropolitana, all’ora di punta mattutina. Una prova ulteriore di quanto siamo esposti agli attacchi kamikaze o alle bombe lasciate in luoghi pubblici affollati, senza che qualsiasi misura di sicurezza possa garantire una vera protezione. Le autorità belghe dovevano essere ben consapevoli del rischio di una rappresaglia e l’allerta sarebbe dovuta essere massima per tutti gli obiettivi sensibili. Eppure, i terroristi hanno potuto agire pochi giorni dopo lo scacco subito con la fine della latitanza di Salah. Resta l’interrogativo sulla scelta del momento dell’attacco. Era già in preparazione ed è stato accelerato dagli eventi, forse per timore che la promessa di collaborazione del super-detenuto portasse a blitz a colpo sicuro della polizia? Oppure, miliziani già decisi al suicidio si sono mossi in fretta per vendetta? O, ancora, dai vertici del Daesh, che prontamente ha rivendicato l’orrore, è partito un ordine preciso per invertire la tendenza che vede lo Stato islamico sempre più indebolito sullo scenario siriano-iracheno? In ogni caso, soltanto chiarita la provenienza degli attentatori si potrà ragionare sulla effettiva possibilità di prevenire, anche grazie all’intelligence, azioni come quelle compiute negli snodi chiave di trasporto della capitale d’Europa. Se, infatti, sono state messe nel mirino infrastrutture da cui transitano tutti gli esponenti politici che siedono negli organismi della Ue, rimane comunque più probabile una motivazione 'locale'. Si è cioè voluta dare una dimostrazione di forza, più che intimidire le istituzioni continentali. 'Siamo qui e possiamo agire quando e come vogliamo', sembra il messaggio implicito nell’onda di distruzione che si è abbattuta su Bruxelles. E, soprattutto, 'siamo tanti'. Questo è, purtroppo, l’elemento più inquietante che emerge. Forse cinque persone tra kamikaze e bombaroli, probabilmente alcuni ancora liberi nella capitale belga e pronti a ripetere stragi. Soprattutto, le complicità che hanno permesso al latitante Abdeslam di nascondersi per quattro mesi praticamente a casa propria non possono che essere ampie e diffuse, radicate nelle zone periferiche dove ha attecchito il verbo estremista, spesso seminato da imam arrivati o comunque finanziati dal movimento wahhabita di origine saudita. Gli attentati, i più sanguinosi nella storia del Belgio, dimostrano che i jihadisti pronti a farsi saltare per la delirante causa del fondamentalismo islamico – siano o meno affiliati del Daesh – sono ormai numerosi, tragicamente 'efficienti' e possono contare su una zona grigia estesa e impermeabile. Paradossalmente, la chiusura dell’intero Paese, con aerei e treni fermati e frontiere sigillate, non fa che amplificare l’effetto delle stragi, dando loro più forza simbolica. È tardi per fermare gli eccidi, il blocco non permetterà verosimilmente di catturare altri terroristi, innalzerà i timori di nuove azioni e limiterà le attività pubbliche ed economiche, provocando ancor più disagi e danni. È certo difficile non ricorrere a simili provvedimenti restrittivi nelle ore dell’emergenza in cui si moltiplicano i falsi allarmi, ma tutte le reazioni emotive non fanno che aumentare i successi di chi vuole spargere il terrore e come obiettivo ha proprio lo stravolgimento della nostra vita quotidiana sull’onda della paura. Gli attentati di Bruxelles, ancora una volta, ci dicono che non esiste altra via che isolare gli estremisti prima che possano mettere radici ed estendere le proprie venefiche reti di reclutamento. Pag 2 Tempo di credere nel Dio che soffre con noi di Maurizio Patriciello Le domande disperate e la fede che deve sorreggere Tempo di credere è il titolo di un famoso libro di don Primo Mazzolari. Se ogni giorno è 'tempo di credere', oggi lo è in modo particolare. In queste ore in cui la tristezza sfiora la disperazione e la rassegnazione. Questo è il tempo in cui dobbiamo continuare a credere. Anzi, il tempo in cui dobbiamo rafforzare la nostra fede sempre vacillante. L’atrocità della violenza, il non senso, la morte scaraventata in faccia a persone innocenti e ignare ci lasciano senza fiato. Con il desiderio di correre, di scappare via. Scappare e dove? «Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti». Come colmare questo senso di profondissimo vuoto che ci accompagna da ieri mattina? «Rimanete nel mio amore», ci dice Gesù. Come i discepoli in fuga verso Emmaus, dobbiamo implorare insieme: «Resta con noi, Signore, perché si fa sera...». Per la verità, più che sera, è notte fonda. Credere. Continuare a credere che Dio c’è. Che ci ama. Che sta soffrendo con noi e per noi. Il terrorismo è illogico, vigliacco, disumano. Semina paura. Distruzione. Morte. Il terrorista ha pericolosamente permesso all’odio di colmargli il cuore. Il terrorismo è rapina. Di vita. Di gioia. Di futuro. Di speranza. È paura che ti inchioda. Che ti gela il sangue nelle vene. Che ti toglie la voglia di continuare a impegnarti e lottare. E invece no. Deve accadere il contrario. Il dolore che si sprigiona dai nostri cuori ci affratella, ci unisce. Le immagine delle persone che scappano dal luogo dell’ agguato ci inteneriscono, ci fanno piangere. Come siamo piccoli di fronte al dolore e alla morte. Come siamo piccoli di fronte alla grandezza della vita. Davanti a tanta sofferenza inutilmente provocata l’uomo – tutti gli uomini di tutto il mondo – si scoprono disarmati. Impotenti. Qualcuno si lascia cadere le braccia. È tentato di arrendersi al male. La voglia di abbracciare tutti è immensa. Il credente prega. Supplica. Invoca. Anche se ripete l’invocazione antica: «Dio, dove sei?». E tornano le domande che non troveranno mai risposte quaggiù: «Perché, Signore. Perché? Perché non lo impedisci? Perché non hai fermato la mano degli assassini? Perché permetti che l’innocente soffra? Quando, Signore, quando giungerà la pace?». Ma Dio tace. Il cielo è come sigillato. Dall’alto non arriva alcun segnale che possa soddisfare il cuore. Dio è morto, ha detto qualcuno. «Gli occhi che hanno visto Auschwitz non potranno più contemplare Dio». Anche gli occhi che hanno visto lo scempio nella città di Bruxelles. Ma è proprio così? La tentazione di eliminare Dio ritorna prepotente. «Se tu squarciassi il cielo e scendessi!», pregano i credenti. Ma sembra che il cielo non si squarci e Lui non scenda. Perché è già sceso. E scende di continuo. Fino alla fine del mondo, scende. Lo scempio di Bruxelles avviene a poche ore del Venerdì Santo. «La cosa migliore che i nostri occhi possono fare in questi giorni è leggere la passione di Gesù», scriveva don Giuseppe De Luca. Facciamolo. Corriamo a prendere il Vangelo. Immergiamoci nel racconto della passione e della morte di Gesù. Facciamolo in queste ore in cui la cattiveria umana ha tentato di oscurare il cielo come avvenne quel giorno sul colle del cranio. Quando alto si levò il grido del Giusto: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Perché ci hai abbandonato Dio?Perché? Perché ci lasci in balia di uomini arrabbiati e senza cuore? Perché permetti che l’odio avveleni i giovani? Perché tanta ingiustizia sulla terra? Perché, Signore, l’innocente muore? Non è giusto. Non sarà mai giusto. Anche i credenti si lamentano con il loro Dio. Ma sanno chi è colui nel quale hanno avuto la grazia di credere. E si mettono a fianco dei loro fratelli in umanità. Con la fiammella della speranza accesa. Volendo, con Maria, sostenere il figlio di Dio Crocifisso e i crocifissi di Bruxelles. In silenzio. Con il cuore a lutto. Con le lacrime agli occhi e la preghiera sulle labbra. I credenti vogliono condividere un dolore che ci toglie il respiro, ma non la speranza. Ma vogliono anche gridare al mondo che Dio, ancora una volta, è stato messo in croce. IL GAZZETTINO Pag 1 Serve una difesa comune senza ambiguità di Romano Prodi Mentre piangiamo le tante vittime di Bruxelles è doveroso riflettere su quanto è avvenuto. Prima di tutto sulla dimensione organizzativa del terrorismo internazionale. Proprio nei giorni successivi all'arresto di uno dei principali responsabili delle stragi di Parigi il terrorismo è stato in grado di colpire la capitale dell'Unione Europea con una rete estesa, una capacità di fuoco e una protezione locale che, come si è visto nelle immagini televisive durante la cattura di Salah Abdeslam, va oltre ogni nostra previsione e ogni possibilità di tolleranza. In secondo luogo l'attacco non è rivolto a un singolo paese europeo ma all'Europa intera. Esso è iniziato dall'aeroporto di Bruxelles ma è arrivato a provocare una strage proprio nel cuore delle istituzioni europee. I terroristi non si sono diretti verso la periferia dove è situata la sede della NATO ma, certamente in modo deliberato, verso i luoghi nei quali si trova il centro politico dell'Unione Europea. Proprio vicino al Parlamento, alla Commissione e al Consiglio. Il terrorismo vuole colpire il nostro futuro che, nonostante i problemi di oggi, può essere garantito solo da forti istituzioni comuni. I primi commenti a questa tragedia si sono subito concentrati nel condannare le debolezze dei nostri sistemi di protezione e, in questo caso, soprattutto delle strutture della sicurezza belga. Tutto ciò può anche essere vero e dobbiamo perciò moltiplicare protezione e vigilanza ma è anche vero che non possiamo proteggere tutti i luoghi nei quali noi ci raduniamo per mangiare, per divertirci, per pregare o, semplicemente, per stare assieme. Non solo questo non è possibile ma, anche se lo fosse, sancirebbe la distruzione delle fondamenta della nostra società. Sarebbe il trionfo del terrorismo. Per difenderci in modo più efficace abbiamo di fronte a noi una doppia strada. La prima è quella di rafforzare il lavoro dell'intelligence, ancora insufficiente e, sopratutto, ancora frammentato fra i diversi paesi europei. Mentre il terrorismo colpisce il cuore dell'Europa, le nostre strutture di intelligence lavorano infatti in ordine sparso, in modo cioè del tutto inefficace in una situazione in cui esiste la libera circolazione delle persone, delle merci e del denaro. Ogni paese agisce in modo separato, con limitati scambi di informazioni perché fondamentalmente dedicato alla custodia delle proprie prerogative. Il Belgio, con le sue frammentazioni politiche e amministrative e con i suoi sei governi che dialogano tra di loro con difficoltà, rappresenta in modo particolare questa debolezza, ma dobbiamo avere ben presente che nessun paese europeo è in grado da solo di conoscere e interpretare il funzionamento dei complicati rami dell'estesa rete del nuovo terrorismo. E quindi nessun paese europeo è in grado da solo di contrastarla. Questo ci porta ad affrontare il percorso della seconda strada. Il terrorismo che si è espresso negli ultimi anni non può vivere con il solo supporto locale ma ha bisogno di protezioni e aiuti internazionali che possono essere scoperti ed affrontati unicamente da un'azione comune. Ad uno sforzo di conoscenza delle intelligence deve quindi seguire un'azione comune dei governi. Le organizzazioni terroristiche dispongono infatti di cospicui finanziamenti che hanno reso possibile la nascita e l'espansione dell'ISIS, il suo insediamento territoriale e la sua capacità di reclutamento e di coordinamento dei criminali che operano oramai a livello globale. La vendita di petrolio, i traffici di armi e di droga, i rapimenti e, soprattutto, i trasferimenti di denaro, hanno bisogno di strutture organizzative e di coperture che vanno ben al di là delle possibilità degli esecutori materiali delle azioni criminali o dei loro protettori locali. È quindi necessario un atteggiamento fermo nei confronti delle autorità governative dei paesi che permettono a strutture che da essi hanno origine di costruire e alimentare organizzazioni che, accanto ad apparenti scopi culturali o caritativi, si trasformano in reti di protezione e di alimentazione dei movimenti terroristi. Nel recente passato abbiamo assistito a troppi casi di mancanza di attenzione e, assai spesso, a un gioco ambiguo, nel quale i governi "amici" si proclamavano solidali nella lotta contro il terrorismo mentre le strutture organizzative e le associazioni ad essi collegate svolgevano un ruolo (consapevole o inconsapevole) di aiuto e copertura a gruppi estremisti. Per porre fine all'ambiguità e operare con la necessaria trasparenza occorre naturalmente mettere in atto una strategia che va ben oltre i confini dell'Europa. Anche questo non è tuttavia un obiettivo impossibile perché Stati Uniti, Cina, Russia ed Europa sono in ugual modo sotto la minaccia del terrorismo e tutti vedono nell'ISIS il loro principale nemico. Non vedo però nascere il senso di emergenza che è necessario assumere in questi frangenti. La lotta contro il terrorismo sarà quindi lunga e non sarà vinta finché non si useranno le armi di un'appropriata cooperazione internazionale. Pag 1 Questa strage è l’11 settembre dell’Europa di Fabio Nicolucci Con gli attacchi di ieri a Bruxelles si può senza enfasi parlare di 11 settembre europeo. Per diverse ragioni. In primo luogo per il loro impatto politico, che presuppone una mente e un disegno politico nell’organizzarli. Malgrado non siano certamente i primi sul suolo europeo, questa volta il loro simbolismo eguaglia infatti quello dell’11 settembre 2001. Gli obiettivi sono stati scelti con cura. È stata colpita la capitale politica d’Europa. Non nel suo stile di vita, bensì proprio nella sua mobilità e funzionamento. L’effetto è di sgomento per tutti gli europei. Amplificato dalla sofisticata scelta di colpire la sede delle istituzioni europee, percepite da molti come sinonimo di sonnolenza e inefficacia burocratica, con la “geometrica potenza” degli attacchi. Oggi, come fu per gli Stati Uniti dopo l’11 settembre, diventa purtroppo ineludibile il tema della maggiore efficacia nel contrasto, e della ricerca di un diverso mix tra libertà civili e contrasto al terrorismo. Bisogna essere chiari: non è mai possibile azzerare tale rischio, tanto più in una società liberale occidentale, a meno di non realizzare scenari di una militarizzazione delle nostre società, nella quale – come nel film “attacco al potere” del 1998 - noi perderemmo l’anima e i terroristi aumenterebbero i proseliti. Del resto Bruxelles era già pesantemente controllata. Ma in democrazia gli occhi degli apparati di sicurezza tendono ad essere monodirezionali, e fino a ieri erano tarati sulla ricerca di fuggiaschi. E se si cercano i membri superstiti di un commando, i componenti di una nuova operazione tendono ad uscire dal radar e quindi a diventare invisibili. Anche perché le risorse sono quelle che sono. Lo conferma il generale infastidito scetticismo con cui qualche giorno fa è stato accolto il rapporto Europol. In esso si avvertiva del pericolo di un attacco su larga scala, conseguenza della strategia dell’ISIS di divenire globale. La politicità degli attacchi di ieri confermano le indicazioni del recente rapporto Europol e fanno ipotizzare un primo salto di qualità dalla strategia precedente, imperniata su suggestioni per lo più mediatiche dirette a lupi solitari in genere giovani, il cui percorso di radicalizzazione era frutto di crisi personali e per questo imprevedibili. Difficili per questo da individuare, ma privi di troppo complessi disegni politici. Questo sinora era il primo stadio nella scala organizzativa del terrorismo su suolo europeo. Gli attentati di ieri sembrano indicare il passaggio al secondo stadio, quello della rete tra cellule. La manovalanza rimane la stessa, ma le modalità operative fanno un salto di qualità. Arrivano suggerimenti operativi e aiuti indiretti, gli stessi jihadisti vengono “riconosciuti” e messi in rete tra loro. Il dato di ieri è che questa connessione operativa in genere li dovrebbe rendere più individuabili, seppur più pericolosi. Ma ciò non è stato. La nostra analisi dell’avversario è infatti ancora molto frammentaria e incompleta. Ci si attarda su modelli vecchi e magari rassicuranti, oppure a definire tutto come “ISIS”, il che sarebbe fuorviante anche se fosse vero, perché lo stesso ISIS nasce come piccolo gruppo capace di federarne molti altri. Eppure dovremmo aver capito che l’avversario che abbiamo di fronte è di tutto rispetto, chiunque esso sia. Occorre dunque prenderlo terribilmente sul serio. Primo, evitando di aiutarlo a raggiungere il suo obiettivo di distruggere la nostra convivenza, facendolo noi stessi. Sul piano interno, dove servono nuove regole e un nuovo patto di corresponsabilità sulla sicurezza tra cittadini e Stato sul modello di quello israeliano. E su quello esterno, dove bisogna mostrare l’Europa lì dove serve, in primis sulla questione dei migranti. Secondo, elaborando una strategia per distruggerlo complessa almeno quanto lo è quella concepita per distruggerci. Dunque, isolandolo internazionalmente e tagliando le sue radici, che affondano nella guerra intrasunnita per l’egemonia nella lotta contro gli sciiti. Per poi dopo andare subito in Siria e in Iraq a prendere i suoi capi, ad uno ad uno. Prima che essi decidano di passare al terzo livello di attacco sul nostro suolo, quello pensato ed organizzato direttamente da Raqqa, capitale dell’ISIS. LA NUOVA Pag 1 Il fronte interno di Andrea Sarubbi Se c’è una cosa che gli attentati di ieri a Bruxelles insegnano tristemente all’Europa, immersa in una trattativa interna con i Paesi dell’est e reduce da un compromesso rischioso con la Turchia, è che il problema maggiore per la sicurezza non sono oggi le frontiere, né le coste. Lo si sapeva da tempo, e gli stessi attentati di Parigi - pianificati in Belgio - lo avevano confermato. Ma la memoria a volte è corta e la propaganda è veloce: più facile dire “fermiamo gli sbarchi”, anche se sui gommoni giungono povere vittime, che non avviare una riflessione seria sui carnefici. Però ce n’è bisogno, perché la questione è ormai ineludibile. Molto si è detto e scritto, negli ultimi mesi, su Molenbeek, piccolo ma popoloso Comune semicentrale nell’area di Bruxelles. La “Raqqa d’Europa”, l’hanno definito alcuni. Il crocevia belga del terrorismo islamico, lo chiamò il quotidiano francese Le Monde all’indomani del Bataclan, precisando che «la lista di persone passate di lì prima di essere coinvolte in azioni terroristiche impressiona». Da lì partirono - due giorni prima delle Torri gemelle - i sicari di Massud, il leone del Panshir, il nemico di Bin Laden assassinato in Pakistan da due falsi giornalisti; lì vissero due protagonisti di uno dei momenti peggiori della storia europea recente, gli attentati a Madrid dell’11 marzo 2004; lì comprò le armi il terrorista che nel 2014 sparò al museo ebraico, e l’elenco si potrebbe facilmente allungare. In realtà Molenbeek, teatro della cattura di Salah Abdeslam tra le proteste degli abitanti contro le forze di polizia, è solo un esempio. Come tutti i casi simbolo, si trascina dietro le semplificazioni della propaganda politica, e - nell’ultima campagna elettorale per le elezioni politiche in Belgio, vinte dal centrodestra due anni fa - ha visto i futuri governanti accanirsi contro il buonismo dei socialisti e promettere - parole dell’attuale ministro dell’Interno, il nazionalista fiammingo Jambon che lì avrebbero “fatto pulizia”. Invece il bubbone è rimasto, e non è circoscritto a un singolo quartiere: la sfida prioritaria per l’Europa di oggi, infatti, è dentro di sé. È quello che Mario Giro, nostro viceministro agli Esteri, definisce «il problema del fronte interno»: un fronte che attraversa tutto il continente europeo passando per le periferie parigine e per Finsbury Park, nei pressi della moschea centrale di Londra, dove alcuni ingegneri pakistani prepararono gli attentati nella metropolitana a luglio 2005. Additare l’Islam come imputato principale significa abusare della credulità popolare. Per dirla con il francese Oliver Roy, docente all’Istituto universitario europeo, il nocciolo della questione non è infatti la radicalizzazione dell’Islam, ma piuttosto l’islamizzazione della radicalità: di un radicalismo, cioè, che attecchisce in contesti ai margini, dove l’Europa ha fallito nell’integrazione, e che trova una veste pseudo-religiosa per esprimere l’antagonismo. Può darsi che ora sia tardi per recuperare tutto il terreno perduto, ma non c’è comunque alternativa: l’Europa ormai è questa, e l’unica risposta possibile al fronte interno non è la tentazione “trumpista” della deportazione ma la faticosa creazione di società più coese. In un contesto del genere, il Belgio ha poi un paio di specificità che non vanno sottovalutate, e che spiegano almeno in parte l’organizzazione capillare dell’estremismo, con una percentuale di jihadisti senza pari rispetto al numero di musulmani presenti. La prima, secondo gli esperti di sicurezza, è una manifesta difficoltà dei servizi segreti, accentuata da una proliferazione di polizie locali che complica la condivisione delle informazioni. La seconda è la presenza fuori controllo di molte moschee illegali, finanziate da Paesi stranieri - come l’Arabia Saudita o il Qatar - con cui l’Europa, negli ultimi decenni, non ha mai alzato la voce più di tanto, in nome di interessi economici condivisi. Ed è forse quest’ultimo, più ancora dell’azione militare in Siria, il fronte esterno su cui Bruxelles dovrebbe concentrarsi maggiormente. Pag 1 La rete di Salah di Renzo Guolo L’attacco dell’Is in Belgio viene, non a caso, dopo la cattura di Salah Abdeslam. Più che la vendetta per la sua cattura, così come viene esaltata nel web dai simpatizzanti della galassia radicale, quanto accaduto appare l’esito inevitabile della stessa. La sua cattura senza armi in pugno - ancora una volta poco gloriosa per un candidato “martire” che non si era fatto esplodere a Parigi - e le indiscrezioni sulla sua volontà di “collaborare”, tentativo evidente di negoziare una pena assai meno dura, hanno probabilmente accelerato gli attentati. Con Salah sotto torchio era troppo elevato il rischio che gli inquirenti scavassero in quella miniera di informazioni che era diventata l’ormai exprimula verde di Molembeek. Perché se è vero che quella dell’Is in Belgio è una rete costituita da gruppi stretti su base amicale o parentale, difficilmente infiltrabile e da scoprire prima che passi all’azione, è anche vero che, proprio quel tipo di rete, fondata su antichi e nuovi legami di quartiere, può essere facilmente strappata una volta individuato uno degli elementi che ne fanno parte. Proprio perché rinvia a legami maturati in ambienti circoscritti. Come dimostra la relativa distanza dei vari nascondigli, caldi e freddi, della cellula belga e le biografie di quelli che vi appartengono. Così, con Salah nel carcere speciale di Bruges, per il nucleo jihadista superstite diventava un imperativo entrare in azione. Certo, non si preparano attentati di questo tipo in pochi giorni. È evidente, come fa comprendere il ritrovamento di detonatori e materiale per cinture esplosivo nei covi che in questi giorni sono stati scoperti dalla polizia belga, che il gruppo stava preparando degli attentati. La cattura di Salah, il timore che le sue parole o le tracce lasciate da alcuni complici, portassero agli autori dell’attacco all’aeroporto e al metro di Bruxelles, hanno indotto gli jihadisti a entrare in azione con “cinture e ordigni esplosivi”, come ha prontamente rivendicato la “casa madre” dell’Is. Un attacco che rivela non solo l’ostilità jihadista verso il Belgio, la Francia, gli Usa , l’Unione Europea stessa, colpita anche simbolicamente nei pressi della sua sede più importante; ma anche che la rete islamista radicale, composta da foreign fighters di ritorno dalla Siria - tra i quali costituiscono un gruppo consistente i tunisini di origine belga, è assai estesa. E che ha trovato nuovi agganci in simpatizzanti che, al di là della loro esperienza militare, hanno dato sostegno logistico a Salah e ai suoi complici per mesi. Prima e dopo gli attentati di Parigi , prima di quelli di Bruxelles. Possibile che i “siriani” non siano i novanta evocati da Abdelamid Abaaoud, il coordinatore dell’attacco del 13 novembre a Parigi ucciso nella banlieue di Saint-Denis ma, come è divenuto evidente in queste drammatiche e convulse ore, il loro numero andava oltre il gruppo di “martiri” parigino. Purtroppo, la fine degli attentati non è legata alla distruzione del Califfato in Siria e Iraq che, sotto la spinta della “doppia coalizione” a guida americana e russa, ha perso nell’ultimo anno un terzo del territorio controllato. Anzi, è prevedibile, che tanto più quell’esperienza volgerà alla conclusione, tanto più lo jihadismo tornerà alla sua originaria impostazione qaedista: concentrare gli sforzi sul Nemico lontano, l’Occidente. Puntare sulla clandestinizzazione più che sul governo statuale. Solo se continuerà a occupare non più un territorio reale ma virtuale, spazi mediatici più che geopolitici, muovendosi in rapide e devastanti incursioni in territori nemico l’Is potrà attirare consenso. Nel tentativo di alimentare anche quella trappola del conflitto di civiltà destinato a esacerbare ulteriormente tensioni etniche e religiose sulle quali gli estremisti di ogni campo prospererebbero. È la Libia dilaniata dai conflitti interni, il prossimo obiettivo dell’Is ma nell’attesa di trasformare la riva sud del Mediterraneo in replicante dello scenario mesopotamico, il gruppo deve infliggere perdite umane e danni politici al Nemico sopravvivere allo scacco territoriale. Anche per questo, quello di Bruxelles non sarà l’ultimo attacco. Pag 1 Imbelli alla sfida di Bruno Manfellotto Ieri mattina ci siamo svegliati e abbiamo scoperto - drammaticamente, tragicamente che il terrorismo è in casa nostra. Non è solo laggiù, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria, dove volano i droni di Obama. È vicino a noi. In Europa. Nel cuore delle nostre città. Ed è qui che dobbiamo combatterlo. Abbiamo cominciato a farlo davvero? Non ancora. Dobbiamo saperlo, capire, agire. La sicurezza di tutti è in pericolo. I morti di Bruxelles ci dicono molte cose. La prima, e per paradosso la più grave, è il clamoroso fallimento - finora - della intelligence europea. Nessun coordinamento, nessuna guida sicura, nessuna strategia. Ognuno si muove per suo conto, e spesso in modo del tutto insufficiente. Come ha mostrato il caso Salah, non riescono a comunicare tra loro e ad agire di concerto nemmeno il servizio segreto francese e quello belga. È mancata soprattutto la capacità di lavorare in quella terra di mezzo che separa la società civile dai militanti dell’Is, spezzare le linee di rifornimento, interrompere le catene di collegamento: l’arma usata in tutte le guerre al terrorismo e che risultò vincente in Italia contro le Brigate rosse. Il secondo, inquietante insegnamento è, per così dire, la parcellizzazione del gesto terroristico. Chi ha armato e organizzato i dinamitardi di Zaventem? Chi ha dato l’ordine? Un Grande Vecchio, una direzione strategica, una cellula eterodiretta o a muoversi è ormai l’individualismo dell’esasperazione bellica? Se, come sembra, fosse più probabile l’ultima risposta, nessuno potrebbe dire chi, dove, come e quando colpirà ancora. Impossibile cercare di saperlo e prevederlo, se non caricando le armi dell’intelligence. Probabilmente gli attentati di ieri erano programmati da tempo e ad accelerarli è stato l’arresto di Salah, la primula nera del Bataclan che ha attraversato tranquillamente le frontiere ed è rimasto per quattro mesi indisturbato a casa sua, a Bruxelles. Come a dire, non avete affatto vinto, siamo ancora qui più forti di prima. Già, Bruxelles. Ancora una volta la valenza simbolica degli atti terroristici è altissima. E di nuovo metropolitane e aeroporti, luoghi frequentatissimi della nostra vita quotidiana. Ci vogliono immobili e impauriti, costretti a rinunciare a ogni libertà di movimento. Bruxelles è anche la città del quartiere di Molenbeek, nido e covo di tanti estremisti islamici - «l’elenco delle persone che sono transitate da qui prima di essere coinvolte in attività terroristiche è impressionante», ha scritto “Le Monde” -, luogo dal quale si sono mossi gli uomini del “Bataclan” e dove Salah si è rifugiato per mesi dopo gli attentati di Parigi e prima del blitz della polizia belga. Un dettaglio che ci offre un terzo insegnamento: al di là delle necessarie distinzioni politiche e strategiche tra Islam estremista e Islam moderato, ora sappiamo che i terroristi possono contare su una vasta rete di protezione, sia che nasca da sincera solidarietà, sia da paura di vendette e ritorsioni. C’è, e garantisce una grande copertura. Rendendo ancora più difficile il lavoro delle forze dell’ordine. E naturalmente Bruxelles, oltre che sede della Nato nel Vecchio Continente, è la capitale di un’Europa finora imbelle e inconcludente che da anni insegue una nuova identità dopo essere stata messa in ginocchio dai grandi choc degli anni Duemila: crisi economica; immigrazione incontrollata; esplosione del terrorismo islamico. Le bombe e il sangue vogliono ricordarci la pochezza e i limiti di una unità europea che non è mai stata tale. Bruxelles, infine, è anche la città dove i giovani corrono a studiare e a lavorare cercando qualcosa che non hanno nel proprio Paese o ansiosi di aiutare nelle istituzioni una rinascita europea che è la sola risposta possibile all’avanzare dell’Is e delle sue filiazioni. Pag 8 Musulmani in crisi d’identità di Diego Marani Quando arrivai a Bruxelles nel 1985, la città era terrorizzata da una banda di estremisti rossi, le Cellules Communistes Combattantes. Più rapinatori che terroristi, come si rivelò poi. Io che venivo da dieci anni di bombe in Italia, ci ridevo su. “Dilettanti!” pensavo. Le CCC furono sgominate qualche mese dopo ma quel che succede oggi a Bruxelles mi fa sprofondare nella paura più nera. La stazione di Maelbeek, in fiammingo Maalbeek, nel nostro immaginario collettivo è materia da barzelletta. Perché negli annunci bilingui della metro, in francese e fiammingo suona esattamente uguale. L’unica parola dove le due lingue in guerra coincidono. Oggi c’è un cordone di macchine della polizia che taglia Rue de la Loi davanti alla stazione di Maelbeek. Dopo l’esplosione qualche sopravvissuto è riuscito a uscire prima che la polizia bloccasse i corridoi. Sporchi di sangue, terrorizzati, sono ritornati in ufficio assieme agli scampati dell’aeroporto. Colleghi che dovevano partire in missione di lavoro. Raccontano scene raccapriccianti: le bombe sono esplose proprio davanti agli sportelli della compagnia di bandiera belga, dove c’è maggiore affollamento. Intanto a Maelbeek i vivi e i morti sono intrappolati là sotto. Nel buio i sopravvissuti si avventurano lungo i binari in cerca di scampo. Incontro per strada una ragazza di Liegi che ha salutato il suo compagno due stazioni prima, a Merode. E non ha avuto più notizie. Prova e riprova a chiamarlo col telefonino, ma le linee sono sature. Non conosce la città. Mi chiede di accompagnarla a Maelbeek. Al Rond Point Schuman, il cuore del quartiere europeo, ci sono già i soldati, come in novembre. Il mio servizio sta facendo la conta dei colleghi chiedendo a tutti per sms di rispondere all’appello. Manca qualcuno ma dovrebbe essere già in vacanza. Una schiera di reporter si è assembrata sotto il palazzo del Consiglio dei Ministri. Cronisti di tutte le lingue raccontano i fatti davanti alle macchine da presa. Quando ci avviciniamo alla barricata della polizia, la ragazza di Liegi scoppia a piangere. «E noi questa gente la accogliamo, gli diamo tutto, istruzione, assistenza medica e sussidi di disoccupazione che sono stipendi!» dice fra le lacrime. E io penso ma non dico che il problema è proprio tutto qui. Quando gli emigrati erano i nostri minatori, pur nel razzismo di cui soffrivano, si adattavano, alla fine si integravano, erano comunque riconoscenti al paese che li ospitava. Le successive generazioni perfino smarrivano la loro italianità, diventavano belgi al punto da dimenticare la loro lingua madre. Per loro era un progresso sociale non avere più niente a che fare con la miseria da dove venivano. Le nuove generazioni dell’emigrazione mussulmana invece non si integrano. Il disagio sociale, la disoccupazione, sono certo ragioni importanti. Ma ce n’è un’altra che le sottende tutte ed è la mancanza di identità. Bruxelles è una città ibrida, capitale di un paese spaccato in due da divisioni linguistiche e politiche. La ricca Fiandra nazionalista dell’agricoltura intensiva ha avuto il sopravvento sulla Vallonia povera e socialista delle miniere chiuse ed è riuscita a strappare uno speciale statuto bilingue per la pur francofona Bruxelles che è diventata il campo di battaglia di una guerra di influenza fra francofoni e neerlandofoni. In questo duello, l’amministrazione della città è indebolita, le polizie sono divise e spesso non si parlano. Ce ne sono almeno 9 a Bruxelles. Alcuni di questi poi contestano il bilinguismo e si vogliono solo fiamminghi. Altri, come Molenbeek, sono ormai quartieri arabi. La città da sempre irriverente contro i suoi dominatori reagisce con una grande vivacità culturale e si difende con uno spirito di diffuso cinismo. Ma tutta questa frammentazione dissipa ogni senso identitario, fa mancare il modello da imitare per integrarsi. Un maghrebino brussellese ha ben poche possibilità di sentirsi un giorno belga. Così questi giovani balordi dall’avvenire otturato diventano facile preda di fanatici e altri disperati. Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Lavanda dei piedi con profughi e detenuti, Moraglia e l’esempio di Papa Francesco Misure di sicurezza a San Marco per il triduo pasquale Venezia. Profughi, stranieri, detenuti e senza fissa dimora. Per la messa in cui la Chiesa cattolica ricorda l’ultima cena di Gesù prima della morte, il patriarca di Venezia ha scelto di dare un segnale concreto di accoglienza verso gli immigrati seguendo l’esempio del Papa che ha raccomandato opere di misericordia nell’Anno Santo. E’ l’inizio della settimana Santa, che sarà all’insegna della preghiera ma anche dell’allerta sicurezza, dopo gli attentati di Bruxelles. Il patriarca non cambia il programma del fulcro della tradizione cristiana che comincia domani con due convocazioni in cattedrale. Alle 9.30 monsignor Francesco Moraglia presiede la Messa del Crisma con la benedizione degli olii santi, mentre alle 18 ci sarà la celebrazione con la lavanda dei piedi con dodici persone ai margini della società: dai profughi ai detenuti, dai barboni ai tossicodipendenti. Venerdì alle 15 ci sarà la Via Crucis in Basilica mentre alle 18 il patriarca presiederà l’azione liturgica della Passione (alle 21 in cattedrale si volgerà un momento di preghiera in venerazione delle reliquie della Passione). La sera del sabato alle 20.30 avrà inizio la solenne veglia, mentre domenica alle 10.30 la Pontificale di Pasqua. Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Poche vocazioni, preti “a scavalco” di Alvise Sperandio Moraglia: “Collaborazioni pastorali anche in città”. Le parrocchie in bilico Sempre meno sacerdoti, il patriarca Moraglia lancia le "collaborazioni pastorali". E non solo nelle parrocchie dei piccoli comuni alla periferia della diocesi, perché adesso sono in gioco anche quelle di Mestre. In tempi di crisi delle vocazioni, le parrocchie tra loro vicine dovranno quindi sempre di più unire le forze per condividere la vita quotidiana e i servizi: dai momenti di preghiera alla catechesi dei bambini e ragazzi, dalla formazione degli educatori alla carità e così via. E il patriarca fa sapere che quella che finora era rimasta un'idea, diventa adesso un obiettivo obbligato dal fatto che con il passare del tempo diventa difficile assegnare anche solo un prete a ogni parrocchia. D'altra parte l'età media del clero è piuttosto elevata, le nuove ordinazioni si contano con il contagocce da anni e - come spiegano dalla Curia - sono molti i sacerdoti che andranno in pensione a breve, senza dimenticare che già più di qualcuno continua a prestare servizio anche oltre i 75 anni, quando vanno date le dimissioni. In alcune zone periferiche del Patriarcato il parroco agisce già a scavalco in due parrocchie, ma ora la scelta dell'accorpamento sta per diventare necessaria anche in città, soprattutto nelle comunità più piccole e dov'è complicato sostituire il parroco uscente per raggiunti limiti d'età, con tanto di voci e indiscrezioni in proposito: dal Villaggio Sartori a Santa Barbara, da Santa Rita ad Asseggiano. Così, a quattro anni dal suo arrivo Moraglia indica la meta da raggiungere, maturata con il primo giro di conoscenza delle 128 parrocchie della diocesi e in vista della visita pastorale subito dopo la fine del Giubileo straordinario. «Auspico che si crei un'alleanza pastorale per condividere ambiti in cui, non da oggi, non riusciamo più a essere evangelicamente significativi nella stessa comunità ecclesiale e nel quartiere o paese in cui viviamo», dice al settimanale diocesano "Gente Veneta". In passato l’ex patriarca Angelo Scola aveva avviato le collaborazioni in alcune comunità pastorali in via sperimentale, con risultati alterni: se funzionano al Lido e in centro storico attorno alla basilica marciana, è fallita invece a Caorle. Il tema verrà affrontato da Moraglia nella nuova lettera pastorale "Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù", che presenterà alla diocesi domani, durante la messa del giovedì santo in cui tutti i sacerdoti della diocesi si riuniranno in basilica di San Marco. LA NUOVA Pag 27 Settimana santa, attesa per il triduo pasquale di n.d.l. Le celebrazioni dei cattolici La Settimana santa che ha preso il via la scorsa domenica con la celebrazione delle Palme raggiunge il culmine con il triduo pasquale e il rinnovato annuncio della risurrezione di Cristo. Nella Basilica di San Marco numerose sono le convocazioni guidate dal Patriarca Moraglia. Oggi alle 18 la celebrazione comunitaria della penitenza. Domani, giovedì santo, primo giorno del triduo pasquale, due gli appuntamenti: alle 9.30 il presule presiede la Messa "Chrismatis". Durante il rito alla presenza dei sacerdoti della diocesi sono benedetti i santi Olii - dei catecumeni, degli infermi e il Crisma - strumento nei sacramenti del battesimo, cresima, ordine e unzione dei malati. Alle 18 la Messa "in coena Domini" con il rito della lavanda dei piedi che in questo Giubileo straordinario coinvolge profughi, detenuti, persone senza fissa dimora, tossicodipendenti e volontari delle strutture caritative e assistenziali, segue la reposizione del SS. Sacramento. Sono presenti la Caritas diocesana, l'Ordine di Malta, l'Ordine del Santo Sepolcro, le Arciconfraternite e le scuole Grandi. Venerdì Santo, giorno di digiuno e astinenza, alle 15, la Via Crucis; alle 18 il Patriarca presiede l'azione liturgica della Passione; alle 21 seguirà un momento di preghiera alla presenza del Patriarca in venerazione delle reliquie della Passione. Nelle mattine di Venerdì e Sabato Santo il Seminario Patriarcale partecipa all'Ufficio delle letture e alle lodi in programma alle 8.30. Sabato Santo giorno di silenzio, di meditazione e di attesa, alle 20.30, avrà inizio la solenne Veglia pasquale, presieduta da monsignor Moraglia alla presenza di alcune comunità neocatecumenali del Patriarcato durante la quale sono celebrati i sacramenti del battesimo e dell'iniziazione cristiana. La "Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore", alle 10.30 il Patriarca presiede nella Cattedrale il Pontificale di Pasqua; segue nel pomeriggio, alle 17.30, la celebrazione dei vespri solenni con benedizione eucaristica, processione e canto all'altare della Nicopeia. Da poche www.patriarcatovenezia.it. ore è on line il rinnovato sito diocesano: Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 33 Una Chiesa capace di intercettare il messaggio del Papa di Andrea Riccardi Questa è la terza Pasqua di Jorge Bergoglio come Papa della Chiesa di Roma. È stato eletto il 13 marzo 2013. Pochi giorni dopo, a Pasqua, già si sentiva l’entusiasmo per lui, che continua ad accompagnarlo. Sembrava che, in modo rapido e sorprendente, la Chiesa uscisse dalla crisi, incarnata dalla rinuncia di Benedetto XVI. Da subito, Francesco si è rivelato attrattivo per un messaggio impostato su Vangelo e autenticità personale. Si eclissava rapidamente il «sovrano pontefice» (come dicono i francesi) e appariva il testimone e il grande leader religioso, riconosciuto oltre la Chiesa. La vitalità del cattolicesimo era stata sottovalutata o Bergoglio rivoluzionava il gioco? In realtà, il Papa, in tre anni, ha dato voce al messaggio evangelico «senza aggiunte», suscitando speranza, energie spirituali e voglia di bene. Da leader spirituale, si è imposto nel campo internazionale, che sembrava essergli estraneo. Nel settembre 2013, chiedendo preghiera e digiuno per la Siria in guerra, ha provocato un passo indietro degli americani, pronti a bombardare. Ha capito il ruolo della Russia di Putin e di Kirill nel riequilibrio internazionale. Il capolavoro di Bergoglio è stato la fine dell’embargo a Cuba. Nel viaggio negli Usa, il Papa (che non fa l’unanimità tra i cattolici e i cittadini statunitensi) ha parlato da americano agli States. Aprendo il Giubileo della misericordia nel marginale Centrafrica, ha mostrato una forza di pace. È molto amato nel mondo. Ma - obiettano i critici - i veri problemi sono nella Chiesa! In Curia non mancano resistenze, simili a quelle verso Giovanni XXIII, che poi papa Montini sradicò con la riforma del 1968, rinnovando strutture e uomini. Bergoglio invece è stato finora rispettoso dei dirigenti nominati da Benedetto XVI facendo pochi cambiamenti. La riforma delle istituzioni centrali del C9 avanza lentamente. Paolo VI, dal 1965 al 1968, produsse un organico cambiamento con la Regimi Ecclesiae . A fronte di lentezze nella riforma, c’è l’istituzione del C9: un embrione di sinodo permanente anche per aiutare il Papa nel governo. Dopo i forti attacchi nel preconclave alla Segreteria di Stato, quest’istituzione ha ritrovato una rinnovata ed efficace centralità nel governo vaticano. Il Segretario di Stato Parolin, dal 2014, è membro del C9, mentre i suoi uffici, con il Sostituto Becciu, sono tramite leale tra un Papa (che governa veramente) e le istituzioni della Chiesa. Il problema vitale è un altro: la recezione del messaggio e della pastoralità di Francesco tra i vescovi e le Chiese. La stampa guarda molto al Vaticano e meno al mondo cattolico. Forse mai un Papa ha avuto tante resistenze tra i vescovi. Che pensano gli africani? E i polacchi? Tra molti italiani non c’è la sintonia «storica» con il Papa. Non sempre i vescovi sono critici perché difendono una visione classica o tradizionalista. Spesso le loro sono resistenze non ideologiche. Ma motivate dalla fatica di cambiare le diocesi, il sistema di governo, la maniera di porsi nella società, il linguaggio, come il Papa richiede. Il suo non è un progetto da applicare, ma - come egli dice - un «processo» in cui entrare. Il cattolicesimo, negli ultimi decenni, si è in genere adattato a un modello di minoranza quasi ovunque: una versione pugnace in difesa dei «valori non negoziabili» come in Italia, Stati Uniti o Spagna (convinta della forza sociale della minoranza in una società di minoranze); un’altra più ripiegata come in Belgio, Francia o altrove. Versioni diverse ma non tanto: entrambe figlie di una ristrutturazione minoritaria in cui, malgrado la carenza di preti, il clero resta decisivo. Per secoli, il cattolicesimo è stato modellato con una mappatura del territorio e con presidii su di esso, analogamente agli Stati. Oggi, in affanno per i pochi preti, fatica a cambiare, gestendo il declino. Senza trionfalismo, Francesco non crede al declino, perché coglie il bisogno diffuso della fede. Critico sul clericalismo, respinge la logica di minoranza di «puri e duri». Propone un cattolicesimo di popolo «in uscita» - come dice -, attrattivo, con la cifra della misericordia, attento alle periferie. Vuole integrare e aprire le porte, più che marcare frontiere e identità. Insomma riporta vitalità e gente: il che può causare contraddizioni e ridiscutere geometrie e metodi di governo. Francesco mostra che i contemporanei hanno ancora desiderio di ascoltare il Vangelo. La grande questione per loro è come e dove viverlo. I critici parlano di «francescomania» più che di ritorno alla Chiesa. Forse ci si dovrebbe interrogare di più sulla creatività e il rinnovamento che renderebbero la Chiesa capace di intercettare almeno in parte il movimento avviato da Francesco. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Il futuro dell’euro alla prova. Economia reale da risollevare di Antonio Fazio Accrescere la domanda in Europa e la produttività in Italia Veniamo a noi. Nel 1997 l’Italia entra nell’Europa dell’euro. Nel Trattato di Roma del 1957 l’obiettivo dell’Unione è lo sviluppo economico. Un principio solennemente espresso nel Trattato che deve presiedere alla politica economica è la sussidiarietà. Ogni Paese deve attuare la politica che ritiene adatta al suo sistema economico e alle sue istituzioni e coordinarsi con gli altri per tendere all’obiettivo comune della crescita. La Commissione Ue deve aiutare gli Stati che non riescono ad inserirsi favorevolmente nel processo di crescita. È cambiato qualcosa? Dov’è finito il principio di sussidiarietà? Si dice in quegli anni a livello politico: «L’Italia deve entrare in Europa». Ero governatore e obietto: «Ma noi siamo già in Europa, siamo stati fondatori! Ma siamo pronti a entrare nell’euro?». Nel 1996 a mia insaputa – il regime del cambio è responsabilità del governo – si decide di rientrare nel Sistema Monetario Europeo (Sme); ne eravamo usciti per l’incapacità di tenere il cambio, a causa della insufficiente competitività nei costi di produzione interni. Il rientro nello Sme prelude alla partecipazione alla moneta comune. Il Governatore ha l’alternativa di due linee di comportamento: può dire «non mi interessa, me ne vado» oppure «faccio ciò che mi si chiede, aiutando il mio Paese a realizzare gli obiettivi politici che si è dato». Ritenevo che fosse opportuno quanto meno attendere per entrare nell’euro, ma la decisione politica era ormai orientata in modo esplicito. La politica monetaria aveva svolto i suoi compiti per stabilizzare il cambio: aveva ridotto a meno di 200 punti del forte spread tra titoli pubblici italiani e tedeschi (che aveva raggiunto i 900 punti). Aveva drasticamente frenato l’inflazione. Ma non aveva potuto certamente ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil al di sotto del 60% richiesto dai Trattati europei. Ritenevo pertanto che dovessimo prima fare delle politiche volte ad aumentare la produttività dell’industria e in generale a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto. La notte del 24 marzo 1997 a Francoforte c’è una riunione drammatica: si discute di quali Paesi abbiano i requisiti per entrare nell’euro. Il Belgio e l’Italia non li hanno, sono fuori per l’eccesso di debito. La Grecia è fuori, ma ha comunque deciso di non entrare subito. L’Inghilterra decide di restare fuori indefinitamente, e così anche Danimarca e Svezia. Dico ai miei colleghi: «Cari amici governatori, io non posso accettare questo e vi avverto che se domani si scrive nel cosiddetto Rapporto di convergenza che l’Italia non partecipa, salta lo Sme e viene meno l’avvio dell’euro. Non è una minaccia, è analisi economica». Nel rapporto si finirà per scrivere che l’Italia è molto preoccupata del suo elevato debito. Era mezzanotte, non potevo consultare alcuno a Roma; scrivo sul momento un piano pluriennale di rientro del debito pubblico, impegnandomi a proporlo al governo per farlo diventare operativo. Con un linguaggio criptico, l’Italia alla fine viene ammessa. Ricordo che purtroppo di quelle promesse la politica italiana, dopo averle assunte formalmente, non ne ha fatto nulla. Il rapporto fra debito e Pil ha continuato ad aumentare paurosamente, fino al 2015. Vengo chiamato in Parlamento, da una commissione della Camera. Mi si chiede del perché del mio atteggiamento sulla moneta comune. Riferisco: «Tutta la politica monetaria attuata negli anni Novanta era volta a ridurre inflazione e spread e a stabilizzare il cambio. Non ho fatto né consigliato alcun 'macello' di politica economica, ho condotto soltanto la politica monetaria adeguata e ho dato dei messaggi consoni a una aspettativa razionale di andamento delle variabili economiche, inclusa la possibilità di entrare nella moneta comune». Il banchiere centrale doveva in ogni caso condurre le politiche che ho descritto, indipendentemente dal partecipare o meno alla moneta comune. Spiego ancora: «Sentite, noi entriamo, ma il problema è come restare nell’euro. Quando si perde la manovra del cambio, si dovrebbe riacquistare una flessibilità del costo del lavoro e della finanza pubblica che ci permetta di rimanere competitivi». Avevamo l’esperienza dello Sme. Qualcuno diceva: stando nello Sme spingeremo le imprese ad aumentare la produttività e a contenere i salari. Ma ciò non era avvenuto: il sistema non aveva funzionato. Anche quando ero a capo del Servizio Studi, avevo sempre osservato che questo meccanismo non funziona. Affermo in Parlamento: «Non avremo più i terremoti monetari, ma avremo una sorta di bradisismo. Sapete cos’è? È il terreno che si abbassa sotto il livello del mare gradualmente, come a Pozzuoli. Ogni anno perderemo qualcosa in termini di crescita rispetto agli altri Paesi». Guardiamo ora i dati della competitività italiana. Il Clup, il costo del lavoro per unità di prodotto, aumenta in Italia tra 2000 e 2003 del 9,9%; in Germania e Francia, i nostri maggiori partner e competitori, rispettivamente dell’1,7 e 1,5%. La produzione industriale in Italia tra il 2000 e il 2004 scende del 2,8%, in Germania sale del 3%, in Francia del 2%; nell’Europa dei 12 (Italia inclusa) cresce del 3%. Mentre la produzione europea sale, quella italiana scende. Mi piace molto fare da solo i conti sulle principali variabili macroeconomiche, con i dati ufficialmente disponibili. Ho calcolato, dal 2006 ad oggi, gli andamenti in Italia e in alcuni altri Paesi dei dati più rilevanti. Il Pil in questi 9 anni è calato in Italia del 5,5%, meno 0,6% all’anno; nel resto dell’Europa dell’euro, che comprende anche Slovacchia, Estonia, Spagna, Portogallo e Grecia, cresce dello 0,8% all’anno. Osservate il bradisismo: è uno sprofondamento dell’1,4% all’anno. Quello che muove l’economia sono gli investimenti produttivi: sono diminuiti in Italia tra 2006 e 2014 del 27%, nel resto d’Europa sono aumentati. Le esportazioni sono salite in Italia dal 2006 del 14,6%. Il problema è che le esportazioni crescono molto più rapidamente dell’economia e nel resto dell’Europa sono aumentate del 35%. E come va il Clup? In Italia sempre dal 2006 in media è aumentato del 2,4%, nel resto dell’Europa (inclusi Grecia e Portogallo) dell’1,5%, ma in Germania e Francia l’aumento è stato pressoché nullo. Si debbono fare allora le riforme, anche se non saranno quelle istituzionali a ridurre il costo del lavoro, punctum dolens dell’Italia per uscire da questo stallo. Avremmo, per esempio, da imparare dalla Germania circa la partecipazione dei sindacati nell’indirizzo e gestione delle imprese. Adam Smith, ritenuto il fondatore della moderna economia politica, diceva che i sistemi economici si reggono sulla concorrenza e sul mercato, ma anche sulla sympathy, l’amicizia civile che è unità d’intenti all’interno della nazione. Non si può vivere di sola concorrenza e tanto meno di lotta di classe. L a conclusione. Vediamo l’economia mondiale. Il Pil degli Stati Uniti è di circa 18mila miliardi di dollari l’anno. Il Pil della Cina è circa la metà (da tener presente però che negli Usa vivono 300 milioni di persone, nella Cina un miliardo e 300 milioni, quindi il reddito pro capite è un ottavo). Il Giappone ha un Pil di circa 5mila miliardi. La Germania di oltre 3mila miliardi di dollari; la Francia 2,3 circa, l’Italia 1,7. L’area dell’euro: circa 11mila miliardi, un po’ sopra la Cina, notevolmente inferiore agli Stati Uniti che hanno più del 20% del Pil mondiale (l’area dell’euro ha circa un ottavo). La bilancia dei pagamenti, differenza tra quello che si esporta e quello che si importa, negli Stati Uniti è deficitaria per 456 miliardi di dollari. Come fanno? Creano dollari, principale moneta internazionale, per coprire il disavanzo. La Cina ha quasi 300 miliardi di dollari l’anno di surplus della bilancia dei pagamenti. Pagano pochissimo il lavoro, il costo del lavoro è forse un decimo di quello europeo e degli Stati Uniti. Ma il fatto più straordinario è che la Germania, proprio per l’aumento di competitività iniziato dal 2000, ha un surplus vicino a quello della Cina. La Germania è un terzo della Cina, e ha un surplus dovuto al fatto di avere un’industria particolarmente efficiente. Ma gode, grazie all’euro, di un cambio favorevole in quanto altri Paesi, tra i quali Italia, Spagna, Grecia, anche la Francia, di fatto ne abbassano il valore. Un Paese che ha un surplus della bilancia dei pagamenti dovrebbe reinvestirlo in spesa reale o prestarlo ad altri Paesi che hanno un deficit, altrimenti crea deflazione nel sistema di cui è parte. Il piano che aveva ideato Juncker, di investimenti per 315 miliardi, era la soluzione giusta. L’area dell’euro ha un surplus, nei confronti del mondo esterno, del 3% del suo Pil. Cosa fa? Ha disoccupazione, ha deflazione, può e deve spingere invece gli investimenti. L’ex ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, che è stato tanto criticato, aveva capito le cose meglio degli altri. In sostanza l’argomento è: se invece di puntare tutto sul Quantitative easing (anche se Mario Draghi si sta muovendo nella giusta direzione, al massimo di quanto gli concede lo Statuto) comprando titoli pubblici – quindi coprendo una spesa già effettuata da altri –, 300 miliardi fossero impegnati ogni anno in progetti di investimento scelti dalla Banca Europea degli Investimenti e i relativi titoli acquistati dalle banche centrali nazionali, avremmo un immediato, notevole sollievo della situazione economica. La politica monetaria molto espansiva aiuta l’economia, in particolare in questo momento attraverso il cambio, che dopo i livelli che aveva raggiunto – proibitivi per le economie più deboli – è ora tornato su livelli più naturali. Comunque se il cambio è in linea con le economie più deboli, è estremamente favorevole per quelle più forti. Keynes ci ha insegnato: in un’economia dove c’è disoccupazione, il risparmio lo formano gli investimenti. Effettuando gli investimenti aumenta il reddito e si forma il nuovo necessario risparmio. N on bisogna ragionare, come talora si fa in Europa, come se i soldi fossero già in cassa, questo è un ragionare da contabili, non tenendo conto delle più elementari nozioni di macroeconomia. L’area dell’euro soffre di problemi gravi di disoccupazione. La domanda globale è insufficiente. I riflessi sociali sono evidenti, seguiranno purtroppo riflessi anche politici. Il surplus di bilancia dei pagamenti di alcuni Paesi dovrebbe essere impiegato in investimenti reali, non finanziari, in patria o in altri Paesi dell’area. Una politica del genere aiuterebbe anche l’economia mondiale. Un’ultima considerazione. Nel 2007 il rapporto tra debito pubblico e Pil era nel nostro Paese pari a 103, è arrivato a ben oltre il 130 a seguito delle politiche di aumento dell’imposizione fiscale suggerite dalla Commissione. O è sbagliata la diagnosi o è sbagliata la medicina. Ma se è sbagliata la diagnosi, la cura è sicuramente controproducente. Se in una economia già in difficoltà si accresce il livello di imposizione fiscale l’attività economica viene ulteriormente frenata, con effetti negativi su occupazione e società. L’unico modo di ridurre il rapporto tra debito e Pil è stimolare la crescita. Se la politica praticata e che viene consigliata per l’Italia non ha questo risultato, non si esce dal circolo vizioso. Il discorso è aperto. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 26 Dal Ghetto escono 500 anni di cultura di Vettor Maria Corsetti Da Venezia storia ed arte per trasmettere messaggi di libertà e memoria verso un futuro di dialogo Mezzo millennio d'identità culturale in movimento, condensato «in più eventi-veicolo capaci di trasmettere i messaggi universali di libertà, giustizia e verità», come ha sottolineato Alfredo Bianchini a nome del Comitato organizzatore. E i 500 anni del Ghetto di Venezia che «pur non festeggiabili, perché nella segregazione nulla c'è da festeggiare», diventano «segnale di vita» nelle parole del presidente della Comunità ebraica, Paolo Gnignati. Nell'ambito di un percorso «che è parte essenziale del comune sentire e della storia italiana ed europea». Dove la conservazione della memoria intesa come diritto-dovere e la difesa di presente e futuro vanno a braccetto con il dialogo e l'accoglienza. Tra Regione Veneto, Comune di Venezia, Consiglio d'Europa, Università Cà Foscari, Ava, fondazioni e associazioni cittadine, nazionali e internazionali, si fa sempre più imponente il numero di organizzatori d'iniziative per i cinque secoli dalla creazione del primo luogo nel mondo dove «li giudei» avrebbero dovuto «abitar unidi», recintati e sorvegliati. Tanto che ieri, nella sede della Comunità ebraica di Venezia, a intervenire sul tema sono stati in dodici, mentre gli altri non hanno potuto far altro che atto di presenza. D'altro canto, a rappresentare tutti è stata la versione quasi definitiva di un programma così ricco di appuntamenti da rimandare inevitabilmente alla consultazione del sito www.veniceghetto500.org. Location della cerimonia inaugurale sarà il Teatro La Fenice, che dalle 19 del 29 marzo ospiterà per iniziativa di Ucei, Aepj e Congresso mondiale ebraico una serata a invito con personalità internazionali della scienza, dell'economia, dell'arte e della cultura. L'esecuzione de «Il Titano», sinfonia n. 1 in re maggiore di Gustav Mahler da parte dell'Orchestra della Fenice diretta dall'israeliano Omer Meir Wellber, sarà preceduta da una prolusione dello storico britannico Simon Schama. E prima ancora, alle 17, dalla presentazione in Ateneo Veneto del libro di Donatella Calabi «Venezia e il Ghetto. Cinquecento anni del "recinto degli ebrei"» (ed. Bollati Boringhieri). Di forte richiamo la mostra «Venezia, gli Ebrei e l'Europa, 15162016», curata dalla stessa Calabi, organizzata dalla Fondazione musei e visitabile negli appartamenti del Doge a Palazzo Ducale dal 19 giugno al 13 novembre. Come l'impegno profuso da Venetian Heritage nella raccolta fondi finalizzata al restauro di Museo ebraico e sinagoghe, che ad oggi ha raggiunto quasi metà della cifra richiesta: 4 milioni di euro su 8,5 complessivi. Proprio all'interno del Museo ebraico, alle 15.30 del 30 marzo, il vicesegretario generale del Consiglio d'Europa scoprirà una targa «per ricordare il ruolo fondamentale del patrimonio culturale ebraico nella storia e cultura dell'Europa». Dal 26 al 31 luglio, l'Università Cà Foscari e la Compagnia dei Colombari porteranno Shakespeare in Ghetto, con la prima rappresentazione al suo interno di una messinscena ispirata a «Il mercante di Venezia». Mentre dal 9 giugno al 9 ottobre Ikona Gallery proporrà la mostra «Art of this Century. Peggy Guggenheim in Photographs». E resta in via di definizione il nutrito calendario di eventi accademici, comprensivo di convegni di assoluto rilievo. Tra gli altri progetti patrocinati dal Comitato organizzatore, il progetto musicale «The Music of the Ghettoes. Old and New Songs from the Jewish Tradition», di e con Frank London e la partecipazione di Ute Lemper. Oltre a presentazioni di libri, mostre e una raccolta fondi per rendere accessibili due giardini all'interno del Ghetto. Risorse per il restauro di una sinagoga, invece, le sta raccogliendo l'Associazione veneziana albergatori, che per promuovere il cinquecentenario ha pensato anche a specifici pacchetti turistici. Mentre nel mondo, il compleanno a tutto tondo del Ghetto di Venezia è stato e sarà il tema dominante di iniziative culturali organizzate da febbraio a maggio a Shanghai, Belgrado, San Francisco, Gerusalemme, New York e Tel Aviv. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Ghetto, massima allerta per il giorno dei 500 anni di Paolo Navarro Dina Fenice blindata per il concerto del 29 con la presidente Boldrini e il ministro Boschi. Rafforzata la sorveglianza a San Marco, stazione e Tessera Al centro dell’attenzione ora più che mai c’è il Ghetto, ma non solo, visto e considerato che si avvicinano le vacanze di Pasqua e quindi anche una maggiore affluenza in città. In ogni modo, proprio per il loro rilievo simbolico, le celebrazioni per il 500° anniversario della sua istituzione sono al primo posto nelle priorità del dispositivo di controllo e vigilanza elaborato dalla Prefettura e condiviso dalla Questura. Sotto la lente di ingrandimento di Ca’ Corner vi è il prossimo concerto, organizzato per la sera del 29 marzo, alla Fenice per il Cinquecentenario che vedranno tra gli altri la presenza del Presidente della Camera, Laura Boldrini, e il ministro per le Riforme costituzionali, Maria Elena Boschi e numerosi esponenti della comunità ebraica come il presidente dell’Unione delle Comunità, Renzo Gattegna, e il presidente del Congresso Mondiale ebraici, Ron Lauder. «Soprattutto tenendo conto di quanto è accaduto in queste ore a Bruxelles sottolinea una nota della Prefettura - verranno ulteriormente rafforzate le misure di controllo, di vigilanza e prevenzione anti-terrorismo con riferimento al Ghetto e all’area circostante per garantire il massimo di sicurezza senza pregiudicare le condizioni ordinarie di vita». Ma non solo. Per quel che riguarda l’accesso alla cerimonia alla Fenice verranno attivati specifici servizi di sicurezza tanto che al concerto è prevista l’affluenza di persone già preventivamente identificate al momento dell’ingresso, con la predisposizione di adeguate misure di carattere sanitario in sede di tavolo tecnico della Questura. «Anche tutti gli eventi - sottolinea la Prefettura - all’iniziativa dei 500 anni, non organizzati dal Comitato promotore, che si svolgeranno in centro storico. Saranno tenuti sotto controllo con appositi servizi di vigilanza». Ma non c’è solo il Ghetto ebraico all’attenzione della Prefettura e delle forze dell’ordine. Anche la Basilica di San Marco, come luogo principale della Cristianità a Venezia è costantemente tenuta sotto controllo secondo il dispositivo già più volte messo in atto nel corso delle ultime settimane e che è stato messo a punto, anche nel recente vertice Italia-Francia. E oltre alla Basilica, altri luoghi tenuti costantemente sotto controllo sono - come di consueto - il porto e l’aeroporto, ma anche le stazioni Fs. Intanto la Prefettura ha fatto il punto anche sulle prossime festività pasquali e per il 25 aprile e il 1. maggio. In questo senso è stata decisa l’intensificazione nella lotta contro fenomeni di microcriminalità diffusa, furti e borseggi con particolare attenzione ai mezzi pubblici e ai luoghi maggiormente frequentati (San Marco, Rialto). Rafforzati i controlli anche contro la contraffazione e il commercio abusivo. Infine per quel che riguarda la circolazione, la Prefettura ha disposto appositi piani di vigilanza stradale con posti di blocco e controlli serrati. Infine, nel ricordare il tragico incidente di Barcellona in Spagna dove hanno perso la vita tredici studentesse universitarie del progetto Erasmus, la Prefettura informa che saranno attuati controlli a campione sulla funzionalità dei mezzi usati per i viaggi scolastici. Inoltre, Ca’ Corner fa sapere di aver deciso l’organizzazione di tre giornate formative dedicate alla Polizia locale a San Donà, Portogruaro e Mestre sulle procedure e le modalità per attivare il servizio di controllo del trasporto scolastico. Pag XIII “Seguire l’esempio di don Franco” di r.ros. Premio Sinopoli: ieri la consegna del riconoscimento ai familiari Un premio per tutto quello che ha saputo fare e dare a tantissime persone, soprattutto giovani, finiti nel tunnel della droga negli ultimi 30 anni, ma anche un segno di speranza perché la sua opera continui dopo la sua scomparsa. Al ricordo di don Franco De Pieri è stato dedicato il secondo "Memorial Gabriele Sinopoli", riconoscimento istituito dal comitato "Mestre Off Limits" al Centro S. Maria delle Grazie. «Don Franco ora è una cometa che ci guida e ci irradia con la sua luce - ha detto il presidente del comitato Fabrizio Coniglio -. Ha aiutato seimila persone, dando lavoro a 170 uomini e donne strappate alla schiavitù della droga con il Centro Don Milani. Non me ne intendo di diritto canonico, ma sono certo che don Franco meriterebbe almeno l'avvio di un processo di beatificazione». Narcisa e Paolo Cibin, i fratelli di don Franco, hanno ritirato la targa in memoria del fratello morto alla fine dell’anno scorso. «Amava questa città e apprezzava chi, come voi, si adopera per renderla migliore - ha detto il fratello Paolo -. Ci manca molto, ma stiamo cercando di seguire la strada che ci aveva indicato». A consegnare il riconoscimento anche Marzia Sinopoli, vedova di Gabriele. «Non poteva esserci premiato migliore quest'anno. Mi auguro che quella giustizia che lui voleva arrivi anche per noi regalandoci un po’ di pace». Sulla proposta di introdurre nelle scuole un'ora dedicata alla prevenzione contro la droga suggerita da Coniglio, d'accordo anche il dirigente del commissariato di via Ca’ Rossa Eugenio Vomiero: «Tutelare i nostri ragazzi sarebbe la prima cosa da fare». LA NUOVA Pag 17 Pasqua, città blindata e allerta in Ghetto di Carlo Mion Controlli rigidi al concerto alla Fenice per i 500 anni della comunità ebraica Venezia. In aeroporto già ieri mattina si capiva che gli attentati di Bruxelles hanno cambiato, ancora una volta, la nostra vita: poliziotti e cani antisabotaggio ovunque oltre a una squadra di artificieri arrivata dalla Questura. Del resto il Marco Polo è da sempre, come la città, un obiettivo sensibile. Ieri mattina la riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduta dal prefetto Domenico Cuttaia, che doveva occuparsi delle celebrazioni per i 500 anni del Ghetto e delle misure di sicurezza di campo Santa Margherita, ha inevitabilmente affrontato la situazione dopo gli attentati avvenuti nella capitale d’Europa. I 500 anni del Ghetto. Saranno ulteriormente rafforzate le misure di controllo, vigilanza e prevenzione antiterrorismo, con particolare riferimento al Ghetto e all’intera area circostante, per garantire il massimo della sicurezza senza comunque pregiudicare le condizioni ordinarie della vita economica e sociale della città. In particolare, saranno attivati specifici servizi di sicurezza in occasione del concerto al Teatro La Fenice, al quale è prevista la partecipazione di persone preventivamente conosciute e identificate al momento dell’ingresso. Sono state pianificate le misure di tutela e scorta nei confronti delle personalità di governo e degli esponenti del mondo ebraico, secondo le consuete procedure, le cui modalità operative saranno definite in sede di tavolo tecnico presso la Questura. Tutti gli eventi collaterali ai festeggiamenti, non organizzati dal comitato promotore, che si svolgeranno nel centro storico, saranno particolarmente vigilati, con appositi servizi. Innalzato il livello di sicurezza. È stato deciso di potenziare il dispositivo di sicurezza per gli obiettivi sensibili della città: San Marco, area marciana, aeroporto Marco Polo, porto e stazione ferroviaria. Sicurezza già elevata dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre scorso. Soprattutto sarà impiegato un numero maggiore di pattuglie miste tra forze dell’ordine ed esercito. Saranno aumentati i controlli ai varchi di accesso e uscita, e fatte mirate verifiche nell’area antistante all’aeroporto, alle persone per accertare se hanno titoli di viaggio regolari e perché rimangono lì. Aumenteranno i controlli con i metal detector portatili soprattutto nelle stazioni ferroviarie e nei bagagli lasciati in deposito. Una misura già adottata dopo gli attentati alle Torri gemelle nel 2001. Pasqua blindata. Sono state messe a punto le iniziative di vigilanza e controllo del territorio, in previsione delle prossime festività pasquali e del prevedibile afflusso di turisti che caratterizzerà anche il 25 aprile e il Primo maggio. È stata decisa l’intensificazione dei servizi di prevenzione e repressione dei fenomeni di microcriminalità diffusa, furti e borseggi innanzitutto, con particolare attenzione alle aree maggiormente affollate e comprese negli itinerari turistici e ai principali luoghi di culto. Allo scopo di prevenire atti di vandalismo nei confronti dei monumenti e dei beni culturali di pregio architettonico, soprattutto nel centro storico di Venezia, saranno potenziati i controlli con il coinvolgimento della Polizia locale. Saranno ulteriormente rafforzati i servizi di vigilanza per contrastare il fenomeno dell’abusivismo commerciale e della contraffazione, secondo il collaudato piano di suddivisione del territorio in aree assegnate alle forze dell’ordine e alla Polizia locale. In relazione, poi, al prevedibile incremento dei flussi di traffico veicolare su tutte le principali arterie stradali e autostradali, verranno attuati, con il concorso delle Polizie locali, negli ambiti territoriali di competenza, appositi piani di vigilanza stradale per l’attività di prevenzione e repressione delle violazioni delle norme di comportamento alla guida, nonché dispositivi di assistenza e soccorso, con il coinvolgimento degli enti preposti alla tutela della circolazione stradale, allo scopo di garantire il massimo livello di sicurezza, e un intervento immediato di supporto agli utenti in viaggio, in caso di situazioni emergenziali dovute all’intensità del traffico, a incidenti o a criticità connesse al meteo. Pag 27 Ghetto, nove mesi di eventi per ricordare di Nadia De Lazzari Il presidente della Comunità ebraica Gnignati: “Un momento storico”. Il rabbino capo: “Venezia resti città del dialogo” Venezia si prepara a ricordare i 500 anni di vita del Ghetto. Era il 29 marzo 1516 quando il Senato della Serenissima decreta di mandare 700 Ebrei nel Ghetto Nuovo che è “come un castello”. Così, nasce il primo Ghetto del mondo. Nella Sala Montefiore della Comunità ebraica, ieri, è stato fatto il punto sul denso programma di iniziative che la Città propone. I grandi temi di riflessione che il Cinquecentenario pone - nelle intenzioni degli organizzatori - sono quelli della libertà, della giustizia e della verità. Questi verranno indagati nelle forme più diverse, dal livello accademico a quello divulgativo, e in modo diffuso sul territorio - coinvolgendo la Città da Mestre al Lido - grazie a tre appuntamenti principali, ma anche a numerosissimi altri, che si svolgeranno nel corso di tutto l’anno. Come ha avuto modo di specificare il presidente del Comitato “I 500 anni del Ghetto” Alfredo Bianchini, gli eventi non sono stati concepiti come manifestazioni di per sé, ma come mezzi, linguaggi differenti, per trasmettere questo triplice messaggio. Gli interventi. «Questo è un momento storico» ha esordito Paolo Gnignati, presidente della Comunità ebraica «non è una festa, ma il ricordo di un dramma che deve servire agli altri». Il rabbino capo Scialom Bahbout ha rilanciato il progetto di Venezia, da lui già candidata come Premio Nobel per la pace, come centro mondiale della cultura, del dialogo e del confronto tra religioni e lanciato il progetto Maimonide che punta a far diventare Venezia un punto di riferimento per i giovani e per tutte le università italiane. «Siamo particolarmente grati» ha dichiarato la presidente del consiglio comunale Ermelinda Damiano, dopo aver portato i saluti del sindaco Luigi Brugnaro «per il lavoro che il Comitato ha svolto, perché il programma realizzato saprà raccontare al mondo intero il contributo che la comunità ebraica veneziana ha saputo offrire nei secoli ma, al tempo stesso, lanciare questo messaggio universale di libertà, giustizia e verità. L’Amministrazione comunale si sente particolarmente vicina alla comunità ebraica veneziana». «Riteniamo fondamentali i concetti di integrazione ed interazione reciproca» ha continuato l’assessore al Turismo Paola Mar «e i 500 anni del Ghetto ci danno modo proprio di ragionare e ripensare al loro significato nel corso della storia, ma soprattutto con riferimento al presente. La comunità ebraica veneziana ha saputo produrre su diversi piani: culturale, artistico, economico, scientifico, ma anche politico. Ha saputo interagire pur mantenendo la propria identità: questo ritengo sia un esempio fondamentale per tutti». Teatro La Fenice. Il 29 marzo si svolge la cerimonia inaugurale (a inviti) con concerto in presenza di personalità internazionali del mondo della scienza, dell'economia, dell'arte e della cultura. Dopo i saluti istituzionali e una prolusione dello storico britannico Simon Schama, Oner Meir Wellber, direttore d’orchestra israeliano, dirige l’Orchestra del teatro nell’esecuzione dell Sinfonia n. 1 in Re maggiore di Gustav Mahler (Il Titano). L'evento è organizzato in collaborazione con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane e il sostegno del Congresso Mondiale Ebraico e della Associazione Europea per la conservazione e la promozione della cultura e del patrimonio ebraico. Palazzo Ducale. Tra le iniziative spicca a mostra “Venezia, gli ebrei e l’Europa. 1516 2016”, organizzata in collaborazione con la Fondazione Musei Civici e in programma dal 19 giugno al 13 novembre 2016 negli appartamenti del Doge. Importante è la collaborazione con le Gallerie dell’Accademia e alcuni musei e collezioni stranieri, quali il Louvre di Parigi, la Pinacoteca di Brera, il Museo Ebraico di Vienna. Università. Ca’ Foscari e Compagnia de’ Colombari partecipano dal 26 al 31 luglio con il principale evento artistico dell’anno, la prima messinscena della storia del Mercante di Venezia di William Shakespeare nel Ghetto dove la celeberrima opera con il protagonista Shylock è idealmente ambientata. Il Ghetto e l’opera sono documenti straordinari della storia usati come strumenti di discriminazione e agenti di tolleranza e conoscenza della minoranza per eccellenza. L’avvenimento teatrale di valenza etica e civile sottolinea il ruolo di Venezia come fulcro della civiltà dello scambio e luogo di riflessione sulla convivenza. Associazione albergatori. Ha stipulato un accordo con la Comunità ebraica per lanciare fino al prossimo 31 dicembre agli ospiti delle oltre 240 strutture aderenti una raccolta fondi per il restauro delle vetrate e del portone della Sinagoga Spagnola. Con donazioni di almeno 10 euro si riceve in omaggio un manifesto di Tobia Ravà. Collezione Peggy Guggenheim. Dal 9 giugno al 9 ottobre 2016, presso la galleria Ikona Gallery in Campo del Ghetto Nuovo è allestita la mostra “Art of the Century. Peggy Guggenheim in Photographs”, a cura di Ziva Kraus. Infine sono in programma cicli di concerti, serate a tema, incontri sulla vita e la cultura ebraica promossi dalle prestigiose istituzioni veneziane: Alliance Française, Ateneo Veneto, Biblioteca Nazionale Marciana, Centro Candiani, Centro Tedesco di Studi Veneziani, Querini Stampalia, Galleria Scalamata, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Scuola Grande di San Rocco. Tutti gli aggiornamenti su www.veniceghetto500.org. Tutti gli eventi previsti nel lungo elenco di celebrazioni per i 500 anni del Ghetto sono il risultato di un lungo lavoro congiunto del Comitato organizzatore, delle Comunità ebraiche locale, nazionale e internazionali, del Comune e di una miriade di istituzioni, locali e internazionali, pubbliche e private. Queste solo alcune: le Fondazioni Teatro La Fenice e Musei Civici, Ca’ Foscari, Venice Heritage Onlus. Ieri i principali eventi sono stati illustrati dal presidente della Comunità ebraica Paolo Gnignati, dal rabbino capo Scialom Bahbout e dal consigliere Paolo Navarro. Inoltre erano presenti il presidente del consiglio comunale Ermelinda Damiano, l’assessore comunale al turismo Paola Mar, la presidente della Fondazione Musei Civici Mariacristina Gribaudi, Alfredo Bianchini e Shaul Bassi del comitato “I 500 anni del Ghetto”, Cristiano Chiarot sovrintendente della Fenice, Michele Bugliesi rettore di Ca’ Foscari, Toto Bergamo Rossi direttore della Fondazione Venetian Heritage. Pag 34 Coniglio: “Da Mestre parta la beatificazione di don Franco” di Giacomo Costa L’idea lanciata dal coordinatore di Mestre Off Limits durante la premiazione del Memorial Sinopoli: “De Pieri ha salvato migliaia di ragazzi dalla droga, con persone come lui la società sarebbe migliore” Un premio destinato a celebrare chi, con spirito di gratuità e altruismo, si spende per migliorare la città, rendendola un luogo sicuro e più accogliente: ieri sera, al Centro Le Grazie di via Poerio, è andata in scena la seconda edizione del Memorial Gabriele Sinopoli, iniziativa nata dall'impegno del coordinatore del gruppo Mestre Off Limits, Fabrizio Coniglio, e intitolata al 64enne mestrino morto su un letto d'ospedale un anno e mezzo dopo una brutale e insensata aggressione da parte di alcuni giovani delinquenti, avvenuta nel settembre di quattro anni fa tra via Verdi e via Manin. Il violento pestaggio, i cui motivi continuano a risultare nebulosi, aveva infatti causato a Sinopoli un gravissimo ematoma cerebrale, risoltosi in ricoveri continui, crisi epilettiche ed interventi al cervello, durati fino al decesso, datato 11 aprile 2014. Nel 2015 la prima edizione dell'evento aveva celebrato il poliziotto Ivano Mestriner, quest'anno invece il premio ricorderà la figura di don Franco De Pieri, fondatore del centro Don Milani: «Una persona che ha tirato fuori seimila ragazze e ragazzi dal tunnel della droga, facendone poi padri e madri responsabili e oggi impegnati a costruire il futuro della nostra città», ha spiegato Coniglio. «Se ci fossero più individui come don Franco vivremmo in una società migliore: è una stella quella che noi festeggiamo». A ritirare il riconoscimento i familiari del religioso, stroncato da un infarto lo scorso 23 dicembre, all'età di 77 anni. La serata di ieri, alla presenza del responsabile della questura di via Ca' Rossa, Eugenio Vomiero, si è aperta con un minuto di silenzio in onore delle vittime degli attacchi terroristici di Bruxelles: «Vista la gravità dell'accaduto avevamo valutato l'ipotesi di rimandare la premiazione», ha dichiarato Coniglio, «ma proprio la luminosa figura di don De Pieri ci ha indotto a non alterare il programma, come gesto di speranza. Avevamo già deciso a settembre chi sarebbe stato il nostro premiato e quando ne abbiamo parlato con lui don Franco ci aveva risposto con l'umiltà che lo contraddistingueva, chiedendoci perché proprio lui. Ora, guardando tutto quello che ha fatto per noi, ci chiediamo se non ci sia la possibilità di avviare un processo di beatificazione per Franco De Pieri: siamo sicuri che tutta la città sosterrebbe questa idea». A riprova di quanto sostenuto, all'udire queste parole metà sala del centro Le Grazie si è alzata in piedi, applaudendo con calore. Con la voce rotta dal pianto, anche Marzia Sinopoli, vedova della vittima a cui è dedicato il premio, ha voluto ricordare il marito e la statura di De Pieri: «Don Franco conosceva la famiglia Sinopoli, lavoravano assieme per aumentare la consapevolezza sul tema delle droghe, a riprova che il destino ha davvero un disegno per certe persone». La vedova ha poi rivolto un pensiero anche alle sette studentesse italiane morte in Spagna e alle loro famiglie e, dopo il saluto del commissario, ha consegnato, accompagnata sul palco dal figlio Filippo, la targa commemorativa ai fratelli del religioso. La serata si è poi chiusa con un concerto per pianoforte. Pag 34 Senzatetto, i volontari sono ancora con loro di Paola Filippini Scaduto il contratto Caracol – Comune, continua l’assistenza: “Importante mantenere i rapporti umani” Il 10 marzo è scaduto il contratto della cooperativa Caracol che si occupava dei senzatetto della città e quel giorno gli operatori - che per anni hanno assistito i senza dimora portando beni di prima necessità nelle strade ed accogliendoli nel dormitorio del Centro Rivolta - hanno promesso che avrebbero continuato volontariamente a fornire assistenza. E così una decina di giorni dopo il furgone è di nuovo in moto e parte dal centro sociale di via Fratelli Bandiera a Marghera per fare il solito giro in centro a Mestre, passando per via Piave, via Carducci, Piazzale Donatori di Sangue e via Querini. Il furgone accosta, scendono Vittoria Scarpa e “Momo” Davide Mozzato, presidente di Caracol, salutano tutti i senzatetto che passano il tempo seduti ai bordi delle strade o alle fermate dei bus; li chiamano per nome, scambiano qualche battuta, si danno la mano, si raccontano, come vecchi amici. Gli operatori chiedono se hanno bisogno di coperte o sacchi a pelo, c'è chi accetta volentieri, chi invece ha già qualcosa per passare la notte. Ci sono anche merendine per chi non ha ancora mangiato e per tutti parole di conforto e amicizia. «È come entrare in un bar e salutare i soliti amici», spiega Vittoria. «Li conosciamo tutti, sappiamo i loro nomi, le loro storie, cosa li ha portati qui, cosa li ha ridotti alla vita di strada. Cerchiamo di dare sempre un supporto anche psicologico perché essere lasciati soli è dura, può portare a depressione che spesso sfocia in disturbi mentali. Noi siamo dispiaciuti di aver perso questo incarico, ma al di là del lavoro noi non vogliamo assolutamente perdere i rapporti che abbiamo costruito in tanti anni di assistenza ai senza fissa dimora». Spiega infatti che oltre alla distribuzione delle coperte, che sono presidi salvavita nei periodi invernali, l'importante è mantenere rapporti umani, avere sempre il cuore e le orecchie aperte, per ascoltare tutte queste persone che in qualche modo sono sole, ed hanno i loro problemi da risolvere, le loro lamentele da fare, ma anche qualche cosa di bello da condividere. Ora che i servizi sono stati sospesi (34 posti letto in meno e turno docce dimezzato) chi vive per le strade è preoccupato per la sicurezza: un ragazzo marocchino di 26 anni, in Italia da 10, spiega che questa situazione va tamponata il prima possibile perché se vengono tagliati i servizi il degrado nelle strade del centro rischia di peggiorare velocemente. E a proposito di sicurezza, alcuni raccontano di avere paura di stare soli di notte, e quindi cercano di dormire in gruppo. Ci sono circa 50 persone che trascorrono la notte nella zona di via Piave, e molti di loro stanno assieme, per evitare situazioni pericolose, leggi aggressioni e violenze mentre dormivano nei parchi o sui marciapiedi. C'è anche una coppia di fidanzati, che in qualche modo si dicono felici di dormire all'aperto perché, spiegano, nei dormitori le stanze sono divise tra donne e uomini, mentre loro non si vorrebbero separare mai: sono Thomas e Petra, due giovanissimi ragazzi della Repubblica Ceca, in Italia da qualche mese. Hanno vissuto per un po' in Spagna, e ora vorrebbero raggiungere la Svizzera. Entrambi diplomati in un istituto alberghiero, a 23 anni hanno una bambina di 2, Eva, che attualmente vive con la nonna paterna. «I tagli ai servizi sono un problema: servono più spazi per fare le docce o anche solo per passare qualche ora al caldo. Anche socializzare è importante, noi qui abbiamo molti amici che ci aiutano e noi quando possiamo ricambiamo». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… AVVENIRE Pag 13 La Consulta mette in salvo gli embrioni di Marcello Palmieri e Enrico Negrotti Respinto il ricorso per usare nella ricerca quelli creati in provetta e scartati. Gli scienziati: “Sono esseri umani sin dall’inizio”. Le staminali embrionali sorpassate da altre soluzioni Sulla materia il Parlamento è sovrano. Con questa motivazione (il contenuto integrale della sentenza lo si leggerà solo dopo il deposito), al termine della camera di consiglio che ha seguito l’udienza pubblica di ieri mattina, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso teso a spazzar via l’articolo 13 della legge 40, quello che consente di sottoporre gli embrioni solo a sperimentazioni diagnostiche e terapeutiche volte alla loro crescita, vietando invece ogni utilizzo da cui ne deriverebbe la distruzione. Il verdetto, come si legge in un comunicato della Corte, è stato assunto «in ragione dell’elevato grado di discrezionalità, per la complessità dei profili etici e scientifici che lo connotano, del bilanciamento operato dal legislatore tra dignità dell’embrione ed esigenze della ricerca scientifica: bilanciamento che, impropriamente, il Tribunale chiedeva alla Corte di modificare, essendo possibile una pluralità di scelte, inevitabilmente riservate al legislatore». A sollevare il problema erano stati due coniugi fiorentini, che dopo un trattamento per concepire in vitro, avrebbero voluto destinare agli esperimenti scientifici 5 embrioni affetti da esostosi e 4 non biopsabili. Di fronte al rifiuto della struttura sanitaria, opposto in forza della legge 40, la coppia si era rivolta al tribunale perché ordinasse al centro medico di assecondare le sue richieste. I giudici fiorentini non lo avevano potuto fare ma, ritenendo che la norma contrastasse con la Costituzione, avevano portato la questione all’attenzione della Consulta. Nel cosiddetto 'atto di rimessione' il tribunale fiorentino stigmatizzava il «divieto assoluto di qualsiasi ricerca clinica o sperimentale che non sia finalizzato alla tutela dell’embrione stesso», poiché «privo di deroghe ». Dunque a suo avviso del «del tutto irragionevole», e in contrasto con gli articoli 9 e 32 della Costituzione (posti a salvaguardia rispettivamente della ricerca scientifica e della salute). Il tribunale ne faceva poi una questione numerica, sottolineando come la pronuncia 151/2009 della stessa Consulta – che ha rimosso il divieto di produrre più di 3 embrioni per ciclo, e comunque finalizzati a un unico impianto – abbia di fatto incrementato la quantità di embrioni soprannumerari destinati a una conservazione sine die nei congelatori dei centri specializzati. Perché allora non destinarli alla ricerca scientifica? I motivi accolti dalla Corte li ha spiegati l’Avvocatura dello Stato. «Il legislatore – si legge nella memoria firmata da Gabriella Palmieri – ha inteso tutelare l’embrione quale entità che ha in sé la vita». Dunque «non può affatto ritenersi irragionevole che nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela dell’embrione e l’interesse allo sviluppo della scienza, sia il secondo a dover cedere ». La prospettiva è stata ulteriormente chiarita a voce nell’udienza di ieri: «La nostra posizione – ha scandito Palmieri – non si è formata solo alla luce dei risultati scientifici, ma ha voluto anche ridare centralità al Parlamento ». Quello stesso Parlamento che «ha emanato la legge 40 dopo un difficile dibattito», e solo dopo «aver ascoltato esperti della materia». Conclusione: «Il trinomio scienza, diritto e tecnica non costituisce una scala di valori », semmai «scienza e tecnica devono convogliare in un’ottica legislativa che è compito del Parlamento ». L’anno scorso, la Consulta aveva aperto la procreazione medicalmente assistita – fino ad allora riservata solo alle coppie che non potevano procreare – anche a quelle con gravi malattie ereditarie. E ciò per permettere loro di effettuare la diagnosi degli embrioni, al fine di scartare quelli malati e impiantare solo quelli sani. In quella causa la presidenza del Consiglio non aveva mobilitato l’Avvocatura di Stato, dunque i giudici costituzionali avevano potuto ascoltare solo le ragioni dell’accusa. Ora invece che – come peraltro accade per prassi – è potuta intervenire anche la difesa, ai magistrati non sono sfuggiti i diversi beni giuridici tutelati dalla legge 40. Dunque hanno ritenuto giusto non modificarne il testo. Attorno alla seduta di ieri ha suscitato qualche polemica il rifiuto opposto dalla Corte all’audizione di scienziati favorevoli all’utilizzo di embrioni per la ricerca, così come proposti dalla coppia ricorrente presso Tribunale di Firenze. Ma alla base della decisione c’è un errore dei suoi avvocati, Filomena Gallo e Gianni Baldini: i legali si sono infatti costituiti in giudizio oltre il termine di legge giustificandosi con il fatto che era estate e si trovavano all’estero. Il nuovo presidente della Corte, Paolo Grossi, ha invece osservato che avrebbero potuto consultare la Gazzetta Ufficiale via Internet, ed eventualmente servirsi di collaboratori di studio rimasti in Italia. Che il legislatore italiano avesse discrezionalità nel bilanciare il valore della ricerca scientifica con quello della vita dell’embrione lo aveva già detto il 27 agosto 2015 la Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Ricorrente, allora, era Adele Parrillo, che con il compagno Stefano Rolla si era sottoposta a un trattamento di procreazione medicalmente assistita. Prima dell’impianto, tuttavia, lui era rimasto vittima nella strage di Nasiriyah, e lei aveva manifestato la volontà di donare gli embrioni già esistenti alla ricerca scientifica. Di fronte al rifiuto della struttura sanitaria che li custodiva, motivato alla luce della legge 40 – articolo 13 – la donna aveva fatto ricorso alla Cedu per ottenere la condanna dell’Italia. Che a suo avviso con quella legge violava sia il rispetto della sua vita privata e familiare sia il suo diritto di proprietà. Per rigettare il primo ordine di argomentazioni i giudici avevano osservato che la questione sollevava «delicate questioni etiche e morali» e che «in Europa, non c’è consenso unanime sulla materia». Quanto al secondo motivo del ricorso, invece, la Cedu aveva ritenuto che «gli embrioni umani non possono essere ridotti a 'cosa di proprietà'. Ne consegue che ogni Paese ha campo libero per normare autonomamente la materia. Sulla possibilità di utilizzare gli embrioni per la ricerca scientifica si dibatte da molti anni. Almeno da quando le pratiche di fecondazione assistita si sono affermate – negli anni Ottanta – creando in tutto il mondo decine di migliaia di embrioni «soprannumerari», cioè non destinati allo scopo di dare il via a una gravidanza ma rimasti congelati spesso senza un chiaro destino nei laboratori. E che, dopo la scoperta delle potenzialità di pluripotenza delle cellule staminali in essi contenuti, sono diventati la speranza (peraltro difficili da confermare) di terapie rigenerative verso gravi malattie. Ma la legge 40, riconoscendo il valore dell’embrione quale essere umano, ha stabilito che non si potesse utilizzare per la ricerca scientifica nemmeno quelli «avanzati » dai cicli di fecondazione. Un divieto ribadito ora dalla Consulta. «L’embrione non è semplicemente un ammasso di cellule, ma qualcosa di più che merita di essere rispettato – commenta Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma –. La sentenza della Corte Costituzionale, mantenendo in piedi il divieto di utilizzare gli embrioni congelati per fare ricerca, lo conferma». Una posizione condivisa da Angelo Vescovi, direttore scientifico dell’Irccs Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo e docente di Biologia cellulare all’Università di Milano-Bicocca: «Ripeto quanto da agnostico ho sempre sostenuto sin dalla campagna referendaria del 2005 sulla legge 40: al concepimento nasce un essere umano che non può essere utilizzato come reagente della ricerca. Si tratta di una posizione di puro raziocinio. E la scienza si è poi indirizzata verso strade, come le staminali pluripotenti indotte (Ips) che si sono dimostrate una valida alternativa per la ricerca, e quindi utili a superare il problema etico». «Le promesse della ricerca sulle cellule staminali embrionali – aggiunge Dallapiccola – vanno ben al di là delle sue reali potenzialità. Nonostante in alcuni Paesi questa venga portata avanti già da diverso tempo non sono stati raggiunti i risultati che molti speravano. L’idea che la ricerca sulle staminali embrionali sia utile per curare malattie gravi oggi intrattabili è, a mio avviso, solo uno slogan che non trova alcun riscontro nella realtà». «Mentre le cellule staminali adulte hanno portato a risultati tangibili e trasferibili in clinica, e mentre le cellule pluripotenti indotte hanno portato alla costruzione di modelli sperimentali di malattie, le staminali embrionali non hanno portato a niente», puntualizza il genetista. «Credo sia importante sottolineare – osserva ancora Vescovi – che certe posizioni ideologiche sono state smentite dai fatti. Le Ips non sono identiche alle cellule embrionali ma permettono di fare le stesse ricerche. Mi spiace solo dover ricordare che per aver espresso queste posizioni sono stato oggetto di ripetuti attacchi personali, che hanno raggiunto livelli insopportabili ». «Il nostro gruppo – spiega Luigi Anastasia, docente di Biochimica all’Università di Milano e direttore del Laboratorio di cellule staminali all’Irccs Policlinico San Donato – si dedica a ricerche diverse dalle staminali embrionali: stiamo cercando di attivare in modo chimico la resistenza cellulare alla morte (l’abbiamo dimostrato nelle cellule muscolari). Inoltre abbiamo dati interessanti di ricerche che cercano di attivare cellule staminali o cellule adulte con molecole chimiche per riattivare la proliferazione e stimolare il differenziamento». Ma sul piano più generale «credo che sia difficile negare che la ricerca debba essere condotta in tutte le direzioni. E credo sia importante partecipare ai tavoli dove si decidono le strategie a livello mondiale, proprio per mantenere un corretto approccio etico». «Mantenere intatto il divieto di fare ricerca con le staminali embrionali – conclude Dallapiccola – è, a mio avviso, un messaggio importante. Basta col dare priorità a qualcosa che interessa solo una manciata di laboratori, quelli cioè che vorrebbero fare ricerca con le staminali embrionali, e dedichiamoci invece a questioni più urgenti». Torna al sommario