Divenire corpo: recensione all`ultimo libro di Ubaldo Fadini

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Divenire corpo: recensione all`ultimo libro di Ubaldo Fadini
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Divenire corpo: recensione
all’ultimo libro di Ubaldo Fadini
di Marco Tronconi
http://officinefilosofiche.it/ubaldo-fadini-divenire-corpo/
31 marzo 2016
Il privilegio della sensibilità come origine
appare in questo, che ciò che ci costringe a
sentire e ciò che può essere soltanto sentito
sono una medesima cosa nell’incontro
Deleuze, Differenza e ripetizione
Una via d’accesso privilegiata in grado di restituire unitariamente le complesse, variegate e differenti pieghe di questo libro – dove la profondità teoretica si sposa con una
radicale tensione etico-militante – è individuabile nella problematizzazione del rapporto
vita – tecnica.
Per Fadini, infatti, pare opportuno «andare oltre la riproposizione tradizionale tra soggetto
e tecnica in termini adattivi o sostitutivi/compensativi […] al fine di delineare una prospettiva di
analisi “post-antropologica” della tecnica, basata su un’idea di un rapporto storicamente determinato tra “macchina” e soggettività» (p. 7). Lo «schema classico» fondato sulla primaria centralità
dell’utensile – inteso come prolungamento e proiezione del vivente – appare «umanista e astratto», e forse si potrebbe dire ideologico, poiché «isola le forze produttive dalle condizioni sociali
del loro esercizio» presupponendo implicitamente un grado zero della dimensione uomo-natura.
Diversamente Fadini – attraverso le sue stelle Gilles Deleuze e Felix Guattari, con particolare riferimento al testo Bilancio-programma per macchine desideranti del 1973 – si sforza di comprendere come «l’uomo e l’utensile divengano o siano già pezzi distinti di macchina in rapporto ad un’istanza effettivamente macchinizzante» (p. 17), cioè siano elementi in sé differenti, e tuttavia, messi
in opera – al lavoro – all’interno della medesima logica, oggi onnipervasiva, del bio-capitalismo.
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Si tratta di individuare con la massima precisione come comunichino l’uomo e la macchina, cioè «come il primo faccia ingranaggio con la seconda o “faccia ingranaggio con le
altre cose per costituire una macchina”» (p. 82). Fadini insiste precisando – e questa aggiunta appare decisiva – che fare macchina è «dell’uomo ma anche nell’uomo» (ibid.) aprendo
ad un’istanza di sapore benjaminiano – un Walter Benjamin dalle mille pieghe, si potrebbe
dire – che pone le macchine desideranti a «livello infrastrutturale». È proprio in virtù di
questo nuovo posizionamento a livello infrastrutturale che le macchine desideranti appaiono immanenti alle macchine sociali e tecniche, costituendone però il loro inconscio.
Esse, infatti, manifestano e mobilitano investimenti libidinali, cioè gli investimenti di un
desiderio da ricondurre alla sua «dimensione macchinina, alle pratiche combinatorie di un
meccanismo desiderante, com’è proprio l’inconscio produttivo» – al di sotto delle ragioni,
degli interessi consci e preconsci, di un determinato campo sociale. Le macchine desideranti, quindi, «costituiscono “il limite interno delle macchine sociali e tecniche”, nel senso
che la stessa istanza macchinizzante “il corpo pieno di una società” si dà sempre come inferenza da un complesso di “termini e rapporti messi in gioco”all’interno della stessa società»
(pp. 21-22). Il desiderio costituisce praticamente il limite di ogni macchina tecnico-sociale
consentendo anche di individuare – attraverso il riconoscimento di un più o meno di flusso desiderante – i luoghi di resistenze possibili.
In questo orizzonte Fadini – nel tentativo di specificare al meglio la configurazione attuale del plusvalore – si giova della distinzione tra capitale variabile e capitale fisso propria
della tradizione marxista – iscrivendola però in un quadro concettuale sensibilmente differente. Qui il rapporto tra uomo e macchina interessa come nodo attraverso il quale mostrare l’idea di un «plusvalore di flusso, composto da quello umano e da quello macchinico,
cioè da un plusvalore basato anche sulla cattura dei “flussi di codice ‘liberati’ nella scienza
e nella tecnica” e che dipende non da queste ultime ma ovviamente dal capitale» (p. 41).
Questa relazione oggi si caratterizza – si veda anche Christian Marazzi, Finanza bruciata,
Casagrande Editore, Bellinzona 2009 – attraverso la cattura di saperi cognitivi/ immateriali, esplosi proprio nella società bio-capitalista, che rideterminano diversamente il plusvalore estratto. Il movimento attuale del capitalismo fa sì che tutto il lavoro produttivo sia interpretabile come quel regime macchinico che «di-segna tutte le funzioni e tutte le attività
umane nel momento in cui “la produzione automatizzata e informatizzata non riceve più
la sua consistenza da un fattore umano di base”» (p. 55). Alla fabbrica sono cadute le mura;
l’uomo è sempre a “lavoro”: la mediazione variabile – e oggi al più immateriale – tra uomo
e macchina è la cifra del capitalismo globale integrato.
In questo quadro altamente complesso l’ecologia critica di Felix Guattari (Les trois écologies, Editions Galilée, Paris 1989, trad. it. di R. d’Este, Le tre ecologie, Edizioni Sonda srl,
Casale Monferrato 1991) – per non dimenticare André Gorz (L’ecologia politica, un’etica della
liberazione, in Ecologica, Editions Galiléè, Paris 2008, trad. it. di F. Vitale, Jaca Book, Milano
2009) – appare a Fadini profondamente produttiva poiché si sforza di esprimere, di rendere
manifesto, il continuum costituente articolandolo in tre momenti: ambientale, sociale e
mentale.
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In primis occorre evidenziare che l’oggetto dell’ecosofia non è l’eco-sistema; ben più radicalmente esso viene scomposto, articolato e ri-assunto, all’interno di quattro differenti
linee: «quella del flusso, della macchina, del valore e del piano esistenziale» (p. 77). La prima
riguarda il rapporto costituente dei flussi – nella loro sostanziale eterogeneità – rispetto
a qualsivoglia determinazione dell’ecosistema; la seconda riguarda la capacità autopoietica propria di ogni macchina eco-sistemica che comporta il riconoscimento della specifica
parzialità; la questione del valore viene assunta per la propria portata critico-positiva in
relazione a forme di valorizzazione “assiologicamente decentrate” rispetto al regime capitalista; l’ultima riguarda l’ambito esistenziale nella propria costitutiva “finitezza”: «esso
“non rappresenta nessuna entità eterna, bensì si fonda sulle coordinate della determinazione estrinseca, indipendente […]. Questa finitezza rappresenta così anche una dimensione dell’estraneazione e dell’‘incarnazione’ e insieme un arricchimento processuale”» (p.
78). Quest’ultimo aspetto appare particolarmente importante per la sensibilità dell’autore
poiché – riprendendo Walter Benjamin – «la tecnica ha un potere straordinario, quello di
mostrare la natura in prospettive sempre differenti e rispetto all’uomo, nel momento in cui
gli si accosta, ha la capacità di modificare “gli affetti più originari, le angosce e i desideri”»
(p. 39). In questo senso la tecnica mobilita ineludibilmente le cristallizzazioni sociali consentendo di focalizzare l’attenzione sulle aspettative, inevitabilmente tradite, di un’incarnazione soggettiva altrimenti dinamica – l’esistenzialismo marxista di Günther Anders,
riconducibile alla coppia mancanza-desiderio, è qui assunto da Fadini in vista di una produzione cartografica attraverso la quale mostrare la “coscienza pura” nei propri effettivi
“bisogni materiali”.
È ancora il Benjamin testimone della povertà esperienziale – intesa, anche, come occasione concreta attraverso la quale promuovere e rivendicare nuovi campi di esperienza possibile, non esclusivamente umana – messo in connessione con l’originalità teorica di Guattari
a consentire un rilancio critico in vista di trasformazioni praticabili. Queste trasformazioni,
come sopra accennavamo, si iscrivono sempre in vari e differenti orizzonti pragmatici e, tuttavia, Guattari non si stanca di ripetere «come non ci siano opposizioni radicali tra le tre
ecologie: politica, ambientale, mentale, visto che qualsiasi preoccupazione ambientale presuppone dei sistemi di valore che richiamano ad un impegno etico-politico» (p. 79).
Proprio il richiamo all’impegno etico-politico appare decisivo: da un lato, infatti, consente di opporre resistenza alla deriva ecologica presa all’interno della dinamica capitalista,
non lasciandosi abbagliare dalla retorica del nutrimento del pianeta promosso da pratiche
catastrofiche in senso socio-economico e ambientale delle grandi multinazionali riunite a
Expo. Dall’altro «è in grado di evitare derive totalizzanti (totalitarie) nel momento in cui dà
respiro alla volontà di progettare “processi di valorizzazione, pratiche sociali, modalità soddisfacenti di produzione di soggettività. È il movimento etico di un’articolazione pragmatica
dell’affermazione di sé, che si pretende capace di rispettare le eterogeneità, le singolarità, in
una prospettiva di accettazione “della diversità dell’altro” a proporsi, nella sua fondamentale
“rizomaticità” come premessa/promessa felice di relazione polimorfa» (p. 79).
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In questa direzione Fadini – riprendendo gli studi di Guido Viale (Conversione Ecologica, Cerasolo Ausa di Coriano, NdA press, Rimini 2011 e Vita e morte dell’automobile, Bollati
Boringhieri, Torino 2007) iscritti in un sentiero che ospita, tra gli altri, Herbert Marcuse,
Ivan Illich e André Gorz, problematizza la questione dell’automobile intesa come luogo
specifico che impone/consente un’elaborazione – conversione ecologica – all’altezza della complessità dei concatenamenti. Evidentemente, non è pensabile la scomparsa delle
auto; diversamente, occorre sforzarsi di immaginare nuovi concatenamenti – all’interno
di macchine assiologicamente decentrate rispetto al regime capitalista – che le «mettano in
opera come veicoli condivisi, con un carico ambientale ripartito tra il maggior numero di
soggetti» (p. 97). Appare particolarmente urgente questa riconversione poiché l’industria
dell’auto rappresenta un «crocevia di molte altre filiere industriali e la sua crisi profonda
non può che accompagnarsi con le crisi energetiche e ambientali» (ibid.). Inoltre Fadini –
riprendendo il Gorz de L’ideologia sociale dell’automobile (in, Ecologica cit.) – insiste sulla
necessità di ripensare il territorio urbano (sociale): esso infatti appare talmente condizionato e servile nei confronti dell’automobile – aumentano gli spazi e le distanze per farvi
posto – da divenire inospitale per l’uomo. Ancora una volta si tratta di interrogare sensatamente le metamorfosi antropologiche (per esempio in relazione ai nuovi territori urbani)
per comprendere da un lato come il soggetto si riconfiguri attraverso di esse e, dall’altro
per rilanciare il motivo del «“controllo delle trasformazioni macchiniche” da intendersi
come «possibile formazione di spazi di loro “soddisfazione”, di mediazione del divenire “caosmos” in senso positivo» (p. 89).
In breve: «c’è qui una sorta di ermeneutica di segno prognostico, che prevede di chiarire la logica del processo di trasformazione dell’uomo in macchina prima, con gli effetti inevitabili di devastazione del suo “mondo” di riferimento (oltre che il probabile azzeramento
della possibilità di sopravvivenza/conservazione in vita). La “comprensione prognostica”
e l’“ermeneutica prognostica” si delineano allora come delle formule che rinviano ad uno
sforzo di interpretazione che vuole supportare/sostenere un eventuale (fortemente auspicato) movimento di resistenza alla “destinazione”, apparentemente “finale”, dell’umanità,
sempre più catastroficamente assorbita dal dinamismo proprio della megamacchina capitalista. Tale sforzo si concretizza quindi a partire dalla presa d’atto che “quando ci adattiamo
agli apparecchi (ma persino questa formulazione presume troppa spontaneità) solo quando
gli apparecchi adattano noi a se stessi ha luogo quella adaequatio producti et hominis, che
in un secondo tempo ci permette di credere che il mondo sia “nostro”, ch’esso sia l’espressione di noi, uomini d’oggi […]. Superfluo notare che l’odierna forma di adeguazione non
definisce la verità come la precedente adaequatio rei in intellectus, bensì il nostro falso rapporto con il mondo, ovvero il nostro rapporto adeguato con il falso mondo esistente» (p.
123). L’ecosofia si manifesta dunque nel dar forma ad un atteggiamento – «ad una saggezza
non contemplativa, in esercizio, pratica» – di critica radicale della valorizzazione capitalista
volta a favorire «ri-singolarizzazioni di soggetti che devono essere così messi in grado di
divenire ancor più differenti e solidali» (p. 89).
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Proprio l’atteggiamento ecosofico – magistralmente incarnato da Fadini in queste pagine – costituisce il filo rosso in grado di mobilitare attrezzature concettuali differenti, anche
appartenenti a orizzonti filosofici reciprocamente refrattari, in vista di una critica radicale
del nostro presente per soggettività che si vogliono – facendosi – «sempre più libere, anche
rischiosamente libere» (p. 8).
Ubaldo Fadini
docente di Filosofia morale presso l’Università di Firenze, si occupa prevalentemente di teoria critica, con un occhio di riguardo per il complesso delle posizioni teoriche di Walter Benjamin, e di antropologia filosofica del Novecento,
in particolare in riferimento alle opere di Arnold Gehlen e Helmuth Plessner. Il
suo lavoro di ricerca è incentrato sugli assetti e le configurazioni del soggetto
contemporaneo, integrando il suo panorama di riferimento con le riflessioni di
Paul Virilio e di una parte consistente del pensiero post-strutturalista e, specificatamente, Gilles Deleuze. Accanto a quest’ultimo filone, si pongono gli sviluppi ulteriori delle analisi sulle tematiche del post-umano, del pensiero della
processualità/relazionalità e della tecno-antropologia, sempre socialmente
qualificata. Collabora in numerose riviste come “Iride” e “Millepiani”.
Ubaldo Fadini, Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche, Ombre
Corte, Verona 2015
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