Allegato al Notiziario comunale n. 3/2011

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Allegato al Notiziario comunale n. 3/2011
Avasinis
dall’8 settembre 1943
all’eccidio del 2 maggio 1945
Testimonianza di
Modesto Di Gianantonio
Il 2 maggio 2006, in occasione del sessantaduesimo
anniversario del barbaro eccidio del 2 maggio 1945, venne
conferita al gonfalone del Comune di Trasaghis, da parte del
Prefetto di Udine, la medaglia d’argento al valor civile per le
pesanti sofferenze subite dalla popolazione della frazione di
Avasinis durante l’occupazione nazifascista dall’8 settembre
1943 al 2 maggio 1945. culminata con l’immane fatto di
sangue durante il quale vennero barbaramente trucidate 51
persone rappresentate prevalentemente da donne, bambini
ed anziani, nonché per l’esodo imposto all’intera popolazione
di Alesso, Braulins e Trasaghis, costretta ad abbandonare
i paesi senza assistenza per lasciare le proprie case
all’occupazione cosacca, dopo l’annientamento partigiano
del 2 ottobre 1944.
Questo riconoscimento, da lungo atteso e finalmente
concesso dallo Stato a questa popolazione civile così
duramente provata da una guerra inutile e disastrosa, mi
impone, sollecitato anche dai pochi superstiti del massacro
che assieme a me hanno condiviso questa storia dolorosa
che va ben oltre il fatto in se stesso, di lasciare, per un
sentito dovere civile e morale, alla memoria storica la
testimonianza della mia esperienza vissuta in prima persona,
e di coinvolgere le responsabilità di tutte le parti in causa,
non solo di quella che fa comodo, a seconda che si osservi la
realtà da una parte o dall’altra.
Delle imperdonabili atrocità nazifasciste si è
giustamente scritto e parlato più volte ed è stata anche
sentita la testimonianza di tanti superstiti; nessuno tuttavia
ha mai sentito il dovere di mettere in luce anche le
responsabilità delle forze partigiane che hanno avuto la loro
parte, non trascurabile, nella genesi di questi disagi e di
queste sofferenze per una popolazione che non li meritava
perché non ha mai tradito i valori della Resistenza, nei
confronti della quale ha sempre collaborato.
A porre l’attenzione su questi aspetti ho provato
altre volte: la prima durante- un intervento celebrativo di
ricorrenza e sono finito sulle pagine de L’Unità; la seconda
alla presentazione del libro di Pier Arrigo Carnier “Lo
sterminio mancato “ presso la Comunità Montana della
Carnia a Tolmezzo, dove non mi è stato concesso di parlare:
la terza, sempre in una recente commemorazione dell’eccidio
del 2 maggio 1945, organizzata da una TV germanica, cui
ero stato invitato per una testimonianza assieme ad altri;
giunto sul posto all’orario concordato, l’audizione era già
stata completata con mio amaro disappunto. Questi episodi
mi hanno convinto che don Francesco Zossi, Parroco di
Avasinis dal 1932 al 1948, Cavaliere della Repubblica per
le benemerenze acquisite, durante l’occupazione nazista, in
favore de! paese per l’incolumità dei suoi fedeli, aveva ragione
quando ha differito a 50 anni la pubblicazione del suo Diario
(avvenuta poi nel 1996 a cura del Comune di Trasaghis) con
l’imposizione a don Terenzio Di Gianantonio del rispetto di
tale sua volontà.
Ora sono passati più di sessant’anni e penso sia caduto
ogni pregiudizio e che l’argomento non urti la suscettibilità di
qualcuna delle parti in causa, come non vorrei che qualcuno
mettesse in dubbio la mia verità a causa della mia età o per
il troppo tempo trascorso che potrebbe avere oscurato la
mia memoria. Niente di tutto questo perché né il tempo né la
memoria hanno offuscato la mia lucidità.
don Francesco Zossi
La mia testimonianza assume in questo contesto un
valore storico, convinto come sono che la storia va scritta
a quattro mani e non a due soltanto e tanto meno a senso
unico come fin qui è stato fatto.
Per questo non va dimenticato che il riconoscimento
ufficiale concesso dallo Stato italiano riguarda esclusivamente
le benemerenze acquisite dalla popolazione civile, al di là
di quella militare, già gratificata con la concessione della
medaglia d’oro a tutti i gonfaloni dei comuni friulani, con un
unico decreto destinato alla Provincia di Udine.
Va pertanto resa testimonianza di tutte le sofferenze,
i sacrifici, le privazioni, i dolori, gli odi e le vendette subiti
sulla propria pelle da tutti, senza esclusione di nessuna delle
parti in conflitto, perché questo è il prodotto che le guerre
generano, con l’auspicio che queste guerre non abbiano più
a oscurare la pace conquistata ad un prezzo cosi duro.
Inizio della resistenza
La dolorosa avventura bellica di Avasinis va evocata a
partire dall’8 settembre 1943 che provocò non la fine della
guerra, ma l’inizio dell’occupazione di parte dell’Italia, da
parte dell’esercito germanico. Da qui l’inevitabile formazione
della Resistenza partigiana contro l’occupazione nazifascista
dei nostri territori. Nacque così un nuovo fronte di guerra
tra tedesco-fascisti e le formazioni partigiane. Sul finire
dell’inverno 1943-1944 si ebbe il primo segnale della
presenza partigiana sul nostro territorio con la “visita”
notturna alla latteria sociale di Alesso, dove venne prelevata
gran parte del formaggio dei soci in deposito: questo
episodio suscitò meraviglia e preoccupazione tra la gente
che già presagiva tempi duri su questo versante non dì meno
che su quello tedesco-fascista. A pochi giorni di distanza,
il 5 marzo, un’altra incursione notturna in Municipio.
Prelevarono dalla sua abitazione il Commissario prefettizio
Augusto Rodaro e lo costrinsero ad aprire loro il Municipio
e distrussero l’anagrafe e lo stato civile. Questa operazione
venne eseguita allo scopo di impedire ai tedeschi di usare i
dati anagrafici per conoscere il numero degli uomini validi
per le loro eventuali necessità belliche.
Arrivò la primavera del 1944 e con essa arrivarono,
provenienti dalla Vai Tramontina, le prime formazioni
organizzate dai Garibaldini del Battaglione Matteotti che
si installarono in forma stabile nella zona degli stavoli di
Pradisteppa, per poi passare, a distanza di tempo, negli
stavoli di Cercenaz e da lì in paese, dove costituirono la Zona
Libera della Val del Lago. E da questi luoghi ebbe inizio, per
la gente di Avasinis un vero calvario: questa popolazione
non ha e non avrebbe mai tradito le forze della Resistenza
in favore dei tedesco-fascisti, ma, fin dall’inizio, non ebbe
nessuna considerazione e nessun segno di collaborazione
se non un’ora di “socializzazione politica giornaliera’’, per
l’indottrinamento dei giovani, in un momento in cui c’era
estrema necessità di convivenza e di reciproca condivisione
del difficile momento che si stava attraversando. Al contrario
non c’è stata alcuna comunione tra la popolazione e i
partigiani, che di notte scendevano in paese a visitare le
striminzite cantine delle famiglie per prelevare i pochi generi
di sussistenza ivi depositati, soprattutto formaggio, patate
ed altri generi di produzione propria, non sempre sufficienti
per le proprie necessità di sopravvivenza.
I
II
In concomitanza ebbero inizio anche le attività di
sabotaggio oltre Tagliamento con conseguenti pericolose
possibili rappresaglie sulla popolazione inerme, incolpevole e
vittima di una situazione paradossale di contrasto con i propri
fratelli. Altro argomento di impatto negativo tra i partigiani e la
popolazione fu il totale dissenso su azioni che non portavano
alcun vantaggio bellico, ma solo pesanti ritorsioni sulla gente
da parte dei tedeschi. È bastato l’assalto alla mensa tedesca
ad Osoppo o i sabotaggi alla ferrovia nei pressi di Gemona
e di Venzone per far scattare l’ira dei nemici che il giorno
30 giugno 1944 misero in atto un pauroso rastrellamento
che coinvolse l’intero territorio di Trasaghis e Bordano.
Ad Avasinis finirono nelle mani tedesche, con l’accusa di
favoreggiamento, gli esercenti Di Gianantonio Celeste, padre,
e Igino, figlio, che vennero portati in prigione a Udine e poi
rilasciati dopo due mesi, per loro fortuna. Eguale sorte toccò
ad Alesso a Celeste Rabassi e Domenico Di Santolo, mentre
il patriota Olivo Stefanutti venne ucciso. In un’altra occasione,
a Trasaghis, catturarono i giovani fratelli Feregotto, Italo e
Remigio, che furono deportati in Germania e non fecero più
ritorno.
Alla fine venne fatto saltare il ponte di Braulins sul
Tagliamento da parte dei partigiani, che diedero vita così alla
“Zona Libera della Valle del Lago”.
Ma l’azione che sconvolse letteralmente l’opinione
pubblica va individuata nell’inaspettata atroce esecuzione
capitale della donna e madre Di Bez Maria, eseguita dai
Garibaldini in modo rocambolesco in pieno centro abitato; la
donna era stata accusata di collaborazionismo con i tedeschi
solo perché lavorava nella loro mensa di Osoppo per le reali
necessità sue e del figlio a suo carico. Ma come poteva una
madre lasciare il lavoro, come avrebbero preteso i partigiani,
di fronte agli obblighi di provvedere da sola al mantenimento
del figlio senza l’aiuto del padre? Ma cosa poteva raccontare
ai tedeschi oltre a quello che già sapevano? E se l’avesse
fatto, come mai poi hanno subito l’attacco che ì partigiani
stavano preparando con l’assalto alla polveriera di Osoppo
nella più completa omertà?
Quella sera - era il 30 giugno - mi trovavo in piazza
con alcuni amici, sì parlava dei fatti del giorno, la gente era
in chiesa per una funzione religiosa, quando la Di Bez venne
prelevata da due partigiani del posto e condotta lungo via
S. Nicolò verso il luogo prefissato per l’esecuzione; giunta
ai piedi della scalinata della chiesa, in qualche maniera
deve essersi divincolata dagli accompagnatori e fuggita
verso la sua abitazione, situata all’inizio di via S. Nicolò, a
poca distanza dalla piazza dove mi trovavo. Persa la testa i
maldestri esecutori della “sentenza” hanno rincorso la donna
sparandole raffiche di mitra alla schiena tanto che i proiettili
giunsero anche tra le mie gambe inducendomi alla fuga
assieme ai miei compagni gridando: “I tedeschi, i tedeschi,
fuggite”. La signora riuscì ad arrivare fino ai piedi della scala
della sua abitazione. Qui venne raccolta da alcuni vicini e
portata nella sua camera dove morì tra atroci dolori. Con
l’abusata qualifica di “spia”, senza uno straccio di processo,
seppur sommario, non venne fucilata solo lei, ma tante
altre persone, troppe, che abbiamo visto salire sulla nostra
montagna e non sono mai tornate giù.
Alcuni amici viventi di Trasaghis raccontano dell’arrivo
in paese di un uomo in motocicletta, forse un commerciante
di bestiame, a giudicare dal giaccone di pelle che indossava;
lo fermarono in piazza due partigiani armati e, convinti che
si trattasse di una “spia”, decisero di eliminarlo. Non ci
riuscirono, perché il malcapitato si accorse che stava per
finire la vita terrena e con un fulmineo colpo di acceleratore,
poiché stava ancora seduto sulla moto, fuggì verso Avasinis
dopo un rocambolesco giro per le strade, inseguito dalle
scariche dei loro fucili. Si seppe poi che ad Avasinis fu preso,
portato in montagna, anch’egli come “spia”, e non fece più
ritorno.
Un giorno di luglio 1944 una famiglia sfollata ad
Avasinis, composta dalla madre e due figli, - il padre militare
sul fronte russo -, visse una terrificante giornata. Abitava in
una casa isolata in aperta campagna, a ridosso del torrente
Leale, in evidente stato di ristrette condizioni economiche
e con difficoltà di approvvigionamento. Una capra e un
capretto, soprattutto per l’alimentazione della figlia dì pochi
anni, per la quale il latte era indispensabile, era tutto quello
che possedevano. Due partigiani garibaldini, rigorosamente
armati, si presentarono sull’uscio di casa e ordinarono subito
il sequestro dei due animali. La donna sconvolta si oppose
con tutte le sue forze invocando pietà per la bimba, che più
di tutti aveva bisogno del latte; non fu del tutto ascoltata, ed
i due, forse “impietositi”, se ne andarono con il capretto. Mi
capitò anche di trovarmi una sera a cena, dopo una giornata
di lavoro in loro aiuto, in casa di un’anziana coppia di amici
di famiglia, marito e moglie, lui invalido della Grande guerra.
Arrivarono due partigiani e dissero subito che avevano
bisogno di formaggio e chiesero di aprire loro il “camarín”.
In deposito c’erano tre forme di formaggio, frutto delle loro
fatiche. Senza aggiungere altro ne presero due e se ne
andarono senza pronunciare parola ed è andata ancora
bene.
Un’altra volta fu “radio scarpét” a divulgare la notizia
che nostri partigiani, in servizio nella Val d’Arzino, avevano
sequestrato a una donna carnica il carico di farina che
aveva nella gerla sulle spalle, reduce da un viaggio nel Basso
Friuli, dove tanti erano soliti recarsi a piedi o anche con
Primavera 1945. Il cap. Fromm con patrioti di Avasinis
“barelle” (tipici carretti trainati a mano) se in più persone, per
scambiare i loro prodotti: fagioli, mele e anche patate, con
farina o granoturco per la polenta.
Di fronte a questi incredibili atti di arroganza e inciviltà
vien da chiedersi se i comandi partigiani fossero al corrente
di questi atti inqualificabili di inciviltà operati su nostri fratelli,
con i quali invece ci sarebbe dovuta essere piena intesa
e condivisione per i tempi che stavamo vivendo. Forse si
trattava di abusi di gente senza scrupoli infiltrata nelle file
della Resistenza, come è facile che in queste organizzazioni
possa succedere, dove la malavita trova terreno fertile per le
difficoltà di controllo.
Stando a “radio scarpét”» che raccoglieva notizie filtrate
dall’ermetico quartiere partigiano, vennero soppresse diverse
persone con il classico colpo alla nuca, prevalentemente nella
zona di Pradisteppa, dopo che le vittime si erano scavate la
fossa con le proprie mani.
A questo punto la situazione era diventata
insopportabile, invivibile; eravamo sommersi da incubi, ansia,
spaventi indescrivibili, schiacciati dalla paura, con i tedeschi
negli occhi che non ci concedevano tregua, sempre nei nostri
pensieri di giorno e di notte. Eravamo ai punto estremo
dell’umana sopportazione: soli, abbandonati, senza punti di
riferimento. Anche i partigiani ci facevano paura: guardinghi,
con i loro comportamenti ruvidi, non certo amichevoli,
sempre pronti a non perdere la loro innata voglia di fare
“dispetti” al nemico, incuranti delle pesanti ricadute sulla
testa della gente.
In questo clima di diffidenza e di sospetti si notò
la presenza di un nucleo di partigiani della Osoppo che,
provenienti dalla Valle dell’Arzino dove avevano il loro
comando, sì erano installati in uno stavolo in località Zupèt e
che si facevano vedere poco in paese. Si disse che fossero
stati richiesti espressamente da maggiorenti locali nel
tentativo di attenuare un po’ la tensione che preoccupava
seriamente la gente priva degli appoggi e delle certezze che
non erano state offerti da parte dei Garibaldini.
Eravamo verso la metà di luglio 1944 quando i
Garibaldini convocarono tutte le persone valide, uomini e
donne, dai paesi della Valle del Lago su fino a Cavazzo, nelle
singole piazze di ogni paese per comunicazioni non meglio
precisate, che secondo “radio scarpét” dovevano riferirsi
forse alla polveriera di Osoppo per procurarsi il rifornimento
di armi e munizioni. La partecipazione fu totale e valse a
dimostrare la convinzione che la gente, nonostante tutto,
stava dalla parte dei partigiani, senza preclusioni di sorta,
quando si trattava dì azioni condivise, ritenute necessarie
al fine di provocare danni concreti al nemico. Un lungo
serpentone di gente cominciò a formarsi a Cavazzo e,
raccogliendo le adesioni di ogni abitato attraversato, giunse
al capolinea di Braulins con un numero notevole dì persone.
In fila indiana, superato il Tagliamento, si procedette lungo il
canale Ledra fino alle vicinanze del deposito bellico. Ancora
una manciata di minuti e poi ci trovammo a circondare il
recinto, in attesa dell’ordine di procedere all’assalto. Fu
un’attesa dì una decina di minuti interminabili, durante i
quali ci aveva invasa la paura di essere scoperti, soprattutto
perché eravamo senza vie di scampo.
L’ordine arrivò, non quello però di assaltare il recinto
che ci separava dalle casematte che custodivano il bottino,
ma quello di gettarsi a terra e stendersi sull’erba in attesa di
ordini, che arrivarono dopo altro tempo di panico e di timore
di essere individuati dai tedeschi.
Divelto il recinto e demoliti i capannoni con assordante
fracasso di lamiere, ognuno prese quello che gli capitava
tra le mani: bombe a mano, fucili, esplosivo e quant’altro,
e riprese per conto suo la via del rientro attraverso campi
e fossati nel buio più fitto senza una direzione segnalata o
conosciuta, assordati dal sibilo delle sirene che a Osoppo
suonavano a pieno ritmo per chiamare gli abitanti e i militari
nei rifugi della contraerea, svegliati dagli enormi scoppi della
casematte fatte saltare dai partigiani garibaldini del Btg.
Matteotti e del Btg. Stalin, costituito da russi. Questi ultimi
ebbero l’ardire, prima di lasciare la zona, di ispezionare
l’abitato di Osoppo totalmente deserto.
“Radio scarpét” fece trapelare la notizia che un
contrattempo prima di entrare nel deposito era stato
causato dalla resistenza del corpo di guardia, costituito da
dodici militari della R.S.I., nove dei quali erano già d’accordo
e tre no. I primi sono stati portati in montagna e giustiziati,
mentre i tre resistenti sono stati chiusi in un capannone e
con esso sono saltati in aria, sempre secondo informazioni
di “radio scarpét”.
Il materiale prelevato dalla polveriera di Osoppo venne
portato a spalla fino oltre il ponte sul Tagliamento a Braulins
e caricato su carri già predisposti; da lì fu a sua volta
trasportato fino ad Avasinis e quindi caricato sulle gerle delle
donne, che lo trasportarono in montagna. Operazione bene
organizzata e perfettamente riuscita, senza ripercussioni
da parte dei tedeschi che, presi alla sprovvista, non hanno
reagito anche perché non avevano individuato la vera causa
degli scoppi e forse l’avevano attribuita ad un attacco aereo.
Comunque i Garibaldini continuarono nelle loro azioni
di sabotaggio, incuranti delle rappresaglie sempre pendenti
sulla testa della gente, che continuava a vivere in uno stato di
perenne angoscia e di panie mai sopite.
La strada per il Monte Festa, in cima al quale c’era
un osservatorio che dominava tutta la zona, era spesso
soggetta ad incursioni partigiane tendenti ad ostacolare
l’approvvigionamento di rifornimenti; a tali azioni prendevano
parte anche partigiani di Avasinis. La zona era eminentemente
strategica per cui i tedeschi non potevano non tenere
efficiente la strada, soprattutto per garantirsi il controllo
della ritirata finale. Il 19 luglio un nucleo di partigiani in
borghese notò a Bordano una pattuglia di militari tedeschi.
Aspettarono che entrassero in un’osteria e nel conflitto
che seguì vennero uccisi tre militari tedeschi mentre un
repubblichino venne fatto prigioniero e fucilato nella zona di
Avasinis. La rappresaglia tedesca non si fece attendere e i
paesi di Interneppo e Bordano vennero incendiati. Si temette
anche per Avasinis, ma siccome ciò non accadde, fu possibile
accogliere qualche famiglia costretta a sfollare; una famiglia
amica venne accolta anche a casa mia.
Vennero anche sabotati a Interneppo tre ponti (Ponteli,
Nalbìn e Cjamp), la passerella dì Pioverno, il ponte sul Fella a
Carnia e il ponte di Flagogna al fine di rendere più difficile
ogni accesso ai militari dell’osservatorio sul Festa, punto
nevralgico cui i Tedeschi non potevano rinunciare.
Intanto la situazione alimentare della popolazione
andava sempre più aggravandosi, per mancanza di generi di
prima necessità che, seppur contingentati, non giungevano
in zona a causa del posto di blocco tedesco collocato all’inizio
del ponte sul Tagliamento fatto saltare dai partigiani; la
vallata del Lago restava così tagliata fuori dal resto d’Italia.
Fortunatamente i partigiani osovani, attraverso i loro referenti
di pianura, riuscivano, con la compiacenza di funzionari addetti
alla distribuzione, a prelevare le quote spettanti agli abitanti
locali che poi venivano clandestinamente fatte trasportare
nella zona della Turbina, sulla riva sinistra dei Tagliamento, a
poca distanza dal posto dì blocco sul ponte.
Scortati dai partigiani osovani che operavano sul
posto, verme organizzata una squadra di giovani volontari
che provvide a trasportare, guadando il fiume a più riprese,
i generi nascosti nei campi di mais, dalla sponda sinistra
fino sulla strada Braulins-Bordano subito dopo il tunnel di
Braulins, luogo coperto alla vista della postazione tedesca. La
prima uscita riguardò il trasporto del tabacco e andò tutto
bene, a parte le difficoltà del guado del fiume perché in quel
punto obbligato l’acqua arrivava fino all’inguine, e procurava
difficoltà ed incertezza nel muovere i piedi sulla sabbia in
movimento, anche per il peso del carico sulle spalle e per il
buio più profondo della notte.
La merce venne depositata nella ricevitoria dei paese
per la successiva distribuzione della quota di sei pacchetti a
persona, con l’accordo che i due partigiani osovani preposti
alla consegna agli aventi titolo, erano autorizzati a trattenere
uno dei pacchetti spettanti a ogni persona, destinato
volontariamente dai presenti ad uso del reparto partigiano.
Mentre era in corso l’operazione, con la sala strapiena di
fumatori in piedi, fecero irruzione due garibaldini con. le armi
spianate ed ordinarono il sequestro totale della merce. Segui
una violenta contrapposizione tra i due della Osoppo e i due
garibaldini, che avrebbe potuto avere serie conseguenze se
non fossero intervenuti i presenti a condannare l’arroganza e
la pretesa degli intrusi che non avevano titolo per effettuare
tale sopruso.
Il secondo viaggio riguardò il prelievo della pasta;
ebbe del rocambolesco: proprio quando eravamo in mezzo
al guado ci illuminarono a giorno una serie di razzi, lanciati
dal nemico dal ponte, che crearono panico e ci procurarono
paura di essere scoperti. Ci fu una fuga precipitosa verso le
due sponde, una parte verso quella di sinistra e un’altra verso
quella di destra con il conseguente scompaginamento del
gruppo. Io mi trovai sulla strada di Bordano da dove eravamo
partiti. Per nostra fortuna quei razzi erano stati lanciati verso
altre direzioni e noi ne siamo usciti indenni. Dopo un consulto
tra noi e i partigiani si è deciso di intraprendere di nuovo il
percorso verso il gruppo di rifugiati sulla sinistra per portare
a termine l’operazione.
Il terzo e ultimo viaggio per il trasporto della farina di
frumento, non ebbe difficoltà ed il carico fu regolarmente
depositato nel forno di Trasaghis per essere trasformato
in pane, ma l’operazione non ebbe fortuna perché due giorni
dopo la farina finì nelle mani tedesco-cosacche.
In questo clima di incessanti azioni partigiane, tese ad
ostacolare soprattutto la zona di accesso al monte Festa,
III
era facile presagire che i tedeschi stessero organizzando
piani bellici per mantenere libera questa zona strategica,
sia come contrasto all’avanzata alleata, che per una loro
precipitosa ritirata verso i paesi dai quali provenivano.
Per queste ragioni avevano fatto della Valle de! Lago un
enorme cantiere dove operarono un numero imprecisato di
imprese locali gestite dall’organizzazione germanica TODT,
soprattutto per la realizzazione di opere belliche tendenti
a contrastare l’avanzata alleata con sbarramenti stradali
anticarro e fortificazioni per armi pesanti.
Un’altra organizzazione, la ENZIAN, gestiva, in economia
diretta, fortificazioni leggere, trincee ed altro in territorio
montano nella parte alta della zona di Interneppo, sopra il
Lago. La manodopera, soprattutto femminile, veniva reclutata
in zona ed era gestita da sei militari anziani, forse della difesa
territoriale tedesca, comandati da un capitano, Josef Fromm
di Monaco. Il capitano Fromm e i suoi militari hanno sempre
collaborato con la Resistenza attraverso chi scrive e Ugo
Pizzato che fungevano da interpreti e provvedevano a gestire
la parte amministrativa del personale.
Non per questo vennero meno le preoccupazioni della
gente che continuava ad essere in stato di agitazione continua,
ansia e angoscia per l’incertezza del futuro che l’attendeva.
Bastava un colpo di tosse, sia di notte che di giorno, perché
scattasse la molla della paura dei tedeschi o era sufficiente
una informazione di “radio scarpét” che annunciasse la
presenza in paese di Furore e della Gianna”,: Rispettivamente
comandante e coordinatrice del Battaglione Matteotti della
Garibaldi, per provocare la fuga nei nascondigli perché dietro
di loro c’era sempre o quasi l’ombra dei nemico.
Attacco alla Zona Libera
IV
Nel contempo i tedeschi, per le stesse finalità, stavano
organizzando, sul piano prettamente militare, una grossa
operazione di rastrellamene del territorio per far uscire
allo scoperto i partigiani. In stretta sinergia con i militi della
R.S.I., comandati dal Generale De Lorenzi, l’attacco venne
sferrato la mattina dei 2 ottobre 1944, dopo un rabbioso
bombardamento con armi pesanti collocate sul treno blindato
in servizio sulla tratta ferrata Forgaria-Osoppo. Arrivammo
così all’annientamento definitivo delle forze partigiane della
“Repubblica della Valle del Lago”, al quale il nemico non
poteva di certo rinunciare, non fosse altro che per tenere
sgombre le vallate di confine per una eventuale ritirata che
ormai non poteva essere evitata, né lontana.
Verso le ore 7 di quel triste mattino dei 2 ottobre 1944
le truppe tedesche e della R.S.I. in forze preponderanti, sia
in armi che in uomini, attraversarono il fiume Tagliamento
all’altezza di Braulins dove accorsero tutti i partigiani
disponibili, ma senza colpo ferire, vista l’inadeguatezza delle
forze messe in campo. Si ritirarono lasciandosi alle spalle
l’abitato di Braulins. subito occupato dai tedesco-fascisti
che ordinarono l’evacuazione immediata della popolazione,
lasciata al suo destino, senza che venisse prestata nessuna
assistenza. Analoga sorte toccò alla popolazione dì Trasaghis
che lasciò le proprie case portando con sé solo le cose che
una persona poteva portare in quel momento di sconcerto
e di desolazione senza sapere dove avrebbe potuto trovare
ospitalità.
Il giorno successivo, 3 ottobre, il nemico proseguì alla
volta di Avasìnis dove trovò una possente difesa partigiana
che nel frattempo si era organizzata, favorita anche dalle
condizioni naturali del territorio e si era piazzata sul costone
prospiciente il cimitero di Avasinis quasi a strapiombo
sull’unica strada di accesso al paese con un equipaggiamento
inadeguato: fucili e una mitragliatrice di 20 millimetri, I
tedeschi con i loro cannoni e mortai non riuscirono ad
espugnare la zona che avrebbe permesso l’occupazione di
Avasinis. 1 combattimenti si protrassero fino a tarda sera
e costrinsero il nemico a lasciare il campo e a rientrare a
Trasaghis, da dove era partito, con la perdita di ben quattro
militari, tutti repubblichini, catturati poi durante la notte dai
partigiani e portati in montagna dove vennero giustiziati.
Durante la notte venne portata a termine l’operazione,
iniziata la notte precedente, di trasferimento in montagna di
quanti più possibili generi alimentari ed effetti di vestiario, nei
timore che i tedesco-fascisti potessero incendiare il paese.
Il giorno dopo, 4 ottobre, ripresero con maggior vigore i
combattimenti per l’espugnazione di Avasinis, fino nel tardo
pomeriggio, quando i partigiani dovettero abbandonare il
campo, senza perdita né di uomini né di mezzi, non per aver
ceduto il fronte, ma perché rischiavano di esser presi di
sorpresa alle spalle dai nemici che erano saliti sul Col del Sole
dal versante di Peonis. È stata comunque una vera, perfetta
e ben organizzata azione bellica, condotta in piena sintonia
tra le due organizzazioni partigiane, garibaldina ed osovana,
unite, almeno per una volta, nel supremo interesse dei valori
comuni della difesa della Nazione.
Occupata anche Avasinis, i nazi-fascisti decretarono
l’immediata evacuazione della gente, come avevano fatto
per Trasaghis e Braulins; la cosa fu evitata per una serie
di circostanze superate favorevolmente dalla capacità di
mediazione di don Zossi che trattò con l’autorità civile finché
questa condivise le argomentazioni del parroco e revocò
l’ordine di sfollamento.
Liquidata la “liberazione” dì Avasinis dai partigiani,
l’operazione di rastrellamento si spostò sulla frazione di
Alesso, ultimo baluardo partigiano del comune di Trasaghis,
dove si ripeté lo stesso rituale di Braulins e Trasaghis, con la
sola variante - me lo raccontò un mio amico che ho incontrato
il giorno 8 mentre lasciava la propria casa disperato con gli
occhi gonfi di lacrime - che l’autorità civile avrebbe offerto
a lui ed altri la somma di lire 2.000 per le prime necessità
emergenti, che tuttavia ben pochi accettarono. A questa
operazione non è stata interessata la frazione di Peonis,
forse perché ben controllata dai tedeschi piazzati sulla
sponda sinistra del Tagliamento all’altezza di Osoppo.
L’occupazione cosacca
Chiusa l’operazione militare, le case dei paesi “liberati”
vennero fatte occupare dalle truppe cosacche che erano
state fatte affluire in forza dai tedeschi con l’evidente scopo di
assicurarsi una difesa dai partigiani. Giunsero così nei pressi
della valle del Lago migliaia di Cosacchi con le loro famiglie,
su cani sgangherati trainati da cavalli. Erano povera gente
primitiva e ignorante incapace di distinguere lo scoppio di
una copertura di bicicletta da un attacco partigiano. Anche
Avasinis, nonostante le case fossero ancora occupate dai
loro proprietari, dovette convivere con i cosacchi, almeno fino
alla revoca dell’ordine di sfollamento già decretato.
Ebbe così inizio un altro periodo di pesanti sventure,
stretti tra tedeschi, partigiani e cosacchi, anche se i partigiani,
ormai disorganizzati - il Battaglione Stalin, formato da ex
prigionieri russi, vagò per tutto l’inverno sulle montagne
carniche, braccato dai tedeschi - non avevano più quel potere
di prima, visto che le grosse formazioni non esistevano più,
salvo qualche gruppo isolato senza alcun coordinamento.
Con l’inverno alle porte e l’ordine di scioglimento,
almeno fino a primavera, delle formazioni partigiane, diramato
dal generale Alexander comandante delle truppe alleate
in Italia, i partigiani scesero dai monti in incognita, anche
Commemorazione religiosa, 19 maggio 1945
Commemorazione, 2 maggio 1955
perché non avrebbero avuto i mezzi per affrontare i rigori
invernali, superando con facilità i posti di blocco cosacchi
e trovarono per lo più lavoro presso le imprese controllate
dai tedeschi dell’organizzazione TODI ed ENZIAN impegnate
nella costruzione di difesa bellica, la TODT comandata da un
burbero capitano, operava nella piana di Avasinis - Trasaghis
in opere di sbarramento anticarro, postazioni di armi pesanti
e occupava manodopera proveniente prevalentemente dalla
Carnia, mentre la ENZIAN era diretta dal capitano della
Wermacht Josef Fromm, con l’ausilio di altri cinque, a volte sei,
militari della guardia territoriale germanica; la manodopera,
prevalentemente femminile, era reclutata sul posto ed aveva
il compito dì realizzare, a difesa della strada lungo il Lago,
opere leggere di trincee e postazioni di osservazione dei
movimenti militari. Tra questo gruppo di militari tedeschi e
gli operai “partigiani” di Avasinis si era instaurato un ottimo
rapporto ed addirittura i primi erano pronti a passare dalla
parte dei partigiani al momento opportuno.
A dir il vero i cosacchi non crearono difficoltà alla
gente; ritiratisi con le loro carrette e masserizie subito dopo
la sospensione dell’ordine di sfollamento, vennero sostituiti
da un presidio permanente di una dozzina di militari senza
le famiglie appresso. Certo che il primo impatto con le loro
famiglie era stato abbastanza pesante, dovendo convivere
nella stessa casa sia i residenti abituali che i nuovi occupanti.
Diventavano cattivi solo quando avevano bevuto e, d’altra
parte, andavano matti per le bevande alcoliche, tanto che,
istruiti in tempo, abbiamo provveduto a scaricare negli orti i tini
pieni di uva pigiata e nascondere patate e quant’altro in luoghi
a loro inaccessibili. Ci sono stati, durante la loro permanenza,
episodi di violenza su alcune nostre donne e furti, soprattutto
di fieno per i loro cavalli; gli autori provenivano però da
paesi vicini, certamente sotto la protezione e il favore degli
occupanti locali. Ci sono stati anche episodi di aggregazione,
specie tra giovani, con qualche festa da ballo.
I Cosacchi erano invasi dalla paura, non solo dei
partigiani, ma anche dei tedeschi, in particolare della figura
del Capitano Fromm, sempre pronto ad intervenire a difesa
della gente. Una sera, ospite in casa mia con alcuni partigiani,
in particolare Ugo Pizzato e Giovanni Venturini, Fromm e
Venturini si sono scambiati i ruoli per verificare sul posto
il coraggio dei cosacchi del presidio. Si sono recati al loro
quartiere e sul portone, ben sprangato, hanno inscenato una
gran gazzarra usando anche la pistola, ma di dentro nessuno
si è mosso. Un’altra volta, chiamato, il Capitano Fromm è
intervenuto per far restituire ad una famiglia del luogo il
fieno che le era stato rubato dai cosacchi e, per individuare
il colpevole, li ha schierati in piazza; pistola alla mano, ha
individuato i responsabili e ha fatto restituire il maltolto,
ancora caricato su due carrette.
Non altrettanta attenzione dimostrarono i partigiani
sopravvissuti, che, per non smentirsi e senza rendersi conto
dei gravi pericoli che avrebbero arrecato alla popolazione
in un momento così delicato e incerto, hanno ancora una
volta violato le raccomandazioni della gente, che li invitava a
lasciare in pace i tedeschi. Assaltarono i magazzini
della TODT dove erano depositati gli indumenti
degli operai: ciò provocò l’immediata reazione dei
tedeschi, che minacciarono lo sfollamento se si
fossero ripetuti altri simili atti di sabotaggio; per
fortuna anche quella volta è stato evitato il peggio.
Un capitano tedesco volontariamente passò
ai partigiani, ma i tedeschi lo considerarono catturato
dagli stessi partigiani e subito incendiarono, per
rappresaglia, gli stavoli di Planecis, ritenuti il luogo
di rifugio partigiano.
La gente di questo martoriato paese non è
uscita indenne da nessuna circostanza di questa
guerra atroce ed ha subito, incolpevole, i dolori
provocati dai tedeschi, dai fascisti, dai partigiani
e anche quelli degli alleati a seguito dei loro
bombardamenti: sotto le bombe alleate morirono
ad Osoppo anche Tarcisio Urban di Avasinis e
altre persone del comune colà sfollate: Giocondo Stefanutti
e Nicolò Cucchiaro di Alesso e Argentina Cucchiaro di
Peonìs. Un’altra incursione aerea provocò la morte in
“Samont” di una donna di Trasaghis. Lungo la strada del
Lago, in un incomprensibile mitragliamento aereo alleato
volto a distruggere un autocarro carenato, trovò la morte
il partigiano Dino Di Doi di 17 anni, furono feriti Vincenzo
Ridolfo e un militare della ENZIAN, tutti addetti ai lavori di
fortificazione a Interneppo, mentre scendevano lungo quella
strada, al termine della giornata di lavoro.
La liberazione
In questo clima di incertezza, il 25 aprile 1945, venne
firmato l’armistizio con le forze alleate e dichiarata la fine
delle ostilità e della guerra, la cui notizia venne accolta con
entusiasmo, ma anche con scetticismo, perché non poteva
esserci una vera fine della guerra, fino a quando ci fosse
stato un solo soldato germanico sul suolo del nostro Comune
e dell’Italia.
Nell’attesa dell’evento liberatorio definitivo, concreto e
reale, il gruppo cosacco di stanza ad Avasinis, composto da
una dozzina di uomini, tramite il Parroco e la signora Kozlowa,
chiese la resa con la sola condizione di aver salva la vita; la
condizione verme accettata dai partigiani che dichiararono
prigionieri dì guerra i militari arresisi, e li trasferirono
subito nei quartieri partigiani in montagna, dove, purtroppo i
prigionieri furono fucilati: “patti non osservati “.
L’azione di disarmo si ripeté anche a Trasaghis nei
confronti del contingente cosacco che chiese una moratoria
di 4 ore per decidere se accettare o meno la resa. In questo
caso sono stati i cosacchi a raggirare i partigiani perché nel
frattempo se ne andarono insalutati ospiti.
Ad Alesso, sede del comando di zona, i Cosacchi si
misero in marcia, prima dell’intervento partigiano, alla volta
di Tolmezzo.
I militari della organizzazione TO.DT fuggirono
precipitosamente prima di essere raggiunti dai partigiani.
lasciando tutto quello che si trovava nel magazzino,
abbandonando anche due potenti alternatori di corrente nel
cortile dell’osteria “Liberon” ad Avasinis.
I militari dell’ENZIAN, come da accordi presi in
precedenza con i partigiani che con loro lavoravano, scesero
da soli da Interneppo ad Avasinis, consegnarono le armi (fucili)
e poche altre cose tipo una radio e due biciclette. Vennero
ospitati nella scuola del paese, lasciata libera dagli operai
della TODT, con l’accordo che avrebbero potuto restare li fino
alla normalizzazione della situazione che avrebbe concesso
loro di rientrare incolumi nei loro paesi dì provenienza.
Furono ore trepidanti, in attesa delle truppe alleate in
uno scenario di piena incertezza, reso ancor più pesante da
possibili scontri armati con le truppe in ritirata in movimento
verso il confine con l’Austria, il giorno 1° maggio 1945,
attraversò l’intero territorio di Trasaghis una lunga colonna
di militari tedeschi, proveniente dalla parte occidentale del
territorio, che passò indenne per Peonis e, giunta ad Avasinis.
all’altezza del cimitero aggirò il paese per dirigersi verso Alesso.
Ad Alesso, appena fuori dall’abitato in direzione di Somplago,
V
VI
partigiani isolati attaccarono la colonna, provocando la morte
dì un partigiano della Osoppo e di una giovane di Alesso,
mentre una giovane di Interneppo fu gravemente ferita. Ciò
non fece altro che aumentare l’apprensione e la paura tra
la gente di Avasinis, che ne aveva ben ragione. Non passò il
giorno successivo che un’altra colonna, proveniente non si
sa da dove, ma dì sicuro passante lungo la strada Statale N°
13, si diresse verso Trasaghis. Secondo alcuni, la colonna
aveva deviato la sua marcia a seguito di un attacco dei nostri
partigiani; questo è quanto si dice, ma non corrisponde
alla realtà dei fatti. Attraversato il Tagliamento, superato
il paese di Braulins e giunta indenne a Trasaghis, senza
incontrare nessuna resistenza di nessun genere, si installò,
nel pomeriggio, in località Montisel. altura strategica per il
controllo dell’intera piana di Avasinis. unico paese abitato,
per passarvi la notte. Questo fatto non poteva non mettere in
allarme la gente di Avasinis, che ritenne anacronistico che un
reparto in ritirata, con il nemico alle spalle, si permettesse di
bivaccare una notte senza proseguire a marce forzate verso
il confine, passando per Tolmezzo.
Con il sospetto che dietro a questa decisione del
nemico si nascondesse dell’altro, memore di quanto era
successo il 2, 3 e 4 ottobre 1944. senza alcuna indicazione
da parte partigiana, lavorò per tutta la notte a trasferire
generi e suppellettili in montagna. Il giorno dopo, 2 maggio
1945, intorno alle ore 6,30, si udirono alcuni spari, anche
di armi pesanti; in conseguenza di ciò, gran parte della
popolazione lasciò le proprie case per trasferirsi al sicuro nei
propri stavoli. Per due ore e mezza silenzio assoluto, tanto da
mettere in dubbio che qualche cosa potesse succedere.
All’inizio del paese, in attesa di eventi e pronto a
dare l’allarme, sì formò un gruppetto di 5/6 persone di
cui facevano parte il partigiano Ugo Pizzato, il sottoscritto,
il cap. Fromm ed altre due persone, due civili ed un altro
partigiano. Insospettiti dall’innaturale silenzio, i due partigiani,
armati di fucile, decisero di andare a vedere cosa stesse
succedendo e non passò una decina di minuti che sentimmo
una fitta sparatoria di armi leggere e vedemmo rientrare
il gruppetto che trascinava Ugo Pizzato grondante sangue.
Lo accompagnammo a casa sua dove, poco tempo dopo,
morì e proseguimmo verso la montagna; poco dopo l’inizio
della salita trovammo gruppi di donne e qualche uomo che
stavano tornando indietro, convinti che ormai niente potesse
succedere.
Questa gente arrivò in paese e s’imbatté nei soldati
tedeschi; per loro fortuna, venne salvata dalla morte e
rinchiusa, gli uomini in una stanza e le donne in un’altra, in via
Piloni, dove rimase fino alla partenza della soldataglia.
A questo punto va chiarito ulteriormente che, dopo
la sospensione di ogni attività partigiana conseguente al
rastrellamento del 2, 3 e 4 ottobre 1944, le forze della
Resistenza non erano riuscite a riorganizzarsi per tempo,
tanto che in zona poté operare, oltre al Battaglione osovano
“Friuli”, solo un reparto della Guardia Armata Partigiana
composto da una dozzina di uomini comandati dal gappista
garibaldino “Falco”; costui, nei giorni cruciali, era operativo in
zona ed era presente sulla sponda destra del Tagliamento, a
Braulins, quando i nazifascisti delle S.S. tedesche varcarono
il Tagliamento. Di fronte all’imponente schieramento nemico,
dotato di mezzi e uomini, i gappisti si ritirarono senza colpo
ferire e, passato l’abitato di Braulins totalmente deserto,
decisero di schierarsi, a difesa di Avasinis, sul costone
strategico sopra il cimitero del paese. In quell’occasione,
come ho già ricordato, i partigiani erano riusciti a tenere in
scacco per due giorni e una notte il nemico.
Il comando degli osovani si trovava in località Cuel dal
Mus, a tre ore di distanza dal paese. Raggiunto la sera del
1° maggio da un corriere, venne informato di quanto stava
succedendo nella zona di sua competenza; forse ritenendo
non necessario ostacolare il nemico in ritirata, per evitare
così altre rappresaglie contro la popolazione civile, decise di
non intervenire.
È dal costone sopra il cimitero di Avasinis che, alle
6 e mezza circa del 2 maggio, provenivano gli spari, subito
sedati dal nemico che colpì la postazione partigiana dotata
di un’unica arma pesante, una mitragliatrice da 20 mm,
costringendo il comandante “Falco” a ritirare i suoi uomini.
Queste affermazioni mi vennero poi confermate verbalmente
da “Falco” che ebbi occasione di visitare nella sua casa di
Salta (Argentina).
Visto il precipitare degli eventi, anche ì militari della
ENZIAN vennero trasferiti in montagna e da lì a Forgaria
scortati dai due ultimi partigiani in partenza per quella
località; a Forgaria i militari della ENZIAN non arrivarono
mai (altre testimonianze riferiscono che furono consegnati
agli alleati a Pielungo). I pochi partigiani rimasti sul territorio
subito dopo l’occupazione del paese, avevano abbandonato la
zona per raggiungere gli Alleati, scendendo in pianura dalla
parte di Forgaria.
Il capitano Fromm, dopo la morte del suo amico Ugo
Pizzato. è rimasto mio ospite per una decina di giorni; poi. su
ordine perentorio del capo del C.L.N., fu consegnato, da me
Commemorazione, 2 maggio 1955. Intervento del dott. Violino
personalmente, al Comando alleato. Soltanto dopo un anno
passato in un campo di prigionia, in barba agli accordi pattuiti,
poté far ritorno in famiglia.
L’eccidio
II famigerato reparto delle S.S. tedesche, anche se non
sì poteva definire reparto un gruppo composto da sbandati
raccogliticci, di varie etnie e nazionalità e provenienti da
reparti diversi tedeschi, italiani, spagnoli, friulani, veneti e
altoatesini, superò l’inesistente difesa. Un vero branco di
criminali, invasi da follia omicida, spinti più dalla vendetta che
da un atteggiamento di difesa che qualsiasi reparto militare
in fuga, tallonato dal nemico inseguitore, avrebbe assunto,
senza guardarsi attorno. No, a questi energumeni non
interessava altro che punire mortalmente una popolazione
pacifica, per vicende di guerra ad essa non imputabili. Per
questo entrarono nel paese, assetati di sangue, si accanirono
con le armi da fuoco contro chi capitava a tiro: bambini, anche
in tenera età, vecchi e donne, senza provare un minimo di
pietà o rimorso. Finirono sotto gli spari delle loro armi quanti
trovarono per strada, nelle case o nascosti in qualsiasi luogo.
Mentre a Osoppo suonavano a festa le campane per l’arrivo
in paese delle truppe alleate, ad Avasinis si consumava
la strage degli innocenti, ultimo episodio della malvagità
nazifascista in ritirata che la storia del Friuli ricordi. Morire
il giorno della liberazione del proprio Paese è quanto di più
assurdo potesse capitare ad un essere umano in anelante
attesa della libertà.
L’orrenda strage finì verso mezzogiorno, quando un
militare graduato arrivò a cavallo e ordinò la fine delle
esecuzioni. Chi era costui? Da dove veniva e a quale titolo?
Nessuno lo sa. Nonostante questo comando, la saga venne
conclusa in una forsennata orgia notturna, con sadismo
degno di quanto avevano fin qui dimostrato. Non paghi, si
riservarono il rinvio dell’esecuzione di due giovani ragazze,
per portarle nel loro squallido quartiere con lo scopo dì
soddisfare, pieni di alcool, i loro istinti bestiali, seviziandole per
tutta la notte per poi, esanimi, gettarle dal primo piano nel
sottostante cortile, lasciandole selvaggiamente morire sole,
chissà con quanta sofferenza.
Il capitano Fromm, durante tutto il periodo della
permanenza di questi sciagurati, fece la spola tra la montagna
e il paese e ci teneva aggiornati costantemente di quanto
stava succedendo. Ma la vera drammatica situazione del
paese ci venne raccontata alle prime luci dell’alba del 3
maggio da una donna che era riuscita a sopravvivere sotto un
cumulo di morti (ì Cucchiaio sfollati da Alesso) in via Fontana,
nei pressi della sua abitazione, e a fuggire in piena notte,
guadagnando la montagna attraverso zone impervie, ruscelli
e declivi anche pericolosi. Verso mezzogiorno dello stesso
giorno Fromm ci portò la notizia della partenza dei criminali
e di quanto aveva potuto constatare da un sommario giro
per le strade del paese. È stato lui a darmi la ferale notizia
della morte, avvenuta in casa, dei miei nonni paterni con me
conviventi (il nonno dì 79 anni, la nonna di 75).
I più coraggiosi già la sera del 3 maggio rientrarono
dalla montagna mentre il grosso lasciò i monti nella mattinata
del 4, non senza preoccupazione per l’altra sconvolgente
notizia che un non meglio identificato individuo, proveniente dal
versante di Forgaria, scese nel Leale, ritornò con una decina
di individui sconosciuti e scomparve nella zona di provenienza:
in quel frangente non ci fu il tempo di approfondire la notizia.
Trovarsi da un giorno all’altro di fronte ad un numero
di 51 morti, parenti, amici e conoscenti, in un piccolo
paese come Avasinis, fu un impatto raccapricciante quanto
doloroso, difficilmente descrivibile. Cadaveri in ogni luogo,
in posizioni strazianti, perfino nascosti nei corsi d’acqua:
seguirono scene di disperazione e rabbia per gli affetti
spezzati. La vendetta era il sentimento prevalente che
aleggiava nelle menti dei superstiti, in quella grigia giornata
di primavera, senza poter fare riferimento a qualcuno che
potesse confortarci, in questa circostanza terribile della
vita umana. In passato questo punto d’ascolto, di conforto
e di speranza la gente poteva trovarlo nelle indimenticabili
figure di don Zossi e della signora Kozlowa, l’uno il Parroco e
l’altra sua valida collaboratrice e interprete nei rapporti con i
cosacchi; ad essi va il riconoscimento di tutta la popolazione
per i servizi ricevuti, in questi terribili frangenti, anche loro
colpiti, a loro volta, dalla disumana vendetta e crudeltà di
gente senza volto da salvare. Superata momentaneamente
la disperazione si doveva trovare la forza ed il coraggio di
reagire per provvedere agli adempimenti che la situazione
imponeva.
Dorme e uomini, tra lacrime e sudore hanno dovuto
provvedere di persona alla raccolta delle salme, a scavare la
fossa comune nel vecchio cimitero in disuso dietro la chiesa,
ora “Luogo della memoria” e a predisporre le formalità
civili e religiose, mentre i resti mortali delle salme venivano
depositati nello spazio sotto la sacrestia e sul cumulo della
terra scavata ai margini della fossa.
Un gruppo di bambini assisteva sul cumulo di terra alla
pietosa operazione con Io sguardo perso nel nulla, incapaci
di percepire fino in fondo il momento di dolore in cui il paese
era avvolto. Più volte sollecitati a lasciare questo luogo dagli
addetti all’operazione, quando vollero se ne andarono, ma
non per andare a casa, ma per salire, arrampicandosi su una
delle lapidi murali, su un promontorio sopra il muro di cinta
da dove potevano osservare meglio la scena, senza essere
rimproverati. Su questo episodio Paola D’Agaro impostò il
suo lavoro letterario “Requiem per i morti del 2 maggio”
che vinse il 1° premio di un concorso nazionale indetto dalla
sezione dell’’A.N.A. di Falcade (TV). I funerali furono celebrati,
in forma ufficiale il giorno 6 maggio 1945, senza la presenza
del parroco don Zossi perché ancora convalescente, con
grande rammarico della gente. Vi parteciparono tutti ì
superstiti dell’eccidio e tanta altra gente venuta da tutti i
paesi della zona.
Furono funerali sobri e semplici, quasi in forma privata,
senza interventi particolari di autorità civili, come se questi
sventurati non avessero meritato qualche cosa in più. Si è
potuto notare anche il disagio e i non buoni rapporti con i
partigiani, che non parteciparono in forma ufficiale, ma solo
in forma privata, senza alcun segno particolare.
Lo dimostra la reazione di un superstite, che aveva
perso la moglie e la figlia ed era rimasto solo, nei confronti di
un partigiano che ebbe l’ardire di tornare in paese, dopo un
mese dall’eccidio; mentre percorreva via Piloni in bicicletta,
fu affrontato e rincorso da questi con un forcone. Non fu
raggiunto e venne così evitato un altro fatto di sangue.
Adempiuto a questa triste incombenza, qualcuno volle
scoprire il motivo di quel movimento di persone che avevano
attraversato la zona Trasaghis - Forgaria e viceversa il giorno
3 e 4 maggio. Si scopri che quella dozzina di individui prelevati
da quello sconosciuto nel torrente Leale, aveva veramente
partecipato alla rappresaglia di Avasinis e al momento era
nelle mani dei partigiani.
“Radio scarpét” fece anche trapelare la notizia che
altri erano scesi nel Leale e vi avevano trovato residui di
vestiario militare appartenente alla famosa S.S. germanica.
Su questo fatto c’è la testimonianza rilasciata da una signora
di Avasinis e trascritta nella pubblicazione del Diario di don
Zossi. Questa signora ha visto per ben due volte in faccia i
sicari che si sono presentati, mitra in mano, sulla porta della
stanza dove qualche giorno prima aveva partorito e solo
dopo le suppliche e le preghiere della suocera e della zia
desistettero dal portare a termine il loro ennesimo crimine.
Questi presunti responsabili dell’eccidio di Avasinis, detenuti
dai partigiani di Forgaria, vennero prelevati da incaricati
locali e condotti ad Avasinis a piedi, preceduti da un cartello
con la scritta “Gli assassini di Avasinis”. Una piccola folla era
ad attenderli all’inizio del paese, armata di bastoni, forche
e badili che non lasciavano dubbi su quello che intendeva
fare. Appena giunti a contatto fisico vennero selvaggiamente
aggrediti, senza nessun appello, e finiti tra grida strazianti
indescrivibili. Appena mi resi conto di quanto stava avvenendo,
abbandonai la scena con Fromm perché ritenni questo modo
di agire incompatibile con i miei prìncipi, ed invocai il perdono
divino e quello umano su quella gente che agiva sotto la spinta
della rabbia e della disperazione per quello che avevamo
subito. Alcuni ancora vivi ed altri morti vennero caricati su
barelle e portati nell’alto torrente Leale dove vennero finiti
barbaramente.
Non ho capito perché i partigiani di Forgaria, i quali
avrebbero dovuto considerarli prigionieri di guerra, abbiano
potuto consegnare i prigionieri a rappresentanti delle vittime
di Avasinis, dal momento che erano tenuti a consegnarli
all’autorità militare che occupava il territorio. Si perse così
Commemorazione, 2 maggio 1965.
Intervento del Sindaco Di Gianantonio
l’unica possibilità di apprendere direttamente da loro le
vere ragioni di quel crimine che tanto fa ancora discutere
l’opinione pubblica.
Ma non è finita qui; ricordo un altro episodio della
stessa natura, riguardante però i partigiani che scoprirono
un gruppo di 11 presunti partecipanti alla strage di
Avasinis travestiti e inseriti nelle schiere dì ex prigionieri che
provenivano dall’Austria. Il fatto venne segnalato al C.N. L.
locale che istituì posti di blocco e senza difficoltà smascherò
VII
VIII
una dozzina di loro che non smentirono di aver partecipato
alla strage. Non vennero torturati, ma portati lungo gli argini
del Leale e fucilati.
Con questo ultimo atto di guerra si è concluso il periodo
storico susseguito alla firma dell’Armistizio dell’8 settembre
‘43; la fine dell’occupazione nazista del nostro territorio, con
l’appoggio e il sostegno della nefasta Repubblica Sociale
Italiana, coincise anche con la fine della ventennale dittatura
fascista.
Fin qui la memoria degli avvenimenti di quella dolorosa
pagina della storia del martirio di questo paese nel ricordo
di uno che ha vissuto sulla propria pelle la malvagità
umana prodotta da una guerra da dimenticare, ma anche
da ricordare per mantenere vivo il rispetto delle vittime
innocenti, affinché le generazioni future abbiano sempre
presente che la guerra distrugge e non porta da nessuna
parte. Mi siano però consentite alcune personali riflessioni
su certi personaggi di questa vicenda, senza la pretesa di
ricostruire tutta la realtà, ma per offrire spunti per una
migliore comprensione delle ragioni o delle colpe da parte di
chi vorrà approfondire la materia anche alla luce di quanto
raccontato da altre fonti.
Alcuni sostengono, anche se non trovano riscontri,
che il reparto responsabile dell’eccidio di Avasinis avrebbe
sostenuto un attacco partigiano sulla strada nazionale N°
13 all’altezza, un po’ prima o un po’ dopo, dell’innesto con
la strada che porta a Trasaghis prima e a Tolmezzo poi.
Evidentemente quella strada era talmente intasata da un
consistente movimento di truppe tedesche ormai in ritirata
verso il confine, tanto da capire perché quel reparto, anche a
causa dell’ipotetico attacco subito, abbia preferito deviare il
percorso verso Tolmezzo. Ma non è cosi, perché quel reparto
non ha subito ostacoli da parte partigiana ed è arrivato,
partito non si sa da dove, né si conoscono le sue generalità
di appartenenza, ben determinato e ben deciso su Trasaghis.
Diversamente quel reparto non avrebbe pernottato in
quel luogo, ma avrebbe proseguito per Tolmezzo e quindi per
il confine, come aveva fatto la colonna che aveva attraversato
il territorio del comune il giorno precedente, tenendo anche
conto che aveva già gli alleati alle spalle. La sua meta era
Avasinis, dove pare avesse dei conti da saldare, tant’è che
la mattina dopo, 2 maggio 1945, si mosse verso quel paese
con risolutezza e uomini e mezzi adeguati per affrontare
eventuali resistenze, che però non c’erano. Quelle poche
forze che c’erano, erano le stesse, una dozzina di partigiani
con una sola mitragliatrice pesante - la mitica 20 mm -, che
avrebbero potuto affrontare il nemico già sul Tagliamento a
Braulins dove erano schierate, ma che desistettero di fronte
ad una forza di uomini e mezzi così preponderante.
Venne subito messa fuori uso la mitragliatrice, e
rimase così al nemico l’arbitrio di portare a termine una
iniziativa, forse preordinata, di punizione contro i civili che
avrebbero, secondo loro, collaborato con la Resistenza;
l’operazione, dopo tanto spargimento di sangue nelle case e
nel vie del paese, venne chiusa con impensabile malvagità nei
confronti di quelle povere ragazze seviziate e lasciate morire
durante la notte del 2-3 maggio. Solo dopo aver compiuto
questa barbarie contro l’umanità, finalmente alle 10,30
del 3 maggio venne tolto l’assedio del paese, quasi sotto gli
occhi dei liberatori, che da due giorni bivaccavano a pochi
chilometri di distanza, immobili a Osoppo.
Ma è mai possibile che a nessuno del C.N.L. sia
passato per la mente di informare il comando alleato già
a Osoppo dal giorno 2 maggio 1945 e di chiedere un
loro immediato intervento? Il loro arrivo ad Avasinis non
solo avrebbe potuto contenere il numero delle vittime, ma
addirittura avrebbe permesso la cattura dei responsabili del
massacro.
L’altro episodio che non trova giustificazione è stata la
esagerata reazione che si è scatenata nei nostri superstiti,
accecati dalla vendetta. La gente si è scagliata contro
il gruppo dei presunti esecutori della strage di Avasinis
individuati a Forgaria e condotti ad Avasinis; all’inizio del paese
sono stati investiti dalla folla in modo disumano, vennero
uccisi altrettanto barbaramente quanto essi avevano fatto
con i nostri morti. La nostra gente non doveva e non avrebbe
potuto fare giustizia sommaria dei nostri assassini, ma
avrebbe dovuto fare quello che dovevano fare i partigiani di
Forgaria: consegnarli alla giustizia militare alleata. Sarebbe
stato più onorevole e non si sarebbe scalfita la gloria dei nostri
martiri e soprattutto ciò avrebbe consentito di conoscere i
motivi e le ragioni che avevano spinto quel famigerato reparto
a commettere un così grande reato.
Conclusioni
Ha vinto ancora la follia omicida della dittatura
nazifascista e la inconsulta azione violenta dei nostri superstiti.
A nulla è valso lo sforzo di don Zossi e dei suoi collaboratori,
che hanno speso tutte le loro forze per salvare questo
paese dall’indiscriminato sfollamento già disposto dalie S.S.
tedesche e dalle servili squadre fasciste del comandante De
Lorenzi, per poi vedere crollare ogni ideale sotto il piombo
del nemico, in un vero mare di sangue. È mancata anche
la consapevolezza di non aver ascoltato il pressante invito
dettato della saggezza dei nostri anziani, che insistentemente
raccomandavano ai partigiani dì contenere le, tante volte,
inopportune azioni di disturbo ai tedeschi e ai fascisti perché
poi le conseguenze ricadevano sempre sulla gente civile
incolpevole. Si doveva invece dare più spazio, a ranghi serrati,
alla difesa della popolazione civile dalle possibili e prevedibili
reazioni tedesche al momento della ritirata. Se questo fosse
avvenuto, forse si sarebbe impedita questa inutile strage,
memori di quanto sono stati capaci dì fare a difesa di Avasinis
i partigiani uniti, durante il rastrellamento dei primi giorni di
ottobre 1944, che hanno costretto il nemico a due giorni di
combattimento prima di riuscire ad espugnarla.
La generazione che ha vissuto e testimoniato questi
dolorosi avvenimenti della storia del nostro paese sta per
concludersi, nella speranza che le generazioni a venire
portino avanti con orgoglio la memoria ed il ricordo imperituri
dì questi nostri sventurati fratelli che dalla vita non hanno
avuto che emigrazione, miseria e povertà. Le loro aspettative
di libertà e di giustizia erano a portata di mano, ma il destino
crudele non ha voluto gratificarli dal riscatto delle loro misere
condizioni di vita.
A conclusione di questa memoria testimoniale mi
viene spontanea la convinzione che non potevo sottrarmi al
dovere di lasciare ai posteri la narrazione completa dei disagi
e dei sacrifici subiti a causa della guerra da parte di amici
e nemici, a giustificazione dei meriti riconosciuti dallo Stato
Italiano con la concessione della medaglia d’argento al valore
civile, che non ha nulla a che fare con quello militare. Questo
riconoscimento è la dimostrazione tangibile della inutilità della
guerra, l’unica principale responsabile degli orrori prodotti
all’umanità, dando anche spazio alla malvagità umana che
ha potuto, grazie ad essa, sviluppare in piena libertà la sua
azione malvagia.
Testimonianza di Modesto Di Gianantonio