Sophie

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Sophie
SOPHIE
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1.
Il vetro era rotto.
Una lastra di ghiaccio sbriciolato dal sole; una promessa infranta. Tutto si rompe, prima o poi.
In superficie, tra una crepa e l’altra, fluttuava uno sguardo efferato, granitico.
Sophie si portò la mano ferita alle labbra. Il sapore metallico del sangue la prese alla gola, ma lei
non fece una piega. Restò lì, imbambolata, a fissare il volto grottesco riflesso nei cocci, sentendosi
bruciare sulla nuca la vorace ferocia di quegli occhi. I suoi occhi.
Non puoi guardare il mondo attraverso uno specchio.
Si accasciò a terra, inerte come un sacco vuoto. Strinse le ginocchia al petto, e nascose il capo tra
l’involucro delle braccia: faceva sempre così, quando qualcosa non andava. Quasi che, mossi da una
mano onnipotente, tutti i tasselli potessero tornare al loro posto, obbedienti, senza ulteriori danni.
Si era creduta invincibile, fino a qualche istante prima; indomita e fiera come uno di quei semidei
greci domatori di folgori. Adesso, invece, era soltanto stanca. Stanca di tutto, stanca di se stessa.
Sentiva il tempo stillarle tra le dita in granelli fini, con un’impellenza tale da non poter essere
frenato. Ne aveva tanto, di tempo, tanto quanto voleva.
La cosa peggiore era che non sapeva che cosa farsene.
2.
Era buio anche di giorno, lì. Non un buio qualunque: era pastoso, si appiccicava alla pelle,
appesantiva il respiro. La chiamavano vita. Sembrava più una ragnatela, a dire il vero; per quanto si
tentasse di divincolarsi, e per quanta forza si mettesse nel farlo, tutto ciò che si otteneva era di finire
invischiati più a fondo, e di vedere la luce un po’ più da lontano. Era un limbo, un limbo tra la
morte e la vita, un nulla friabile che non era né vivere, né morire.
Sophie non sapeva perché ci fosse finita; figurarsi come tirarsene fuori. La sua mente lavorava a
compartimenti stagni, quasi al rallentatore, minata dal desiderio inappagabile di riposo. E, quando
non dormiva, sognava a occhi aperti: si vedeva passeggiare per le viuzze di Parigi, bambina, a ritmo
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della malinconia di un violino scordato, e inerpicarsi su per la Tour Eiffel illuminata a festa, e
assaporare il mattino rugiadoso. Le pareva di poterlo sentire ancora, quel gusto, come se fosse
rimasto chiuso dentro di lei per anni: il gusto di un tozzo di speranza, di una libertà labile, di
miraggi alati.
Capitò anche che ripensasse alle scarpette rosse del suo primo ballo scolastico, tirate a lucido con
olio di gomito, allo scricchiolio del vento che bisbiglia tra le frasche, e al gelo ostico delle notti di
novembre. Pensava a tutto, pur di non fare i conti con la realtà.
Pensava a tutto, e non pensava a niente.
3.
Passò del tempo, prima che l’incantesimo fosse spezzato.
Un giorno tra molti altri, quando si svegliò, al posto del buio vide la luce. Una luce cruda, che
filtrava dalle imposte socchiuse, sezionata in losanghe di forma irregolare. Si tirò a sedere con la
vista ancora appannata dal sonno. Di fronte a lei, un uomo in camice bianco.
La osservò a lungo, in silenzio, con l’attenzione che si dedica all’oggetto di uno studio
approfondito, o, in alternativa, a un curioso scherzo della natura. Poi prese a parlare, lentamente,
come se si rivolgesse a uno straniero, a qualcuno che non poteva capire la sua lingua: e, in effetti,
benché si sforzasse, lei non capiva.
Turbinii di domande le vorticavano in testa, ma che senso avrebbe avuto chiedere, se non poteva
comprendere? Che senso avrebbe avuto chiedere, se sapeva già che le avrebbero sbattuto in faccia
la sua inadeguatezza?
Sophie non voleva ascoltare. Non lo aveva mai fatto, e non vedeva perché avrebbe dovuto farlo
proprio allora.
Si premé le mani sulle orecchie. Seduta sui calcagni, dondolava avanti e indietro, fingendo che il
mondo a lei non fosse altro che una vana chimera.
Intanto, cantava.
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4.
A Sophie piaceva il silenzio, le era sempre piaciuto.
Quando doveva concentrarsi, immaginava di trovarsi in una stanza completamente bianca, senza
arredi né finestre, lontana da tutto e da tutti, e, di conseguenza, avvolta da un’inviolabile quiete.
Non essendoci entrate, nessuno poteva contaminare quella perfezione illibata, quella misticità sacra;
persino la caduta di uno spillo avrebbe potuto incrinarla irreparabilmente.
Uno dei suoi passatempi preferiti era recarsi in riva all’oceano, e sedersi sulla battigia, a fare collane
con le conchiglie, ad ascoltare lo sciabordio cadenzato delle onde: lasciava che il suo sguardo
vagasse a briglia sciolta sulle increspature del mare sempre uguale a se stesso, e si sentiva felice.
Sotto i suoi piedi si apriva una voragine di orizzonti inesplorati, di costellazioni aliene, al limite col
proibito.
Era bello, potersi aggrappare a un pezzetto d’eternità.
5.
Da dopo la sua prima apparizione, lo sconosciuto in camice bianco tornò a farle visita ogni giorno,
puntualmente. Apriva gli scuri – soltanto al loro terzo incontro Sophie notò che c’erano delle sbarre,
alle finestre – e faceva arieggiare un po’ la stanza, dopodiché si metteva seduto, e modulava la sua
voce baritonale in gorgheggi a lei del tutto incomprensibili. Succedeva sempre così, senza
variazioni sul tema.
E, tutte le volte, Sophie si sentiva un po’ più incompresa.
6.
Era autunno, quando tutto ebbe inizio. Sophie lo ricordava bene.
L’aria sapeva di matite temperate, di foglie ingiallite, di aspettative annientate dall’atmosfera via
via più gravosa. Il primo bombardamento li colse di sorpresa; Sophie e i suoi fratelli dormivano
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saporitamente, rincantucciati nei loro lettini lisi, con le coperte tirate su fino alla testa. Senza
preavviso, la terra gridò, scossa fin nelle viscere, e un boato assordante lacerò la notte. Il primo
pensiero di Sophie fu quello che un fulmine dovesse aver colpito la loro casa. E non cambiò idea
nemmeno quando sua madre, in cernecchi, irruppe nella camera con le lacrime agli occhi, e
ingiunse ai figli più grandi di far uscire i piccoli: non importava che fossero ancora in pigiama,
dovevano fuggire, e subito, prima che fosse troppo tardi.
Sophie non li seguì. Si acciambellò sotto il letto, scalza, contando i suoi respiri pesanti, in attesa del
secondo tuono. Ci misero un po’ ad accorgersi che mancava; tornarono a prenderla in fretta e furia,
e lei si oppose con tutte le forze, scalciando e strillando, ma alla fine dovette desistere. Sentiva che
sarebbe stato un allontanamento definitivo, quello. Per qualche strana arte profetica, sapeva già che
non avrebbe più fatto ritorno in quella gabbia d’oro stipata di spensieratezza, in quel guscio di noce
gremito di bambagia. Nulla sarebbe stato più lo stesso, di lì in avanti.
Sophie non voleva lasciare i suoi giocattoli.
7.
Era riuscita a portarne via uno, in realtà, il suo preferito: non era altro che una bambola di pezza,
logora e sdrucita, senza capelli e senza nome. I suoi occhi erano stati due bottoni spaiati, ma ora
gliene rimaneva uno soltanto, nero e lucido. La bocca: una linea lasciata a metà, priva del dono
della parola, simile alla bocca di Sophie, che avrebbe voluto dire molte cose, ma che non sapeva
come fare.
L’aveva ancora con sé, quella bambola. Non l’aveva mai mollata. Se la trascinava appresso
tenendola per un piede, e anche adesso, in quella sconfinata stanza buia, poteva sfiorarne il
corpicino con la punta delle dita, e cullarla tra le braccia, e ninnarla come si fa con un infante. Era la
sua appendice, la parte migliore della sua anima in cancrena, la parte di lei destinata a restare
depositata sul fondo, senza possibilità d’uscita.
Sophie non esisteva, senza la sua bambola.
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8.
Accadde quando ormai aveva abbandonato ogni speranza: capì. Capì una, una sola, delle tante
parole pronunciate dall’uomo in camice bianco: schizofrenia.
Schizofrenia.
Non era la prima volta che la sentiva, ma non avrebbe saputo attribuirle un significato. Eppure, il
semplice fatto di riallacciare quelle misere dodici lettere a un concetto che, sebbene fuori dalla sua
mente, poteva avere un senso, bastò a riempirle il cuore di gioia.
Schizofrenia.
Sophie lo ripeté più volte, con sicurezza crescente, come se stesse calibrandone il suono. L’uomo in
camice bianco le indirizzò uno sguardo vacuo, e tacque.
Non le disse altro, per quel giorno.
9.
Oltre al silenzio, a Sophie piaceva anche la solitudine. Si può riflettere con tutta calma, quando si è
soli: si prendono i pensieri, e li si stende fuori, uno a uno, a prendere aria, per poi ritirarli più caldi,
più sgualciti, più tangibili. Più nostri.
A scuola non aveva amici. Prediligeva di gran lunga la compagnia di un buon libro, rispetto a quella
di un altro essere vivente: e la beffeggiavano non poco, per questo. D’estate, non appena ne aveva
l’occasione, Sophie s’issava sul ramo più robusto di un albero al confine con il giardino dei vicini,
e, coi piedi ciondoloni, divorava in un soffio romanzi su romanzi. Quando la cena era in tavola, sua
madre le dava una voce dalla cucina illuminata; ma lei non la sentiva, e tutte le volte veniva
ripescata e riportata a casa dal fratello di turno, che non lesinava schiaffi e parole brusche. A ogni
buon conto, a Sophie non dispiaceva: se sopportare una guancia in fiamme era il prezzo da pagare
per poter fingere di vivere nei suoi libri, se ne fece presto una ragione. Come poteva sospettare che
quello fosse l’inizio di un’esistenza da funambolo, in bilico tra realtà e menzogna?
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A Sophie piaceva la solitudine perché l’essenza non ha confini, se siamo soli. Non ci sono
convenzioni da osservare, pause da colmare, farse da inscenare, corazze di stoffa da tenere in piedi.
Tutto appare com’è, che ci piaccia o meno.
Un’eccezione alla regola, tuttavia, era rappresentata dai gatti: Sophie amava i gatti. Ne aveva avuto
uno, in passato, un trovatello dagli occhi gemmei, lunatico almeno quanto lei, e vanesio. Era stata la
guerra a portarglielo via: una mattina, Sophie si era alzata e non l’aveva trovato. Le ricerche erano
proseguite a lungo, con scarsi risultati: del gatto, nessuna traccia.
Fu allora, prima ancora della guerra, che Sophie cominciò a pensare che la vita fosse solo un
castello di carta in balia degli eventi. Finché c’è bonaccia, tutto fila liscio.
Ma se tira vento, bisogna cominciare a preoccuparsi.
10.
Ci doveva essere una perdita, da qualche parte, in quella stanza. Le gocce d’acqua cadevano senza
interruzione, notte e giorno, con grande insofferenza da parte di Sophie. Il loro vagito, estenuante
pur nella sua mestizia, fu l’unica compagnia che ebbe per giorni. O almeno, fin quando non
arrivarono le voci.
C’era sempre stato un incolmabile vuoto, in lei, da che ne avesse memoria; ma all’improvviso
qualcosa cambiò. Molte persone, decine, forse più, attaccarono a berciarle sguaiatamente nelle
orecchie, all’unisono, riuscendo soltanto a fare rumore. Le sembrava di trovarsi in una di quelle sale
da ballo ottocentesche dai soffitti affrescati, affollate di baveri inamidati e rigide crinoline, zeppe
delle usanze austere di un’era dimenticata. Peccato che, oltre a lei e al buio, non ci fosse
nessun’altro.
Proprio come accadeva con l’uomo in camice bianco, Sophie non capiva quel che le voci le
dicevano: impotente, si vedeva trascinare sempre più lontano dalla ragione, sempre più rasente il
baratro della follia.
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«Zitte, zitte!», salmodiava senza posa, quasi che le sue parole potessero qualcosa. Non succedeva
mai niente.
Nel buio, Sophie cercava la sua bambola, il suo talismano, l’unica cosa che avesse, oltre a se stessa.
E la stringeva forte, fino a farsi sbiancare le nocche.
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L’avevano mandata in collegio, una volta scoppiata la guerra. Sua madre sapeva bene che un
drappello tanto grande, soprattutto se senza capofamiglia – e del loro, partito per il fronte, non si
avevano notizie da molto tempo – non poteva tirare avanti unito. Doveva smembrarsi, se voleva
cavarsela.
Così, mentre i figli più grandi se n’erano andati per la loro strada autonomamente, Sophie era stata
spedita al classico istituto nordamericano per poveri, insieme con due delle sue sorelle. Era uno di
quei posti in cui le educatrici, giovani donne digiune di prospettive, non si facevano scrupoli di
rendere la vita degli allievi più tediosa di quanto già non fosse, con tutti i mezzi che avevano a
disposizione. Le femmine dovevano imparare a star sedute diritte come fusi, a scrivere a macchina
con soddisfacente velocità e precisione, a cucire e a far di conto. Tutti indossavano la stessa
uniforme grigio topo, ci si lavava in maleolenti bagni comuni e si andava a dormire non più tardi
delle otto, dopo una cena tutt’altro che lauta a base di patate rancide o minestra annacquata.
Com’è prevedibile, a Sophie, cresciuta a suon di libri e di libertà, quella quotidianità rigorosamente
imposta stette stretta sin da subito. A che scopo imbottirsi la testa di sterili nozioni di un Latino
morto, a che scopo attenersi a un’etichetta da donnicciole, se al di là dei muri del collegio
imperversava il primo conflitto in cui fosse coinvolto il mondo intero?
E poi, Sophie voleva viaggiare. Era il suo sogno nel cassetto. Saper fare la calza non le sarebbe
stato di nessun’utilità, una volta fuori. La calura assidua dell’Africa non esigeva certo indumenti di
lana di cui coprirsi.
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Tuttavia, malgrado l’indole sediziosa, Sophie non provò mai a scappare, come una parte
infinitesimale di lei provò più volte a suggerirle. Era il tipico guerriero pedissequo, che preferisce
sedersi in seconda fila, almeno finché le acque non si siano calmate. Lasciava che fossero gli altri a
sacrificarsi, e, perché no, a perseguire gli ideali per cui tanto avevano lottato. Se ne stava in un
angolo, lei, in trepidante attesa, con un grumo di emozioni contrastanti raccolte nel cuore,
mordendosi la lingua, macerandosi nella sua apatica titubanza.
Quando ripensava agli anni in collegio, li rivedeva come un inestricabile blocco di tempo buttato al
vento. Forse, se fosse riuscita a spezzare i vincoli che la tenevano incatenata a quella realtà senza
sbocchi, alla fin fine non sarebbe stata tanto diversa da chi era allora. Ma le piaceva pensare che non
fosse così; che sarebbe diventata un’esploratrice sempre in giro per il mondo, o una scrittrice, o un
dottore per gatti, magari.
Alla fine, però, tutto ciò che sarebbe potuta essere non fu.
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Sophie esitava. L’uomo in camice bianco le porgeva il braccio. E sorrideva: l’espressione del suo
volto cambiava, quando sorrideva, solcata da reticolati di rughe sottili, e anche gli occhi, da sotto gli
occhiali spessi come fondi di bottiglia, ispiravano una fiducia infondata e gratuita. Una fiducia che
dava l’impressione di non meritarsi appieno.
Prima di rispondere al muto invito del suo braccio teso verso di lei, Sophie prese con sé la bambola.
Non aveva paura, anche se una vocina martellante, nella sua testa, le ripeteva che avrebbe dovuto.
Intrecciò il proprio braccio a quello dell’uomo in camice bianco, e ricambiò il sorriso. Era pronta.
C’era gente che parlava, là fuori. Le inflessioni di quella lingua non erano del tutto estranee a
Sophie, tantoché arrivò a pensare di poterla parlare; non era così, invece. Non capiva. Si sentiva
chiusa in una bolla d’aria spugnosa, incapace di comprendere tutto quel che accadeva all’esterno,
concentrata unicamente sulla presenza del suo ego ingombrante. Ne sarebbe finita schiacciata, lo
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sapeva. La sua anima si sarebbe gonfiata fino a mozzarle il fiato. Non c’era abbastanza spazio per
tutte e due: una doveva morire, perché l’altra restasse in vita.
Un lungo corridoio strisciava fuori dalla stanza buia di Sophie, e passava di fronte a tante altre
porte. Un gomitolo che si sdipanava all’infinito, e che portava a innumerevoli stanze diverse, tutte
uguali. Quando Sophie e l’uomo in camice bianco lo ebbero percorso tutto, dall’inizio alla fine,
finalmente si trovarono all’aperto, in un giardino abbacinante. E fu solo in quell’istante che Sophie
si rese conto che il mondo esisteva ancora.
Ogni cosa era nascosta sotto una coltrice immacolata. Bianca come il camice dell’uomo che era al
suo fianco, come tutte quelle porte dietro alle quali si annidava l’oscurità più fonda, bianca come la
coscienza incorrotta di Sophie. Sembrava che qualcuno si fosse divertito a rovesciare una tazza di
latte sul paesaggio per il puro gusto di farlo. Tutto era muto in maniera quasi surreale: gli alberi
scheletriti e ritorti, il prato intirizzito, il cielo edace, fosco come un presagio. Neanche gli uccelli
cantavano.
Sophie si meravigliò di fronte a tanta poesia. Cominciò a tremare, scossa dal freddo, ma quasi non
se ne accorse. Osservava il suo respiro coagularsi in voluttuose nuvolette di condensa, con le gote
incipriate del suo entusiasmo da bambina, stringendo forte la sua bambola.
Poi, proprio sotto il suo sguardo febbrile, ricominciò a nevicare. Dapprima con pigrizia, e i fiocchi
cinerei si posavano dovunque trovassero appiglio, e in seguito con intensità crescente.
Sophie alzò il viso al cielo. La neve s’incastrò tra le sue ciglia, e si liquefece a contatto col calore
della sua pelle. Aprì la bocca per assaggiarla. Era dolce: sapeva di purezza, di dolcezza, di
sensazioni troppo a lungo dimenticate.
«Grazie», sussurrò all’uomo in camice bianco, quando fu il momento di rientrare.
Sophie non era sicura di quel che quel che quella parola, grazie, volesse dire.
Sperò che bastasse.
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Ogni notte, da che ne avesse memoria, Sophie faceva sempre lo stesso sogno.
Vedeva una bambina. Una cascata di capelli rosso vivo, viso pingue spolverato di efelidi, sorriso
sghembo e zuccheroso, esotici occhi slavati, dai riflessi di ametista. Erano pieni di fantasie
sublimate, quegli occhi, di una curiosità onnivora senza riserva alcuna; pieni della consapevolezza
di stare vivendo per la prima volta, della consapevolezza che, pur opponendoci con le unghie e con i
denti, presto o tardi torniamo tutti indietro, al punto di partenza.
Fu solo nel buio ceruleo della sua stanza che Sophie trovò la risposta che aveva cercato tutta una
vita.
Somigliava troppo a quella bambina; c’era una parte di Sophie, in lei, una parte troppo grande
perché potesse essere ininfluente.
Erano la stessa persona.
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Al tempo della guerra, quando eccidi, cattive notizie e apprensioni erano all’ordine del giorno, se si
voleva mangiare bisognava essere in possesso di una tessera apposita, cosicché ciascuno non avesse
né più né meno di quanto gli spettava. Non era altro che un piccolo quadratino di cartone, che tutti,
disponendosi in fila indiana, dovevano esporre all’addetto alla distribuzione del pranzo per
dimostrare di avere diritto alla propria razione giornaliera di vitto. Il responsabile spuntava la
casella che corrispondeva al giorno corrente – sebbene i più arguti e affamati avessero elaborato
diverse strategie per ottenere più della dose che spettava loro – e procedeva alla distribuzione del
cibo. La carne era di solito limitata a una, massimo due volte la settimana, e per i pasti restanti si
sopravviveva a forza di pagnotte rafferme, ortaggi di provenienza sconosciuta e zuppa. Nient’altro.
Reclusa nel suo cantone di buio sempiterno, posticcio, Sophie pensava a quello di cui l’uomo ha
bisogno per restare in vita: cibo, acqua, aria, calore, sonno, affetti, passioni. E luce.
Stava lentamente dimenticando che cosa fosse la luce. Da molto non aveva occasione di
fronteggiarla, di trarne beneficio, di lasciarsela penetrare nelle ossa. La nostalgia di certe escursioni
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in campagna che aveva l’abitudine di fare con la sua famiglia, approfittando al meglio delle torride
giornate estive, si faceva largo in lei con insistenza sempre maggiore.
Adesso, costretta in quell’oscurità ancestrale, si sentiva morire, come una pianta a cui fosse stata
asportata tutta la linfa.
Sophie desiderò spesso di avere una di quelle tessere che in guerra distribuivano per il cibo.
Così si sarebbe potuta accaparrare almeno un po’ di luce, in quel mondo di tenebra.
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Le giornate tutte uguali di Sophie erano scandite da quella solita parola: schizofrenia.
Ogniqualvolta la andasse a trovare, troncando la monotonia della sua esistenza nella stanza buia,
l’uomo in camice bianco non faceva che riempirsene la bocca, come se da essa dipendessero Sophie
stessa, il suo ruolo, il suo personaggio, il suo perché. Come se schizofrenia fosse il suo fulcro, la
sua ossatura, il suo esserci. Come se tutto, semplicemente, si riducesse a quello.
Quando se ne andava, Sophie rimaneva sola con i suoi cavilli.
Schizofrenia.
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A volte, la bambina dei sogni di Sophie teneva sul palmo della mano una farfalla.
Era vivacemente variopinta, pennellata di colori che solo madre natura sa dispensare, e non
accennava a volersene volare via. La bambina la osservava, attenta a non rivolgerle sguardi troppo
duri, timorosa che un anche un anelito di vento più impetuoso del dovuto potesse nuocerle.
La trattava con tutte le precauzioni che la sua fragilità esigeva. La maneggiava come se fosse un
inestimabile ninnolo di vetro.
Ciò nonostante, era sempre troppo tardi.
Per quanta cautela la bambina impiegasse, la farfalla non poteva vivere in cattività, non era fatta per
quello. Il vetro si rompe, prima o poi.
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Ogni volta, con delicatezza, un’ala si staccava dal corpo della farfalla, e ricadeva sulla mano della
bambina.
Spezzata.
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Gli altri bambini avevano paura dei serpenti. E dei ragni, dei topi, del buio, e dei mostri che si
nascondono negli armadi, pronti a saltare fuori non appena cala la notte. O dei clown, magari.
Non Sophie. Il terrore di Sophie era ben più concreto, più adulto, più reale. Tanto reale da incutere
timore per davvero.
Sophie aveva paura dell’ignoto. Di quello strapiombo che, a un certo punto, quando meno ce lo
aspettiamo, si schiude sotto di noi, ingordo, risonante di rimbombi amplificati, distorti, artificiosi.
Un giorno, quando aveva cinque anni, rischiò di cadere in una forra montana. Stava attraversando
un ponticello fatto di assi sottili, e il legno sdruccioloso si disfò sotto il suo peso. Il piede di Sophie
slittò giù dalla passerella, e il vuoto la chiamò a sé con la sua forza arcana.
Per un momento, Sophie temé di ruzzolare giù, verso le rocce affilate come coltelli.
Ma non ebbe paura di morire; quello no, mai.
Semplicemente, aveva paura di non sapere che cosa l’aspettasse giù, in fondo, oltre tutto ciò che
aveva sempre conosciuto.
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Doveva esserci una visita per lei. O almeno, questo era quel che pensava Sophie.
Non si trattava del solito uomo in camice bianco, ne era certa. La aiutarono a vestirsi con uno dei
suoi abiti migliori, e le pettinarono i lunghi capelli in una treccia ordinata. Sembrava un’occasione
degna d’importanza. Una solennità. Sophie si chiedeva chi potesse volerla vedere, chi potesse
bramare la sua presenza a tal punto da osare interrompere il suo eremitaggio nella stanza buia.
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Chiunque fosse, si fece attendere un po’. Intanto, Sophie lisciò con la punta delle dita il vestito
stropicciato della sua bambola, perché anche lei fosse al meglio. Poi spostò lo sguardo sulla finestra.
Nevicava fittamente. Tutto era di un colore cianotico.
Sophie sospirò, chiuse gli occhi e finse che fosse estate.
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Il visitatore misterioso fu annunciato da uno scalpiccio ripetuto dietro la porta, e da un vociare
sommesso. Nella stanza buia, insolitamente illuminata a giorno, Sophie scattò in piedi, ma subito,
quasi pentita, si sedette sul davanzale freddo; era un fascio di nervi. Mise seduta anche la bambola,
che, a causa del suo movimento brusco, era caduta a faccia in avanti, e attese che l’ospite facesse il
suo ingresso con gli occhi fissi sui propri piedi.
La porta si richiuse cigolando.
Sophie fece un respiro profondo. Sollevando lo sguardo, e nel vedere la persona che le stava di
fronte il suo cuore si fece straripante d’incontenibile felicità.
«Margareth!», esclamò, alzandosi di nuovo, tanto in fretta che la testa prese a girarle. Sophie gettò
le braccia al collo di sua sorella, e la strinse forte a sé, come si fa con un vecchio amico che non si
vede da anni. Avevano un buon profumo, i capelli di Margareth, un profumo di cannella che Sophie
ricordava bene, ma che per molto tempo aveva sentito solo nei sogni.
«Oh, sono così felice che tu sia venuta, Margareth!»
Sophie si sciolse dalla stretta per vederla meglio in viso. Il sorriso le morì sulle labbra con la stessa
tempestività con cui era affiorato.
Arretrò di qualche passo, improvvisamente diffidente, sospettosa, ostile.
«Tu non sei Margareth. Margareth è morta tanto tempo fa», l’accusò, puntandole contro il dito. Ne
era certa, benché la somiglianza fosse notevole. «Tu sei Sophie.»
Davanti a Sophie c’era la bambina del suo sogno; un po’ cresciuta, magari, ma era la stessa, senza
dubbio. Aveva gli stessi occhi inchiostrati di saggezza, la stessa zazzera rossa, la stessa espressione
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vagamente coriacea, la stessa curva del viso, lo stesso modo di fare melenso. Eppure, c’era qualcosa
di sbagliato, in quell’immagine, Sophie non tardò a notarlo: un’affinità stonata, tremula,
l’imperfezione perfetta di un ritratto tracciato da una mano qualsiasi, dalla mano di un imitatore, e
non da quella del maestro.
La bambina era divenuta realtà. Aveva oltrepassato la linea di demarcazione con il sogno, ed era
venuta da lei. E adesso Sophie se la vedeva davanti, e l’aveva abbracciata, ed era così fasulla da
sembrare reale.
Sophie tornò seduta sul davanzale della finestra, e si sistemò la bambola in grembo. Posò la tempia
contro il vetro freddo, e cercò di calmarsi al ritmo pacato del suo cuore. Una strana inquietudine le
ghermiva la bocca dello stomaco.
«Cosa succede, là fuori, Sophie?», chiese, appannando il vetro con il suo respiro. «La guerra è forse
finita? Oppure si trascina avanti come sempre? Forse non finirà mai. Forse tutto è un circolo che si
ripete.»
La Sophie bambina si lasciò su una sedia a poca distanza. Portava un parka multicolore, ed era più
vecchia di quanto Sophie la ricordasse. I suoi occhi verdi erano orlati di lacrime che cercava di
nascondere in tutti i modi, pur senza riuscirci.
«Non sono Sophie», disse dopo un po’, sorridendo condiscendente. Si tamponò le guance screpolate
con un fazzolettino. «Tu sei Sophie, non io.»
Sophie rimase colpita. La capiva. Riusciva a capirla, quando parlava. Non capiva l’uomo in camice
bianco, ma lei sì. Si sentì sollevata, nel constatare che non era lei, il problema. Non era lei, quella
che non era come avrebbe dovuto essere.
«Non dire stupidaggini, siamo entrambe Sophie. Tu e io.»
«Non sono Sophie», ripeté la Sophie bambina, stavolta con collera, malgrado l’entità delle sue
menzogne piombasse nella stanza pesante come un macigno.
Sophie si strinse nelle spalle, sfoderando un’espressione sardonica. Che credesse quel che voleva.
Raddrizzò l’occhio cadente della sua bambola. «I bambini fanno molto rumore. Giocano a palla, ma
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non m’invitano quasi mai. Sono stanca di starmene da sola.» Tacque, assorta. «Hai letto qualche
buon libro, di recente, Sophie?»
«Mi chiamo Nora, non Sophie.» La Sophie bambina ci rifletté su per qualche istante. «No»,
mormorò con aria assente, stringendosi nelle spalle. «Non ho più molto tempo per leggere,
purtroppo. Ho faccende più importanti da sbrigare.»
«Esiste qualcosa più importante di un buon libro?»
La docilità negli occhi della Sophie bambina era una di quelle cose che tutti dovrebbero vedere
almeno una volta nella vita. Un sentimento tanto schietto da fare male, fomentato da un’affezione
ben radicata, eppure al contempo elusivo, volubile, labile.
«No, non credo.»
Sophie e la Sophie bambina parlarono a lungo. Fu una conversazione senza capo né coda, di segreti
inconfessati e inconfessabili, alcuni incancreniti, di cose dette e non dette.
Prima di andarsene, la Sophie bambina tirò fuori dal parka una foto a colori, e la lasciò nelle mani
di Sophie. Piangeva.
«Buon compleanno, mamma», le sussurrò all’orecchio a mo’ di saluto, stampandole un bacio sulla
fronte. Profumava di cannella, proprio come Margareth.
La Sophie bambina se ne andò in punta di piedi, senza quasi toccare terra.
Senza di lei, la stanza divenne di nuovo buia.
20.
Lo specchio le restituì l’immagine di una vecchia.
I lunghi capelli, un tempo vaporosi, rossi come il sole del crepuscolo, erano ora quasi del tutto grigi,
striati da qualche ciocca più nera. Gli occhi, opachi, velati da un alone traslucido. La pelle,
raggrinzita, secca, incartapecorita, la buccia di un frutto marcio, le colava sul corpo gracile, scorza
smessa, conchiglia abbandonata.
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Era stata bella, Sophie. Di una bellezza non canonica, ma pur sempre rispettabile, che però non
aveva lasciato la propria impronta nella vecchiaia, ed era svanita, svaporata come nebbia filtrata
dalla luce. Ora, di lei non rimaneva che quel riflesso sbiadito, eco lontano che la fissava di rimando.
Sophie seppe perché aveva fatto a pezzi lo specchio, quel giorno. Non poteva sopportare il peso
della realtà.
Rimase a fissarsi per ore intere, nella penombra della stanza.
Non puoi guardare il mondo attraverso uno specchio.
Lo fece ancora. Tirò un pugno al proprio riflesso, nella speranza che sparisse per sempre.
Il suo volto di vecchia si frammentò in innumerevoli scaglie acuminate.
Il vetro era rotto.
Una lastra di ghiaccio sbriciolato dal sole; una promessa infranta.
Tutto si rompe, prima o poi.
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