Roberto Bracco e gli ismi del suo tempo

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Roberto Bracco e gli ismi del suo tempo
Roberto Bracco e gli ismi del suo tempo
di Bernadina Moriconi
La fortuna di un autore teatrale, si sa, è strettamente connessa alla rappresentabilità (teorica ed effettiva) delle sue opere sulla scena. I testi, per esempio, di Pirandello (da noi) e di Shakespeare (ovunque), da sempre al centro di studi, dibattiti,
rivisitazioni, devono però la fama presso il grosso pubblico al fatto che tutti noi
abbiamo avuto l’opportunità di essere direttamente coinvolti in qualità di spettatori
nella gelosia distruttiva di Otello o in quella “cerebrale” dello scrivano Ciampa, nel
tentativo di rivalsa rancorosa di Shylock o in quella grottesca e altrettanto dolente
di Chiàrchiaro.
Sul teatro del napoletano Roberto Bracco, invece, il sipario è calato da tempo,
da troppo tempo per un autore che a cavallo tra XIX e XX secolo è stato tra i più
rappresentati in Europa e nel mondo e ha sfiorato nel 1926 il Nobel che, come è
noto, gli fu negato a causa del suo dichiarato antifascismo. È come se su di lui gravassero ancora l’ostracismo decretato dal regime e, poi, il disinteresse di una certa
cultura postbellica alla ricerca, anche motivata, di nuovi miti e nuove idee da propugnare e quindi poco interessata a un autore ritenuto sostanzialmente datato. In
realtà, l’opera di questo scrittore, pur con evidenti limiti, presenta all’occhio attento
dello studioso suggestioni e spunti innovativi ancora tutti da indagare.
Nato a Napoli nel 1861 (di un anno più giovane di quel Salvatore Di Giacomo
con cui condividerà molti interessi, a partire propri da quello per il teatro e le novelle), Roberto Bracco approda per circostanze fortuite al giornalismo e, per questa
strada, alla narrativa e al teatro. Polemista, conferenziere, critico musicale e teatrale,
è però come drammaturgo che conobbe presto larga fama prima con esili ma divertenti atti unici esemplati su coevi modelli francesi, poi con testi di più ampio respiro che lo consacrarono sulla scena nazionale e internazionale.
La produzione drammatica di Bracco si colloca in una stagione particolarmente
cruciale della cultura europea caratterizzata dalla compresenza di ideologie e poetiche spesso contrastanti se non contraddittorie: verismo, psicologismo, simbolismo,
decadentismo… Un fermento di movimenti e di idee su cui Luigi Capuana si sarebbe soffermato nel suo celebre lavoro Gli “ ismi” contemporanei.
E proprio Roberto Bracco e gli “-ismi” del suo tempo si intitola il volume del giovane
studioso Armando Rotondi, con introduzione di Beatrice Alfonzetti, pubblicato
quest’anno dalla ESI nella collana teatrale diretta da Dante Della Terza, Pasquale
Sabbatino e Giuseppina Scognamiglio, e che trova una significativa esplicitazione
nel sottotitolo Dal Wagnerismo all’Intimismo.
E infatti fu senza dubbio l’eclettismo culturale di questo personaggio a portarlo
a incontrarsi tanto con le mode effimere dell’epoca quanto con alcuni fatti sostan-
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ziali: nuove tendenze di pensiero e d’arte che avrebbero fruttificato nel tempo (si
pensi solo all’intimismo e allo psicologismo).
Alcuni dei temi che Bracco andava dibattendo sulle pagine dei quotidiani ritrovano inoltre un puntuale quanto significativo riscontro nelle sue opere teatrali: si
pensi alla musica di Wagner citata en passant in apertura di Infedele, ma che attesta la
notorietà che il musicista tedesco godeva in determinati contesti sociali.
Il tema molto dibattuto del wagnerismo era stato infatti affrontato da Bracco
sulle pagine dei giornali in qualità di critico musicale, relativamente alla diffusione e
ricezione – non scevra di polemiche – della musica e della concezione stessa del
teatro espresse dal musicista di Lipsia. Nel Paese del “bel canto” e della grande tradizione musicale operistica, Bracco si colloca in una posizione d’avanguardia, riuscendo a percepire, forse in forza della sua sensibilità d’artista oltre che delle sue
competenze di critico, il punto di svolta costituito dall’idea wagneriana di spettacolo. E a cogliere di conseguenza l’inadeguatezza di una messa in scena di tipo tradizionale, quale quella realizzata per il Tannhäuser al teatro San Carlo, allineandosi con
quanto espresso più di vent’anni prima da Baudelaire, a proposito del fallimentare
allestimento del medesimo testo all’Opéra di Parigi nel 1861. Per la verità, i toni di
Bracco appaiono più smorzati, ma comunque non può fare a meno di notare che
esistono due Tannhäuser, quello eseguito al San Carlo e “quell’altro…”. Su cui si
sofferma nel lungo articolo evidenziando una peculiarità dello spettacolo nel gioco
di «armonie fuse in un’armonia sola e inscindibili le une dalle altre».
E se, come ribadisce Rotondi, la musica, sempre presente nel dramma di Wagner, «ha il compito di esprimere ciò che non è possibile manifestare con le parole,
rendendo visibili, attraverso l’armonia e il trasmutare dei timbri strumentali, i flussi
di coscienza e i tumulti psicologici» si comprendono i motivi dell’affinità che Bracco, soprattutto il Bracco delle opere intimiste, nutriva per il musicista tedesco. Entrambi infatti, sebbene con generi ed esiti differenti, cercavano di dar voce
all’inesprimibile, l’uno attraverso la sua idea di musica, l’altro col “non detto” dei
suoi personaggi, come accade ne Il Piccolo santo, dramma con cui lo scrittore partenopeo si fa anticipatore di quel teatro del silenzio che avrà, com’è noto, in Jean
Jacques Bernard il maggiore esponente.
Se è indubbio, infatti, che Bracco non sia ascrivibile, almeno in senso stretto, a
nessuna delle correnti artistiche e di pensiero in voga in quegli anni di fine Ottocento (gli “ismi” cui rimanda il titolo del saggio), è altrettanto vero ciò che Rotondi
ribadisce, e cioè che almeno una di queste correnti, l’intimismo appunto, da lui
prende le mosse. La volontà – che si fa aspirazione – di superare il crudo vero propugnato dai naturalisti è ciò che spinge a indagare nei recessi più misteriosi e insondabili della natura umana. Il che non manca di avere ripercussioni sulla scena. Il
luogo per eccellenza effimero del teatro non poteva infatti non subire la suggestione della parola evocata più che pronunciata, capace di suggerire più che di raccontare, in un gioco di corrispondenze e di risonanze.
Diventa però necessario, ed è ciò che Rotondi fa, operare gli opportuni distinguo tra l’idea di teatro espressa dai simbolisti e quella praticata da Bracco, soprattutto in relazione all’uso che entrambi fanno del silenzio: «il non-detto bracchiano
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– spiega Rotondi a proposito de Il Piccolo santo – ha una finalità puramente psicologica, serve cioè a delineare essenzialmente il vero dramma dei personaggi sulla scena che non dovrà essere mostrato in maniera esplicita, ma intuito dallo spettatore
in sala». I personaggi del dramma, infatti, pur parlando di altro riescono a far trapelare o intuire le tumultuose passioni da cui sono tormentati e che li muovono fino
al punto di non ritorno. Proprio sul concetto di intuizione si misura lo scarto tra
l’autore napoletano e i simbolisti, per i quali la parola non deve servire a svelare
passioni nascoste, in quanto il suo potere deve essere puramente evocativo e allusivo.
Un tratto che invece avvicina Bracco ai simbolisti è la lettura in chiave, appunto, simbolica che entrambi attuano dell’opera di Ibsen.
E proprio al modo in cui la produzione del grande norvegese viene illustrata
negli articoli e rielaborata negli scritti teatrali da Roberto Bracco è dedicato il capitolo più corposo del volume, segno di quanto la figura di Ibsen fosse imprescindibile dalla volontà di rinnovamento del teatro a ridosso della grande stagione naturalista. Se è evidente un’influenza esercitata dall’autore di Casa di bambola su certa
produzione del Nostro, come del resto su certa produzione del settentrionale Giuseppe Giocosa, sono evidenti tra i due anche delle divergenze di poetica. Mancano,
infatti, in Bracco quell’intransigenza e quell’individualismo, intesi come ansia di affermazione di ideali in un’ottica piuttosto cerebrale e astratta dell’esistenza, che caratterizza alcuni – pur felici e irripetibili, chiariamo – personaggi ibseniani e che,
nell’ambito di una comune matrice neoidealistica, induceva già Antonio Stäuble in
un ormai celebre saggio del 1959 sul teatro bracchiano a parlare di teatro di idee per
Ibsen e teatro di pensiero o psicologico per Bracco.
Inoltre, l’assimilazione e la divulgazione della poetica ibseniana da parte di
Bracco è riconducibile , sostiene Rotondi, anche a quel desiderio di svecchiamento
del teatro italiano in genere, e in particolare napoletano, ancora troppo dominato,
quest’ultimo, da una produzione farsesca che aveva la sua figura più rappresentativa in Eduardo Scarpetta: l’accusa che Bracco, come del resto Salvatore Di Giacomo, muovevano al celebre commediografo era quella di ostinarsi, peraltro con successo di pubblico – aggiungiamo –, nella rappresentazione di situazioni e personaggi stereotipati e quindi lontani dalla cruda realtà di vita della gente più umile. E
se pretendere il crudo vero da un autore schiettamente comico può apparire eccessivo, discutibile era piuttosto l’opzione scarpettiana, ideologica e un po’ classista, di
escludere dalle sue commedie personaggi del livello più basso del popolo napoletano, la plebe, insomma, ritenendola incapace finanche di suscitare ilarità. A ben vedere, dei tre, Bracco, Di Giacomo, Scarpetta, solo don Salvatore ambientava i suoi
umanissimi drammi tra i vicoli e i fondaci di una Napoli tanto misera quanto priva
della scarpettiana nobiltà: lo stesso Bracco – ricorda Rotondi – prediligeva, pur con
qualche eccezione, contesti scenici borghesi.
Il richiamo al vero rimane comunque un’esigenza ineludibile del teatro bracchiano, la cui produzione letteraria si sviluppa proprio a partire dagli anni della
grande temperie naturalista, che non mancò di avere ripercussioni e applicazioni in
tutte le arti, incluso il teatro, a partire dal testo zoliano Le naturalisme au théâtre del
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1881. Rotondi si dilunga sull’acceso dibattito intellettuale sul naturalismo e sul verismo (sarebbe ormai più opportuno dire sui “verismi”) che a Napoli giunse a una
riflessione più consapevole a partire dalla celebre conferenza che il 15 giugno 1879
Francesco De Sanctis tenne presso il Circolo Filologico di Napoli su Zola e “L’ Assamoir”. Il clima di acceso dibattito non impedì, a riprova della vivacità che ha sempre contraddistinto la scena partenopea, che proprio nel capoluogo campano fossero realizzate le prime rappresentazioni italiane di drammi naturalisti: il 7 aprile
1879 al teatro Rossini andò in scena la riduzione in sei quadri de L’Assamoir a opera del giovane capocomico Giovanni Emmanuel, mentre il 26 luglio successivo al
teatro Dei Fiorentini fu rappresentata la riduzione per le scene del Teresa Raquin,
con la giovanissima Eleonora Duse nel ruolo della protagonista.
Il libro di Armando Rotondi ha il merito insomma di ampliare continuamente
la prospettiva, spostando lo sguardo da Bracco a fatti o personaggi spesso trascurati o sottaciuti: si leggano le pagine dedicate a Giulio Massimo Scalinger, figura di
intellettuale e drammaturgo quasi del tutto dimenticata, o quelle relative alla polemica che coinvolse personaggi come Tilgher, Gobetti e D’Ambra circa la presunta
matrice (o imitazione) pirandelliana del dramma bracchiano I Pazzi. Sempre
nell’ambito del pirandellismo, vero o presunto del drammaturgo napoletano, Rotondi dà voce anche a tematiche poco trattate, soffermandosi sull’analisi delle novelle di Bracco realizzata da Roberto Salsano in un saggio del 2002 intitolato Intrighi
e dissonanze: sondaggi critici e percorsi di lettura in Bracco novelliere, nel quale viene approfondita l’originale elaborazione bracchiana del tema del doppio.
Rotondi collocando, dunque, l’artista napoletano in un contesto culturale ben
definito sebbene variegato, suggerisce nuovi campi d’indagine, lamenta, sì, e a ragione, l’assenza di Bracco da manuali e storie del teatro, ma non è mosso da alcun
intento apologetico nei confronti della sue opere teatrali, delle maggioranza delle
quali lui per primo ammette l’attuale inadeguatezza scenica. Con l’eccezione di Maschere, un testo che può essere considerato, come sottolinea la Alfonzetti, «una sorta
di crocevia in cui s’incontrano Ibsen con Maeterlinck, Giocosa di Tristi amori, col
futuro Pirandello» e che Rotondi considera un vero capolavoro. Io aggiungerei il
Don Pietro Caruso, Sperduti nel buio e almeno altri due o tre titoli. Ma non li cito. Lasciamo al lettore interessato, al regista audace, allo studioso perspicuo il gusto della
scoperta, e soprattutto il merito di contribuire a vincere la condanna al silenzio che
da troppi anni perseguita questo autore: la peggiore delle condanne per chi, come
Roberto Bracco, giornalista, polemista, drammaturgo, credeva nel potere delle parole.