racconti delle origini - Pontificio Istituto Giovanni Paolo II

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RACCONTI DELLE ORIGINI
Cominciamo la nostra esplorazione dell'Antico Testamento dai primi capitoli del libro della
Genesi. Questa parte della Bibbia ci offre dei materiali narrativi che appartengono al genere dei
racconti di inizio, come li chiama P. GIBERT.1 Potremmo anche chiamarli narrazioni protologiche,
ossia racconti che risalgono alle prime origini di un fenomeno per esprimerne in qualche modo la
natura. Nelle antiche culture mediorientali l'inizio è più di una semplice categoria temporale, è un
evento fondativo: ciò che è accaduto all'inizio si ripete poi costantemente nel tempo. In questo
mondo culturale cosmogonia2 equivale dunque a cosmologia, e antropogonia ad antropologia.
Il linguaggio di questo tipo di narrazioni è generalmente mitico. Va tenuto ben presente che
mitico non è lo stesso che favoloso o leggendario. Il mito è un tentativo di spiegare la realtà,
attraverso una rappresentazione figurata e drammatica anziché una speculazione razionale. Così
compreso, il mito non disconviene in nessun modo alla dignità della Sacra Scrittura.3 Gli autori dei
primi capitoli della Genesi hanno utilizzato dei miti, o meglio dei mitemi (= elementi di miti),
comunemente accettati nel loro mondo culturale. Non mi sembra esatto dire che hanno
demitologizzato le tradizioni antico-orientali sull'origine del mondo e dell'uomo; direi piuttosto che
vi hanno attinto modificandole e adattandole alla loro visione religiosa. Il confronto con la
letteratura mesopotamica4 si rivela da questo punto di vista illuminante.
1 Vedi Bibbia, miti e racconti dell'inizio, Brescia 1993 (Biblioteca biblica 11).
2 Mi permetto di segnalare il mio contributo «Cosmogonia biblica?», Scienza, filosofia e teologia di fronte alla nascita
dell'universo, a cura di P. ELIGIO e altri, Como 1997, 33-44.
3 GIOVANNI PAOLO II riconosce un “primitivo carattere mitico” alla storia di Adamo ed Eva (L’amore umano nel piano
divino. La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio nelle catechesi del mercoledì (1979-1984), a cura di
G. Marengo, Città del Vaticano 2009, 108); egli ha cura di spiegare che “il termine ‘mito’ non designa un contenuto
fabuloso, ma semplicemente un modo arcaico di esprimere un contenuto più profondo” (cit., 124). Nell'enciclica
Humani generis (1950) PIO XII aveva dichiarato ammissibile l'ipotesi che gli autori biblici avessero attinto a narrazioni
popolari, le quali non erano però in nessun modo da porre sullo stesso piano delle mitologie.
4 Menzioniamo in particolare il poema di Atrahasis (= sapientissimo) e quello designato con le sue parole iniziali
enuma eliš (= quando lassù). Di ambedue è disponibile una versione italiana in J. BOTTÉRO - S.N. KRAMER, Uomini e
dei della Mesopotamia, Torino 1992, 560-600 e 640-722.
1
Un primo elemento che tale confronto fa emergere è l'assenza nella Genesi di qualsiasi
teogonia: non vi sono dei che si uniscono a dee per generare altri dei; come pure di teomachia: non
vi sono dei che combattono contro altri dei. Sarebbe però errato dedurre da ciò che siamo in
presenza di un monoteismo come quello di cui parla il trattato teologico de Deo uno. Il plurale
“facciamo”5 di Gen 1,26, e ancora più chiaramente la frase “l'uomo è diventato come uno di noi”6
di Gen 3,22, indicano una pluralità di esseri divini,7 uno solo dei quali però governa e decide.8
Potremmo parlare di un monoteismo più qualitativo che quantitativo.
L'oggetto di queste narrazioni non sono dunque vicende di dei, ma di esseri umani. Si possono
distinguere due grandi blocchi, che potremmo chiamare quello della prima umanità (Adamo e la sua
discendenza) e della seconda umanità (Noé e la sua discendenza). L'evento che le separa è il diluvio
che distrugge tutti gli animali non acquatici, ad eccezione appunto di quelli che entrarono nell'arca
di Noé.
Per la nostra ricerca sono importanti soprattutto i primi tre capitoli della Genesi, dove si parla
della creazione dell'uomo e della donna e dell'istituzione del matrimonio.
5 Sulla sua interpretazione vedi più avanti.
6 Ha trovato pochissimo credito l'interpretazione “uno di lui” (= uno dei suoi discendenti) proposta da J. COPPENS, La
connaissance du bien et du mal et le péché du paradis, Gembloux 1948, 118-122.
7 In uno stadio successivo le divinità minori divennero angeli. Vedi J.-L. CUNCHILLOS ILARRI, Cuando los ángeles eran
dioses, Salamanca 1976 (Biblioteca Salmanticensis. Estudios 12).
8 Vedi a questo proposito A. SCHENKER, «Le monothéisme israélite: un Dieu qui transcende le monde et les dieux»,
Biblica 78 (1997), 436-448; «Das Paradox des israelitischen Monotheismus in Dtn 4:15-20. Israels Gott stiftet Religion
und Kultbilden der Völker», in Bilder als Quellen. Images As Sources. Studies on Ancient Near Eastern Artefacts and
the Bible Inspired by the Work of O. Keel, eds. S. BICKEL et alii, Friburgo-Gottinga 2007 (Orbis Biblicus et Orientalis
Sonderband), 511-528.
2
Il racconto dei sette giorni
Prendiamo per primo in considerazione il brano che va da Gen 1,1 a Gen 2,3.9 Dal momento
che è scandito da una successione di sette giorni, lo chiameremo il racconto dei sette giorni. La
critica letteraria lo attribuisce al cosiddetto scritto sacerdotale,10 composto in epoca successiva alla
deportazione in Babilonia.
La sua articolazione è la seguente:
a partire dallo stato iniziale, in cui la terra è interamente sommersa dalle acque, sopra le quali vi è
tenebra e soffia il vento,11 Dio
1) fa essere la luce separandola dalla tenebra;
2) crea12 il firmamento13 per separare le acque superiori dalle inferiori;
3) dalle inferiori fa emergere la terra ferma su cui fa spuntare la vegetazione;
4) appende al firmamento il sole, la luna e le stelle;
5) crea gli animali acquatici e alati;
6) crea gli animali terrestri e l'uomo, ai quali assegna la vegetazione come cibo;
7) smette di lavorare e santifica il settimo giorno.
Secondo questo racconto, come secondo le antiche cosmogonie mesopotamiche, il mondo
così come appare oggi non è esistito da sempre. Esso è invece il risultato di una trasformazione
dell'iniziale caos in un cosmo, ovvero in una realtà ordinata. La creazione è essenzialmente dunque
9 Spesso lo si fa terminare con la prima metà di Gen 2,4, che a me sembra invece non avere la funzione di concludere
questo racconto, ma piuttosto di aprire (a guisa di titolo) quello seguente.
10 Spesso citato con la sigla P, dal tedesco Priesterschrift.
11 Chiamato “soffio di Dio”. Questa rappresentazione del mondo primitivo come buio e ventoso si ritrova anche nella
cosmogonia fenicia.
12 Propriamente “fa”. In tutta questa pericope si alternano i verbi br’ e ‘śh, “creare” e “fare”. In ebraico br’ (il cui
soggetto è sempre Dio) si distingue da ‘śh perché designa un'azione che eccede le capacità umane. Non va pertanto
inteso nell'accezione filosofica di creatio ex nihilo, attestata per la prima volta in 2 Mac 7,28. In Sp 11,17 si afferma che
Dio creò il mondo “dalla materia informe”.
13 Rappresentato come una superficie solida, come un soffitto o una volta, che trattiene le acque.
3
un ordinamento del mondo, in funzione degli esseri che devono abitarvi; il mondo è fatto per
ospitare la vita.14
Artefice di tale ordinamento è Dio, qui designato col nome comune ’elōhîm e non con yhwh,15
nome proprio del Dio di Israele. Egli istituisce un'alternanza tra il giorno e la notte, fabbrica una
volta che trattiene le acque superiori e dalle acque inferiori fa emergere la terraferma: sono creati in
tal modo tre habitat distinti, aereo, acquatico e terrestre. Dopo averli creati Dio si preoccupa di
popolarli di esseri viventi, capaci rispettivamente di volare, di nuotare e di spostarsi sulla terra.
L'ultimo a essere creato è l'uomo, che viene quindi ad essere il coronamento della creazione.
Per sei volte il narratore-poeta ci informa che Dio vide che ciò che aveva fatto era “buono”
(vv. 4, 10, 12, 18, 21, 25) e la settima volta, guardando tutto ciò che aveva fatto, vide che era
“molto buono” (v. 31). Il mondo è completo ed è ben fatto. Non avendo più niente da fare, Dio
“cessò da ogni lavoro che aveva fatto” (Gen 2,2.3): il verbo ebraico è šbt, che evoca lo yôm
haššabbāt, il giorno di sabato, in cui gli israeliti si astengono dal lavoro, seguendo in ciò l'esempio
del creatore (cfr. Es 20,11 e 31,17). Dio benedice e santifica il settimo giorno: qui si conclude il
racconto della creazione del mondo.
Come osserva J.-L. SKA, “cette conclusion peut surprendre qui connaît les récits de création
du monde antique, parce que Dieu se réserve un temps sacré, mais il ne se construit pas de
temple”.16 Nel poema enuma eliš, di cui si faceva pubblica lettura a Babilonia nella festa di
Capodanno, si racconta della costruzione del tempio di Marduk, il Dio che vinse le forze del caos e
creò il mondo abitabile. Un Dio capace di compiere un'impresa come questa, la più grande di tutte,
merita di essere adorato, e deve esserlo, se non si vuole rischiare che il mondo ripiombi nel caos.
L'ordine della creazione non si mantiene infatti per forza d'inerzia, ma deve essere di continuo
rimesso in vigore. Il culto prestato alla divinità creatrice ne assicura la benevolenza e con ciò il
14 In particolare la vita umana, dal momento che gli astri non hanno solo la funzione di fare luce sulla terra, ma anche
di segnare lo scorrere del tempo.
15 Lo trascrivo solo con le consonanti, poiché la sua vera pronuncia è ignota, dal momento che gli ebrei per rispetto
religioso hanno cessato da tempo immemorabile di pronunciarlo. La pronuncia “Yahweh” adottata da alcune Bibbie è
ipotetica; la pronuncia “Jehowah” è sicuramente errata.
16 «La structure du Pentateuque dans sa forme canonique», Zeitschrift für alttestamentliche Wissenschaft 113 (2001),
336.
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mantenimento dell'ordine della creazione. Colui che ha scritto Gen 1,1-2,3 rivendica al Dio di
Israele l'onore di aver creato un luogo abitabile. Stranamente però non menziona la costruzione di
un tempio, ma l'istituzione di un giorno sacro. Il sabato prende dunque il posto del tempio?
Tale conclusione, così formulata, appare eccessiva. Nel libro del Levitico troviamo due volte
l'esortazione: «osservate i miei sabati e temete il mio santuario” (19,30 e 26,2). M. WEINFELD fa
notare la corrispondenza “between the description of the completion of the creation in Genesis and
the description of the completion of the tabernacle in Exodus”.17 La costruzione di un santuario sarà
raccontata più avanti, e si può dire che tale racconto viene in certo modo a completare il racconto
della creazione del mondo. Rimane tuttavia vero che l'osservanza sabbatica riceve un risalto tutto
particolare dal fatto di essere stata fondata direttamente dal creatore. Essa appare quasi come la
firma apposta alla creazione. Il Dio che ha fatto il mondo ha istituito il riposo sabbatico,
manifestando con ciò di essere il Dio di Israele.
Per il nostro studio sono importanti soprattutto i versetti che parlano della creazione e
benedizione della prima coppia umana:
[26] Dio disse: facciamo l'uomo come nostra immagine, secondo nostra somiglianza,
e dominino 18 sui pesci del mare, gli uccelli del cielo, il bestiame,
tutta la terra ed ogni essere che si muove sulla terra.
[27] Dio creò l'uomo come sua immagine, come immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.
[28] Dio li benedisse e Dio disse loro: fate figli19 e moltiplicatevi, riempite la terra e assoggettatela,
dominate sui pesci del mare, gli uccelli del cielo e ogni animale che si muove sulla terra. (Gen 1,26-28)
Abbiamo qui prima la decisione (v. 26) e poi l'effettuazione della decisione (v. 27). Questa
successione non si riscontra solo qui, ma pure nella creazione del firmamento (cfr. vv. 6-7), degli
astri (vv. 14-16), degli animali acquatici e alati (vv. 20-21) e terrestri (vv. 24-25). La differenza sta
17 «Sabbath, Temple and the Enthronement of the Lord. The Problem of the Sitz im Leben of Genesis 1:1-2:3»,
Mélanges bibliques et orientaux en honneur de H. Cazelles, edd. A CAQUOT e M. DELCOR, Neukirchen 1981 (Altes
Orient und Altes Testament 212), 502.
18 La congiunzione ha valore implicitamente finale: e dominino = affinché dominino. La stessa cosa vale per gli
imperativi del v. 28: fate figli e divenite numerosi = fate figli al fine di diventare numerosi; riempite la terra e
assoggettatela = riempite allo scopo di assoggettarla.
19 Letteralmente: “fate frutti”.
5
nel fatto che la volontà di fare il firmamento e gli astri è espressa mediante l'impersonale “vi sia” o
“vi siano”, la volontà di creare l'uomo invece mediante la prima persona plurale: “facciamo”.
Come deve essere compreso questo plurale? L’ipotesi del plurale maiestatis non gode di
molto credito, non essendo attestato in altri luoghi della Bibbia ebraica. Più convincente quella del
plurale deliberativo, per la quale si possono citare Gen 11,7 (“scendiamo e confondiamo”), 2 Sm
24,4 (“cadiamo nelle mani del Signore”), Ct 1,11 (“facciamo ornamenti d’oro”), tutti plurali con un
soggetto singolare. “Facciamo” non sarebbe pertanto altro che una variazione stilistica per “farò”; il
che concorda con il fatto che il versetto seguente inizia con un verbo alla terza singolare (“e creò”).
La tradizione rabbinica lo interpreta tuttavia come un vero plurale: il creatore si rivolge ad
angeli,20 o comunque ad esseri di natura simile a quella divina. A favore di questa interpretazione si
potrebbe addurre Gb 38,7, dove si legge che i figli di Dio acclamarono mentre venivano poste le
fondamenta della terra.21 La cristianità dei primi secoli interpretava invece il “facciamo” di Gen
1,26 come parola rivolta dal Padre al Figlio.22
Oggetto del verbo è ’ādām, che abbiamo tradotto “l’uomo”, nonostante l’articolo manchi nel
testo ebraico.23 Il fatto che il secondo emistichio inizi con un verbo alla terza persona plurale (“e
dominino”) mostra che non si intende un singolo, ma un collettivo: l'umanità.
La frase si chiude con due complementi in asindeto: beṣalmenû kidemûtenû. Abbiamo preferito
tradurre beṣalmenû “come nostra immagine”, anziché “a nostra immagine”, come fa la Bibbia CEI.
Grammaticalmente sono possibili ambedue, ma la prima a mio giudizio si adatta meglio al contesto
del versetto, che vuole precisamente spiegare quale scopo Dio si è proposto quando ha fatto l’uomo.
La preposizione b- di beṣalmenû ha il senso di quello che i grammatici chiamano il b- essentiae:
come nostra immagine, in qualità di nostra immagine, perché sia nostra immagine sulla terra.24 La
20 Vedi il midrash Bereshit rabba (VIII,3).
21 È interesssante osservare che sia in Atrahasis che in Enuma Eliš la creazione degli uomini è preceduta da una
conversazione tra dei.
22 In questo senso si pronunciò il concilio di Sirmio del 351. Tale interpretazione è perfettamente legittima nel suo
ambito, ma non può naturalmente pretendere di rappresentare il pensiero dell’autore umano di Gen 1.
23 Il plurale seguente “dominino” mostra che non è inteso un singolo, ma un collettivo: l'umanità. Al versetto seguente
si riscontra lo stesso passaggio dal singolare al plurale: “lo creò … li creò”.
24 Gli esempi più pertinenti di questo uso di b- mi sembrano trovarsi in Nu 18,26; Dt 1,13; Sal 78,55.
6
traduzione “a nostra immagine” lascia intendere che il creatore ha fatto l'uomo prendendo sé stesso
come modello,25 il che contrasta con l’idea che Dio non abbia alcuna forma rappresentabile (vedi
soprattuttto Dt 4,15-19, che proprio questo fatto adduce a giustificazione della proibizione di fare
immagini di Dio).26
Quanto a kidemûtenû, “secondo nostra somiglianza”, sembra non ci sia da vedervi altro che
una qualificazione di beṣalmenû. Giova infatti considerare che nell’antico Medioriente le immagini
non erano sempre somiglianti: servivano a glorificare più che a raffigurare. Gen 1,26 precisa
dunque che l’uomo è destinato ad essere un’immagine somigliante di colui che lo ha fatto. La
versione greca dei Settanta ha introdotto tra i due termini una congiunzione: kat’eikóna hemetéran 27
kaì kath’homóiosin, “secondo la nostra immagine e secondo somiglianza”. Ciò ha aperto la strada a
speculazioni come quelle di IRENEO di Lione, che nell’immagine vedeva la dimensione ontologica e
nella somiglianza la dimensione morale.28
Sulla statua di un re, databile attorno alla fine del IX secolo a.C., scoperta a Tell Fekheriyeh in
Siria,29 è stata trovata un’iscrizione bilingue: nella sezione accadica la statua è chiamata ṣalmu,
nella sezione aramaica sia ṣelem che demût. Il senso “statua” (eretta a gloria di un re) è quello che ci
apre la migliore comprensione di beṣalmenû kidemûtenû in Gen 1,26, su cui tanto è stato scritto. 30
25 In questo senso è usato il sostantivo tavnît (vedi ad esempio Es 25,40), non ṣelem.
26 Questo argomento non è indubbiamente conclusivo. In Nu 12,8 è detto infatti che Mosè vedeva la forma del Signore:
non esiste solo la teologia deuteronomica. Tuttavia l’ordine in cui sono elencate le creature in Dt 4,16-19 corrisponde
(in ordine inverso) a quello di Gen 1, il che lascia pensare che l’autore conosca il racconto della creazione, o almeno la
tradizione da cui proviene.
27 È possibile che i Settanta avessero davanti un testo ebraico keṣalmenû anziché beṣalmenû. Nell’alfabeto quadrato la b
e la k sono molto simili.
28 Cfr. Adversus haereses, V, 6,1; 8,1; 16,2. IRENEO ha esercitato un influsso considerevole sulla teologia successiva.
29 Vedi A. ABOU-A SSAF e altri, La statue de Tell Fekheriyeh et son inscription bilingue assyro-araméenne, Parigi
1982.
30 Si veda G.A. JØNSSON, The Image of God. Gen 1:26-28 in a Century of Old Testament Research, Stoccolma 1988
(Collectanea Biblica. Old Testament Series 26). Per l'esegesi antica è sempre utile J. JERVELL, Imago Dei. Gen 1,26 f.
im Spätjudentum, in der Gnosis und in den paulinischen Briefen, Gottinga 1960 (Forschungen zur Religion und
Literatur des Alten und Neuen Testaments 76).
7
Immagine è soprattutto gloria:31 evoca la dignità e il compito di un re. Il salmo 8, che può essere
letto come un commento lirico al racconto della creazione, non usa il termine “immagine”, ma ne fa
comprendere efficacemente il contenuto:
[5] Che cosa è l'uomo, perché di lui ti ricordi? Il figlio di Adamo perché te ne curi?
[6] Lo hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato.
[7] Gli hai dato autorità sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi;
[8] le greggi e gli armenti tutti, e pure le bestie selvatiche,
[9] gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ciò che percorre le vie dei mari.
Il secondo emistichio di Gn 1,26 precisa in che cosa consiste il compito che il creatore affida
all’essere umano: dominare su tutti gli altri esseri viventi, acquatici, alati o terrestri. Il verbo usato
(rdh) non implica semplicemente una dignità più elevata, ma un effettivo esercizio di autorità, come
quella di un sovrano sui suoi sudditi. Importante è qui comprendere che dominare non significa
opprimere, ma esercitare la propria autorità, la quale include la cura e la protezione. Dai sovrani il
mondo antico non attendeva soltanto che comandassero, ma anche che si prendessero cura dei loro
sudditi. Di ciò occorre tenere il debito conto, se non si vuole cadere in equivoci interpretativi. Il
lettore contemporaneo è prevenuto contro termini come “dominazione”, ai quali spontaneamente
associa arbitrarietà e dispotismo. Non è questa la concezione biblica dell'autorità, e in particolare
non è questa la concezione secondo cui in questo racconto è pensata l'autorità che il creatore
conferisce all'uomo sugli altri viventi. Comprendere la Bibbia esige, tra gli altri, anche lo sforzo di
superare le fobie che una determinata cultura instilla nei confronti di determinate parole.
All'ideazione segue l'esecuzione: dopo averlo pensato, Dio crea l'uomo come l'aveva pensato.
Al v. 27 compare, per ben tre volte, il verbo “creare”, non più ”fare”, e il termine “immagine”
compare da solo, non più seguito da “somiglianza”. La disposizione chiastica (ABBA) conferisce
rilievo all'affermazione: Dio creò l'uomo come sua immagine, come immagine di Dio lo creò. La
seconda parte del chiasmo è seguita da quella che appare come una specificazione: “maschio e
femmina li creò”. Perché questa specificazione? Voleva con ciò l'autore dire che ambedue, maschio
e femmina, sono immagine di Dio?32 O che la coppia sola è immagine di Dio? Mi sembra
31 Nei Salmi ṣelem sembra però designare qualcosa di simile alla vanagloria; vedi Sal 39,7: “in verità come
un'immagine cammina l'uomo”; e Sal 73,20, dove si dice che gli uomini sono “come un sogno quando ci si desta;
Signore, al risveglio tu fai cadere nel disprezzo la loro immagine”.
32 Così dichiara il Siracide: kat’eikóna autoû epoíesen autoùs (Sir 17,3).
8
equilibrata la risposta di P.E. DION: “On férait violence à Gen 1,27 en lui faisant dire que seul le
couple pris comme un tout est formé à l'image de Dieu. Le texte implique sans doute que la femme
est à l'image de Dieu tout comme le mâle, mais on dépasse la portée du texte en y voyant une
affirmation de leur égalité”.33 Forse però non è esatto dire che “on dépasse la portée du texte”: ciò
che infatti si oltrepassa non è propriamente la portata del testo, ma l'intenzione del suo autore
umano. Come abbiamo detto nell'introduzione, il testo ha delle virtualità di significato che vanno
oltre l'intendimento del suo autore.
Il v. 28 orienta a cercare altrove la ragione della specificazione “maschio e femmina”: nel
compito procreativo. Lo scopo per cui Dio crea l'uomo è che domini sugli altri viventi, e tale è pure
logicamente lo scopo per cui l'uomo deve fare figli e moltiplicarsi fino a riempire la terra.34 La
procreazione porta avanti lo scopo della creazione. È importante notare che la moltiplicazione non è
un fine in sé stessa: ci si moltiplica per poter dominare sugli altri viventi, in obbedienza alla volontà
del creatore. Per dominare occorre infatti essere numerosi: il numero fa la forza.
La procreazione è dunque in linea di continuità con la creazione, 35 di cui è al servizio. La
tradizione rabbinica legge Gen 1,28 come un comandamento: sposarsi e fare figli non è una libera
scelta, ma una precisa volontà di Dio cui non è lecito sottrarsi. Nel Talmud è scritto che chi non fa
figli è come un omicida (cfr. yevamot, 63 b) e dovrà risponderne nel mondo futuro (cfr. shabbat 31
a). In realtà invece Gen 1,28, come bene ha mostrato M. GILBERT,36 non è un comandamento, ma
piuttosto una benedizione, la quale è sempre legata, esplicitamente o implicitamente, la fecondità.
Dio è il fecondo per eccellenza, colui che possiede la vita in sé stesso e ha il potere di trasmetterla.37
33 “Ressemblance et image de Dieu”, Dictionnaire de la Bible. Supplément 10 (1985), 391.
34 G. HEPNER ritiene che l'intenzione dell'autore sia rivolta alla terra di Israele, che era necessario ripopolare dopo la
fine della cattività babilonese: cfr. «Israelite Should Conquer Israel: The Hidden Polemic of the First Creation
Narrative», Revue biblique 113 (2006), 161-180.
35 Notiamo che anche raccontando la creazione delle specie vegetali è messa in rilievo la capacità di riprodursi: “erbe
che producono seme e alberi da frutto che facciano frutto secondo la loro specie” (Gen 1,11). Lo scopo per cui tali
specie sono state create è per assicurare il nutrimento alle specie animali (cfr. Gen 1,30).
36 Cfr. «Soyez féconds et multipliez-vous (Gen 1,28)», Nouvelle Revue Théologique 96 (1974), 729-742.
37 R. HINSCHBERGER ritiene che la fecondità sia il punto di somiglianza tra l'uomo e Dio: cfr. «Image et ressemblance
dans la tradition sacerdotale (Gn 1,26-28; 5,1-13; 9,6b)», Revue des sciences religieuses 59 (1985), 185-199.
9
Possiamo concludere. La nostra analisi di Gen 1,26-28 mette in evidenza un dato di grande
importanza: la preminenza dell'essere umano38 su tutti gli altri viventi. All'uomo è conferita una
dignità che non è esagerato chiamare regale, dignità cui è legata evidentemente una responsabilità.
Tale dignità regale è espressa mediante la metafora della statua, cui si connettono l'immagine e la
somiglianza del v. 26. Nel mondo culturale in cui è stato composto il racconto dei sette giorni della
creazione, tale metafora aveva una forza evocativa che è invece in larga parte perduta per il mondo
di oggi: statua faceva immediatamente venire in mente un re.
Non mi convince invece più di tanto la linea interpretativa, che nell'immagine vuole vedere
essenzialmente un partner: Dio avrebbe creato un essere che gli fosse sufficientemente simile per
potergli rivolgere la parola ed allacciare con lui una relazione. Tale interpretazione, proposta da un
grande teologo come K. BARTH, gode il favore di non pochi esegeti, ma non mi pare cogliere
l'essenziale del messaggio di Gen 1,26-28. Lo coglie molto bene invece, a mio giudizio, l'apostolo
Paolo, quando definisce l'uomo39 “immagine e gloria di Dio” (1 Cor 11,7). E' un'immagine che
manifesta la gloria, immagine epifanica. Mi domando in che misura la riflessione teologica abbia
colto questa dimensione, o non abbia invece ceduto alla suggestione di ciò che il termine imago
dice in latino, comprendendolo in chiave di somiglianza più che di epifania, e andando pertanto alla
ricerca dei tratti, come l'intelligenza o la libertà, che consentano di parlare di somiglianza tra Dio e
l'uomo.
Non mi pare accettabile l'affermazione, sovente ripetuta, che l'uomo è immagine di Dio in
quanto maschio e femmina. Gen 1,26-27 parla di statua divina in riferimento ad ’ādām, che nel
contesto è manifestamente l'intero genere umano. Se ne può dedurre che ogni membro del genere
umano possieda tale dignità, ma sarebbe arbitrario negarla a chi non è unito in matrimonio. La
persona, non la coppia, è immagine di Dio. Pertinente mi appare a questo proposito la riflessione di
Y. SIMOENS: “L'Un humain à partir des deux: masculin et féminin, homme et femme, est envisagé
comme symbole vivant de l'Un créateur. Il s'agit là d'une véritable révolution anthropologique dans
l'Orient Ancien comme dans les cultures et religions du monde jusqu'aujourd'hui. La contingence
humaine selon la relation de l'homme et de la femme se trouve à la fois fondée et relativisée par
38 Notiamo che degli uomini non è detto “ ciascuno secondo la loro specie” come degli altri animali (cfr. Gen 1,21:2425). L'autore non concepiva evidentemente diverse specie umane.
39 Soltanto il maschio però, non la femmina, la quale viene invece definita “gloria dell'uomo”. Sul modo di
comprendere tale discorso paolino non possiamo qui soffermarci.
10
rapport à l'acte créateur de Dieu, source de tout être, de toute vie et de toute bonté. Fondée, parce
qu'elle trouve son origine en Dieu seul. Relativisée, parce que dès lors tout entière relative à son
Autre. Cet Autre pourtant ne fait pas nombre avec le masculin et le féminin qu'il crée”.40
E' comunque significativo che nel racconto della creazione non si parli di uomo e di donna,
ma di maschio e di femmina, termini che si usano anche per gli animali. Non è manifestamente la
relazione interpersonale che interessa l'autore del racconto, ma il compito procreativo. Anche gli
animali si riproducono, perché è volontà del creatore che continuino a popolare il mondo, ma
l'uomo non è chiamato solo a popolarlo, ma a governarlo, rappresentando in ciò il creatore, che per
questo fine lo ha voluto e creato. Del matrimonio è sottolineato dunque il fine procreativo, mentre
quello unitivo è presente solo a modo di virtualità del tutto implicita.
.
40 «La famille dans la Bible», Nouvelle revue théologique 127 (2005), 366-367.
11
Il racconto dell'Eden
Prendiamo ora in considerazione il brano che va da Gen 2,4 fino a 3,24. E' spesso chiamato il
secondo racconto della creazione, pur non essendo la creazione il suo tema principale, e attribuito al
cosiddetto scritto jahwista.41
Possiamo suddividere il racconto in cinque grandi parti. La prima va da Gen 2,4 a 2,17:
all'inizio abbiamo una terra priva di vegetazione per mancanza d'acqua, alla fine una piantagione
abbondantemente irrigata. La divinità creatrice, che in questo racconto non è più chiamata “Dio”,
ma “il Signore Dio”,42 per prima cosa modella un uomo con la polvere del suolo43 e gli soffia nelle
narici il respiro che gli permette di vivere; poi pianta un giardino, o piuttosto frutteto, in cui colloca
l'uomo con il compito di coltivatore e custode. In mezzo al frutteto vi sono l'albero della vita e
l'albero della conoscenza del bene e del male. Dei frutti di quest'ultimo il Signore Dio proibisce
all'uomo di mangiare, pena la morte. Poiché alla fine del racconto l'uomo non muore subito dopo
aver mangiato il frutto proibito, ne deduciamo che la pena di cui era stato minacciato non era la
morte immediata, ma la mortalità. Se avesse potuto rimanere nel frutteto, l'uomo avrebbe potuto
continuare a mangiare il frutto dell'albero della vita, che gli avrebbe permesso di vivere per sempre,
come una divinità.44 Gli era invece precluso l'altro privilegio divino, ovvero la conoscenza del bene
e del male:45 ne deduciamo46 che per acquisire tale conoscenza, essenziale per la sua vita, l'uomo
doveva essere istruito da colui che ne era in possesso, il suo creatore. Ma se l'uomo non ne doveva
mangiare mai i frutti, a quale scopo il Signore Dio aveva fatto crescere quell'albero? L'unica
risposta che dà senso è: per mettere alla prova la sua obbedienza.
41 Spesso designato con la sigla J (dal tedesco Jahwist).
42 Tranne che nel dialogo tra la donna e il serpente (Gen 3,1-5), dove è chiamato solo “Dio”.
43 In ebraico vi è assonanza tra ’ādām (uomo) e ’ adāmāh (suolo).
44 La pianta della vita eterna compare anche nell'epopea di Gilgamesh, il cui eroe prima la trova e poi la perde,
dovendosì così rassegnare alla perdita dell'immortalità.
45 Non si tratta certamente di un merismo, cioè della figura stilistica per cui una totalità è designata dalla somma delle
parti (bene e male = ogni cosa). Non è intesa qui l'onniscienza.
46 Le deduzioni sono necessarie per la comprensione di questo racconto, nel quale al lettore non sono fornite tutte le
informazioni necessarie a comprendere lo svolgimento dei fatti. Questa caratteristica rende il racconto abbastanza simile
ad una commedia, o piuttosto ad un dramma.
12
Dio ha fatto prima l'uomo e poi il frutteto, che è piantato proprio per ospitare l'uomo e
consentirgli di vivere per sempre e senza pena e fatica.47 Vivere è dunque il fine per cui Dio ha fatto
l'essere umano, e per il suo raggiungimento gli ha dato un comandamento, la cui osservanza
avrebbe preservato l'essere umano dalla morte. Questo primo sviluppo narrativo ci offre il
passaggio da terra arida a terra fertile, chiaramente in funzione dell'uomo, poiché in terra arida
l'uomo non può vivere. Il vero interesse tematico di questa sezione è la vita: l'uomo riceve
direttamente da Dio il soffio vitale ed ha accesso ai frutti dell'albero della vita. La morte è tuttavia
presente, ma solo come possibilità, non come destino. Tre sono i doni del creatore alla sua creatura:
il soffio vitale, il luogo in cui vivere beatamente (il frutteto), il comandamento che lo protegge dalla
morte.
La conclusione della prima sezione crea una viva tensione narrativa: sentendo dire che l'uomo
morirà se mangerà il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, il lettore si domanda
che cosa farà l'uomo: mangerà o non mangerà? E se mangerà che cosa gli succederà? La sezione
successiva (Gen 2,18-24) non soddisfa però in alcun modo tale curiosità; essa introduce anzi un
tema nuovo, il cui nesso con la storia diventerà evidente solo più avanti. Il nuovo tema è il bisogno
di compagnia che segna l'esistenza dell'uomo fatto da Dio e insediato nel frutteto paradisiaco.
All'inizio di questa sezione troviamo la dichiarazione da parte del Signore Dio che non è bene48 che
l'uomo sia solo e alla fine la dichiarazione da parte del narratore che l'uomo e la sua donna si
uniscono fino ad essere una sola carne. L'arco narrativo si muove dal problema (la solitudine) alla
sua soluzione (la compagnia). Esaminiamo più da vicino la dichiarazione iniziale:
Il Signore Dio disse: non è bene che l'uomo stia da solo; farò per lui un aiuto corrispondente a lui. (Gen 2,18)
In ebraico la dichiarazione è resa ancora più solenne dalla rima tra levaddô, “da solo”, e
kenegdô, “corrispondente a lui”. Notiamo che tale dichiarazione non è rivolta all'uomo. Il creatore
parla e poi agisce, interamente di sua iniziativa, mosso da una volontà di bene per la sua creatura.
Abbiamo prima una valutazione, e poi una decisione operativa. La solitudine non essendo un bene
per l'uomo, occorre provvedere ad eliminarla. In che modo? Facendo per lui un ‘ēzer kenegdô.
47 Nella mitologia mesopotamica invece l'uomo è fatto per faticare al posto degli dei.
48 Questo aggettivo crea un collegamento tra i vv. 17 e 18. L'uomo non deve mangiare dell'albero della conoscenza del
bene e del male, il Signore Dio sa che cosa non è bene per l'uomo.
13
Il primo termine non pone alcun problema interpretativo: ‘ēzer nella Bibbia ebraica indica
univocamente un difensore, un protettore, uno che porti soccorso di fronte al nemico.49 Non si
intende quindi un aiuto per avere dei figli, come pensava AGOSTINO.50 Meno evidente è il senso di
kenegdô. La Settanta al v. 18 traduce kat' autón, “secondo lui”, e al v. 20 hómoios autôi, “simile a
lui”. La prima versione è ripresa da Sir 36,29 e la seconda da Tb 8,6; nel senso della somiglianza ha
interpretato pure la versione aramaica nota come Targum Neofiti. Non vi sono altri esempi di
keneged nella Bibbia ebraica;51 in ebraico postbiblico significa “corrispondente”, senso che sembra
convenire bene52 a Gen 2,18.20.
I versetti seguenti mostrano il Signore Dio che modella con la polvere del suolo gli animali e
li presenta all'uomo perché dia loro un nome. L'atto di dare un nome implica esercizio di autorità,
come giustamente rilevano qui molti commentatori: i genitori danno il nome ai figli, che devono
loro obbedienza. Se il re Nabuccodonosor cambia il nome di Mattania in Sedecia (cfr. 2 Re 24,17),
è per manifestare che il nuovo re di Giuda deve essergli soggetto come un figlio al padre.
Il progetto enunciato al v. 18 non trova però realizzazione: “per l'uomo non trovò un aiuto
come di fronte a lui” (Gen 2,20). Giova rilevare che il testo ebraico lascia indeterminato il soggetto
di questa frase. La Settanta traduce al passivo: “fu trovato”; da non interpretare probabilmente come
un passivo impersonale, ma piuttosto divino, come i grammatici usano chiamare il passivo il cui
complemento d'agente sottinteso è Dio. È il Signore Dio dunque che giudica53 gli animali
inadeguati rispetto all'esigenza umana: non sono un aiuto corrispondente all'uomo.
49 Quale nemico minacciava l'uomo nel frutteto? La solitudine, risponde J.-L. SKA: cfr. «Je vais lui faire un allié qui
soit homologue à lui (Gn 2,18). A propos du terme ‘ezer-aide», Biblica 65 (1984), 233-238. La risposta non mi suona
convincente: la solitudine non è un nemico in sé stessa, è la situazione in cui uno è indifeso di fronte ai nemici.
50 Cfr. De Genesi ad litteram, IX, 5, 9.
51
A meno di non correggere in 1 Sam 16,6 neged in keneged, come proposto da J. JOOSTEN: cfr. «1 Samuel XVI,6.7
in the Peshitta Version», Vetus Testamentum 41 (1991), 226-233.
52
Il midrash Bereshit Rabba dice (cfr. XVII, 3) che la moglie è per il marito un aiuto o un oppositore, a seconda dei
meriti del marito stesso. E’ un’interpretazione di natura omiletica, tanto suggestiva quanto esegeticamente poco
fondata.
53 Non poche versioni moderne ritoccano il testo per fare dell'uomo il soggetto della frase, che viene così a dare un
senso più gradito: l'uomo non riconosce in nessun animale la compagnia di cui ha bisogno.
14
Il creatore si rimette dunque all'opera, e questa volta non usa più la polvere del suolo, ma una
parte del corpo stesso dell'uomo, e precisamente “uno dei suoi fianchi” (Gen 2,21), o una delle sue
costole,54 secondo l'interpretazione tradizionale. Perché l'uomo non soffra dell'operazione il Signore
Dio lo addormenta, e durante il suo sonno gli toglie una parte del suo corpo e con essa
“costruisce”55 una donna. E' importante notare che l'uomo non è consultato né prima dell'operazione
né durante, visto che dorme profondamente. La donna non è stata fatta su ordinazione; non è una
proiezione di desideri maschili. La donna è stata pensata e fatta direttamente da Dio per il bene
dell'uomo. Non è l'uomo che ha detto a Dio che si sentiva solo e voleva compagnia; è Dio che ha di
sua iniziativa espresso un giudizio e deciso un'azione, senza chiedere mai il parere dell'uomo.
Al suo risveglio l'uomo si trova davanti la donna. Come agli animali, anche a lei deve dare un
nome. I nomi degli animali il narratore non si era dato la pena di riferirli, mentre invece dà grande
risalto al nome che l'uomo inventa per colei che il Signore gli conduce:
L'uomo disse: questa stavolta è osso delle mie ossa e carne della mia carne;
questa si chiamerà ’iššāh perché da un ’îš questa è stata tratta. (Gen 2,23)
La frase è scandita dalla triplice ripetizione: “questa”. La ripetizione è al servizio dell'enfasi:
la donna è del tutto diversa dagli animali, perché il Signore l'ha tratta56 dal corpo stesso dell'uomo.
E' proprio tale provenienza che l'uomo vuole sigillare nel nome che escogita per lei: ’iššāh perché
tratta da ’îš.57 L'omofonia di questi due vocaboli in ebraico58 è utilizzata come espressiva della
54 La tredicesima dalla parte destra, secondo il Targum Pseudo-Yonatan. Il termine ebraico designa propriamente un
lato del corpo o la fiancata di un oggetto.
55 Il termine evoca la famiglia. Per una donna dare figli al marito significa essere costruita (cfr. Gen 16,2 e 30,3).
56 “E' stata tratta” è un chiaro passivo divino: è stata tratta = Dio ha tratta.
57 In luogo di ’îš il Pentateuco Samaritano offre ’îšāh, “il suo uomo”; lezione attestata pure dalla Settanta, che traduce
ek toû andròs autês.
58 Lessicalmente i due vocaboli vengono invece da due radici distinte. Nelle maggior parte delle versioni l'omofonia si
perde, e il gioco di parole dell'ebraico diventa di conseguenza inintelligibile. Per salvarlo alcuni traduttori sono ricorsi
all'artificio di inventare vocaboli nuovi, come andrìs (SIMMACO) o Männin (LUTERO), o di impiegare vocaboli di
significato affine, come virago (GEROLAMO). L'ebraico consente anche acrobazie interpretative come quella di R.
AQIVA ben Yosef (cfr. Talmud, Sota 17 b): se alle consonanti di ’îš si toglie la yod, si ottengono le consonanti di ’ēš,
fuoco; lo stesso togliendo la he dalle consonanti di ’iššāh; poiché la yod e la he unite alludono al nome divino, Aqiba ne
trae la conclusione che se marito e moglie sono meritevoli, il Signore è con loro, altrimenti li consuma il fuoco. Che
cosa non si fa per trovare nella Sacra Scrittura un messaggio edificante!
15
connaturalità tra uomo e donna.59 Questo è l'elemento che al narratore interessa mettere in risalto: la
donna e l'uomo partecipano della stessa natura. 60 Per questo possono accoppiarsi e tendono ad
accoppiarsi. L'animale è stato modellato dalla terra, non tratto dal corpo dell'uomo; appartiene ad
un'altra specie, e non potrà mai soddisfare adeguatamente il bisogno umano di compagnia.
All'iniziale dichiarazione divina (v. 18) risponde la finale dichiarazione umana (v. 23). A
questo punto il narratore interrompe la narrazione per inserire una sua riflessione personale:61
Per questo l'uomo 62 lascia suo padre e sua madre e si attacca alla sua donna,
così che diventano 63 una carne sola. (Gen 2,24)
Questa affermazione è di natura chiaramente eziologica. Per eziologia si intende la
spiegazione di un fenomeno a partire dalla sua origine. Qui il fenomeno è il fatto osservabile che
l'uomo a un certo punto della sua vita si stacca64 dai genitori e si attacca65 alla moglie. Perché tutti
gli uomini fanno così? Perché l'amore per una donna prevale su quello per i genitori? Perché
all'origine l'uomo e la donna erano uniti in un solo corpo. “Una carne sola” rimanda con tutta
evidenza a “carne della mia carne” del versetto precedente. L'uomo lascia padre e madre, che lo
hanno generato ed allevato, perché loro non gli possono dare ciò che gli dà la moglie: la possibilità
59 In Gen 29,14; Gdc 9,2 e 2 Sam 5,1 dire di essere “osso e carne” di un tale significa proclamare di appartenere allo
stesso suo clan famigliare, o città, o tribù.
60 I commentatori parlano qui volentieri dell'esultanza dell'uomo alla vista della donna. Per parte mia, faccio solamente
osservare che la lettera del testo non contiene il minimo accenno a tale esultanza; ciò non impedisce naturalmente di
supporla. Essa non mi sembra in ogni caso giocare alcun ruolo nello svolgersi del racconto.
61 Sicuramente non sono parole dello stesso locutore del versetto precedente, cioè dell'uomo cui viene presentata la
donna. Esse escono chiaramente dal tempo del racconto e si situano nel presente del lettore.
62 Ogni uomo: qui ’îš ha senso pronominale (uomo = ogni uomo, ognuno).
63 Il Pentateuco Samaritano, la Settanta, il Targum Neofiti e lo pseudo-Yonatan presentano l'aggiunta: “i due
(diventano)”. In questa forma, che potrebbe essere originale, la frase è citata quattro volte nel Nuovo Testamento (cfr.
Mt 19,5; Mc 10,8; 1 Cor 6,16; Ef 5,31).
64 Il verbo ebraico indica un distacco affettivo più che la separazione fisica. Nella società israelitica era la donna
normalmente a lasciare i genitori e ad entrare in casa del marito.
65 Pure questo verbo indica un attaccamento affettivo, con un connotato di fedeltà.
16
di essere uno con lei, la possibilità di formare una unità in cui ciascuno dei due è sé stesso e nello
stesso tempo più di sé stesso; in altri termini, una piena integrazione umana.66
Questa riflessione del narratore richiama alla memoria la teoria dell'androgino primitivo
esposta in un dialogo di PLATONE,67 secondo la quale all'inizio vi erano tre sessi, non due: l'uomo,
la donna, l'androgino. La superbia degli umani indusse Zeus a punirli, tagliandoli tutti in due. L'eros
è la forza che spinge ciascuno a cercare la metà da cui è stato separato: l'uomo cerca la donna se
viene da un androgino, cerca invece l'uomo se viene da un tutto maschile, così come la donna cerca
la donna se viene da un tutto femminile. La teoria spiega quindi l'attrazione, sia eterosessuale che
omosessuale. Molto diverso è il messaggio di Gen 2,24, che non si riferisce alla mera attrazione,
come appare dal possessivo: “alla sua donna”. L'uomo lascia la sua famiglia di origine e si lega non
ad una donna, ma alla sua donna, cioè a sua moglie. E' qui sicuramente inteso l'amore coniugale,
non genericamente l'amore tra l'uomo e la donna.
Secondo A. TOSATO,68 Gen 2,24 è da comprendere come un'eziologia giuridica, vale a dire
avente come oggetto non un costume, ma una norma;69 in questo caso la norma del matrimonio
monogamico. Mentre prima dell'esilio, durante la monarchia quindi, la poligamia era accettata,
dopo l'esilio, sotto il regime dei sacerdoti, si volle imporre la monogamia. La tesi di TOSATO è che
Gen 2,24 sia una glossa inserita nell'antico racconto yahwista a sostegno di tale politica. Per parte
mia, non sono convinto che il versetto sia una glossa,70 o un elemento comunque estraneo alla
narrazione, la cui coerenza non interrompe affatto. Certamente però allude al matrimonio
66 Cfr. M. GILBERT, «Une seule chair (Gn 2,24)», Nouvelle Revue Théologique 100 (1978), 66-89.
67 Cfr. Simposio, §§ 189-192.
68 Cfr. «On Genesis 2:24», Catholic Biblical Quarterly 52 (1990), 389-409.
69 Di conseguenza i verbi sarebbero da tradurre al futuro anziché al presente: “lascerà … si attaccherà … saranno”.
Non si tratterebbe quindi propriamente di un'eziologia, ma di uno hieròs lógos, discorso sacro, lo scopo non essendo di
spiegare un fenomeno, ma di legittimare un'innovazione giuridica.
70 Per glossa si intende comunemente una nota esplicativa apposta ad un'espressione poco chiara. Il termine è però
usato anche più ampiamente per designare qualsiasi breve aggiunta ad un testo.
17
monogamico, e la sua collocazione all'interno del racconto del primo uomo e della prima donna71
gli conferisce in ogni caso un valore normativo.
Possiamo passare all'analisi della terza parte del racconto, che va da Gen 2,25 a 3,7. Qui l'arco
narrativo va dalla nudità all'uso dei vestiti, uso che differenzia sia l'animale dall'uomo sia il
selvaggio dall'uomo civilizzato. Il narratore interpreta questo tema, presente anche nella mitologia
mesopotamica,72 in modo originale, in funzione cioè della vergogna e della sua assenza; vergogna
che nel racconto è messa in relazione alla colpa commessa trasgredendo il comandamento ricevuto
da Dio. Che cosa hanno in comune la nudità e la colpa? Che ambedue provocano vergogna. Nella
simbolica cui il narratore fa riferimento è evidente che il corpo sta in parallelo con le azioni
commesse: prima della disobbedienza l'uomo e la donna non si vergognano della loro nudità perché
non hanno commesso nulla di vergognoso, e non hanno quindi nulla da celare allo sguardo. Occorre
peraltro considerare che la loro nudità è nudità di marito e di moglie, non di due estranei; sono una
sola carne, e ciascuno dei due guarda pertanto il corpo dell'altro come se fosse il suo proprio corpo,
e non è di conseguenza imbarazzato nel posarvi sopra gli occhi.73 Le cose cambiano dopo la
trasgressione del comandamento. Per quale ragione? Perché è stata commessa da ambedue. La
comunione si è pervertita in complicità, e il complice è inevitabilmente un nemico. Non si guarda
una persona allo stesso modo quando si conosce o non si conosce la sua colpa. Lo sguardo sul
corpo non essendo dissociabile dallo sguardo sulla persona, dopo la colpa il corpo non può più
essere per intero esposto allo sguardo, come la persona non può più rivelarsi per intero. Ciò di cui si
ha vergogna non è in realtà il corpo, ma la colpa, e lo sguardo che non si sopporta è lo sguardo che
accusa. La vergogna di cui si parla in questa pericope, come peraltro in tutta la Bibbia, è un
sentimento sociale, non personale; è la perdita di dignità e di onore agli occhi di un altro.
La tensione narrativa aperta da Gen 2,17 trova quindi a questo punto una risposta: il lettore
voleva sapere se l'uomo avrebbe osservato o trasgredito la proibizione di mangiare i frutti
dell'albero della conoscenza del bene e del male, ora lo sa. Un altro attore è però inaspettatamente
71 Pure nella mitologia mesopotamica alla creazione dell'uomo e della donna è associata l'unione matrimoniale: cfr.
B.F. BATTO, «The Institution of Marriage in Genesis 2 and in Atrahasis», Catholic Biblical Quarterly 62 (2000), 621631.
72 Vedi BOTTÉRO-KRAMER, Uomini e dei, cit., 544.
73 AGOSTINO riteneva che Adamo ed Eva fossero ancora immuni dalla concupiscenza: cfr. De Genesi ad litteram, IX,
1, 3. E' nota l'influenza che questa idea ha avuto nella storia della teologia.
18
entrato in scena: il serpente, presentato come il più ‘ārûm, astuto, di tutte le bestie selvatiche,
mentre dell'uomo e della donna è stato appena detto che sono ‘arummîm, nudi. Questo gioco di
parole, che si perde purtroppo nelle traduzioni, introduce efficacemente alla comprensione della
dinamica narrativa. I due aggettivi si assomigliano, ma hanno senso molto diverso. Chi è astuto
possiede conoscenza, chi è nudo ne è privo, altrimenti si vestirebbe. In ebraico ‘ārûm non ha
significato per sé negativo, si può anche tradurre “saggio”. Ed è il desiderio di saggezza quello che
spinge la donna a mangiare il frutto dell'albero (“desiderabile per diventare saggi”, Gen 3,6) e a
darne da mangiare al suo uomo. Tale frutto dona effettivamente conoscenza, poiché dopo averne
mangiato l'uomo e la donna si accorgono di ciò di cui prima erano all'oscuro, cioé di essere nudi, e
si fanno immediatamente perizomi di foglie. I loro occhi si sono veramente aperti, come il serpente
aveva promesso. Lo stesso Signore Dio riconoscerà più avanti che “l'uomo è diventato come uno di
noi, quanto al conoscere il bene e il male” (Gen 3,22), parole che si avrebbe torto di interpretare
come ironiche.
Il serpente è dunque un benefattore dell'umanità? Sui suoi motivi il narratore non ci informa:
nel libro della Sapienza, scritto molti secoli dopo, leggiamo che “la morte entrò nel mondo per
invidia del diavolo” (Sp 2,24). Ma è certo che agli occhi del narratore il serpente non agisce per retti
fini: vedremo più avanti che all'uomo e alla donna è concesso di discolparsi, mentre il serpente è
condannato senza essere interrogato e avere la possibilità di difendersi. L'uomo e la donna non
sapevano di essere nudi, ma il serpente non li istruisce affatto; non dice loro di farsi dei vestiti, ma
di mangiare il frutto che dà la conoscenza, così da diventare come esseri divini e non avere bisogno
di istruzione. Il serpente è la figura del saggio che usa male la sua saggezza; la usa perfidamente,
per fare del male invece che per fare del bene. Non dà indicazioni, ma si limita a fornire
informazioni, purtroppo false; il serpente assicura alla donna che né lei né l'uomo moriranno dopo
aver mangiato il frutto proibito.74 Questa è la sua unica menzogna, tutto il resto che dice è vero.
Unica, ma terribile. Innanzittutto perché insinua che Dio ha detto il falso quando ha detto che ha
minacciato la morte come conseguenza della consumazione del frutto dell'albero della conoscenza
del bene e del male. Dio ha mentito sapendo di mentire: difficile immaginare un'accusa più
velenosa. Il fatto di non potere credere a qualcuno, uomo o Dio che sia, mina alla radice ogni
74 Il narratore non si dà la pena di far sapere al lettore come faceva il serpente a conoscere la proibizione divina. La
donna lo può avere appreso dall'uomo; il serpente, che a quel tempo non era ancora stato creato, da chi lo ha appreso? È
una delle indeterminatezze del racconto.
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possibilità di relazione con lui. La menzogna del serpente è terribile anche per una seconda ragione,
cioè che toglie all'uomo il timore che lo trattiene dal mangiare il frutto proibito. La conoscenza è
infatti in sé desiderabile, ma non a prezzo della vita. Dei due privilegi della divinità, quello
dell'immortalità e quello della conoscenza del bene e del male, l'uomo ne possiede già uno. Se può
possedere anche l'altro senza perdere il primo, perché non farlo?
In questo segmento narrativo rileviamo che il Signore Dio è assente: sono citate le sue parole,
sono interpretate le sue intenzioni. Ma lui non è lì sul posto, arriverà più tardi, alla fine del giornata.
Intanto il serpente ha avuto mano libera e ha perpetrato il suo danno. Perché? Per lo stesso motivo
per cui nel frutteto c'era l'albero i cui frutti non dovevano essere mangiati: per mettere alla prova
l'uomo. Il tema della prova è assolutamente centrale in tutta la narrazione. Il creatore voleva che
l'uomo avesse la possibilità di disobbedire, ma liberamente decidesse di rimanere alle sue
dipendenze e in ascolto del suo insegnamento. Perché però l'uomo e la donna erano stati lasciati
nell'ignoranza in fatto di nudità? Qui tocchiamo quella che a me appare una grave ambiguità del
racconto. Non vi è dubbio infatti che, agli occhi del narratore e dei suoi lettori, l'indifferenza verso
la nudità sia segno di ignoranza.
L'uomo non è assente, ma ha un ruolo del tutto passivo. Chi parla col serpente è la donna, ed è
la donna che prende la decisione di mangiare il frutto proibito, ed è ancora lei che lo dà da mangiare
all'uomo. Le due sole azioni che compie l'uomo, quella di mangiare e quella di farsi un perizoma di
foglie, le compie insieme con la donna e, almeno la prima, su invito della donna. Perché il ruolo
principale è tenuto dal personaggio femminile e non dal maschile? E' facile rispondere: perché
l'azione commessa è negativa. La donna crede al serpente, questo è il suo fatale errore. Conosceva il
divieto di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, poiché lo cita al
serpente,75 ma lo trasgredisce nella speranza di diventare come un Dio e di non dovere più
dipendere dal Signore Dio. Non solo, ma ne dà anche da mangiare al suo uomo, volendo offrire
anche a lui la possibilità di accedere a questa nuova, più grande condizione. Lui purtroppo le crede,
75 Lo cita però come “l'albero che sta in mezzo al frutteto” (Gen 3,3), mentre in Gen 2,9 si legge che in mezzo al
frutteto ve n'erano due, l'albero della vita e l'albero della conoscenza del bene e del male. Mi domando se ci troviamo di
fronte ad un'incoerenza narrativa (che alcuni esegeti spiegano pensando ad aggiunte apportate ad un racconto primitivo
che menzionava un solo albero), o se l'incoerenza è intenzionale, voluta cioè dal narratore per mettere in rilievo
l'imperfetta conoscenza della donna. Rileviamo che mentre il divieto era meramente di mangiare dell'albero (cfr. Gen
2,17), la donna vi aggiunge anche: “non toccate”.
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nello stesso modo in cui lei per prima aveva creduto al serpente. La credulità, che non è dunque
solo femmina, ha provocato la rovina del genere umano. La credulità è la premessa che ha portato
alla disobbedienza; così come, per converso, la fede è la premessa dell'obbedienza. Non si può
obbedire infatti senza credere.
Ma la donna non era stata fatta per essere di aiuto all'uomo? Qui tocchiamo un punto
importante. Narrativamente si deve parlare di un effetto ironico, centrale per la riuscita del racconto.
L'ironia è data dal fatto che quella che era stata fatta per essere di aiuto fa il contrario dell'aiuto.76
Comprendiamo anche perché nella strategia narrativa dell'autore la costruzione della donna è
raccontata dopo il divieto di mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male. Lei,
quella che nel piano divino doveva essere l'aiuto di cui l'uomo aveva bisogno, ha trasgredito e fatto
trasgredire il divieto che Dio aveva posto per preservare l'uomo dalla morte. Tentata prima e
tentatrice poi, la donna ha peccato e indotto a peccare, e con ciò è stata causa del più grande male di
cui soffre il genere umano, la morte. “Per causa sua tutti moriamo”, commenta il Siracide (25,24).
Per quale ragione il narratore ha voluto assegnare un ruolo così negativo alla donna? La
mitologia mesopotamica non gli forniva, a quanto ne sappiamo, alcuno spunto in questa direzione.
Si è pensato al ruolo che le regine hanno storicamente svolto nel periodo monarchico, così come
riferito dal libro dei Re.77 La donna che dà al marito da mangiare il frutto proibito non è però una
straniera, ma osso delle sue ossa e carne della sua carne:78 questa spiegazione non appare dunque
convincente. Giova piuttosto ammettere il carattere nettamente misogino del racconto della cacciata
dal frutteto di Eden. La misoginia è del resto discretamente documentata, come vedremo in seguito,
nella tradizione sapienziale, cui tale racconto per più aspetti si ricollega.
Il comandamento di non mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male è
stato dunque trasgredito, dalla donna prima e dall'uomo poi. A questo punto l'attesa del lettore si
focalizza sulla sanzione che a tale trasgressione era stata comminata. Alla soddisfazione di tale
76 Ciò vale anche per il serpente, il quale pure era stato fatto, come tutti gli altri animali, per essere di aiuto all'uomo.
77 Ad esempio le mogli straniere di Salomone che “gli piegarono il cuore” (1 Re 11,3), inducendolo a introdurre in
Israele il culto di divinità straniere, o la fenicia Isabel che spinse Achab a costruire un tempio a Baal in Samaria (cfr. 1
Re 16,31-32).
78 In Gen 29,14; Gdc 9,2 e 2 Sam 5,1 essere osso e carne di qualcuno significa appartenere alllo stesso clan famigliare,
o città, o tribù.
21
curiosità provvede la sezione seguente, che va da Gen 3,8 a 3,19. Qui il lettore apprende in che
modo il Signore Dio è venuto a conoscenza della trasgressione e quali provvedimenti ha preso.
Poiché la sezione precedente si concludeva con la presa di coscienza della nudità e la confezione
dei primi rudimentali abiti, non sorprende che sia proprio la dichiarazione dell'uomo di essere nudo
a rivelare al Signore Dio ciò che ha fatto. Il tentativo di celare la colpa fallisce quindi miseramente.
Allo smascheramento non segue immediatamente la condanna, ma l'interrogatorio, il cui
scopo è di dare ai rei riconosciuti la possibilità di difendersi. La loro difesa si risolve in ambedue i
casi in una chiamata di correo: l'uomo denuncia la donna, la donna il serpente. Di tale difesa il
giudice tiene conto, come appare dall'ordine in cui le sentenze vengono pronunciate: prima sul
serpente, poi sulla donna e infine sull'uomo. Esaminiamole una per una:
[14] Il Signore Dio disse al serpente: poiché hai fatto ciò,
sii maledetto più di tutti gli animali e tutte le bestie selvatiche.
Sulla tua pancia dovrai camminare e mangiare polvere tutti i giorni della tua vita.
[15] Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua discendenza e la sua discendenza:79
lei80 ti colpirà alla testa e tu la colpirai al calcagno. (Gen 3,14-15)
Il serpente aveva indotto la donna a mangiare i frutti dell'albero proibito e per punizione dovrà
mangiare polvere (vedi Is 65,26 e Mi 7,17): pare applicata qui la legge del taglione. A differenza
degli altri animali i serpenti non entreranno mai in relazioni amichevoli con gli uomini, dai quali
saranno odiati e con i quali saranno sempre in conflitto. Notiamo che gli uomini sono qui designati
come la discendenza della prima donna. Secondo la credenza dell'epoca solo l'uomo aveva
propriamente una discendenza, in quanto i figli sono generati dal seme maschile e la donna non fa
che accoglierlo nel suo corpo e, una volta sviluppato, darlo alla luce. Se si parla qui di discendenza
della donna, è perché lei, e non l'uomo, è stata vittima del serpente, ed è dunque lei ad avere ragione
di odio per colui che l'ha ingannata.
Dopo il serpente, tocca alla donna:
79 Letteralmente: “il tuo seme e il suo seme”.
80 La discendenza. L'ebraico ha un pronome maschile, che si riferisce al seme, grammaticalmente maschile in ebraico.
La Settanta pure usa un pronome maschile: autós (che non concorda tuttavia col neutro spérma); la Vulgata invece uno
femminile: ipsa (da qui le comuni raffigurazioni della Madonna che calpesta il serpente). Gen 3,15 ha ispirato l'autore
dell'Apocalisse nella celebre visione della donna e del drago (cfr. Ap 12).
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Alla donna disse: moltiplicherò le tue fatiche e le tue gravidanze, con dolore partorirai i figli.
Verso tuo marito sarà il tuo cammino e lui avrà autorità su di te. (Gen 3,16)
A differenza del serpente, la donna non è colpita da maledizione. Il suo castigo non è infatti la
sterilità, ma al contrario il gran numero di gravidanze e parti. Fatica della gravidanza e dolori del
parto: l'intendimento eziologico è ancora più marcato che a proposito del castigo del serpente.
La seconda parte del versetto ha come oggetto le relazioni coniugali. La Bibbia CEI offre la
traduzione: “verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà”. Tanto l'attrazione quanto la
soggezione all'uomo farebbero quindi parte del castigo per averlo indotto a mangiare il frutto
dell'albero proibito. Ne consegue che prima del peccato la donna non sarebbe stata né attratta
dall'uomo né soggetta all'uomo: due idee che non collimano assolutamente con l'immagine che della
donna aveva il mondo antico. La difficoltà potrebbe essere sciolta pensando che il castigo non sia
costituito dall'insorgere dell'attrazione e della soggezione come tali, ma da una loro modalità
esagerata o deviata: l'uomo attraeva la donna anche prima del peccato, ma dopo il peccato tale
attrazione si è corrotta in concupiscenza; l'uomo comandava alla donna anche prima, ma in seguito
la sua autorità si è trasformata da benevola in tirannica.81
I termini ebraici usati in Gen 3,16 non favoriscono però tale interpretazione. Il sostantivo
tešûqāh si incontra altre due volte nella Bibbia, in Gen 4,7 e Ct 7,11; il primo passo è molto oscuro,
nel secondo tešûqāh designa un movimento (messo in parallelo con l'arrampicarsi su una palma)
dell'innamorato verso l'innamorata. tešûqāh si incontra pure in due scritti di Qumran,82 nella regola
della comunità (1QS XI,22) e nella regola della guerra (1QM XIII,12; XV,10; XVII,4), dove pure
designa un movimento (verso la polvere, la tenebra, il nulla). La Settanta lo traduce apostrofé,
termine che indica anch'esso un movimento. Io non sono quindi convinto dell'interpretazione
“desiderio”, generalmente proposta dai commentatori: tešûqah è un movimento, che può essere
dettato dal desiderio, ma non è in sé stesso un desiderio (tanto meno una concupiscenza). Preferisco
81 Questa spiegazione è proposta anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica (§§ 400 e 1607).
82 Località sulla riva occidentale del Mar Morto, dove sono stati ritrovati nel secolo scorso numerosi manoscritti,
provenienti da una setta ebraica che lì aveva un insediamento, distrutto dai Romani nel 70 d.C. Segnalo in proposito il
libro informativo di F. GARCÍA MARTÍNEZ e J. TREBOLLE BARRERA, Gli uomini di Qumran. Letteratura, struttura
sociale e concezioni religiose, Brescia 1996.
23
pertanto tradurre tešûqātēk “il tuo cammino”.83 Quanto al verbo mšl, designa semplicemente
l'esercizio dell'autorità, senza particolare connotazione dispotica. Perché dovrebbe avere proprio qui
tale connotazione? Quali motivi avrebbero spinto l'autore di Gen 2-3 a presentare l'autorità maritale
come dispotica? E' più ragionevole pensare che avesse in mente la normale autorità di un marito
sulla moglie: normale s'intende agli occhi del narratore e dei suoi contemporanei, nonché degli
uomini e delle donne di secoli e secoli dopo di lui (non invece del nostro tempo).
Ma allora dove sarebbe il castigo inflitto alla donna? Non è affatto necessario interpretarlo
come un castigo. Tale è senza dubbio la dolorosità del parto, ma da ciò non segue che lo sia pure la
subordinazione al marito. Si consideri che la donna aveva persuaso l'uomo a mangiare il frutto
proibito, ponendosi quindi nei suoi confronti in una posizione che non è di subordinata: ora le viene
detto che non dovrà più agire in questo modo e cercare di imporre la sua volontà al marito. Più che
un castigo, mi pare un rientrare nell'ordine.84
Leggiamo infine la condanna dell'uomo:
[17] All'uomo disse: poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero di cui ti avevo
comandato di non mangiare, maledetto sia il suolo a causa tua. Con fatica ne mangerai tutti i giorni della tua vita;
[18] spine e cardi produrrà per te, e tu mangerai l'erba dei campi. [19] Col sudore della tua fronte mangerai pane
fino a quando tornerai alla terra da cui sei stato tratto: poiché sei polvere, alla polvere tornerai. (Gen 3,17-19)
La motivazione della condanna è: “perché hai ascoltato (= hai dato retta a) tua moglie”. In
Gen 3,6 non è detto esplicitamente che la donna abbia usato la parola per fare mangiare al marito il
frutto proibito, ciò che qui è supposto. L'uomo avrebbe dovuto ascoltare la voce del Signore Dio,
che gli aveva vietato di mangiare i frutti di quel particolare albero, non la voce di sua moglie, che al
contrario gli diceva: “mangiamone”. L'uomo aveva tentato di discolparsi denunciando la moglie,
ma il Signore Dio non accetta tale discolpa. Essere stati tentati non scusa dalla colpa: si deve
resistere alla tentazione. Il tema della responsabilità è importante in questo racconto come quello
della prova, cui è correlato.
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H.-CH. A URIN traduce “your drive”. La sua interpretazione è alquanto differente dalla mia: cfr. «Your Urge Shall Be
for Your Husband? A New Translation of Genesis 3:16b and a New Interpretation of Genesis 4:7», Lectio difficilior
1/2008 (http://www.lectio.unibe.ch/08_1/inhalt_f.htm, letto il 7/12/09).
84 Per una più completa esposizione di questa esegesi, vedi il mio libro Dominare la moglie? A proposito di Gen 3,16,
Roma 2003; e il mio articolo «Ni convoitise ni domination. A propos de Gn 3,16», Nova et Vetera 79 ( 2004), 53-63.
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L'uomo non è maledetto come il serpente, ma lo è il suolo, che viene a perdere la sua feracità
primitiva. Spontaneamente produrrà solo vegetali non commestibili: per cavarne fuori qualcosa di
mangiabile l'uomo dovrà faticare, e faticare molto. Per aver mangiato il frutto proibito l'uomo dovrà
penare per poter mangiare; come nel caso del serpente, la sua punizione ha la forma del taglione.
Alla sua fatica porrà termine solo la morte, dopo la quale il suo corpo ritornerà alla terra da cui è
stato tratto.85 La sanzione che era stata minacciata in caso di trasgressione del divieto di mangiare i
frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male ha dunque effetto. La condizione umana (più
proprimente maschile) è quindi segnata da due fattori: fatica incessante e inevitabilità della morte.86
Prima del peccato l'uomo non era costretto a procurarsi il cibo con fatica e non doveva contare i
giorni che gli rimanevano da passare sulla terra.
A questo punto al narratore non resta che raccontare dell'espulsione dell'uomo e della donna
dal frutteto in cui abitavano. A ciò è dedicata l'ultima sezione, che va da Gen 3,20 a 3,24. Il motivo
dell'espulsione è evidente: è necessario che l'uomo non possa mangiare i frutti dell'albero della vita,
altrimenti non avrebbe effetto la punizione della perdita dell'immortalità. 87
Prima dell'espulsione però il narratore racconta ancora due fatti. Per il nostro studio è
interessante soprattutto il primo:
L'uomo diede a sua moglie il nome Eva, perché è stata madre di ogni vivente. (Gen 3,20)
Anche qui la traduzione non consente di cogliere il gioco di parole. Eva rende l'ebraico
ḥawwāh, che è vicino a ḥay, vivente. Quest'ultimo vocabolo per sé designa tutti i viventi, uomini e
animali, ma qui è evidente che designa gli uomini, figli di Eva. Il motivo per cui è stato scelto è
altrettanto evidente: nel versetto precedente si era parlato dell'ineluttabilità della morte, qui si parla
della maternità e della vita. Gli esseri umani sono destinati a morire, ma possono generare figli.
Trasmettere la vita è il loro compito più importante.
85 E il suo soffio vitale tornerà a Dio che lo aveva donato, aggiunge il Qohelet (12,7). Nessuna prospettiva di
resurrezione è ancora contemplata.
86 Il secondo fattore soprattutto è motivo di lamentazione nei libri poetici dell'Antico Testamento: vedi ad esempio Gb
14 e Sal 90,5-6.
87 Gen 3,23 dà come motivo dell'espulsione la necessità di lavorare la terra da cui era stato tratto, sottintendendo però
fino a quando sarebbe ritornato alla terra (= stato sepolto).
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Anche nell'ultima sequenza narrativa, come nella prima, il motivo dominante è dunque la vita.
In realtà è il motivo dominante dell'intero racconto, il cui scopo fondamentale è di spiegare come
mai gli uomini devono morire. La risposta che a questo interrogativo viene offerta è che la morte
non faceva inizialmente parte del destino umano, ma lo è divenuta per effetto del peccato. In ultima
analisi quindi ci troviamo davanti una teodicea, una giustificazione di Dio. Gli uomini non devono
dare a Dio la colpa del fatto che devono morire, ma devono dare la colpa a sé stessi. Il primo uomo
e la prima donna avevano la possibilità di vivere per sempre, ma l'hanno stoltamente perduta, e la
vita che hanno trasmesso ai loro discendenti è una vita limitata nel tempo.
Nel racconto dei sette giorni della creazione abbiamo visto che la generazione di figli si
situava nel quadro del compito da Dio assegnato agli uomini di dominare la terra. Nel racconto
dell'Eden essa si situa piuttosto sullo sfondo dell'immortalità perduta. La generazione di figli si
configura come il surrogato dell'immortalità perduta. L'uomo sa di dover morire, ma generando dei
figli lascia qualcosa di sé sulla terra. Scrive il Siracide: “suo padre è defunto, ma è come se non
fosse morto; infatti ha lasciato dopo di sé uno simile a sé” (30,4). Solo chi muore senza figli muore
interamente.
La generazione di figli non è tuttavia il primo fine dell'unione tra l'uomo e la donna. Nel
racconto dei sette giorni della creazione abbiamo visto che Dio crea il maschio e la femmina e li
benedice perché facciano figli e diventino numerosi. Nel racconto dell'Eden il Signore Dio
costruisce la donna con una parte del corpo dell'uomo per dargli una compagna, non perché gli
faccia dei figli. Il matrimonio ha dunque un fine unitivo, e non solo procreativo, per servirci di una
terminologia convenzionale. I due racconti offrono pertanto due prospettive distinte; certamente
non opposte, anzi complementari, ma comunque distinte.
Riguardo all'unione tra l'uomo e la donna, il racconto dell'Eden ne mette in evidenza tanto i
vantaggi quanto i pericoli. Il suo autore non ha dunque una visione idealistica, ma piuttosto
realistica del matrimonio. Unendosi alla donna l'uomo trova un completamento di sé, e viceversa: i
due uniti formano una sola carne. Ma poi la donna presta orecchio al serpente e convince l'uomo a
disobbedire anche lui alla volontà divina. I libri sapienziali, come vedremo a suo luogo, insegnano
che per un uomo la moglie è il primo dei beni, ma può anche essere il primo dei mali. La stessa cosa
è naturalmente un marito per la donna, cosa che i libri sapienziali non dicono. Essi sono d'altronde
scritti in prospettiva manifestamente androcentrica, come pure il racconto dell'Eden, nel quale
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abbiamo visto che è la donna fatta per il bene dell'uomo, non viceversa. Occorre qui fare uso di
spirito critico, e distinguere il messaggio biblico dal condizionamento culturale in cui è avviluppato.
La presa di distanza dall'ideologia misogina, che connota questa come altre pagine bibliche, non
deve impedire di cogliere l'insegnamento positivo che vi è contenuto. Esso non consiste soltanto, a
mio giudizio, nella sottolineatura del fine unitivo del matrimonio, ma anche nell'avvertimento dei
pericoli insiti nel matrimonio stesso. La moglie può diventare una tentatrice per il marito, e
viceversa. Ambedue devono obbedire innanzittutto e sempre alla volontà rivelata di Dio, se non
vogliono che la loro unione fallisca invece di riuscire. L'amore umano è in grande bene, ma non
l'unico e non il primo bene. Dio solo conosce ciò che è bene, e la sua voce deve essere sempre
ascoltata.
Abbiamo chiamato questa unità letteraria “racconto dell'Eden”, perché la sua trama narrativa
si tende tra l'ingresso e l'espulsione dal frutteto piantato nella terra di Eden. Dentro il frutteto e fuori
dal frutteto: questi sono i due pilastri su cui si appoggia l'arco della narrazione. Il lettore che ha
qualche famigliarità con l'Antico Testamento non può mancare di rilevare la corrispondenza con la
cosiddetta storia deuteronomistica,88 ossia la storia che comincia col libro di Giosué e termina col
libro dei Re, storia che inizia con l'ingresso e finisce con l'espulsione di Israele dalla sua terra.
Ciò induce a mettere in discussione l'affermazione, spesso ripetuta, secondo cui il racconto
dell'Eden sarebbe più antico di quello della creazione del mondo, che precederebbe di vari secoli,
essendo stato composto all'epoca di Salomone, quindi nel X secolo a.C. Che questi due racconti
provengano da due tradizioni nettamente distinte sotto il profilo sia letterario che teologico, che per
comodità possiamo benissimo continuare a chiamare sacerdotale e yahwista, è fuori di dubbio; non
è invece sicura la loro antichità relativa, e non è quindi affatto sicuro che il sacerdotale conoscesse
lo yahwista e lo rielaborasse, o in qualche modo ne tenesse conto.89 La probabilità è che ambedue
siano stati composti in epoca posteriore alla deportazione in Babilonia. Giova in particolare rilevare
che l'uso di materiali mitici non va assolutamente considerato indizio di arcaicità.90
88 Così chiamata perché i giudizi espressi dall'autore sugli avvenimenti si ispirano ai principi stabiliti nel libro del
Deuteronomio.
89 Vari esegeti pensano oggi piuttosto il contrario, ossia che lo yahwista sia posteriore al sacerdotale. Citerò qui
soltanto G. Wenham: «The Priority of P», Vetus Testamentum 49 (1999), 240-258.
90 Lo dimostra ad esempio il fatto che il mito dell'uomo che si vuole fare eguale a Dio sia menzionato dal profeta
Ezechiele (cfr. Ez 28,2.9), nella prima metà del secolo VI a. C.
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La storia del primo uomo prefigura dunque chiaramente la storia di Israele. Lo sguardo del
narratore biblico non ha di mira l'umanità in generale, il cosiddetto genere umano, ma la concreta
umanità del popolo cui appartiene, l'umanità che ha preso forma nella storia che è la sua. Il racconto
della creazione del mondo termina con la santificazione del sabato, giorno sacro per Israele; il
racconto dell'Eden con la cacciata dal frutteto, anticipo archetipale della cacciata di Israele dalla sua
terra. L'uomo di cui parlano questi racconti è l'uomo israelitico, non un altro. Facendo l'uomo e la
donna Dio non faceva che porre le prime pietre di una costruzione che si saarebbe compiuta molto
tempo dopo. Ma tutto è già lì nelle fondamenta, questa è l'idea che ispira questi racconti. La
ragione per cui la prima coppia umana è stata cacciata dal frutteto è la medesima per cui Israele è
stato deportato in Babilonia: per avere disubbidito ai comandamenti del Signore Dio. La storia si
ripete, potremmo dire; ma è forse meglio dire che una storia prefigura l'altra e spiega l'altra.
Ciò impedisce di giudicare pessimistico il racconto dell'Eden, che pure si conclude con un
evento tutt'altro che lieto. Il suo autore sa di appartenere ad un popolo peccatore, ma non per questo
abbandonato dal suo Dio. Questa mi sembra essere in qualche modo la morale ultima della storia da
lui raccontata. L'uomo ha peccato fino dall'inizio del tempo, non è dunque strano che abbia
continuato a farlo. Dio lo ha punito per questo, ma ha continuato a stargli vicino, e così continuerà a
fare, per sempre. Non è pertanto improprio chiamare questo il racconto del peccato originale,
purché per originale si intenda costitutivo, e purché si comprenda che tale inclinazione costitutiva
non rompe il vincolo di appartenenza tra il creatore e la creatura.
All'interno di questo discorso antropologico e teologico di fondo vi è anche il discorso sulla
relazione che lega tra loro l'uomo e la donna. La sua formulazione, come abbiamo notato, è viziata
da una certa visione negativa della donna, tipica della cultura in cui il racconto ha visto la luce. Non
si possono tuttavia chiudere gli occhi sugli orizzonti che esso spalanca, quando presenta l'unione
dell'uomo e della donna come destinata a formare quella che suggestivamente è chiamata “una
carne sola”. Né si deve sottovalutare la sua portata realistica, quando mostra ciò che la relazione tra
l'uomo e la donna può divenire quando coloro che ne sono soggetti si ribellano alla volontà di Dio.
Possiamo dire che il racconto dell'Eden mostra tanto la grandezza quanto i limiti dell'amore umano.
Come l'uomo tutto intero, così il suo amore ha bisogno di essere salvato.
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