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LA FUSIONE PER INCORPORAZIONE DI BANCA PRIVATA IN BANCA
PUBBLICA DÀ LUOGO A UTILE DI LIQUIDAZIONE TASSABILE
Sommario∗ : 1. Il caso: la fusione tra una banca privata e un istituto di credito di diritto pubblico - 2.
Peculiarità della fusione tra enti diversi e conseguenze sul piano fiscale. La soluzione della Cassazione 3. La qualificazione tributaria dei redditi percepiti dai soci per effetto della liquidazione della società
incorporata - 4. Inquadramento tributario delle somme corrisposte ai soci della società oggetto di
liquidazione in base al TUIR - 5. Conclusioni.
1. IL CASO : LA FUSIONE TRA UNA BANCA PRIVATA E UN ISTITUTO DI CREDITO DI DIRITTO
PUBBLICO .
Con la sentenza n. 9714 del 2005 la Cassazione conferma il principio dell’assoggettamento a
ritenuta d’acconto delle somme percepite dai soci di una banca privata che, a seguito delle operazioni di
fusione in un istituto di credito di diritto pubblico, abbiano trasferito le proprie azioni al soggetto
incorporante.
I fatti da cui trae origine la vicenda sono i seguenti.
Il socio di una banca popolare impugna il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza rivolta da tutti i
soci della stessa banca all’Amministrazione finanziaria con la quale era stato richiesto il rimborso delle
somme trattenute ex art. art. 29 D.L. 2 marzo 1989 n. 69 sul prezzo della liquidazione della propria
partecipazione in seguito all’incorporazione della banca privata in un istituto di credito di diritto
pubblico.
Le Commissioni tributarie di I e II grado respingono il ricorso e la Commissione tributaria
centrale conferma l’esito pregiudizievole al ricorrente. Il contribuente, quindi, propone ricorso per
Cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria centrale.
La questione sottoposta all’esame del Giudice di legittimità attiene in sostanza all’esatta
definizione del regime fiscale applicabile alle somme percepite per la necessaria liquidazione delle
proprie quote dai soci di una società bancaria che si estingue per effetto dell’incorporazione in un ente
bancario di natura pubblicistica.
Occorre stabilire, infatti, se alle somme erogate a favore dei soci di una società incorporata in un
ente creditizio di diritto pubblico a seguito di fusione ex art. 48 R.D.L. 12 marzo 1936 n. 375 siano
applicabili le disposizioni di cui agli artt. 41, comma 1, lett. e) e 44, comma 3, T.U. 22 dicembre 1986 n.
917 – nel testo in vigore pro tempore - ed all'art. 29 D.L. n. 69 del 1989.
Si osserva preliminarmente che la vicenda si colloca in un contesto temporale risalente alla fine
degli anni ottanta e che il quadro normativo vigente all’epoca dei fatti è oggi sostanzialmente mutato.
Da un lato, infatti, l’intervenuta “privatizzazione” del settore creditizio pubblico ha comportato
la trasformazione degli istituti di credito di diritto pubblico – quale, nel caso di specie, il soggetto
incorporante – in società per azioni di diritto privato.
Dall’altro lato, l’art. 48 R.D.L. n. 375 del 1936 (Legge Bancaria) in materia di fusioni tra banche,
è stato sostituito dagli artt. 31, 36 e 57 D.lgs. 1 settembre 1993 n. 385 (T.U. vigente delle leggi in materia
di intermediazione bancaria e creditizia).
Al riguardo, in base al citato art. 48 L.B. Gli istituti di credito di diritto pubblico [potevano]
procedere alla incorporazione di altre aziende di credito, con il preventivo nulla osta della Banca d’Italia
e la incorporazione [doveva] essere deliberata dagli organi competenti in conformità delle relative
norme statutarie e regolamentari, osservando nel caso che l’azienda da incorporare [fosse] costituita
sotto forma di società commerciale le disposizioni del codice civile.
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I paragrafi nn. 1, 2 e 5 sono stati redatti da Stefania Pasquino ed i paragrafi nn. 3 e 4 da Salvatore Sardella. La Cass. n. 9714
del 2005 è consultabile nel Serv. Docum. Econ. Trib., http://dt.finanze.it.
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La norma rivestiva particolare importanza sistematica costituendo un’espressa previsione
normativa – di carattere eccezionale – dell’ammissibilità per l’ordinamento giuridico di fusioni tra enti di
diversa natura (c.d. fusioni eterogenee).
Con l’entrata in vigore del T.U. delle leggi in materia di intermediazione bancaria e creditizia,
(D.lgs. n. 385 del 1993), l’ art. 31, comma 1, ha previsto che La Banca d’Italia, nell’interesse dei creditori ovvero
per esigenze di rafforzamento patrimoniale ovvero a fini di razionalizzazione del sistema, autorizza le trasformazioni di
Banche popolari in società per azioni ovvero le fusioni alle quali prendono parte le Banche popolari e da cui risultino
società per azioni.
Inoltre, con riguardo alle fusioni che coinvolgono banche di credito cooperativo, l’art. 36, 1
comma, del sopra citato T.U. bancario, dispone che La Banca d'Italia autorizza, nell'interesse dei creditori e
qualora sussistano ragioni di stabilità, fusioni tra banche di credito cooperativo e banche di diversa natura da cui risultino
banche popolari o banche costituite in forma di società per azioni.
Attualmente, perciò, le fusioni fra banche sono tutte riconducibili al modulo delle fusioni
societarie, con la speciale previsione del “nulla osta” della Banca d’Italia1.
Tanto premesso, la pronuncia che si annota si rivela comunque di particolare interesse in quanto
concerne un caso normativamente previsto di fusione tra enti di diversa natura, quali - nel caso di specie
– una banca popolare e un istituto di credito di diritto pubblico, definendone, in sostanza, i tratti
caratteristici distintivi rispetto alle fusioni societarie, e determinando altresì il criterio di tassazione degli
emolumenti assegnati ai soci della società incorporata.
2. PECULIARITÀ DELLA FUSIONE TRA ENTI DIVERSI E CONSEGUENZE SUL PIANO FISCALE.
LA SOLUZIONE DELLA CASSAZIONE
Al fine di inquadrare correttamente la questione occorre preliminarmente formulare alcune
considerazioni di carattere generale sulla disciplina codicistica della fusione2.
Com’è noto, la fusione comporta l’unificazione di due o più società in una sola. A tale riguardo,
l’art. 2501, comma 1, c.c. prevede che la fusione di più società può eseguirsi mediante la costituzione di una nuova
società, o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre.
La fusione è, pertanto, un fenomeno di unificazione tra enti finalizzato alla continuazione
dell’attività economica, con la caratteristica peculiare per cui ciascun socio conserva la qualità di parte del
contratto e dell’organizzazione che ha origine dalla fusione3.
La vigente disciplina, quale risulta da successivi interventi normativi succedutisi nel tempo,
configura la fusione non più come causa di scioglimento della società - come era nel vigore
dell’abrogato codice di commercio (art. 189, n. 7) - ma piuttosto come modifica degli atti costitutivi
delle società partecipanti. Di conseguenza, la relativa delibera è adottata a maggioranza (art. 2502 c.c.).
Ciò premesso, dall’esame della disciplina in materia di fusione contenuta nel codice civile si
evince il principio secondo il quale la stessa è configurabile unicamente tra enti giuridici a struttura
societaria. Ciò è quanto si desume dalla collocazione sistematica della disciplina (Capo X, Sez. II, del
libro V c.c.), dedicata alla “Fusione delle società” .
E’ irrilevante che le società in questione abbiano o meno personalità giuridica – com’è per le
società di capitali - o siano dotate di mera soggettività (da intendersi quale astratta idoneità ad essere
titolare di posizioni giuridiche soggettive) – come accade nel caso delle società di persone: il
presupposto richiesto dal legislatore per consentire l’unificazione è la struttura societaria degli enti. In
tale direzione infatti si è indirizzato il legislatore della riforma del diritto societario che ha esplicitamente
riconosciuto la ammissibilità di fusioni eterogenee, purchè tra enti a struttura societaria, dettando una
disciplina derogatoria per le fusioni cui non partecipano società con capitale rappresentato da azioni
(art. 2505-quater c.c.).
Cfr. Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 1995, p. 593. In generale, cfr. AA.VV. La nuova legge bancaria – Il Testo Unico delle
leggi sulla intermediazione bancaria e creditizia e le disposizioni di attuazione - nel Commentario, a cura di P. Ferro – Luzzi e G.
Castaldi,Tomo I, 1996, Milano.
2 Cfr. G. Ferri Jr., voce Fusione di società, in Enc. Giur. Treccani – Postilla di aggiornamento -, 2003, Roma.
3 Cfr. F. Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 2004, pp. 761 ss..
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Quanto osservato consente di inquadrare correttamente la natura e la portata dell’abrogato art.
48 L.B. che, consentendo la fusione tra enti di diversa natura e, conseguentemente, imponendo il venir
meno della società incorporata e la perdita della qualità di socio, si configura per ciò solo come norma a
carattere eccezionale4.
Il citato art. 48, in sostanza, rifletteva il favor dell’ordinamento per le fusioni bancarie e, a tal fine,
aveva carattere derogatorio rispetto alle regole proprie del diritto comune5.
Al riguardo, la sentenza in epigrafe correttamente afferma che l'art. 48 L.B., nel disciplinare
l'incorporazione di società esercenti il credito in istituti di credito di diritto pubblico, configura un
tipo peculiare di fusione, … la quale, pur trovando, per esplicita dichiarazione, la propria fonte regolatrice nella
disciplina codicistica sulla fusione di società, non contempla la prosecuzione del rapporto sociale nell’ente incorporante per i
soci della società incorporata, che del primo non possono far parte per l’essere questo un istituto di credito di diritto
pubblico… . Per conseguenza, non solo la società incorporata cessa di esistere ma anche i singoli soci,
con la liquidazione delle quote o delle azioni, cessano di essere tali.
La peculiarità della fusione per incorporazione disciplinata dall'art. 48 dell’abrogata legge
bancaria consiste dunque, a detta della Cassazione, proprio nella liquidazione degli azionisti della
società incorporata.
Con questi argomenti la Cassazione contrasta la curiosa tesi sostenuta dal ricorrente, il quale,
muovendo dall’assunto secondo il quale la ratio dell’art. 48 L.B. sarebbe di agevolare la società
incorporante ad acquistare le partecipazioni sociali della società da incorporare, sosteneva che le somme
percepite dai soci della incorporata dovevano essere tassate come il prezzo di una compravendita.
Conclusivamente, la Cassazione, partendo dalla premessa che la fusione per incorporazione di
cui all'art. 48, comma 3, della legge bancaria determina una speciale forma di liquidazione della
società (incorporata), afferma che il trattamento fiscale delle somme erogate ai soci della società
incorporata in esecuzione di detta speciale forma di liquidazione non può che essere quello di cui al
citato art. 44, comma 3, T.U. n. 917 del 1986, il quale assimila le somme o il valore normale dei beni
ricevuti dai soci in caso di ... liquidazione agli utili derivanti dalla partecipazione in società ed enti soggetti all'imposta
sul reddito delle persone giuridiche6.
3. LA
QUALIFICAZIONE TRIBUTARIA DEI REDDITI PERCEPITI DAI SOCI PER EFFETTO
DELLA LIQUIDAZIONE DELLA SOCIETÀ INCORPORATA
Dal punto di vista fiscale la soluzione accolta dalla Cassazione è la conseguenza logica della
ricostruzione dei fatti così come operata e del relativo inquadramento giuridico generale.
La fusione tra la banca privata e quella pubblica, infatti, non può dare luogo ad un rapporto
associativo tra i soci della prima e la banca incorporante in quanto i predetti enti non sono
ontologicamente compatibili per struttura e finalità. Di conseguenza, deve ammettersi, coerentemente
con la disciplina codicistica sulle società, l’estinzione della società incorporata (e ciò anche per
sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale, ai sensi dell’ art. 2484, comma primo,
n. 2, c.c).
La necessaria liquidazione delle quote dei soci pone pertanto la questione di stabilire qual è la
normativa fiscale da applicare e, segnatamente, di verificare se i predetti proventi costituiscano una
Altra eccezione normativa è costituita dall’art. 1, comma 1, L. 30 luglio 1990 n. 218, in materia di ristrutturazione della
banche pubbliche (c.d. legge Amato). Il citato art. 1, comma 1 consente la fusione di enti pubblici creditizi da cui “risultino
comunque società per azioni operanti nel settore del credito”.
5 Cfr. Costi, cit. a nt. 1, che precede.
6 Sono pochi i precedenti strettamente riguardanti il tema trattato. A quanto consta, un caso in tutto analogo alla vicenda in
esame è stato deciso dalla Cassazione, in senso conforme, con la Cass. 18 ottobre 2004 n. 2264, in www.ilfisco.it . Un
importante precedente in materia di fusione per incorporazione di istituti bancari risale invece al 1978 (Cass. n. 660 del 1978,
in Giur. comm., 1978, I, p. 673). Il caso ebbe un certo risalto tra i commentatori in quanto affrontava la discussa tematica
dell’esistenza o meno di diritti insopprimibili connessi allo status di socio. La vicenda (analoga a quella in esame) riguardava
una fusione per incorporazione di una banca popolare in un istituto di credito di diritto pubblico. La Cassazione in detta
circostanza affermò il principio dell’inesistenza di un superiore diritto ad essere socio: le regole della collegialità, infatti,
legittimano la maggioranza a vincolare e produrre effetti anche nei confronti della minoranza dissenziente.
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cessione di partecipazioni capace di dare luogo a plusvalenza (c.d. capital gain), ovvero siano utili tassabili
ai sensi dell’ art. 44, comma terzo, (l’attuale art. 47, comma 7) T.U. n. 917 del 1986, c.d. TUIR.
La sentenza che si annota applica al caso di specie il citato art. 44, comma 3, in vigore pro
tempore 7, ai sensi del quale: … le somme percepite per effetto di liquidazione costituiscono utile per
l’eccedenza della quota del capitale e di altre componenti del patrimonio netto rappresentata dalla parte
di azioni o quote annullate, diminuita od aumentata della differenza tra il prezzo pagato per l’acquisto di
queste ed il loro prezzo di emissione.
La qualificazione predetta comporta l’adozione del regime tributario proprio dei redditi di
capitale ex artt. 41 e 44 T.U. n. 917 del 1986, in vigore pro tempore, con l’assoggettamento delle somme
percepite alla ritenuta alla fonte ai sensi dell’art. 29 D.L. n. 69 del 1989.
La questione affrontata dalla Cass. n. 9714 DEL 2005 in rassegna offre l’occasione di ricostruire
sistematicamente – sia pure in termini brevi e generali - la disciplina dei redditi di capitale ai sensi del
T.U. n. 917 del 1986 (TUIR) e, in particolare, degli utili corrisposti ai soci delle società in liquidazione, ai
sensi dell’art. 44, comma terzo (art. 47, comma 7, dal 1 gennaio 2004).
In linea generale, l’impostazione del TUIR risente della distinzione, nota alla dottrina della
scienza delle finanze, tra “reddito prodotto” e “reddito entrata”8.
Com’è noto, per reddito prodotto si intende il risultato dell’impiego di energie lavorative, di beni
mobili ed immobili, nonché l’impiego del capitale laddove lo stesso sia conferito nella disponibilità di
terzi per lo svolgimento di una determinata attività.
La nozione di reddito entrata, invece, è riferibile a tutti i casi di incrementi reddituali di tipo
differenziale come, ad es., le plusvalenze realizzate dalla vendita di suoli edificabili.
I redditi di capitale ricadono nella tipologia del reddito prodotto poiché essi sottintendono
l’impiego di somme per una finalità determinata9.
Tuttavia, i redditi di capitale costituiscono una categoria eterogenea nella quale sono incluse
fattispecie di diversa natura. Vi sono ricompresi, infatti, tra gli altri, i redditi che derivano dall’impiego
del capitale, come gli interessi sulle somme date a mutuo (art. 41, lett. a), TUIR), gli utili percepiti dalle
società ed enti che effettuano attività lucrativa (art. 41, lett. e), TUIR), i proventi derivati da contratti a
pronti e contro termine (art. 41, lett. g-bis), TUIR) ecc.. Si tratta, come affermato in dottrina, di una
nozione polisenso nella quale il legislatore ha inserito fattispecie eterogenee non facilmente riconducibili
ad unità10.
Tanto premesso, in alcuni casi le categorie dei redditi di capitale e dei redditi diversi possono
apparire sovrapponibili, tanto da far sorgere il dubbio circa la disciplina fiscale da applicare
concretamente. La difficoltà ermeneutica deriva dalla circostanza che, in assenza di un criterio
definitorio omogeneo, i redditi di capitale sono suddivisi in diversi gruppi11.
Si pensi, ad esempio, alle plusvalenze realizzate, a mente dell’art. 67, lett. c-quinquies, dalla
cessione o rimborso di strumenti finanziari ed ai redditi di capitale di cui all’art. 44, lett. h), TUIR,
consistenti ne: ... gli interessi e gli altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale…12.
Al riguardo, per stabilire se nel caso concreto un cespite vada qualificato tra i redditi di capitale
ovvero tra i redditi diversi occorre verificare la disciplina positiva ai sensi degli artt. 67 e 44 TUIR,
essendo il dato normativo improntato ad un criterio casistico 13.
Si precisa che, con effetto dal 1 gennaio 2004, l’art. 44 TUIR è stato rinumerato art. 47 dall’art. 1 D.lgs. 12 dicembre 2003
n. 344. La fattispecie disciplinata dall’art 44, comma terzo – al quale si riferisce la sentenza in rassegna - è ora contenuta
nell’art. 47, comma 7.
8 Per tutti, S. Steve, Lezioni di scienza delle finanze, Padova, 1976, pp. 294 ss..
9 G. Escalar, Contributo allo studio della nozione di reddito di capitale, in Rass. Trib., 1997, pp. 285 ss..
10 F. Gallo, Il reddito di capitale come frutto economico, in Il fisco, 1998, pp. 6520 ss.; G. Escalar, cit. a nt. 9, che precede, il quale,
tuttavia (p. 323), soffermandosi sul fatto che si tratta di redditi derivanti dall’impiego di un capitale, ha ritenuto sufficiente, ai
fini della delimitazione della categoria, l’esistenza alla base di un rapporto giuridico fondato sul trasferimento della proprietà
di un capitale da restituire alla cessazione del rapporto stesso.
11 R. Lupi, Diritto Tributario, parte speciale, Milano, 2005, p. 67.
12 Si osserva che mentre si è soliti definire la categoria dei redditi diversi quale categoria residuale, nella quale inserire le poste
reddituali che non sono né reddito d’impresa, né di lavoro autonomo o dipendente ecc. (ex multis, R. Lupi, cit. a nt. 11, che
precede, p. 213), in casi come quello evidenziato sembrerebbe che, invece, siano reddito di capitale ex art. 44, lett. h) i
proventi che non siano immediatamente percepibili come rimborso derivante da impiego di strumenti finanziari.
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Secondo la prospettiva generale tenuta presente dal legislatore della precedente riforma
tributaria (per i redditi di capitale il D.lgs. 21 novembre 1997 n. 461, emanato per effetto della delega di
cui all’art. 3 L. 23 dicembre 1996 n. 662) sono stati ricompresi nell’ambito dei redditi di capitale sia i
proventi costituenti il frutto dell’impiego di un capitale (non solo civile ma anche e soprattutto
economico), che altri redditi di natura finanziaria caratterizzati dalla disponibilità, ancorchè solo
temporanea, di un capitale14.
Dalle fattispecie sopra menzionate vanno tenuti distinti i redditi di natura finanziaria dotati di
carattere differenziale, in cui l’impiego del capitale non è posto come la causa diretta di produzione del
provento ma quale oggetto di un contratto di scambio con la realizzazione di una plusvalenza tra la
differenza del valore iniziale rispetto a quello finale15. Si tratta, pertanto, di tipologie reddituali che
vanno inquadrate tra i redditi diversi di cui all’art. 67 TUIR16.
Al riguardo, è opportuno precisare che l’art. 44, lett. h) TUIR in vigore è il frutto di interventi
successivi da parte del legislatore. La norma corrisponde all’abrogato art. 41, lett. h) ed è stata
rinumerata dal 1 gennaio 2004 per effetto del D.lgs. n. 344 del 2003. Prima di tale data, la norma è stata
modificata dal D.lgs. n. 461 del 1997, con efficacia dal 1 luglio 1998.
Infatti, nella norma in vigore fino al 30 giugno 1998 erano ricompresi tra i redditi di capitale: …
gli altri interessi non aventi natura compensativa e ogni altro provento in misura definita derivante
dall’impiego di capitale; il testo introdotto dal D.lgs. n. 461 del 1997 vi ha incluso gli: … interessi e gli
altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale, esclusi i rapporti
attraverso i quali possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento
incerto.
La formulazione della norma in rassegna, da ultima citata, non ha ricevuto modifiche dal D.lgs.
n. 344 del 2003, in vigore dal 1 gennaio 2004, e corrisponde a quella attuale.
Pertanto, se da un lato l’originaria formulazione dell’art. 41, lett. h) appariva fondata sulla
concezione del reddito di capitale quale provento derivato da un contratto od altro atto che ha per
oggetto la disponibilità di un capitale i cui frutti erano determinati o determinabili sin dalla
stipulazione17, dall’altro lato, l’attuale tenore letterale della norma ha apportato un ampliamento della
categoria poichè sono considerati redditi di capitale gli: … interessi e gli altri proventi derivanti da altri
rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale …18.
In sostanza, la nozione di frutto civile, alla quale il legislatore del TUIR aveva originariamente
fatto riferimento e che sottintende i corrispettivi la cui fonte immediata è costituita dall’obbligo di
corrisponderli19, si è ampliata al punto da ricomprendere anche altre tipologie di impiego di capitale20.
F. Gallo, cit. a nt. 10, che precede.
L’unica vera eccezione al suddetto principio potrebbe essere costituita dai proventi derivanti da rendita vitalizia ex artt.
1872 ss. c.c. che, pur presentando i tratti caratteristici dell’impiego di capitale in misura definita da cui sorge il diritto ad
esigere un corrispettivo in misura determinata, sono inquadrati tra i redditi c.d. assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui
all’art. 50, lett. h), TUIR anziché tra i redditi di capitale.
15 Un’ampia analisi sulla disciplina introdotta dal D.lgs. n. 461 del 1997 e sulle differenze tra la categoria dei redditi di
capitale e i redditi c.d. diversi è contenuta nella circ. 24 giugno 1998 n. 165/E, consultabile in Serv. Docum. Econ. Trib.,
http://dt.finanze.it.
16 F. Gallo, cit. a nt. 10, che precede.
17 Cass. 31 gennaio 1997 n. 2245, in www.ilfisco.it .
18 Si condivide quanto affermato da F. Gallo, cit. a nt. 10, che precede, circa il differente valore sistematico posseduto dal
previgente art. 41, lett. h) prima e dopo il D.lgs. n. 461 del 1997. Nella precedente formulazione l’art. 41, lett. h) aveva il
ruolo di norma di chiusura del sistema; lo si evinceva dal preciso riferimento all’impiego del capitale in misura definita.
Nell’attuale formulazione, l’art. 41, lett. h) - art. 44, lett. h) dal 1 gennaio 2004 - si pone quale fattispecie residuale,
onnicomprensiva, che potrebbe da sola contenere anche le ipotesi previste dalle precedenti lettere dell’art. 41 (così F. Gallo,
cit. a nt. 10, che precede).
19 Sulla nozione di frutto civile, P. Barcellona, voce Frutti civili, in Enc. del diritto, Milano, 1969, pp. 205 ss..
20 Circ. n. 165/E del 1998, cit. a nt. 15, che precede.
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4. INQUADRAMENTO
TRIBUTARIO DELLE SOMME CORRISPOSTE AI SOCI DELLA SOCIETÀ
OGGETTO DI LIQUIDAZIONE IN BASE AL TUIR
Al fine di comprendere la ratio dell’art. 47, comma 7 TUIR (art. 44, comma terzo fino al 31
dicembre 2003) si premette che al legislatore del Testo Unico delle imposte sui redditi era chiaro, anche
prima della novella ad opera del D.lgs. n. 461 del 1997, che i redditi di capitale appartengono al
concetto di reddito prodotto21 e che in tale ambito non vi rientrano solo quelli in cui l’impiego del
capitale costituisce la causa stessa dell’atto dispositivo 22ma anche quelli in cui il trasferimento di una
somma di denaro è volto a consentire l’esercizio di un’attività in forma associata, come i contratti di
società in cui la partecipazione al capitale è strumentale all’esercizio di un’attività economica23.
L’art. 44, lett. e) TUIR vigente – che corrisponde all’art. 41, lett. e) in vigore fino al 31 dicembre
2003 - annovera tra i redditi di capitale anche gli: … utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al
patrimonio di società ecc. …24. Poiché costituisce reddito di capitale ogni provento finanziario in cui la
cessione del capitale avviene per un impiego ben definito25, coerentemente la percezione di utili
derivanti dalla partecipazione in società non potrebbe mai essere inquadrata al di fuori della categoria
dei redditi di capitale.
Da tale premessa appare agevole l’inquadramento dell’art. 47, comma 7 TUIR – art. 44, comma
terzo fino al 31 dicembre 2003 - che annovera tra i redditi di capitale il differenziale tra il costo della
partecipazione e le somme liquidate.
La riconducibilità di tali restituzioni alla nozione di “impiego di capitale” e, successivamente, di
reddito di capitale, appare giustificabile per le seguenti ragioni.
Sotto una prospettiva economico-finanziaria le somme corrisposte ai soci, pur essendo ai sensi
della norma sopra citata, un differenziale tra il prezzo versato al momento dell’ingresso nella società e
ciò che è corrisposto al momento della liquidazione rappresentano, in realtà, il prodotto di un’attività
svolta nell’ambito della società stessa.
Dalla qualificazione di tali incrementi patrimoniali come “reddito prodotto” si passa,
conseguentemente, a quella di redditi di capitale. Infatti, le somme così percepite sono il frutto di un
impiego del capitale e che, in ogni caso, la restituzione predetta rientra anch’essa tra le fattispecie
concernenti la disponibilità data a soggetti terzi - la società rispetto ai soci - di un capitale per un
impiego temporaneo26 che caratterizza altre ipotesi normativamente previste ed inquadrate tra i redditi
di capitale (ad es., le somme date a mutuo).
Per conseguenza si avrebbe anche in tale ipotesi un impiego “definito” del capitale tale da non
far sorgere particolari dubbi ermeneutici circa la portata e la collocazione dell’art. 44, comma terzo che,
analogamente all’art. 47, comma 7 in vigore, qualificava come “utile”, tassato come reddito di capitale, la
differenza tra il prezzo di acquisto della partecipazione e le somme percepite a titolo di liquidazione Su
tale inquadramento sistematico, il legislatore del TUIR non sembra avere mai avuto dubbi al riguardo27.
Inteso come impiego di un capitale per uno scopo determinato.
Come per i contratti di mutuo e di cointeressenza ex art. 2554 c.c., i proventi dei quali sono tassati, rispettivamente,
dall’art. 44, lett. a) e lett. f).
23 F. Gallo, cit. a nt. 10, che precede; G. Campobasso, Diritto commerciale, 2, Torino, 2002, pp. 3 ss..
24 Si noti il diverso tenore letterale del citato art. 44, lett. e) cit. rispetto al corrispondente art. 41, lett. e) in vigore fino al 31
dicembre 2003 che, invece, faceva riferimento agli: … utili derivanti dalla partecipazione in società …. Si osserva che la novella
portata dal D.lgs. n. 344 del 2003, con il riferimento al capitale ed al patrimonio, non muta nulla nella sostanza poiché il
patrimonio comprende tutti i rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla società, mentre il capitale rappresenta la
parte (immutabile) del patrimonio che non può essere distribuita ai soci. Nella partecipazione in una società è, pertanto,
insito il diritto sopra la parte del patrimonio corrispondente alle azioni o quote possedute da ciascun socio (G. Campobasso,
cit. a nt. 23, che precede, pp. 7 ss.).
25 G. Escalar, cit. a nt. 9, che precede.
26 Dato che, in ogni caso, decorso il termine di durata della società stabilito con l’atto costitutivo (art. 2328, n. 13 c.c.),
subentra una causa di scioglimento della società stessa.
27 Tale principio è rimasto inalterato anche dopo la riforma del D.lgs. n. 344 del 2003. V., in proposito, la circ. 16 giugno
2004 n. 26/E, in Serv. Docum. Econ. Trib., http://dt.finanze.it .
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5. CONCLUSIONI
Sulla base di quanto sopra esposto sembra opportuno formulare alcune considerazioni
conclusive.
Al riguardo, infatti, se da un lato, il principio della riconducibilità dei proventi da liquidazione e
scioglimento di società alla nozione di “impiego di capitale” e, conseguentemente, di reddito di capitale,
non sembra presentare equivoci di sorta, dall’altro lato, il caso concreto sul quale la Cassazione è stata
chiamata a decidere non sembra – almeno ad una prima analisi – riproducibile in futuro.
Ed invero, con riferimento al settore bancario, le fusioni eterogenee riconosciute dal T.U.
bancario (D.lgs. n. 385 del 1993) prevedono sostanzialmente che l’ente che risulti dalla fusione debba
possedere la forma di società per azioni, con la conseguenza che l’ente incorporato non incontrerebbe
preclusioni oggettive a subentrare nella struttura organizzativa della nuova società.
In tal senso sembra deporre anche il tenore letterale dell’art. 2504 bis, 1 comma, c.c., come
modificato dalla recente riforma del diritto societario (D.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6) che, nel definire gli
effetti della fusione, dispone che La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli
obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione.
Anche l’art. 2505 quater c.c., con il quale sono state introdotte procedure derogatorie per le
fusioni cui non partecipano società con capitale rappresentato da azioni, sembra costituire norma di
carattere eccezionale, il cui ambito di applicazione appare però limitato alle fusioni tra società e non
anche alle unioni tra enti di natura diversa come, ad esempio, tra società ed enti di stampo pubblicistico.
Viceversa, in materia di trasformazione eterogenea da società di capitali, il legislatore consente,
tra l’altro, la trasformazione da società in associazioni non riconosciute e fondazioni (cfr. art. 2500
septies, comma 1, c.c.). In questo caso potrebbe riproporsi la questione concernente il trattamento
giuridico delle partecipazioni sociali nell’ente trasformato.
Stefania Pasquino
Funzionario del Ministero dell’Economia e delle Finanze
Salvatore Sardella
Funzionario della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze
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