Leggi un estratto

Transcript

Leggi un estratto
Valentina Domenici – Antonietta Buonauro
All women want love
Il desiderio femminile e
la decostruzione del romance
nel cinema di Jane Campion
Armando
editore
Sommario
Prefazione di Veronica Pravadelli
Introduzione
7
11
Capitolo 1: Gli inizi. I primi cortometraggi e un film per la tv 15
Capitolo 2: Sweetie (1989). Antiromanticismo, femminilità,
superstizione
27
Capitolo 3: La scrittura come identità:
An Angel at my Table (1990)
41
Capitolo 4: The Piano (1993), fiaba gotica
contemporanea
61
Capitolo 5: The Portrait of a Lady (1996): il ribaltamento
dei codici di genere tradizionali e l’ambiguità
del personaggio femminile
79
Capitolo 6: Holy Smoke (1999): identità, stereotipi di genere
e cultura occidentale
91
Capitolo 7: In the Cut (2003). Un thriller erotico
al femminile
109
Capitolo 8: Bright Star (2009): l’altra faccia della Musa e
dell’amore romantico
129
Capitolo 9: Top of the Lake (2013). La ricerca della verità
contro l’ordine patriarcale
139
Bibliografia
153
Nota editoriale
I capitoli 1, 5, 8, 9 sono stati scritti da V. Domenici; i capitoli 2, 3, 4,
6 e 7 sono stati scritti da A. Buonauro.
Prefazione
Veronica Pravadelli
Il libro di Antonietta Buonauro e Valentina Domenici affronta il
cinema di Jane Campion da una prospettiva culturale e di genere
ponendosi così sulla scia della ricerca internazionale più avanzata
(soprattutto di lingua inglese) sull’autrice neozelandese. In questo
modo le due giovani studiose colmano una lacuna metodologica nel
panorama italiano che su Campion ha sinora offerto studi più tradizionali. Certamente la questione dell’autorialità viene sviscerata
abbondantemente anche in All Women Want “Love”, ma, come ben
recita il sottotitolo, l’interesse principale è volto verso la messa in
scena del desiderio femminile da un lato e la riscrittura o decostruzione di canoni e codici dall’altro. In altre parole il cinema di Campion viene interpretato non solo in relazione all’autorialità, ma in
una prospettiva che, fedele agli studi femministi e di genere, rintraccia nell’immagine i segni del discorso occidentale sul conflitto tra
mascolinità e femminilità. Tra gli strumenti teorici e critici utilizzati
figurano anche gli studi postcoloniali e alcuni dei più recenti contributi psicoanalitici sul cinema e la spettatorialità.
Il volume attraversa cronologicamente la filmografia della regista neozelandese a partire dai primi lavori degli anni Ottanta in cui
echeggia l’influenza del cinema sperimentale e d’avanguardia del decennio precedente. In cortometraggi come Peel (1982), Passionless
Moments (1983), A Girl’s Own Story (1984), le contraddizioni della
rappresentazione dei ruoli di genere sono già l’oggetto privilegiato
di Campion che adotta strategie di de-familiarizzazione promuoven7
do così una certa negazione del piacere visivo. L’atteggiamento di
Campion è dunque in sintonia con la posizione di Laura Mulvey, che
nel suo famoso saggio Piacere visivo e cinema narrativo (1975) teorizzava la distruzione del piacere visivo come arma per combattere
l’oggettivazione del corpo femminile tipica del cinema patriarcale
hollywoodiano1. In questo contesto il cinema di Campion può essere
visto in relazione a cineaste d’avanguardia come Chantal Akerman,
Marguerite Duras, Sally Potter e Yvonne Rainer che alcuni anni prima avevano operato una rottura sistematica del piacere visivo2.
A partire da Two Friends (1986) il cinema della regista fonde
istanze sperimentali e narrative trovando una originale mediazione
tra le due posizioni, scelta che le assicura anche un certo pubblico.
Campion declina la rappresentazione del soggetto femminile in vari
modi. Da un lato rifiuta l’immaginario tipico del romance eterosessuale ed introduce nella narrazione quella che è stata definita una
unromantic quality3, una componente antiromantica, con la quale
tramuta le traiettorie tradizionali delle relazioni amorose, sessuali,
affettive, e ne decostruisce le significazioni.
Dall’altro ricorre al racconto biografico, dedicato a figure rese
straordinarie dal loro talento, ma anche da eroiche quanto ingiuste
sofferenze. È il caso di Un angelo alla mia tavola, che ripercorre la
vita di una delle scrittrici più significative del panorama neozelandese, Janet Frame, internata per una erronea diagnosi di schizofrenia e
salvatasi proprio grazie alla sua scrittura. Ma si pensi anche a Ada,
protagonista di The Piano, film vincitore della Palma d’oro a Cannes
e di tre premi Oscar e che sancì il grande successo internazionale
della regista.
Un altro elemento rilevante della poetica di Campion e a cui il
volume dedica un ampio spazio e un’articolata riflessione è il rap1
Mulvey L., “Piacere visivo e cinema narrativo” (1975), in Id., Cinema e piacere
visivo, a cura di Veronica Pravadelli, Roma, Bulzoni, 2013.
2 Cfr. cap. 1, p. 7, di questo volume.
3 Perez Riu C., Two Gothic Feminist Texts: Emily Bronte’s Wuthering Heights and
the Film, The Piano, By Jane Campion, in «Atlantis», vol. 22, n. 1, giugno 2000, pp.
163-173.
8
porto con la letteratura. La letteratura è presente per mezzo di citazioni dirette o indirette, verbali o stilistiche, al punto da divenire una
delle cifre stilistiche di questa autrice. I testi canonici della letteratura femminile e femminista ricorrono nei riferimenti ai romanzi di
Virginia Woolf e alla letteratura gotica in The Piano e nel racconto
biografico di Frame, o ancora nelle citazioni letterarie di In the Cut.
La letteratura al femminile diviene in altri casi il tema stesso del film,
come nella celebre trasposizione di The Portrait of a Lady, o nella
vicenda del poeta Keats e della sua amata Fanny, in Bright Star. In
questi film la letteratura testimonia i percorsi non convenzionali della soggettività femminile, la a-normatività del suo desiderio.
Il libro si conclude con un’analisi – inedita in Italia – del più recente lavoro di Campion, Top of The Lake, brillante rivisitazione in
chiave femminile del genere thriller in formato seriale televisivo. La
serie, ambientata nella terra natale della regista, racconta una storia
di incesti, omicidi, abusi e violenze, e riflette ancora una volta da un
punto di vista inedito per questo genere sui rapporti tra mascolinità e
femminilità, sulle istanze del desiderio e sui suoi eccessi, sui totem e
sui tabù della cultura occidentale e sugli effetti che le degenerazioni
della normatività patriarcale comportano per le giovani generazioni.
Il volume non è solo uno studio indispensabile per conoscere il
cinema di Jane Campion, ma si pone come un modello metodologico che può essere imitato. All Women Want “Love” si serve in
modo originale della vasta letteratura critica di studi femministi e
di genere in un’ottica culturalista, in un dialogo che abbraccia oramai quarant’anni di riflessione delle donne. Il taglio critico-teorico
scelto da Buonauro e Domenici può dunque diventare lo spunto per
altri studi ed è un esempio importante di come gli studi femministi
e di genere abbiano raggiunto, pur con grande ritardo, uno statuto
rilevante anche in Italia.
9
Introduzione
Sin da Peel: An Exercise in Discipline, vincitore nel 1986 al festival di Cannes come migliore cortometraggio, il cinema di Jane
Campion è emerso e si è distinto da subito per la sua originalità e per
l’incredibile forza delle sue immagini. A partire dal quel momento si
è andato delineando un corpus di lavori insolito e vario, segnato costantemente dalla libertà e dall’indipendenza della sua autrice, forte
nei temi e sofisticato nello stile, ricco di riferimenti autobiografici
più o meno consapevoli. Quello di Jane Campion è un cinema anticonformista e mainstream nello stesso tempo, declinato soprattutto
al femminile, vicino alle tematiche della teoria femminista pur non
dichiarandosi tale, in cui le protagoniste indiscusse sono le donne,
non solo sullo schermo, nelle storie raccontate, ma a tutti i livelli di
scrittura e lavorazione dei film, a cominciare dalla scelta dei collaboratori. Un cinema originale e irriverente, che dagli esordi ad oggi ha
esplorato i diversi modi in cui il sessismo e il colonialismo si sono
insinuati all’interno delle categorie di casa, di famiglia, di genere,
messe in questione proprio nel loro apparente significato univoco e
universale.
Nel percorso artistico di Jane Campion ogni film realizzato implica un tentativo di superamento del cliché e del già visto, che inizia
a partire da una rielaborazione personale dei generi cinematografici:
dal biopic al thriller erotico, passando per il melodramma fino ad
arrivare alla serialità televisiva, la regista gioca con la nozione stessa
di genere, sovvertendone in alcuni casi le regole strutturali e con esse
le attese del pubblico. Nonostante la forte carica anticonvenzionale,
11
particolarmente evidente nei suoi primi lavori, la regista è rimasta
sempre fedele alla narrazione e al potere dell’immagine, ben consapevole della seduzione del racconto, da cui non si può prescindere, e
a cui ha dato nel tempo un’impronta personale chiara e riconoscibile.
Dei suoi film, non a caso, restano memorabili proprio delle singole
immagini, dei fotogrammi dotati di un’intensità e di una poesia autonome: una donna, Ada, (in The Piano) legata sott’acqua al suo pianoforte; un’altra, Isabel (in The Portrait of a Lady), incorniciata da
un paesaggio invernale, incerta se lasciarsi andare o meno all’amore,
esitante fino alla fine di fronte a una porta forse chiusa; o ancora una
coppia, formata da Ruth e PJ Waters (in Holy Smoke), in cui lei trucca l’uomo da donna in un gioco sensuale e non privo di conseguenze
sul loro rapporto. Si tratta di immagini forti, popolate soprattutto da
donne mostrate spesso nella loro fragilità e nelle loro contraddizioni,
filmate in maniera non seducente o ammiccante, ma piuttosto nella
loro fisicità agli antipodi rispetto ai canoni occidentali attuali legati
all’immagine femminile. La figura e il corpo maschili, invece, lungi
dall’essere in semplice contrasto rispetto a quelli della donna, sono
filmati dalla macchina da presa come vengono tradizionalmente ripresi quelli femminili, attraverso un ribaltamento dei codici e delle
convenzioni tradizionali di genere: il piacere visivo, nel cinema di
Campion, sembra nascere proprio dalle dinamiche che si creano tra
il corpo maschile e lo sguardo femminile che lo attraversa.
Il desiderio e la soggettività femminili rappresentano gli oggetti
principali di analisi della regista neozelandese, non con lo scopo di
chiarirne il mistero, ma di restituirne semmai l’ambiguità e le discordanze, anche e nonostante gli happy endings che chiudono molti dei
suoi film. Finali, come ha osservato il critico Michel Ciment1, non
a caso mai banalmente riappacificatori ma che, al di là delle sofferenze, delle violenze e dei traumi vissuti dai personaggi femminili,
segnano l’affermazione di una credenza, anche se fragile, nella vita.
Questa idea percorre trasversalmente il cinema di Jane Campion e
1
2014.
12
Cfr. Ciment M., Jane Campion par Jane Campion, Paris, Cahiers du Cinéma,
si traduce in una sorta di fiducia nel corpo ripreso e mostrato senza
orpelli, colto persino nei suoi atti più triviali normalmente censurati,
e visto come la dimensione privilegiata attraverso cui si dispiegano
l’universo e la comunicazione femminili.
Così concepito, questo cinema riesce a modificare la cosiddetta
gerarchia del visibile a cui siamo mediamente abituati da spettatori
occidentali, a metterla in questione dalle fondamenta offrendo nuovi
modi di osservare i molteplici aspetti dell’essere umano e in particolare la complessa dicotomia maschile-femminile, e lasciando intravedere ogni volta la possibilità di arrivo dell’irrazionale, del diverso
e del perturbante.
V.D. e A.B.
13
Capitolo 1
Gli inizi. I primi cortometraggi e un film per la tv
Peel: An Exercise in Discipline (1982)
Dopo aver girato il suo primo cortometraggio di venti minuti in
Super 8 dal titolo Tissues – che racconta la storia di un padre accusato di molestie sessuali verso alcuni bambini – Jane Campion
realizza Peel, un film che segna l’inizio della sua collaborazione con
Sally Bongers, la direttrice della fotografia che firma lo stile unico
e ricercato che contraddistingue i primi cortometraggi. Il successo
dei suoi primi film e in particolare di Peel, vincitore al festival di
Cannes 1986 come migliore cortometraggio, permette alla Campion
di finanziare e realizzare qualche anno dopo un film come Sweetie, il
lungometraggio che inaugura ufficialmente la carriera cinematografica della regista1. Come Jane Campion anche Sally Bongers ha un
background di studi artistici che la porta a interessarsi da subito soprattutto alla forma, allo stile visivo dei film, e solo secondariamente
al plot; non è un caso che i primi lavori della Campion, di cui Bongers firma la fotografia, siano accomunati da uno stile originale ed
eccentrico, caratterizzato innanzitutto dall’eccesso e da un elemento
che tornerà, attraverso molteplici declinazioni, in tutto il cinema di
Jane Campion, quello della strangeness, intesa anche come diversità. Sono gli anonimi momenti di vita quotidiana a interessare inizialmente Bongers e Campion, momenti che diventano da normali a
1
Dopo Two Friends (1986), un film realizzato per la televisione australiana.
15
extra-ordinari, trasformati dall’immaginazione dei personaggi e resi
particolarmente surreali dallo stile bizzarro che ne accentua l’ambiguità. Come è stato messo in evidenza dalla studiosa Dana Polan2,
osservando il corpus di film di Jane Campion si possono notare delle divergenze evidenti tra lo stile e i soggetti: i primi film hanno a
che vedere con questioni di vita “reale” rappresentati attraverso uno
stile che ricorda quello del cinema sperimentale; i lavori successivi
mettono invece in scena dei personaggi e dei temi particolarmente
complessi e anticonformisti con uno stile narrativo più classico e
lineare. In realtà, ad un’analisi più attenta, è importante notare che
anche i primi cortometraggi di Campion affrontano tematiche importanti e scomode: dalla follia all’incesto, dallo sfruttamento sessuale all’emarginazione sociale, attraverso un approccio originale e
disinibito, sin da subito caro alla regista.
Peel, realizzato nel 1982, è un lavoro che colpisce per la sua efficacia e per lo stile; come suggerisce il titolo completo – Peel: An
Exercise in Discipline – il film è una riflessione lucida e disincantata sull’esercizio della disciplina all’interno di un nucleo famigliare,
che qui è composto da un padre, da sua sorella e dal figlio di lui, un
bambino di circa otto anni, ripresi durante un viaggio in auto. La
donna inizia a rimproverare al nipote di non gettare fuori le bucce
dell’arancia che sta mangiando, e da quel rimprovero inizia un vero
e proprio diverbio che coinvolge tutti e tre i componenti della famiglia. All’inizio sono i due adulti a tentare, con metodi aggressivi e
violenti, di educare il ragazzo che non vuole ubbidire, e che risponde
con altrettanta aggressività; in seguito, invece, c’è una riappacificazione tra padre e figlio e avviene una sorta di scambio di ruoli: è il
ragazzo a dettare la disciplina alla zia, e a darle ordini con lo stesso
tono usato da lei precedentemente. I titoli di testa del corto, che mostrano i nomi dei tre personaggi ai vertici − intercambiabili − di un
triangolo visivo, anticipano questa alternanza dei ruoli, accentuata
ulteriormente dalla somiglianza fisica dei tre attori, scelti appositamente dalla Campion in quanto componenti di una famiglia vera. La
2
16
Cfr. Polan D., Jane Campion, London, BFI Publishing, 2001.
questione dei rapporti familiari e in particolare, come si vedrà, del
legame conflittuale tra madre e figlia, è presente in modo costante
in tutto il cinema della regista neozelandese, e rappresenta il nucleo
duro e sotterraneo delle sue storie: la famiglia, luogo per eccellenza del super-io, è spesso fonte di oppressione e incomunicabilità,
e rappresenta un ordine sociale e culturale a cui molte eroine della
Campion tentano di sottrarsi. Ciò che colpisce di Peel, comunque, è
l’unione efficace tra un tema forte ed esplicito e uno stile eccentrico
che acquista una particolare rilevanza in sé, e che è caratterizzato da
alcuni elementi chiave: l’uso quasi violento di primissimi piani; un
montaggio frenetico che va di pari passo con il suono martellante
che apre il film; le immagini costruite intorno a un colore dominante
(per esempio l’arancione del frutto e del colore dei capelli del padre
e di suo figlio); una sceneggiatura e una recitazione quasi teatrali che
appaiono in tutta la loro costruzione e artificialità; una certa predilezione per la frammentazione delle immagini. Lo spettatore viene
aggredito e trasportato da una storia disarmante nella sua apparente
semplicità, raccontata attraverso un’impronta stilistica forte che lascia già intravedere una precisa presa di posizione etica ed estetica.
Passionless Moments (1983)
Il successivo cortometraggio della Campion, Passionless Moments, è un lavoro scolastico realizzato durante i suoi studi presso
l’Australian Film, Television and Radio School, e racconta una serie di normali momenti di vita quotidiana di alcune persone, narrati
da una voce over maschile che ricorda ironicamente le voci “onniscienti” dei giornalisti della televisione britannica. Il film, diviso
in dieci brevi sequenze tutte introdotte da un titolo diverso, è una
finestra su un microcosmo di storie di vita scandite da abitudini e
norme di comportamento rigide e codificate che vengono gradualmente o bruscamente trascese attraverso la capacità immaginativa
dei personaggi. Passionless Moments, infatti, sembra proprio suggerire l’importanza di trascendere la realtà banale di ogni giorno gra17
zie all’immaginazione e al sogno, che permettono di adottare uno
sguardo diverso sulle cose, capace di cogliere il lato grottesco della
realtà. Anche per questi motivi alcuni hanno riscontrato in questo
e negli altri cortometraggi di Jane Campion l’influenza del cinema
di David Lynch (un autore particolarmente caro alla regista), che
si troverebbe anche nell’importanza accordata all’elemento tattile
dell’esperienza, o nell’enfasi messa da un lato sull’incommensurabilità tra realtà e immaginazione, e dall’altro sui modi in cui una vita
ordinaria può aprirsi al bizzarro. Osservando Passionless Moments è
possibile rintracciare molti altri elementi tipici del cinema di Lynch,
tra cui il collasso e la disgregazione graduali di una narrazione lineare a favore di una visione marcatamente onirica, e l’artificialità,
volutamente mostrata, della recitazione degli attori – che diventano in alcuni momenti quasi delle marionette manipolate dalla mise
en scène – e del dispositivo cinematografico. Le immagini del film
contengono accenni a un cinema della disarmonia e della diversità
declinata in tutte le sue forme, in cui il registro prediletto è «il registro del difforme, di ciò che è fuori della norma o, in generale, di ciò
che è fuori posto»3, del mostruoso che si insinua nell’intimità, nella
familiarità del quotidiano e dell’infanzia.
Nei primi lavori della cineasta neozelandese si ritrovano anche,
evidentemente, le maggiori caratteristiche del cinema di avanguardia, soprattutto le strategie di rottura, di de-familiarizzazione e alienazione nel senso brechtiano del termine, che comportano una certa
negazione del piacere visivo e narrativo e una messa in questione
dei codici cinematografici tradizionali. L’approccio estetico-formale
abbracciato dalla Campion agli inizi del suo percorso artistico richiama, non a caso, quello adottato da cineaste come Chantal Akerman, Marguerite Duras, Sally Potter, Yvonne Rainer, in linea con la
forte esigenza di decostruzione e rinnovamento del cinema tipica
di molte artiste femministe degli anni Settanta. Sarà solo a partire
dalla fine degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta, seguendo anche gli importanti cambiamenti culturali interni al femminismo, che
3
18
Gatti I., Jane Campion, Genova, Le Mani, 1998, p. 34.
Jane Campion, insieme ad altre registe della sua generazione, inizierà gradualmente a “sfidare” il cinema mainstream dal suo interno,
rivalutando la narrazione e servendosi di essa come una struttura
a partire dalla quale lavorare in modo sovversivo le dinamiche del
desiderio e i meccanismi di identificazione.
A Girl’s Own Story (1984)
Un altro aspetto particolarmente rilevante nei cortometraggi realizzati dalla Campion tra il 1980 e il 1984, oltre alle particolari scelte
stilistico-formali, è dato dall’elemento autobiografico: come ha osservato Alistair Fox4 nella sua recente monografia dedicata alla regista, infatti, i suoi primi lavori rivelano le preoccupazioni personali
della cineasta, soprattutto le relazioni complicate all’interno della
famiglia. Da questo punto di vista il film più autobiografico tra i suoi
primi è probabilmente A Girl’s Own Story, presentato dalla Campion
al termine dei suoi studi all’AFTS (Australian Film, Tv and Radio
School) nel 1984, in cui non è difficile riconoscere i costanti riferimenti ai suoi genitori e in particolare alla madre, Edith Campion, al
suo matrimonio difficile e ai suoi problemi di depressione. Il film
mette in scena i problemi adolescenziali di una ragazza figlia di divorziati, Pam, e la difficoltà, sua e di altre coetanee, nella costruzione
di una propria identità durante il delicato passaggio all’età adulta.
La prospettiva scelta dalla regista è ancora una volta sovversiva
e originale, a cominciare dal titolo del film, che contiene un gioco di
parole che evoca contemporaneamente sia il nome di una nota rivista
femminile che quello di alcune riviste per ragazzi diffuse in quegli anni in Australia (come la rivista Boys Own Adventures Stories).
Restando costantemente sul crinale tra l’ironia e l’aspra critica alle
convenzioni sociali e alla famiglia intesa come istituzione politica e
culturale, la Campion inserisce temi già presenti nei cortometraggi
4
Cfr. Fox A., Jane Campion: Authorship and Personal Cinema, Indiana, Indiana
University Press, 2011.
19
precedenti, come quelli dell’incesto e di una sessualità illecita associata spesso alla figura del padre, tema che produce nello stesso
tempo fascino e avversione. Come ha osservato Alistair Fox la frequenza e la densità delle allusioni autobiografiche nei film di Jane
Campion fanno sì che il suo cinema possa essere considerato personale nell’accezione usata da Francis Vanoye5, secondo cui l’elemento autobiografico può essere presente nella sceneggiatura di un film
attraverso mediazioni più o meno dirette, fino a rivelarsi attraverso
la figura di un attore e di un personaggio che incarnano le maggiori
problematiche personali del regista in questione.
Anche nell’altro film realizzato dalla Campion nello stesso anno
di A Girl’s Own Story, dal titolo After Hours, tornano alcune delle
tematiche personali della regista, e assumono questa volta una forma
più marcatamente politica e di denuncia sociale, attraverso le vicende della giovane protagonista del film, vittima di una discriminazione di genere, di abuso sessuale e di potere da parte del suo datore
di lavoro. Seppur si tratti di un film ancora in parte acerbo e a cui
la stessa Campion non sembra essere particolarmente affezionata,
After Hours rivela in modo più esplicito l’intento politico della regista, che si mostra attraverso l’interesse e l’analisi del ruolo sociale e
culturale della donna all’interno di una società ancora marcatamente
patriarcale, il cui maschilismo latente diventa evidente soprattutto
nelle dinamiche di potere, in quelle sessuali e in quelle famigliari6.
Sia A Girl’s Own Story che After Hours raccontano delle storie
forti e trattano la questione del rapporto della donna con il potere, la
violenza, l’abuso, la passione e il sesso, attraverso uno stile ricercato
e personale che non prevede mai momenti di pathos melodrammatico o sentimentalismi, pur chiamando continuamente in causa il vissuto e i traumi personali della regista stessa.
5
Cfr. Vanoye F., Scénarios modèles, modèles des scénarios, Paris, Nathan, 1999.
È rilevante, da questo punto di vista, che il film sia stato prodotto per la Sydney
Women’s Film Unit e distribuito dalla Women Make Movies.
6
20