La strategia di brand extension nella prospettiva del consumatore

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La strategia di brand extension nella prospettiva del consumatore
UNIVERSITA’ CA’ FOSCARI DI VENEZIA
FACOLTA’ DI ECONOMIA
CORSO DI LAUREA IN
MARKETING E COMUNICAZIONE
TESI DI LAUREA
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
NELLA PROSPETTIVA DEL CONSUMATORE
Relatore:
Prof. Tiziano VESCOVI
Correlatori:
Prof.ssa Monica CALCAGNO
Prof. Paolo PELLIZZARI
Laureando:
GABRIELE PAOLACCI
matricola 803244
ANNO ACCADEMICO 2005/2006
Ai miei nonni
Giulio, Bruna, Bruno, Silvana
PREMESSA
Con questa tesi si conclude un percorso di cinque anni presso la Facoltà di
Economia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
La natura del lavoro muove da due istanze: in primo luogo, l’interesse che,
specialmente durante il biennio di laurea specialistica in “Marketing e
Comunicazione”, è maturato per il tema della marca; in subordine, la volontà
di concludere il corso di laurea coerentemente con l’indirizzo “quantitativo”
seguito al suo interno. La lettura di alcuni articoli di ricerca ha suggerito una
possibile risposta ad entrambe le esigenze: uno studio sulla strategia di
brand
extension
vista
attraverso
gli
occhi
del
consumatore,
che
contemplasse l’utilizzo di dati e metodi quantitativi a supporto delle analisi di
marketing.
Si è da un lato beneficiato della vasta bibliografia presente sull’argomento
della marca; dall’altro, per non smarrirsi tra i molteplici punti di vista da cui
esso è dibattuto ed affrontabile, è stato particolarmente importante farsi
guidare in ogni fase dagli obiettivi predeterminati. Con queste premesse, si è
cercato di raggiungere un livello di consapevolezza adeguato alla
predisposizione e formulazione di un giudizio critico.
SOMMARIO
INTRODUZIONE
1
PARTE I
1. IL BRAND
1.1. Il significato cos’è il brand
9
1.2. I luoghi dov’è il brand
11
1.3. Le funzioni perchè il brand
1.3.1. Per il consumatore
1.3.2. Per l’impresa
1.3.3. Altre funzioni
14
1.4. Il valore la brand equity
1.4.1. Tra finanza e marketing
1.4.2. La brand equity nel modello di Aaker
1.4.3. La brand equity nel modello di Keller
19
2. LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
2.1. L’attività di branding l’orizzonte strategico
37
2.2. La costruzione della brand equity come creare valore
2.2.1. Definizione del posizionamento e dei valori del brand
2.2.2. Pianificazione ed attuazione dei programmi di marketing
40
2.3. Crescita e sostegno della brand equity le strategie di branding
2.3.1. Le dimensioni del branding
2.3.2. L’architettura di branding
2.3.3. Elaborare una strategia di branding
2.3.4. La crisi del brand
51
2.4. Il branding dei nuovi prodotti prodotto nuovo, marca nuova?
2.4.1. Lanciare una nuova marca
2.4.2. Sub-branding
2.4.3. Co-branding
2.4.4. Brand extension
73
3. LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
3.1. La strategia che cos’è un’estensione di marca
83
3.2. I vantaggi e gli svantaggi estendere o non estendere?
3.2.1. L’efficienza della brand extension
3.2.2. L’efficacia della brand extension
3.2.3. I rischi della brand extension
86
3.3. Come estendere la marca dalla teoria alla pratica
3.3.1. Il successo della strategia
3.3.2. L’attuazione della brand extension
3.3.3. Linee guida per estendere la marca
93
3.4. Alcuni esempi la brand extension nel mondo aziendale
103
PARTE II
4. IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
4.1. Gli studi sull’estensione della marca
111
la prospettiva del consumatore
4.2. Aaker e Keller (1990) “Consumer Evaluations of Brand Extensions” 113
4.2.1. Scopi e articolazione della ricerca
4.2.2. Il metodo di indagine
4.2.3. I risultati dello studio
4.3. Gli studi successivi quindici anni di ricerca
4.3.1. Sunde e Brodie (1993)
4.3.2. Bottomley e Holden (2001)
4.3.3. Völkner e Sattler (2006)
123
4.4. Considerazioni personali i punti controversi
132
PARTE III
5. CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
5.1. Scopo della ricerca rifocalizzare l’obiettivo
141
5.2. Il modello di regressione riconsiderare le premesse e rinnovare
142
5.2.1. Le variabili dipendenti
5.2.2. Le variabili indipendenti
5.2.3. Le variabili di stratificazione: la matrice degli atteggiamenti di
consumo
5.2.4. L’equazione del modello
5.3. Marche e nuovi prodotti gli oggetti di indagine
5.3.1. La scelta delle marche note
5.3.2. La determinazione delle estensioni ipotetiche
153
5.4. Metodo di indagine il questionario
5.4.1. Natura e struttura del questionario
5.4.2. La misurazione degli atteggiamenti di consumo
5.4.3. La misurazione delle percezioni sulle estensioni di marca
157
6. RISULTATI DELLO STUDIO
6.1. Gli atteggiamenti di consumo il campione nella matrice
6.1.1. Gli atteggiamenti verso marche e categorie di estensione
6.1.2. Il campione nella matrice degli atteggiamenti di consumo
171
6.2. Analisi preliminare un primo sguardo ai risultati
6.2.1. I risultati medi delle estensioni di marca
6.2.2. Analisi descrittiva delle variabili
6.2.3. La struttura di correlazione
177
6.3. Analisi di regressione i criteri di valutazione del consumatore
6.3.1. Il dataset intero: tutti i consumatori
6.3.2. I consumatori delle categorie di estensione
6.3.3. I consumatori “fedeli” alla marca
190
6.4. Le estensioni di marca suggerite le idee degli intervistati
204
7. CONSIDERAZIONI FINALI
7.1. Conclusioni dello studio comprendere i risultati
211
7.2. Implicazioni manageriali tradurre in azione
213
7.3. La matrice degli atteggiamenti uno strumento strategico?
218
7.4. Limitazioni e ricerca futura cautele e auspici
223
ALLEGATO N°1: IL QUESTIONARIO
227
BIBLIOGRAFIA
235
RINGRAZIAMENTI
243
INTRODUZIONE
Negli ultimi anni, il tema della marca si è riproposto nella letteratura di
marketing con contributi numerosi e innovativi. L’attenzione verso il brand
rispecchia l’importanza del ruolo che esso si vede assegnato nella
complessità dell’odierno contesto economico: cambiano i processi d’acquisto
e di consumo, si evolvono le tecnologie, aumenta e muta la natura della
pressione competitiva. Per l’impresa è sempre più difficile soddisfare le
crescenti esigenze di un consumatore divenuto più maturo; questo è altresì
in difficoltà davanti al moltiplicarsi di un’offerta non sempre intelligibile e di
qualità. I cambiamenti amplificano per entrambi il bisogno di instaurare con la
controparte una relazione certa e stabile: in questo senso, il brand offre a tutti
gli attori economici un riferimento condiviso, capace di resistere, con la sua
forma e sostanza, ai cambiamenti dell’esterno. Per il consumatore, affidarsi
ad una marca nota riduce i rischi insiti nell’acquisto e consumo di un nuovo
prodotto. Per l’impresa, la marca diviene così una guida ed uno strumento
per competere: una risorsa il cui valore va gestito con lungimiranza e piena
consapevolezza.
Questo lavoro considera una delle strategie di marca più frequentemente
utilizzate dall’impresa: la brand extension, cioè l’utilizzo di una marca
consolidata per denominare un nuovo prodotto. L’interesse della ricerca per
l’estensione di marca è alto, perché alla crescente frequenza con cui essa è
stata utilizzata nella prassi aziendale non sono sempre corrisposti risultati
ottimali. In questa tesi si studia il fenomeno assumendo un orizzonte
strategico e utilizzando la prospettiva del consumatore. Sebbene non
esauriscano i possibili modi per studiare un’estensione di marca, questi due
tratti individuano due condizioni necessarie per una corretta gestione del
brand: assicurare continuità e coerenza alle scelte che ricadono sulla marca
e conoscere come essa viene percepita dal consumatore. Appunto,
lungimiranza e consapevolezza.
Nella stesura della tesi si è costantemente inseguito l’obiettivo di dare ad
essa uniformità e linearità, per favorire una lettura logica ed una miglior
comprensione. Ciononostante, le tre parti in cui il lavoro è articolato sono
dotate di larga autonomia.
La prima parte inquadra la brand extension all’interno delle strategie di
marca, ed è strutturata, in una logica di progressiva focalizzazione, su tre
capitoli: il capitolo 1 sviscera il concetto di brand alla luce della sua più
recente evoluzione, descrivendone il significato, le manifestazioni, le funzioni,
il valore; il capitolo 2 tratta come, in un’ottica strategica, l’impresa debba
gestire la marca per costruirne, incrementarne, sostenerne il valore, e
analizza le modalità di branding dei nuovi prodotti; il capitolo 3, infine,
approfondisce la strategia di brand extension, descrivendone vantaggi e
rischi, modalità di attuazione, esempi reali. La prima parte ha anche un
implicito ruolo “di definizione”, perché consente al lettore di appropriarsi, oltre
che dei concetti, anche della terminologia utilizzata nel prosieguo del lavoro.
La seconda parte, costituita dal capitolo 4, ha una fondamentale funzione di
collegamento tra l’impianto teorico della tesi e lo studio empirico effettuato: si
analizza il filone di ricerca che, dal 1990 ad oggi, ha cercato di comprendere
le determinanti del successo dell’estensione di marca nella prospettiva del
consumatore. Definito nella parte precedente cosa si sta osservando, si
indossano ora “le lenti del consumatore”. Oltre che un collegamento, la
seconda
parte
costituisce
in
modi
diversi
anche
una
premessa:
cronologicamente, alla prima parte, perché la ricerca studiata ha contribuito
in modo significativo a formare lo “stato dell’arte” in materia di brand
extension; metodologicamente, alla terza parte, perché lo studio condotto ne
fa proprie alcune modalità di indagine; infine, all’idea stessa della tesi, indotta
dalla lettura di articoli analoghi a quelli presentati. Per questo motivo si è
scelto di valorizzare questa analisi isolandola sia dal precedente nucleo
teorico che dal successivo empirico.
La terza parte è integralmente costituita dalla presentazione di uno studio
empirico, che si colloca idealmente nel filone di ricerca di cui sopra. Si è
cercato di strutturare in modo aggiornato la percezione che il consumatore
ha della proposta di un nuovo prodotto da parte di una marca che conosce. Il
capitolo 5 illustra le basi teoriche dello studio e argomenta le scelte
metodologiche compiute, mostrandone continuità e novità rispetto alla ricerca
precedente; il capitolo 6 presenta dettagliatamente i risultati ottenuti. Tutte le
considerazioni finali trovano spazio nel capitolo 7: le conclusioni a cui è
giunto lo studio, le implicazioni manageriali di questo, le limitazioni e gli
auspici per la ricerca futura. Si suggerisce anche, desunto dallo studio
effettuato, un possibile strumento di analisi utilizzabile nell’ambito di una
strategia di estensione di marca.
PARTE I
1. IL BRAND
1.1.
Il significato
cos’è il brand
1.2.
I luoghi
dov’è il brand
1.3.
Le funzioni
perchè il brand
1.4.
Il valore
la brand equity
IL BRAND
1.1 IL SIGNIFICATO
Negli anni passati, il termine brand è stato esplicitato in molti modi, con
riferimenti comunemente accettati ma con accenti diversi. Sebbene spesso le
elucubrazioni formali siano esercizi sterili in termini sostanziali, in questo caso
cercare di comprendere le definizioni date alla marca (o brand) è in realtà un
metodo efficace di sviscerarne il significato. Infatti, l’evoluzione del concetto di
marca negli ultimi anni trova una certa rispondenza nei suoi tentativi di
definizione; analogamente, a partire da questi possiamo ricavare spunti preziosi
per una successiva e rigorosa analisi dell’oggetto di studio.
Nel lontano 1960, l’American Marketing Association (AMA) definiva il brand
come “un nome, un termine, un segno, un simbolo, un disegno o una loro
combinazione che identifica un prodotto o servizio di un venditore e che lo
differenzia da quello del concorrente”. Questa definizione, ancora oggi
insegnata e da ritenersi valida, si concentra, a ben guardare, sulla funzione
distintiva del brand: se il marchio è sintetizzabile come “segno distintivo dei
prodotti o dei servizi dell’impresa” (artt. 2569-2574 C.C., R.D. 929/42), questi
due
concetti,
marca
e
marchio,
sembrerebbero
quasi
perfettamente
sovrapponibili. La fondamentale definizione dell’AMA è fatta propria anche da
Kotler e da Aaker: “la marca è un nome o un simbolo distintivo (per esempio un
logo, un marchio, il design di una confezione) che serve ad identificare i beni o i
servizi di un venditore o di un gruppo di venditori e a differenziarli da quelli di
altri concorrenti”1. Pur se in termini accrescitivi (Aaker si spinge fino al design di
una confezione per esemplificare il simbolo distintivo, quasi a voler considerare
elementi non propriamente tangibili), anche lo studioso di Berkeley condivide
questa definizione “tecnica” del brand, precisa ma non esaustiva se si voglia
sviscerarne il significato.
Altri studiosi hanno dato della marca definizioni meno puntuali e più ricche: per
De Chernatony e McDonald essa è ”un prodotto, servizio, persona o luogo,
aumentato in misura tale che l’acquirente o l’utilizzatore percepisca elementi
unici e rilevanti di valore aggiunto che incontrino i suoi bisogni e che tale valore
1
AAKER, D.A. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli, Milano,
p.26.
9
CAPITOLO 1
sia sostenibile nei confronti dei concorrenti”2. Pur se piuttosto fumosa, questa
definizione ci consente di intuire nuove dimensioni oltre a quella della
distintività, già considerata, della marca: essa è rivolta a specifici individui;
qualora i suoi elementi distintivi (“unici”) incontrino i bisogni di questi, la marca
darà un valore aggiunto a ciò che identifica. La caratteristica della marca
dipende quindi da come gli individui la percepiscono: dai destinatari del
messaggio oltre che dai suoi emittenti. Ci si distacca, pertanto, dalla visione del
brand come semplice segno distintivo del prodotto che identifica.
Il pubblicitario Walter Landor definisce il brand “una promessa: identificando ed
autenticando un prodotto o un servizio, annuncia un impegno di soddisfazione e
qualità”. La marca è una precisa assunzione di responsabilità, una garanzia
data ai consumatori rispetto ai prodotti contrassegnati.
Il consulente di branding Colin Bates definisce addirittura la marca
svincolandola del tutto dal prodotto che identifica, come "un insieme di
percezioni nella mente del consumatore". Pur peccando di eccessivo
astrattismo, Bates accentua in modo forte l’intangibilità della marca, sminuendo
l’importanza dei segni distintivi che la rappresentano e focalizzandosi piuttosto
sul suo destinatario, il potenziale fruitore del brand.
Anche Kapferer, studioso europeo di branding, prende idealmente le distanze
dal “brand come marchio”: “è l’essenza del prodotto, il suo significato e la sua
direzione, ne definisce l’identità nel tempo e nello spazio”3. La marca è il luogo
concettuale dove si sedimentano l’evoluzione passata e futura dell’offerta,
l’identità dell’impresa e con essa l’esperienza del consumatore.
Zara descrive la marca come “una sintesi di risorse dotate di potenziale
generativo, capaci di accrescere nel tempo la fiducia e la conoscenza su cui si
fonda la marca stessa attraverso la creazione di valore. Con specifico
riferimento
alle
relazioni
con
i
consumatori,
tale
capacità
deriva
dall’aggregazione, intorno a specifici segni di riconoscimento, di un definito
2
L.DE CHERNATONY-M.MC DONALD, Creating Powerfull Brands in Consumer, Service and
Industrial Markets, Oxford, Butterworth Heinemann, 1998, citato in BAIETTI I., “Dalla brand
Identity alla site identity: l’influenza della comunicazione off-line sulla site image e sulla brand
image”, Convegno le “Tendenze del Marketing in Europa”, 2000.
3
KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra.
10
IL BRAND
complesso di valori, di associazioni cognitive, di aspettative e di percezioni, al
quale i segmenti di domanda attivati dall’impresa attribuiscono un valore-utilità
che eccede la performance tecnico-funzionale del prodotto identificato dalla
marca stessa e che pertanto si traduce in un valore differenziale per l’impresa”4.
Se non ha il pregio della sintesi, questa definizione anticipa il concetto
fondamentale di valore della marca e mostra come esso derivi al contempo
dall’impresa e dal consumatore.
Si potrebbero riportare molti altri tentativi di definizione, alcuni efficaci, altri in
bilico tra la frase ad effetto e l’aforisma: ognuno va a cogliere diverse
dimensioni di un concetto, quello di brand, che per la sua multidimensionalità è
molto difficile da sintetizzare. Se ciascuna definizione ha il merito di
evidenziarne degli aspetti, tutte sono inevitabilmente incomplete. Questo
perché, come vedremo, la marca è comprensiva di tutto: del suo nome, del suo
marchio, dei prodotti o servizi che identifica, della sua storia, del valore che
porta… per arrivare fino ai due estremi stessi della relazione, l’impresa e il
consumatore. Nel corso del lavoro, quando ad emergere saranno talora alcuni,
talora altri aspetti, la poliedricità del concetto apparirà ancora più chiara. Forse
proprio in questa difficoltà di formalizzare il brand risiede il successo di una
definizione, quella ormai datata dell’American Marketing Association, che senza
la presunzione di catturare tutta la complessità della marca ne descrive
puntualmente la manifestazione fisica.
1.2 I LUOGHI
Se si riuscirà a a comprendere meglio il concetto di brand mostrando le funzioni
a cui assolve, è importante dargli da subito visibilità: comprendere gli ambiti in
cui esso è utilizzato, le categorie nelle quali si presenta o si potrebbe
presentare. “Localizzare le marche” prima di addentrarsi nel suo funzionamento
è al contempo un modo di evidenziarne la presenza e di premetterne
l’importanza.
4
ZARA C. (a cura di) (1997), La valutazione della marca. Il contributo del brand alla creazione
del valore dell’impresa, Etaslibri, Milano.
11
CAPITOLO 1
L’assunto fondamentale è che la marca nasce nella mente del consumatore.
Tutto può costituire o divenire brand se come tale viene percepito, se diviene
oggetto di un insieme di percezioni, come nella definizione di cui sopra. Così,
possiamo individuare delle marche in tutte le seguenti categorie5:
Prodotti di consumo: rappresentano ciò che è comunemente considerato
prodotto in senso stretto, e sono uno degli ambiti in cui la marca più ha e ha
avuto importanza. Si guardi al concetto stesso di prodotto di marca: “ciò che
distingue un prodotto di marca dai prodotti non di marca (unbranded) e gli dà
valore è la percezione complessiva sviluppata dai consumatori in merito alle
sue caratteristiche, al nome che l’identifica e al suo significato, nonché
all’azienda associata a quella marca (Achenbaum 1993)”. Sebbene si debba
applicare questa utile definizione anche alle categorie successive, il primo
ambito a cui è facile far riferimento è proprio quello dei prodotti di consumo,
proprio per la diffusione che ha avuto in passato l’utilizzo del brand in questa
categoria. Si pensi sia a marche di beni di largo e frequente consumo (FastMoving-Consumer-Good, FMCG) come Coca-Cola, Marboro, che a marche di
beni durevoli, quali Mercedes-Benz o Sony.
Prodotti business to business: nell’ambito dei beni industriali, l’utilizzo della
marca è in rapida espansione, essendone stato riconosciuto il ruolo importante
nelle transazioni tra imprese oltre che tra impresa e consumatore. Trattasi di un
utilizzo prevalente del brand aziendale, che mira a far emergere l’impresa b2b
dal complesso di tutte le concorrenti, rendendola un interlocutore e partner
commerciale affidabile.
Servizi: rappresentano uno degli ambiti in cui la marca ha avuto, negli ultimi
tempi, un tasso di utilizzo molto crescente. L’immaterialità dell’offerta e la
variabilità dei soggetti in essa coinvolti, che ne sono state forse un tempo un
freno, stanno oggi trovando proprio nella marca un’eccezionale ”opportunità di
sintesi”: il brand Vodafone, per esempio,
identifica e rende riconoscibili le
caratteristiche di un’intera gamma di servizi (piani, promozioni) e insieme i
5
KELLER, K.L., BUSACCA, B. E OSTILLIO, M.C. (2006),
Gestione e sviluppo del brand,
Egea. Titolo originale: Strategic Brand Management (2003), II ed., Upper Saddle River, Prentice
Hall.
12
IL BRAND
soggetti che a vario titolo contribuiscono alla sua erogazione (sito Internet,
commessi…). L’utilizzo dei brand è frequente anche per identificare singoli
servizi speciali (Vodafone Live). Va evidenziato come, aldilà della crescita
dell’ultimo decennio, in questa categoria esistano da molti anni sul mercato
brand forti e noti (basti ricordare American Express, British Airways).
Dettaglianti e distributori: analogamente ai servizi, anche nel canale distributivo
la presenza della marca è crescente. Si pensi alle marche commerciali (private
labels), che sempre più distributori adottano (in Italia, per esempio, Pam o
Esselunga) o all’evoluzione delle stesse insegne, sempre più posizionate e
dotate di una propria immagine.
Prodotti e servizi on-line: nell’ultimo decennio, nuove aziende sono nate (e
morte) su Internet e vecchie vi si sono affacciate, spesso con entusiasmo e
decisione ma con alterne fortune. Il ruolo della marca è fondamentale,
costituendo un riferimento e un’interfaccia comune per soggetti spesso dispersi
geograficamente. Google e E-Bay sono entrambi esempi di azienda pure player
e brand online rapidamente divenuto credibile e sinonimo di affidabilità, al punto
da essere, nel ranking Interbrand delle marche globali, rispettivamente la prima
e la terza per tasso di crescita.
Individui e organizzazioni: anche le persone fisiche possono essere dei brand.
Ne abbiamo un esempio banale nell’industria cinematografica, dove nomi di
autorevoli registi sono spesso utilizzati per dare risalto o portare un significato in
più a progetti che li coinvolgono in minima parte (“Wes Craven presenta…”);
personaggi dello spettacolo, politici o altre figure pubbliche impegnate
nell’ottenimento di un qualche consenso cercano di crearsi un’immagine
affidabile e in un qualche modo accattivante; ma in senso lato, ogni qualvolta le
persone si impegnano a conquistare, con i propri spontanei atteggiamenti, una
propria credibilità, stanno costruendo il proprio brand.
Sport ed entertainment: club sportivi danno in licenza il proprio marchio e
cercano di renderlo prestigioso, anche con attività sociali ed extra-sportive in
generale (Fondazione Milan); i sequel di film di successo fanno leva sull’appeal
dei precedenti, i cui nomi si affermano come veri e propri brand (Matrix, Star
Wars…) e sono come tali valorizzati dalle case di produzione.
13
CAPITOLO 1
Luoghi geografici: nell’immaginario collettivo, alcune città d’arte sono dei city
brand, percepiti in modo preciso e definito; le amministrazioni locali consapevoli
possono sfruttare il loro prestigio utilizzandone il nome o addirittura il logo (il
rinnovato leone alato di Venezia) e al contempo cercare di accrescerlo (lo
slogan di Treviso “se la vedi ti innamori”). Ancora, si pensi all’appeal del Made
in Italy in tutto il mondo.
Idee e cause: anche in ambito umanitario e non-profit si sono spesso creati dei
veri e propri brand: enti come Emergency o Amnesty International hanno potuto
beneficiare dei rispettivi, così come la lotta all’AIDS ha da tempo un simbolo nel
fiocco rosso.
Questa breve rassegna dovrebbe far intuire, per ora in termini puramente
quantitativi, quanto l’utilizzo della marca sia penetrato nei mercati, entrando a
far parte della vita degli individui oltre che dei consumatori.
1.3 LE FUNZIONI
1.3.1 Per il consumatore
I ruoli che la marca ricopre sono molteplici, analizzabili secondo le prospettive
dei diversi soggetti che, in modo diretto o indiretto, vengono con questa a
contatto. Innanzitutto, ci si concentri sulle funzioni che il brand ricopre per il
consumatore. Utilizzando i termini prodotto e consumatore si farà sempre
riferimento, di fatto, all’oggetto identificato dal brand e al soggetto che viene con
esso a contatto, sia esso un individuo o un’organizzazione.
Il presupposto dell’importanza della marca per il consumatore risiede nel
concetto di rischio percepito: è intuibile che quando il consumatore investe delle
risorse (tempo, denaro, energie mentali…) in un processo d’acquisto,
facilmente percepisce un rischio di insoddisfazione nello stesso. Il rischio è
percepito per motivi imputabili all’acquirente (il suo coinvolgimento nell’acquisto)
o all’oggetto da acquistare (presenza o meno di indicatori delle sue qualità
14
IL BRAND
prima dell’acquisto). Ci sono diversi tipi di rischio6: funzionale (performance
inferiore alle aspettative); fisico (minaccia per il benessere o la salute di chi lo
utilizza o di altri soggetti); finanziario (valore del bene inferiore al prezzo
pagato); sociale (il prodotto potrebbe creare situazioni imbarazzanti nel rapporto
con gli altri); psicologico (il prodotto influisce negativamente sul benessere
psichico dell’utente); temporale (se il prodotto non è soddisfacente, servirà
ulteriore tempo per trovarne un sostituito adeguato).
La marca, con la sua stabilità e reputazione consolidata, è una delle soluzioni
che il consumatore sente di avere a disposizione per ridurre questi rischi.
Viceversa, il ruolo del brand cessa di esistere nel momento in cui il
consumatore non sente di rischiare acquistando una merce piuttosto che
un’altra. Ecco perché ci sono mercati dove le marche non esistono, hanno un
ruolo meramente segnaletico o sono prevalentemente commerciali. Il diverso
rischio percepito, variabile in base ai mercati, allo spazio e al tempo, è uno dei
motivi principali per cui le funzioni che ci accingiamo a descrivere non sono
presenti con la medesima intensità in tutte le tipologie e fattispecie di marche.
Kapferer assegna al brand otto funzioni7:
•
Identificazione: è la funzione segnaletica. Riconoscendone il nome o
il marchio (rispettivamente brand name e brand mark secondo le
definizioni di Kotler8), il consumatore identifica immediatamente il
prodotto e/o la sua fonte di provenienza tra quelli che lo circondano.
L’esempio tipico è quello del barattolo di una certa marca esposto tra
gli altri negli scaffali.
•
Praticità: riconoscere una marca con la quale ha avuto esperienze
positive permette al consumatore di risparmiare tempo ed energie
nell’acquisto: non avrà più bisogno di cercare informazioni, di vario
carattere, che può o sente di dare per scontate; sarà propenso a
6
ROSELIUS (1971), “Consumer Ranking of Risk Reduction Methods”, Journal of Marketing, 35
(January), 56-61.
7
Adattato da KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra.
8
KOTLER P. (2003), Marketing Management, XI ed., Upper Saddle River, Prentice Hall.
15
CAPITOLO 1
confermare le scelta passata, senza metterla in discussione e senza
cercare alternative di marca costose in termini di tempo.
•
Garanzia: la marca dà al consumatore la sicurezza di qualità costante
nel tempo e nello spazio. Acquistando la stessa marca in due luoghi
diversi e lontani, egli troverà le stesse caratteristiche; analogamente,
in momenti distanti del tempo questi si sentirà garantito nel riacquisto
dal permanere della marca.
•
Ottimizzazione: sicurezza del consumatore di acquistare il prodotto
migliore della sua categoria, o il più adatto a soddisfare le sue
esigenze specifiche. Questi è disposto a pagare un prezzo anche
considerevolmente più alto (premium price) per il prodotto di marca
che gli dia questa sicurezza.
•
Caratterizzazione: conferma della propria immagine. Il consumatore
cerca e trova nella marca una riaffermazione di sé, o del sé che vuole
presentare agli altri. Va evidenziato come, rispetto a tempi e climi
culturali passati, i prodotti siano sempre meno un fine e più un mezzo
di espressione della personalità. Questo non diminuisce affatto la loro
pregnanza e quella delle marche nella vita degli individui, ma li dota
di una rinnovata funzione, quella, appunto, di conferma della propria
immagine. Le funzioni di garanzia, ottimizzazione e caratterizzazione
superano il ruolo segnaletico delle prime due e ne abbracciano uno
prettamente di riduzione del rischio percepito dal consumatore.
•
Permanenza:
soddisfazione
dalla
familiarità
con
il brand.
Il
consumatore prova piacere nel rapporto con una marca con la quale
si relaziona da molto tempo.
16
IL BRAND
•
Edonismo: soddisfazione dall’esteriorità della marca. Il consumatore
è attratto dal suo nome, dal logo, da come essa si presenta e
comunica.
•
Etica: soddisfazione dalla responsabilità sociale della marca. Il
consumatore
è
divenuto
generalmente
più
sensibile
alle
problematiche sociali, e si attende talora la stessa attenzione da parte
della marca agli aspetti inerenti l’ecologia, l’occupazione, il rispetto
dei minori nella pubblicità. Le ultime tre funzioni concernono il
“piacere” ricavabile dal consumatore nel suo rapporto con la marca.
L’analisi delle funzioni svolte dai brand nei singoli mercati è anche una delle
chiavi per comprendere lo spazio di azione dei distributori in termini di marche
commerciali: se il ruolo del brand è prevalentemente segnaletico, infatti, questi
avranno buon gioco nell’introdurre proprie marche, che svolgano le stesse
funzioni a costi minori; viceversa, se i brand svolgono anche funzioni più
complesse, le marche commerciali riusciranno difficilmente a competere. In
generale, più ricco è il ruolo rivestito da un brand, più questo sarà tutelato dalla
minaccia delle marche dei distributori.
1.3.2 Per l’impresa
Anche per l’impresa, il brand ha una funzione di identificazione: la marca è un
mezzo per semplificare le operazioni di gestione e controllo dell’inventario, delle
registrazioni contabili, in generale del prodotto.
La marca è un importante strumento di tutela giuridica: l’impresa può, per
mezzo di questa, proteggere legalmente le caratteristiche uniche del prodotto.
In capo alla marca ci possono essere i diritti di proprietà intellettuale che il suo
titolare può esercitare (è il concetto di trade mark, secondo la terminologia
dettata da Kotler): il nome del brand può essere protetto mediante marchi
17
CAPITOLO 1
commerciali registrati; i processi produttivi sono oggetto di brevetti, così come il
packaging, tutelabile anche grazie alla disciplina del diritto d’autore.
Le esperienze positive del consumatore con una marca, come abbiamo visto,
possono tradursi in un riacquisto e in una sempre rinnovata fiducia nel brand.
La fedeltà del consumatore alla marca (brand loyalty), obiettivo sempre più
ricercato dalle imprese, garantisce certezza e costanza della domanda,
costituendo barriere all’entrata difficili da valicare per la potenziale concorrenza.
Il brand, pertanto, è una importante fonte di vantaggio competitivo.
Infine, e in virtù di tutte queste sue apprezzate funzioni, il brand è una fonte di
risorse finanziarie: come sarà approfondito, la marca è un asset con un valore
intrinseco oltre che con specifici ruoli, suscettibile di essere monetizzato
alienandolo a vario titolo.
1.3.3 Altre funzioni
La marca del produttore ha anche funzioni ed effetti indiretti, collaterali alla
relazione con il consumatore: per il distributore, la presenza di marche note e
ben pubblicizzate favorisce la visita al negozio e ne influenza la percezione del
cliente. Per questo motivo, gli obiettivi di fidelizzazione al punto vendita (store
loyalty) trovano uno strumento molto importante nelle marche dei produttori.
La marca, infine, ha anche una funzione per il sistema economico: trattandosi di
“una promessa ed un impegno verso il consumatore”, può favorire un più alto
livello qualitativo dei prodotti e l’innovazione, atta a mantenere vivi i vantaggi
competitivi derivanti dalle marche stesse.
18
IL BRAND
1.4. IL VALORE
1.4.1. Tra marketing e finanza
Il valore della marca (brand equity) è un concetto salito alla ribalta nella
letteratura di marketing in un tempo relativamente recente. Questo proprio
perché, tautologicamente, la marca è stata valorizzata solo di recente. Prima
degli anni ’80, i multipli (o Price/Earnings ratio: il rapporto del prezzo di un titolo
azionario diviso gli utili per azione della società) di una tipica operazione di
fusione o acquisizione si aggiravano intorno a valori di sette o otto: tanto era il
prezzo pagato per un’azienda rapportato ai suoi guadagni. Successivamente, i
prezzi corrisposti cominciarono ad incrementare vertiginosamente, fino a
superare sovente valori pari a venti volte i guadagni delle aziende rilevate.
Nestlè, a titolo di esempio, nel 1988 comprò Rowntree Macintosh (produttrice di
dolciumi) ad un prezzo pari a 26 volte i suoi utili. Si cercava di investire in
aziende sottovalutate, le cui forti marche avrebbero portato crescita, utili, valore
per gli azionisti. Non si acquistavano più solo entità produttive, ma anche e
soprattutto dei posti (già occupati) nelle menti dei consumatori. Si riconosceva
la difficoltà di creare da zero marche della forza di quelle già affermate, che
tuttavia non erano adeguatamente valutate o neppure considerate a bilancio.
Oggi, le risorse intangibili, e in particolare i brand, sono considerati dalle
aziende la loro risorsa più grande, e costituiscono spesso la quota prevalente
del valore aziendale: in una tipica impresa produttrice di beni di consumo ad
acquisto ricorrente, gli asset tangibili supererebbero a malapena il 10% del
valore totale9. Se la maggioranza del valore intangibile è dato proprio dal brand,
si comprende come queste considerazioni abbiano dato grande ribalta al
concetto di valore della marca. Un importante filone di ricerca ha elaborato
diversi metodi di valutazione del brand e degli altri asset intangibili: utilizzando
criteri storici (come la determinazione dei costi sostenuti per creare il brand) o
meglio prospettici (come i guadagni attesi), fino ad arrivare a metodi complessi
9
KELLER, K.L., BUSACCA, B. E OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea.
19
CAPITOLO 1
come quello utilizzato ogni anno dalla società di consulenza Interbrand per il
suo ranking dei brand globali.
Fig. 1.1 : Il valore dei brand globali secondo Interbrand
Fonte: www.interbrand.com
20
IL BRAND
Tuttavia, sarebbe un errore pensare che i motivi di studio della brand equity
siano esclusivamente finanziari. Un altro approccio, che potremmo definire “di
marketing” e che da subito premettiamo essere quello seguito in questo lavoro,
ha considerato la brand equity alla luce del suo significato strategico per
l’impresa: dalla consapevolezza che la marca, cioè la sua percezione nella
mente dei consumatori, è la risorsa più importante a disposizione dell’azienda
nel complesso contesto concorrenziale, è partita la necessità di conoscere a
fondo le leve da attivare per incrementarne il valore. Si noti bene che questi due
punti di vista del valore del brand, finanziario e di marketing, sono
assolutamente interrelati. Kapferer stesso ci ricorda che “l’avviamento è dove
finanza e marketing convergono”10: la differenza tra prezzo pagato e valore
contabile, l’intangibile che ci si premura di quantificare con precisione, non
deriva che dalle attitudini e predisposizioni del consumatore e degli altri attori.
Gli analisti finanziari valutano ciò che il mercato ha precedentemente
valorizzato. E a ben guardare, il brand lavora in modo analogo per entrambi i
soggetti: riduce il rischio11. L’investitore finanziario paga un prezzo alto per
un’azienda con forti marche, cercando di assicurarsi flussi di cassa certi per il
futuro; analogamente, il consumatore corrisponde un premium price perché si
sente garantito e ha fiducia nel prodotto di marca.
Oltre a dare visibilità al concetto, il gran dibattere teorico intorno al valore della
marca ha causato una certa confusione sul suo reale significato. Esistono, nella
letteratura di marketing e tra gli addetti ai lavori, svariate definizioni di brand
equity, alcune delle quali molto efficaci e largamente condivisibili:
L’insieme delle associazioni e dei comportamenti dei clienti del brand, dei
membri del canale distributivo e della casa madre che consentono un aumento
del volume o dei margini rispetto a quelli possibili senza il nome della marca e
che danno al brand un vantaggio forte, sostenibile e differenziato rispetto alla
concorrenza (Marketing Science Institute).
10
11
KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra, p.23.
KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra, p.33.
21
CAPITOLO 1
Il valore aggiunto per l’impresa, per il commercio o per il consumatore che un
determinato brand conferisce al prodotto (Farquhar 1989)
L’insieme delle attività e passività legate a un brand, al suo nome e simbolo,
che accrescono e diminuiscono il valore fornito da un prodotto o servizio a
un’azienda o ai suoi clienti (Aaker 1991)
La differenza di fatturato e profitti risultante dalla precedente attività di
marketing rispetto a una nuova marca confrontabile (Brodsky e NPD Group
1991)
Nel concetto di brand equity sono compresi la forza e il valore del brand. La
forza è l’insieme delle associazioni e dei comportamenti dei clienti della marca,
dei membri del canale distributivo e della casa-madre che consentono alla
marca di godere di vantaggi competitivi sostenibili e differenziati. Il valore è il
risultato finanziario della capacità del management di far leva sulla forza del
brand attraverso azioni tattiche e strategiche aumentando i profitti attuali e
prospettici e riducendo i rischi (Srivastava e Schocker 1991).
Tutte queste definizioni convergono su un punto focale: la brand equity è un
valore differenziale, aggiuntivo, che deriva, quale che sia la sua misurazione,
unicamente dal brand stesso. Parlando di valore del brand, pertanto, ci si
interrogherà su effetti e risultati che sarebbero assenti senza la marca stessa. Il
problema, in ottica di marketing, si sposta dalla definizione di cosa sia e come si
misuri il valore della marca alla comprensione del processo mediante il quale
questo si crea. Rimandando ad altre sedi12 per la determinazione del suo sunto
economico-finanziario (o brand value, secondo la definizione di Interbrand), si
analizzerà ora la brand equity dal punto di vista del consumatore, cercando di
comprendere come vada a formarsi questo valore. Le prossime pagine,
pertanto, fungono da base e fondamento teorico per il capitolo successivo, che
12
SIMON, C. J. E SULLIVAN M. W. (1993), “The Measurement and Determinants of Brand
Equity: a Financial Approach”, Marketing Science, vol. 12, (Winter), 28-52.
22
IL BRAND
passa a considerare le strategie mediante le quali le imprese creano e
gestiscono il valore dei propri brand nel contesto concorrenziale.
1.4.2. La brand equity nel modello di Aaker
Nella letteratura di marketing si sono elaborati e successivamente perfezionati
molti costrutti teorici intorno al concetto di valore della marca: si è cercato di
comprendere cosa rende “forte” un brand e come i consumatori diano valore
alla marca. I due modelli più autorevoli sono probabilmente quelli elaborati e
perfezionati, dagli anni ’90 ad oggi, da Aaker e Keller. Questi condividono molti
aspetti, alcuni passaggi concettuali e soprattutto l’idea di base che si debba
partire dallo studio del consumatore per comprendere come nasca il valore
della marca. Li si presenteranno entrambi, uno di seguito all’altro, con modalità
e scopi diversi.
Si ritiene la ricerca di semplicità e precisione del modello di Aaker al contempo
un pregio in termini teorici ed un vizio dal punto di vista della spendibilità
pratica. Per questo motivo, si è scelto di presentarlo da subito in maniera
sommaria, trovandolo adatto soprattutto in una fase istruttoria di alcuni concetti
fondamentali su cui poggia il valore della marca. Si è invece approfondito
maggiormente il modello di Keller, che come detto ne condivide alcuni tratti ma
li inquadra in un costrutto forse più complesso ma meno rigido, e anche per
questo “maggiormente spendibile”.
Riprendendo la sua definizione di valore della marca, Aaker sostiene che esso
si basi su una serie di “attività” e “passività” ad essa associate, al suo nome o
marchio, che aggiungono o sottraggono valore al prodotto o servizio venduto da
un’azienda e acquistato dai consumatori. Va osservato che le attività e passività
a cui si riferisce Aaker sono indissolubilmente legate alla marca: sono da essa
poste in essere e con essa potrebbero modificarsi o addirittura cessare di
esistere qualora la marca mutasse nel suo nome o marchio. Esse, che
23
CAPITOLO 1
rappresentano le leve che l’impresa deve saper gestire per creare valore, si
possono raggruppare in cinque categorie, come schematizzato nella fig. 1.2.
Fig. 1.2: La brand equity secondo Aaker
Fedeltà
alla marca
Altre
risorse
esclusive
Notorietà
del nome
BRAND
EQUITY
Qualità
percepita
Associazioni
di marca
Fonte: AAKER, D. A. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli
È importante rilevare che le cinque componenti che danno valore alla marca
sono spesso interrelate; lo stesso valore può, a sua volta, influire sulle
componenti da cui origina; inoltre, lo stesso Aaker osserva che talora potrebbe
essere utile ammettere nel modello altre categorie oltre alle cinque considerate.
Queste osservazioni, che in un certo senso evidenziano la già citata rigidità del
modello, non impediscono di utilizzarlo efficacemente per comprenderne, una
24
IL BRAND
ad una e senza approfondimenti non necessari allo scopo, le singole
componenti13:
1. Fedeltà alla marca: è la misura dell’attaccamento al brand. Le strategie
di marca devono guardare ai consumatori potenziali, cioè a quelli da
acquisire, ma anche alle relazioni già istituite, ovvero ai clienti già in
portafoglio. La fidelizzazione è un obiettivo da perseguire con
determinazione, perché porta valore alla marca in vari modi: innanzitutto
in termini di rapporto costi-benefici, perchè è relativamente poco costoso
consolidare i consumatori esistenti; per la capacità della clientela
esistente di farsi essa stessa promotrice della marca verso quella
potenziale; per il disincentivo delle altre imprese ad entrare in
competizione diretta, stante l’inerzia e la resistenza al cambiamento della
clientela fedele; infine, per il potere che ne deriva sul canale distributivo,
visto che i consumatori si attenderanno sempre di reperire la marca negli
esercizi commerciali.
2. Notorietà del nome: si tratta della capacità di un acquirente potenziale di
riconoscere o ricordare che la marca è presente in una certa classe di
prodotto, stabilendo così un legame fra la classe di prodotto e la marca
stessa. La notorietà dà valore alla marca innanzitutto perché è la
condizione necessaria per comunicare: una marca sconosciuta non può
essere oggetto di comunicazione; conferisce alla marca un senso di
familiarità; dà al consumatore, anche in condizione di scarsità di reali
informazioni, un segnale di forza e presenza della marca; infine, la
consapevolezza della marca da parte del consumatore ha un ruolo al
momento dell’acquisto, per esempio nella selezione del paniere di
marche tra cui scegliere. Aaker riconosce tre livelli di notorietà (marca
riconosciuta se nominata; marca spontaneamente menzionata tra quelle
di una certa classe di prodotto; marca top of mind, cioè la prima delle
13
Adattato da AAKER, D. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco
Angeli.
25
CAPITOLO 1
spontaneamente citate), più il caso di marca dominante, cioè unica
ricordata da una percentuale elevata di intervistati.
3. Qualità percepita: è la percezione da parte del consumatore della qualità
globale o della superiorità del prodotto o servizio rispetto all’uso a cui è
destinato, tenendo conto anche delle alternative possibili. Porta valore
alla marca in molti modi: è spesso un criterio decisionale importante nelle
scelte d’acquisto; è una dimensione sulla quale l’impresa può scegliere
di posizionarsi in vari modi, quindi uno strumento per differenziarsi;
consente di praticare strategie di premium price, o viceversa di far valere
sul mercato la maggiore qualità a parità di prezzo competitivo; avendo
effetti anche sull’immagine degli attori del canale distributivo, può
influenzarne politiche di assortimento e di pricing; può infine essere una
leva per le strategie di estensione della marca.
4. Associazioni di marca: tutto ciò che nella mente del consumatore è
collegato alla marca costituisce un’associazione, e può portare ad essa
valore. Le associazioni più tipiche sono le caratteristiche intrinseche del
prodotto e i vantaggi che da esse derivano, ma ce ne sono molte altre
categorie: una marca può essere associata a uno stile di vita, al suo
consumatore tipo, alla classe di prodotto, al paese d’origine… il brand
può significare per il consumatore questo e molto altro ancora, senza il
bisogno di precise codifiche ma con l’esigenza, da parte dell’impresa, di
averne piena coscienza. Infatti, le associazioni di marca, specie se forti,
portano valore alla marca stessa in molti modi: aiutando a ricordare,
spesso sintetizzandole, le informazioni di cui il consumatore dispone sul
brand; costituendo una base di differenziazione e posizionamento;
stimolando, talora con la propria credibilità, una motivazione per
l’acquisto; creando sentimenti o atteggiamenti positivi nei confronti della
marca; costituendo una base per eventuali estensioni di marca.
26
IL BRAND
5. Altre risorse esclusive della marca: brevetti, marchi registrati, canali
distributivi privilegiati… queste ed altre proprietà della marca, se ad essa
strettamente associate, possono a vario titolo portarle valore, per
esempio proteggendola dalla concorrenza o addirittura impedendola.
1.4.3 La brand equity nel modello di Keller
Il presupposto da cui parte l’autore nell’elaborazione del suo modello è che,
così come la marca nasce nella mente del consumatore, da questa dipenda
anche il suo potere: la conoscenza del brand, intesa come tutto ciò che il
consumatore ha appreso o esperito, direttamente o indirettamente, è la base
costitutiva della brand equity. Per gestire efficacemente il valore del brand,
pertanto, occorre chiedersi come la conoscenza della marca da parte del
consumatore influenzi la risposta alle attività di marketing. La spendibilità di
questo modello risiede nella sua capacità, già a partire dall’assunto di base, di
fungere da guida per le strategie dell’impresa.
Keller definisce la Customer-Based Brand Equity (CBBE) come “l’effetto
differenziale che la conoscenza della marca esercita sulla risposta del
consumatore alle azioni di marketing della marca stessa”14.
L’effetto è differenziale perché, come già spiegato, si tratta di reazioni del
consumatore attribuibili alla marca: positivo o negativo l’effetto, esso deriva
unicamente dalla presenza del brand. Quali che siano, le percezioni, preferenze
e comportamenti del consumatore rispetto al brand e alle sue attività dipendono
dalla conoscenza della marca (brand knowledge), l’oggetto di studio:
concettualizzandola, si riuscirà ad avere un quadro generale per identificare, di
caso in caso, le azioni di marketing e le strategie di branding idonee a creare il
maggior valore possibile.
14
KELLER, K. L., BUSACCA, B. ,OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea.
27
CAPITOLO 1
La Brand Knowledge
In psicologia è presente un modello, detto della memoria associativa (Anderson
1983, Wyer Jr. e Srull 1989), secondo cui la memoria consiste in una rete di
nodi e legami connettivi: i nodi rappresentano le informazioni immagazzinate e i
legami la forza delle associazioni tra queste. La conoscenza della marca si può
concettualizzare come la presenza nella memoria di un nodo (il brand) e di una
molteplicità di associazioni ad essa collegate. Vanno pertanto comprese le
caratteristiche di questo “sistema”, riconducibili a due dimensioni: la
consapevolezza della marca (brand awareness) e l’immagine della marca
(brand image).
Fig. 1.3: La Brand Knowledge
Brand Knowledge
Brand Awareness
Brand Image
La Brand Awareness
La consapevolezza della marca è la forza del nodo-brand nella memoria del
consumatore, cioè la sua capacità di essere riconosciuta e richiamata alla
memoria. La brand awareness consta di due componenti, che ricordano per
certi versi due dei livelli di notorietà nel modello di Aaker:
•
la brand recognition, che si riferisce la capacità del consumatore di
confermare una precedente esposizione al brand sentendolo nominare o
vedendolo esposto. Si potrà parlare di riconoscimento quando il
consumatore, trovandocisi a contatto, individuerà correttamente come
già nota una marca già conosciuta in qualche modo.
•
la brand recall, che si riferisce alla capacità del consumatore di
richiamare alla memoria il brand a partire dalla categoria del prodotto, dal
bisogno soddisfatto o da altro tipo di indizio. Trattasi di un’azione
28
IL BRAND
autonoma, che avviene senza il precedente manifestarsi esterno della
marca, ed è per questo generalmente più difficile del riconoscimento.
L’importanza relativa delle due componenti è variabile: se la brand recall è
fondamentale in situazioni di assenza della marca, come negli acquisti online o
in quelli che richiedono una ricerca attiva da parte del consumatore, la brand
recognition avrà un maggior peso per gli acquisti che avvengono nel punto
vendita.
Ci sono tre vantaggi ricavabili da un elevato grado di consapevolezza della
marca: la maggior probabilità che essa entri a far parte del consideration set
delle marche tra le quali verrà effettuato l’acquisto, coerentemente a quanto
argomentato da Aaker; la possibilità, in caso di scarso coinvolgimento da parte
del consumatore o di poche associazioni, che questo scelga la marca nel
consideration set affidandosi in primo luogo alla sua notorietà; infine, un elevato
grado di consapevolezza facilita la formazione e il rafforzamento delle
associazioni che determinano l’immagine della marca. Questi vantaggi sono al
contempo anche dei fattori di criticità della gestione della brand awareness da
parte dell’impresa, che dovrà crearla e mantenerla elevata nelle sue
componenti di brand recognition (accrescendone la familiarità, di solito
mediante l’esposizione ripetuta) e brand recall (cercando di creare associazioni
forti con le sue caratteristiche di base, come la categoria di appartenenza e le
situazioni più tipiche di acquisto o consumo).
Brand Image
L’immagine della marca, nel modello di Keller e coerentemente con il modello
della memoria associativa, è l’insieme delle percezioni sulla marca presenti
nella memoria dei consumatori, che si riflettono in associazioni di varia natura
alla marca stessa. Le associazioni di marca sono gli altri nodi informativi legati
al nodo rappresentato dal brand nella memoria, e contengono il significato di
questo per i consumatori.
Keller definisce tre tipi di associazioni alla marca, con crescente livello di
astrazione (in base a quante informazioni sono riassunte nell’associazione): gli
attributi del sistema d’offerta, i benefici percepiti dai consumatori e
29
CAPITOLO 1
l’atteggiamento generale che il consumatore ha maturato nei confronti della
marca. Gli attributi sono gli elementi di base o distintivi che caratterizzano il
prodotto o servizio: possono essere relativi al prodotto (le caratteristiche
intrinseche che gli consentono di adempiere alle funzioni cui sono destinati) o
meno (cioè relativi al suo acquisto o consumo: informazioni sul prezzo,
packaging o presentazione del prodotto, tipici consumatori o situazioni d’uso). I
benefici sono le percezioni che i consumatori hanno degli attributi a cui la marca
è connessa, cioè i vantaggi che pensano di ricavarne. Si possono distinguere in
funzionali (direttamente collegati agli attributi propri del prodotto), di esperienza
(derivanti dalla soddisfazione o insoddisfazione dall’uso del prodotto, e anche
questi solitamente collegati agli attributi propri di questo), simbolici (i vantaggi
estrinseci, collegati agli attributi non propri del prodotto e coerenti in senso lato
con le “funzioni kapfereriane” della marca più astratte, tipicamente la conferma
della propria immagine). Infine, gli atteggiamenti verso la marca sono l’opinione
e la valutazione complessiva che il consumatore fa del brand: è un tipo di
associazione difficile da definire puntualmente per il suo elevato livello di
astrazione, ma si tratta spesso di un sunto delle altre associazioni che forma la
base da cui scaturiscono i comportamenti del consumatore, dalla scelta al
rifiuto.
30
IL BRAND
Fig. 1.4: Le associazioni al brand secondo Keller
Tipi di associazione al brand
Attributi
Propri del
prodotto
Non propri del
prodotto
Benefici
Attitudini
Funzionali
D’esperienza
Prezzo
Simbolici
Packaging
Consumatore
tipo
Tipica
situazione
d’uso
Fonte: Adattato da KELLER, K. L., (1993), “Conceptualizing, Measuring, and Managing
Customer-Based Brand Equity”, Journal of Marketing, vol. 57 (Gennaio), 1-22.
Il sistema con cui Keller organizza le associazioni è utile a comprenderne la
natura più che ad esaurirne la varietà; come già asserito presentando lo stesso
concetto nel modello di Aaker, l’esigenza di passarle in una rassegna esaustiva
passa in secondo piano rispetto all’obiettivo di comprendere il modo in cui esse
determinano l’immagine del brand: cioè come contribuiscono, insieme alla
consapevolezza di marca, a formarne il valore. Ciò che rileva, come sostiene lo
stesso Keller, non è la fonte delle associazioni (che potrà talora non essere
controllabile dall’impresa) e il modo in cui esse prendono forma, bensì la loro
31
CAPITOLO 1
forza,
positività,
unicità15.
Queste
sono
le
tre
caratteristiche
che
un’associazione, per portare valore al brand, deve avere nella mente del
consumatore, e le tre dimensioni sulle quali devono dall’impresa essere
considerate16.
•
Forza delle associazioni alla marca: è la solidità della connessione tra
l’associazione e il nodo del brand. Essa è funzione della quantità e della
qualità dell’elaborazione delle informazioni ricevute: se il consumatore
rifletterà molto sull’informazione e la metterà in relazione con le
conoscenze già acquisite sul brand, le conseguenti associazioni saranno
forti. Ovviamente, se il consumatore ha un elevato coinvolgimento
rispetto all’informazione e se questa viene presentata coerentemente nel
tempo, ne gioverà la forza delle associazioni create. I programmi di
marketing, pertanto, dovranno impattare sul consumatore cogliendo tutte
le possibilità di rafforzamento delle associazioni che questo crea con la
marca.
•
Positività
delle
associazioni
alla
marca:
è
la
desiderabilità
dell’associazione alla marca, effettivamente garantita dal prodotto e
trasmessa dai programmi di marketing. È fondamentale convincere il
consumatore che gli attributi e i benefici portati dalla marca sono adatti a
soddisfarne i desideri, in modo tale che si formi un’attitudine positiva.
Perché le associazioni siano desiderabili occorre che abbiano rilevanza
(per esempio, che si tratti di un attributo non marginale),
distintività
(l’associazione deve “emergere rispetto alle altre marche”, in senso
differenziante o notevolmente accrescitivo), credibilità (si deve dare per
scontata la capacità dell’impresa di mantenere la promessa implicita
dell’associazione).
•
Unicità delle associazioni al brand: le associazioni possono anche
essere condivise da marche concorrenti. Perchè la marca sia
efficacemente posizionata, e tragga valore dalla sua insostituibilità nella
15
KELLER, K.L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006),
Gestione e sviluppo del brand,
Egea.
16
KELLER, K.L., (1993), “Conceptualizing, Measuring, and Managing Customer-Based Brand
Equity”, Journal of Marketing, vol. 57, (January), pp. 1-22.
32
IL BRAND
mente del consumatore, è fondamentale che questo individui la proposta
dell’impresa come unica (è il celebre acronimo USP, ovvero l’unique
selling proposition teorizzata nel lontano 1961 dal pubblicitario Rosser
Reeves). A prescindere che lo si faccia esplicitamente o meno, è
importante quindi che si faccia percepire la differenza tra la marca e le
concorrenti,
creando
associazioni
uniche
e
non
condivise.
Ciononostante, la marca si troverà certamente a condividere delle
associazioni con la concorrenza, come quella della categoria di prodotto,
la cui forza, peraltro, è spesso un’importante determinante della brand
awareness (Nedungadi e Hutchinson 1985; Ward e Loken 1986).
L’impresa, pertanto, dovrà agire in modo tale che le associazioni comuni
alla marca appaiano al consumatore non meno favorevoli di quelle dei
concorrenti, lavorando nel frattempo su elementi di differenziazione del
brand che siano percepiti dal consumatore mediante associazioni
positive, forti, uniche.
Va evidenziato come le caratteristiche di forza e positività di un’associazione
dipendano anche dal suo rapporto con le altre associazioni: se un’informazione
condivide significati con associazioni alla marca già presenti nella memoria del
consumatore, sarà appresa e immagazzinata con più facilità; d’altro canto, va
considerato che informazioni inaspettate potrebbero, proprio per la loro
caratteristica di presunta incoerenza rispetto al brand, dare luogo a elaborazioni
molto profonde e quindi ad associazioni molto forti. Ma andando oltre il modo in
cui le associazioni si formano, va rilevato che se queste condividono larghi tratti
e sono strettamente relazionate, l’immagine del brand risulterà più omogenea e
coesa: con vantaggi di chiarezza per il consumatore e di gestione per
dell’impresa, che avrà buon gioco nell’affermarla con vigore.
33
CAPITOLO 1
Fig. 1.5: La brand equity secondo Keller
Brand Knowledge
Brand
Awareness
Brand
recognition
Brand
recall
Brand
Image
Forza
delle
associazioni
Positività
delle
associazioni
Unicità
delle
associazioni
Fonte: Adattato da KELLER, K. L., (1993), “Conceptualizing, Measuring, and Managing
Customer-Based Brand Equity”, Journal of Marketing, vol. 57 (Gennaio), 1-22.
Il modello della Customer-Based Brand Equity si ripresenterà ancora nel corso
del lavoro: in modo esplicito nel capitolo prossimo, fungendo per lunghi tratti da
guida alla gestione strategica del brand; in modo più sottile nel prosieguo del
lavoro, con la personale applicazione agli argomenti affrontati di alcuni dei
concetti fondamentali su cui si basa.
34
2. LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
2.1.
L’attività di branding
l’orizzonte strategico
2.2.
La costruzione della brand equity
come creare valore
2.3.
Crescita e sostegno della brand equity
le strategie di branding
2.4.
Il branding dei nuovi prodotti
prodotto nuovo, marca nuova?
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
2.1 L’ATTIVITA’ DI BRANDING
Nel precedente capitolo abbiamo analizzato il concetto di brand in senso
“statico”, partendo dalla sua definizione ed arrivando alle componenti del suo
valore. Il problema si sposta ora verso la comprensione della sua dinamicità: in
altre parole, cercheremo di capire come deve agire l’impresa per creare,
mantenere e gestire il valore della marca. In primo luogo, che cosa significa
branding? Abbiamo visto che il valore del brand, in tutte le sue definizioni, era
descritto come differenziale, cioè derivante esclusivamente dalla marca stessa.
Branding, pertanto, è dare a prodotti e servizi il valore aggiunto della marca, e
consiste di fatto nel creare differenze. A ben guardare, quindi, l’impresa non sta
forse, in ogni sua azione, facendo branding? Le percezioni del consumatore sul
brand sono influenzate da ogni suo comportamento e scelta: dal tono del
messaggio pubblicitario alla diminuzione di prezzo, fino alla posizione sullo
scaffale al momento dell’acquisto, l’impresa concorre continuamente alla
formazione, nella mente del consumatore, dell’insieme organizzato di
percezioni che alcuni definiscono come brand. L’impresa, pertanto, sta in ogni
momento creando e modificando il brand. È quindi fondamentale, in prima
battuta, che queste azioni siano tra loro coerenti e organizzate, in modo che
l’immagine del consumatore sia il più aderente possibile a quella desiderata.
Va inoltre osservato che l’insieme delle percezioni del consumatore non
dipende esclusivamente dalle fonti controllate dall’impresa: il passaparola, che
molti definiscono come la miglior forma di comunicazione, è anche un
famigerato strumento di diffusione di notizie lesive; o ancora, le scelte degli
attori sul canale distributivo possono avere un’influenza anche notevole
sull’immagine del brand percepita dai clienti. Più in generale, la complessità e
imprevedibilità del contesto competitivo non fanno che accrescere la criticità di
una risorsa, il brand, che agisce e si spiega in un orizzonte temporale più lungo
di quello del prodotto: che ne costituisce anzi, parafrasando Kapferer, la
memoria ed il futuro17.
17
KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra, p.53
37
CAPITOLO 2
Questi aspetti comportano per l’impresa la necessità di assumere un’ottica di
lungo periodo: il brand andrà gestito strategicamente, assicurando continuità e
coerenza alle scelte tattiche di breve e cercando di farne il punto di riferimento
della relazione con il cliente.
Il modello della Customer-Based Brand Equity, che nel capitolo precedente ha
consentito di estrapolare le componenti del valore della marca e organizzarle in
un quadro complessivo, fornisce anche un’architettura concettuale per
comprendere come questo valore vada costruito e gestito nel tempo. In
particolare, Keller descrive il processo di gestione strategica del brand come
l’insieme di tre momenti:
1. Definizione del posizionamento e dei valori del brand;
2. Pianificazione e attuazione dei programmi di marketing;
3. Sviluppo e sostegno della brand equity.
Si utilizzerà il modello tenendo presente la logica e gli obiettivi del nostro lavoro:
nel prossimo paragrafo si riassumeranno le prime due fasi, dedicate alla
costruzione del valore della marca; ci si soffermerà quindi, nel prosieguo del
capitolo, sulla terza, che riflette sulla gestione del brand in senso stretto.
E’ utile premettere la descrizione di una fase di supporto al processo, in esso
non esattamente localizzata, ma ugualmente indispensabile per un suo corretto
svolgimento. Si tratta della misurazione e valutazione delle fonti e dei risultati
della brand equity. Questa si avvale di uno strumento metodologico, la catena
del valore, la cui descrizione è utile sia a fini riassuntivi della formazione della
brand equity che come incipit all’approfondimento del processo di gestione
strategica. L’”esigenza di controllo” scaturisce dalla sopra spiegata natura
dell’attività di branding: se l’impresa influisce con ogni suo membro sul brand e
concorre in ogni sua azione al mutamento del relativo valore (sia esso
incremento o distruzione), è importante che i membri stessi abbiano piena
conoscenza di questi rapporti causa-effetto.
Dalla premessa che il valore del brand risiede nei clienti, il modello assume che
il processo della sua creazione parta dal programma di marketing ad essi
38
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
destinato: se questo è di qualità (chiaro, rilevante per i clienti, differenziante,
coerente nelle sue componenti di prodotto, comunicazione ecc.), riuscirà ad
incidere sulle disposizioni mentali dei clienti.
Queste rappresentano lo stadio successivo della catena: il valore qui si misura
con parametri già conosciuti dal modello CBBE, cioè sulla base della
consapevolezza del brand e della forza, positività, unicità delle associazioni ad
esso: le due componenti, brand awareness e brand image, comporteranno
atteggiamenti positivi del consumatore, attaccamento e “coinvolgimento” verso
la marca. Questi tratti avranno un’importante leva in fattori esogeni alla
disposizione mentale dei consumatori, come la superiorità competitiva del
brand sui concorrenti e il sostegno del canale commerciale.
Anche grazie a questi fattori moltiplicativi, il consolidarsi delle disposizioni
mentali dei clienti in strutture definite si tradurrà a sua volta in determinate
performance del brand sul mercato: il premium price spuntato, l’elasticità al
prezzo della curva di domanda, la quota di mercato; ancora, l’impresa potrà
riuscire ad espandere con successo il brand e a detenere strutture di costo
migliori, grazie ai minori investimenti di marketing necessari ad ottenere
atteggiamenti favorevoli; tutte performance che si tradurranno, più in generale,
in una maggiore redditività del brand, oggetto di valutazione del successivo
stadio della catena, la comunità finanziaria.
Gli azionisti e gli analisti finanziari valutano il brand con riferimento alle sue
performance sul mercato e sulla scorta di altre opinioni: tra le altre, si ricordino il
profilo di rischio del brand e il suo potenziale di crescita, ma anche fattori ad
esso esterni, come le dinamiche complessive dei mercati finanziari. In questo
ultimo stadio, alcuni indicatori del valore della marca sono il prezzo dei titoli
azionari, il multiplo prezzo/utili e la capitalizzazione del mercato.
La catena del valore, con la sua struttura a stadi, è un supporto utile a tutti gli
attori dell’impresa: fornisce una guida per comprendere, a livello aggregato,
come agire per portare valore al brand; ad un livello più specifico, ciascun
membro dell’impresa si focalizzerà sullo stadio in cui è richiesto il suo
contributo. Infine, riassume in modo efficace i parametri di valutazione
39
CAPITOLO 2
utilizzabili per monitorare, nelle varie fasi del processo della sua creazione, il
valore del brand.
2.2 LA COSTRUZIONE DELLA BRAND EQUITY
2.2.1 Definizione del posizionamento e dei valori del brand
Secondo il modello della Customer-Based Brand Equity, il valore della marca si
costruisce agendo sulle leve della brand awareness (aumentando la capacità
della marca di essere riconosciuta e richiamata alla mente) e della brand image
(creando associazioni forti, positive, uniche). La base dalla quale partire nel
processo di costruzione del valore della marca è la definizione di ciò che la
marca stessa deve rappresentare e di come deve posizionarsi rispetto alla
concorrenza: il posizionamento, appunto, definito da Kotler come “l’atto di
definizione dell’offerta e dell’immagine della società, in modo che essa occupi
una posizione precisa e di riconosciuto valore nella mente del cliente target”18.
Si tratterà di collocare il brand nel punto desiderato della mente dei
consumatori, determinandone in partenza le strutture cognitive su cui le
successive strategie di marketing faranno leva. Un posizionamento chiaro
prevede la precisa identificazione di quattro entità, brevemente descritte19:
1. consumatori target: si dovranno individuare tutti gli effettivi e potenziali
acquirenti che abbiano interesse, reddito e accesso al prodotto. Questo
presuppone la segmentazione del mercato, cioè
l’individuazione di
gruppi quanto più omogenei di consumatori con riferimento ai propri
obiettivi. Per una corretta segmentazione, è fondamentale scegliere le
basi migliori, classificabili in descrittive (attinenti alle persone) o
comportamentali (gli atteggiamenti rispetto al brand o al prodotto). Le
seconde sono di solito più efficaci perché hanno dirette implicazioni
18
KOTLER P. (2003), Marketing Management, XI ed., Upper Saddle River, Prentice Hall.
19
KELLER, K.L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea.
40
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
strategiche: per esempio, si potranno desumere gli attributi di un certo
prodotto o brand sulla base dei benefici ricercati. Successivamente alla
segmentazione, l’impresa dovrà scegliere quanti e quali segmenti
servire, cioè il suo mercato target.
2. principali competitor: la scelta del mercato target non può prescindere
dall’identificazione dei concorrenti, reali e potenziali, con cui l’impresa
dovrà competere: la presenza e la natura di questi soggetti dovranno
essere studiate con una precisa analisi competitiva, da cui l’impresa
possa dedurre possibilità e aree in cui agire con profitto.
3. elementi di comunanza con le marche concorrenti: si tratta degli aspetti
condivisi con i competitor, che andranno a formare le basi delle
associazioni non uniche al brand nella mente dei consumatori. Il ruolo di
questi point-of-parity (POP), come già spiegato, è molto importante, tanto
da poter costituire un presupposto per il successo di un brand: servendo
a “controbattere” ai concorrenti nelle aree dove questi hanno dei
vantaggi; costituendo talora, nel caso di POP riferibili alla categoria di
appartenenza, una condizione necessaria, di legittimazione per entrare a
far parte di un certo contesto competitivo.
4. elementi di differenziazione alla base del vantaggio competitivo del
brand: perché un brand abbia successo, è fondamentale che alcune
delle sue associazioni, oltre che forti e positive, siano uniche. Queste,
anzi, costituiscono di solito la vera ragion d’essere del brand. Un’impresa
può differenziarsi in molti modi, sulla base dei propri attributi o dei
benefici connessi alla marca: l’importante è che i suoi point-of-difference
(POD) dimostrino in modo inequivocabile la superiorità del brand nelle
rispettive aree.
Tutte le basi di posizionamento, uniche e non, devono essere sintetizzate per
costituire l’insieme dei valori principali del brand: sono i tratti che dovranno
41
CAPITOLO 2
riaffermarsi anche in eventuali estensioni del brand, ponendosi quali riferimenti
costanti per il consumatore, che dovrà su di essi investire nella sua relazione
con la marca. Spesso, un brand mantra (una frase che in poche parole catturi
l’essenza della marca) è uno strumento utile perché questi valori diventino i
principi guida di tutte le attività di branding (inteso in senso lato, come da inizio
capitolo) dell’azienda e dei partner commerciali, e si assicuri coerenza in tutte le
scelte e azioni.
La fase di posizionamento, pertanto, assicura in partenza che la marca sia
percepita con chiarezza: nella mente dei consumatori, definendo le associazioni
desiderate da indurre, e nel cuore dell’impresa, con la piena consapevolezza
della promessa posta in essere dal brand.
2.2.2 Pianificazione e attuazione dei programmi di marketing
Per raggiungere gli obiettivi desiderati in termini di brand awareness e brand
image, l’impresa dovrà assumere e perseguire le decisioni più adeguate in
termini di:
•
scelta degli elementi del brand;
•
integrazione del brand all’interno dei programmi e delle attività di
marketing;
•
sfruttamento delle associazioni secondarie.
Si analizzano uno ad uno questi modi di costruzione del valore della marca.
42
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
Scelta degli elementi del brand
Gli elementi del brand sono le informazioni, visive o verbali, che servono in
prima istanza ad identificare e differenziare il prodotto. Quali che siano (nome,
slogan…), essi svolgono tuttavia anche altre funzioni oltre quella segnaletica:
soprattutto, nel nostro modello, sono un importante strumento per creare
consapevolezza del brand e stabilire nella mente del consumatore associazioni
forti, positive, uniche a questo. In questo senso, gli elementi del brand vanno
scelti opportunamente tenendo conto di alcuni importanti criteri: memorizzabilità
(per raggiungere elevati livelli di awareness è importante che il brand catturi
l’attenzione del consumatore e sia facile da ricordare), significatività (contribuire
alla formazione di associazioni inerenti alla categoria di appartenenza e agli
specifici attributi e benefici della marca), piacevolezza (prescindendo dai primi
due criteri, è auspicabile che gli elementi siano intrinsecamente piacevoli per il
consumatore che ci si rapporta). Oltre a questi aspetti, fondamentali per la
costruzione del valore della marca, ne vanno segnalati altri tre che
consentiranno, qualora assecondati, di preservarlo da future minacce o di fare
su di esso leva in caso di opportunità. In questo senso, gli elementi del brand
dovrebbero adempiere anche ai criteri di trasferibilità (in senso geografico e a
livello di categorie di prodotto), adattabilità (nel tempo, per incontrare le
evoluzioni
del
consumatore
o
semplicemente
aggiornare
la
marca),
proteggibilità (dal punto di vista legale e concorrenziale, difendendolo da facili
imitazioni). Queste linee guida sono utilmente applicabili a tutti i brand element
che l’impresa sceglierà di utilizzare per caratterizzare efficacemente la marca.
Il nome rappresenta una scelta fondamentale, per la sua capacità di catturare in
modo conciso i valori principali del brand e per la difficoltà di una sua
successiva modifica. Si tratta spesso di un compromesso nel tentativo di
raggiungere elevati livelli di semplicità, originalità, significatività. Il processo di
scelta del nome è infatti molto difficile, anche e soprattutto per il grande e
crescente affollamento di marche, e richiede sistematicità oltre che creatività.
Un ulteriore e recente elemento di criticità è l’esportabilità del brand name sul
web, quindi la disponibilità di URL (Uniform Resource Locators, o nomi dei
43
CAPITOLO 2
domini) efficacemente utilizzabili dalla marca per i suoi obiettivi di presenza
online.
I loghi e simboli, analogamente al nome del brand, sono importanti per la loro
capacità di sintesi, incorporando graficamente i valori che l’impresa vuole
trasmettere all’esterno. Sono versatili, utilizzabili per la maggior parte delle
comunicazioni dell’impresa e aggiornabili nel tempo con più facilità rispetto al
nome della marca. Un particolare tipo di simbolo è il personaggio: grazie alla
capacità di destare attenzione, questo può essere uno strumento importante
per creare brand awareness. La sua indipendenza dagli attributi più specifici del
prodotto ne consente l’applicabilità anche in categorie diverse da quella di
appartenenza, arrivando talora a dischiudere persino interessanti opportunità di
licensing.
Gli slogan sono delle frasi molto brevi, capaci di comunicare efficacemente al
destinatario il significato di un brand. Per la loro forma, concisa ma più estesa
del nome o del logo della marca, sono più duttili e possono contribuire in
maniere diverse alla costruzione della brand equity: creando consapevolezza
del brand name o della categoria di prodotto, o più frequentemente rafforzando
il posizionamento desiderato. Sono strettamente collegati alla comunicazione
pubblicitaria e possono costituirne utili sunti. Se composti in musica, assumono
la denominazione di jingle.
I ruoli del packaging nella creazione della brand equity sono molteplici: dal
punto di vista identificativo del brand, il design di una confezione e gli altri suoi
elementi visivi, come il colore, diventano alcune volte un elemento
preponderante, rafforzando la consapevolezza della marca; queste sue
caratteristiche, unite ad altre sue funzioni come la protezione e la facilitazione di
consumo del prodotto, ne influenzano anche l’immagine.
Nelle decisioni sugli elementi da utilizzare per caratterizzare il brand, oltre ai
criteri generali esposti, un importante obiettivo da raggiungere è anche la loro
utile interazione, affinché i valori da comunicare emergano coerenti e rafforzati
dalle singole componenti identificatici. La scelta degli elementi del brand
costituisce, oltre che un mezzo per costruirne il valore nel suo momento
44
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
costitutivo, la premessa perché si possano successivamente sviluppare al
meglio i più adeguati programmi di marketing.
Integrazione del brand all’interno di programmi e attività di marketing
Sebbene le note “4P” del marketing mix (Product, Price, Place, Promotion)
rappresentino un modo riduttivo di comprendere la complessità dei moderni
programmi di marketing, rappresentano quattro direttrici basilari lungo le quali
l’impresa può muoversi per portare valore al proprio brand. Più che un
paradigma, pertanto, possiamo considerarle come un’utile semplificazione del
ventaglio di strumenti a disposizione per aumentare, secondo il modello CBBE,
la consapevolezza del brand e creare associazioni forti, positive, uniche ad
esso. L’obiettivo delle prossime righe, inoltre, non è di sviscerare tutte le
possibili strategie aziendali, bensì di far intuire lo stretto rapporto tra le scelte di
marketing dell’impresa e il valore del brand, secondo il modello CCBE.
Dal punto di vista della brand awareness, la principale leva di marketing da
attivare è la comunicazione: la frequente esposizione alla marca aumenta la
consapevolezza che il consumatore ha della medesima. La pubblicità (nei suoi
mezzi della televisione, radio, stampa, affissioni…) ha ovviamente un ruolo
principe nel mix di comunicazione: si tratterà, preposto un dato obiettivo di
consapevolezza da raggiungere, di identificare media e veicoli più idonei a
trasmettere il messaggio della marca e determinare la quantità e le modalità
delle esposizioni. Anche gli altri strumenti di comunicazione, come la
sponsorizzazione, la promozione, il packaging inteso nella sua dimensione
comunicativa possono essere utili per aumentare la brand awareness e portare
quindi valore alla marca grazie a questa leva. L’utilizzo di questi mezzi ha
ovviamente anche un risvolto in termini di immagine, come vedremo.
Gli obiettivi di brand image sono fondamentali quanto critici. Affinché l’immagine
sia omogenea ed aderente a quella desiderata, come già asserito in apertura di
capitolo, è fondamentale che tutte le azioni, di marketing e più in generale
aziendali, siano coerenti e integrate. L’impresa, infatti, ha una grande varietà di
45
CAPITOLO 2
modi e strumenti per creare associazioni forti, positive, uniche. Si tratterà di
elaborare ed integrare le migliori strategie per cogliere queste opportunità.
In termini di prodotto, è banale evidenziare come la qualità dei suoi attributi fisici
e la sua capacità di soddisfare i bisogni e le aspettative del consumatore
abbiano dei risvolti in termini di positività delle associazioni alla marca che lo
distingue. La personalizzazione secondo le richieste del cliente, e più in
generale le scelte di prodotto che partono dalla necessità di intraprendere con
esso una relazione profonda, sono esempi di opzioni strategiche scelte dalle
imprese per portare valore al brand.
Le politiche di prezzo hanno l’intrinseca responsabilità di creare una delle
associazioni più forti nella mente del consumatore: il livello di prezzo colloca il
prodotto in modo esplicito all’interno della propria categoria, e costituisce
spesso un indicatore di qualità per il consumatore. Anche la percezione della
variazione di prezzo ha dirette conseguenze nelle percezioni del consumatore
rispetto al brand. Va tuttavia notato, come linea guida generale, che è
opportuno che i consumatori giudichino il prezzo ragionevole rispetto alla
qualità percepita del prodotto: le strategie di pricing sono pertanto, in misura
variabile, vincolate da quelle di prodotto.
Gli attori sul canale distributivo hanno un’influenza importante sulla percezione
che il cliente finale ha del brand commercializzato, concorrendo, con la propria
immagine e le proprie scelte, alla formazione delle associazioni alla marca.
Anche per questo motivo, alle scelte iniziali di tipologia di canale (diretto,
indiretto o entrambi), si affiancano attività di trade marketing che tra i propri
obiettivi hanno anche quello di rendere coerenti e sinergiche le azioni di tutti gli
attori del canale.
Le strategie di comunicazione hanno un peso molto rilevante per le dimensioni
di forza, positività e unicità delle associazioni. Queste si formano anche e
soprattutto sulla scorta di ciò che l’impresa comunica del suo brand all’esterno.
Si guardi, a titolo di esempio, alla “classica forma” del messaggio pubblicitario:
perché il brand ne tragga valore, innanzitutto, il “nodo nella memoria” creato
dovrà essere ad esso associato con forza; e questo dovrà aver veicolato una
caratteristica del prodotto o della marca direttamente collegabile ad un beneficio
46
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
rilevante per il consumatore: solo con questi requisiti la ripetuta esposizione al
messaggio potrà tradursi in un atteggiamento positivo verso la marca e in un
successivo acquisto.
Sfruttamento delle associazioni secondarie
Il modello CBBE individua nella cosiddetta “conoscenza secondaria” il terzo e
ultimo strumento a disposizione dell’impresa per portare valore al brand. Si
tratta di un approccio “indiretto”, che mira a legare la marca ad altre entità già
presenti nella mente dei consumatori con caratteristiche proprie. Questo
consentirà al brand di beneficiare di associazioni che ancora non possiede:
infatti, se il consumatore ha una precisa conoscenza di una certa entità,
identificando un legame tra il brand e questa può dedurre che alcune delle
associazioni che la caratterizzano sono proprie anche del brand. Queste
associazioni si dicono secondarie e l’impresa, volgendosi all’esterno, ha in
potenza infinite entità con cui stabilirle; andranno valutate con il criterio della
forza dell’effetto esercitato dal legame, prevedibile grazie a tre indicatori:
consapevolezza e conoscenza dell’entità (la familiarità del consumatore con
l’entità è il prerequisito dell’utilità del legame), significatività della conoscenza
dell’entità (dovrà esserci una connessione utile per il brand) e trasferibilità della
conoscenza dell’entità (in che misura le associazioni all’entità riusciranno ad
estendersi al contesto del brand). Il ricorso a questo approccio può rivelarsi
prezioso, soprattutto nei casi in cui le associazioni esistenti non godano di
adeguata forza, positività, unicità. Inoltre, il concetto di trasferimento della
conoscenza è basilare nell’ambito della predisposizione di strategie di
estensione della marca.
Una tipica associazione secondaria utilizzata è quella con l’impresa stessa: si
cercherà di far ricadere sul brand le opinioni, gli atteggiamenti e le associazioni
proprie dell’impresa produttrice. Nelle prossime pagine si comprenderanno le
logiche sottostanti al portafoglio di marche e le scelte di utilizzo del brand
aziendale.
Il paese d’origine, e più in generale le aree geografiche, sono altre entità
spesso utilizzate per identificare e differenziare il brand: molti paesi hanno
47
CAPITOLO 2
tradizioni consolidate nell’ambito di alcune categorie di prodotti, così le imprese
hanno buon gioco nel legare la propria immagine al paese di provenienza. Si
pensi all’elettronica giapponese o ai vini francesi, o si guardi più facilmente
proprio al nostro paese: il paradigma del Made in Italy è una delle leve più
importanti da attivare per imprese appartenenti alle categorie della moda o del
cibo, e viceversa molte aziende americane (Levi’s, Timberland) hanno proprio
in Italia puntato molto sulla loro “americanità”. Se nei mercati interni le strategie
che legano il brand al paese d’origine agiscono sulla leva del patriottismo e
della coscienza comune dei propri valori, su quelli esterni le medesime strategie
puntano sull’appeal di questi stessi valori: come detto all’inizio del lavoro, i
luoghi geografici possono in questo senso considerarsi dei veri e propri brand.
Si è già detto come il canale distributivo abbia un ruolo decisivo non solo in
termini di erogazione dell’offerta dell’impresa: l’immagine del distributore, e in
particolare del dettagliante, può influire in modo sostanziale su quella del
produttore e dei suoi brand. L’assortimento, le politiche di prezzo e le altre
scelte commerciali, specie se rafforzate da pubblicità e promozioni, creano nella
mente del consumatore un’immagine precisa del distributore, costituita da
associazioni proprie, che questi potrà estendere alle marche commercializzate.
L’esigenza di adeguati piani di trade marketing, che assicurino comunanza di
obiettivi tra i due attori, è successiva alla primaria scelta di quali distributori
utilizzare per commercializzare i propri brand, cioè con quali attori del canale
commerciale stabilire delle, più o meno forti, associazioni secondarie. Un tipico
criterio applicato è quello della coerenza tra l’immagine desiderata e quella del
distributore scelto, che porta, per esempio, i brand prestigiosi nei negozi
esclusivi e le marche che puntano sulla convenienza tra gli scaffali delle catene
mass-market.
Questi tipi di associazione secondaria sono basati su legami tra il brand ed
entità considerabili di esso sorgente; ma si possono anche creare legami più
“artificiali”, con entità non naturalmente collegabili alla marca: le celebrità sono
spesso utilizzate come testimonial di prodotti, facendo leva sulla loro notorietà,
credibilità e cercando di creare nel consumatore associazioni riferibili, per
esempio, alle categorie del “consumatore tipo”. La strategia di celebrity
48
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
endorsement, tuttavia, va valutata attentamente: una star che si lega a troppi
brand, se non perde il suo potere di persuasione, può comunque sfocare la sua
immagine e il suo significato in termini di associazioni trasferibili; anche la
sintonia tra la celebrità e il prodotto va valutata, o ricercata, con attenzione;
vanno infine ponderati alcuni rischi: il personaggio, proprio per la sua notorietà,
potrebbe sottrarre attenzione al brand; ancora, un improvviso calo di popolarità
potrebbe minare il suo contributo alla marca o addirittura cambiarne il segno.
Per questi motivi, i testimonial vanno prima scelti con cura e poi valorizzati
all’interno di una collaborazione che ne sfrutti al meglio la notorietà e le
associazioni trasferibili alla marca.
Anche il marketing degli eventi è una leva da utilizzare per creare associazioni
secondarie: ogni evento sportivo, musicale, culturale è caratterizzato da proprie
associazioni che potrebbero trasferirsi al brand che vi si associasse. Questo
principio è alla base dei programmi di sponsorizzazione. Anche le fonti
istituzionali sono utilmente attivabili, per conferire ad un brand affidabilità e
credibilità: si pensi ai marchi di qualità emessi da organizzazioni di esperti.
Il trasferimento delle associazioni è il concetto alla base di alcune tipologie di
alleanze di marca: la più discussa in letteratura, il co-branding, cioè l’utilizzo
congiunto di due marche per commercializzare un prodotto, verrà descritta nel
paragrafo conclusivo del capitolo; alcune imprese decidono di associare le
proprie marche in iniziative di comunicazione, per fare leva, oltre che sulle
rispettive associazioni, anche su quella del partner. Il joint advertising, per
esempio, è la pubblicità congiunta di due marche, spesso di settori differenti,
che si uniscono nello stesso messaggio (spot televisivo o radiofonico, annuncio
su carta stampata, ecc.) per ottenere benefici sinergici: fatta salva la specificità
degli obiettivi (che potranno, per esempio, contemplare anche il guadagno di
awareness), ciascuna impresa cerca di trarre vantaggio dalle associazioni
dell’altra. L’obiettivo dei singoli brand è quello di rafforzare le rispettive
immagini, qualora ci sia perfetta coerenza tra le due, o rinnovarle, arricchendole
con le associazioni primarie dell’altra. Un’altra alleanza di marketing piuttosto
tipica è la joint promotion: due o più marche note collaborano a livello
promozionale, facendo leva ciascuna sul valore dell’altra per aumentare il
49
CAPITOLO 2
volume di vendita: Mac Donald’s anima spesso il proprio menu per bambini con
immagini dai più recenti film Disney, che dal canto suo trova un canale di
comunicazione efficace e coerente con la propria immagine. Nonostante questa
tipologia di accordo sfrutti più il capitale di awareness che quello di image del
brand partner, la coerenza di immagine è il prerequisito di attuazione della
strategia; inoltre, le associazioni specifiche di ciascuna marca possono, specie
se l’alleanza si stende su un periodo più lungo o si rinnova nel tempo,
estendersi anche in questo caso all’altra.
Anche il licensing fa leva sullo sfruttamento delle associazioni secondarie:
questa strategia consiste in accordi contrattuali per l’utilizzo di nomi, loghi,
personaggi, ecc., di altre marche per commercializzare i propri brand, dietro
pagamento di un compenso. Un’impresa, di fatto, affitta la marca di un'altra, con
tutto il suo capitale il termini di brand awareness e brand image, per creare
valore per il proprio brand. Si tratta di una modalità molto veloce di costruzione
del valore per l’impresa licenziataria; per il licenziante, del resto, è una ghiotta
occasione per monetizzare il valore del proprio brand. È fondamentale
comprendere che il valore per il licensee si crea, ma non si trasferisce dal
licensor. Quest’ultimo, anzi, dovrà sempre considerare i risvolti dell’operazione
in termini di propria brand equity oltre che di profitti monetari di breve periodo:
nella misura in cui il licenziante riuscirà a incrementare la notorietà e rafforzare
l’immagine del proprio brand, l’operazione di licensing sarà proficua sotto il
duplice aspetto reddituale e di brand equity; viceversa, nel caso di politiche
meno accorte, l’abbaglio del ricavo immediato potrebbe tradursi in una
dispersione, nel medio-lungo periodo, del valore della marca. Per il licenziatario,
il rischio principale della strategia è, per certi versi, analogo a quello denunciato
parlando dei testimonial: se il brand ceduto in licenza è oggetto di una
popolarità temporanea o derivante da “fattori moda” non destinati a perdurare
nel tempo, ancorare unicamente ad esso i propri obiettivi di vendita di lungo
periodo potrebbe rivelarsi una scelta incauta.
In chiusura di paragrafo e di parentesi sulla strategia di licensing, si ammetta
un’osservazione rispetto ai modelli di brand equity analizzati nel capitolo
precedente. Si è detto che il licensing, dal punto di vista del licenziatario, si può
50
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
senz’altro intendere come uno sfruttamento del valore della marca. Intendendo
questo nelle determinanti del modello di Keller, brand awareness e brand
image, bene si intende come dal licenziante venga concesso, dietro compenso,
lo sfruttamento del capitale di consapevolezza e di immagine della marca. Se si
volesse applicare alla strategia il modello di Aaker, invece, resterebbe meno
limpido come il licenziatario sfrutti, per esempio, la leva della fedeltà alla marca
o della qualità percepita, dipendenti almeno in una certa misura dalla natura del
prodotto commercializzato oltre che dai risultati già ottenuti dal brand. Il modello
della Customer-Based Brand Equity di Keller, pertanto, che prosegue nella
trattazione nel paragrafo successivo, si conferma maggiormente spendibile di
quello di Aaker.
2.3 CRESCITA E SOSTEGNO DELLA BRAND EQUITY
2.3.1 Le dimensioni del branding
Un’adeguata definizione del posizionamento e dei valori del brand è la base
iniziale su cui costruirne il valore; un’efficace programmazione e attuazione dei
programmi di marketing riusciranno poi a far conseguire alla marca posizioni di
leadership, anche mediante lo sfruttamento di associazioni secondarie. Una
volta che il brand sia riuscito ad affermarsi come solido, tuttavia, la gestione e
capitalizzazione del valore raggiunto diviene una questione critica, e per questo
da affrontare, innanzitutto, con consapevolezza: l’impresa deve mostrarsi
capace di conoscere appieno le dimensioni del contesto in cui opera,
comprenderne pertanto i cambiamenti nel tempo (in primis le esigenze e le
aspettative del consumatore) e le specificità nello spazio (aree geografiche,
segmenti di mercato e culture da servire diversamente). L’impresa deve essere
anche consapevole del proprio brand: il monitoraggio della sua performance
economica e concorrenziale, come spiegato, è fondamentale per avere sempre
sotto controllo lo stato attuale del brand. La consapevolezza dell’interno e
51
CAPITOLO 2
dell’esterno, quindi, costituisce la premessa di un brand management dinamico
ed efficace.
Si è detto come il branding sia un’attività complessa e da intendere, di fatto,
come l’insieme delle azioni che contribuiscono, a vario titolo, a cambiare il
brand nella mente dei consumatori. Per strategia di branding, tuttavia, si
intende, nella letteratura di marketing, un momento più specifico e
fondamentale nella gestione del valore della marca. Delineare una strategia di
branding, infatti, significa individuare i principi guida relativi agli elementi del
brand da applicare ai vari prodotti offerti dall’azienda: in termini pratici, si
sceglieranno quali nomi, loghi, simboli siano opportuni per quali prodotti.
Tuttavia, come il brand è più di un segno distintivo, così una strategia di
branding è più che una mera assegnazione: si tratterà di determinare con quali
valori permeare i prodotti assegnati, quale senso dare all’offerta e in che modo
farla percepire dal consumatore.
Uno strumento utile sia a scopo gestionale che di comprensione delle
dimensioni della strategia di branding è la matrice brand-prodotto20: si tratta di
uno schema che presenta insieme le marche (nelle righe) e i prodotti (nelle
colonne) offerte dall’impresa. Nelle righe si leggeranno tutti i prodotti
commercializzati per ciascuna marca; nelle colonne, invece, si leggeranno, per
ciascuna categoria di prodotto, i brand utilizzati per competere, cioè i vari
portafogli di brand a livello di prodotto. Ogni colonna della matrice corrisponde
pertanto ad un brand portfolio, che dovrà essere giudicato in base al suo
montante totale di valore. Per massimizzare la brand equity, è fondamentale
che ciascuna marca non danneggi le altre: che ciascun brand quindi, attraendo
e servendo uno specifico segmento di consumatori, contribuisca al valore
collettivo del portafoglio senza togliere valore agli altri.
20
KELLER, K. L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea
52
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
Fig. 2.1: La matrice brand-prodotto
prodotti
marche
Fonte: Adattato da KELLER, K. L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo
del brand, Egea._______________________________________________________________
Le decisioni di branding hanno una stretta relazione con quelle di assortimento:
una linea di prodotti (l’insieme di prodotti appartenenti alla stessa categoria)
potrà essere commercializzata con uno o più brand; in generale, guardando alla
matrice nel suo complesso, si scopre l’equilibrio dell’offerta tra l’assortimento di
prodotti (product mix) e quello di brand (brand mix). La matrice brand-prodotto è
uno strumento utile ma non sufficiente per la comprensione della complessità di
alcune strategie di branding: tuttavia, cattura concettualmente e visivamente le
due dimensioni basilari di qualunque strategia: l’ampiezza e la profondità. È
utile presentare questi due temi perché costituiscono da un lato un modo di
comprendere il rapporto tra scelte di assortimento e di branding, e dall’altro dei
parametri con cui misurare opzioni strategiche anche molto complesse.
L’ampiezza di una strategia di branding fa riferimento al numero e alla natura
dei diversi prodotti associati alle marche offerte da un’impresa21. Le due
principali decisioni da assumere riguardano il numero di linee di prodotti e le
varianti all’interno di ciascuna linea. Quanto alla prima, l’impresa dovrà valutare
21
KELLER, K. L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea.
53
CAPITOLO 2
attentamente da un lato l’attrattività di ciascuna categoria di prodotto (basandosi
su criteri come il tasso di espansione del relativo mercato, il potere dei
competitor reali e potenziali…) e dall’altro le competenze e gli obiettivi strategici
interne all’impresa stessa. Una volta deciso di entrare in una certa categoria di
prodotto, se ne dovranno scegliere le modalità in termini di prodotto, definendo,
considerando ancora una volta dalle competenze dell’impresa, il ruolo e il
potenziale di mercato di ciascun articolo.
La profondità di una strategia di branding fa riferimento al numero e alla natura
dei diversi brand commercializzati nella classe di prodotti in cui l’azienda
opera22. Il principio base delle decisioni è la copertura del mercato, che dovrà
essere massimizzata facendo in modo che i brand del portafoglio si
sovrappongano il meno possibile: la situazione ottima, in termini di efficacia ed
efficienza del portafoglio di marche, è quella in cui tutti i clienti sono serviti
senza essere contesi dai singoli brand.
Se il ruolo canonico di una marca all’interno di un portafoglio è, pertanto, quello
di attrarre un segmento di mercato non coperto dalle altre, l’ottica complessiva
può far compiere all’impresa scelte dominate da altri obiettivi, che assegnano
anche altri ruoli ai brand: per esempio, i flanker brand creano elementi di parità
con la concorrenza, affiancando le marche principali e consentendo loro, grazie
alla loro azione di contrasto degli elementi di differenziazione dei concorrenti, di
mantenere costante il loro posizionamento desiderato. I brand cash cow,
nonostante la recessione delle loro vendite, sono tenuti nel brand mix perché
garantiscono comunque dei profitti senza compiere sforzi di marketing: poiché il
ritirarli dal mercato non dirotterebbe automaticamente i clienti verso altri brand
commercializzati dall’impresa, è talora conveniente mantenerli nel portafoglio. I
brand di ingresso di fascia bassa e i brand di prestigio di fascia alta cercano,
mantenendo
alcune
delle
associazioni
delle
marche
già
affermate,
rispettivamente di attrarre clienti di un altro segmento nell’orbita del brand
principale e di dare credibilità alla famiglia di brand. Altri ruoli assegnabili alle
marche sono secondari, ma preziosi in un’ottica di portafoglio: aumentare la
presenza negli scaffali e con essa il potere verso i distributori; attrarre i
22
Ib.
54
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
consumatori sensibili alla varietà; spingere alla competitività all’interno
dell’azienda; ricercare economie di scala nell’ambito della pubblicità, delle
vendite, della distribuzione.
Si è presentata la definizione del portafoglio di marche come un momento
successivo alle decisioni di prodotto. Tuttavia, al contrario è spesso il brand a
pilotare le scelte di assortimento, determinando quali prodotti, in virtù della loro
coerenza con la sua evoluzione, siano adatti a farne parte. Per questo motivo si
parla di strategie di crescita della marca, anche e soprattutto per indicare scelte
che incidono sull’offerta e sulle scelte di prodotto dell’impresa. Del resto, si è
abbondantemente argomentato come la marca costituisca, con la coerenza nel
tempo dei suoi valori, il passato e il futuro del prodotto. Nel capitolo finale di
questa prima parte, dedicato alla strategia di estensione della marca, l’aspetto
di “guida” del brand emergerà in modo inequivocabile. Queste considerazioni
non fanno che confermare come marca e assortimento abbiano oggi una
relazione indissolubile: la natura e le dinamiche dell’una non possono essere
studiate senza piena coscienza dell’altro, e viceversa.
55
CAPITOLO 2
2.3.2 L’architettura di branding
La matrice brand-prodotto ha il pregio di far comprendere lo stretto rapporto che
intercorre tra i brand e l’assortimento dell’offerta dell’impresa, inquadrandolo in
uno schema che, concettualmente e visivamente, ne fa un sunto in termini di
ampiezza e profondità. Nonostante l’universalità di queste due dimensioni,
tuttavia, si tratta di uno strumento preliminare, utile a definire il contorno
dell’attività di branding e i suoi tratti fondamentali piuttosto che il suo complesso
articolarsi. In altre parole, se consente di intuire cosa fa l’impresa, si rimane
piuttosto all’oscuro su come lo faccia. Quali elementi del brand incorpora un
certo prodotto? Si tratta di elementi condivisi anche da un prodotto di un’altra
categoria? Ancora, l’impresa manifesta mai il suo nome nella sua offerta? E
dove? Per rispondere a queste domande, si deve fare riferimento ad un altro
strumento concettuale, la gerarchia dei brand. Si tratta di una sintesi della
strategia di marca che analizza i tratti comuni, in termini di brand element, dei
prodotti commercializzati, per ricavarne una struttura per livelli gerarchici: ogni
prodotto viene quindi contraddistinto in base al numero e alla combinazione dei
brand element che presenta, e lo colloca in rapporto agli altri prodotti. Si può
pensare a diversi sistemi di codifica dei livelli gerarchici del brand, ognuno dei
quali certamente fallisce in parte nel catturare la complessità dell’architettura di
alcune strategie di branding. Kapferer individua sei livelli gerarchici della marca
e li fa corrispondere a sei differenti modelli e strategie di gestione del rapporto
marca-prodotto23:
Brand di prodotto: con questa strategia si assegna un nome esclusivo ad un
unico prodotto, per poter dare ad esso anche un unico posizionamento. Il
portafoglio di brand, pertanto, corrisponde al portafoglio di prodotti, perchè c’è
una corrispondenza biunivoca tra i due. Il caso tipico è Procter & Gamble:
l’impresa ha fatto del one brand-one product la sua filosofia di branding,
essendo presente con svariate marche in molte categorie di prodotto, ciascuna
con uno specifico e ben distinto posizionamento e senza mai presentare il suo
23
KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra.
56
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
nome. Si tratta di un paradigma a suo modo “estremo”, che punta, nel caso
l’impresa sia presente in un solo mercato, a diventare leader nella categoria di
prodotto senza legare il nome dell’impresa a nessuno dei segmenti che serve.
Qualora l’impresa voglia entrare in un nuovo segmento, magari in potenziale
ma incerta espansione, lo farà con un nuovo brand-product senza il rischio di
compromettere i brand esistenti o quello aziendale. L’impresa, non mettendo
mai in gioco il proprio nome, ha per questo una libertà pressoché totale di
entrare in nuovi mercati, perché gli eventuali fallimenti non minerebbero la
credibilità dell’impresa e con essa dei restanti brand del portafoglio. Dalla
creazione del sapone Ivory, nel 1882, Procter & Gamble è entrata con marche
note in svariati mercati, dal detersivo (tra le altre Dreft, Tide, Dash) al dentifricio
(Crest) agli snack (Pringles). Questa strategia dà al produttore anche dei
vantaggi nel suo rapporto con i distributori: lo spazio che questi destina
all’impresa dipende dal numero di forti marche che questa presenta; se una
marca si propone sul mercato con molti prodotti, il dettagliante soddisferà la sua
esigenza di tenere il brand tra gli scaffali trattando solo alcuni di questi; mentre
nel caso di un brand per prodotto, l’impresa riuscirà a spuntare più spazio a
livello di portafoglio.
A questi vantaggi si contrappongono degli aspetti negativi piuttosto evidenti,
innanzitutto in termini economici: ogni lancio di un nuovo prodotto è
l’introduzione sul mercato di una nuova marca, molto costosa in quanto richiede
notevoli investimenti in pubblicità e promozioni. L’impresa dovrà anche fare i
conti con le resistenze dei distributori, poco propensi a tenere sugli scaffali delle
marche dal futuro incerto perché sconosciute al consumatore. Inoltre, se
l’indipendenza tra marche-prodotti evita i rischi di associazioni secondarie
negative, annulla anche i potenziali benefici per i brand dal successo di uno di
questi. Se una marca del portafoglio riscuote molto successo sul mercato, le
altre non ne beneficeranno perché entrambe si presentano senza riferimenti
alla loro origine comune. Va evidenziato che l’impresa che si cela dietro i brand
commercializzati è invece ben nota ai distributori, che pertanto saranno sensibili
ai successi e fallimenti delle marche del produttore. La saturazione di molti
mercati rende infine sempre più difficoltoso il lancio di nuove marche.
57
CAPITOLO 2
Va osservato che il requisito di non sovrapposizione delle marche, già spiegato
descrivendo il concetto di brand portfolio, è qui molto pressante, in quanto
assunto stesso dell’attuazione della strategia, qualora si presentino più marche
nella stessa categoria. Procter & Gamble cominciò a proporre più marche
all’interno della stessa categoria proprio in seguito all’aumento delle vendite
globali che ebbe nel settore dei detersivi grazie all’introduzione del brand Cheer
come alternativa al già di successo Tide.
Fig. 2.2: Brand di prodotto
Impresa X
Brand A
Brand B
Brand C
Brand D
Prodotto A
Prodotto B
Prodotto C
Prodotto D
Posizionamento
A
Posizionamento
B
Posizionamento
C
Posizionamento
D
_____________________________________________________________
Brand di linea: si utilizza un nome per prodotti complementari, che fanno leva
sugli stessi tratti condivisi. Si tratta di estendere il concetto di prodotto ad altri a
questo complementari (si tornerà su questa modalità nel prossimo capitolo) o di
lanciare nello stesso momento un’intera linea (la linea Studio Line di L’Oreal,
per esempio, composta da gel, spray, ecc., si proponeva ai giovani come la
soluzione per modellare da soli i propri capelli e per crearsi un look in
autonomia). Questa strategia rafforza il potere di vendita del brand creando
un’immagine molto forte, unitaria e condivisa pienamente dai singoli prodotti
58
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
della linea; l’introduzione di un nuovo prodotto non richiede grossi sforzi di
lancio, inserendosi in una linea già nota in tutti i suoi tratti e già trattata dai
distributori. La necessaria cautela da utilizzare è il rispetto dei limiti naturali
della linea di prodotto, che non dovranno essere dimenticati e valicati nelle
estensioni.
Fig. 2.3: Brand di linea
Brand di linea
Prodotto A
Prodotto B
Prodotto C
Brand di gamma: questa strategia associa un solo nome ed un’unica promessa
ad un gruppo di prodotti che condividono un’area di competenza. È un modello
di architettura di branding utilizzato in molti settori, come in quelli alimentare,
tessile, cosmetico, industriale: esempi di brand di gamma sono Benetton,
Lacoste, Campbell. Il brand viene utilizzato per commercializzare più prodotti
che condividono un unico concetto, un set di valori sui quali l’impresa si
focalizzerà nelle attività di comunicazione, creando un’immagine propria del
brand della quale beneficeranno tutti i prodotti della gamma. In alternativa, è
possibile concentrarsi su uno o alcuni dei prodotti più rappresentativi della
gamma, capaci di comunicare al meglio l’essenza del gruppo: analogamente,
anche gli altri ne ricaveranno benefici. Nel caso di nuovi prodotti della stessa
categoria e coerenti con il concetto sottostante al gruppo, l’impresa potrà
commercializzarli con la stessa marca, beneficiando dei precedenti sforzi di
marketing e riducendo così i costi di lancio. Un possibile problema di questa
strategia è la poca trasparenza dell’offerta nel caso in cui la gamma sia molto
estesa: raggruppare sotto un unico brand una grande quantità di prodotti “in
59
CAPITOLO 2
modo disordinato” può far perdere ad esso significato a causa della difficoltà, da
parte del consumatore, di comprendere l’essenza la marca. Si può ovviare a
questo problema strutturando l’offerta per linee: raggruppando cioè i prodotti
della gamma secondo opportuni criteri, come le caratteristiche del prodotto o i
benefici per il consumatore, e commercializzandoli in maniera coerente ma
distinta, per esempio con packaging di colore diverso.
Fig. 2.4: Brand di gamma
Brand gamma
Concetto
del
brand
Prodotto o
linea A
Prodotto o
linea B
Prodotto o
linea C
Prodotto o
linea D
Brand ombrello: con questo tipo di architettura, un unico brand sostiene i
prodotti in mercati diversi, e ciascun prodotto ha la propria comunicazione e la
propria promessa. Yamaha è un brand forte e credibile nel settore motociclistico
così come in quello degli strumenti musicali; Philips commercializza con il suo
marchio hi-fi, computer, altra elettronica di consumo e componenti elettrici. Tutti
i prodotti possono fare leva sulla notorietà dello stesso brand e godere di
economie di scala a livello internazionale; anche nel caso di entrata in nuovi
mercati, l’elevato livello di brand awareness potrebbe rivelarsi preziosissimo per
penetrare distributori e consumatori senza il dispendio di risorse necessario a
costruirla. La notorietà del brand può addirittura essere sufficiente ad avere
successo in settori piccoli o dove sono richiesti pochi sforzi pubblicitari e di
marketing in generale. Va osservato che all’entrata in un mercato competitivo,
60
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
l’impresa troverà una molteplicità di marche specializzate che la forzeranno a
dimostrare la sua superiorità: se la brand awareness consentirà probabilmente
all’impresa un’entrata più agevole nel mercato, è da verificare l’effettiva
sostenibilità della sfida. L’impresa dovrà mettere sul mercato competenze reali,
specifiche e risorse dedicate. Alcuni brand sono dotati di un’immagine
accattivante e associazioni spendibili in molte categorie di prodotto, e si
prestano pertanto ad essere utilizzati anche in settori merceologici molto
eterogenei. Il rischio della strategia risiede nella difficoltà di trovare un
compromesso tra l’indipendenza delle singole divisioni (in parte necessaria
perché derivante dalla specificità dei mercati) e il comune codice di espressione
da rispettare. Nel giusto equilibrio tra le due istanze sta la capacità delle singole
divisioni di portare il proprio contributo positivo all’immagine del brand, e con
essa al suo valore.
Fig. 2.5: Brand ombrello
Brand
ombrello
Prodotto A
Prodotto B
Prodotto C
Prodotto D
Comunicazione
della divisione A
Comunicazione
della divisione B
Comunicazione
della divisione C
Comunicazione
della divisione D
Brand sorgente: è una strategia simile a quella ad ombrello, con la differenza
che i prodotti hanno il proprio nome e non sono più denominati genericamente.
61
CAPITOLO 2
A prevalere, nell’equilibrio tra i due nomi, è quello del source brand: il nome del
prodotto porta il contributo della sua individualità al servizio del nome del brand
principale, che resta dominante. Un esempio è Yves Saint Laurent con il
profumo Jazz. L’abilità dell’impresa che scelga di perseguire questa strategia
starà, come premessa, nell’avere consapevolezza dei due ruoli; in secondo
luogo, dovrà portare al consumatore due differenti livelli di profondità: il brand di
livello gerarchico più basso arricchirà il significato del brand principale con il
proprio, che deve attrarre il segmento a cui è destinato. Uno degli aspetti più
critici, appunto, è quello del rispetto dell’identità del brand sorgente, che
definisce i confini da rispettare: i nomi del prodotto, per esempio, dovranno
appartenere al campo semantico del brand sorgente. Qualora si voglia dare più
libertà alla marca di livello gerarchico più basso, converrà adottare una strategia
di endorsing brand, che ci si accinge a descrivere.
Fig. 2.6: Brand sorgente
Brand
sorgente
Brand A
Brand B
Brand C
Brand D
Promessa A
Promessa B
Promessa C
Promessa D
Prodotti A
o linea A
Prodotti B
o linea B
Prodotti C
o linea C
Prodotti D
o linea D
Brand endorser: questa strategia può sembrare simile alla precedente, ma ne
sovverte la logica: una marca, detta endorser, “sponsorizza” i brand di prodotto,
62
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
linea, gamma, affiancandosi a questi e aggiungendo la propria notorietà e
credibilità. Il rapporto tra i due soggetti che convivono è pertanto meno stretto
rispetto alla strategia precedente, e consente maggior libertà nella scelta e
gestione del brand subordinato. Questo beneficerà e allo stesso tempo porterà
valore, con la propria immagine, al brand endorser: Nestlè garantisce,
apponendo il suo marchio sulle rispettive confezioni, per i brand Galak,
Nesquik, Nescafè, ecc., e analogamente ne ricava notorietà e associazioni. La
funzione di garanzia del brand, pertanto, è adempita soprattutto dall’endorser,
mentre le altre sono svolte in prevalenza dalle marche più specifiche.
Fig. 2.7: Brand endorser
Brand
endorser
Brand A
Brand B
Brand C
Brand D
Prodotto o
gamma A
Prodotto o
gamma B
Prodotto o
gamma C
Prodotto o
gamma D
Promessa B
O gamma C
Promessa C
Promessa D
Promessa A
Va anche considerata l’ipotesi in cui il brand name di livello gerarchico più
elevato sia quello aziendale: in questo caso l’impresa si espone in prima
persona, compiendo una scelta di segno opposto a quella “Procter & Gamble”
di non comparire mai con propria evidenza sui mercati e utilizzando anzi la
marca come indicatore d’origine.
63
CAPITOLO 2
Fig. 2.8: Gerarchia e funzione del brand
Funzione del brand:
indicatore d’origine
. Brand ombrello (aziendale)
. Brand endorser (aziendale)
. Brand sorgente (aziendale)
. Brand ombrello
. Brand endorser
. Brand sorgente
. Brand di gamma
. Brand di linea
. Brand generico
. Brand di prodotto
Funzione del brand:
differenziazione del prodotto
Fonte: Adattato da Kapferer (2003)
In chiusura di questa analisi sulle possibili architetture di branding, infine, è
importante capire che questi sei modelli non costituiscono per l’impresa delle
alternative tra cui scegliere; sono piuttosto un ventaglio di ipotesi che questa
potrà, di volta in volta in base ai prodotti e mercati, considerare: così, la stessa
marca (specialmente se corrispondente a quella aziendale) potrà fungere da
endorser, ombrello, gamma, ecc., per i diversi prodotti commercializzati
dall’impresa.
Strategie
ibride,
anzi,
daranno
all’impresa
la
possibilità,
spendendo o meno il proprio nome o mischiandolo in maniera diversa ai diversi
brand del proprio portafoglio, di assecondare e rinforzare i posizionamenti dei
singoli prodotti senza sfocare il proprio.
64
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
Proprio in riferimento a questo aspetto, una scelta fondamentale per l’impresa è
quella dei nomi da dare ai brand sotto quello aziendale. Senza addentrarci nel
problema del brand naming, la cui importanza è già stata peraltro descritta, se
ne osservi il ruolo importantissimo all’interno delle strategie di branding:
l’impresa, infatti, oltre al tipo di legame tra sé e i suoi prodotti, dovrà sceglierne
anche la forza, determinandola in un continuum che ha come estremi la totale
dipendenza e la totale autonomia dei prodotti stessi: Dior, per esempio,
chiamando i suoi profumi Diorissimo e Miss Dior li caratterizzò come “variazioni”
sul suo tema; Fiat, invece, che non godeva di un’immagine positiva fuori
dall’Italia, scelse di caratterizzare le sue automobili Tipo, Ritmo, Panda come
tali, e non come “costole del proprio brand”. Rispettivamente, si tratta di
vendere i prodotti tramite il proprio brand o vendere il brand tramite i propri
prodotti. Il brand naming è pertanto un processo che ha risvolti strategici più
estesi di quelli della singola marca da denominare, al punto da essere, per
l’impresa, una variabile da considerare anche nelle scelte di architettura di
branding.
2.3.3 Elaborare una strategia di branding
Nel paragrafo precedente si sono elencate le opzioni strategiche, in termini di
branding, tra le quali l’impresa deve scegliere per commercializzare i propri
prodotti o servizi. Ma come fare per individuare l’architettura giusta da
utilizzare? Quali criteri utilizzare per un branding funzionale? Accordandoci
nuovamente al modello CBBE, l’unico principio universalmente valido, aldilà
delle specificità e delle contingenze, è quello della massimizzazione della brand
equity: dal numero di livelli gerarchici alla condivisione di brand element da
parte dei prodotti, ogni scelta dovrà avere un riscontro in termini di brand
awareness (contribuire quindi a creare consapevolezza nel consumatore) e
brand image (promuovere la formazione di associazioni forti, positive, uniche).
Sulla scorta di questo assunto, Keller identifica quattro decisioni da prendere,
65
CAPITOLO 2
che rappresentano quattro “occasioni” per l’impresa di sviluppo della brand
equity:
Innanzitutto, l’impresa dovrà decidere il numero di livelli della gerarchia del
brand, ispirandosi ad un principio di semplicità: si vedrà come la pratica del subbranding, cioè del combinare una marca esistente e una nuova, sia spesso
utilizzata per introdurre un prodotto; tuttavia, la quantità di informazioni da
fornire al consumatore non deve eccedere il livello ottimale. Un prodotto
commercializzato con più di tre marche (comprensive del modifier, indicatore
del “modello” o versione del “prodotto”) facilmente creerà confusione nella
mente del consumatore, con effetti negativi oltre che benefici dalla quantità di
informazioni ricevute.
Per ciascuno dei livelli nella gerarchia stabilita, l’impresa dovrà decidere il grado
di consapevolezza e le associazioni da creare, seguendo in primo luogo il
principio di rilevanza: è auspicabile che le associazioni create ad un livello siano
rilevanti anche per i livelli gerarchici inferiori, in modo tale che questi possano
beneficiarne. Emergono pertanto come più vantaggiose e maggiormente
estendibili le associazioni più astratte, riferibili ai benefici per il consumatore più
che agli attributi del prodotto. L’impresa dovrebbe cercare di ispirarsi anche ad
un principio di differenziazione: i brand situati allo stesso livello gerarchico
dovrebbero essere il più possibile distinguibili, perché l’offerta risulti chiara al
consumatore e logica agli attori del canale distributivo che dovranno sostenerla.
Questo vale sia per i brand prodotto e i modifier che per i brand di gamma o
ombrello, che strutturano l’offerta a livello più aggregato. Si osservi, inoltre, che
questo punto e i successivi aggiungono ulteriori elementi di criticità alla scelta
precedente e aumentano l’importanza del principio di semplicità: un numero più
elevato di livelli gerarchici moltiplica per l’impresa le scelte da assumere e gli
equilibri da ricercare, con potenziali difficoltà di gestione e insorgere di
problemi.
La terza decisione da prendere è come collegare tra loro brand presenti a livelli
diversi per uno stesso prodotto: qualora il brand di un prodotto sia la
combinazione di elementi già presenti in livelli più elevati della gerarchia, vanno
decise le modalità con cui questi saranno presenti. Il principio di prominenza
66
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
suggerisce che i pesi relativi degli elementi presenti determinano quali siano i
primari e quali i secondari nella percezione del consumatore: per questo motivo,
sono i primari a dover comunicare posizionamento e i principali punti di
differenziazione del prodotto; i secondari, invece, dovrebbero comunicare punti
di parità, ulteriori punti di differenziazione e/o contribuire ad aumentare la
consapevolezza (per esempio tramite l’uso di un certo sfondo). Per l’impresa
che si presenti sul mercato anche con il proprio nome, una questione
fondamentale è come affiancare a questo i brand ai livelli gerarchici inferiori, e
in particolare nei singoli prodotti: ci potrà essere perfetto equilibrio, o la
supremazia dell’uno o dell’altro brand, a seconda delle associazioni che si
vorranno promuovere con maggior forza. Questa scelta influenza anche il
trasferimento di immagine dall’una all’altra entità: come già detto in precedenza,
se l’azienda si spende maggiormente in termini di visibilità per il proprio nome,
le percezioni sul prodotto si estenderanno maggiormente all’impresa che non
nel caso in cui questa si faccia percepire più distante dal proprio prodotto. La
decisione sugli elementi da combinare ha un’evidente relazione con le scelte di
brand endorsing, sebbene, in senso stretto, questa strategia si persegua non
combinando ma affiancando il proprio nome e logo ai brand di livello più basso.
L’ultima decisione riguarda come collegare un brand a diversi prodotti, in una
logica inversa alla precedente: secondo il principio di comunanza, quanto più
numerosi sono gli elementi condivisi dai prodotti, tanto più questi appariranno
legati, analogamente a quanto spiegato rilevando la criticità del brand naming.
Questa scelta, unita alla precedente, è un’opportunità per l’impresa di
razionalizzare il proprio portafoglio di brand agli occhi del consumatore,
rendendo visibili e logiche le relazioni tra gli elementi della propria offerta e
beneficiandone in termini di consapevolezza ed immagine. Queste decisioni, se
prese nella maniera corretta, renderanno l’architettura di branding dell’impresa
efficace (massimizzando il valore del portafoglio di marche) ed efficiente
(minimizzando gli sprechi di risorse dell’impresa e del cliente).
67
CAPITOLO 2
2.3.4 La crisi della marca
In questo capitolo si sono descritte le leve che l’impresa deve attivare per
creare la brand equity; si sono inoltre illustrate le possibilità che essa ha a
disposizione per gestirla: in particolare, in termini architetture di branding
utilizzabili per massimizzare il valore complessivo del patrimonio di marca. Va
tuttavia introdotto un elemento di criticità al modello: il valore della marca, oltre
che crearsi, può anche dissiparsi. Il declino della marca è un fenomeno che
molte imprese si trovano a dover fronteggiare, ed è opportuno avere piena
coscienza degli strumenti e delle modalità secondo cui operare.
Innanzitutto, è fondamentale conoscere i motivi, strutturali o contingentali, che
possono portare il brand a diminuire nel valore. Molti di questi sono infatti
dipendenti (e come tali controllabili) dall’attività di branding dell’impresa, che se
non svolta nella maniera migliore, come descritto in precedenza, può essere,
nel breve ma soprattutto lungo periodo, nociva alla marca. Nei termini del
modello CBBE, finora utilizzato, la leva che cessa di agire positivamente, o
inverte addirittura i suoi effetti sul valore del brand, è quella della brand image:
associazioni positive perdono la propria forza o si creano nel tempo
associazioni negative. Con il tempo, tuttavia, può venire a mancare anche
l’apporto della brand awareness: non tanto in termini di profondità della
consapevolezza, perché difficilmente i consumatori, salvo casi specifici,
cesseranno di ricordare o addirittura riconoscere la marca; quanto piuttosto in
termini di ampiezza della consapevolezza, perché i consumatori potrebbero
pensare alla marca in modo limitativo, destinandola ad un ambito, ad una
situazione o in un’idea troppo circoscritta. Nella pratica, il brand può andare
incontro ad una situazione di crisi, cioè di stagnazione del suo valore, per vari
motivi specifici: coerentemente a quanto argomentato da Aaker nel suo modello
della brand equity, anche Kapferer24 riconosce un primo fattore di declino nella
diminuzione della qualità percepita da parte del consumatore: questa ha uno
stretto rapporto con la qualità intrinseca del prodotto, che l’impresa dovrà quindi
premurarsi di mantenere elevata mediante adeguati controlli e successive
24
KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra.
68
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
modifiche. Un secondo fattore di declino deriva dal rifiuto o incapacità
dell’impresa di fronteggiare i cambiamenti del mercato, che sono continui in
molte delle sue dimensioni: dal punto di vista tecnologico, emergono a volte
introduzioni che offrono miglioramenti tali da costituire veri punti di discontinuità,
che non si possono pertanto ignorare; i gusti e le esigenze del consumatore
sono in evoluzione incessante, tanto che il paradigma della customer
satisfaction resta ad oggi un fondamento che non si può dare per scontato ma
un obiettivo che va continuamente inseguito; l’entrata nel mercato di concorrenti
con proposte forti e credibili, se non mette a repentaglio la leadership con il
tempo raggiunta dal brand, nel migliore dei casi ne muta, almeno in piccola
misura, il posizionamento nella mente dei consumatori. Il paradosso del
posizionamento è quello di variare anche se l’impresa è completamente ferma
[Vescovi, La pianificazione di marketing, 2005, pag. 118]. Un’impresa, per
sopravvivere, deve essere dinamica, e con essa i brand su cui la sua
sopravvivenza si basa. Ci sono fattori di rischio di declino connaturati alle scelte
di branding compiute dall’impresa: per esempio, legare la marca ad un solo
prodotto ancora indissolubilmente le sorti della prima a quelli del secondo; se
l’impresa segue questa strategia, deve rincorrere in modo ancora più
spasmodico le aspettative del consumatore, affinché il suo brand-prodotto non
diventi mai obsoleto ma risponda sempre efficacemente ad esse. Tutti questi
fattori potenziali di declino fanno in senso lato riferimento alla “sfera-prodotto”
dell’attività di branding: e in effetti, la marca è tanto legata al prodotto che
contraddistingue che questo rappresenta una condizione necessaria per il suo
successo. Ma in generale, anche strategie di prezzo, di canale o di
comunicazione errate possono generare effetti negativi sul brand nel lungo
periodo. Come si è già detto, tutte le attività di marketing e aziendali fanno
branding: scelte sub-ottimali, azioni poco efficaci o addirittura erronee
incideranno in misura negativa sul valore del brand nella misura in cui lo
renderanno meno adatto a svolgere le sue funzioni.
Le cause di crisi della marca si sono dimostrate in larga misura controllabili
dall’impresa, e questa potrà evitarne l’insorgere grazie ad una gestione attenta.
Tuttavia, una volta che essa si trovi, per cause ad essa imputabili o meno,
69
CAPITOLO 2
davanti ad una crisi consolidata del suo brand, dovrà prendere le decisioni
migliori perché questo ne esca. Esclusa la possibilità di mantenere nel brand
portfolio una marca ormai destinata all’oblio, l’impresa ha davanti a sé due
scelte: decretarne la morte ed eliminarla o cercare piuttosto di rivitalizzarla. Si
dirà delle difficoltà e dei costi di lancio di una nuova marca, che nella fattispecie
sostituisca quella eliminata; basti premettere che, a causa di questi ostacoli, la
seconda ipotesi è la più praticata e talora, esclusi gli eccessi di tenere in vita un
brand senza più nulla da dire sul mercato, la più auspicabile. Aaker descrive
sette modi per rivitalizzare la marca, riassunti nella figura 2.9.
Fig.2.9: La rivitalizzazione del brand
Incrementare
l’uso
Identificare
nuovi utilizzi
Estendere la
marca
Rendere
obsoleti i
prodotti
esistenti
RIVITALIZZAZIONE
DEL BRAND
Aumentare il
prodottoservizio
Entrare in
nuovi
mercati
Riposizionare
il brand
Fonte: Aaker, D. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli.
70
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
Una prima alternativa a disposizione dell’impresa per rivitalizzare la marca è
quella, guardando alla clientela già esistente, di incrementare l’uso del prodotto.
Si potrà cercare di incrementare la frequenza, per esempio aumentando la
comunicazione, posizionando il prodotto per uso regolare, promuovendo
l’utilizzo in luoghi o situazioni differenti; in alternativa, si potrà, con tecniche
simili alle precedenti, cercare di aumentare le quantità d’uso, per esempio
eliminando o limitando le conseguenze negative associate, nella mente dei
consumatori, ad un consumo elevato. Alcune volte si riuscirà a rivitalizzare un
brand trovando nuovi utilizzi per i prodotti contrassegnati, ampliando in questo
modo l’ambito di consapevolezza della marca: a partire dall’analisi delle attuali
modalità d’uso, e considerando gli utilizzi dei prodotti concorrenti, si potrebbero
scoprire o creare delle nuove aree di applicazioni che ingrandirebbero, in senso
orizzontale rispetto a quello verticale di prima, il territorio di azione del brand.
Una modalità frequente per far sì che il brand riprenda a trarre valore dalla sua
azione è l’entrata in nuovi mercati, preferibilmente ad alto potenziale di crescita:
segmenti che prima non erano stati considerati da nessuno o non si prestavano
al brand potrebbero essere dei serbatoi di vendite anche molto rilevanti. Una
quarta, radicale strategia di rivitalizzazione è il riposizionamento della marca: se
l’impresa non riesce a far evolvere il proprio brand in modo coerente con i
cambiamenti del mercato a cui dovrebbe rispondere, la sua strategia di
posizionamento è destinata a divenire obsoleta. Per questo potrebbe essere
necessaria una rinnovata immagine, con nuove o modificate associazioni nella
mente del consumatore. Sempre nell’ottica del rinnovamento, una soluzione è
quella di arricchire, aumentare il prodotto-servizio: a partire da una perfetta
conoscenza delle aspettative del cliente (e in modo particolare di quelle non
soddisfatte), si dovranno aggiungere dei nuovi servizi o attributi che siano da
questo tradotti in nuovi benefici sostanziali. Il coinvolgimento attivo del cliente
nella progettazione di nuove soluzioni potrebbe rivelarsi molto prezioso, anche
per comprendere esigenze difficili da esprimere ma rilevanti, come quelle
riferibili all’efficienza della gestione ordini o ai servizi post-vendita. Una nuova
tecnologia può rappresentare, come detto, una minaccia per un brand poco
71
CAPITOLO 2
dinamico, qualora non la si riesca ad incorporare con efficacia ed efficienza
nella propria offerta. Tuttavia, è anche un’opportunità da cogliere in caso di
difficoltà, perché può essere uno strumento per rendere obsoleti i prodotti
esistenti e rinnovare il brand con i nuovi; è una sorta di “colpo di spugna in
positivo”, che dà nuovo vigore alla marca accelerando il ciclo di sostituzione dei
prodotti in fase di declino naturale. L’ultima strada da percorrere per l’impresa
che voglia rivitalizzare il proprio brand è quella dell’estensione di marca, che si
descriverà nel prossimo capitolo. Va osservato che questo ventaglio di ipotesi
può essere sfruttato in più delle sue parti contemporaneamente, perché le
singole strategie possono essere sinergiche piuttosto che alternative. Così,
l’impresa potrà ad un tempo riposizionare il brand in modo che sia associato
anche a nuovi utilizzi; o ancora, arricchendo il prodotto con una nuova funzione,
potrà riuscire anche ad incrementarne l’uso presso la clientela della marca.
Qualora l’impresa si renda conto che nessuna di queste strade è percorribile, o
richiede sforzi non convenienti in ottica di portafoglio, dovrà arrendersi
all’inesorabilità del declino del brand e decidere come gestirlo al meglio. Non è
detto che la riduzione degli investimenti sia finalizzato al ritiro della marca:
l’impresa, se ne esistono i presupposti, potrebbe decidere, contestualmente ad
un taglio delle risorse di marketing, di tenere in vita la marca per soddisfare la
clientela fedele, che continuerà comunque ad acquistarla. È un tentativo di
sfruttare il valore del brand per generare ulteriore cash flow, le cui premesse
vanno però attentamente valutate: in termini di gravità del tasso di declino del
segmento, di effettiva fedeltà dei propri clienti, di struttura del prezzo
mantenibile nel medio periodo, di ruolo del brand rispetto agli altri più importanti
nel portafoglio. Qualora le condizioni non siano sufficienti, l’impresa non avrà
altra scelta che cessarne la produzione.
72
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
2.4 IL BRANDING DEI NUOVI PRODOTTI
2.4.1 Lanciare una nuova marca
Si è spiegata, nel paragrafo introduttivo di questo capitolo, la stretta relazione
che intercorre tra il portafoglio di marche e quello dei prodotti dell’impresa; si è
anche premesso come il nesso di causalità tra le decisioni riguardanti l’una e
l’altra sfera non sia a senso unico: in particolare, i brand consolidati e la loro
architettura complessiva hanno un forte ruolo di guida per le decisioni
riguardanti l’offerta dell’impresa. Prendiamo ora, come mera ipotesi dialettica
del nostro ragionamento, il caso inverso in cui l’impresa voglia introdurre nel
proprio assortimento un nuovo articolo25 e si ponga il problema di dove
collocarlo sulla sua matrice brand-prodotto.
Una prima ipotesi di branding è quella di lanciare, insieme al nuovo prodotto,
anche una nuova marca. Questa scelta consente all’impresa di dotare il
prodotto di un posizionamento distintivo, del tutto svincolato da legami e
obblighi di coerenza con la restante offerta dell’impresa. Si rimanda all’inizio
del capitolo per la descrizione delle fasi iniziali del processo di gestione
strategica del brand, e in particolare sulla sua costruzione; si evidenziano però
una serie di motivazioni, di ordine ancora strategico, che possono portare
l’impresa a compiere la scelta di lanciare, in corrispondenza di un nuovo
prodotto, anche una nuova marca26: un primo motivo è che la nuova marca ha
la possibilità di dominare una categoria di prodotto, perché porta un beneficio
funzionale rilevante per il mercato di riferimento. In questo senso, un nuovo
brand può rappresentare un’importante opportunità da cogliere per segnalare
questo beneficio e indurre la formazione un’associazione forte, positiva e unica.
Se il prodotto incorpora tra i suoi attributi un’importante innovazione tecnologica
o funzionale, la nuova marca può diventare, nella mente dei consumatori,
l’archetipo della classe di prodotti posta da essa in essere. Un motivo di ordine
completamente diverso è l’incompatibilità tra l’immagine del nuovo prodotto e le
25
Per un approfondimento del tema del lancio di un nuovo prodotto si rimanda a Urban e
Houser (1993).
26
Adattato da AAKER D.A., JOACHIMSTHALER E. (2000), Brand Leadership, p. 120-126.
73
CAPITOLO 2
marche esistenti, che obbliga l’impresa ad introdurre un nuovo brand più
aderente alle caratteristiche del target di riferimento. Nel mercato del lusso, è
prassi introdurre nuove marche per prodotti destinati a segmenti di livello
inferiore, per evitare associazioni negative alla marche di origine. L’impresa può
altresì abbinare una nuova marca anche ad un prodotto destinato ad un
segmento già coperto: cerca in questo modo di attivare, in mercati già saturi, la
ricerca di varietà dei consumatori ed aumentare la propria copertura con più
marche.
La scelta di contrassegnare un nuovo prodotto con un nuovo brand, se ripetuta
e fatta un sistematico principio di branding, si traduce nel già citato paradigma
one brand-one product. Si sono già descritti gli svantaggi di questa politica, resa
celebre da Procter & Gamble, come le mancate economie di scala e sinergie in
aree di business diverse, gli alti costi e il rischio di polverizzazione tra le diverse
marche. In generale, tuttavia, nell’ultimo ventennio, anche e soprattutto a causa
dei cambiamenti del mercato nel senso della saturazione, è soprattutto la
mancanza dei presupposti di marketing a dissuadere dall’introduzione di nuovi
brand: in altre parole, lanciare nuove marche è sempre più difficile. Questo,
unito ad una nuova consapevolezza e attenzione intorno al concetto di brand
equity, spinge le imprese a cercare strade che capitalizzino il valore delle
marche esistenti piuttosto che a cimentarsi nella creazione da zero di nuove.
Una scelta talora operata da alcune imprese è riportare in vita, qualora ce ne
siano le premesse, un brand assente dal mercato: infatti, potrebbero, dopo anni
di tempo, essersi ricreate le condizioni per l’esistenza e il successo di una
marca, entrata per qualche motivo in crisi e non più prodotta; più in generale e
semplicemente, un’impresa potrebbe ritenere un vecchio brand, di proprietà o
meno, idoneo a commercializzare, previa adattamenti di immagine, la propria
proposta. Così come questa “operazione archeologica”, che si colloca nella
pratica a metà tra il lancio di un nuova marca e la rivitalizzazione di una
vecchia, anche le strategie di branding che ci si accinge a descrivere partono
dalla volontà di sfruttare il valore acquisito dai brand piuttosto che di cercare di
formarlo da zero.
74
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
2.4.2 Sub-branding
L’utilizzo, per introdurre un nuovo prodotto, di una strategia di sub-branding
evita molte delle problematiche connesse alla precedente modalità di branding:
questa strategia consiste nel combinare una marca esistente di livello superiore
(detta master brand) e una nuova di livello inferiore (detta sub-brand, appunto).
La marca subordinata, di fatto, interviene a modificare quella da cui dipende, o
meglio ad aggiungere ad essa un significato, consentendo un potenziale
duplice vantaggio: attingere da associazioni già presenti nella mente del
consumatore (quelle relative al master brand) posizionando però il prodotto in
maniera distintiva (grazie al sub-brand).
Questa strategia di branding dei nuovi prodotti è concettualmente riconducibile
al modello di brand sorgente tra le possibili gerarchie di marca utilizzabili
dall’impresa: il peso del master brand è superiore a quello del sub brand, che
serve piuttosto a declinare il primo in base agli elementi innovativi specifici, di
prodotto e di marketing in generale. Ancora una volta, va registrata la frequente
possibilità che la scelta di un sub-brand dipenda da una strategia di marca,
prima che da un’esigenza di branding di un nuovo prodotto: si tratta di una
modalità frequente, infatti, di far entrare il master brand in un nuovo segmento,
o di estenderlo, seppur indirettamente, in una nuova categoria; più in generale,
consente al brand preesistente, di livello gerarchico superiore, di trarre
significato dalle associazioni che la nuova marca introdotta porrà in essere.
Questa strategia può pertanto nascere dall’esigenza di modificare la brand
image esistente oltre che di razionalizzare, in termini di branding, l’evoluzione
dell’assortimento. Il sub-branding ha anche un importante vantaggio potenziale
nella chiarezza che può contribuire a fare sull’offerta dell’impresa: le
informazioni aggiuntive portate dai brand subordinati aiutano i consumatori a
comprendere le differenze tra i prodotti recanti lo stesso master brand e a
scegliere più consapevolmente quello più adatto; gli stessi attori del canale
distributivo
non
potranno
che
beneficiare
della
medesima
razionalizzando gli sforzi commerciali destinati ai vari sub-brand.
75
chiarezza,
CAPITOLO 2
Tuttavia, valgono le cautele già espresse in precedenza circa la corretta
determinazione dei livelli in cui organizzare la gerarchia di branding: il principio
di semplicità, secondo il quale vanno date al consumatore informazioni in
numero non eccessivo, è valido a maggior ragione in caso di introduzione di un
nuovo prodotto: in una situazione, cioè, in cui si va potenzialmente ad
aggiungere un altro livello ad un’architettura precostituita. Non si deve correre il
rischio, volendo razionalizzare e semplificare l’offerta dell’impresa, di renderla
poco intelligibile perché eccessivamente strutturata in senso verticale.
2.4.3 Co-branding
L’impresa potrebbe anche scegliere di collaborare con altre nella realizzazione
e commercializzazione del nuovo prodotto; in particolare, si parla propriamente
di co-branding se la collaborazione prevede la denominazione congiunta del
prodotto o servizio, che avrà quindi due o più marche.
Si tratta di una pratica in espansione e ormai consolidata, che fa leva, come già
detto precedentemente, anche sullo sfruttamento delle associazioni secondarie:
si crea un legame con un’altra marca anche nel tentativo di estenderne alla
propria le associazioni forti, positive, uniche. A livello di prodotto, questo viene
ad avere un posizionamento risultante dal mix delle associazioni ai brand e
rafforzato dalla loro notorietà: ciascun brand metterà a disposizione il proprio
valore e al contempo sfrutterà quello dell’altro di cui non dispone. La prima
condizione necessaria per una corretta iniziativa di co-branding è il valore
rilevante di entrambe le marche. Queste dovranno anche essere compatibili:
avere immagini coerenti e presentarsi insieme come “logiche” agli occhi del
consumatore.
Se questi prerequisiti sono rispettati, il co-branding è potenzialmente una strada
percorribile per lanciare un nuovo prodotto, e presenta vantaggi, per i singoli
brand, che vanno oltre la singola operazione: può essere uno strumento per
conquistare nuovi segmenti di clientela, che, attratti dai benefici del prodotto
oggetto di co-branding, potranno entrare nell’orbita della marca. Più
76
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
specificamente, i clienti fedeli all’altro brand, venendo a contatto con la marca,
potranno apprezzarne gli attributi: poiché questi sono collegati a benefici che si
è detto essere, in linea di principio, coerenti con quelli del brand già conosciuto,
ci sono buone premesse per l’instaurarsi di un nuovo rapporto di fiducia. In
senso lato, si può azzardare che per certuni consumatori una marca, quella
fidata, faccia da endorser all’altra meno conosciuta. Analogamente al subbranding, anche la strategia di co-branding, inoltre, può interpretarsi come una
modalità di estensione, seppur indiretta, della marca, qualora il nuovo prodotto
appartenga ad una categoria collaterale a quella di provenienza.
Questa strategia ha anche dei vantaggi che esulano la sfera del brand vera e
propria: ciascuna impresa potrà innanzitutto beneficiare delle altrui esperienze
nei rispettivi campi di competenza, apprendendone parte dei know-how; il
rapporto stretto con approcci alternativi al consumatore, inoltre, non potrà che
arricchire la conoscenza di questo; una efficiente attuazione del co-branding,
infine, comporta anche dei risparmi dalle conseguenti economie di condivisione,
perché gli sforzi di pubblicità, promozione e distribuzione saranno congiunti.
Questa lunga serie di benefici ottenibili mediante il co-branding va temperata
con alcuni potenziali svantaggi, o cautele, che andranno ponderati dall’azienda
che consideri questa opzione strategica per ampliare la propria offerta. Le
associazioni agli altri brand, in prima battuta, non sono controllabili dall’impresa:
ritorna, in questo senso, il problema della rischiosità, più volte denunciata
parlando delle associazioni secondarie, di legare la propria immagine a quella
di un’entità esterna. Se il partner avrà delle vicissitudini negative, anche la
marca ne potrebbe risentire; più semplicemente, se esso sceglierà di cambiare
l’immagine del brand, è da verificare la permanenza della compatibilità che era
requisito della collaborazione. Questa perdita di controllo trova una pericolosa
leva nelle aspettative spesso elevate del consumatore verso il prodotto cobranded: un feedback negativo, derivante da una non piena soddisfazione
dall’acquisto, potrebbe essere maggiore che nel caso di un prodotto singlebranded.
Fatte salve tutte queste considerazioni, vanno distinte due grandi categorie, non
alternative, di co-branding: quelli su base funzionale e quelle su base simbolica.
77
CAPITOLO 2
Il primo si ha quando entrambe le imprese contribuiscono, a vario titolo, alla
realizzazione fisica del prodotto: la co-denominazione evidenzia il beneficio
superiore che il consumatore dal rapporto di collaborazione. Ne sono esempi i
telefoni cellulari Sony Ericsson e i personal computer Fujitsu Siemens: in questi
casi, i produttori si sono addirittura uniti in joint-venture societarie. Un
particolare caso di collaborazione su base funzionale è la strategia di ingredient
branding, quando una marca ne ospita un’altra al suo interno, sotto forma di
componente o materiale. Ci sono “ingredient brand per antonomasia”, come le
fibre idrorepellenti Gore-Tex o l’antirumore Dolby, il cui utilizzo è per natura
possibile mediante la fruizione di prodotti che li contengono, in vario modo, al
proprio interno; ma molte tipologie di marca possono diventarlo, per esempio in
ambito alimentare: si pensi ai preparati Zuegg contenuti nei croissant Bauli,
all’Amarena Fabbri nella linea Cremeria Motta, al caffé Lavazza nelle caramelle
Sperlari. Per le marche ospitanti, la notorietà dell’ingredient brand è un valore
aggiunto al proprio, così come l’associazione alla qualità superiore che spesso
questo possiede; in alcuni mercati, certi ingredient brand divengono degli
standard tecnologici, al punto da costituire dei point-of-parity condivisi: un
esempio sono i microprocessori Intel, integrati e segnalati dalla maggioranza
dei produttori di personal computer. Per gli ingredient, invece, le marche
ospitanti rappresentano di fatto un “canale di vendita”: che consente di
aumentare e stabilizzare i ricavi, derivanti, oltre che dal prezzo dell’ingrediente,
da eventuali royalty pagate dall’ospitante per l’esposizione della relativa marca.
La seconda, grande categoria di co-branding è quella di tipo simbolico: si ha
quando una marca produce il prodotto ed un’altra contribuisce con la sua
immagine a rivestirlo di associazioni aggiuntive. È un paradigma tipico del
mercato automobilistico: il brand Roland Garros ha apportato parte del suo
valore alla Peugeot 206, caratterizzando con i suoi attributi simbolici di
modernità e sportività i modelli co-branded. Questo tipo operazione mira, in
termini commerciali, al segmento di clientela particolarmente sensibile al brand
invitato; ma ha una portata più ampia, nella misura in cui anche parte della
restante clientela potenziale interpreta l’alleanza come una consonanza di valori
tra partner: nell’esempio di cui sopra, anche le 206 non marchiate Roland
78
LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND
Garros verranno, da alcuni altri consumatori e in misura certo minore, investite
del suo significato. Il risvolto comunicativo per le singole marche, in altri termini,
è più diffuso della linea co-branded oggetto di vendita mirata, e per questo si
collega ad obiettivi strategici di marca oltre che di vendita. Si sono
convenzionalmente distinte queste due categorie di co-branding, funzionale e
simbolico, perché le due basi rispondono a criteri diversi; nella pratica, tuttavia,
in un prodotto possono combinarsi in vari rapporti entrambe le istanze.
2.4.4 Brand extension
L’ultima possibilità che l’impresa ha a disposizione per il branding di un nuovo
prodotto è l’utilizzo di una marca già presente nel suo portafoglio. Negli ultimi
decenni, per le ragioni di opportunità sopra esposte, la strategia di brand
extension è stata utilizzata sempre di più, con risultati non sempre positivi. Il
prossimo capitolo analizza diffusamente questa strategia, delineandone
vantaggi, svantaggi e modalità di attuazione. La prospettiva di prodotto,
provvisoriamente adottata in queste ultime pagine, verrà nel prossimo capitolo
abbandonata per focalizzare nuovamente l’attenzione sul brand e sul suo
valore.
79
3. LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
3.1.
La strategia
che cos’è un’estensione di marca
3.2.
I vantaggi e gli svantaggi
estendere o non estendere?
3.3.
Come estendere la marca
dalla teoria alla pratica
3.4.
Alcuni esempi
la brand extension nel mondo aziendale
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
3.1 LA STRATEGIA
Una brand extension è l’utilizzo di una marca consolidata per denominare un
nuovo prodotto. Ogni qualvolta un’impresa sceglie di ampliare il territorio di
competenza di un proprio brand, quindi, si parla correttamente di estensione
della marca. Questo termine generico, tuttavia, per la molteplicità di tipologie
strategiche che comprende, ha bisogno di essere declinato a seconda delle
fattispecie. La distinzione più praticata in letteratura è quella tra line
extension e category extension (Farquhar 1989): con il primo termine si
intende un’estensione della marca praticata all’interno di una categoria dove
essa è già presente. In un’ipotetica matrice brand-categoria di prodotto, la
configurazione della stessa non cambia in seguito all’estensione: viene
introdotta una nuova varietà di gusto, un ingrediente, una nuova
configurazione del prodotto per raggiungere un nuovo segmento di mercato
nella stessa categoria. Ne sono un esempio le introduzioni di varianti alla
forma classica della Coca-Cola, come Diet Coke. Con il secondo tipo di
brand extension, invece, la marca esistente viene utilizzata per entrare in una
nuova categoria di prodotti: sulla matrice di cui sopra, il brand va a presidiare
una nuova casella, allargandosi in senso orizzontale. Si pensi alla Sony
Playstation o all’Apple iPod.
Fig. 3.1 Line extension e category extension
categorie di prodotto
marche
category
extension
line
extension
Fonte: adattato da COLLESEI U., ISEPPON M. (2003), “Strategie di crescita della marca”,
Atti del III Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Parigi 28-29 Novembre.
83
CAPITOLO 3
Nel 1988, uno studio dimostrò che l’89% dei nuovi prodotti erano estensioni
di linea, il 6% di categoria e il rimanente 5% erano nuove marche (Ogiba
1988). Ancora oggi, ogni anno vengono introdotti nuove marche, tuttavia
l’esigua percentuale nel mix di branding dei nuovi prodotti non è di molto
cambiata (Keller 2003).
Questa bipartizione delle strategie di brand extension è senz’altro utile per
comprenderne la natura, tuttavia si presenta il risultato di uno studio di
Tauber27, che da un’indagine su 276 estensioni di marca desume sette tipi
diversi di strategie praticabili: (1) stesso prodotto in forma diversa: per
esempio, affiancare un liquido a un solubile (2) gusto, ingrediente o
componente distintivo nel nuovo prodotto: specialmente nel settore
alimentare, il gusto di un prodotto-marca affermato è potenzialmente
estensibile in molte categorie, si pensi al gelato After Eight; si trovano molti
esempi anche in altri settori, basti guardare agli ammorbidenti al sapone di
Marsiglia (3) prodotti complementari: spesso gli assortimenti vengono
completati con prodotti che hanno un ruolo correlato a quelli esistenti. Ne
sono un esempio le batterie Kodak per macchine fotografiche, o gli spazzolini
elettrici di marche di dentifrici (4) prodotti rilevanti per la clientela del brand: si
può cercare di estendere la propria marca comprendendo nuovi prodotti che
colgano delle esigenze dei propri clienti: le guide Michelin o le carte di credito
delle catene di supermercati ne sono esempi di successo (5) prodotti che
traggono vantaggio dall’esperienza maturata dall’impresa: dal punto di vista
aziendale, in termini di competenze accumulate, e del consumatore, che in
virtù di queste ritiene il brand affidabile anche in nuovi prodotti percepiti in un
qualche modo collegati. Un esempio sono le fotocopiatrici Canon e gli
accendini Bic (6) beneficio, carattere distintivo nel nuovo prodotto: certi tratti
riconosciuti sono potenzialmente condivisibili anche da nuovi prodotti.
Marche di dentifrici, a titolo di esempio, producono gomme da masticare (7)
prodotti che traggano vantaggio dall’immagine e dal prestigio del brand:
alcune marche, per il loro elevato status, si prestano ad essere estese anche
27
TAUBER, E.M. (1988), “Brand leverage: strategy for growth in a cost control world’’,
Journal of Advertising Research, August/September, pp. 26-30.
84
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
in altre categorie, specialmente nell’ambito del lusso. Si pensi agli occhiali da
sole Porsche o alla linea di arredamento Armani Casa.
Come per altri elenchi fino a qui presentati, vale la pena ricordare che la
classificazione di Tauber non è da intendersi in senso rigido, perchè le
opzioni strategiche passate in rassegna non sono prive di relazioni ne’
alternative: un’impresa potrebbe estendere un brand del suo portafoglio
facendo leva su più di uno degli aspetti enumerati, rendendo anzi sinergiche
le basi della sua strategia.
Prima di un approfondimento qualitativo della strategia di brand extension, è
opportuno introdurre un ulteriore elemento di cautela al rigore delle
definizioni che spesso si utilizzano in letteratura: nella fattispecie, è utile
precisare ex ante il significato che la locuzione brand extension assume in
questo lavoro. Si è già detto, infatti, che anche le strategie di sub-branding e
co-branding possono rappresentare, di fatto, un’estensione della marca. Per
quanto riguarda il primo caso, anzi, la modalità di estensione del brand
esistente mediante l’associazione di un sub-brand (quantomeno di un
modifier) è quasi la norma: tuttavia, si è ritenuto più corretto descrivere le
specificità di quest’ultima strategia come fosse estranea all’estensione di
marca, perché effettivamente, in una prospettiva di prodotto, può essere vista
come un’opzione strategica di branding a sé stante. Ma in una prospettiva di
marca, e più precisamente nell’ambito di una strategia di brand extension,
essa rappresenta un momento successivo rispetto alla scelta se estendere o
meno una marca: da un duplice punto di vista, concettuale e temporale, le
scelte sull’ipotetico sub-brand sono collocate ad un livello inferiore nella
scaletta delle decisioni sul (master) brand da eventualmente estendere. In
altre parole, nell’ambito di una estensione di marca, la scelta di sub-branding
rappresenta il dettaglio più che la strategia. Discorso analogo valga per la
strategia di co-branding, che presenta peraltro delle peculiarità evidenti. Si
potrebbe arrivare a comprendere perfino il licensing, dal punto di vista del
licensor, come una delle modalità di estensione della marca28, ma non è
negli obiettivi del presente lavoro considerare questa pur interessante
28
FARQUHAR, P.H. (1989), “Managing brand equity’’, Marketing Research, Vol. 1,
September, pp. 24-33.
85
CAPITOLO 3
prospettiva “di dettaglio”: dato il livello strategico dell’analisi compiuto in
questo lavoro, l’accezione di brand extension adottata, nel capitolo e nel
prosieguo della trattazione, è necessariamente (e non convenzionalmente)
lata, connotata dai suoi tratti concettuali e “di opportunità” più che dalle sue
pratiche, eventuali e successive modalità di attuazione.
3.2 I VANTAGGI E GLI SVANTAGGI
3.2.1 L’efficienza della brand extension
Perché un’azienda dovrebbe decidere di estendere il proprio brand? I tanti
motivi che negli ultimi decenni hanno spinto le imprese a ricorrere a questa
strategia sono organizzabili con diversi criteri; si trova utile ricondurli alle
sfere dell’efficienza e dell’efficacia delle strategie di branding.
Utilizzare una marca esistente per un nuovo prodotto consente di evitare i
costi di sviluppo di un nuovo brand: la progettazione del nome e degli altri
elementi identificativi della marca è complessa e richiede ricerche di mercato
e personale qualificato, entrambi costosi; la criticità dello sviluppo è
aumentata dalla continua riduzione di nomi disponibili e interessanti, che fa
crescere contestualmente il rischio di battaglie legali e il sostenimento di
ulteriori costi.
Un brand esistente consente anche di aumentare l’efficienza delle spese
promozionali per il nuovo prodotto. I programmi di marketing, ed in
particolare di comunicazione, potranno concentrarsi sul prodotto in sé, senza
preoccuparsi di creare consapevolezza intorno alla marca e traendone anzi
beneficio. Un’indagine su 98 marche di consumo in 11 differenti mercati ha
rilevato una spesa pubblicitaria inferiore per le estensioni di successo rispetto
all’introduzione di prodotti paragonabili con un nuovo brand (Sullivan 1992).
Alcune estensioni di marca consentono anche di realizzare efficienze a livello
di packaging e di etichettatura: specialmente nelle line extension, poiché
queste si commercializzano talora con confezioni ed etichette molto simili, si
86
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
possono raggiungere economie di scala nella produzione di questi. Si pensi a
prodotti di largo consumo come le bottiglie d’acqua frizzante e liscia, le cui
etichette si differenziano esclusivamente per il colore.
In generale, una strategia di brand extension risponde ad esigenze di
razionalizzazione del brand portfolio, tanto più pressanti quanto un’impresa si
preponga obiettivi di crescita. Specialmente se l’impresa vuole presidiare e
raggiungere posizioni di leadership in mercati internazionali, dovrà
supportare i suoi prodotti con programmi di comunicazione di costo notevole,
crescenti all’aumentare dei brand con cui si presenta: da qui l’esigenza di
concentrare i propri sforzi su poche marche che raggiungano elevati livelli di
awareness, e dalle quali tutti i prodotti con esse commercializzati possano
ricavare benefici.
3.2.2 L’efficacia della brand extension
Una strategia di estensione della marca può essere un utile strumento per
gestire ed accrescere il valore complessivo del proprio portafoglio di brand.
In particolare, gli effetti positivi agiscono in due sensi: dal parent brand (il
brand da cui ha origine l’estensione) all’extension brand e viceversa.
Dal parent brand all’extension brand
Nel rapportarsi ad un nuovo prodotto, si è detto che il consumatore
percepisce diversi tipi di rischio: ma se il prodotto è associato ad un brand
credibile e affidabile, questi si sentirà molto più garantito. Rispetto al caso in
cui l’introduzione avviene con un nuovo brand, pertanto, un’estensione di
marca può ridurre il rischio percepito dai consumatori. Dalla funzione di
riduzione di rischio del brand si ricava pertanto un importante precetto, cioè il
ruolo positivo, in un’estensione di marca, delle associazioni di affidabilità ed
esperienza percepita dal consumatore: se un consumatore, addirittura,
ricorderà precedenti introduzioni di successo da parte del brand, certamente
gli riconoscerà ex ante una certa affidabilità anche per le successive. In
87
CAPITOLO 3
generale, il trasferimento di associazioni positive dal parent brand
all’extension brand è uno dei vantaggi principali della strategia: il
consumatore, in virtù della sua conoscenza della marca, è portato a trasferire
rilevanti tratti della sua immagine al nuovo prodotto, di cui poco conosce se
non la marca. In particolare, se il parent brand gode di un’immagine molto
positiva, se ne dedurranno prima dell’adozione prestazioni positive anche per
la sua estensione. Un’estensione di marca può anche dare accesso ad un
capitale di immagine accumulato (Kapferer 2003) e altrimenti non sfruttato:
alcuni brand, addirittura, sono spontaneamente citati per categorie di
prodotto delle quali non fanno parte. Il consumatore, evidentemente, ha per
essi delle associazioni che sarebbero forti anche qualora essi entrassero in
questi nuovi mercati. Anche offrire ai consumatori una scelta più ampia per la
stessa marca
può essere un motivo per praticare una brand extension:
alcuni clienti, fedeli ma annoiati, potrebbero passare da un articolo all’altro di
una stessa categoria senza abbandonare la marca; anche in assenza di
questa ipotesi, stimolare con una gamma estesa un utilizzo più ampio e
differenziato del brand può essere una strategia praticabile.
La reputazione acquisita dal brand può essere fatta valere anche sul canale
commerciale:
in
particolare,
un’estensione
di
marca
può,
rispetto
all’introduzione di un nuovo brand, aumentare la probabilità di ottenere
un’adeguata distribuzione. Un rivenditore è certo più facilmente convincibile
ad inserire in assortimento un prodotto se commercializzato con un brand
noto piuttosto che uno nuovo, perché in virtù della reputazione acquisita dal
primo è lecito da esso attendersi un aumento della domanda.
Dall’extension brand al parent brand
Questi benefici dall’estensione di marca sono tutti riferibili agli obiettivi di
efficacia nel lancio di un nuovo prodotto. Ma gli effetti positivi non si
esauriscono sull’extension: Aaker, anzi, parla dei vantaggi di questa strategia
88
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
chiamando il buono il contributo positivo del parent brand sull’extension
brand, e il meglio il contributo inverso29.
Un’estensione di marca, innanzitutto, può rappresentare in certi casi una
condizione di sopravvivenza della stessa. Si pensi ad alcuni mercati “basici”:
di recente, marche dominanti hanno visto la loro leadership minacciata da
private labels in grado di coprire il mercato a costi molto bassi. Poiché le
funzioni di marca non sono molto ricche, possono essere adempiute anche
da brand di livello basso. Così, diversificare il proprio business può
rappresentare una via di fuga da una situazione di difficoltà: la strategia di
brand extension, infatti, si era inserita tra le possibilità al vaglio per
rivitalizzare una marca in crisi30.
Un’estensione di marca non è certo utile solo per queste categorie di
marche: proprio per un brand in crescita, anzi, questa strategia può
rappresentare la strada giusta per chiarire il proprio significato: in termini di
espansione di un singolo brand, infatti, un nuovo prodotto è una straordinaria
occasione per mostrare con evidenza ciò che si vuole rappresentare per il
consumatore. Una category extension, con l’entrata in un nuovo mercato,
inevitabilmente ridefinisce il senso e la valenza di un brand agli occhi del
consumatore: Prenatal, commercializzando anche corsi per le mamme e
prodotti editoriali, è passata da “produttrice di abbigliamento per l’infanzia” a
“riferimento della relazione mamma/bambino”. Ogni estensione “forte” di
marca, pertanto, riposizionandola e cambiando la percezione della
medesima da parte del consumatore, ha un significato strategico cruciale per
le sorti dell’impresa. Un’estensione, in taluni casi, può anche rappresentare
per il brand un modo di stare al passo coi tempi, introducendo prodotti che
incorporino nuove tecnologie ed esigenze mantenendo più stabili le fonti di
ricavo tradizionali.
Un’impresa può optare per questa strategia non solo per spostare, ma anche
per consolidare l’immagine della marca originaria: lo farà con una nuova
introduzione che rafforzi e renda più favorevoli le associazioni esistenti, o ne
29
AAKER, D.A., Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli, Milano,
2003.
30
Ib.
89
CAPITOLO 3
stabilisca di nuove compatibili con le altre. Si tratta di riaffermare con forza i
valori principali del brand, cioè i motivi condivisi da tutta l’offerta, siano essi
attributi di prodotto o benefici per il consumatore. Per esempio, un produttore
di abbigliamento sportivo che introduca dell’equipaggiamento più tecnico e di
qualità elevata sottolineerà le associazioni di ”performance” e di “sport” al
proprio brand.
Le estensioni di linea possono servire ad un brand per conquistare nuovi
clienti ed aumentare la propria copertura di mercato. Il nuovo mix di offerta
del brand, infatti, potrebbe attrarre dei nuovi consumatori prima poco ricettivi
rispetto alla marca perché non attratti dagli specifici prodotti in assortimento.
Tylenol, affiancando il formato “capsule” a quello “compresse” del suo
analgesico all’acetaminofene, ha acquisito i clienti che avevano difficoltà
nell’assunzione del secondo. Infine, va rilevato come un’estensione di
successo passa a volte costituire una base per estensioni successive:
qualora il nuovo prodotto sia apprezzato, potrebbero dischiudersi possibilità
di ulteriore ampliamento dell’offerta commercializzata dal brand.
L’ultimo vantaggio conseguibile con una strategia di brand extension bene
ne esprime il “duplice verso” degli effetti positivi, grazie al quale si possono
innescare potenziali circoli virtuosi: un brand che si estenda in un’altra
categoria di prodotto per uscire da una situazione di crisi e ci riesca, per
esempio, vedrà rinnovato il proprio significato per il consumatore; potrà
quindi fare valere la sua nuova immagine sul mercato conquistato, con
estensioni di linea che beneficino del valore di marca.
3.2.3 I rischi della brand extension
I molteplici vantaggi perseguibili con un’estensione della marca hanno reso
questa strategia sempre più utilizzata dalle imprese. Tuttavia, essa presenta
anche dei potenziali lati negativi, che possono manifestarsi sull’extension o
90
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
sul parent brand. Aaker chiama questi effetti negativi rispettivamente il brutto
e il cattivo di una strategia di brand extension31.
Innanzitutto, un’estensione di marca può confondere o frustrare i
consumatori: affinché questi possano comprendere e scegliere il prodotto più
idoneo a soddisfare i loro bisogni, è fondamentale che l’offerta dell’impresa
sia intelligibile. Un’eccessiva varietà di linea potrebbe creare loro dei
problemi, facendo scartare le estensioni per rifugiarsi nei prodotti conosciuti.
Inoltre, un ulteriore elemento di criticità è dato dalla limitata disponibilità di
spazio dei rivenditori, che potrebbero per questo scegliere di non tenere in
assortimento le estensioni e deludere così chi era ad esse interessate. Per
motivi di spazio e non solo, peraltro, un’estensione può incontrare la
resistenza dei rivenditori che percepiscano le nuove varietà come meri
duplicati e ne deducano per questo poca redditività. In questo senso,
pertanto, se un’estensione è percepita come “eccessiva” nell’economia del
portafoglio prodotti del brand, non sarà ben accolta da consumatori e
rivenditori.
L’insuccesso
dell’extension
brand
è
un
fatto
negativo
intrinsecamente ma non solo, perché il fallimento può avere ripercussioni
sull’immagine del parent band: questo, infatti, denominando l’estensione, si
espone e lega ad esso la propria immagine; qualora la nuova introduzione si
dimostri infelice, l’effetto potrebbe ritorcersi sull’origine. Questo rischio è
presente soprattutto nel caso in cui l’insuccesso dipenda dalla performance
del prodotto, mentre è più limitato qualora derivi da scarsa consapevolezza o
carente distribuzione (Keller 2003).
Anche in caso di successo dell’extension brand ci possono essere effetti
negativi, ad esempio qualora avvengano fenomeni di cannibalizzazione delle
vendite della marca originaria: se c’è una transizione “intra-brand” dei
consumatori, da parent a extension, il fatturato della nuova marca potrebbe
ottenersi a scapito della vecchia, con pericolosi giochi a somma zero da
valutare in ottica strategica. Una “cannibalizzazione preventiva” (Keller
2003), che mantenga nel portafoglio i clienti del parent brand prima che
31
Ib.
91
CAPITOLO 3
passino ad altre marche, potrebbe essere positiva; in caso contrario, si tratta
di un rischio da non correre.
Il successo di un’estensione di categoria potrebbe anche accompagnarsi ad
una minore identificazione con una precisa categoria di prodotto, appunto. Si
tratta di uno dei rischi principali della strategia, che deriva dall’abbaglio dei
vantaggi conseguibili con essa. Ci sono marche che per caratteristiche
proprie (di brand element, di appeal raggiunto…) o del contesto di riferimento
(per esempio nel settore moda) hanno un elevato “potenziale di estensione”
in categorie anche molto lontane da quella di appartenenza. Questo può
portare a strategie di brand extension che, se da un lato sembrano
giustificate
dall’incremento
reddituale
atteso,
potrebbero
indebolire
l’immagine della marca nel medio-lungo periodo. Si è detto che una delle
associazioni più comuni e importanti ad un brand è quella della categoria di
prodotto; essere presenti con la stessa marca in troppe categorie potrebbe
diminuire la forza delle risultanti associazioni, ed in particolare di quella al
business di riferimento. Si ritiene che l’ottica strategica sia una necessità più
che un consiglio per una efficace gestione del brand. Ries e Trout, nel 1981,
coniarono il termine di “trappola dell’estensione” di linea proprio per
identificare il ricorso eccessivo alla strategia di brand extension. Si corre il
rischio di monetizzare (e quindi disperdere) la brand equity raggiunta più che
di farla effettivamente fruttare. Il concetto di brand dilution fa riferimento
proprio alla possibilità che il significato della marca, cioè gran parte del suo
valore, si disperda in tutte le sue traduzioni di categoria e perda di pregnanza
per il consumatore.
L’ultimo rischio della strategia di estensione della marca, ancora una volta
connaturato alla presunta “comodità” della sua attuazione, è quello di
lasciarsi sfuggire l’opportunità di lanciare un nuovo brand. Si è detto dei costi
e della difficoltà di questa operazione, ma è giusto ricordare i benefici
differenziali che se ne possono ricavare: una nuova marca, con proprie,
esclusive associazioni, sebbene non tragga vantaggio dalla brand equity già
presente nel portafoglio marche dell’impresa, può godere di totale libertà per
costruire valore da zero; entrare in mercati altrimenti irraggiungibili con i
92
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
vincoli di immagine derivanti da un parent brand. In questo senso,
rappresenta una scelta da fare con coraggio qualora se ne intravedano le
possibilità: non farlo sarebbe un “costo nascosto”, un rischio superiore
secondo Aaker (che lo definisce il pessimo di una strategia di brand
extension) a tutti gli altri.
3.3 COME ESTENDERE IL BRAND
3.3.1 Il successo della strategia
I vantaggi e i vantaggi della strategia di brand extension rappresentano il
ventaglio dei possibili risultati di una sua attuazione; nulla però si è ancora
detto su come l’impresa debba agire per sfruttare i primi ed evitare i secondi.
La ricerca accademica, in questo senso, si è mossa su due direttrici: da un
lato, fornendo un archetipo concettuale per predisporre ed attuare la migliore
strategia di brand extension; dall’altro, sulla base della casistica aziendale e
delle ricerche sul consumatore, ha elaborato delle linee guida che, se seguite
dalle imprese, dovrebbero ex-ante cautelarla da fallimenti.
In primo luogo, come premessa ad entrambi, è importante definirne il fine
ultimo, cioè il successo della brand extension, concetto non scontato perché
multidimensionale: esso, infatti, dipende e si misura sulla sua capacità di
creare brand equity nella categoria di appartenenza e di contribuire al valore
della marca originaria. Dal modello della Customer-Based Brand Equity
ricaviamo le dimensioni per giudicare entrambe, cioè la brand awareness e la
brand image. Come per un qualunque altro brand, il valore dell’estensione
dipenderà dal suo livello di consapevolezza e dalla forza, positività e unicità
delle associazioni create; e il suo contributo alla marca originaria dipenderà
dalle nuove associazioni poste in essere e dalla sua influenza sulle
preesistenti, ancora secondo i parametri di forza, unicità, positività.
93
CAPITOLO 3
3.3.2 L’attuazione della strategia
Si possono individuare cinque momenti chiave nella strategia di brand
extension, che possiamo considerare di analisi e di decisione32. Ciascuno di
questi dovrebbe essere confortato da attente valutazioni che derivino da
ricerche di mercato e dalla conoscenza del management.
Definire la conoscenza del brand attuale e quella desiderata: come punto di
partenza, è necessario comprendere il presente e il futuro auspicato della
marca. In questo modo si chiarirà la direzione in cui il brand va condotto nel
lungo periodo, e si costituiranno le basi per le scelte da compiere in termini di
estensione. Ancora una volta, in concetti in causa sono il posizionamento e i
valori principali del brand.
Individuare i possibili candidati all’estensione: le conoscenze da utilizzare per
delineare l’insieme di possibili estensioni sono le associazioni alla marca
originaria presenti nella mente del consumatore. Da queste, il management
potrà ricavare delle categorie di prodotto ad esse correlate, e attraverso
sessioni di brain-storming individuare delle possibili estensioni. In alternativa,
è possibile anche compiere delle ricerche di mercato, ma nella pratica è
difficile i consumatori suggeriscano spontaneamente delle idee di estensione.
Valutare il potenziale del candidato all’estensione: come per ogni nuovo
prodotto, è importante cercare di prevederne il successo. Nella fattispecie, lo
si farà considerando la sua attitudine a conseguire i vantaggi ed evitare gli
svantaggi evidenziati in precedenza; più specificamente, si misurerà la sua
capacità presunta di creare brand equity analizzando consumatori, impresa,
concorrenza. Per quanto concerne i primi, si tratta di prevedere la forza,
positività e unicità di tutte associazioni create. È spesso utile compiere delle
ricerche che mettano in luce le percezioni del consumatore sulle ipotetiche
32
Adattato da KELLER, K.L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006),
del brand, Egea.
94
Gestione e sviluppo
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
estensioni, chiedendo risposte dirette, su scale di valutazione, piuttosto che
aperte,
evocando
associazioni.
La
prospettiva
del
consumatore
è
fondamentale ed è quella che sarà utilizzata nelle altre parti del lavoro,
tuttavia bisogna considerare anche altri fattori: rispetto all’impresa,
assicurandosi per esempio che l’estensione non comporti diseconomie e non
distolga l’attenzione dal core business; rispetto alla concorrenza, cercando di
prevederne le eventuali reazioni.
È importante considerare, oltre che il valore intrinseco dell’estensione, i suoi
effetti di feedback sul parent brand: riconducendoci alla definizione che
abbiamo dato di successo, va previsto anche il contributo dell’extension
brand alla marca originaria, considerando quattro aspetti: la credibilità
intrinseca degli elementi che sostengono la corrispondenza tra il brand e i
benefici percepiti dell’estensione; la rilevanza di questi elementi (e quindi la
loro capacità di legare la performance dell’estensione a quella della marca
originaria); la coerenza tra l’apparenza dell’estensione e le associazioni alla
marca originaria (più le due entità sono compatibili e meno la prima influirà
sulle seconde); la forza delle associazioni al parent brand nella mente dei
consumatori (più è elevata e più difficile è da mutare).
Pianificare la creazione di valore dell’estensione: il valore di un’estensione di
marca va costruito in modo analogo a quello di una nuova marca:
innanzitutto, scegliendo i brand element più opportuni, che per definizione
rimarranno gli stessi in una parte più o meno estesa. Il permanere del
packaging, quando ha una rilevanza importante nell’economia degli elementi
identificativi della marca, ha spesso un ruolo chiave nella strategia di brand
extension. Per gli elementi di novità, l’impresa dovrà fare riferimento ai
medesimi criteri di memorizzabilità, piacevolezza, ecc., descritti parlando
della costruzione del valore di una marca. Il peso relativo di elementi derivati
dal parent brand e di elementi nuovi determina la forza del legame di
branding tra marca originaria ed estensione, e tendenzialmente l’intensità
degli effetti, diretti e di feedback, tra le due entità. La creazione di valore
dell’estensione prosegue, come si ricorderà, programmando le attività di
95
CAPITOLO 3
marketing ottimali: una corretta strategia di prodotto, in termini di relazione
con l’offerta esistente del brand, fungerà da guida per le altre attività. In
particolare, si sottolinea l’importanza di una comunicazione che trasmetta
efficacemente le differenze e peculiarità dell’estensione rispetto alla marca
originaria. Il valore si crea infine sfruttando le associazioni secondarie del
brand: il trasferimento di associazioni dal parent brand all’extension brand è
uno dei presupposti stessi della strategia. Si deve infatti cercare che
l’immagine dell’estensione benefici delle associazioni positive e trasferibili
della marca originaria: questo è appunto il senso degli elementi che
rimangono immutati. Va osservato, tuttavia, che l’effettivo trasferimento di
associazioni dipende dalla strategia di branding adottata, e nella fattispecie
dalla forza del legame che si vuole creare tra le due entità. Nel caso questo
sia stretto, l’estensione beneficerà anche delle associazioni secondarie
proprie della marca originaria; in ogni caso, si potrà scegliere di stabilirne
anche con entità specifiche.
Valutare il successo di un’estensione del brand e i suoi effetti sul valore della
marca originaria: sia preventivamente che a consuntivo, i risultati della brand
extension vanno studiati a livello di brand nel suo complesso. Si deve
ricordare, per esempio, che il successo dell’extension brand potrebbe
accompagnarsi ad un’erosione delle vendite del parent brand. Fatte salve
queste ed altre considerazioni di tipo prettamente economico, il modello
CBBE resta, in ottica strategica di branding, lo strumento più adatto per
comprendere gli effetti dell’operazione. Analizzare il valore della marca
originaria e dell’estensione alla luce dei risultati di brand awareness e brand
image consente il raggiungimento di due obiettivi: nel caso si tratti dei risultati
attesi, di scegliere, nell’insieme dei candidati, i più idonei all’estensione,
anche alla luce dei programmi di marketing che si sono ritenuti praticabili e
ottimi; nel caso si tratti dei risultati conseguiti, di verificare la correttezza delle
scelte tattiche di marketing, appunto, e della direzione strategica inizialmente
determinata dall’impresa.
96
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
3.3.3 Linee guida
Questo schema decisionale è un supporto utile per la predisposizione di una
brand extension “concettualmente ineccepibile”. Tuttavia, il suo elevato livello
di astrazione non lo rende sufficiente ad esaurire in modo approfondito la
varietà di fattispecie e contingenze possibili per questa strategia. La ricerca
accademica ha compiuto molti studi intorno al tema dell’estensione di marca,
e se ne presentano qui alcuni risultati33. Questo paragrafo conclude, prima
dell’ultimo dedicato ad una breve casistica di esempio, l’apparato “puramente
teorico” del lavoro.
L’estensione del brand ha successo quando il parent brand è caratterizzato,
nella percezione generale, da associazioni positive e da una certa
compatibilità con il nuovo prodotto. Per quanto riguarda il primo aspetto, basti
per ora dire più in generale che deve sussistere, almeno in una certa misura,
una “parent brand equity”. Per Aaker, autore nel 1990 di uno studio seminale
che si analizzerà, “non ha davvero senso estendere la mediocrità” (Aaker
2003). Quanto alla compatibilità, si consideri il concetto di categorizzazione:
l’omonima teoria sostiene che gli individui tendono a ricondurre i singoli
stimoli a cui sono esposti ad una categoria precedentemente definita, senza
valutarli ponderatamente di volta in volta. Si applichi ora questo concetto al
momento della valutazione, da parte del consumatore, di una brand
extension. Essa può avvenire secondo due diverse modalità (Aaker e Keller,
1990): attraverso un processo analitico (piecemeal processing), che giudichi
l’estensione in base alla sua capacità di soddisfare i benefici promessi, o
mediante un processo sintetico (category-based processing), fondato sul
trasferimento all’estensione dell’atteggiamento globale sviluppato verso la
marca originaria. Come dimostrano Boush e Loken (1991), estensioni in
categorie percepite come molto simili o molto dissimili rispetto a quella della
marca originaria vengono valutate velocemente e in modo sintetico, mentre
33
Le conclusioni presentate sono state utilmente organizzate in KELLER, K.L., BUSACCA,
B. E OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. Sono qui rielaborate a
partire dal medesimo testo o dalle fonti citate.
97
CAPITOLO 3
invece estensioni non molto dissimili formano oggetto di un processo
valutativo analitico. Pertanto, se in un primo momento il consumatore ritiene
l’extension brand in qualche modo coerente al parent brand, potrebbe
estendere al nuovo prodotto l’atteggiamento sviluppato verso la marca.
Viceversa, una valutazione analitica renderebbe il nuovo prodotto meno
dipendente dalla marca originaria.
La compatibilità può poggiare su diverse basi: attributi e benefici relativi al
prodotto oppure legati a situazioni di utilizzo o tipologie di utenti comuni. La
compatibilità è basata sulle associazioni nella mente del consumatore, per le
quali si è detto non esistere un limite preciso. Le categorie di appartenenza
sono un’importante associazione, e possono essere, ciascuna con le proprie
ulteriori associazioni, un punto di contatto discriminante nel giudizio di
similarità o meno che il consumatore dà dell’estensione. La percezione di
similarità è tanto più forte quanto le associazioni comuni prevalgono su
quelle distintive. Particolare peso hanno le associazioni salienti del brand, di
cui l’impresa deve avere piena coscienza: se queste sono forti, possono
essere per il consumatore più rilevanti di quelle relative alla categoria di
appartenenza del brand. Uno specifico brand, per esempio, potrebbe essere
più compatibile con una categoria di estensione percepita “più lontana dalla
propria” che con una invece molto vicina. La natura del fit è molto dibattuta in
letteratura, e se ne approfondirà in seguito il concetto.
A seconda della conoscenza del consumatore della categoria di prodotto, la
percezione di compatibilità può essere fondata su analogie tecniche o
produttive oppure su fattori più superficiali come la complementarietà
funzionale. Consumatori esperti sono in grado di esprimere giudizi di
compatibilità più strutturati e profondi di consumatori “novizi”: possono
considerare, per esempio, le competenze tecniche dell’impresa per ricavarne
l’eventuale spendibilità nella categoria di estensione. In mancanza di
conoscenza approfondita delle categorie di prodotto, invece, si affideranno,
98
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
per i propri giudizi di similarità, ad elementi più “percettivi” e meno razionali
(Muthukrishnan e Weitz 1990).
I brand di alta qualità consentono un’estensione maggiore rispetto a quelli
medi, pur essendo anch’essi soggetti a dei limiti. Le marche di qualità
godono spesso di credibilità ed affidabilità. I consumatori che accordino ad
esse, anche inconsciamente, queste caratteristiche sono più portati a dare
fiducia a scelte che “comprendono poco” sul piano razionale. Un brand di
qualità, pertanto, possiede a parità di condizioni una maggior facilità di
estensione. Tuttavia, va osservato che le sempre presenti caratteristiche
intrinseche di un brand, anche qualora questo goda di elevata credibilità,
negano la possibilità che esso si possa estendere in qualunque categoria
desideri: il giudizio di affidabilità del consumatore è accordato sulla base di
associazioni positive ma specifiche, non necessariamente spendibili in tutti i
contesti.
Una marca considerata come il prototipo di una certa categoria di prodotti
può essere difficilmente estensibile al di fuori di quella categoria. In alcuni
mercati ci sono brand leader che rappresentano l’intera categoria di prodotto.
Alla forza acquisita è connaturata la tentazione di sfruttare il proprio capitale
di notorietà ed immagine per entrare in nuove categorie: tuttavia, si tratta di
un’operazione da valutare attentamente, perché nasconde molti rischi.
Innanzitutto, il consumatore potrebbe faticare ad accettare l’estensione, per
la difficoltà di comprendere la marca in una modalità disancorata dalla sua
origine tradizionale; in secondo luogo, l’impresa rischierebbe di perdere la
legittimità e il potere del brand nel mercato d’origine. Il rischio di disperdere il
proprio valore è a maggior ragione da considerare quando nella categoria di
estensione sono presenti altri prototipi (Kapferer 2003). Chiquita provò, nel
1990, a lanciare una linea di granite, ma le associazioni al suo prodotto
principale, la banana, furono troppo forti da superare e il prodotto non ebbe
successo (Phillips 1990). Si pensi a casi limite, quelli in cui nomi di marca
99
CAPITOLO 3
sono diventati generici, come Kleenex o Thermos, al punto da non avere più
un valore intrinseco spendibile sui mercati.
Le associazioni ad attributi concreti tendono ad essere più difficilmente
estensibili rispetto a quelle astratte. Le associazioni relative ad elementi
tangibili tendono ad essere trasferibili solo in categorie di prodotti dove
possono mantenersi positive: un’associazione ad un gusto o un ingrediente,
per esempio, se da un lato può costituire una base di estensione di una
marca in formati o per utilizzi diversi, dall’altro può ostacolarla qualora voglia
entrare in categorie più eterogenee. In questo caso, infatti, l’attributo
potrebbe non essere più rilevante o visto come inappropriato. Si pensi alla
difficoltà per Perlana di entrare nelle linee di detersivi per capi non in lana.
Un’associazione astratta, invece, non essendo direttamente collegata ad
attributi
tangibili
che
caratterizzano
la
categoria
originaria,
gode
tendenzialmente di maggior libertà di estensione.
I consumatori potrebbero trasferire associazioni positive nella classe del
prodotto originale ma negative nel contesto dell’estensione. Oltre ad
assumere poca rilevanza nel contesto dell’estensione, un’associazione
originariamente
positiva
potrebbe
assumere
connotazioni
negative.
Certamente, le associazioni al gusto si prestano facilmente ad essere
trasferite da un prodotto alimentare ad un altro, ma un brand associato agli
aromi piccanti delle sue patatine, per esempio, sarebbe difficilmente accolto
con favore nel mercato dei prodotti per la prima colazione. Un test di mercato
rivelò che l’eventuale salsa di pomodoro Campbell sarebbe stata percepita
negativamente come “acquosa”, caratteristica invece positiva della nota
zuppa.
Anche da associazioni positive i consumatori potrebbero dedurne altre
negative. Una associazione potrebbe anche non cambiare segno nel
contesto dell’estensione, ma dare luogo ad altre associazioni negative. La
resistenza è spesso sinonimo di qualità nell’ambito dei beni durevoli e
100
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
rappresenta difficilmente un’associazione negativa, ma potrebbe, nell’ambito
dell’abbigliamento di lusso, far nascere associazioni di “eccessiva durata nel
tempo” e quindi di “fuori moda”.
È difficile compiere un’estensione in una classe di prodotti percepiti di facile
realizzazione. I mercati basici, dove i prodotti sono percepiti come simili, si
sono detti essere meno adatti alle marche, perché esse possono svolgere
solo parte delle loro potenziali funzioni. Analogamente, è difficile estendere
un brand, magari di alta qualità, in categorie di prodotto ritenute banali: il
consumatore, infatti, percepirebbe come ingiustificato il premium price
richiesto, soprattutto a fronte della scarsa differenziazione offribile dalla
marca nel contesto “facile” (Aaker e Keller 1990).
Oltre ad influire positivamente sull’immagine del parent brand, un’estensione
di successo può consentire ulteriori estensioni. Uno dei ruoli strategici della
brand extension è quello di “muovere la marca” in una certa direzione,
mutandone posizionamento e immagine percepita. Per questo motivo,
un’estensione di successo che dia alla marca una nuova immagine potrebbe
far dischiudere opportunità di sviluppo precedentemente fuori portata: nella
fattispecie, consentire ulteriori estensioni non affrontabili con l’immagine
originaria. Estensioni progressive possono consentire al brand di accedere
gradualmente a categorie non affrontabili da subito in modo diretto (Keller e
Aaker 1992). In questo aspetto emerge in modo marcato la portata
strategica, oltre che tattica di breve periodo, dell’estensione di marca. Inoltre,
c’è anche un motivo secondario per questo effetto: se una marca riesce ad
essere presente con qualità in categorie molto diverse, può acquisire
credibilità e l’associazione di “saper fare bene qualunque cosa”, che rende il
consumatore, come già spiegato, più propenso a superare le eventuali
percezioni di scarsa compatibilità delle ulteriori estensioni. In questo senso,
“più un brand è esteso, più è facile che si riesca ad estendere”, restando
tuttavia invariati, di volta in volta, i requisiti e rischi che questa operazione
comporta.
101
CAPITOLO 3
Un’estensione non riuscita danneggia il parent brand solo quando poggia su
una forte compatibilità. In questo senso, il fallimento di un’estensione di linea
dovrebbe comportare effetti di feed-back negativo maggiori rispetto ad
un’estensione di categoria; questi effetti dovrebbero inoltre diminuire
proporzionalmente alla lontananza della categoria di estensione da quella di
origine. La performance negativa su prodotti percepiti scarsamente
compatibili, pertanto, avrebbe poca influenza sull’immagine del parent brand:
questo risultato della ricerca accademica (Roedder John e Loken 1993) è da
considerarsi attendibile, nonostante siano molte le contingenze che ne
attenuano la generalità. Per esempio, se un consumatore è fortemente
motivato, il suo giudizio negativo sull’extension si riflette sul parent brand
anche se le rispettive categorie sono lontane (Gurhan-Canli e Maheswaran
1998).
Un’estensione fallimentare non impedisce all’azienda di fare un passo
indietro e introdurre un’estensione più vicina al brand. Gli effetti di feed-back
negativo, come asserito nel punto precedente, possono fortunatamente non
essere irreparabili. Così, un’impresa che fallisca un’estensione potrà
introdurne un’altra, con rinnovata fiducia e maggior consapevolezza. Va
detto, tuttavia, che anche il consumatore che percepisca il “passo indietro”
del brand acquisisce la medesima consapevolezza, scoprendone un limite
che prima era presente ma non palesato.
L’estensione verticale può essere difficile e richiede spesso strategie di subbranding. Si è detto della maggior capacità di estensione, a parità di
condizioni, delle marche di qualità. Tuttavia, l’estensione verticale verso il
basso, scelta di marketing perseguibile dai brand di elevato status, comporta
dei rischi notevoli di ritorsione: i clienti fedeli della marca originaria
potrebbero non vedere con favore la “compagnia” di consumatori di segmenti
che prima non potevano permettersi il brand; più in generale, l’immagine
della marca potrebbe uscire sfocata e depauperata dall’operazione. Per
102
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
questo motivo, qualora l’impresa non preferisca optare per una nuova marca,
l’estensione è introdotta contestualmente ad una strategia di sub-branding,
che la distingua chiaramente dalla marca originaria. La stessa strategia
dovrebbe essere applicata in senso contrario da chi voglia estendersi
verticalmente verso l’alto, operazione molto difficile. Un adeguato superbrand (Farquhar, Han, Herr e Ijiri 1992), che segnali l’elevata qualità e si
leghi in maniera non troppo percettibile al parent brand, consentirà di non
risentire dell’immagine più bassa di questo e di aggiornarla anzi nel mediolungo periodo.
La strategia pubblicitaria più efficace per un’estensione è quella che privilegia
l’informazione sull’estensione piuttosto che evocare il parent brand. Il focus
della comunicazione deve essere sull’estensione, per valorizzarla in sé e per
mostrarne la compatibilità con il parent brand. Questo va fatto in primo luogo
rafforzando le associazioni comuni (che si presumono positive) tra le due
entità che i consumatori sono portati a riconoscere nella loro prima
valutazione; in secondo luogo, evidenziando altri aspetti del legame più
nascosti, dai quali i destinatari del messaggio possano desumere ulteriori
associazioni positive.
3.4 ALCUNI ESEMPI
La casistica aziendale è ricca di estensioni di marca che ben esemplificano
molte delle considerazioni svolte finora. Si presentano alcune fattispecie
piuttosto “celebri”, che fanno emergere chiaramente la potenzialità e i rischi
della strategia in esame.
I rischi di diluizione del significato del brand: Virgin
La nascita di uno dei brand più estesi al mondo risale al 1973 anno in cui
Richard Branson, all’età di 23 anni, fonda l’etichetta di registrazione Virgin
Records. Questa riesce ad avere presto notorietà e successo grazie a Mike
103
CAPITOLO 3
Oldfield e alla celebre Tubular Bells, tema del film L’esorcista (The exorcist,
1973). Successivamente, il contratto con i Sex Pistola, orfani della EMI, la
rende una realtà consolidata del mercato discografico inglese e mondiale.
Nel 1984, la prima, grande estensione: Branson lancia, tra le incredulità di
molti collaboratori, Virgin Atlantic Airways. Da quel momento, Virgin non ha
mai smesso di estendersi, entrando nelle categorie di prodotto più disparate:
bibite (Virgin Cola, Virgin Drinks), treni (Virgin Rail), servizi di comunicazione
(Virgin Mobile), hotel (Virgin Hotels) e molte altre ancora. L’espansione di
Virgin, tuttavia, è straordinaria ma controversa: per i problemi finanziari talora
affrontati e per l’insuccesso commerciale di alcune estensioni. Dal punto di
vista specifico del branding, il suo sviluppo è enorme ma indisciplinato:
commercializzando prodotti e servizi del tutto slegati tra loro, Virgin corre
continuamente il rischio di vedere diluita la sua immagine ed indebolito il suo
significato; rischia inoltre di pagare a livello globale le cattive vicissitudini di
alcune delle sue costole. Nel singolo individuo, il ritardo di un aereo o di un
treno Virgin può influire negativamente sulla possibilità di acquisto di un
prodotto di consumo ugualmente Virgin. Proprio i prodotti di consumo
appaiono tra quelli più deboli nel portafoglio globale, tanto da rivestire un
ruolo comunicativo nei trasporti marchiati Virgin più che un business a sé.
Branson, tuttavia, nonostante dubbi e critiche piovutegli addosso da sempre,
continua con convinzione a perseguire la strada dell’estensione continua.
La necessità di coerenza: Levi’s
Negli anni ’80 Levi’s godeva di piena salute nel mercato dell’abbigliamento,
con un’ampia quota di mercato nel segmento degli abiti “pratici e robusti” e
una contemporanea presenza, meno rilevante, nei segmenti “fascia bassa” e
“trendy casual”. Per mantenere la corrente di crescita, Levi’s decise di
provare ad entrare in un segmento fino a quel momento inesplorato, quello
degli “individualisti classici”. Questi, secondo uno studio sulla segmentazione
dell’abbigliamento classico, rappresentavano il 21% del mercato: si trattava
di una clientela ricca e raffinata, disposta a spendere anche molti soldi per
abiti di ottimi materiali e fattura. L’impresa introdusse appositamente per
104
LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION
questo
segmento
la
linea
Levi
Tailored
Classics:
si
scelse
di
commercializzarla nei grandi magazzini anziché nei negozi specializzati, per
sfruttare la presenza acquisita, e ad un prezzo più basso rispetto a quello del
diretto concorrente Hager. Levi’s azzardò anche la formula, insolita per il
segmento, dell’abito “spezzato”, per consentire ampia libertà di scelta al
cliente. Nonostante queste scelte fossero attente e ponderate, il prodotto non
ebbe successo: ci fu sicuramente un problema di fit tra il brand com’era
conosciuto e la nuova categoria di prodotto. Levi’s era sinonimo di
robustezza, lavoro, praticità, rapporto qualità/prezzo; gli individualisti classici
non le riconoscevano credibilità nell’ambito di abiti classici. In altre parole,
appunto, il brand non era compatibile con la categoria di prodotto34.
Riposizionarsi estendendosi: Infasil
Infasil nasce del 1974 come marca monoprodotto: un detergente liquido per
lavare e proteggere la pelle del neonato, distribuito esclusivamente in
farmacia. Nel 1987, il brand venne rilevato da Procter & Gamble, che
provvide a lanciarlo immediatamente nel mercato di massa. Soprattutto, la
multinazionale avviò un deciso processo di riposizionamento, con campagne
pubblicitarie che dal neonato cercavano di ampliare il target fino a
comprendere anche le madri. Nel 1989, venne lanciato Infasil Intimo, un
detergente intimo neutro per l’igiene quotidiana, che fece diventare Infasil il
leader di categoria. Con questa rinnovata immagine, che faceva comunque
leva sulla forza del “vecchio” brand Infasil, l’impresa poté espandersi anche
nelle categorie dei deodoranti, dei bagnoschiuma e degli shampoo, con ottimi
risultati di crescita. Raggiunte posizioni rilevanti in tutti questi mercati, Infasil
dovette in seguito reagire all’entrata di importanti concorrenti quali Dove e
Nivea: precise segmentazioni permisero di comprendere i bisogni più
specifici all’interno delle categorie, e furono la base per estensioni che,
completando la linea, risposero al meglio agli stessi.
34
Caso tratto da AAKER, D.A., Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco
Angeli, Milano, 2003.
105
PARTE II
4. IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
4.1.
Gli studi sull’estensione di marca
la prospettiva del consumatore
4.2.
Aaker e Keller (1990)
“Consumer Evaluations of Brand Extensions”
4.3.
Gli studi successivi
quindici anni di ricerca
4.4.
Considerazioni personali
i punti controversi
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
4.1 GLI STUDI SULL’ESTENSIONE DI MARCA
Si è detto che l’attenzione ai temi del brand e della brand equity è un
fenomeno piuttosto recente: in particolare, la ricerca ha cominciato ad
occuparsi di estensione della marca da meno di un ventennio. Il primo studio
fu presentato nel 1987 all’Università del Minnesota35: si era osservato
l’atteggiamento verso una marca fittizia di computer, chiamata Tarco,
presentando i risultati di test che valutavano sei computer Tarco. Questi test,
a seconda dei casi, presentavano risultati diversi (da zero a sei computer
erano identificati come “di scarsa qualità”), e l’atteggiamento verso Tarco ne
veniva ovviamente influenzato. Successivamente, si sottoponeva una lista
dei prodotti che avrebbe lanciato la marca: da un nuovo computer ad
estensioni molto vicine (microcomputer, orologi digitali, registratori di
cassa…), fino ad arrivare ad estensioni di categoria anche molto distanti
(biciclette, penne, sedie da ufficio). Si chiedeva al campione di esprimere un
giudizio/sensazione su questi prodotti prima di vederli. Si misurò così la
correlazione tra l’atteggiamento verso Tarco e quello verso i nuovi prodotti da
Tarco introdotti, e si verificò che questa era tanto più alta quanto vicina era
l’estensione. Il trasferimento degli atteggiamenti, quindi, era maggiore nel
caso di categorie di estensione percepite come vicine al core business di
Tarco. In questo studio, la marca era intenzionalmente fittizia: i rispondenti si
trovavano a formulare giudizi su un brand senza immagine. Così, i ricercatori
hanno isolato il fattore della similarità tra le categorie di provenienza ed
estensione, mostrandone l’effetto sul giudizio di estendibilità della marca.
La ricerca accademica, di norma, conviene nell’individuare in uno studio di
Aaker e Keller del 1990 il primo tentativo di comprendere in maniera più
strutturata i fattori di successo della strategia di estensione di marca. Questo
studio seminale ha dato luogo ad una serie successiva di indagini, con
risultati generalmente concordi e a volte più controversi. L’interesse per
queste indagini è duplice: dal punto di vista teorico, questi studi hanno
contribuito, insieme alla pratica manageriale, a formare lo “stato dell’arte”
35
The University of Minnesota Consumer Behavior Seminar (1987) “Affect Generalization to
Similar and Dissimilar Brand Extensions”, Psychology and Marketing, 4 (3), 225-37
111
CAPITOLO 4
sulla materia della brand extension, e in particolare le “linee guida”
presentate nel capitolo precedente; più specificamente in relazione a questo
lavoro, rappresentano il punto di partenza, anche e soprattutto metodologico,
dal quale si è partiti per l’indagine presentata nell’ultima parte.
È fondamentale individuare da subito il trait d’union tra questi lavori, cioè il
focus sul consumatore: si cerca di comprendere come questi valuti
un’estensione di marca, indagando, in questo senso, su una condizione
necessaria per il successo della strategia. Anche altri aspetti, come per
esempio il supporto di marketing, possono condizionarne il risultato finale;
tuttavia, la percezione dell’estensione da parte del consumatore è un primo,
fondamentale momento che merita di essere adeguatamente approfondito.
Si è scelto di presentare in maniera approfondita lo studio di Aaker e Keller,
innanzitutto per i suoi indiscussi meriti sostanziali: nei dieci anni successivi
alla sua pubblicazione, è stato citato in altri interventi ben 92 volte (Bottomley
e Holden 2001). Inoltre, molti spunti metodologici del contributo saranno
successivamente ripresi nello studio personale. Il paragrafo successivo è
dedicato alla descrizione di alcuni importanti risultanti ottenuti dalla ricerca
successiva, che come si è detto è proliferata: la scelta degli articoli trattati è
stata effettuata non solo con il criterio del loro valore intrinseco, ma ancora
una volta per la loro rilevanza, anche in termini di interrogativi sollevati, per la
parte conclusiva del lavoro. In questo senso, si vuole rappresentare lo “stato
dell’arte” della ricerca sulla brand extension dal punto di vista del
consumatore mostrandone non solo i risultati consolidati ma anche i punti
controversi, alcuni dei quali verranno osservati criticamente nel paragrafo
conclusivo del capitolo.
Curiosamente, pertanto, due dei concetti che ritorneranno continuamente nel
lavoro fino alla sua conclusione, qualità e compatibilità, sono anche quelli
che hanno guidato la redazione di questa parte, tramite logico tra la
precedente teoria e la successiva, personale sperimentazione.
112
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
4.2 AAKER E KELLER (1990)
4.2.1 Scopi e articolazione della ricerca
Questo studio di David A. Aaker e Kevin Lane Keller è stato presentato nel
gennaio del 1990 sul vol. 54 del Journal of Marketing, con il titolo “Consumer
Evaluations of Brand Extensions”. Si tratta di una ricerca esplorativa
articolata in due diversi studi, dei quali noi descriveremo il primo.
Scopo dell’indagine
Gli autori hanno studiato le reazioni del consumatore a 20 ipotetiche
estensioni di 6 marche note. I rispondenti hanno fornito un set di associazioni
aperte, spontanee, ai sei parent brand; hanno quindi giudicato su apposite
scale numeriche il loro atteggiamento verso la marca e verso le estensioni, la
compatibilità tra le categorie di prodotto e la difficoltà percepita di realizzare
l’estensione. L’obiettivo del lavoro era, genericamente, di comprendere come
si formi l’atteggiamento verso l’estensione di marca; più puntualmente, i due
studiosi intendevano affrontare queste quattro questioni:
1. Si possono dedurre, osservando le reazioni a sei brand e venti
estensioni, degli spunti qualitativi utili per comprendere le valutazioni
che il consumatore fa delle estensioni di marca?
2. In che modo la qualità globale del parent brand percepita dal
consumatore influirà sulla sua valutazione delle estensioni dello
stesso? Sotto quali circostanze le percezioni di qualità hanno il loro
maggior effetto?
3. Qual è il ruolo della percezione dei consumatori circa la compatibilità
(fit) tra la categoria di prodotto originaria e quella dell’estensione?
Influirà sul trasferimento della percezione di qualità dalla marca
originaria all’estensione? Come dovrebbe essere concettualizzato e
misurato il fit?
4. Quali altri aspetti relativi al contesto dell’estensione, come la difficoltà
percepita di realizzarla, influiranno sulla valutazione dell’estensione?
113
CAPITOLO 4
Gli oggetti dell’indagine
Associazioni ai brand: si è abbondantemente approfondito, nei capitoli
precedenti, il significato, condiviso in questo studio, di “associazione alla
marca”. Aaker e Keller (A&K) hanno chiesto al campione di fornire delle
associazioni aperte alle ipotetiche estensioni di marca, per esplorare dal
punto di vista “qualitativo” il tipo di associazioni comparse e il loro impatto
sulle valutazioni delle estensioni. In particolare, i ricercatori si proponevano di
verificare se il trasferimento delle associazioni negative fosse analogo a
quello delle positive.
Atteggiamento verso il parent brand: si tratta della percezione di qualità
complessiva che il consumatore ha del brand; è un “giudizio astratto” circa la
superiorità o eccellenza del brand-prodotto. Gli autori ipotizzano che
l’influenza di questo atteggiamento (etichettato qualità) su quello verso
l’estensione di marca sia positivo: questa, in altre parole, dovrebbe
beneficiare della qualità riconosciuta alla marca originaria.
Compatibilità (fit) tra la categoria di prodotto originaria e quella di estensione:
questa percezione di coerenza avrebbe una doppia influenza sulla
valutazione della brand extension. Infatti, influirebbe sia sul trasferimento
delle associazioni positive (facendo ad esso da propellente o addirittura, al
contrario,
inibendolo)
che
sulla
formazione
di
negative,
perché
il
consumatore, percependo scarsa compatibilità, potrebbe ritenere l’impresa
incapace
di
produrre
estensioni
di
qualità.
Il
problema
della
concettualizzazione della compatibilità è ancora oggi molto dibattuto: la
soluzione di Aaker e Keller è l’utilizzo di tre dimensioni per misurarla: la
complementarietà, cioè il grado in cui i consumatori percepiscono i prodotti
come sinergici nella soddisfazione degli stessi bisogni; la sostituibilità, cioè il
grado in cui uno può sostituire l’altro nel soddisfare gli stessi bisogni; la
trasferibilità, relativa all’aspetto produttivo più che all’utilizzo, che misura
quanto il consumatore percepisce l’impresa in grado di operare nella
categoria di prodotto di estensione. La trasferibilità fa quindi riferimento alle
risorse e competenze di cui il brand normalmente beneficia nella categoria
114
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
originaria, che potrebbero, nella percezione del consumatore, essere o meno
impiegabili in quella di estensione.
Difficoltà percepita di realizzare l’estensione: gli autori ipotizzano l’esistenza
di altre percezioni della nuova categoria di prodotto che potrebbero influire
nella valutazione del consumatore, e scelgono di considerare ed inserire nel
modello la difficoltà percepita di progettare o realizzare l’estensione.
L’operazione di un brand considerato di qualità, che si cimenti nella
creazione di un prodotto ritenuto banale, potrebbe essere giudicata
contraddittoria. Addirittura, il consumatore potrebbe interpretarla come un
tentativo di sfruttare la reputazione della marca per spuntare premium price
che non giustifica.
Riassumendo, Aaker e Keller cercano di verificare queste quattro ipotesi:
•
H1: Elevate percezioni di qualità rispetto alla marca originaria sono
associate ad atteggiamenti più positivi verso l’estensione;
•
H2: Il trasferimento della qualità percepita dalla marca originaria
all’estensione è accresciuta quando le due categorie di prodotto in
qualche modo sono compatibili. Quando la compatibilità è debole, il
trasferimento è inibito;
•
H3: La compatibilità tra le due categorie di prodotto coinvolte ha una
diretta influenza positiva sull’atteggiamento verso l’estensione;
•
H4: La relazione tra la difficoltà percepita di realizzazione del prodotto
della categoria di estensione e la valutazione di questa è positiva.
4.2.2 Metodo di indagine
Il campione
Le percezioni e le valutazioni sulle 20 estensioni dei 6 brand si sono ottenute
da un campione di 107 studenti undergraduate di economia, che hanno
partecipato allo studio come parte dei requisiti di un corso. Una lettera di
premessa all’indagine spiegava che l’interesse era rivolto alle loro opinioni,
come consumatori, circa differenti brand e prodotti.
115
CAPITOLO 4
Marche ed estensioni
Le marche originarie scelte erano marche esistenti, rispondenti ad alcuni
criteri: rilevanti per il campione, genericamente percepite come di elevata
qualità, in grado di suscitare associazioni relativamente specifiche e non
ampiamente
estese
in precedenza.
Le venti estensioni,
ipotetiche,
rispondevano all’esigenza di essere ragionevoli e non illogiche, ma dovevano
assicurare una certa eterogeneità sulle tre misure di fit. Si sono scelte
marche di elevata qualità perché altrimenti le estensioni generate sarebbero
risultate tendenzialmente meno realistiche. La rosa finale di brand e
categorie di estensione è stata determinata analizzando i responsi di due
focus group e il sondaggio di circa 100 soggetti simili a quelli del campione.
Tab. 4.1 Estensioni di marca
Marca originaria
Heineken (birra)
Vuarnet (occhiali da sole)
Häagen Dazs (gelato)
Crest (dentifricio)
McDonald’s (ristorazione)
Categoria di estensione
Birra leggera, vino, popcorn
Sci, portafogli, abbigliamento sportivo, orologi
Popcorn, formaggio fresco, barretta snack
Collutorio, chewing gum, crema da barba
Patate fritte surgelate, parco a tema, lavorazione foto
Le misure
Si sono ottenute associazioni aperte prima per la marca originaria e poi per
ciascuna estensione del set a questa relativo. Agli intervistati è stato chiesto
di annotare, in circa 30 secondi, le associazioni o i pensieri emergenti nel
considerare l’idea di acquistare ciascuna marca (originaria) o estensione.
Le associazioni sono state codificate da due gruppi diversi di individui (ignari
dello scopo dell’indagine), assemblandole in raggruppamenti che avessero al
loro interno associazioni sostanzialmente uguali. In questo modo, ad ogni
associazione al brand-estensione si è fatto corrispondere un cluster
caratterizzato dalla numerosità degli individui citanti le stesse cose. La media
116
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
dei responsi dei due gruppi di codificatori, peraltro d’accordo nel codificare
l’82% delle associazioni, è il risultato finale delle associazioni riportato dagli
autori.
Per la misurazione delle variabili si sono utilizzate scale di Likert: così, gli
intervistati hanno valutato da 1 a 7 la qualità complessiva della marca
originaria (1 = inferiore, 7 = superiore); il grado di sostituibilità nell’utilizzo
delle categorie di prodotto originaria e di estensione (1 = bassa, 7 = alta); il
grado di complementarietà delle categorie di prodotto originaria e di
estensione (1 = bassa, 7 = alta); l’utilità (trasferibilità) di persone, risorse e
competenze presenti nella categoria di prodotto originaria nella categoria di
estensione (1 = nessuna utilità, 7 = molta utilità); la difficoltà percepita nel
progettare e realizzare il nuovo prodotto (1 = per nulla difficile, 7 = molto
difficile) per un’impresa proveniente dalla categoria di origine.
Infine, l’atteggiamento rispetto all’estensione è stato descritto con la media
aritmetica di due misurazioni: la qualità complessiva dell’estensione (1=
inferiore,
7
=
superiore)
e
la
probabilità
di
provare
l’estensione
presupponendo che fosse programmato un acquisto nella categoria di
prodotto (1 = assolutamente improbabile, 7 = molto probabile).
4.2.3 Risultati dello studio
Analisi qualitativa
L’obiettivo della fase qualitativa della ricerca era verificare quali tipi di
associazione sarebbero emersi rispetto ai brand originari e alle estensioni, e
grazie a queste ricavare spunti sul perché alcune valutazioni di estensioni
siano più favorevoli di altre.
Le associazioni alle marche originarie sono riassunte nella tabella 4.2
insieme alle valutazioni medie di qualità di ciascuna marca. Quattro marche
(Heineken, Vuarnet, Häagen Dazs, Crest) hanno ricevuto valutazioni molto
alte, e le altre due (Vidal Sassoon e McDonald’s) comunque sopra la media
117
CAPITOLO 4
o sulla media. Queste considerazioni sulla qualità trovano una rispondenza
anche nelle associazioni riportate, con molti intervistati a citare l’alta qualità
complessiva dei brand. Anche il prezzo elevato è stato spesso menzionato
per quattro delle marche. Molte associazioni sono invece più specifiche,
riferendosi a particolari attributi di prodotto, packaging, nozioni sul produttore,
caratteristiche del consumatore o situazioni di utilizzo. Complessivamente,
l’analisi delle associazioni citate conferma che queste fanno riferimento sia
ad atteggiamenti complessivi verso le marche che a loro attributi più specifici.
Tab. 4.2 Associazioni alle marche originarie
Heineken (birra) 5.57
Costosa
Alta qualità
Bottiglia/etichetta verde
Importata
Europea
Buona birra
44
24
27
23
23
15
Häagen Dazs (gelato) 5.85
Costoso
55
Buon gusto
28
Ottimi sapori
20
Buon gelato
18
Alta qualità
16
Ricco
17
Cremoso
17
Alto tasso calorico
13
Crest (dentifricio) 5.48
Cavity fighter
Tradizionale
Buon gusto
Fiducia nella marca
36
24
17
16
Vuarnet (occhiali da sole) 5.87
Costosi
68
Sci
33
Qualità
28
Fashion
27
Trendy
13
Protezione UV
12
Vidal Sassoon (shampoo) 4.33
Costoso
24
Buon profumo
15
Bottiglia marrone
14
Alta qualità
14
Francese/Hair designer francese 13
Fashion
12
Usato nei saloni
11
McDonald's (ristorante) 3.33
Fast food
Economico
Cattivo gusto
Buone patatine
Grasso
Archi dorati/Ronald McDonald
46
45
23
20
19
13
Le associazioni alle estensioni di marca, analogamente a quelle alle marche
originarie, sono riassunte insieme alle loro valutazioni complessive. La
118
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
tabella 4.3 riporta alcuni esempi, ed è utile osservare le associazioni alle
estensioni che hanno ricevuto i giudizi meno lusinghieri. Complessivamente,
da questa analisi qualitativa gli autori hanno rilevato tre tipi di problemi: la
compatibilità tra la categoria originaria di prodotto e quella dell’estensione era
percepita come bassa (“gelato e popcorn non stanno bene insieme”,”vino e
birra brutta combinazione”); l’estensione era percepita come semplice da
realizzare (“tutti i popcorn sono uguali”); la marca originaria portava attributi
dannosi per l’estensione (“popcorn con gusto di birra”).
Tab. 4.3 Associazioni alle estensioni di marca
Vino Heineken 2.91
Vino e birra brutta combinazione
Bassa o cattiva qualità
Poca esperienza
Buona qualità/buon nome
Costoso
Portafogli Vuarnet 3.78
Costosi
Fashion
Alta qualità
Sportivi
Non di pelle
Popcorn Heineken 2.30
Non si mischiano bene con la birra
Tutti i popcorn sono uguali
Poco stuzzicanti
Gusto di birra
Stanno con la birra
32
24
17
12
8
Barretta snack Häagen Dazs 4.81
Buon gusto
32
Costosa
23
Vale la pena provarla
17
Cioccolato
16
Buona qualità
14
33
24
21
15
15
Collutorio Crest 4.86
Buono come il dentifricio
Combattere carie
Buona qualità
Buon gusto
Cattivo gusto
36
23
18
11
10
26
20
18
15
14
Popcorn Häagen Dazs 3.28
Si mischiano male con il gelato
Costosi
Gusti dolci/ricchi
Tutti i popcorn sono uguali
Alta qualità
31
23
19
16
13
Modello di valutazione delle estensioni di marca da parte del consumatore
L’analisi qualitativa delle risposte degli intervistati fornisce alcuni spunti
interessanti per comprendere come questo valuti le estensioni di marca. Il
119
CAPITOLO 4
lavoro degli autori, tuttavia, ha il suo nucleo in un modello quantitativo, che
cerca di comprendere in modo preciso e strutturato il ruolo delle diverse
percezioni del consumatore nel determinare il suo atteggiamento verso le
estensioni di marca. Si tratta di un modello di regressione che origina dalle
quattro ipotesi precedentemente descritte.
La variabile dipendente del modello è l’atteggiamento complessivo verso
l’extension brand, che abbiamo detto essere stato codificato come la media
delle misure della qualità percepita dell’estensione e della probabilità di
provarla. Secondo gli autori, l’utilizzo di due indicatori ha consentito di
ottenere una misura affidabile di questa variabile, perché la correlazione tra i
due è risultata dello 0,67. In seguito, quando gli autori hanno compiuto
regressioni separate per entrambi i coefficienti, i risultati non sono stati
significativamente diversi.
Le variabili indipendenti seguono le quattro ipotesi inizialmente elencate: la
prima variabile (qualità) da H1; le successive tre variabili di compatibilità
(trasferibilità, complementarietà, sostituibilità) da H3; successivamente, le tre
interazioni tra la compatibilità e la qualità percepita (qualità x trasferibilità,
qualità x complementarietà, qualità x sostituibilità), da H2; infine, l’ultima
variabile (difficoltà) da H4.
L’equazione del modello di regressione, testato su 2140 osservazioni (pari ai
107 intervistati per le 20 estensioni da valutare), è quindi la seguente:
Atteggiamento verso l’estensione = β0 +
+ β1 qualità +
+ β2 trasferibilità +
+ β3 complementarietà +
+ β4 sostituibilità +
+ β5 qualità x trasferibilità +
+ β6 qualità x complementarietà +
+ β7 qualità x sostituibilità
+ β8 difficoltà
120
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
Dai risultati ottenuti dagli autori, la qualità percepita della marca originaria ha
un coefficiente beta praticamente pari a zero, ad indicare che, in contrasto
con H1, non c’è diretto collegamento tra la qualità percepita del brand e
l’atteggiamento verso l’estensione.
La compatibilità percepita tra le categorie di prodotto non ha coefficienti beta
significativi nelle dimensioni della complementarietà e della sostituibilità. La
variabile trasferibilità, invece, è sostanziale (0.15) e significativa (p < 0.05).
Pertanto, l’influenza diretta della compatibilità sull’atteggiamento verso
l’estensione di marca, H3, è rinvenibile per solo una delle tre variabili di
compatibilità, la trasferibilità.
Per quanto concerne l’interazione tra la qualità percepita e la compatibilità
percepita tra le categorie di prodotto, essa è sostanziale e significativa nelle
variabili della complementarietà (0.25 con p < 0.01) e della sostituibilità (0.18
con p < 0.05). L’interazione della qualità percepita con la variabile
trasferibilità, invece, non è significativa (p > 0.15). I risultati del modello
suggeriscono
che
l’alta
qualità
percepita
della
marca
originaria
è
positivamente rilevante nella valutazione dell’estensione solo quando è
presente una
compatibilità
tra
le
rispettive
categorie
basata
sulla
complementarietà o la sostituibilità.
Gli autori, alla luce di questi risultati, si pongono anche la domanda di quale
sia la variabile più indicata per descrivere la compatibilità. La trasferibilità e la
complementarietà spiegano maggiormente la variabilità nelle valutazioni
delle estensioni rispetto alla sostituibilità. Infatti, in un modello che ometta le
suddette interazioni e che riassuma quindi in unici valori sia gli effetti indiretti
che quelli indiretti delle tre variabili, i coefficienti (tutti con p < 0.01) delle
prime due sono 0.24 e 0.17, e quello della terza è 0.08. Aaker e Keller,
inoltre, evidenziano come, se si aggiungesse al modello un’interazione
complementarietà / trasferibilità, il suo beta sarebbe - 0.17 e statisticamente
significativo (p < 0.01) e gli altri coefficienti rimarrebbero sostanzialmente
inalterati. La relazione negativa suggerisce che misurare la compatibilità su
una sola delle due variabili è adeguato, mentre poco si guadagnerebbe
considerandole entrambe.
121
CAPITOLO 4
La difficoltà percepita di realizzare l’estensione ha un beta significativo di
0.12, più alto di quello della variabile sostituibilità. Pertanto, il modello
supporta l’ipotesi H4, secondo la quale un’estensione facile da realizzare è
accolta in modo mediamente peggiore delle altre.
Lo studio compiuto da Aaker e Keller consente loro di fare, riassumendo,
diverse considerazioni. Gli autori premettono le debite cautele, che derivano
dalle caratteristiche dello studio: in primis, il piccolo numero di brand
considerati e i dati “meramente di correlazione”, che limitano la forza delle
implicazioni. Tuttavia, con riferimento alle quattro questioni definite come gli
scopi di indagine, gli autori si sentono di concludere provvisoriamente che:
1. Le idee circa gli attributi della marca originaria possono favorire o
minare la valutazione che il consumatore fa dell’estensione:
un’associazione positiva in una data categoria di prodotto può essere
negativa per un’altra. Si rileva che spesso questo caso si riscontra
per associazioni relative ad attributi concreti, mentre il trasferimento di
opinioni “senza cambio di segno” avviene per attributi più astratti.
2. La percezione dei soggetti circa la qualità complessiva della marca
originaria e quella sulla relazione, o compatibilità, tra le categorie di
prodotto di provenienza e di estensione hanno un effetto congiunto
sulla valutazione di una brand extension. La relazione tra la qualità
positiva della marca originaria e la valutazione dell’estensione è forte
solo in presenza di una base di compatibilità tra le due categorie di
prodotto.
3. Ancora rispetto alla compatibilità, le misure di complementarietà e
sostituibilità dei prodotti delle categorie originarie e di estensione
interagiscono con la qualità percepita del parent brand nell’influenza
sulle
valutazioni
dell’extension
brand,
mentre
l’effetto
della
trasferibilità percepita di abilità e risorse da una classe all’altra di
prodotto ha un effetto prevalentemente diretto. Complessivamente,
questa trasferibilità e la complementarietà delle categorie di prodotto
appaiono predittori migliori rispetto alla sostituibilità, e sembra esserci
122
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
un’interazione negativa tra le due. Gli autori giudicano pertanto
adeguata una misura di compatibilità basata su una o sull’altra
variabile, e non necessaria la considerazione di entrambe.
4. La percezione dei soggetti circa la difficoltà di realizzare l’estensione
ha una relazione positiva con le valutazioni di questa, supportando
l’ipotesi che un’estensione estremamente facile da realizzare è
mediamente accettata con minor probabilità. Secondo gli autori, i
consumatori interpreterebbero questo tipo di estensione come
incongrua, o addirittura come un tentativo di sfruttamento e
capitalizzazione della reputazione del brand per spuntare prezzi
iniqui.
Questa indagine e le sue relative conclusioni hanno rappresentato il punto di
partenza per una serie di studi che, nel complesso, hanno contribuito a
formare parte delle linee guida per estendere una marca presentate nel
capitolo precedente. Il paragrafo successivo ne presenta alcuni.
4.3 LE RICERCHE SUCCESSIVE
4.3.1 Sunde & Brodie (1993)
Questo studio di Lorraine Sunde e Roderick J. Brodie è stato pubblicato nel
1993 sulla rivista International Journal of Research in Marketing con il titolo
“Consumer evaluations of brand extensions: Further empirical results”, e si
tratta di una replica neozelandese dello studio di Aaker e Keller (A&K).
L’obiettivo degli autori era quello di ampliare la base empirica di verifica delle
ipotesi formulate dalla ricerca sulle estensioni di marca. Sunde e Brodie
hanno testato le quattro ipotesi dello studio di A&K utilizzando, analogamente
allo studio di riferimento, le reazioni dei consumatori a delle ipotetiche
estensioni di sei marche note.
123
CAPITOLO 4
Metodologicamente, l’indagine ha cercato di replicare il più fedelmente
possibile quella di riferimento: i brand sono stati selezionati con i criteri della
notorietà e della non diffusa estensione al momento dell’indagine; le
categorie di estensione sono state determinate in modo tale che fossero
molto simili a quelle dello studio di A&K; infine, il questionario è stato
predisposto con le stesse variabili e scale di misurazione. Dopo essere stato
testato, il questionario è stato sottoposto a 157 studenti di economia,
suddivisi quasi equamente tra undergraduate e post-experience. Ciascuno
ha valutato nove estensioni (per metà del campione relative a tre marche e
per metà alle altre tre), per un totale di 1413 osservazioni. Poiché le analisi
preliminari non hanno evidenziato differenze statisticamente significative
nelle risposte delle due categorie di studenti, i due campioni sono stati
considerati
sempre
congiuntamente.
Le
correlazioni
tra
le
variabili
indipendenti erano tendenzialmente più alte di quelle di A&K.
I risultati ottenuti dalla replica Sunde e Brodie presentano alcune differenze
rispetto a quelli dello studio originale: innanzitutto, la qualità percepita del
parent brand ha un effetto diretto sull’atteggiamento verso l’estensione
(coefficiente di regressione di 0.67 e statisticamente significativo). Gli autori,
ipotizzato che la differenza possa derivare anche dall’aver posto la domanda
relativa molto presto nel questionario, rettificano dicendo che la sequenza
delle domande non dovrebbe influenzarne il risultato. L’effetto dell’interazione
tra la qualità percepita e il fit nello spiegare l’atteggiamento verso
l’estensione non trova invece conforto in questo studio: tuttavia, Sunde e
Brodie dubitano della validità di questo risultato (e del corrispondente di A&K)
per le elevate correlazioni tra le due variabili indipendenti, che renderebbero i
risultati di regressione poco predittivi. Per quanto riguarda l’effetto diretto
della compatibilità percepita sulla qualità dell’estensione, questo studio
conferma quanto ottenuto dal precedente, mentre supporta in misura minore
l’ipotesi che la difficoltà percepita di realizzare l’estensione influisca
positivamente sul giudizio sulla medesima.
Gli autori considerano poi questi risultati in modo più “qualitativo”,
avvicinandoli a quelli di Aaker e Keller (che nel frattempo, in uno studio del
124
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
199236, rilevavano che l’importanza della compatibilità è maggiore in
presenza di bassa qualità percepita del parent brand: questo risultato
sembrerebbe coerente con l’effetto diretto dell’alta qualità percepita
supportato dallo studio di Sunde e Brodie). Soprattutto, sollevano alcune
questioni: si chiedono anzitutto quali siano le più corrette misurazioni della
compatibilità percepita (problema metodologico ma anche e soprattutto
concettuale) e dell’atteggiamento verso l’estensione (sebbene le correlazioni
rilevate tra la probabilità di acquisto e la qualità percepita fossero piuttosto
alte, gli autori ritengono ci siano margini di miglioramento); ipotizzano un
possibile ruolo delle differenze culturali nelle differenze di valutazione dei
consumatori
(nella
fattispecie,
immaginano
che
il
consumatore
neozelandese, più informato ed esperto dell’americano, dia meno peso alla
difficoltà che percepisce nella realizzazione dell’estensione). Fatte queste
considerazioni, comunque, Sunde e Brodie concludono “provvisoriamente”
che l’accettazione di una brand extension proposta sarà maggiore se (1) la
qualità percepita della marca originaria è elevata, (2) c’è una compatibilità
percepita tra le due categorie di prodotto, specialmente in termini di
trasferibilità di abilità e complementarietà tra i due prodotti, e in grado minore
(3) quando l’estensione avviene in una categoria di prodotto percepito come
difficile da realizzare. Gli effetti di (1) e (2) potrebbero interagire, ma c’è poca
certezza su questo a causa dell’elevata correlazione di cui sopra.
La risposta di Aaker e Keller
Il numero della rivista che riporta il contributo di Sunde e Brodie (International
Journal of Research in Marketing 10 (1993)) ospita anche un commento di
Aaker e Keller, titolato “Interpreting cross-cultural replications of brand
extension research”: gli autori intendono rispondere e approfondire alcune
delle questioni sollevate da S&B, affinché la ricerca successiva, in continua
espansione, ne tragga vantaggio. In particolare, i due riflettono sulle principali
discordanze tra gli studi A&K e S&B e concludono con tre osservazioni, non
distanti da alcune presenti nello stesso studio S&B, che ne spiegano la
36
KELLER K.L., AAKER D.A, “The effects of Sequential Introduction of Brand extensions”,
Journal of Marketing Research, 29 (February), 35-50.
125
CAPITOLO 4
natura. Innanzitutto, in una replica di uno studio di branding che si effettui in
contesti culturali diversi, i ricercatori dovrebbero tenere conto delle relative
specificità a tutti i livelli di decisione: nella scelta degli intervistati, negli stimoli
forniti e nelle misure utilizzate. In secondo luogo, il potere predittivo di una
ricerca correlativa è limitato e utilmente incrementabile con l’innesto di una
componente qualitativa, come nello studio A&K: questa è molto utile per
meglio comprendere, interpretare e “riempire qualitativamente” i dati
quantitativi puri. La complessità dell’argomento, secondo gli autori, è tale da
richiedere un approccio in cui convivano più tecniche e metodi. Infine, la sfida
più pressante, nell’interpretazione delle diversità dei risultati ottenuti in
contesti culturali diversi, è quella di comprenderne l’origine: sarebbe
importante, in altre parole, comprendere i fattori per i quali in contesti culturali
differenti un’estensione di marca è valutata su parametri differenti.
Aaker e Keller concludono il loro commento richiamando, tuttavia, il
sostanziale accordo, per quanto riguarda i punti fondamentali, tra il loro primo
studio e quello di Sunde e Brodie, le cui osservazioni e questioni forniscono
spunti e suggerimenti per approfondimenti successivi.
4.3.2 Bottomley e Holden (2001)
Dopo Sunde e Brodie, molti altri studiosi, in varie parti del mondo, hanno
replicato lo studio di Aaker e Keller, cercando di farlo nel modo più fedele
possibile. Tuttavia, nonostante il tendenziale accordo della ricerca su molte
delle ipotesi e delle conclusioni di A&K, le repliche hanno fornito spesso
risultati contrastanti. La spiegazione più accreditata resta quella fornita dagli
stessi autori in replica allo studio S&B: la mancanza di accordo sarebbe da
addebitarsi alle variazioni “pratiche” negli studi, in termini di materiali e
procedure, e alle differenze socioculturali nei diversi contesti.
Nel 2001, Paul A. Bottomley e Stephen Holden hanno analizzato
congiuntamente i dati di A&K e delle sette, fedeli repliche esistenti: in altre
parole, hanno incorporato tutte le osservazioni in un unico dataset, e hanno
126
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
osservato questo con un duplice obiettivo: da un lato, comprendere come le
repliche hanno cercato, rimanendo fedeli all’originale, di consentire confronti
e trarre conclusioni di carattere generale. In particolare, gli autori si
propongono anche di verificare le veridicità delle suddette spiegazioni di
Aaker e Keller alla mancanza di accordo nella replica successiva; soprattutto,
gli autori condividono l’obiettivo del filone di ricerca in questione, desiderando
sviluppare una generalizzazione empirica di come i consumatori valutino una
brand extension. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Journal of
Marketing Research (Novembre 2001) con il titolo “Do We Really Know How
Consumers Evaluate Brand Extensions? Empirical Generalizations Based on
Secondary Analysis of Eight Studies”.
Gli otto dataset, resi disponibili e considerati congiuntamente nell’analisi,
derivano dagli studi di Aaker e Keller (1990)37, Sunde e Brodie (1993)38,
Alexandre-Bourhis (1994), Nijssen e Hartman (N&H, 1994), Holden e
Barwise (H&B, 1995)39, Bottomley e Doyle (B&D, 1996). Il problema più
delicato da fronteggiare per i due studiosi è stato come sviluppare
generalizzazioni da più dataset. Gli autori hanno effettuato una analisi
secondaria centrando i residui, per formare una base standard per le
successive
considerazioni;
hanno
quindi
combinato
la
loro
analisi
complessiva del dataset con un “conteggio”, per ciascuna delle ipotesi
testate, degli studi supportanti le stesse.
La generalizzazione è stata compiuta aggregando le osservazioni in tre set
diversi: innanzitutto a livello di singoli studi, analizzati e confrontati nei
risultati dopo averli resi tra loro omogenei con le tecniche di cui sopra; a
livello di singola brand extension, verificando, estensione per estensione in
ciascuno studio, il numero di volte in cui erano supportate le ipotesi del
modello (che ricordiamo essere le medesime in tutti gli studi e quindi anche
in questo), cioè il numero di coefficienti beta positivi e significativi; infine, a
livello di “cultura”, analizzando i tre differenti dataset forniti da Holden e
37
106 anziché 107 soggetti, cioè 2120 osservazioni rispetto alle 2140 dello studio di Aaker
e Keller originariamente pubblicato.
38
I risultati pubblicati da Sunde e Brodie nel 1993 erano basati su un campione di 1413
osservazioni, mentre quello ottenuto dagli autori ne comprende 1559.
39
Holden e Bairwise hanno raccolto tre diversi dataset in Inghilterra, Francia e Stati Uniti.
127
CAPITOLO 4
Barwise, che condividevano brand, estensioni, strumenti e procedure
utilizzate e si prestavano per questo a confronti piuttosto attendibili40.
La prima conclusione a cui gli autori giungono è che le valutazioni che i
consumatori fanno delle brand extension sono determinate in prima istanza
dalla qualità percepita del parent brand e dalla compatibilità tra la categoria
di prodotto originaria e quella di estensione. Contrariamente al risultato di
A&K, pertanto, gli autori rilevano un ruolo diretto importante della qualità
percepita. Anche gli effetti diretti del fit sono significativi: in particolare, le
variabili trasferibilità e complementarietà hanno un ruolo più importante della
sostituibilità, nonostante gli autori ipotizzino che questo risultato possa
derivare anche dal relativamente esiguo numero delle estensioni che
introducano prodotti realmente sostituti. Da queste prime conclusioni, B&H
deducono la possibilità che un’estensione possa non avere bisogno di una
compatibilità buona su molte dimensioni per essere accolta positivamente.
Pur se in misura minore, le valutazioni delle estensioni di marca dipendono
anche dalle interazioni della qualità con la compatibilità percepita del brand
(in particolare con la complementarietà e la trasferibilità di risorse e
competenze dall’una all’altra categoria di prodotto) e dalla difficoltà percepita
di realizzare l’estensione. Sebbene piuttosto pochi dei coefficienti delle
variabili di interazione tra la qualità percepita del parent brand e la
compatibilità percepita tra le categorie siano statisticamente significativi, la
proporzione di beta positivi per le interazioni con la complementarietà e la
trasferibilità è piuttosto alta. Discorso analogo va fatto per la variabile
difficoltà, con beta in larga maggioranza positivi anche se con scarsa
significatività statistica. Gli autori, con cautela, si sentono così di concordare
con A&K sull’ipotesi che i consumatori valutino un’estensione in una
categoria di prodotto “facile” come un’operazione incoerente o addirittura
come un tentativo consapevole di spuntare premium price ingiustificati.
40
Le differenze significative tra i dataset di Holden e Barwise erano tre: i soggetti
dell’indagine francese e americana erano esclusivamente studenti non lauerati, mentre in
Inghilterra hanno partecipato allo studio anche laureati; a causa di una semplice omissione,
nello studio inglese le misure di difficoltà non sono state codificate per l’estensione Vuarnetabbigliamento sportivo; il questionario somministrato in Francia era stato dall’inglese tradotto
in lingua francese.
128
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
Le differenze culturali non cambiano il fatto che gli effetti diretti della qualità e
della
compatibilità
percepita
contribuiscono
positivamente
e
significativamente alle valutazioni delle estensioni di marca, tuttavia
influenzano il peso relativo di questi fattori. Gli autori suggeriscono ai brand
manager di marche globali di considerare attentamente i driver che
sottostanno al potenziale successo di un’estensione in vari contesti
socioculturali, e auspicano che la successiva ricerca rifletta sui fattori
puramente culturali che fanno rispondere i soggetti in modo diverso. Gli
autori credono anche che sia necessario superare il concetto di fit come
mera compatibilità tra categorie di prodotto, e incorporare le ricerche che
riflettono sul ruolo delle associazioni specifiche del brand.
4.3.1 Völkner e Sattler (2006)
La ricerca sull’estensione di marca nella prospettiva del consumatore si è
arricchita di contributi che, aldilà della provenienza geografica, hanno saputo
incorporare in modo completo i risultati precedenti. Lo scorso paragrafo ha
presentato un articolo che, rispetto allo studio di riferimento di Aaker e Keller,
ha operato in profondità, mantenendone intatte le ipotesi concettuali e
verificandole con maggior forza predittiva grazie ad un campione più ampio. I
tedeschi Franziska Völkner e Henrik Sattler, in uno studio presentato nel
2006, agiscono invece in ampiezza, testando, ancora con un modello di
regressione, un numero maggiore di predittori dell’atteggiamento del
consumatore verso un nuovo prodotto proposto da una marca nota.
L’articolo, titolato “Drivers of Brand Extension Success”, è uscito nell’aprile
2006 sul vol.70 della rivista Journal of Marketing (pp. 18-34).
Gli autori individuano due questioni che hanno ricevuto relativamente scarsa
attenzione nella ricerca precedente: innanzitutto, l’importanza relativa dei
predittori nello spiegare il successo delle estensioni di marca, perché
ciascuno degli studi precedenti non ne aveva mai considerati più di quattro
congiuntamente; in secondo luogo, queste ricerche hanno testato solo la
129
CAPITOLO 4
relazione diretta tra il successo della brand extension (variabile dipendente) e
i potenziali fattori di successo (variabili indipendenti), non tenendo conto delle
relazioni di dipendenza tra i fattori considerati.
Völkner e Sattler, come primo passo del loro studio, hanno rigorosamente
passato al setaccio la letteratura esistente sull’estensione di marca,
identificando quindici “drivers of brand extension success” dimostratisi
significativi (p < 0.10) in almeno uno degli studi considerati. Dopo averne
esclusi tre per la loro scarsa influenza sul fenomeno indagato e due per la
difficoltà di misurazione con il metodo dell’intervista al consumatore, gli autori
hanno deciso di incorporare nel loro modello dieci potenziali fattori che
potrebbero determinare il successo di un’estensione di marca, suddivisi in
quattro gruppi. Sono riassunti nella tab. 4.4.
Tab. 4.4: I potenziali fattori di successo delle estensioni di marca
Qualità percepita della marca originaria
Fiducia nella marca originaria
Esperienza passata con la marca
Contesto di marketing
Supporto di marketing
dell'estensione
Accettazione del dettagliante
Coerenza tra marca originaria e prodotto di
Relazione tra la marca originaria e estensione
il prodotto di estensione
Legame tra i benefici della marca originaria e
gli attributi della sua categoria di appartenenza
Caratteristiche della categoria di
Rischio percepito
prodotto di estensione
Innovazione del consumatore
Caratteristiche della marca
originaria
Queste potenziali determinanti, riferendosi a 45 studi, costituiscono un
sostanziale sunto, appunto in ampiezza, dei risultati della ricerca sul tema
della brand extension. Gli autori hanno condotto anche delle interviste a
brand manager e ricercatori tedeschi per ricavarne eventuali altri fattori
potenziali, ma senza ottenerne di complessivamente significativi.
Se i dieci potenziali predittori considerati vanno a costituire altrettante ipotesi
del modello di regressione costruito, gli autori, ancora
derivandole dalla
letteratura e con l’apporto di esperti, identificano ben tredici relazioni
strutturali tra questi che potrebbero influire sulla variabile dipendente, che
130
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
come da consuetudine è l’atteggiamento del consumatore verso l’estensione
di marca. A titolo di esempio, lo studio di Völkner e Sattler verifica l’eventuale
influenza diretta positiva del supporto di marketing sull’accettazione dei
dettaglianti e sulla coerenza percepita tra il parent brand e il prodotto di
estensione. Complessivamente, il modello di regressione costruito dagli
autori consta di ben 23 ipotesi.
Le marche e le estensioni scelte sono entrambe reali: dopo più fasi
preliminari, si sono identificate 22 marche e tre estensioni per ciascuna su
cui condurre l’indagine. Le variabili sono state misurate con più domande di
un questionario, sottoposto a un campione rappresentativo, in termini di età e
sesso, della popolazione tedesca. Le scale di misurazione sono simili a
quelle della ricerca precedente. Le interviste, affidate a studenti di marketing,
sono avvenute porta a porta, con una successiva, parziale, verifica
telefonica. Grazie alla numerosità degli intervistatori, le osservazioni finali,
ancora una volta pari al numero dei rispondenti per il numero di estensioni
testate, è stato molto elevato (2426 x 3 = 7278, poi ridotto a 6668
escludendo rispondenti per i quali le categorie di estensione non erano
rilevanti).
I risultati ottenuti spingono gli autori e identificare cinque principali fattori
capaci di influire sul successo di un’estensione di marca: la coerenza tra
marca originaria e prodotto di estensione, la fiducia e l’esperienza con la
marca, l’accettazione dei dettaglianti, il supporto di marketing. Queste cinque
determinanti, pertanto, sono i tratti di cui i brand manager dovrebbero
maggiormente preoccuparsi nel lancio di un nuovo prodotto. Völkner e Sattler
mettono in guardia gli stessi brand manager dal considerare tutti i fattori
come ugualmente forti nella loro influenza sull’accettazione del prodotto da
parte del consumatore, nonché dal dimenticare gli effetti “interni” tra i fattori
stessi.
131
CAPITOLO 4
4.4 CONSIDERAZIONI PERSONALI
Non sarebbe corretto sostenere che gli studi presentati forniscono una sintesi
davvero esaustiva della ricerca sulla brand extension, tanto essa è estesa:
piuttosto, rappresentano nell’economia del presente lavoro dei significativi
punti di vista sul fenomeno indagato, dal punto di vista teorico e
metodologico. Come si è premesso in apertura di tesi e ribadito ad inizio
capitolo, queste indagini sono state tanto utili nei risultati (per la teoria della
prima parte) quanto preziose nei punti controversi (per lo studio empirico che
ci si accinge a presentare). Già abbondantemente discussi i primi, questo
paragrafo conclusivo sulla ricerca passata mette in luce i secondi,
conducendo idealmente alla lettura della parte successiva.
Il campione
Una prima questione che merita di essere approfondita è quella del
campione utilizzato nelle indagini. Lo studio di Aaker e Keller, così come la
maggioranza degli studi successivi, ha utilizzato un campione di studenti.
Dall’evidenza che questo campione è scarsamente rappresentativo,
quantomeno in termini di età e istruzione, dell’intera popolazione di
riferimento, altri studiosi hanno compiuto scelte diverse: sacrificando la facile
raggiungibilità dei rispondenti in nome di una maggiore rappresentatività
degli stessi, Völkner e Sattler, e prima di loro Barrett, Lye e Venkateswarlu41,
hanno stratificato il campione in modo che fosse demograficamente
rappresentativo della popolazione, rispettivamente, tedesca e neozelandese.
Tuttavia, anche questa scelta non sembra del tutto corretta: affinché le
risposte siano attendibili, infatti, si ritengono imprescindibili entrambi gli
assunti del modello di Aaker e Keller, cioè che le marche scelte per il test
siano tutte note e rilevanti per il campione. Se la prima condizione è
immediatamente comprensibile e soddisfabile scegliendo dei brand molto
rinomati e per questo conosciuti in tutte le fasce di età del campione scelto,
41
BARRETT, J., LYE, A. e VENKATESWARLU, P. (1999), “Consumer perceptions of brand
extensions: generalising Aaker and Keller’s model’’, Journal of Empirical Generalisations in
Marketing Science, Vol. 4, pp. 1-21.
132
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
la seconda è più sottile e di difficile traduzione pratica: ipotizzando di
scegliere prima le marche da testare e poi il campione da intervistare, questo
non dovrebbe comprendere individui che eccedono il target potenziale delle
marche stesse, o meglio il loro pubblico: termine con il quale si intende
un’entità più ampia della precedente, ammettendo chi conosce e ha un’idea
rispetto alle marche in questione, cioè le persone per cui, genericamente, la
marca rileva. Se una marca è testata su un campione, per esempio, delle età
più disparate, con ogni probabilità essa sarà davvero rilevante soltanto per
una parte di questo, e non per la sua totalità come è viceversa richiesto.
Così,
se
un
campionamento
rappresentativo
dell’intera
popolazione
nazionale può sembrare più corretto alla luce della sua maggiore pregnanza
statistica e in vista di una maggiore possibilità di generalizzarne i riscontri,
sconta dei vizi dal punto di vista dei presupposti (e quindi, ex post, dei
risultati) di marketing.
Le variabili dipendenti
Un altro elemento da riconsiderare criticamente è il modo in cui la ricerca ha
misurato l’atteggiamento del campione verso le estensioni di marca. Lo
studio di Aaker e Keller, così come le repliche successive, ha utilizzato come
variabile dipendente del modello di regressione la media aritmetica tra la
qualità attesa dell’estensione di marca e la propensione all’acquisto del
nuovo prodotto. Questa scelta sembra discutibile per due motivi: innanzitutto,
per la natura dell’item “propensione all’acquisto”, troppo ancorata a
caratteristiche dei rispondenti non misurate del modello. Non è corretto, per
esempio, chiedere ad un astemio la sua propensione all’acquisto di una birra;
più in generale, è poco informativo chiedere ad un consumatore la
propensione all’acquisto di un nuovo prodotto di una categoria per la quale
non nutre o non ha mai nutrito interesse, a meno che non si misuri
preventivamente, appunto, il suo atteggiamento di consumo verso la
categoria. In secondo luogo, esiste anche un problema nel rapporto tra
questo item e l’altro utilizzato per misurare l’atteggiamento dei rispondenti
133
CAPITOLO 4
verso l’estensione di marca, cioè la qualità attesa di questa. La bassa
correlazione tra i due (0.67 per Aaker e Keller, 0.49 per Sunde e Brodie,
addirittura più bassa in altri studi qui non presentati42) indica che,
probabilmente, non sempre la media aritmetica è la maniera più corretta di
trattarli, per i motivi sopra spiegati descrivendo la natura della “propensione
all’acquisto”. Sarebbe quindi più opportuno considerarli come due variabili
dipendenti separate, utili in modo sinergico nell’indagare sull’atteggiamento
complessivo del rispondente verso l’estensione di marca.
Le variabili indipendenti
L’ultimo studio presentato, quello di Völkner e Sattler, ha l’indubbio merito di
cercare di derivare dalla ricerca passata e sintetizzare in un unico modello
tutte le determinanti precedentemente testate dell’atteggiamento del
consumatore verso l’estensione di marca. Tuttavia, proprio per l’ampiezza
del suo spettro di ipotesi e per la complessità del costrutto da queste
derivante, esso sembra “eccedere sul piano teorico” facendo perdere
spendibilità pratica al suo quadro complessivo. L’auspicio degli autori, di
utilizzare rigore e scientificità nella comprensione dell’importanza relativa
delle determinanti dell’atteggiamento del consumatore, è certamente
condivisibile; la sensazione nella fattispecie, tuttavia, è quella di inseguire
una perfezione solo teorica, mancando la profondità necessaria a rendere
l’analisi significativa nelle sue troppe componenti.
Peraltro, alcune delle ipotesi che Völkner e Sattler verificano mal si prestano
ad essere testate con lo strumento da loro utilizzato, cioè il questionario al
consumatore: variabili come l’adeguatezza del supporto di marketing o
l’accettazione dei dettaglianti sono certamente importanti nel determinare il
successo di un’estensione di marca, ma poco hanno in comune con la
“dimensione percettiva” del consumatore. Appunto, influiranno sul successo
della strategia ma non sull’accettazione del nuovo prodotto da parte del
potenziale cliente; inoltre, si tratta di oggetti assolutamente non conoscibili da
42
Ib.
134
IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA
un individuo pur molto informato, che si presterebbero ad essere testati in un
modello che indaghi sul successo finale della strategia più che sulla visione
di questa da parte del consumatore.
Perché i modelli siano efficaci, pertanto, la scelta delle variabili indipendenti
da incorporare dovrebbe essere assolutamente guidata dalla teoria, evitando
tuttavia errori di traduzione dell’obiettivo inseguito nello strumento prescelto;
resta peraltro condivisibile la priorità di verificare l’estendibilità dei risultati
precedentemente ottenuti prima di includere nuove variabili nella ricerca.
La concettualizzazione della coerenza
Considerato il problema della scelta delle variabili indipendenti, un’altra
questione controversa è quella della loro concettualizzazione: in particolare,
gli studiosi hanno lungamente dibattuto sulla natura del fit (compatibilità, o
coerenza) tra i contesti di marca ed estensione. La soluzione adottata da
Aaker e Keller nel 1990, nonché nelle repliche successive, è la compatibilità
tra categorie di prodotto originaria e di estensione. Si tratta, tuttavia, di una
soluzione assolutamente superata e per certi versi anacronistica, che
riconduce e riduce la marca unicamente alla sua categoria di prodotto di
riferimento. Nella prima parte, invece, si è visto come il brand sia ben di più,
dotato, nello schema successivo dello stesso Keller, di una immagine propria
che trascende quella della categoria di prodotto di riferimento. Il merito di
aver colmato questo vuoto va a Broniarczyk e Alba, che in uno studio del
199443 hanno dimostrato l’importanza delle associazioni specifiche al brand
nell’estensione di marca. Ad oggi, uno studio sull’estensione di marca nella
prospettiva del consumatore non può prescindere dalla considerazione delle
specificità del brand rispetto alla sua categoria di appartenenza; più in
generale, considerata la recente evoluzione teorica, deve interpretare
correttamente il fit nel modello utilizzato, incorporandolo in maniera
aggiornata ed efficace.
43
BROZNIARCZYK, S.M.; ALBA, J.W. (1994), “The Importance of the Brand in Brand
Extensions”, Journal of Marketing Research, Vol. 31, pp. 214-228.
135
CAPITOLO 4
Nella terza e ultima parte del lavoro si cercheranno di risolvere questi nodi,
costruendo un modello anzitutto soddisfacente sul piano teorico; si
presenterà poi lo studio condotto che, compatibilmente con gli strumenti a
disposizione, ne rappresenta la diretta traduzione empirica; infine, i risultati
ottenuti consentiranno di esporre le personali conclusioni sulla valutazione
delle estensioni di marca da parte del consumatore.
136
PARTE III
5. CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
5.1.
Scopo della ricerca
rifocalizzare l’obiettivo
5.2.
Il modello di regressione
riconsiderare le premesse e rinnovare
5.3.
Marche e nuovi prodotti
gli oggetti di indagine
5.4.
Metodo di indagine
il questionario
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
5.1 SCOPO DELLA RICERCA
Lo studio empirico che ci si accinge a presentare si colloca idealmente nel
filone di ricerca di cui il capitolo precedente ha presentato un estratto:
l’oggetto di indagine è pertanto la strategia di brand extension, osservata
nella prospettiva del consumatore. In senso lato, si tratta ancora una volta di
interrogarlo e comprendere, grazie alla costruzione di un modello di
regressione e all’utilizzo di marche note ed estensioni ipotetiche, come questi
percepisca un’estensione di marca e formi le sue valutazioni. Più
puntualmente, questo studio si rapporta in maniera duplice rispetto alla
ricerca precedente: se da un lato ne fa propri molti assunti e concetti,
incorporandoli in maniera aggiornata, dall’altro, con alcuni sostanziali
elementi di novità, cerca di apportare un contributo originale.
Per quanto concerne il primo aspetto, si sono già individuate le due
dimensioni sulle quali si è mossa la ricerca passata sull’estensione di marca
nella prospettiva del consumatore. Agendo in ampiezza, alcuni studiosi
hanno testato nei loro modelli un numero di ipotesi crescente, cercando di
spiegare il successo di una brand extension con un gran numero di fattori. In
questo studio, tuttavia, si riflette su un numero di variabili esplicative pari allo
studio originale, per diversi motivi: innanzitutto, coerentemente con il focus
del lavoro e con lo strumento utilizzato per l’indagine, il questionario, si ritiene
poco corretto un modello che si basi su argomenti che esulano dalle
percezioni del consumatore. In secondo luogo, si condivide l’auspicio, già
riportato, di soffermarsi ancora a riflettere sulla natura dei driver conosciuti
prima di incorporarne di nuovi. Infine, si trova poco conveniente riflettere su
ipotesi che, verificandosi solo in determinate circostanze di mercato o per
fattispecie di marche, avrebbero scarsa predittività a livello generale.
Generalizzare i risultati precedenti è stato esattamente lo scopo di chi, con
repliche fedeli, ha operato in profondità rispetto allo studio originale di Aaker
e Keller: tuttavia, se l’obiettivo è largamente condivisibile, le applicazioni
hanno difettato, progressivamente nel tempo, di efficacia e spendibilità
pratica, perché alcuni dei fondamenti su cui i due ricercatori si basavano si
141
CAPITOLO 5
sono nel frattempo evoluti. Si spiegheranno i modi in cui lo studio ha cercato
di riconsiderare questi concetti in maniera aggiornata, presentando le
soluzioni adottate per i “punti controversi” enunciati nello scorso capitolo.
Il contributo più spiccatamente originale di questo studio empirico, tuttavia, si
concreta nel tentativo di dare spessore alla ricerca sul consumatore,
focalizzandosi ancora di più su di esso: oltre a studiare le relazioni strutturali
tra le sue percezioni, si verificherà se esse dipendono, e in quale modo, da
chi è il consumatore rispetto a ciò che osserva. In altre parole, catturando
questa sorta di “identità di marketing del consumatore” in una logica di
estensione di marca, si verificherà se e come il suo punto di vista influisca
sulla sua prospettiva.
5.2 IL MODELLO DI REGRESSIONE
5.2.1 Le variabili dipendenti
Il successo della strategia di brand extension coincide, nella prospettiva del
consumatore, con un atteggiamento positivo di questo verso il nuovo
prodotto proposto dalla marca esistente. Si è visto come molte ricerche
precedenti abbiano formalizzato questo atteggiamento come una risultante di
due fattori: la qualità attesa dell’estensione di marca e la propensione
all’acquisto della stessa (dalla lettura degli articoli non è chiaro se fosse data
per scontata in tutti l’intenzione di acquisto da parte del rispondente nella
classe di prodotto dell’estensione). Si è scelto di mantenere nel modello
questi due fattori, perché entrambi catturano in modo diverso l’atteggiamento
del consumatore. Tuttavia, come si è precedentemente argomentato, non si
condivide la scelta di accorparli in un’unica variabile: si trova più corretto
mantenere due variabili separate e utilizzare modelli di regressione diversi su
diverse parti del campione. Il modello presenta quindi due variabili
dipendenti: la qualità dell’estensione di marca attesa dal consumatore, che è
riscontrabile indistintamente presso l’intero campione interrogato, poiché tutti
142
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
possiedono delle idee o aspettative legittime su un nuovo prodotto proposto
da una marca nota; la propensione all’acquisto del nuovo prodotto, che
invece, secondo questa impostazione, ha senso solo se domandata ai
consumatori della categoria del prodotto in questione. Si verificherà e
confronterà con la ricerca precedente il rapporto tra le due variabili e quello
tra queste e le variabili esplicative.
5.2.2 Le variabili indipendenti
Qualità della marca originaria
Scegliere le variabili indipendenti del modello di regressione significa
ipotizzare quali percezioni del consumatore determinino il suo atteggiamento
verso l’estensione di marca. Dalla ricerca precedente si è fedelmente
mutuata l’ipotesi che la qualità della marca originaria percepita dal
consumatore abbia un’influenza diretta sul suo atteggiamento verso
l’estensione di marca. Questa ipotesi è stata formulata per la prima volta nel
1990 nello studio di Aaker e Keller, senza però trovare conforto nei risultati
ottenuti dai due; tutte le repliche successive, tuttavia, ne hanno dimostrato la
veridicità, facendo della qualità del brand originario uno dei driver più
“condivisi” del successo di una brand extension nella prospettiva del
consumatore: a parità di altri elementi, un nuovo prodotto di una marca
ritenuta “di qualità” è meglio accolto di uno proposto da una marca che gode
di meno stima. Bisogna osservare che la percezione di “qualità” del
consumatore non dipende solo dagli attributi tangibili dei prodotti della marca,
ma dalla sua immagine in generale.
Coerenza
Un altro risultato della ricerca precedente è che l’atteggiamento positivo del
consumatore verso un’estensione di marca ha una sua determinante
fondamentale dal rapporto di coerenza di questa con la marca originaria. A
ben guardare, anzi, nelle ipotesi di molti degli studi analizzati il rapporto di
143
CAPITOLO 5
coerenza (o compatibilità, fit), non si sarebbe dovuto stabilire tra il brand e la
sua estensione, ma tra le rispettive categorie di prodotto. Si è detto della
necessità di superare questa impostazione, per abbracciarne una che non
riduca unicamente la marca alla classe di prodotto che rappresenta. La
categoria di appartenenza, che rappresenta certamente un’associazione
importante per un brand, non esaurisce tutto il significato che questo riveste
nella mente del consumatore. Una marca, infatti, nasce come prodotto e si
stacca progressivamente da esso assumendo un’immagine propria, nella
quale l’associazione relativa al prodotto può giocare un ruolo anche
subalterno: è banale ricordare, a questo proposito, le marche di lusso,
connotate nella mente del consumatore alla luce del loro significato simbolico
prima che funzionale. Un concetto moderno ed evoluto di brand riconosce il
valore e l’entità delle sue associazioni specifiche, e così deve fare anche il
concetto di “coerenza con l’estensione” che si sceglie di adottare nel modello
di regressione. Tuttavia, si dissente parzialmente dalla scelta di alcuni
studiosi di “suddividere la coerenza” con la categoria di estensione in due
parti, l’una relativa alla categoria di provenienza e l’altra alle specificità del
brand44. Si trova più corretto interrogare il consumatore chiedendogli di
quantificare la coerenza complessiva tra il brand e la categoria di prodotto
nella quale è ipotizzato esso si voglia estendere: all’interno di questa, la
coerenza tra le categorie avrà un peso relativo variabile, il cui valore
predittivo (in ottica di regressione) è tuttavia già contenuto nel valore
complessivo espresso. Si è scelto, per confermare questo costrutto relativo
al fit, di far giudicare al consumatore sia la coerenza tra la categoria della
marca originaria e la categoria di estensione che quella tra il brand e la
categoria di estensione (che, analogamente agli studi precedenti, è l’unica
informazione data circa l’ipotetico nuovo prodotto): ci si attende, innanzitutto,
una correlazione significativa tra le due entità, che dovrebbe essere tanto più
alta quanto più la marca è connotata dai prodotti che contraddistingue;
inoltre, le variabili dipendenti dovrebbero risultare maggiormente correlate al
fit complessivo (e come tale comprensivo anche delle associazioni specifiche
44
BUSACCA B., BERTOLI G., LEVATO F. (2006), “Brand extension & brand loyalty”, Atti del
V Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Venezia 20-21 Gennaio.
144
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
del brand) che a quello tra categorie di prodotto. Già da un’analisi
preliminare, pertanto, ci si attende una conferma della rilevanza della
coerenza tra il brand e la categoria di estensione, seconda delle variabili
esplicative del modello.
5.2.3 Le variabili di stratificazione: la matrice degli atteggiamenti di
consumo
La scelta del campione
Il capitolo precedente ha abbondantemente approfondito le problematiche di
definizione delle caratteristiche del campione: nonostante tutti gli studiosi
fossero concordi nel reputare corretti i criteri di notorietà e rilevanza delle
marche scelte per gli intervistati, ciascuna indagine aveva nella pratica
operato scelte di campionamento diverso. Si è anche spiegato come questi
criteri, oltre che condizione necessaria per l’indagine, rappresentino da soli,
se rispettati rigorosamente, la garanzia di validità del campionamento. Il
problema della definizione del campione è stato delicato in quanto, alla
volontà di dare all’analisi compiuta una validità non solo “metodologica” ma
anche di risultati, si è dovuta considerare la raggiungibilità, con i mezzi a
disposizione, del campione stesso. Per questo motivo, le scelte delle
caratteristiche degli intervistati, delle marche e nuovi prodotti oggetto di
indagine sono andate di pari passo.
Per motivi di ordine teorico e pratico si è scelto di intervistare un campione di
individui “giovani”, con un’età variabile dai 18 ai 30 anni e senza distinzioni di
sesso. Come si vedrà nell’ultimo paragrafo del capitolo, che a partire dal
questionario costruito e distribuito descrive nel dettaglio tutte le “traduzioni
operative” di queste scelte, si sono poi determinate quattro categorie di
prodotto per le quali questa fascia di età nutre interesse: abbigliamento
sportivo, motori di ricerca su Internet, birra, telefoni cellulari. I brand
effettivamente testati sono leader nelle rispettive di categorie, e per questo,
145
CAPITOLO 5
come si vedrà, indubbiamente noti e rilevanti per il campione intervistato. Gli
intervistati sono stati raggiunti nel territorio del Veneto, in particolar modo
nella provincia di Venezia.
La struttura interna del campione
Dal punto di vista demografico, il campionamento su un unico strato di
popolazione,
raggiungibile
con
relativa
facilità,
dovrebbe
garantire
numerosità di intervistati e validità pari alle precedenti indagini.
L’elemento di maggior novità che si apporta alla ricerca con questo studio,
tuttavia, riguarda proprio il maggior peso teorico che viene dato all’identità
degli intervistati: nella fattispecie, si ritiene che alcune loro caratteristiche che
potremmo definire “di marketing” potrebbero avere un ruolo nel determinare
le risposte. Un caso banale è già stato presentato per mostrare un limite
degli studi descritti: il fatto che un individuo consumi o meno un prodotto si
rifletterà direttamente sulla sua probabilità di acquisto del medesimo. A titolo
di esempio, non è corretto chiedere ad un astemio la sua probabilità di
acquisto del nuovo vino marchiato Heineken. Si tratta di una considerazione
già importante perché, se implementata, può correggere un vizio di fondo
della ricerca; ma aldilà di questo caso limite, si ritiene interessante verificare
se e in che modo gli atteggiamenti precostituiti di consumo degli individui
determinino in qualche misura i suoi giudizi sulle estensioni di marca e la
maniera in cui li formano. Le variabili indipendenti del modello, cioè la qualità
percepita della marca originaria e la coerenza percepita di questa con
l’estensione, potrebbero, a seconda dei casi, avere un peso diverso nello
spiegare l’atteggiamento complessivo dei consumatori verso l’estensione di
marca.
Si costruiranno, a partire dal questionario, degli strati di campione statistico in
base agli atteggiamenti degli intervistati verso le marche originarie e le
categorie di estensione. Prima di procedere, giova ricordare che il campione
degli intervistati non corrisponde al campione statistico utilizzato dal modello,
146
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
che come nelle ricerche precedenti è uguale al numero degli intervistati per il
numero di estensioni di marca che ciascuno è chiamato a giudicare.
L’atteggiamento di consumo verso la categoria di estensione è misurato sulla
base della frequenza di consumo o di utilizzo (a seconda del tipo di bene) del
prodotto,
su
tre
livelli:
non
consumatore/utilizzatore
(livello
0),
consumatore/utilizzatore poco frequente (livello 1), consumatore/utilizzatore
molto frequente (livello 2).
L’atteggiamento di consumo verso la marca originaria è invece misurato sulla
base del legame “affettivo” del consumatore con la marca, anche questo su
tre
livelli:
non
consumatore/utilizzatore
consumatore/utilizzatore
“semplice”
della
della
marca
marca
(livello
(livello
0),
1),
consumatore/utilizzatore “fedele”, “coinvolto” rispetto alla marca (livello 2).
Se la frequenza di consumo è un concetto che non richiede spiegazioni, è
opportuno chiarire il significato della base della seconda variabile. Essa
misura uno stato d’animo, un atteggiamento appunto, che va oltre il mero
consumo: si scopre se un consumatore consuma un certo brand e se, in
caso positivo, il suo consumo rispecchia un “legame affettivo con la marca”,
una “fedeltà cognitiva” oltre che comportamentale nei confronti del brand.
Non si deve correre il rischio di considerare queste variabili come
quantitative: si tratta infatti di due variabili di stratificazione, che
congiuntamente individuano la posizione di ciascuna osservazione statistica
fornita dagli intervistati nella matrice della fig. 5.1.
147
CAPITOLO 5
Fig 5.1: Matrice degli atteggiamenti di consumo
Consumatori
“fedeli”
2
Consumatori
“semplici”
1
Non
consumatori
Atteggiamento verso la marca
Atteggiamento verso la categoria di estensione
0
Consumatori
molto frequenti
Consumatori poco
frequenti
Non
consumatori
2
1
0
Ogni osservazione statistica sarà caratterizzata dall’atteggiamento di
consumo rispetto alla categoria di estensione e dall’atteggiamento di
consumo verso la marca: così, se l’estensione “a” della marca “x” si trova
nella casella in basso a sinistra della matrice, significa che l’intervistato che
ha fornito l’osservazione è un consumatore frequente della categoria di
prodotto “a” e non consuma la marca “x”; se si trova nella casella in alto a
destra, l’intervistato è un consumatore fedele della marca “x” e non consuma
la categoria “a”.
148
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
Grazie a questo strumento, si potrà strutturare l’analisi di regressione su
diverse porzioni del campione statistico, per verificare le eventuali differenze
nei pesi delle determinanti dell’accettazione della brand extension.
Considerando l’intera matrice, cioè tutte le osservazioni fornite dagli
intervistati, si otterrà una situazione identica a quella degli studi precedenti,
cioè indifferenziata sul piano degli atteggiamenti di consumo (fig. 5.2).
L’unica variabile dipendente da considerare con questo dataset, pertanto,
sarà la qualità attesa dell’estensione di marca, perché, come si è spiegato,
ha poco significato domandare la probabilità di acquisto di un prodotto a chi
non lo consuma (a meno di obiettivi più specifici, che verranno peraltro
considerati nelle conclusioni).
Fig. 5.2: Consumatori indifferenziati
Atteggiamento verso la
marca
Atteggiamento verso la
categoria di estensione
2
1
0
2
1
0
n.b.: le aree grigie sono quelle effettivamente considerate nell’analisi.
149
CAPITOLO 5
Per considerare efficientemente la variabile probabilità di acquisto, invece, si
dovranno escludere dal dataset le osservazioni contenute nella casella di
destra della matrice (non consumo/utilizzo del prodotto della categoria di
estensione), come da tabella 5.3.
Fig. 5.3: Consumatori della categoria di estensione
Atteggiamento verso la
marca
Atteggiamento verso la
categoria di estensione
2
1
0
2
1
0
150
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
Oltre a questa prima scomposizione del campione statistico, che “corregge”
un errore della ricerca precedente, la matrice consente di strutturare l’analisi
in altri modi: per esempio, si potrà verificare l’andamento delle variabili
dipendenti ed esplicative limitatamente ai consumatori “fedeli” alle marche
che si estendono, come da fig. 5.4.
Fig. 5.4: Consumatori fedeli alla marca
Atteggiamento verso la
marca
Atteggiamento verso la
categoria di estensione
2
1
0
2
1
0
Utilizzando la matrice in modi come questi, si potranno scoprire eventuali
relazioni sottostanti al modello di regressione comunemente utilizzato per
esplorare le percezioni del consumatore rispetto alle estensioni di marca.
Poiché si opererà non soltanto sul campione statistico nella sua interezza ma
anche su sue singole porzioni, l’esigenza che questo fosse numeroso è stata
particolarmente pressante: si sono riusciti ad ottenere 223 questionari
compilati, pari a 3568 osservazioni statistiche. Questo numero garantirà un
numero di record adeguato non soltanto per le analisi compiute al massimo
livello di aggregazione, ma anche per i singoli frammenti di campione di volta
in volta utilizzati.
151
CAPITOLO 5
Declinare l’analisi in base agli atteggiamenti del consumatore aggiunge ad
essa spessore, mantenendone intatte ampiezza (le variabili considerate,
sebbene “interpretate e aggiornate”, sono quelle su cui la ricerca passata ha
trovato convergenza) e profondità (grazie ad un numero adeguato di
osservazioni statistiche). Nel capitolo conclusivo si riprenderà la matrice degli
atteggiamenti di consumo alla luce di una sua potenziale applicazione
“manageriale”, che ha le sue premesse nella natura di questo studio ma che
in parte lo trascende.
5.2.4 L’equazione del modello
Descritte tutte le variabili del modello di regressione, se ne riporta
l’equazione di base:
Qualità attesa estensione di marca = β0 +
+ β1 qualità percepita della marca
originaria +
+ β2 coerenza percepita tra il brand e
la categoria di estensione
Questo semplice modello, che comprende pertanto due variabili esplicative,
è verificabile sulla totalità del campione statistico e in ogni sua singola
porzione. Si verificheranno, tuttavia, anche ulteriori relazioni tra le altre
variabili considerate.
152
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
5.3 MARCHE E NUOVI PRODOTTI
5.3.1 La scelta delle marche note
Dando ora per scontate le caratteristiche del campione di intervistati, che
ricordiamo essere dei “giovani”, affrontiamo il problema della determinazione
delle marche e delle estensioni su cui si sono chieste le valutazioni. Si è
deciso di testare quattro marche e quattro estensioni per ciascuna marca. Le
prime, si ricorderà, dovevano sottostare innanzitutto al vincolo di rilevanza: il
primo passo, pertanto, è stato quello di individuare quattro categorie di
prodotto per le quali i rispondenti nutrissero interesse e sulle quali potessero
riflettere con una certa consapevolezza. Si sono così scelte le categorie
dell’abbigliamento sportivo, dei motori di ricerca su Internet, della birra e dei
telefoni cellulari. Si tratta di prodotti o servizi con i quali i giovani hanno un
rapporto di consumo o utilizzo frequente o, in caso contrario, di non consumo
comunque consapevole: in altre parole e a titolo di esempio, si ritiene che
anche i giovani poco avvezzi all’utilizzo di Internet sappiano che cos’è un
motore di ricerca. Determinate le categorie di prodotto, la fase successiva è
stata scegliere il brand da testare all’interno di ciascuna. Il secondo vincolo
da soddisfare, la notorietà, ha indirizzato il processo di scelta verso dei brand
leader di categoria, che fossero indubbiamente conosciuti da tutti.
Nella categoria dell’abbigliamento sportivo, la marca scelta è stata NIKE: si
tratta di un brand globale, il cui logo col “baffo” è noto a tutti i giovani e che,
specialmente
con
riferimento
all’ultimo
quindicennio,
si
è
sempre
contraddistinto per i forti investimenti in comunicazione, in particolare nel
campo della pubblicità in televisione. Si tratta di una marca che dovrebbe
destare opinioni controverse, proprio alla luce della sua globalità e per il tamtam avvenuto in epoca ancora recente sui fenomeni di sfruttamento minorile
che l’avrebbero coinvolta.
Tra i motori di ricerca su Internet si è optato per lo standard, GOOGLE: si è
detto nella prima parte del lavoro della crescita del suo valore, sull’onda di un
aumento dell’utenza che si può considerare pari alla diffusione della rete
153
CAPITOLO 5
stessa. Per comprenderne la penetrazione tra gli utenti di Internet, si pensi
che i navigatori del web anglosassoni arrivano a sostituire il verbo cercare
con il verbo to google. Si tratta inoltre di una marca che ha saputo estendersi
in molteplici categorie di servizio online, facendo leva sulla sua elevata
credibilità (il nome del brand infatti è spesso utilizzato come endorser) e
soprattutto sul suo già enorme bacino di utenti: tra i tanti servizi lanciati negli
ultimissimi anni, si ricordi la posta elettronica Gmail, le mappe stradali
Google Maps, le viste dal satellite Google Earth.
Tra le marche di birra, la scelta è caduta su HEINEKEN, per ulteriori motivi
rispetto alla sua ovvia notorietà. In primo luogo, nella scelta si sono
considerate le marche finora utilizzate dalla ricerca, e tra tutte Heineken è
l’unica a rispettare appieno i requisiti necessari nella realtà in cui si opera. In
secondo luogo, questo brand si è evoluto negli ultimi anni diventando molto
più di una marca di birra: ha investito molto in comunicazione, specialmente
in eventi e rassegne musicali (la manifestazione Heineken Jammin’ Festival
su tutti), per diventare la “birra del divertimento” e un “momento di
aggregazione” prima ancora di un prodotto. In questo modo, con riferimento
agli obiettivi del lavoro, Heineken è una marca su cui anche chi non è un
consumatore frequente di birra può riflettere con una certa consapevolezza e
legittimità: uno dei casi di brand non di lusso in cui le associazioni non
relative alla categoria di prodotto di riferimento hanno un peso rilevante
nell’immagine complessiva.
Nella categoria dei telefoni cellulari, il brand scelto è stato NOKIA: presente
in tutti i segmenti di mercato e con un numero molto alto di modelli, la quota
di mercato che detiene è elevatissima. In un settore che si muove con
decisione verso l’integrazione in un unici apparecchi di funzioni che un tempo
richiedevano specializzazione (comunicazione di vario tipo, ascolto musica,
fotografia, ecc.), si testeranno invece eventuali estensioni del leader in
categorie vicine e lontane.
Le quattro marche scelte per l’indagine sono pertanto Nike, Google,
Heineken e Nokia.
154
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
5.3.2 La determinazione delle estensioni ipotetiche
Una volta scelte le marche, si sono determinate con criterio di vario tipo le
ipotetiche estensioni su cui interrogare il consumatore, come si illustrerà
caso per caso. Va notato che questa fase è stata portata a termine di pari
passo con la predisposizione della prima parte del questionario, e le scelte
delle estensioni hanno considerato, pur non essendone mai condizionate,
esigenze di carattere computazionale. Si tornerà su questo aspetto più
“pratico” nel prossimo paragrafo, mentre ora si elencheranno una ad una le
classi di estensione determinate, evidenziandone quando utile o interessante
qualche caratteristica specifica.
Si deve osservare che, queste ipotetiche estensioni di marca, pur essendo gli
“oggetti dell’indagine”, ne rappresentano a ben guardare un mezzo: una
sorta di pretesto per provocare nella mente del consumatore un insieme di
percezioni del quale scoprire l’eventuale struttura. Anche se di volta in volta
si potranno compiere delle analisi specifiche, ciascun giudizio fornisce
un’osservazione assolutamente confrontabile con le altre. L’estensione di
marca rappresenta l’etichetta delle percezioni del consumatore su di essa.
Nike
•
LETTORE MP3: chi fa sport, e in particolare jogging, ascolta spesso
musica in cuffia; infatti, Nike e Apple hanno di recente lanciato insieme
“Sport Kit”, un piccolo sistema che tramite sensori sincronizza la
musica dell’iPod con l’attività fisica svolta dall’utente.
•
PALESTRE: l’appeal “globale” del brand è potenzialmente spendibile
per aprire una grande catena di palestre.
•
JEANS: ipotesi di abbigliamento casual e non sportivo.
•
BEVANDE ENERGETICHE: comuni associazioni all’”energia fisica”.
155
CAPITOLO 5
Google
•
BEVANDE ENERGETICHE: ipotesi di estensione volutamente forzata.
Potenziale leva nell’onomatopea “goggle goggle” utilizzata in alcuni
fumetti.
•
LIBRERIE: altra ipotesi, concettualmente meno estrema, di tentativo di
estensione offline.
•
RADIO ONLINE: dopo Google Video e l’acquisizione di YouTube,
ipotesi di un servizio online di catalogazione e selezioni musicali.
•
TELEFONO CELLULARE: ipotesi formulata sulla scorta di una voce di
corridoio circolata nel dicembre 2006, secondo la quale Google
avrebbe in programma il lancio di un telefono (in collaborazione con
Orange) che integrerebbe i servizi già offerti.
Heineken
•
POPCORN: ipotesi direttamente derivata dallo studio di Aaker e
Keller.
•
VINO: come la precedente, derivata dallo studio di Aaker e Keller.
•
PUB: in alcuni luoghi d’Italia Heineken possiede già dei pub; si
approfitta dell’assenza e della pressoché totale non notizia di questi
nei luoghi dove è avvenuta l’indagine per verificare se l’estensione,
come si prevede, raggiunge o meno dei punteggi elevati.
•
VILLAGGI VACANZE: dopo l’impegno profuso nel patrocinio e
nell’organizzazione di eventi dedicati ai giovani, si testa l’ipotesi di
un’estensione che faccia ugualmente leva sull’aggregazione.
156
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
Nokia
•
VILLAGGI VACANZE: ipotesi di estensione piuttosto difficile, coerente
con il pay-off “connecting people”.
•
FOTOCAMERA DIGITALE: estensione vicina alla categoria dei
telefoni cellulari, che già la incorporano in numerosi modelli.
•
NAVIGATORE SATELLITARE: leva sulla connettività.
•
COMPUTER PORTATILE: l’associazione alla portabilità propria di una
marca di telefoni cellulari, oltre che quella più ovvia alla tecnologia,
potrebbe essere sfruttabile in questa ipotesi di estensione.
5.4 METODO DI INDAGINE
5.4.1 Natura e struttura del questionario
Lo strumento utilizzato per raccogliere la percezioni del consumatore è,
analogamente alle precedenti ricerche, il questionario. La predisposizione di
questo ha dovuto considerare diversi aspetti, e la sua articolazione finale
costituisce il risultato di tre precise istanze.
Innanzitutto, cosa ovvia ma non scontata, si è cercato di porre le domande in
modo tale che gli intervistati le comprendessero nel modo più corretto con
riferimento alle ipotesi del lavoro; in questo modo, si è cercato di assicurarsi
che potessero fornire risposte attendibili rispetto agli obiettivi dello stesso.
In secondo luogo, si è cercato di non eccedere in onerosità per i rispondenti,
sia in termini di tempo che di difficoltà di comprensione. Per entrambi gli
aspetti e in particolare per il secondo, tuttavia, va considerato il vantaggio
derivante dal campione utilizzato per l’indagine: oggi, i giovani sono spesso
abituati a rispondere a questionari, e spesso dotati di un livello di istruzione
157
CAPITOLO 5
mediamente più alto di persone appartenenti ad altre fasce di età. Questo ha
consentito di “spingere un po’ più in là” la soglia della difficoltà del
questionario, perchè aderisse al meglio agli obiettivi dei quali era stato
investito. È rimasta invece immutata e rispettata la condizione di massima
chiarezza delle domande poste, che si sono formulate in modo tale da non
lasciare spazio a fraintendimenti. La dimestichezza dei giovani con Internet
ha consentito di utilizzare con successo anche questo strumento per la
somministrazione e la raccolta dei questionari.
Il terzo aspetto considerato nella stesura del questionario, meno rilevante ma
citato per completezza e correttezza, si riferisce ad esigenze di tipo pratico:
nella prospettiva (e nella speranza) di riuscire a raggiungere un gran numero
di persone e ottenere così una gran mole di dati, si è ragionato in modo tale
che l’ordine delle domande riducesse l’onerosità della successiva fase di
immissione dei dati stessi nel foglio elettronico. Tuttavia, tale necessità ha
avuto un ruolo soltanto nella prima parte del questionario, non essendo le
successive influenzabili in tal senso.
La prima pagina del questionario è riservata a una brevissima presentazione
e guida per il rispondente. Viene anche lasciata al consumatore la facoltà di
scrivere il nome e un recapito telefonico o e-mail. Questa voce è stata
inserita come soluzione ex ante all’eventualità di questionari incompleti, per
rendere possibile, qualora compilata, un successivo contatto.
Il questionario è di fatto strutturato in due parti: nella prima si rilevano gli
atteggiamenti di consumo (cioè le variabili di stratificazione del modello di
regressione) e la coerenza percepita tra le categorie di prodotto originaria e
di estensione; nella seconda si ricavano i valori che riassumono le percezioni
del consumatore su ciascuna estensione di marca. I prossimi due paragrafi
descriveranno le due parti logiche, descrivendone una per una le domande
ed evidenziandone la rispondenza alle premesse teoriche.
158
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
Fig. 5.5: Prima pagina del questionario
Questo questionario riguarda un’indagine su marche e nuovi prodotti che sto
compiendo per la mia tesi. Ti verrà chiesto di descrivere alcune tue abitudini
di consumo e il tuo atteggiamento verso alcune marche.
Nel caso di domande con risposte multiple, ti prego di scegliere tra le
possibilità proposte quelle che più si avvicinano al reale, voltando pagina
solo dopo aver risposto a tutte le domande.
Se lo compili a computer, ti chiedo gentilmente di sostituire una “x” al pallino
nelle domande a scelta multipla. Una volta compilato, ti chiedo di
rimandarmelo a [indirizzo e-mail], meglio se salvato con il tuo nome.
Ti ringrazio per la collaborazione.
Gabriele
_____________________________________________________________
(facoltativo)
Nome e Cognome
N° tel.
Indirizzo e-mail
5.4.2 La rilevazione degli atteggiamenti di consumo
La prima domanda che viene posta riguarda le abitudini di consumo del
rispondente rispetto alle categorie di prodotto originarie e di estensione. Si è
scelto di inserire anche le prime sulla scorta del fatto che una di esse, i
telefoni cellulari, è anche di estensione: poiché l’inserimento delle altre tre
non appesantiva il questionario, si è propeso per il mantenere viva la
possibilità di considerazioni non previste al momento della redazione.
159
CAPITOLO 5
Fig. 5.6: Rilevazione delle frequenze di consumo/utilizzo
160
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
Questa prima domanda a risposte multiple cattura la “variabile di
stratificazione
dell’atteggiamento
di consumo
verso
le
categorie
di
prodotto/servizio” e contempera più esigenze: osservando categoria per
categoria, lo stabilire degli intervalli temporali di frequenza sempre informativi
rispetto
all’obiettivo
(si
consumatore/utilizzatore,
ricordino
i
tre
livelli
consumatore/utilizzatore
della
variabile:
poco
non
frequente,
consumatore/utilizzatore molto frequente); formare dei cluster di categorie in
base alle frequenze di consumo/utilizzo, in modo da alleggerire la lettura
dell’intervistato e rendere più attendibili le risposte alla domanda; non ultimo,
ricercare un ordine non troppo dissimile da quello in cui le estensioni saranno
giudicate successivamente, per economizzare la fase di trasposizione dei
dati nel foglio elettronico e diminuire la possibilità di commettere errori.
Ciascuna osservazione assumerà quindi il valore 0, 1, o 2 per la variabile di
stratificazione in questione, a seconda che la frequenza della rispettiva
categoria di estensione sia espressa da una crocetta nella prima, seconda o
terza colonna.
Fig. 5.7: Codifica delle frequenze di consumo/utilizzo
NUM BRAEXT
CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA QUALITA PROP. FIT
ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND
EXT
ACQ. BTC
001
nikmp3
1
0
001
nikpal
1
2
001
nikjea
1
1
001
nikbev
1
0
001
goobev
2
0
001
goolib
2
1
001
goorad
2
1
001
gootel
2
2
001
heipop
1
1
001
heivin
1
2
001
heipub
1
2
001
heivil
1
0
001
nokvil
2
0
001
nokfot
2
0
001
noknav
2
0
001
nokcom
1
0
161
CAPITOLO 5
La domanda successiva mira a classificare le osservazioni sulla base
dell’altra variabile di stratificazione, l’atteggiamento verso la marca originaria.
Fig. 5.8: Rilevazione degli atteggiamenti verso le marche
In questo caso, si sta individuando l’atteggiamento verso Nike. Per farlo
viene fornito all’intervistato un set piuttosto comprensivo di marche
appartenenti alla sua categoria di prodotto, l’abbigliamento sportivo. Gli si
chiede innanzitutto quali utilizza: nel caso non utilizzi Nike, le quattro
estensioni di questa marca avranno livello 0 come determinazione della
variabile di stratificazione. Nel caso l’intervistato invece sia un utilizzatore del
brand, si verifica l’eventualità in cui questo si identifichi con esso. La
domanda viene posta in modo forte (“quali marche saresti?”), tale da avere
risposta positiva solo in caso di presenza di un effettivo legame con il brand,
di un rapporto che trascende il consumo e lo ricopre di un significato più
evoluto. Evocare un set di marche è necessario per scoprire se il brand che
si sta testando “spicca” davvero sulle altre. Per questo motivo, viene posto a
due il limite al numero di marche nelle quali il consumatore può dire di
identificarsi: se fossero di più, il significato del suo “sforzo di identificazione”
sarebbe inevitabilmente indebolito dalla suddivisione della stessa su più
brand. In questo modo, invece, l’intervistato è obbligato a fare una scelta che
consente di valutare se considera Nike in maniera davvero speciale rispetto
alle altre marche (valore 2 nella variabile) o se, viceversa, ha con essa un
rapporto di consumo più semplice (valore 1).
162
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
Si osservino due elementi: in primo luogo, per la natura delle categorie di
consumo, il limite al numero di marche nelle quale identificarsi è posto pari a
due nel caso dell’abbigliamento sportivo e della birra, mentre per quanto
riguarda i motori di ricerca e i telefoni cellulari questo è di una sola marca.
Inoltre, non è necessario (e non sarebbe peraltro possibile) che il set di
marche di volta in volta evocato comprenda tutte le possibili scelte di
consumo: l’interesse reale è soltanto verso l’atteggiamento dell’intervistato al
brand da testare, e la presenza delle altre marche è strumentale alla
rilevazione di questo.
Fig. 5.9: Codifica degli atteggiamenti verso le marche
NUM BRAEXT
CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA QUALITA PROP. FIT
ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND
EXT
ACQ. BTC
001
nikmp3
1
0
1
001
nikpal
1
2
1
001
nikjea
1
1
1
001
nikbev
1
0
1
001
goobev
2
0
001
goolib
2
1
001
goorad
2
1
001
gootel
2
2
001
heipop
1
1
001
heivin
1
2
001
heipub
1
2
001
heivil
1
0
001
nokvil
2
0
001
nokfot
2
0
001
noknav
2
0
001
nokcom
2
0
Dopo la domanda relativa agli atteggiamenti verso le marche, si chiede
all’intervistato un giudizio in una scala da 1 a 7 sulla compatibilità tra la
categoria di prodotto di cui si sta parlando e le quattro categorie di cui
successivamente si verificheranno le estensioni.
163
CAPITOLO 5
Fig. 5.10: Valutazione della coerenza tra categorie di prodotto
Si tratta esattamente del category-to-category fit teorizzato da Aaker e Keller
e incorporato anche in numerose delle ricerche successive. Coerentemente
con l’argomentazione già riportata che è sufficiente un punteggio elevato su
una
delle
sue
possibili
dimensioni
(complementarietà,
sostituibilità,
trasferibilità nei processi produttivi) per avere una valutazione corretta della
compatibilità tra categorie, è lasciata libertà all’intervistato sui criteri con cui
giudicarla. È fondamentale chiedere all’intervistato il giudizio su questo tipo di
coerenza prima che siano introdotte le marche testate, in modo tale che le
associazioni specifiche di queste non possano in alcun modo incidere, anche
a livello inconscio, sulla “percezione di categoria di prodotto” originaria.
Fig. 5.11: Codifica della coerenza tra le categorie di prodotto
NUM BRAEXT
CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA QUALITA PROP. FIT
ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND
EXT
ACQ. BTC
001
nikmp3
1
0
1
3
001
nikpal
1
2
1
3
001
nikjea
1
1
1
5
001
nikbev
1
0
1
2
001
goobev
2
0
001
goolib
2
1
001
goorad
2
1
001
gootel
2
2
001
heipop
1
1
001
heivin
1
2
001
heipub
1
2
001
heivil
1
0
001
nokvil
2
0
001
nokfot
2
0
001
noknav
2
0
001
nokcom
2
0
164
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
Fatta eccezione per quest’ultima variabile, appositamente “isolata” dalle altre,
la prima parte del questionario ha quindi il ruolo di identificare l’intervistato in
base ai suoi atteggiamenti di consumo, collocando ciascuna delle
osservazioni che fornirà in una casella della matrice degli atteggiamenti che
si è presentata.
5.4.3 La misurazione delle percezioni sulle estensioni di marca
Dopo che l’intervistato ha risposto a queste domande per ciascuna categoria
di prodotto, passa alle valutazioni sulle brand extension, richieste
considerando una marca alla volta: la prima domanda posta è relativa alla
qualità complessivamente percepita della marca originaria. Per questo, come
per gli altri giudizi in merito alle variabili esplicative e dipendenti, vengono
utilizzate delle scale di Likert da 1 a 7.
Fig. 5.12: Valutazione e codifica della qualità percepita della marca _________
NUM BRAEXT
CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA
ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND
001
nikmp3
1
0
1
3
3
001
nikpal
1
2
1
3
3
001
nikjea
1
1
1
5
3
001
nikbev
1
0
1
2
3
001
goobev
2
0
2
2
001
goolib
2
1
2
6
001
goorad
2
1
2
5
001
gootel
2
2
2
2
001
heipop
1
1
2
5
001
heivin
1
2
2
3
001
heipub
1
2
2
7
001
heivil
1
0
2
2
001
nokvil
2
0
2
2
001
nokfot
2
0
2
5
001
noknav
2
0
2
6
001
nokcom
2
0
2
5
165
QUALITA
EXT
PROP.
ACQ.
FIT
BTC
CAPITOLO 5
Immediatamente dopo questa valutazione sul brand originario, si cerca di
evocarne qualche associazione. Lo scopo di questa domanda è sottile: chi
avrà scritto i propri pensieri disporrà, nel formulare i giudizi successivi, di un
riferimento “veridico” già scritto; al contempo, anche l’intervistato restio a
formalizzare le associazioni sarà indotto a una veloce “presa di coscienza”
della marca, prima delle imminenti valutazioni sulle estensioni che dovrà
fornire.
Fig. 5.13: Evocazione delle associazioni alla marca originaria
Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente
pensando a NIKE:
Vengono quindi introdotte le ipotetiche estensioni di marca. Si chiede
all’intervistato di valutare, ancora una volta su scale 1-7, la qualità attesa di
ciascun prodotto/servizio, la probabilità di acquisto/utilizzo dello stesso, la
coerenza percepita tra le estensioni e la marca originaria. Si tratta del brandto-category fit che verrà incorporato nel modello di regressione: la coerenza
“complessiva” tra il brand e la sua ipotetica estensione, che nella
teorizzazione di questo lavoro comprende al suo interno la coerenza tra le
due categorie di prodotto/servizio di riferimento e quella tra le altre
associazioni della marca, specifiche, e la nuova categoria.
166
CARATTERISTICHE DELLO STUDIO
Fig. 5.14: Valutazione e codifica delle estensioni di marca
NUM BRAEXT
CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA
ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND
QUALITA
EXT
PROP.
ACQ.
FIT
BTC
001
nikmp3
1
0
1
3
3
4
1
3
001
nikpal
1
2
1
3
3
3
1
3
001
nikjea
1
1
1
5
3
4
2
4
001
nikbev
1
0
1
2
3
4
1
2
001
goobev
2
0
2
2
7
001
goolib
2
1
2
6
7
001
goorad
2
1
2
5
7
001
gootel
2
2
2
2
7
001
heipop
1
1
2
5
5
001
heivin
1
2
2
3
5
001
heipub
1
2
2
7
5
001
heivil
1
0
2
2
5
001
nokvil
2
0
2
2
7
001
nokfot
2
0
2
5
7
001
noknav
2
0
2
6
7
001
nokcom
2
0
2
5
7
Si lascia infine la possibilità all’intervistato di suggerire egli stesso
un’estensione per la marca, giudicandola con gli stessi parametri.
167
CAPITOLO 5
Fig. 5.15: Suggerimento di un nuovo prodotto
Ripetute le domande sulle estensioni di marca anche per le restanti tre
marche, l’intervistato avrà terminato di compilare il questionario e completato
tutte le osservazioni necessarie per il modello di regressione.
Fig.5.16: Codifica completa del questionario 001
NUM BRAEXT
CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA
ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND
QUALITA
EXT
PROP.
ACQ.
FIT
BTC
001
nikmp3
1
0
1
3
3
4
1
3
001
nikpal
1
2
1
3
3
3
1
3
001
nikjea
1
1
1
5
3
4
2
4
001
nikbev
1
0
1
2
3
4
1
2
001
goobev
2
0
2
2
7
3
1
2
001
goolib
2
1
2
6
7
5
7
7
001
goorad
2
1
2
5
7
5
4
5
001
gootel
2
2
2
2
7
4
1
2
001
heipop
1
1
2
5
5
5
4
4
001
heivin
1
2
2
3
5
2
1
3
001
heipub
1
2
2
7
5
6
6
7
001
heivil
1
0
2
2
5
4
1
2
001
nokvil
2
0
2
2
7
4
1
2
001
nokfot
2
0
2
5
7
7
6
6
001
noknav
2
0
2
6
7
7
5
7
001
nokcom
2
0
2
5
7
7
5
4
I dati raccolti per ciascun intervistato sono stati poi trasposti in un unico foglio
elettronico visivamente simile alla fig. 5.16, pronti per l’elaborazione. Per
questa fase si è utilizzato in piccola misura Microsoft Excel e in gran parte il
software statistico R. I risultati, corredati delle modalità di ottenimento, sono
presentati nel prossimo capitolo.
168
6. RISULTATI DELLO STUDIO
6.1.
Gli atteggiamenti di consumo
il campione nella matrice
6.2.
Analisi preliminare
un primo sguardo ai risultati
6.3.
Analisi di regressione
la struttura delle percezioni del consumatore
6.4.
Le estensioni di marca suggerite
le idee degli intervistati
RISULTATI DELLO STUDIO
6.1 GLI ATTEGGIAMENTI DI CONSUMO
6.1.1 Gli atteggiamenti verso marche e categorie di estensione
La prima analisi da compiere è quella delle caratteristiche di consumo del
campione degli intervistati, con riferimento alle marche e alle classi di
prodotto su cui sono stati interrogati. Comprendere da subito gli
atteggiamenti verso le marche è importante per due ordini di motivi: in primo
luogo, per avere una conferma circa la bontà delle scelte operate nel
determinare i brand da testare; in secondo luogo, per cominciare a scoprire
la struttura dell’insieme di osservazioni nei termini di una delle due
dimensioni della “matrice degli atteggiamenti” presentata nel capitolo scorso.
In questa prima analisi degli atteggiamenti di consumo si considerano come
unità statistiche i 223 individui: in seguito, e in particolare nell’analisi di
regressione, esse saranno i set di giudizi forniti, pari a 223 x 16 = 3568
osservazioni.
Tab. 6.1: Qualità percepita e atteggiamento verso le marche________________
MARCA
QUALITA'
MEDIA
PERCEPITA
ATTEGGIAMENTO VERSO LA MARCA
Non
consumatori
Consumatori
"semplici"
Consumatori
"fedeli"
GOOGLE
HEINEKEN
NIKE
6.20
4.77
5.10
1,35%
32,73%
27,80%
34,53%
42,27%
42,15%
64,13%
25,00%
30,04%
NOKIA
6.10
18,92%
24,77%
56,31%
TOTALE
5.55
20,16%
35,92%
43,92%
Guardando i valori totali, ci si accorge innanzitutto di come la qualità
percepita dei brand da parte degli intervistati sia decisamente elevata: un
punteggio di 5.55 in una scala da 1 a 7 è da ritenersi senza dubbio
significativo della qualità complessiva del set di marche testato. Osservando i
singoli
brand,
si nota
una
leggera
171
spaccatura:
Google
e
Nokia,
CAPITOLO 6
rispettivamente con 6.20 e 6.10, sono considerati di qualità eccellente,
mentre Nike e Heineken, con 5.10 e 4.77, raggiungono un punteggio medio
meno elevato anche se comunque buono. Questi risultati si possono anche
interpretare come un indicatore di correttezza delle scelte operate nella
determinazione delle marche, che si ricorderà essere state fatte con i criteri
della notorietà e della rilevanza: riesce difficile immaginare che il
consumatore attribuisca qualità mediamente molto elevate a marche che non
conosce in una certa misura. Un risultato “meno sbilanciato sulla scala” non
sarebbe stato informativo in questo senso, ma qualità elevate (e viceversa
molto basse) lasciano presupporre una conoscenza discreta degli oggetti
delle domande.
Fig. 6.1: Atteggiamento verso le marche_________________________________
Gli atteggiamenti verso le marche mostrano innanzitutto una grande quantità
di osservazioni fornite da consumatori “fedeli alla marca” in ipotetica
estensione: il 43,9% sul totale. Il dato origina in primo luogo dalla grande
quantità di “utilizzatori fedeli” dei brand Google (64,13%) e Nokia (56,31%):
più della metà degli intervistati si riconosce in almeno una di queste marche.
172
RISULTATI DELLO STUDIO
È significativo notare che solo due su 223 intervistati hanno dichiarato di non
utilizzare Google, dato certamente determinato dall’età del campione: anche
nel caso dello strato “non consumatori”, quindi, questa marca ha più delle
altre contribuito a determinare il risultato, complessivamente basso, del set di
brand, pari al 20,16%. Una osservazione su cinque, pertanto, non proviene
da consumatori o utilizzatori delle marche testate. Il restante 35,92% delle
osservazioni è fornito dai consumatori che fanno uso delle marche senza
riconoscersi o avere con queste un particolare legame “affettivo”. Heineken e
Nokia (entrambe sopra il 42%) sono i brand che hanno il maggior numero di
consumatori “semplici”, oltre ad una distribuzione più uniforme anche negli
altri strati: potremmo dire, in questo senso, che il dato sull’atteggiamento di
consumo degli intervistati verso le marche conferma la “spaccatura della
qualità” a cui ci siamo già riferiti in precedenza. Del resto, il consumo di una
marca è un fenomeno spiegabile in una sua parte molto rilevante dalla
qualità percepita della marca stessa. A questo proposito, si potrebbe
introdurre un altro elemento di criticità, dato dal consumo della rispettiva
categoria delle marche originarie. Tuttavia, sebbene questo dato possa in un
certo senso aiutare a ponderare il consumo della marca, o a “depurarlo” dai
non consumatori della classe di prodotto di appartenenza, si sposterebbe
eccessivamente il focus di questa analisi preliminare: gli atteggiamenti di
consumo sono infatti variabili di stratificazione, ed interessa studiarli non in
modo intrinseco ma nella misura in cui potranno connotare le prospettive di
valutazione delle estensioni di marca. È pertanto più che sufficiente
osservare, in questo primo momento, un andamento crescente piuttosto
definito della percezione di qualità della marca originaria all’aumentare di
livello nella variabile di stratificazione dell’atteggiamento di consumo verso la
marca stessa.
Le associazioni fornite dagli intervistati approfondiscono il significato di
“qualità” dato dal giudizio numerico fornito dagli intervistati per caratterizzare
in modo più ricco la percezione della marca. Google e Nokia, le marche
considerate migliori del set, hanno rimarcato la loro qualità anche negli
attributi che si sono viste assegnate: la prima in termini di “facilità”, “velocità”
173
CAPITOLO 6
di utilizzo, “reperibilità di qualunque informazione”; la seconda in termini di
“affidabilità”, “resistenza”, “semplicità”. In particolare con riferimento a Nokia,
si tratta di associazioni positive che dovrebbero essere generalmente
spendibili per le eventuali estensioni “tecnologiche” del brand. La codifica
delle associazioni a Nike e Heineken è invece più complessa, vista la
specificità di molti degli attributi espressi, talora anche discordi nel merito.
Nike, a questo proposito, è stata spesso ricordata per le sue “pubblicità”, ma
a una percezione diffusa di “qualità dei prodotti” hanno fatto da contraltare
idee riconducibili ad un “cattivo rapporto qualità/prezzo” e all’essere “fuori
moda” o “non più al passo coi tempi”. Ancora, è emerso il carattere “globale”
del brand ed alcuni atteggiamenti negativi legati allo “sfruttamento dei
bambini” nei processi di produzione. Heineken, analogamente, ha avuto nel
suo sapore un punto controverso, essendo dai detrattori considerata “dal
gusto cattivo”; molti la considerano una birra ”standard”, “giovane” e ne
citano la “freschezza”.
La seconda variabile di stratificazione
utilizzata per identificare le
osservazioni fornite dagli intervistati è l’atteggiamento di consumo verso le
categorie di prodotto di ipotetica estensione delle marche, misurato in termini
di frequenza. Questa rilevazione è funzionale al successivo studio degli
atteggiamenti verso le estensioni di marca, e non è quindi tra gli scopi del
lavoro analizzare i consumi con profondità. Si osservi dalla tab. 6.2 che, a
livello aggregato, gli intervistati hanno fornito delle osservazioni distribuite
piuttosto uniformemente sui tre livelli di consumo: non consumatori,
consumatori poco frequenti e consumatori molto frequenti sono presenti tutti
in modo numeroso, con una prevalenza dei primi e dei terzi.
174
RISULTATI DELLO STUDIO
Tab. 6.2: Gli atteggiamenti di consumo verso le categorie di estensione
CONSUMO NELLA CATEGORIA
CATEGORIA DI ESTENSIONE
BEVANDE ENERGETICHE
COMPUTER PORTATILE
FOTOCAMERA DIGITALE
JEANS
LIBRERIE
LETTORE MP3
NAVIGATORE SATELLITARE
PALESTRE
POPCORN
PUB
RADIO ONLINE
TELEFONO CELLULARE
VILLAGGI VACANZE
VINO
TOTALE
Non
consumatori
Consumatori
poco frequenti
Consumatori
molto frequenti
71,6%
39,5%
19,7%
0,9%
13,1%
19,7%
79,8%
47,1%
53,2%
2,7%
63,5%
2,2%
47,7%
11,7%
37,0%
21,6%
15,2%
31,4%
21,5%
63,5%
30,0%
11,2%
13,5%
43,2%
30,5%
23,0%
0,9%
30,2%
35,6%
26,4%
6,8%
45,3%
48,9%
77,6%
23,4%
50,2%
9,0%
39,5%
3,6%
66,8%
13,5%
96,9%
22,1%
52,7%
36,6%
6.1.2 La matrice degli atteggiamenti di consumo
Le analisi delle due variabili di stratificazione vanno integrate per
comprendere come il campione delle osservazioni ottenute dagli intervistati si
articola nelle due corrispondenti dimensioni: in questo modo, si potrà anche
verificare se lo studio potrà, come si auspica, essere “declinato” su singole
frazioni del campione. La fig. 6.2 presenta la matrice degli atteggiamenti di
consumo con all’interno delle singole caselle le rispettive percentuali del
totale delle osservazioni.
175
CAPITOLO 6
Fig. 6.2: Il campione secondo la matrice degli atteggiamenti di consumo
Atteggiamento verso la marca
Atteggiamento verso la categoria di estensione
2
1
0
2
1
0
15,9%
11,5%
16,6%
totale
consumatori 43,9%
"fedeli"
13,5%
9,4%
12,9%
totale
consumatori 35,9%
"semplici"
7,1%
5,5%
7,6%
totale non
consumatori 20,2%
marca
totale
consumatori
molto frequenti
totale
consumatori
poco frequenti
totale non
consumatori
36,5%
26,4%
37,1%
La percentuale di osservazioni provenienti da consumatori (poco o molto
frequenti) delle categorie di estensione è il 66.9%: si tratta di 2232 delle 3547
osservazioni complessive45. Questa è pertanto la numerosità del campione
per il quale si potrà utilizzare anche la variabile propensione all’acquisto
come dipendente, senza timore di includere delle osservazioni che
potrebbero fornire informazioni poco significative.
I consumatori “fedeli” (variabile di stratificazione “atteggiamento verso la
marca” di livello 2) rappresentano il 43,9% del campione, pari a 1558
osservazioni statistiche. Una percentuale così larga non era prevedibile con
45
Delle 3568 osservazioni ottenute, 21 hanno dei valori mancanti nelle variabili di
stratificazione e sono state escluse.
176
RISULTATI DELLO STUDIO
precisione ma auspicabile: poiché si compiranno delle analisi soltanto su
questa frazione del campione, la sua numerosità è un’importante
discriminante per la validità dei risultati che si otterranno. Utilizzare il modello
solo su questo strato pone in essere, di fatto, una replica degli studi
precedenti con riferimento esclusivo ai consumatori più “legati affettivamente”
al brand: i rispettivi risultati avranno pertanto, aldilà del loro rapporto con
quelli generali dell’intero campione, un significato proprio, limitato a questo
tipo di consumatore.
La struttura di base delle osservazioni statistiche, cioè il suddividersi del
campione
all’interno
della
matrice
degli
atteggiamenti,
è
pertanto
“favorevole”: essa consente, insieme alla necessaria numerosità delle
osservazioni stesse, di compiere come auspicato nel capitolo precedente
anche delle analisi a un livello di aggregazione minore di quello complessivo.
6.2 ANALISI PRELIMINARE
6.2.1 I risultati medi delle estensioni di marca
Prima di analizzare il rapporto tra le variabili osservate, è utile osservarne i
singoli punteggi a livello di brand extension. La tab. 6.3 ricapitola le qualità
attese delle estensioni di ciascuna marca: si può osservare in maniera
semplice, senza strutturarli, quali sarebbero gli atteggiamenti dei consumatori
verso i nuovi prodotti ipoteticamente lanciati da Nike, Google, Heineken,
Nokia.
Il campione di intervistati raggiunti sembra non avere atteggiamenti
particolarmente negativi verso alcuna delle estensioni ipotetiche di Nike,
accogliendone anzi la catena di palestre in modo molto positivo. Se Google
proponesse radio online queste sarebbero ben accolte, mentre, tra le
estensioni offline, solo le librerie sembrerebbero poter raccogliere consensi,
a differenza di telefoni cellulari e soprattutto bevande energetiche. La qualità
attesa dei pub Heineken è molto elevata, mentre quella delle altre estensioni
177
CAPITOLO 6
è mediocre, o addirittura molto bassa nel caso del vino. Nokia sembrerebbe
avere buon gioco nel lancio dei nuovi prodotti “tecnologici” testati,
incontrando invece problemi se decidesse di proporre dei villaggi vacanze.
Si sono utilizzati una terminologia e dei condizionali “all’insegna della
cautela”, coerentemente con la natura della variabile che si sta osservando:
si ricordi che si tratta di un giudizio di qualità attesa accordata dai
consumatori a prodotti rispetto ai quali non è stata fornita alcuna
informazione. Si è misurata una sorta di predisposizione verso le estensioni
di marca, reazione che potrebbe mutare con ulteriori o successive
specificazioni. Come si è già detto, si osserva il primo momento
dell’atteggiamento verso l’estensione:
una
condizione
che,
sebbene
verosimilmente necessaria, nulla dice circa la possibile evoluzione dello
stesso in seguito ad un lancio “reale” e non ipotetico del nuovo prodotto.
Tab. 6.3: Qualità delle estensioni di marca
MARCA
QUALITA'
EXT.
ESTENSIONE
JEANS
5,54
4,09
3,96
LETTORE MP3
3,68
RADIO ONLINE
TELEFONO CELLULARE
4,99
4,14
3,25
BEVANDA ENERGETICA GOOGLE
2,02
PUB
POPCORN HEINEKEN
5,61
3,69
2,96
VINO HEINEKEN
1,95
NAVIGATORE SATELLITARE
COMPUTER PORTATILE
5,44
5,30
5,05
VILLAGGI VACANZE NOKIA
2,76
PALESTRE
NIKE
GOOGLE
HEINEKEN
NOKIA
BEVANDA ENERGETICA
LIBRERIE
VILLAGGI VACANZE
FOTOCAMERA DIGITALE
178
RISULTATI DELLO STUDIO
La tab. 6.4 presenta i risultati medi ottenuti dalle sedici estensioni in modo
più completo, per ciascuna delle variabili (non di stratificazione) osservate.
L’ordine è decrescente in base alla qualità attesa.
I pub Heineken sono l’estensione (che abbiamo detto essere più che
ipotetica, anche se non nel territorio di indagine) con la qualità
complessivamente attesa più alta (5,61), e anche l’unica ad avere un
punteggio medio di compatibilità brand-to-category (BTC) superiore a 6.
Come previsto, si tratta di un’estensione accolta con largo consenso dal
campione, in virtù della coerenza (anche se questo rapporto di causalità è da
dimostrare) tra il prodotto e l’immagine del brand e un luogo di aggregazione
come il pub.
Tab. 6.4: Risultati medi delle estensioni di marca
QUAL.
EXT.
PROP.
ACQUISTO
QUAL.
BRAND
FIT
BTC
FIT
CTC
BEVANDA ENERGETICA GOOGLE
5,61
5,54
5,44
5,30
5,05
4,99
4,14
4,09
3,96
3,69
3,68
3,25
2,96
2,76
2,02
5,30
3,52
3,78
4,31
3,82
3,83
3,56
2,65
2,83
2,77
2,35
2,22
2,20
1,94
1,48
4,77
5,10
6,10
6,10
6,10
6,20
6,20
5,10
5,10
4,77
5,10
6,20
4,77
6,10
6,20
6,12
5,73
5,34
5,27
5,00
4,95
3,67
4,54
3,35
3,28
3,12
2,68
2,78
1,96
1,27
6,77
6,42
4,46
5,04
4,61
4,90
3,59
4,82
3,12
4,27
4,47
3,78
3,36
3,27
1,30
VINO HEINEKEN
1,95
1,65
4,77
1,99
2,87
MEDIA TOTALE
4,03
3,01
5,55
3,82
4,19
DEVIAZIONE STANDARD
1,22
1,06
0,64
1,49
1,34
ESTENSIONE DI MARCA
PUB HEINEKEN
PALESTRE NIKE
NAVIGATORE SATELLITARE NOKIA
FOTOCAMERA DIGITALE NOKIA
COMPUTER PORTATILE NOKIA
RADIO ONLINE GOOGLE
LIBRERIE GOOGLE
BEVANDA ENERGETICA NIKE
JEANS NIKE
VILLAGGI VACANZE HEINEKEN
LETTORE MP3 NIKE
TELEFONO CELLULARE GOOGLE
POPCORN HEINEKEN
VILLAGGI VACANZE NOKIA
179
CAPITOLO 6
Le palestre Nike sono un’altra estensione di marca dalla quale gli intervistati
si aspetterebbero un’elevata qualità (5,54). Insieme alle estensioni
“tecnologiche” di Nokia (navigatore satellitare, fotocamera digitale, computer
portatile), i pub Heineken e le palestre Nike sono le uniche estensioni ad
avere un punteggio medio superiore a 5 per la qualità attesa. Si tratta anche
delle uniche osservazioni con punteggi medi di BTC superiori a 5: questa
prima, sommaria analisi sembrerebbe quindi confermare un rapporto stretto
tra l’atteggiamento del consumatore verso il nuovo prodotto proposto da una
marca nota e il relativo rapporto di fit. Anche nelle ultime posizioni della
tabella, ci si accorge che le ultime tre estensioni sono le uniche ad avere un
punteggio medio di BTC minore di 2. Tuttavia, l’ordine delle estensioni, per
qualità attesa complessiva decrescente, non sarebbe lo stesso se si fosse
utilizzato il criterio della coerenza BTC decrescente, e servono pertanto
strumenti più adatti per formulare conclusioni sull’entità del rapporto tra
queste due variabili.
Dai risultati medi si può osservare anche come i punteggi medi della
probabilità d’acquisto siano stabilmente inferiori a quelli della qualità attesa:
per comprendere la natura di questo dato, tuttavia, bisognerà analizzarlo alla
luce della stratificazione del campione, in un momento successivo.
È utile invece confrontare, già da subito con il supporto della tab. 6.5, il
rapporto tra i due tipi di coerenza presenti nel modello.
180
RISULTATI DELLO STUDIO
Tab. 6.5: Coerenza BTC e coerenza CTC
FIT
BTC
FIT
CTC
BTC - CTC
BEVANDA ENERGETICA GOOGLE
6,12
5,73
5,34
5,27
5,00
4,95
3,67
4,54
3,35
3,28
3,12
2,68
2,78
1,96
1,27
6,77
6,42
4,46
5,04
4,61
4,90
3,59
4,82
3,12
4,27
4,47
3,78
3,36
3,27
1,30
-0,65
-0,69
0,88
0,23
0,39
0,05
0,08
-0,28
0,23
-1,00
-1,35
-1,10
-0,59
-1,31
-0,03
VINO HEINEKEN
1,99
2,87
-0,88
MEDIA TOTALE
3,82
4,19
-0,37
ESTENSIONE DI MARCA
PUB HEINEKEN
PALESTRE NIKE
NAVIGATORE SATELLITARE NOKIA
FOTOCAMERA DIGITALE NOKIA
COMPUTER PORTATILE NOKIA
RADIO ONLINE GOOGLE
LIBRERIE GOOGLE
BEVANDA ENERGETICA NIKE
JEANS NIKE
VILLAGGI VACANZE HEINEKEN
LETTORE MP3 NIKE
TELEFONO CELLULARE GOOGLE
POPCORN HEINEKEN
VILLAGGI VACANZE NOKIA
Si può notare come l’ordine delle estensioni, che si è mantenuto come nella
tab. 6.4 decrescente per qualità complessivamente attesa, fornisca una
possibile interpretazione delle differenze tra la coerenza tra brand originario e
categoria di estensione e quella tra categorie. Escluse le prime due
estensioni, che hanno punteggi di coerenza tra categorie nettamente più alti
di tutte le altre estensioni, la tabella si può quasi perfettamente scomporre in
due parti: quella superiore, in cui le differenze tra fit brand-to-category e fit
category-to-category sono positive, e quella inferiore, dove invece sono
negative. Si ricordi il “rapporto concettuale” esistente tra queste due
coerenze: la prima comprende la seconda, nel senso che la coerenza tra
categoria di prodotto originaria e categoria di prodotto di estensione
contribuisce, con un peso variabile, alla coerenza complessiva tra il brand e il
prodotto di estensione. Questa suddivisione, abbinata all’ordine per qualità
181
CAPITOLO 6
decrescente delle estensioni, lascia ipotizzare (o meglio, re-ipotizzare) un
ruolo reale delle associazioni specifiche del brand, che in termini di coerenza
con il prodotto di estensione vanno a costituire la parte di fit BTC diversa da
quella CTC. In altre parole, sembrerebbe che le associazioni specifiche
contribuiscano effettivamente alla determinazione delle percezioni sulla
brand extension. È importante notare che si tratta di valori medi, che poco
dicono sull’effettivo rapporto tra le due coerenze a livello di singolo giudizio: è
tuttavia una prima conferma della ragionevolezza del costrutto teorico
iniziale, che dovrà essere confortata da analisi successive con strumenti più
adeguati.
6.2.2 Le variabili
La tab. 8.4 ha presentato, per ciascuna variabile del modello, la media e la
varianza. Per comprenderne al meglio la distribuzione marginale si può
utilizzare unitamente a questi indici di posizione anche il box-plot (o
diagramma scatola-baffi), uno strumento che cattura visivamente anche la
dispersione delle variabili.
Poiché le variabili utilizzano tutte le stesse scale di misura, è utile raffigurarne
insieme i rispettivi diagrammi. I box rappresentano l’intervallo dove sta la
“metà centrale” delle osservazioni: iniziano e terminano rispettivamente con il
primo e terzo quartile della distribuzione, cioè con i valori che si trovano in
corrispondenza del 25% e del 75% della frequenza. Lo scarto interquartilico
è appunto la differenza tra il terzo e il primo quartile, e rappresenta un indice
di dispersione spesso significativo. La tacche dentro ai box rappresentano la
mediane delle distribuzioni, mentre i “due baffi”, che partono dal primo e dal
terzo quartile, arrivano rispettivamente al più piccolo e al più grande dei valori
osservati, fino alla lunghezza massima di 1,5 volte il box. Se ci sono dei
valori che non risultano compresi in questo intervallo, essi vengono segnalati
come punti isolati. Viceversa, se nessun punto viene visualizzato, significa
che i baffi terminano con i valori estremi della distribuzione.
182
RISULTATI DELLO STUDIO
Fig. 6.3: Box-plot delle variabili indipendenti ed esplicative
Si osserva innanzitutto una grande variabilità delle osservazioni, con tutti i
“baffi” dei diagrammi a comprendere, con l’eccezione della variabile qualità
del brand originario, gli estremi della scala di valutazione. Questa variabile ha
una dispersione molto minore delle altre: un gran numero di consumatori ha
valutato 5 o 6 la qualità complessiva brand testati, e viceversa molto pochi
hanno giudicato la stessa con un valore pari o inferiore a 3. La bassa
deviazione standard della variabile (0,64) trova pertanto, insieme alla sua
percezione complessiva “elevata”, una conferma grafica. Le rimanenti
variabili sono molto disperse, come è evidente anche dall’ampiezza dello
scarto interquartilico.
183
CAPITOLO 6
Del resto, si tratta dell’unico dato che, con la scelta del set di brand, si è
almeno in parte determinato ex ante, mentre era prevedibile rilevare
percezioni molto diverse tra loro per le altre variabili. E’ naturale che queste
mutino sensibilmente in base alla fattispecie di consumatore e soprattutto di
extension brand: ciò che sarà importante verificare, ai fini dello studio, è la
presenza di relazioni strutturali all’interno dei gruppi di percezioni organizzate
fornite dalla singola osservazione statistica. In questo senso, pur restando
nell’ambito della ancora necessaria analisi descrittiva, ci si avvicina al focus
del problema utilizzando dei box-plot “condizionati”: nella fig. 6.4 si illustra
come cambiano posizione e dispersione della principale variabile dipendente
del modello di regressione, la qualità attesa dell’estensione di marca, al
cambiare delle due variabili indipendenti.
Sia all’aumento della qualità percepita del brand originario che a quello della
compatibilità tra questo e la categoria di estensione, si nota uno spostamento
“in crescita” dei box-plot: sembrerebbe pertanto esserci un legame tra le due
variabili che verranno utilizzate come esplicative nel modello di regressione e
quella dipendente. Tuttavia, si notano delle sostanziali differenze nei due
box-plot, sia per quanto riguarda l’andamento degli indici di posizione che per
quanto concerne la variabilità: le mediane e i quartili della qualità attesa
dall’extension, infatti, crescono in modo più deciso e continuo all’aumentare
del fit BTC che all’aumentare della qualità percepita del brand originario; lo
scarto interquartilico è inoltre molto più grande per la qualità del brand che
per il fit BTC, così come sono più lunghi i rispettivi “baffi” del diagramma.
Queste
caratteristiche
fanno
presupporre
che
l’atteggiamento
verso
l’estensione dipenda maggiormente dalla sua compatibilità con la marca
originaria che dalla qualità percepita di questa.
184
RISULTATI DELLO STUDIO
Fig. 6.4: Boxplot della variabile qualità attesa al variare di quelle indipendenti
185
CAPITOLO 6
Condizionando il box-plot della qualità attesa dell’extension alla compatibilità
tra categoria di prodotto di provenienza e categoria di estensione (fig. 6.5), si
nota come, per le considerazioni svolte in precedenza, sembri esserci anche
in questo caso un legame diretto, positivo, tra le due variabili.
Fig. 6.5: Boxplot della qualità attesa dell’estensione al variare del fit CTC
Il prossimo paragrafo, che descrive la struttura di correlazione tra le variabili
osservate, consentirà di addentrarsi maggiormente nei rapporti esistenti tra di
esse, e di rivedere o avvalorare un’ultima volta le ipotesi su cui si fonda il
modello di regressione utilizzato.
186
RISULTATI DELLO STUDIO
6.2.3 La struttura di correlazione
La tab. 6.6 riporta le correlazioni tra le variabili che si ottengono senza
escludere alcuna osservazione statistica dal dataset. È utile rilevare quali
sono le correlazioni alte in valore assoluto e osservare i rapporti tra alcune
specifiche coppie di variabili.
Tab. 6.6: Matrice di correlazione (tutti i consumatori)
CTC
QUAL.BRA
ACQUISTO
BTC
1.000
-0.007
0.447
0.385
0.556
QUAL.BRA
-0.007
1.000
0.178
0.168
0.058
QUAL.EXT
0.447
0.178
1.000
0.660
0.757
ACQUISTO
0.385
0.168
0.660
1.000
0.645
BTC
0.556
0.058
0.757
0.645
1.000
CTC
QUAL.EXT
Innanzitutto, si osserva che la correlazione tra le due variabili dipendenti del
modello
di
regressione,
qualità
attesa
e
propensione
all’acquisto
dell’estensione, è 0,660, pari allo studio di Aaker e Keller. Va premesso che
poiché ci si sta riferendo anche ad osservazioni fornite da individui non
consumatori delle classi di prodotto di estensione, si ritiene poco corretto,
aldilà della correlazione, utilizzare nella specifica regressione anche la
variabile probabilità di acquisto; nonostante questa possibilità non sia in
discussione, si tratterebbe comunque di una correlazione che, sebbene
rilevante, non pare sufficiente: dissuaderebbe quindi dall’operare come Aaker
e Keller, accorpando cioè le due variabili con una media aritmetica che
riassuma l’atteggiamento del consumatore verso l’estensione di marca.
La tab. 6.7 presenta la matrice di correlazione che si ottiene escludendo dal
dataset le osservazioni provenienti da non consumatori della categoria di
prodotto di estensione (variabile consumo della categoria di estensione = 0).
187
CAPITOLO 6
Tab. 6.7: Matrice di correlazione per consumatori della categoria di estensione
CTC
QUAL.BRA
ACQUISTO
BTC
1.000
-0.003
0.446
0.408
0.543
QUAL.BRA
-0.003
1.000
0.167
0.151
0.061
QUAL.EXT
0.446
0.167
1.000
0.718
0.765
ACQUISTO
0.408
0.151
0.718
1.000
0.707
BTC
0.543
0.061
0.765
0.707
1.000
CTC
QUAL.EXT
Come era lecito attendersi, la correlazione tra le due variabili dipendenti
aumenta, passando a 0,718: se un individuo consuma o utilizza un certo
prodotto, è più naturale che il ritenerlo di qualità elevata si traduca in un
acquisto. Non sarebbe stato corretto attendersi da questa correlazione valori
prossimi all’unità o molto più alti di questo: la decisione di acquisto, infatti,
dipende anche da fattori che esulano dall’atteggiamento verso il prodotto, ed
esulano in particolare dalla “percezione di qualità” dello stesso, variabile
scelta
per
concettualizzarlo.
Per
esempio,
percezioni
di
“prezzo
potenzialmente elevato” o questioni di principio (comprare Nike, per motivi
già ricordati, è poco etico per alcuni consumatori) possono incidere
sensibilmente sulla probabilità di acquisto di un nuovo prodotto, nonostante
si attenda da esso una qualità elevata. Questa “non comparabilità” delle due
variabili spinge, anche dopo aver escluso dal dataset i non consumatori delle
classi di prodotto di estensione, a mantenerle separate senza accorparle in
un unico indicatore. La tab. 6.8 illustra come, restringendo ulteriormente il
dataset per comprendere solo i consumatori molto frequenti delle classi di
prodotto di estensione (variabile consumo della categoria di estensione = 2),
la correlazione tra qualità attesa e probabilità di acquisto dell’estensione
cresce ancora, ma di una quantità che si può considerare irrisoria.
188
RISULTATI DELLO STUDIO
Tab. 6.8: Matrice di correlazione per consumatori molto frequenti del prodotto
CTC
QUAL.BRA
ACQUISTO
BTC
1.000
-0.016
0.441
0.427
0.535
QUAL.BRA
-0.016
1.000
0.167
0.130
0.036
QUAL.EXT
0.441
0.167
1.000
0.721
0.759
ACQUISTO
0.427
0.130
0.721
1.000
0.711
BTC
0.535
0.036
0.759
0.711
1.000
CTC
QUAL.EXT
Si osservino ora, tornando alla tab. 6.6, le correlazioni della qualità attesa
dall’estensione di marca con le variabili che saranno le indipendenti del
modello di regressione: essa è pari a 0,178 con la qualità percepita del brand
originario, e più alta con entrambe le variabili fit (0,447 con la compatibilità
CTC e addirittura 0,757 con quella BTC). Questo conferma la sensazione,
avuta esaminando i box-plot condizionati, che l’atteggiamento verso
l’estensione sia più legato alla coerenza percepita con la marca originaria
che alla qualità percepita della marca stessa. Sempre con riferimento alla
matrice delle correlazioni del dataset nella sua integrità (ma è una
considerazione che si può applicare anche alle sue parti già estrapolate), le
due coerenze sono ovviamente molto correlate (0,535): si ritiene che lo siano
nella misura in cui l’associazione alla classe di prodotto pesa nell’immagine
complessiva del brand che il consumatore va a rapportare all’estensione.
Ferma restando la convinzione che il fit che meglio predice l’atteggiamento
verso l’estensione di marca sia quello brand-to-category, verificheremo
anche la bontà di modelli di regressione che contengano il fit category-tocategory.
Si consideri ora la tab. 6.9, che presenta la matrice di correlazione che si
ottiene estraendo dal dataset le osservazioni che provengono da una
categoria di consumatori di particolare interesse: i clienti “fedeli”, “legati
189
CAPITOLO 6
affettivamente” alle marche che si estendono (variabile atteggiamento verso
la marca = 2).
Tab. 6.9: Matrice di correlazione per consumatori “fedeli” alla marca
CTC
QUAL.BRA
ACQUISTO
BTC
1.000
-0.024
0.499
0.439
0.562
QUAL.BRA
-0.024
1.000
0.108
0.054
0.040
QUAL.EXT
0.499
0.108
1.000
0.700
0.806
ACQUISTO
0.439
0.054
0.700
1.000
0.714
BTC
0.562
0.040
0.806
0.714
1.000
CTC
QUAL.EXT
Innanzitutto, si nota che per i clienti “fedeli” la correlazione tra qualità attesa
dell’estensione di marca e probabilità di acquisto della stessa è leggermente
più alta di quella a livello aggregato (0,700 contro 0,660). Inoltre, si osservino
i valori evidenziati e si confrontino con i rispettivi della tab. 8.6: a una
diminuzione della correlazione della qualità attesa dell’estensione con la
qualità percepita della marca originaria corrisponde un aumento delle
correlazioni della stessa variabile con i due fit. La medesima considerazione
si può fare anche per l’altra variabile dipendente, la probabilità di acquisto.
6.3 ANALISI DI REGRESSIONE
6.3.1 Il dataset intero: tutti i consumatori
Si presentano ora i risultati delle analisi di regressione compiute con il
software statistico R. Si sono utilizzati modelli diversi, con una diversa
miscela di variabili dipendenti ed esplicative, ed applicati su frazioni diverse
del campione, in base alle variabili di stratificazione.
190
RISULTATI DELLO STUDIO
Nelle prime analisi compiute si sono considerare tutte le osservazioni
statistiche: pertanto, si sono utilizzate le valutazioni delle estensioni di marca
fornite dai rispondenti a prescindere dal rapporto di consumo di questi con le
marche e le categorie di prodotto di estensione. Si è innanzitutto testato il
seguente modello di regressione, che traduce in termini di equazione il
costrutto teorizzato del presente lavoro:
Atteggiamento verso l’estensione = β0 +
+ β1 qualità percepita della marca
originaria +
+ β2 coerenza tra brand e categoria di
estensione
Si è pertanto esaminato se la qualità attesa dell’estensione dipende dalla
qualità percepita della marca originaria e dalla coerenza di questa con la
categoria di estensione. Precisamente, si sono verificate le seguenti ipotesi:
H1: Elevate percezioni di qualità rispetto alla marca originaria sono
associate ad atteggiamenti più positivi verso l’estensione;
H2: La coerenza tra la marca e la categoria di prodotto coinvolta ha
una diretta influenza positiva sull’atteggiamento verso l’estensione.
L’output di R è il seguente:
Call:
lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC, data = dataset)
Coefficients:
(Intercept) QUALITA.BRA
0.2392
0.2087
BTC
0.6911
La sezione Call contiene la funzione del modello utilizzato, mentre la
sezione Coefficients riporta i valori dei parametri stimati per le due variabili
esplicative del modello (oltre che la stima dell’intercetta, il cui significato è
però da chiarire), che sono entrambe positive. Facendo un rapido summary
dell’oggetto creato, tuttavia, si può specificare meglio l’entità dei parametri e
191
CAPITOLO 6
capire se il modello è da considerarsi valido oppure no. Dopo aver ribadito la
funzione del modello, il nuovo output riporta alcune informazioni interessanti:
Call:
lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC, data = dataset)
Residuals:
Min
1Q
-5.32941 -0.84698
Median
0.05286
3Q
0.74400
Max
5.65222
Coefficients:
Estimate Std. Error t value Pr(>|t|)
(Intercept) 0.23924
0.10304
2.322
0.0203 *
QUALITA.BRA 0.20870
0.01716 12.161
<2e-16 ***
BTC
0.69114
0.01018 67.910
<2e-16 ***
--Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1
Residual standard error: 1.242 on 3354 degrees of freedom
(211 observations deleted due to missingness)
Multiple R-Squared: 0.5922,
Adjusted R-squared: 0.592
F-statistic: 2436 on 2 and 3354 DF, p-value: < 2.2e-16
La sezione Residuals riporta alcuni indici di posizione dei residui della
regressione: il valore minimo, il primo quartile, la mediana, il terzo quartile e il
valore massimo. Nella sezione Coefficients, dopo il valore dei parametri
(Estimate), si possono leggere i corrispondenti errori standard (Std. Error), i
valore dei test t (t value) calcolati sotto le ipotesi nulle che i valori dei
parametri siano nulli e i valori p (Pr(>|t|)), cioè i massimi valori dell’errore di
primo tipo che porta ad accettare l’ipotesi nulla. Infine, dal numero di
asterischi nell’ultima colonna si apprende visivamente in modo rapido il livello
di significatività del test: in questo caso, i tre asterischi indicano che, oltre che
positivi, i parametri β1 e β2 sono anche significativi. Va osservato che la stima
del valore dell’intercetta, peraltro meno significativa delle altre, non ha alcun
senso al di fuori del range di valori osservati per le variabili indipendenti: nella
fattispecie, andrebbe considerata solo per valori di β1 e β2 nell’intervallo di
numeri interi 1-7. Per giudicare la bontà del modello di regressione, ci
possiamo riferire al coefficiente di determinazione R2, pari a 0,59 e quindi
superiore a tutti gli studi sull’argomento considerati.
192
RISULTATI DELLO STUDIO
Questa prima analisi, pertanto, supporta entrambe le ipotesi testate: la
qualità attesa di un’estensione di marca sembra in primo luogo dipendere
positivamente dalla coerenza tra brand e categoria di prodotto di estensione
(coefficiente pari a 0,69 e significativo); in subordine, dalla qualità percepita
della marca originaria (coefficiente pari a 0,21, anche questo significativo). Il
costrutto teorico su cui si fonda il modello è da ritenersi valido, e come,
espresso dal coefficiente di determinazione, esaurisce una quota piuttosto
rilevante della variabilità dell’atteggiamento del consumatore verso le
estensioni di marca.
Si presentano ora i risultati di due analisi di regressione che incorporano
l’altra variabile di coerenza misurata, cioè quella tra le categorie di prodotto,
di provenienza e di estensione, coinvolte. Questi modelli contravvengono
volutamente al concetto di fit teorizzato in questo lavoro per cercare di
dimostrarne la validità.
Nel primo dei due modelli si è aggiunto il fit category-to-category alle altre
due variabili indipendenti, ottenendo questi risultati:
Call:
lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC + CTC, data = dataset)
Residuals:
Min
1Q
-5.370319 -0.829780
Median
0.008312
3Q
0.718238
Coefficients:
Estimate Std. Error t value
(Intercept) 0.15173
0.10700
1.418
QUALITA.BRA 0.21030
0.01718 12.241
BTC
0.66795
0.01225 54.536
CTC
0.04016
0.01196
3.358
--Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01
Max
5.719548
Pr(>|t|)
0.156251
< 2e-16 ***
< 2e-16 ***
0.000793 ***
‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1
Residual standard error: 1.241 on 3338 degrees of freedom
(226 observations deleted due to missingness)
Multiple R-Squared: 0.5931,
Adjusted R-squared: 0.5927
F-statistic: 1622 on 3 and 3338 DF, p-value: < 2.2e-16
193
CAPITOLO 6
Come si evince dall’output di R, i parametri presenti anche nel precedente
modello mantengono praticamente intatto il loro valore, mentre il fit CTC è
prossimo allo zero: questa regressione sembrerebbe avvalorare l’idea che,
tra le due coerenze, il predittore corretto per la qualità attesa di un’estensione
di marca sia il fit di questa con la marca originaria e non con la rispettiva
categoria di prodotto.
Nel secondo modello, invece, si è provato a sostituire il fit BTC con quello
CTC, utilizzandolo come unico “indicatore di coerenza” e ricalcando così in
maniera piuttosto fedele alcuni degli studi precedenti. I risultati sono stati i
seguenti:
Call:
lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + CTC, data = dataset)
Residuals:
Min
1Q
-4.5620 -1.2833
Median
0.1437
3Q
1.2740
Max
5.5372
Coefficients:
Estimate Std. Error t value Pr(>|t|)
(Intercept) 0.77963
0.14613
5.335 1.02e-07 ***
QUALITA.BRA 0.27869
0.02356 11.831 < 2e-16 ***
CTC
0.40451
0.01365 29.629 < 2e-16 ***
--Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1
Residual standard error: 1.708 on 3359 degrees of freedom
(206 observations deleted due to missingness)
Multiple R-Squared: 0.2318, Adjusted R-squared: 0.2313
F-statistic: 506.7 on 2 and 3359 DF, p-value: < 2.2e-16
Il fit CTC è positivo e significativo: la coerenza tra le categorie coinvolte
nell’estensione ha un’influenza diretta positiva sull’atteggiamento del
consumatore verso il nuovo prodotto. Tuttavia, osservando il coefficiente R2,
si nota che questo modello è molto meno soddisfacente del primo dal punto
di vista della variabilità spiegata: questo si spiega perché la coerenza
category-to-category prende in considerazione e rapporta all’estensione
soltanto una delle associazioni alla marca presenti nella mente del
194
RISULTATI DELLO STUDIO
consumatore, la classe di prodotto appunto. Trascura tutta la parte di brand
image che trascende il prodotto e che contribuisce in maniera significativa
determinare la coerenza della marca con la categoria di estensione, catturata
invece dal fit BTC.
In fase di analisi preliminare, si è determinata a livello di singola estensione
di marca la differenza tra i due tipi di fit: si è quindi osservata una sorta di
“regola”, che faceva intuire un ruolo reale della parte “non classe di prodotto”
dell’immagine del brand nello spiegare l’atteggiamento verso l’estensione di
marca; questa impressione è stata così confermata dalle successive analisi
di regressione, che hanno indicato la coerenza BTC, che considera anche le
associazioni specifiche del brand, come miglior predittore per l’oggetto di
indagine.
Per avvalorare ulteriormente la tesi, si è considerata la possibilità di verificare
la relazione tra la qualità attesa dell’estensione di marca e gli “scarti di fit” di
cui sopra (operando ovviamente a livello di singola osservazione), che certo
sono, secondo l’impostazione adottata, strettamente legati alle associazioni
specifiche. Tuttavia, nonostante un’analisi sommaria indicasse un’effettiva
dipendenza della prima entità dalla seconda, si è ritenuto questo modo di
operare a ben guardare poco corretto: si studierebbe infatti una variabile le
cui determinazioni sono misurate per differenza, e per questo non
corrispondenti in senso stretto alle percezioni del consumatore. Si è
ragionevolmente certi del rapporto, più volte descritto, tra i due soggetti della
coerenza con l’estensione (la classe di prodotto e il brand nel suo
complesso); ciononostante, sarebbe più corretto procedere ad un’autonoma
individuazione del punto di partenza (le associazioni specifiche al brand) e
successivamente misurarne la coerenza con l’oggetto di indagine (l’ipotetica
estensione di marca), in modo analogo a come operato per la classe di
prodotto. Si tornerà su questo aspetto in fase conclusiva.
195
CAPITOLO 6
6.3.2 I consumatori delle categorie di estensione
Si presentano ora i risultati delle analisi di regressione applicate solo sulle
osservazioni statistiche provenienti da individui consumatori delle categorie
di estensione (variabile di stratificazione “consumo della categoria di
estensione” ≠ 0). Nei termini della matrice degli atteggiamenti di consumo,
pertanto, si è esclusa dal campione l’ultima colonna a destra.
Si è prima di tutto verificato se le stime dei parametri del modello base
(qualità attesa dell’estensione come variabile dipendente, qualità percepita
della marca e coerenza di questa con la categoria di estensione come
esplicative) subiscono variazioni considerando solo questa frazione del
campione:
Call:
lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC, data =
dataset.consumatoriest)
Residuals:
Min
1Q
-5.17748 -0.84484
Median
0.02105
3Q
0.71245
Max
5.52368
Coefficients:
Estimate Std. Error t value Pr(>|t|)
(Intercept) 0.41640
0.12493
3.333 0.000874 ***
QUALITA.BRA 0.18426
0.02088
8.823 < 2e-16 ***
BTC
0.69140
0.01261 54.808 < 2e-16 ***
--Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1
Residual standard error: 1.205 on 2098 degrees of freedom
(143 observations deleted due to missingness)
Multiple R-Squared: 0.6004, Adjusted R-squared: 0.6001
F-statistic: 1576 on 2 and 2098 DF, p-value: < 2.2e-16
Il parametro relativo al fit brand-to-category è pressochè identico a quello
ottenuto in corrispondenza di tutte le osservazioni; le differenze riguardano la
qualità percepita della marca, che ha qui un coefficiente leggermente più
basso (0,18 contro 0,21) e l’intercetta, che qui è significativa e riporta una
stima di 0,42. La qualità attesa da un’estensione (che per le ipotesi qui
196
RISULTATI DELLO STUDIO
testate ha per i consumatori delle categorie di estensione una media
sostanzialmente uguale a quella della totalità degli individui: 4,05 contro
4,03)
sembrerebbe quindi essere
per
questa
parte
del campione
leggermente meno legata alla qualità percepita della marca originaria.
Lo scopo dell’esclusione dei non consumatori della categoria di estensione
dal dataset, tuttavia, è la possibilità di scoprire con un modello di regressione
se e come le variabili indipendenti scelte spiegano, oltre che la qualità attesa
dell’estensione, la scelta di consumo o utilizzo della stessa. Si sono pertanto
mantenute come esplicative le variabili della qualità percepita della marca e il
relativo fit con la classe di prodotto di estensione, e si è sostituita alla
variabile dipendente qualità attesa dell’estensione la rispettiva propensione
all’acquisto.
Call:
lm(formula = ACQUISTO ~ QUALITA.BRA + BTC, data =
dataset.consumatoriest)
Residuals:
Min
1Q Median
-4.5894 -0.6315 -0.0827
3Q
0.8988
Max
6.0441
Coefficients:
Estimate Std. Error t value Pr(>|t|)
(Intercept) -0.21053
0.14290 -1.473
0.141
QUALITA.BRA 0.16891
0.02389
7.069 2.11e-12 ***
BTC
0.65966
0.01444 45.682 < 2e-16 ***
--Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1
Residual standard error: 1.379 on 2098 degrees of freedom
(143 observations deleted due to missingness)
Multiple R-Squared: 0.5102, Adjusted R-squared: 0.5097
F-statistic: 1093 on 2 and 2098 DF, p-value: < 2.2e-16
Dall’output di R si osserva che le variabili indipendenti spiegano anche la
probabilità di acquisto dell’estensione di marca oltre che la sua qualità attesa,
come era lecito attendersi dall’elevata correlazione tra le due variabili. I
coefficienti sono ugualmente significativi e simili (la qualità del brand ha un
coefficiente di 0,17 e il fit BTC 0,66), tuttavia il coefficiente di determinazione,
197
CAPITOLO 6
0,51, è più basso che nella precedente analisi: questo significa che le
variabili
scelte,
nel
caso
della
propensione
all’acquisto,
hanno
complessivamente un minor potere predittivo. L’acquisto, come suggerito in
fase di analisi preliminare, è un comportamento più complesso, che dipende
in maggior misura da altre percezioni ed elementi, e questa considerazione si
può estendere anche alla probabilità con la quale il consumatore prevede di
eseguirlo.
Ottenuti questi risultati, è interessante provare a verificare in che misura la
propensione all’acquisto dipende dalla qualità attesa dell’estensione di
marca. Per farlo, è sufficiente utilizzare un modello di regressione semplice,
con la qualità attesa come variabile esplicativa della propensione all’acquisto
del nuovo prodotto/servizio, in primo luogo sull’intero dataset:
Call:
lm(formula = ACQUISTO ~ QUALITA.EXT, data = dataset)
Residuals:
Min
1Q
-4.01758 -0.75148
Median
0.02534
3Q
1.00388
Max
5.02534
Coefficients:
Estimate Std. Error t value Pr(>|t|)
(Intercept) 0.30084
0.05658
5.318 1.12e-07 ***
QUALITA.EXT 0.67382
0.01263 53.334 < 2e-16 ***
--Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1
Residual standard error: 1.469 on 3542 degrees of freedom
(24 observations deleted due to missingness)
Multiple R-Squared: 0.4454, Adjusted R-squared: 0.4452
F-statistic: 2845 on 1 and 3542 DF, p-value: < 2.2e-16
Come previsto, la qualità attesa da un’estensione di marca spiega la relativa
probabilità d’acquisto (coefficiente significativo di 0,67), ma il coefficiente R2
di 0,45 fa capire che essa non è l’unica determinante delle scelte. Si
osservino i risultati ottenuti applicando il medesimo modello alle osservazioni
provenienti dai consumatori delle categorie di estensione:
198
RISULTATI DELLO STUDIO
Call:
lm(formula = ACQUISTO ~ QUALITA.EXT, data = dataset.consumatoriest)
Residuals:
Min
1Q
-4.43243 -0.69572
Median
0.05163
3Q
1.06226
Max
5.05163
Coefficients:
Estimate Std. Error t value Pr(>|t|)
(Intercept) 0.20103
0.06736
2.984 0.00287 **
QUALITA.EXT 0.74734
0.01501 49.791 < 2e-16 ***
--Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1
Residual standard error: 1.359 on 2228 degrees of freedom
(14 observations deleted due to missingness)
Multiple R-Squared: 0.5267, Adjusted R-squared: 0.5265
F-statistic: 2479 on 1 and 2228 DF, p-value: < 2.2e-16
Nel campione dei consumatori dei prodotti di estensione, crescono sia il
coefficiente della qualità attesa (0,74) che il coefficiente di determinazione
del modello (0,53), tuttavia rimane non spiegata una grande quota della
variabilità della probabilità di acquisto. Dalle relazioni di questa variabile con
le altre si desumono pertanto due importanti elementi: in primo luogo,
un’ulteriore conferma circa la correttezza di scelta di non accorpare in un
unico
indicatore,
come
fatto
da
studi
precedenti,
qualità
attesa
dell’estensione di marca e propensione all’acquisto della stessa; e di
conseguenza, una preferenza per la prima come misura dell’atteggiamento
del consumatore verso l’oggetto di indagine, perchè si ritiene che l’acquisto
sia un comportamento da studiare considerando anche elementi che
trascendono le percezioni del consumatore.
6.3.3 I consumatori “fedeli” alla marca
Si prendono ora in considerazione soltanto le osservazioni statistiche fornite
da intervistati con un “legame affettivo” particolare verso le marche oggetto di
estensione (variabile “atteggiamento verso la marca” = 2). Si parla di
consumatori “fedeli” non alludendo ad una fedeltà comportamentale verso la
199
CAPITOLO 6
marca, bensì ad un atteggiamento di consumo caratterizzato da convinzione
ed attaccamento al brand. Con riferimento alla matrice degli atteggiamenti di
consumo, si scarteranno pertanto la prima e la seconda riga dal basso,
corrispondenti a chi non fa uso della marca e a chi la consuma senza che il
suo atto abbia un particolare significato in termini di “legame” con essa. Si è
applicato alla frazione di dataset considerato il modello “base”, con qualità
attesa dall’estensione come variabile dipendente e qualità del brand
originario e fit brand-to-category come esplicative:
Call:
lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC, data = dataset.fedeli)
Residuals:
Min
1Q
-5.300735 -0.824982
Median
0.002288
3Q
0.567435
Max
4.781065
Coefficients:
Estimate Std. Error t value Pr(>|t|)
(Intercept) 0.27195
0.21794
1.248
0.212
QUALITA.BRA 0.17273
0.03454
5.001 6.39e-07 ***
BTC
0.73788
0.01394 52.914 < 2e-16 ***
--Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1
Residual standard error: 1.13 on 1490 degrees of freedom
(67 observations deleted due to missingness)
Multiple R-Squared: 0.6567, Adjusted R-squared: 0.6562
F-statistic: 1425 on 2 and 1490 DF, p-value: < 2.2e-16
L’output di R rivela innanzitutto un coefficiente di determinazione più alto
rispetto al corrispondente modello applicato al dataset nella sua integrità
(0,67 contro 0,59): l’atteggiamento dei consumatori “fedeli” alla marca è
pertanto spiegato particolarmente bene dalle due variabili utilizzate.
L’aumento di affidabilità del modello, tuttavia, non è l’unica differenza, perché
sono diversi anche i coefficienti associati alle variabili esplicative: in
particolare, ad un ribasso del parametro relativo alla qualità percepita della
marca originaria (0,17 contro 0,21) corrisponde un aumento di quello della
coerenza tra marca e categoria di prodotto di estensione (0,74 contro 0,69).
200
RISULTATI DELLO STUDIO
Questo dato induce a ritenere che per i consumatori molto legati ad una
marca conti di più la coerenza tra questa e l’estensione proposta e meno la
qualità percepita della marca rispetto agli altri. Si può ipotizzare che questo
tipo di consumatore, “data per scontata” la qualità del brand, rifletta in modo
più accurato sulla natura dell’estensione, e in particolar modo sul suo
rapporto con la marca. Questa possibilità meriterebbe di essere approfondita
con uno studio più specifico sulle percezioni questa categoria di consumatori,
con marche ed estensioni scelte ad hoc e misurazioni effettuate su scale che
consentano di far risaltare in modo più chiaro le differenze dai consumatori
“più semplici”. La possibilità emersa in questa analisi di regressione non è
priva di implicazioni dal punto di vista strategico, che verranno analizzate in
fase conclusiva.
6.3.4 Il modello nella matrice degli atteggiamenti di consumo
Osservata la fattispecie dei consumatori molto legati alla marca, si presenta
ora in modo più completo come il modello base si declina sulle dimensioni
date dagli atteggiamenti di consumo. La fig. 6.6 riporta l’ormai nota matrice
con all’interno alcune informazioni, relative alle osservazioni contrassegnate
dalla particolare combinazione di atteggiamento verso la marca e
atteggiamento di consumo della categoria di estensione: dall’alto al basso,
troviamo in ciascuna casella le medie dei punteggi della qualità attesa delle
estensioni e della qualità percepita delle marche originarie; i valori dei
parametri delle variabili indipendente, qualità percepita del brand originario e
fit BTC; il coefficiente di determinazione, indicatore della bontà nel modello
nella particolare combinazione degli atteggiamenti di consumo.
Lo scopo di questa raffigurazione è avere a disposizione su uno stesso
diagramma i risultati ottenuti applicando il medesimo modello di regressione
su frazioni diverse del campione, per poterli così confrontare. Va premesso
che si tratta di un’operazione per certi versi licenziosa, in quanto si potrebbe
ipotizzare che i risultati risentano della specificità delle osservazioni
201
CAPITOLO 6
contenute in ciascuna delle caselle: tuttavia, alla luce del numero di
osservazioni complessivamente molto elevato e della natura delle stesse nel
modello (“etichette” di un insieme strutturato di percezioni), si ritiene che le
informazioni desumibili possano essere significative.
Nell’ottica del confronto, dopo aver osservato che i punteggi di medi del fit
BTC non variavano sostanzialmente lungo le dimensioni della matrice, si è
scelto di non riportarli all’interno delle caselle.
Fig. 6.6: Il modello nella matrice degli atteggiamenti di consumo
Consumatori “fedeli”
Consumatori
“semplici”
Non consumatori
Atteggiamento verso la marca
Atteggiamento verso la categoria di estensione
2
1
0
Consumatori molto
frequenti
Consumatori poco
frequenti
Non consumatori
2
1
0
Qual.ext = 4,28
Qual.bra= 6,10
Qual.ext = 4,08
Qual.bra= 6,12
Qual.ext = 4,09
Qual.bra= 6,14
βQual.bra= 0,17
βBTC= 0,73
βQual.bra= n.s.
βBTC= 0,72
βQual.bra= 0,25
βBTC= 0,76
R2= 0,66
R2= 0,62
R2= 0,67
Qual.ext = 4,02
Qual.bra= 5,42
Qual.ext = 3,81
Qual.bra= 5,37
Qual.ext = 3,92
Qual.bra= 5,50
βQual.bra= 0,24
βBTC= 0,65
βQual.bra= n.s.
βBTC= 0,66
βQual.bra= 0,30
βBTC= 0,65
R2= 0,51
R2= 0,54
R2= 0,50
Qual.ext = 4,18
Qual.bra= 4,42
Qual.ext = 3,79
Qual.bra= 4,35
Qual.ext = 3,89
Qual.bra= 4,54
βQual.bra= 0,31
βBTC= 0,68
βQual.bra= 0,24
βBTC= 0,68
βQual.bra= 0,30
βBTC= 0,60
R2= 0,62
R2= 0,68
R2= 0,60
202
RISULTATI DELLO STUDIO
Osservando le righe, si nota innanzitutto come la qualità media percepita
delle marche originarie diminuisca al decrescere di livello nell’atteggiamento
verso la marca: essendo questa una variabile di stratificazione, non sarebbe
corretto verificarne la correlazione con la qualità, ma si può senz’altro parlare
di stretto rapporto tra le due entità. Del resto, si è già detto del peso rilevante
della qualità percepita nello spiegare le scelte di consumo e il legame con
una marca. La variabile dipendente del modello, la qualità attesa
dell’estensione, è tendenzialmente più alta nella parte superiore della
matrice, ma le dispersioni per ciascuna colonna, che sono molto basse,
trattengono dal concluderne rapporti stretti con la stratificazione operata sulla
base dell’atteggiamento verso la marca.
Aldilà dei punteggi medi, è interessante soprattutto verificare come variano
all’interno della matrice i parametri del modello di regressione e la sua bontà.
Con riferimento a quest’ultima, si osservino i coefficienti di determinazione,
che sono più bassi degli altri nella seconda riga: sembrerebbe che le variabili
indipendenti del modello spieghino complessivamente meglio l’atteggiamento
verso le estensioni dei non consumatori e dei consumatori “fedeli” rispetto ai
consumatori semplici. Il peso dei driver non considerati, pertanto, è maggiore
per chi consuma una marca senza avere con essa un legame speciale, e
questo delicato strato di individui meriterebbe uno studio ad hoc. Ancora in
termini di bontà del modello, l’atteggiamento verso la categoria di estensione
non sembra invece rappresentare una discriminante.
Si osservino ora i valori dei parametri delle due variabili indipendenti. Quello
del fit BTC, innanzitutto, mantiene sempre un valore pari ad almeno il doppio
di quello della qualità della marca originaria: a prescindere dagli
atteggiamenti di consumo, pertanto, la qualità attesa di un’estensione è
sempre spiegata maggiormente dal suo rapporto di coerenza con la marca
originaria che dalla qualità percepita di questa. Il peso relativo delle due
variabili, tuttavia, cambia con gli atteggiamenti degli intervistati verso la
marca. In particolare, si osservino prima i consumatori “fedeli” e poi i non
consumatori, gli strati dove il modello si applica meglio: si nota che, in tutte e
tre le colonne, a una leggera diminuzione del parametro del fit BTC si
203
CAPITOLO 6
contrappone un lieve rialzo di quello della qualità percepita del brand
originario. Dai risultati si direbbe che per i consumatori “fedeli” di una brand
che si estende (che viste le considerazioni di cui sopra, possono anche
essere osservati alla luce dei loro elevati punteggi nella qualità percepita
delle marche) conti di meno la qualità di questo: si può ipotizzare che essa
venga data per scontata per concentrarsi maggiormente sulla coerenza della
marca con la categoria di estensione.
Si noti che il parametro della qualità percepita della marca originaria è non
significativo in due delle tre caselle della seconda colonna, relativa ai
consumatori poco frequenti della categoria di estensione. A parte questo
dato, tuttavia, la stratificazione dei rispondenti basata sul consumo della
categoria di prodotto di estensione, preziosa nei precedenti paragrafi quando
si era considerata la probabilità di acquisto, non sembra fornire chiavi di
lettura delle aspettative di qualità delle estensioni di marca. In fase
conclusiva, quando la matrice degli atteggiamenti verrà riconsiderata alla
luce di una sua possibile applicazione strategica, questa dimensione tornerà
ad essere importante.
6.4 LE ESTENSIONI DI MARCA SUGGERITE
Nella sezione del questionario dedicata alle singole marche, è stata data agli
intervistati la possibilità di suggerire loro stessi una estensione di marca. Si è
detto che questo modo di operare, nell’ottica di chi si ponga come obiettivo
l’effettivo ottenimento di suggerimenti di nuovi prodotti, è poco efficace46:
infatti si sono ottenuti, su un totale di 892 richieste (una per marca su ogni
questionario, quindi quattro per ogni intervistato), soltanto 185 suggerimenti. I
prodotti suggeriti sono stati riportati in un foglio elettronico e codificati in
maniera tale da essere raggruppabili e confrontabili. Si sono escluse le
estensioni con punteggi di qualità attesa molto bassi (1 o 2), in quanto esse
46
KELLER, K.L., BUSACCA, B. E OSTILLIO, M.C. (2006),
Gestione e sviluppo del
brand, Egea. Titolo originale: Strategic Brand Management (2003), II ed., Upper Saddle
River, Prentice Hall.
204
RISULTATI DELLO STUDIO
costituiscono una risposta evidentemente “forzata” che non si può
considerare un effettivo suggerimento. Si presentano per ciascuna marca le
estensioni citate e ritenuti “credibili” da almeno due intervistati.
Questo paragrafo costituisce una sorta di “postilla” ai risultati ottenuti dallo
studio sulla brand extension nella prospettiva del consumatore. Il prossimo
capitolo è dedicato alle conclusioni che da questo si possono trarre, con
particolare riferimento al suo contributo originale: in questo senso, oltre a
mettere in risalto i risvolti dello studio e le necessarie cautele da adoperare
nelle deduzioni, si suggerirà una possibile applicazione strategica della
“matrice degli atteggiamenti di consumo”.
Tab. 6.10: Le estensioni di marca suggerite per Google
GOOGLE
Numero di
suggerimenti
Suggerimento
personal computer
abbigliamento
navigatore satellitare
sistema operativo
accessori informatici
servizi di spedizione
negozio online
giornale online
altri suggerimenti
5
4
4
3
3
2
2
2
17
totale
42
Il brand Google ha ottenuto 42 suggerimenti di estensione ritenuti credibili: il
“personal computer”, principale strumento di navigazione su Internet (e
quindi di utilizzo del motore di ricerca Google) è stato citato 5 volte; per
l’”abbigliamento” e il “navigatore satellitare”, entrambi citati 4 volte, hanno
probabilmente giocato a favore la celebrità del logo, che lo renderebbe
accattivante su t-shirt o affini, e l’associazione alla “ricerca”.
205
CAPITOLO 6
Tab. 6.11: Le estensioni di marca suggerite per Heineken
HEINEKEN
Numero di
suggerimenti
14
3
2
2
19
Suggerimento
abbigliamento
diversi tipi di birra
snack salati
bibite analcoliche
altri suggerimenti
totale
40
Ben 14 delle 40 estensioni suggerite per Heineken riguardano capi di
”abbigliamento” peraltro già venduti in occasione di eventi come Heineken
Jammin’ Festival o affini. Alcuni hanno pensato ad ipotesi di estensione più
vicine, all’interno della categoria originaria (proponendo quindi “diversi tipi di
birra”) o fuori da essa (“bibite analcoliche” o “snack salati” che non siano
popcorn).
Tab. 6.12: Le estensioni di marca suggerite per Nike
NIKE
Suggerimento
attrezzatura da sci
telefono cellulare
biciclette
arredamento
attrezzatura da palestra
abbigliamento non sportivo
racchette da tennis
porta lettore mp3
altri suggerimenti
totale
206
Numero di
suggerimenti
6
3
3
3
3
2
2
2
28
53
RISULTATI DELLO STUDIO
Molti dei 53 suggerimenti di nuovi prodotti per Nike riguardano prodotti
sportivi “tecnici”: tra gli altri, “attrezzatura da sci” (6 citazioni), “biciclette” (3),
“attrezzatura da palestra” (3), “racchette da tennis” (2). Sono state citate
anche estensioni che non riguardano il mondo dello sport, come per esempio
oggetti da “arredamento” (3) o “telefoni cellulari” (3).
Tab. 6.13: Le estensioni di marca suggerite per Nokia
NOKIA
Numero di
suggerimenti
17
8
2
2
15
Suggerimento
lettore mp3
elettrodomestici
supporti digitali
abbigliamento
altri suggerimenti
totale
44
Nokia ha ricevuto complessivamente 44 suggerimenti di estensione ritenute
qualitativamente accettabili. Di queste, ben 17 sono di un “lettore mp3”, ed è
una dato che non stupisce, essendo anzi stata questa una delle estensioni
“tecnologiche” vagliate per l’inserimento nel questionario: si tratta infatti,
analogamente alla fotocamera digitale, di un prodotto che svolge una
funzione sempre più spesso adempiuta anche dai telefoni cellulari, categoria
originaria di Nokia. Il brand ha ricevuto anche molti suggerimenti riguardanti
“elettrodomestici” (8, suddivisi principalmente in TV e impianti hi-fi).
207
7. CONSIDERAZIONI FINALI
7.1.
Conclusioni dello studio
comprendere i risultati
7.2.
Implicazioni manageriali
tradurre in azione
7.3.
La matrice degli atteggiamenti
uno strumento strategico?
7.4.
Limitazioni e ricerca futura
cautele e auspici
CONSIDERAZIONI FINALI
7.1 CONCLUSIONI DELLO STUDIO
I risultati ottenuti e presentati nello scorso capitolo consentono di trarre
alcune conclusioni significative sul modo in cui il consumatore si rapporta ad
un’estensione di marca. Compresa la prospettiva del consumatore, il capitolo
ne descrive le implicazioni per l’impresa e suggerisce una applicazione
strategica di uno strumento metodologico approntato per questo studio, cioè
la matrice degli atteggiamenti di consumo. Il lavoro si conclude quindi con
alcuni auspici per la ricerca futura. Si presentano ora singolarmente le
conclusioni a cui è giunto questo studio sulla brand extension nella
prospettiva del consumatore.
L’atteggiamento del consumatore verso un’estensione di marca è influenzato
positivamente dalla sua percezione di qualità della marca originaria. I risultati
dimostrano che un’estensione beneficia della positività delle associazioni alla
marca originaria. L’ipotesi originale di Aaker e Keller, che curiosamente non
ha trovato supporto soltanto nel loro studio, riceve pertanto una conferma da
questo lavoro: se un brand è considerato qualitativamente elevato, riuscirà a
trasferire sui suoi nuovi prodotti questo vantaggio di cui gode e, a parità di
altre condizioni, a favorire l’atteggiamento del consumatore verso gli stessi.
L’atteggiamento del consumatore verso un’estensione di marca è influenzato
positivamente dalla sua percezione di coerenza tra la marca e la categoria di
estensione. L’immagine della marca ha un ruolo fondamentale in una
strategia di brand extension. Nella fattispecie, il rapporto di coerenza tra la
marca e la categoria dove essa intende estendersi è rilevante al punto da
costituire condizione necessaria per l’accettazione del nuovo prodotto. Se il
consumatore ritiene che tra le due entità non ci sia coerenza di alcun tipo,
non avrà un atteggiamento positivo verso l’estensione.
Per comprendere la natura di questa coerenza, è fondamentale partire dal
presupposto che essa è soggettiva, perchè soggettive sono le percezioni dei
consumatori sul brand, cioè l’immagine che questi rapporta al nuovo
211
CAPITOLO 7
prodotto. Nella prima parte di questo lavoro si è approfondito il concetto di
brand equity, e mostrato come la varietà delle associazioni che possono
comporre la brand image sia tale da renderne molto difficile una codifica; ne
consegue che il rapporto di coerenza tra il brand e la categoria di prodotto
può essere costituito su basi molto diverse. La classe di prodotto, sebbene
sia un’associazione preponderante nell’immagine di molte fattispecie di
marca, non la esaurisce: si potrebbe ritenere questa affermazione
tautologica,
perché
il
concetto
stesso
di
brand
equity
implica
il
riconoscimento di un valore aggiunto della marca rispetto a ciò che
contraddistingue, cioè il prodotto.
La coerenza con la categoria di estensione a cui ci si riferisce non ha come
soggetto, come in molti degli studi precedenti, la classe di prodotto originaria,
ma tutte le associazioni che compongono l’immagine del brand. Questo
studio dimostra che se l’insieme di percezioni della marca che ha il
consumatore è coerente con il prodotto di estensione, questi avrà verso lo
stesso un atteggiamento positivo; viceversa, si attenderà un nuovo prodotto
di bassa qualità.
Gli atteggiamenti di consumo verso la marca e verso la categoria di
estensione influiscono sul modo in cui il consumatore percepisce
l’estensione. In particolare, essi incidono non solo sul merito delle percezioni
(la qualità del brand, la coerenza…), ma anche sul modo il cui il consumatore
le organizza. Per cercare di prevedere come un consumatore si rapporta ad
un’estensione di marca, non si può pertanto prescindere da una precedente
definizione del suo rapporto con il brand originario e con la categoria di
prodotto dove esso si estende.
Le percezioni di qualità della marca e di coerenza tra questa e la categoria di
estensione spiegano la qualità attesa di un’estensione soprattutto per i
consumatori che hanno atteggiamenti di consumo molto definiti verso il
brand. Chi non consuma il brand o, viceversa, ha con esso un rapporto che
trascende il mero consumo, ha un atteggiamento verso i nuovi prodotti
212
CONSIDERAZIONI FINALI
maggiormente prevedibile con i criteri della qualità percepita della marca e
della coerenza percepita
di questa con la categoria di estensione. I
medesimi criteri non spiegano nella stessa misura l’atteggiamento di chi
consuma la marca senza “riconoscersi in essa”, cioè gli individui al cui atto di
consumo non è assegnabile un significato più profondo: evidentemente
questo tipo di consumatore, con una posizione meno definita e più
problematica rispetto alla marca, ne giudica le estensioni riferendosi in
misura maggiore ad altri elementi.
Nel giudicare un’estensione di marca, un consumatore che ha con questa un
rapporto di consumo permeato di “affetto” tende a darne per scontata la
qualità e a verificarne maggiormente il rapporto di coerenza con la categoria
di estensione. Rispetto agli altri, i consumatori che “si riconoscono” in una
marca ne giudicano le estensioni facendo riferimento in misura maggiore alla
percezione di coerenza. Evidentemente, chi ha un rapporto consolidato e
non in discussione con una marca tende a non riconsiderarne la premessa di
qualità (che è certo una delle determinanti del suo atteggiamento di
consumo) e a concentrarsi maggiormente sul nuovo prodotto. Così, la sua
percezione di coerenza ha un ruolo ancora più importante nello spiegare il
suo atteggiamento complessivo verso l’estensione di marca.
7.2 IMPLICAZIONI MANAGERIALI
Per approntare una strategia di brand extension, comprendere la prospettiva
di osservazione della stessa da parte del consumatore è fondamentale.
Nonostante le conclusioni a cui è giunto questo lavoro siano significative e
spendibili anche su piani “tattici” di maggior dettaglio, è a livello strategico
che esse hanno più implicazioni: quasi per definizione, il brand richiede
ampio respiro per costruire e spiegare il suo valore. Con particolare
riferimento al suo ruolo di marketing, la marca richiede del tempo perché la
sua immagine si sedimenti nella mente del consumatore. Così, in termini di
213
CAPITOLO 7
branding, qualunque lezione appresa sul consumatore va tradotta in azione
assumendo un orizzonte strategico, che è necessità prima di virtù.
Si è dimostrato che la qualità percepita del brand e la coerenza delle sue
associazioni con il nuovo prodotto sono molto importanti per determinarne la
sorte: la prima implicazione strategica è quindi l’esigenza di conoscere
perfettamente il proprio brand, che non risiede nella carta intestata
dell’impresa ma nella mente dei consumatori. Non si può presumere di
compiere azioni ottime di branding se non si conosce ottimamente l’insieme
organizzato di percezioni che costituisce il brand. Un risultato come questo,
che dimostra quanto siano rilevanti le associazioni alla marca, denuncia, a
prescindere dalle strategie di branding che l’impresa intende attuare,
l’importanza di avere piena coscienza delle associazioni stesse. In tal senso,
questo studio sulla brand extension ha la sua prima implicazione in una sfera
che trascende questa fattispecie di strategia per abbracciare la gestione
strategica della marca in senso più lato: l’unico modo per disporre davvero
del brand è conoscere come esso è percepito nella mente del consumatore.
In caso contrario, si correrà il rischio di gestire un marchio, dal significato in
tutto o in parte svilito.
In questo studio si è dimostrato che il consumatore non giudica la coerenza
tra brand ed estensione sulla base delle rispettive classi di prodotto, ma sulla
base di tutte le associazioni alla marca. Due marche appartenenti alla stessa
categoria di prodotto potrebbero avere possibilità anche molto diverse di
estendersi nella medesima classe, alla luce delle rispettive associazioni
specifiche. È importante non confondere il concetto di “specificità delle
associazioni” e quello di posizionamento distintivo: un’associazione può
essere ininfluente nel contesto originario della marca (e non contribuire a
posizionarla) ma potrebbe altresì costituire un elemento rilevante in quello di
estensione. Quindi, sebbene il processo di posizionamento di un brand miri
proprio a stabilire e a controllare le associazioni nella mente del
consumatore, in una logica di brand extension i due concetti sono sottilmente
diversi. A ben guardare, dalla necessità di riporre attenzione all’immagine del
brand nella sua totalità deriva una seconda implicazione, l’esigenza di
214
CONSIDERAZIONI FINALI
controllare in particolar modo le associazioni specifiche della marca: la
categoria di prodotto, specialmente nei beni a largo consumo, ha spesso un
ruolo preponderante nell’immagine di marca, tuttavia ne rappresenta anche
l’associazione più “ovvia”, che difficilmente potrà sfuggire di mano
all’impresa. Viceversa, le associazioni specifiche sono più varie e devono
essere monitorate con costanza: oltre che per il loro ruolo basilare nel
contesto originario, per il peso sostanziale che possono avere in una logica
di estensione di marca, quella di questo lavoro.
Dalla significatività dei coefficienti del modello di regressione ottenuti,
desumiamo quindi l’esigenza di una conoscenza puntuale e precisa della
brand image: la sua coerenza percepita con la categoria di estensione
rappresenta una condizione necessaria per estendere la marca. Detto
questo, e ricordato come le associazioni al brand non si modifichino
facilmente in tempi brevi, si potrebbe dedurre che la coerenza sia una
percezione “data” e non modificabile, quantomeno nel breve periodo. In
questo caso, un’impresa che volesse ampliare la propria gamma di prodotti
utilizzando i propri brand non avrebbe altra scelta che “leggerli” nella mente
dei consumatori e verificare con quali classi di prodotto essi sono compatibili.
La strategia di estensione di marca verrebbe, nel suo momento seminale,
totalmente privata di creatività e ridotta ad una semplice operazione di
matching.
Tuttavia,
questa
costituirebbe
una
lettura
manageriale
“pessimistica”; dalla significativa positività dei coefficienti di cui sopra deriva
invece un’altra implicazione per l’impresa: dischiusa per un brand di qualità
una possibilità di estensione, esso deve saper agire per aumentare il proprio
fit con il prodotto, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione a livello
strategico e tattico. Riferendosi per semplicità alle leve classiche del
marketing mix, per raggiungere questo obiettivo l’impresa ne ha sicuramente
a disposizione almeno tre: innanzitutto il prodotto, che dovrà valorizzare le
associazioni del brand forti, uniche, positive e coerenti, trascurando le altre;
la distribuzione, che potrà avvicinare il brand alla classe di prodotto di
estensione per esempio sfruttandone i canali; la comunicazione, che dovrà
essere anch’essa imperniata sugli elementi di coerenza.
215
CAPITOLO 7
Va inoltre ricordato che l’impresa potrebbe scegliere di estendere la propria
marca facendo leva, per l’occasione, su associazioni secondarie, cambiando
cioè le basi di percezione del consumatore. Si guardi, a titolo di esempio, al
co-branding per il lancio di un nuovo prodotto: tra i suoi vantaggi, questa
strategia (che abbiamo visto essere leggibile anche come una modalità di
estensione) ha anche quello di ovviare alla mancanza di fit tra ciascuna
immagine delle marche e la nuova classe di prodotto. Infatti, mediante
questa strategia si pone di fatto in essere un nuovo brand, che può
beneficiare delle associazioni di ciascuna delle sue componenti e il cui fit con
la nuova classe di prodotto è maggiore di quello di ciascuno dei partecipanti
alla collaborazione.
Riassumendo, la significativa positività dei parametri che spiegano la
“predisposizione”
del
consumatore
verso
l’estensione
di marca
ha
un’interpretazione duplice: da un lato, essi indicano che per ogni ipotetica
estensione potrebbero esistere delle soglie critiche in termini di qualità e
coerenza percepiti, che l’impresa deve appurare per verificare la praticabilità
della strategia; dall’altro, essi recano una misura dell’importanza di
percezioni del consumatore, soprattutto in termini di fit, che l’impresa dovrà
saper amplificare con gli strumenti a propria disposizione.
Una quarta, importante e più puntuale implicazione deriva ancora dalla
natura del fit, ed in particolare dal suo essere legato alla specificità del brand
prima che alla classe di prodotto di provenienza. Questo significa che
l’impresa dovrà valutare tra le possibilità di estensione prescindendo dalla
vicinanza della categoria di prodotto di estensione con il suo core business:
la coerenza tra classi di prodotto non si traduce necessariamente in una
coerenza tra brand e nuovo prodotto, perché questa deriva anche dalle altre
associazioni. Ciò significa che un’impresa potrebbe scoprire che un suo
brand è coerente e quindi estendibile in categorie di prodotto anche molto
lontane da quelle in cui opera tradizionalmente. Per non sprecare opportunità
di crescita, è quindi importante che il management sia attento e disposto a
valutare tutte le opzioni strategiche che si dimostrano praticabili in termini di
mercato, pur non essendo “nelle corde dell’impresa”. Ancora una volta,
216
CONSIDERAZIONI FINALI
un’alleanza di marketing potrebbe rappresentare la soluzione più adatta a
fronteggiare situazioni simili: si è detto che grazie ad un co-branding
“simbolico” si può sopperire a gap di coerenza o di credibilità; qualora invece
queste già ci siano ma manchino i sufficienti know-how, potrebbe essere utile
avviare collaborazioni di tipo funzionale, che prevedano la realizzazione
congiunta del nuovo prodotto. La rete di relazioni dell’impresa potrebbe
quindi rivelarsi molto importante nelle sue politiche di innovazione di
prodotto.
Ulteriori implicazioni derivano dalla differenza dei risultati ottenuti dallo studio
per le diverse tipologie di consumatori: in generale, sia che l’impresa stia
valutando una possibile estensione di marca perché “tecnologicamente
accessibile”, sia che essa derivi direttamente da un’indagine di mercato, le
conclusioni rimarcano la necessità di prestare attenzione alle peculiarità del
consumatore. Più in particolare, l’atteggiamento verso la marca è una
caratteristica che può determinare sia l’accettazione del prodotto (come era
normale aspettarsi) sia il modo in cui il consumatore ne giudica la qualità.
Un’estensione che abbia come target la clientela “fedele”, affettivamente
legata alla marca, dovrà essere supportata in termini di marketing in modo
peculiare, focalizzandosi ancora di più sulla coerenza tra il brand e il nuovo
prodotto piuttosto che sulla qualità della marca, che il consumatore non
metterà in discussione. Aldilà del caso specifico, che andrebbe approfondito
con uno studio ad hoc, c’è evidenza della necessità di “declinare” tutte le
azioni di branding, ed in particolare dei nuovi prodotti, sulla base delle
caratteristiche del consumatore: a partire dai test di mercato per giungere
alle azioni tattiche di comunicazione, l’impresa non dovrà mai prescindere
dalle caratteristiche del proprio interlocutore, riferendosi ai “consumatori”
piuttosto che al “consumatore”. Il prossimo paragrafo, riprendendo la matrice
degli atteggiamenti di consumo e analizzandola sotto una luce diversa, offre
alcuni spunti in tal senso.
217
CAPITOLO 7
7.3 LA MATRICE DEGLI ATTEGGIAMENTI
Nella convinzione che uno studio efficace sulla strategia di brand extension
nella prospettiva del consumatore non possa prescindere da una analisi più
profonda dello stesso rispetto alla ricerca passata, si è approntata la matrice
degli atteggiamenti di consumo: essa ha consentito, oltre ad ovviare ad
alcuni difetti ricorrenti nei modelli precedenti, di declinare lo studio su strati di
consumatori diversi, per verificarne le eventuali peculiarità. Si ritiene, tuttavia,
che questo strumento possa essere utilizzabile con finalità che in parte
trascendono quelle conoscitive: in questo senso, se ne suggerisce in questa
sede un’applicazione manageriale, potenzialmente utile ad un’impresa con
obiettivi di crescita che stia valutando la possibilità di una strategia di brand
extension.
La fig. 7.1 ripropone la matrice degli atteggiamenti mettendo in evidenza
all’interno di essa tre “aree” distinte. Con riferimento ad una fattispecie di
estensione di marca, caratterizzata dal brand e dalla categoria del nuovo
prodotto, queste aree corrispondono innanzitutto a tre tipologie di
consumatori diversi: nell’area A ci sono i consumatori della marca che sono
anche consumatori molto frequenti della tipologia di prodotto in questione;
nell’area B ci sono i consumatori della categoria di estensione che non hanno
alcun rapporto con la marca; nell’area C, infine, ci sono i consumatori “fedeli”
della marca che consumano poco o per niente i prodotti della categoria di
estensione.
218
CONSIDERAZIONI FINALI
Fig. 7.1: La matrice degli atteggiamenti come strumento di marketing
Atteggiamento verso la categoria di estensione
Consumatori
“fedeli”
Consumatori poco
frequenti
Non consumatori
C
Consumatori
“semplici”
A
Non consumatori
Atteggiamento verso la marca
Consumatori molto
frequenti
B
Si consideri ora un caso tipico: un’impresa con obiettivi di crescita e con un
brand in portafoglio ritenuto dall’elevato potenziale, che stia valutando se
estenderlo in una categoria di prodotto. A ben guardare, le tre aree descritte
si collegano per essa a tre specifici obiettivi, target o modalità di crescita:
•
gli individui A fanno già parte del portafoglio clienti dell’impresa, e
alcuni di questi sono anche molto legati al brand; tutti sono dei
consumatori molto frequenti dei prodotti o servizi a cui il management
sta pensando per l’estensione. È evidente che, per queste
219
CAPITOLO 7
caratteristiche, gli individui di quest’area rappresentano una clientela
potenziale imprescindibile per l’impresa, al punto da poter essere
considerati un test discriminante: se i “migliori” consumatori possibili
non accogliessero positivamente l’estensione di marca, difficilmente
individui con posizioni di consumo più problematiche, nell’una o
nell’altra dimensione della matrice, avrebbero a riguardo reazioni
migliori. In questo senso, se i consumatori presenti in quest’area non
sono probabilmente sufficienti a garantire una risposta sufficiente alla
strategia, certamente ne potrebbero spesso rappresentare, almeno
nei presupposti di marketing, una condizione necessaria, quantomeno
per beni di largo consumo.
•
gli individui B, invece, sono dei consumatori anche molto frequenti
della categoria di prodotto nella quale vorrebbe estendersi il brand, ma
che ad oggi non hanno con esso alcun tipo di rapporto. Qualora
l’impresa intendesse crescere attirando nuovi clienti nell’orbita del
brand, questa area sembrerebbe rappresentare il target prioritario,
perché contiene gli individui che, a parità di condizioni, pur non
consumando la marca avrebbero più probabilità di farlo in futuro vista
la loro predisposizione al consumo nella categoria di estensione.
Tuttavia, è opportuno verificare la credibilità della marca: se si tratta di
prodotti ad alto coinvolgimento, un consumatore esperto molto
difficilmente accorderà fiducia ad un brand considerato senza credito
per quella categoria. Nei prodotti di largo consumo, invece, l’alta
frequenza nel consumo potrebbe non corrispondere necessariamente
ad elevate esigenze. Nel caso l’impresa voglia utilizzare la strategia di
brand extension per espandere la base di clienti della marca, quindi,
dovrà
valutarne
l’immagine
presso
questi
con
riferimento
particolarmente preciso alla natura del prodotto.
•
gli individui C sono tutti consumatori fedeli del brand che il
management vorrebbe estendere, ma consumano poco o addirittura
220
CONSIDERAZIONI FINALI
per nulla i prodotti della categoria di estensione: per il secondo motivo,
si tratta di consumatori difficilmente conquistabili o sui quali l’impresa
difficilmente potrebbe fare affidamento. Tuttavia, si tratta a ben
guardare di una clientela dall’alto valore potenziale, perché se il brand
riuscisse ad indurre o incrementare il consumo di questi individui,
sarebbe poi almeno in parte sottratto al pericolo costante di
concorrenti, che finora non sono riusciti nel suo stesso intento. Lo
strumento per raggiungere questo difficile obiettivo è ovviamente il
grande appeal di cui la marca gode presso questi consumatori: certo
la loro predisposizione e ricettività è buona, e in molti casi l’impresa ha
la possibilità di raggiungerli facilmente. L’obiettivo è pertanto
ambizioso, ma la possibilità di perseguirlo merita di essere verificata
con attenzione.
L’utilità della matrice per il management è in primo luogo la capacità dello
strumento di fare chiarezza sul mercato dell’estensione di marca: utilizzando
due semplici ma significative dimensioni, si riescono a delineare diverse
fattispecie di consumatori potenziali, anche molto distinte come si è
esemplificato. Le “tre aree” non coincidono volutamente con le caselle della
matrice per far intuire visivamente la possibilità di combinare questa ed altre
analisi e raggiungere maggiori livelli di dettaglio. Si ritiene infatti che questo
strumento sia molto duttile, costituendo una “griglia” che può essere riempita
in modi anche molto diversi: con riferimento al suo obiettivo, questo studio ha
catturato alcune percezioni dei consumatori, ma l’impresa potrebbe anche
decidere di misurarne altre, per scoprire le differenze tra i vari consumatori e
scegliere più consapevolmente come caratterizzare nel dettaglio la nuova
proposta. La fase in cui questo strumento sembra spiegare maggiormente la
propria forza è proprio quella dei test di mercato, o addirittura dei “pre-test”.
Si descrive di seguito un esempio chiarificatore di applicazione della matrice,
costruito, senza pretese di plausibilità reale, intorno ad un’ipotesi di
estensione considerata in questo studio.
221
CAPITOLO 7
Si ipotizzi che Nokia, forte dei know-how acquisiti nella produzione di telefoni
cellulari con possibilità di scattare fotografie digitali, stia valutando
l’opportunità di lanciare uno o più modelli di fotocamera. Decide di effettuare
un pre-test di mercato, interrogando il consumatore con modalità simili a
quelle utilizzate nel presente lavoro: nella fattispecie, per misurare in modo
inequivocabile quale sarebbe la reazione del mercato a questo nuovo
prodotto, sceglie di chiedere agli intervistati la loro probabilità di acquisto.
Ciascun rispondente indica pertanto i suoi atteggiamenti di consumo (verso
Nokia, ad oggi concentrata sui telefoni cellulari, e verso la categoria delle
fotocamere digitali) e la sua probabilità di acquisto del nuovo prodotto.
Ottenuti i dati (che si suppongono rispecchiare in larga scala quelli rilevati nel
presente studio) il management li analizza e rileva che gli individui C, prima
ancora di quelli A, sono quelli con la probabilità d’acquisto più elevata. Gli
individui B, invece, hanno un punteggio medio inferiore. Si tratta di un
risultato verosimilmente interpretabile in questo modo: chi utilizza molto
frequentemente una fotocamera digitale è spesso un appassionato di
fotografia, esigente e scettico sul fatto che un produttore di telefoni cellulari
riesca a proporre fotocamere di buon livello. Viceversa, chi non utilizza o
utilizza poco le fotocamere digitali è mediamente meno esigente. Inoltre, la
generale sensazione che si tratti di un prodotto sempre meno costoso fa sì
che le eventuali resistenze dovute al prezzo di chi ancora non ha una
fotocamera diminuiscano in continuazione. Questi elementi rendono gli
individui C più possibilisti degli altri sull’acquisto di una fotocamera prodotta
da Nokia, marca alla quale sono molto legati. A questo punto, visto il grande
numero di consumatori fedeli su cui può contare, Nokia sceglie di rivolgere la
propria attenzione a questi, e sfruttare in modo particolare il proprio appeal
su chi ancora non possiede una fotocamera. Per determinare in modo più
puntuale che prodotto realizzare, può ora compiere dei test di mercato veri e
propri, contenendo i costi grazie alla scelta dei luoghi e i modi più adatti: per
esempio, estraendo dei premi tra chi collabora sul sito Nokia, presso i Nokia
Point, tramite coupon allegati alle confezioni dei telefoni cellulari. In questo
modo, riesce a determinare con precisione le caratteristiche desiderate dai
222
CONSIDERAZIONI FINALI
consumatori target, che poi implementerà nel proprio prodotto e, più in
generale, nelle sue scelte di marketing.
Se Nokia avesse scoperto che gli individui a più alto potenziale sono i B, si
sarebbe viceversa indirizzata su un prodotto pensato per quel consumatore,
compiendo dei test di mercato nei “luoghi della fotografia”: negozi
specializzati, portali dedicati ad appassionati e quant’altro. Ancora,
un’impresa potrebbe decidere dove effettuare i test di assegnando ai risultati
di ciascuna modalità un peso pari alla dimensione del rispettivo mercato
potenziale.
Questo caso inventato esemplifica un possibile utilizzo della matrice degli
atteggiamenti di consumo. A ben guardare, tuttavia, essa costituisce di fatto
uno strumento di segmentazione ad hoc per la strategia di brand extension:
potrebbe essere utilizzato anche in fasi successive a quella della
progettazione del prodotto, e fare da guida, qualora le sue dimensioni
risultassero basi significative nella misurazione di specifiche percezioni,
anche per scelte di distribuzione, prezzo o altro. In altre parole, la matrice
degli atteggiamenti si presta ad essere utilizzata e dovrebbe essere verificata
dall’impresa come possibile architettura di marketing per ogni scelta
nell’ambito di una strategia di brand extension.
7.4 LIMITAZIONI E RICERCA FUTURA
Lo studio presentato è certamente suscettibile di miglioramenti e presenta
delle limitazioni, che pur non minandolo nella validità dei risultati devono
essere riportate. Alcune corrispondono a delle semplici cautele da tenere in
considerazione,
mentre
altre
si
collegano
direttamente
a
degli
approfondimenti possibili per la ricerca futura. Tra le prime, vanno
necessariamente ricordate le specificità dello studio: la zona di indagine, le
caratteristiche del campione di intervistati, gli stimoli scelti per indurre
l’insieme di percezioni misurato.
223
CAPITOLO 7
La misurazione su scala 1-7 è stata scelta per le proprietà positive della
scala di Likert, ma andrebbe verificata la possibilità di utilizzare altre tecniche
e modalità di misurazione. L’utilizzo di più item per indagare su una stessa
percezione è da valutare attentamente caso per caso, perché in alcuni casi
potrebbe accrescere la precisione delle determinazioni, ma espone
inevitabilmente al rischio di distorsioni: se ne ha un esempio nella ricerca
precedente, che ha misurato l’atteggiamento del consumatore verso
l’estensione utilizzando congiuntamente indicatori dimostratisi non sinergici.
Questo studio ha cercato di sviluppare la ricerca sull’estensione di marca
mettendo ancora di più il consumatore al centro dello studio. Si sono
individuate due basi, i cosiddetti atteggiamenti di consumo, utili a
caratterizzarlo. Questa direzione di ricerca non dovrebbe essere trascurata in
futuro, cercando ulteriori logiche nelle caratteristiche di marketing degli
individui che potrebbero sottostare alle sue percezioni. Inoltre, alcuni dei
risultati peculiari raggiunti, come quelli relativi ai consumatori “fedeli” alla
marca, andrebbero approfonditi e studiati con indagini ad hoc.
L’obiettivo del lavoro è stato comprendere come il consumatore valuti
complessivamente una brand extension: in tal senso, l’ampio spazio che è
stato dato all’analisi del concetto di coerenza è servito a determinare il modo
di misurarla più idoneo a spiegare gli atteggiamenti del consumatore. Si è
scelto di misurare il fit nella sua integrità (fit BTC), e la significatività e
l’elevato valore del relativo parametro testimoniano come la misurazione
effettuata sia stata adeguata. Certamente, sarebbe interessante riuscire a
strutturare in modo approfondito la brand image e a comprendere il singolo
apporto delle sue componenti (in primo luogo ciò che “è classe di prodotto” e
ciò che non lo è) all’atteggiamento verso l’estensione di marca. La difficoltà è
crescente nella misura in cui si ritiene imprescindibile mantenere come
oggetto di indagine le percezioni “autonome” del consumatore. Per la
correttezza complessiva, è fondamentale riferirsi alle associazioni nella
mente dello specifico consumatore, e solo in seguito provvedere ad
aggregazioni che consentano di formulare conclusioni. Si ritiene che gli studi
che predeterminano le associazioni alla marca (sebbene sulla base di giudizi
224
CONSIDERAZIONI FINALI
del consumatore) a cui in seguito far riferire la totalità degli intervistati47
corrano il rischio di misurare delle “percezioni medie”, in realtà fittizie rispetto
al singolo rispondente.
La crescente familiarità degli individui con la tecnologia potrebbe favorire in
futuro significativi miglioramenti in ricerche analoghe a questa: nella
fattispecie, questionari elettronici potrebbero consentire all’intervistato di
rispondere a domande formulate sulla base delle risposte precedenti, senza
aumentare la complessità totale. Il rispondente, per esempio, si troverebbe di
volta in volta ripresentate le associazioni già indicate in autonomia. Una
precodifica molto comprensiva delle stesse, che non neghi tuttavia la
possibilità di indicare le proprie percezioni liberamente, potrebbe certo
essere utile: in ogni caso, per un corretto studio sul consumatore è requisito
fondamentale giudicare ogni osservazione nella totalità e integrità delle sue
determinazioni, senza mediarne alcuna.
47
Cfr. BUSACCA B., BERTOLI G., LEVATO F. (2006), “Brand extension & brand loyalty”,
Atti del V Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Venezia 20-21 Gennaio
2006.
225
IL QUESTIONARIO
ALLEGATO N°1: IL QUESTIONARIO
Questo questionario riguarda un’indagine su marche e nuovi prodotti che sto
compiendo per la mia tesi. Ti verrà chiesto di descrivere alcune tue abitudini
di consumo e il tuo atteggiamento verso alcune marche.
Nel caso di domande con risposte multiple, ti prego di scegliere tra le
possibilità proposte quelle che più si avvicinano al reale, voltando pagina solo
dopo aver risposto a tutte le domande.
Se lo compili a computer, ti chiedo gentilmente di sostituire una “x” al pallino
nelle domande a scelta multipla. Una volta compilato, ti chiedo di
rimandarmelo a [indirizzo e-mail], meglio se salvato con il tuo nome.
Ti ringrazio per la collaborazione.
Gabriele
_____________________________________________________________
(facoltativo)
Nome e Cognome
N° tel.
Indirizzo e-mail
227
ALLEGATO N°1
Sei un consumatore/utente di queste categorie di prodotto/servizio? Con quale frequenza?
ABBIGLIAMENTO
SPORTIVO
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
MOTORI DI RICERCA
ONLINE
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
BIRRA
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
PALESTRE
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
JEANS
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
BEVANDE ENERGETICHE Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
LIBRERIE
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
RADIO ONLINE
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
POPCORN
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
VINO
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
PUB
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta al mese
Ο
almeno una volta a
settimana
VILLAGGI VACANZE
Ο mai
Ο
una volta
negli ultimi 5 anni
Ο
due o più volte
negli ultimi 5 anni
FOTOCAMERA DIGITALE
Ο mai
Ο
al massimo un giorno
Ο
al mese
più giorni al mese
NAVIGATORE
SATELLITARE
Ο mai
Ο
al massimo un giorno
Ο
al mese
più giorni al mese
COMPUTER PORTATILE
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta a settimana
Ο
ogni giorno
TELEFONO CELLULARE
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta a settimana
Ο
ogni giorno
LETTORE MP3
Ο mai
Ο
al massimo qualche
volta a settimana
Ο
ogni giorno
228
IL QUESTIONARIO
Tra queste marche di ABBIGLIAMENTO SPORTIVO, dimmi quali utilizzi.
Scegli inoltre, se ce ne sono tra quelle che utilizzi, quali saresti se tu fossi una marca di abbigliamento
sportivo (massimo 2).
Utilizzo
Identificazione
Utilizzi REEBOK?
Ο sì
Ο no
saresti REEBOK?
Ο sì
Ο no
Utilizzi ADIDAS?
Ο sì
Ο no
saresti ADIDAS?
Ο sì
Ο no
Utilizzi ASICS?
Ο sì
Ο no
saresti ASICS?
Ο sì
Ο no
Utilizzi NIKE?
Ο sì
Ο no
saresti NIKE?
Ο sì
Ο no
Utilizzi PUMA?
Ο sì
Ο no
saresti PUMA?
Ο sì
Ο no
Utilizzi FILA?
Ο sì
Ο no
saresti FILA?
Ο sì
Ο no
Sempre con riferimento all’ABBIGLIAMENTO SPORTIVO, giudica in una scala da 1 a 7 la coerenza
tra questa categoria e i seguenti prodotti/servizi (1 = per nulla coerenti, 7 = molto coerenti). Ti può
aiutare pensare se possono essere utilizzati insieme o come sostituti, se hanno affinità produttive o di
immagine, ecc..
LETTORE
MP3
PALESTRA
BEVANDE
ENERGETICHE
JEANS
_________________________________________________________________________
Tra questi MOTORI DI RICERCA, dimmi quali utilizzi.
Scegli inoltre, se ce n’è uno tra quelli che utilizzi, quale saresti se tu fossi un motore di ricerca
(massimo 1).
Utilizzo
Identificazione
Utilizzi YAHOO?
Ο sì
Ο no
saresti YAHOO?
Ο sì
Ο no
Utilizzi ALTAVISTA?
Ο sì
Ο no
saresti ALTAVISTA?
Ο sì
Ο no
Utilizzi MSN?
Ο sì
Ο no
saresti MSN?
Ο sì
Ο no
Utilizzi EXCITE?
Ο sì
Ο no
saresti EXCITE?
Ο sì
Ο no
Utilizzi GOOGLE?
Ο sì
Ο no
saresti GOOGLE?
Ο sì
Ο no
Utilizzi VIRGILIO?
Ο sì
Ο no
saresti VIRGILIO?
Ο sì
Ο no
Sempre con riferimento ai MOTORI DI RICERCA, giudica in una scala da 1 a 7 la coerenza tra questa
categoria e i seguenti prodotti/servizi (1 = per nulla coerenti, 7 = molto coerenti). Ti può aiutare
pensare se possono essere utilizzati insieme o come sostituti, se hanno affinità produttive o di
immagine, ecc..
BEVANDE
ENERGETICHE
CATENA DI
LIBRERIE OFFLINE
229
RADIO
ONLINE
TELEFONO
CELLULARE
ALLEGATO N°1
Tra queste marche di BIRRA, dimmi quali consumi.
Scegli inoltre, se ce ne sono tra quelle che consumi, quali marche saresti se tu fossi una birra
(massimo 2).
Consumo
Identificazione
Consumi BUDWEISER?
Ο sì
Ο no
saresti BUDWEISER?
Ο sì
Ο no
Consumi HEINEKEN?
Ο sì
Ο no
saresti HEINEKEN?
Ο sì
Ο no
Consumi TENNENT'S?
Ο sì
Ο no
saresti TENNENT'S?
Ο sì
Ο no
Consumi STELLA ARTOIS?
Ο sì
Ο no
saresti STELLA ARTOIS?
Ο sì
Ο no
Consumi FRANZISKANER?
Ο sì
Ο no
saresti FRANZISKANER?
Ο sì
Ο no
Consumi MORETTI?
Ο sì
Ο no
saresti MORETTI?
Ο sì
Ο no
Sempre con riferimento alla BIRRA, giudica in una scala da 1 a 7 la coerenza tra questa categoria
e i seguenti prodotti/servizi (1 = per nulla coerenti, 7 = molto coerenti). Ti può aiutare pensare se
possono essere utilizzati insieme o come sostituti, se hanno affinità produttive o di immagine,
ecc..
POPCORN
VINO
PUB
VILLAGGIO
VACANZE
_________________________________________________________________________
Tra queste marche di TELEFONI CELLULARI, dimmi quali utilizzi o hai utilizzato di recente.
Scegli inoltre, se ce n’è una tra quelle che utilizzi o hai utilizzato di recente, quale saresti se tu
fossi una marca di telefoni cellulari (massimo 1).
Utilizzo
Identificazione
Utilizzi MOTOROLA?
Ο sì
Ο no
saresti MOTOROLA?
Ο sì
Ο no
Utilizzi SAMSUNG?
Ο sì
Ο no
saresti SAMSUNG?
Ο sì
Ο no
Utilizzi NOKIA?
Ο sì
Ο no
saresti NOKIA?
Ο sì
Ο no
Utilizzi LG?
Ο sì
Ο no
saresti LG?
Ο sì
Ο no
Utilizzi SIEMENS?
Ο sì
Ο no
saresti SIEMENS?
Ο sì
Ο no
Utilizzi SONY ERICSSON?
Ο sì
Ο no
saresti SONY ERICSSON?
Ο sì
Ο no
Utilizzi ALCATEL?
Ο sì
Ο no
saresti ALCATEL?
Ο sì
Ο no
Sempre con riferimento ai TELEFONI CELLULARI, giudica in una scala da 1 a 7 la coerenza tra
questa categoria e i seguenti prodotti/servizi (1 = per nulla coerenti, 7 = molto coerenti). Ti può
aiutare pensare se possono essere utilizzati insieme o come sostituti, se hanno affinità produttive
o di immagine, ecc..
VILLAGGIO
VACANZE
FOTOCAMERA
DIGITALE
NAVIGATORE
SATELLITARE
230
COMPUTER
PORTATILE
IL QUESTIONARIO
Considera ora la marca di abbigliamento sportivo NIKE.
In una scala da 1 a 7, come ne giudichi complessivamente la qualità
(1 = pessima, 7 = ottima)?
Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando a NIKE:
Ipotizza che NIKE cominci a produrre questi nuovi prodotti/servizi. Danne un giudizio in termini di
qualità attesa (1= pessima, 7 = ottima) e valuta la tua probabilità di acquisto del prodotto/utilizzo
del servizio (1 = altamente improbabile, 7 = molto probabile). Giudica inoltre la coerenza tra cosa
per te rappresenta NIKE e questi prodotti/servizi (1 = molto poco coerente, 7 = molto coerente). Se
credi, aiutati con le caratteristiche che hai scritto sopra.
LETTORE MP3
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
PALESTRA
Qualità
attesa:
Probabilità
di andarci:
Coerenza:
JEANS
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
BEVANDE
ENERGETICHE
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
Se credi, puoi suggerire e giudicare negli stessi termini un nuovo prodotto o servizio che ritieni
NIKE potrebbe commercializzare.
Prodotto/
/Servizio
Qualità
attesa:
Probabilità di
acquisto/utilizzo:
231
Coerenza:
ALLEGATO N°1
Considera ora il motore di ricerca GOOGLE.
In una scala da 1 a 7, come ne giudichi complessivamente la qualità
(1 = pessima, 7 = ottima)?
Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando a GOOGLE:
Ipotizza che GOOGLE cominci a produrre questi nuovi prodotti/servizi. Danne un giudizio in termini
di qualità attesa (1= pessima, 7 = ottima) e valuta la tua probabilità di acquisto del prodotto/utilizzo
del servizio (1 = altamente improbabile, 7 = molto probabile). Giudica inoltre la coerenza tra cosa
per te rappresenta GOOGLE e questi prodotti/servizi (1 = molto poco coerente, 7 = molto coerente).
Se credi, aiutati con le caratteristiche che hai scritto sopra.
BEVANDA
ENERGETICA
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
CATENA DI
LIBRERIE OFFLINE
Qualità
attesa:
Probabilità
di utilizzo:
Coerenza:
RADIO ONLINE
Qualità
attesa:
Probabilità
di utilizzo:
Coerenza:
TELEFONO
CELLULARE
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
Se credi, puoi suggerire e giudicare negli stessi termini un nuovo prodotto o servizio che ritieni
GOOGLE potrebbe commercializzare.
Prodotto/
/Servizio
Qualità
attesa:
Probabilità di
acquisto/utilizzo:
232
Coerenza:
IL QUESTIONARIO
Considera ora la marca di birra HEINEKEN.
In una scala da 1 a 7, come ne giudichi complessivamente la qualità
(1 = pessima, 7 = ottima)?
Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando ad
HEINEKEN:
Ipotizza che HEINEKEN cominci a produrre questi nuovi prodotti/servizi. Danne un giudizio in
termini di qualità attesa (1= pessima, 7 = ottima) e valuta la tua probabilità di acquisto dei
prodotti/utilizzo dei servizi (1 = altamente improbabile, 7 = molto probabile). Giudica inoltre la
coerenza tra cosa per te rappresenta HEINEKEN e questi prodotti/servizi (1 = molto poco
coerente, 7 = molto coerente). Se credi, aiutati con le caratteristiche che hai scritto sopra.
POPCORN
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
VINO
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
PUB
Qualità
attesa:
Probabilità
di andarci:
Coerenza:
VILLAGGIO
VACANZE
Qualità
attesa:
Probabilità
di andarci:
Coerenza:
Se credi, puoi suggerire e giudicare negli stessi termini un nuovo prodotto o servizio che ritieni
HEINEKEN potrebbe commercializzare.
Prodotto/
/Servizio
Qualità
attesa:
233
Probabilità di
acquisto/utilizzo:
Coerenza:
ALLEGATO N°1
Considera ora la marca di telefoni cellulari NOKIA.
In una scala da 1 a 7, come ne giudichi complessivamente la qualità
(1 = pessima, 7 = ottima)?
Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando a NOKIA:
Ipotizza che NOKIA cominci a produrre questi nuovi prodotti. Danne un giudizio in termini di qualità
attesa (1= pessima, 7 = ottima) e valuta la tua probabilità di acquisto del prodotto/utilizzo del
servizio (1 = altamente improbabile, 7 = molto probabile). Giudica inoltre la coerenza tra cosa per te
rappresenta NOKIA e questi prodotti/servizi (1 = molto poco coerente, 7 = molto coerente). Se credi,
aiutati con le caratteristiche che hai scritto sopra.
VILLAGGIO
VACANZE
Qualità
attesa:
Probabilità
di andarci:
Coerenza:
FOTOCAMERA Qualità
DIGITALE
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
NAVIGATORE
SATELLITARE
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
COMPUTER
PORTATILE
Qualità
attesa:
Probabilità
di acquisto:
Coerenza:
Se credi, puoi suggerire e giudicare negli stessi termini un nuovo prodotto o servizio che ritieni
NOKIA potrebbe commercializzare.
Prodotto/
/Servizio
Qualità
attesa:
Probabilità di
acquisto/utilizzo:
234
Coerenza:
BIBLIOGRAFIA
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ETAS Libri.
242
RINGRAZIAMENTI
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare prima di ogni altro la mia famiglia.
Mamma Consuelo e Papà Ennio mi hanno reso la vita facile, consentendomi
di non preoccuparmi che dei miei obiettivi, e mettendomi sempre nella
condizione migliore per cercare di raggiungerli. Senza il loro aiuto attivo, il
loro esempio silenzioso, la loro presenza costante, non starei tagliando un
traguardo così importante e desiderato.
Questa tesi è dedicata ai miei nonni, che se ne sono tutti andati nel corso di
questi cinque anni. So quanto tenessero ai miei studi e alla mia felicità, e la
loro fiducia mi ha sempre infuso consapevolezza e voglia di ripagarla.
Ognuno di loro ha avuto un ruolo nella mia crescita, oggi qui hanno tutti un
posto speciale.
Mia zia Federica ha rappresentato nei momenti di dubbio e difficoltà la “voce
giovane” della mia famiglia, e per questo, oltre al suo affetto, mi ha fornito un
supporto insostituibile.
Per questa tesi ho ricevuto un contributo tangibile da parte del Prof. Tiziano
Vescovi, che mi ha ascoltato e consigliato più volte nella fase di
concepimento dell’idea oltre che in quella dell’esecuzione. Ringrazio anche il
Prof. Andrea Pastore, per la sua grande disponibilità. Ad entrambi va inoltre il
merito di aver indotto, con i rispettivi corsi di marketing e statistica, la mia
volontà di provare a strutturare una tesi di questa natura.
Un ringraziamento enorme va inoltre a tutte le 223 persone che hanno
partecipato all’indagine rispondendo al mio questionario: senza di loro, lo
studio sarebbe rimasto solo sulla carta.
Ringrazio inoltre coloro che, a fasi alterne, mi hanno dato preziose opinioni o
si sono più frequentemente annoiati ascoltando i miei monologhi sulle
strategie di marca.
243
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare le persone che, in vari modi, mi sono state vicine in
questi anni, contribuendo in modo indiretto alla riuscita dei miei studi:
Tomaso e i miei amici e amiche di Mestre: non posso nemmeno cimentarmi
in un elenco, perché per mia fortuna sono davvero tanti e importanti. I
momenti di divertimento, gioia, disimpegno che abbiamo vissuto insieme mi
hanno fatto rifiatare; quelli di difficoltà mi hanno fatto maturare.
Marta, per questo e qualcosa di più.
Tutti i “musicisti”, tra virgolette e non solo, con cui in questi anni ho condiviso
ore e ore di rock: in particolare Alberto e gli Overture, i Reverie, i Cool Cats,
che mi hanno dato modo di sfogarmi, esprimermi e qualche volta deprimermi
con una chitarra al collo.
I compagni di università di questi anni, che sono spesso cambiati ma con cui
ho trascorso momenti di studio e di pausa spesso molto più piacevoli di altri.
I miei “amici estivi”, di Lignano e recentemente Roma, che ogni anno mi
hanno ricaricato le batterie.
Un pensiero va anche a Martina: oggi posso candidamente ammettere che
cinque anni fa ha avuto un ruolo determinante nella mia decisione di
iscrivermi in questa università. Oltre che di momenti che non scorderò mai,
ha parte del merito di questa scelta fortunata.
244
RINGRAZIAMENTI
Infine, sento di dover ringraziare chi mi ha infuso a volte leggerezza e più
spesso passioni a cui non saprei rinunciare:
Gli Who, i Van Halen, Le Orme, gli Helloween e i Gamma Ray, Ligabue e
tutta la musica vissuta e ascoltata di quarant’anni: è stata la colonna sonora
di un viaggio non sempre in discesa.
John Carpenter, David Cronenberg, George A. Romero e tutti gli altri
sceneggiatori e registi (non solo horror!) che mi hanno fatto emozionare
davanti a schermi piccoli e grandi.
Jack Kerouac e il suo entusiasmo Sulla Strada, che mi ha ricordato quanto
può essere piena una giornata.
245
247