tatei kie indagine antropologica sul popolo huichol

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tatei kie indagine antropologica sul popolo huichol
COLLANA
SIMONE RICCIATTI
TATEI KIE
INDAGINE ANTROPOLOGICA SUL POPOLO
HUICHOL DELLA SIERRA MADRE OCCIDENTALE
Copyright © 2007
Design copertina © 2007
Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale.
Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un
contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
ISBN: XXXXX-XX-X
Collana
Stampato in Italia
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RINGRAZIAMENTI DELL’AUTORE
Grazie di cuore a tutti coloro che mi hanno aiutato in questo
lavoro:
Giovanni Azzaroni, Giovanni Marchetti, Rik & Anto,
Chiarastella Mantovani, Andrea Cecconi, Giuliano Mensà, Rémi
Court, Lilian Robin, Luigi Picinni Leopardi, Hector Gonzales
Carrillo, Francisco Salvador, Walter Arias, Juan Carrillo Carrillo,
Faustino Salvador Ortiz, Rosalio Rivera Sanchez, Roberto
Bonilla, Jesus Himen de la Cruz, Felipe Carrillo Gonzales e
tutte le persone incontrate sulla strada, delle quali non ricordo,
o non ho mai saputo, il nome.
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Immo fortasse plusculo fructu legetur fabula
poetica cum allegoria, quam narratio sacrorum
librorum, si consistas in cornice.
Erasmo, Enchiridion
Basilea 1518
militis
christiani,
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INDICE
Introduzione
PARTE PRIMA: UNA STORIA WIRRARIKA
1. Organizzazione e governo wirrarika
1.1 La nascita della luna
1.2 I bastoni itsu
1.3 Xarikixa, la fiesta del esquite y del cambio de varas de mando
(La cerimonia del mais e del cambio dei bastoni del
governo)
2. La cosmogonia sacra
2.1 Il mito della creazione:
il dono dei muvieri e la nascita di Tatewari
2.2 Il furto del fuoco
2.3 Xapawiyemeta, il lago di Chapala
(come Wata’kami si salvò dal diluvio)
2.4 Wirikuta
2.5 Tau, la nascita del sole
3. Oltre la vita
3.1 Parlando della morte a colazione
3.2 Il regno di Werika Wímari
3.3 Tuamurrawi nella casa del mais
3.4 Peyote, venado y maiz (Carlos Montemayor)
4. Híkuri Neirra
4.1 A poche ore dalla celebrazione
4.2 L’interno del calihuey
4.3 Híkuri Neirra
PARTE SECONDA: IL PELLEGRINAGGIO A
WIRIKUTA
5. Il pellegrinaggio a Wirikuta
5.1 In viaggio
5.2 La prima sosta: Chapalangana
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5.3 La seconda sosta: Zacatecas
5.4 La terza sosta: Bauz
5.5 La quarta sosta: Villa de Ramos
5.6 La quinta sosta: San Juan Tuzal
5.7 La sesta sosta: Cototillo
5.8 L’arrivo a Wirikuta: Reunar
5.9 Nierica, la visione degli dei
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PARTE TERZA: CONCLUSIONE
6. Un nuovo inizio
6.1 L’arrivo a Tatei Kie
6.2 La visione di Rosalio
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GLOSSARIO
BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE
Quello huichol è un popolo caparbio, fiero e resistente: invisibile
agli occhi dei conquistadores spagnoli, sordo alle prediche
evangelizzanti dei gesuiti, duro al fianco delle forze
rivoluzionarie di Pancho Villa per la liberazione nazionale.
Un popolo che, da nomade, ha saputo abbandonare la strada
della morte e dello schiavismo per rintanarsi in quel groviglio,
verde d’arbusti, che è la sierra madre occidentale del Messico,
sostituendo alla caccia l’agricoltura, relegando arco e frecce
all’attività, essenzialmente, rituale.
Non sempre combattere è la soluzione migliore.
Oggi, anno duemilasei, sono circa ventimila le persone, divise in
cinque comunità principali, sopravvissute a quella scellerata
pagina di storia. Chiamano se stessi wirrarika (wirraritari, al
plurale), indovini: sono gli uomini e le donne di San Andrés
Cohamiata (Tatei Kie), di Santa Caterina Cuexcomatitlán
(Tuapurie), di San Sebastián Teponahuaxtlán (Wautia), di
Tuxpan de Bolaňos (Tutsipa) e di Guadalupe Ocotán
(Xatsitsarie); tutti con loro le danze, i loro rituali, le offerte agli
dei.
Certo, è innegabile affermare che, in questi centri comunitari, il
tempo non abbia fatto il suo dovere: la maggior parte degli
indigeni, oggigiorno, veste abiti occidentali, parla perfettamente
spagnolo, ha persino accettato qualche compromesso con
l’evangelizzazione… tutte cose che non mancherò di
approfondire nelle prossime pagine.
Sono stato ospite della comunità di Tatei Kie nei mesi di giugno
e luglio duemilasei: con gli huicholes ho cantato e danzato il
peyote, mangiato la carne sacra del cervo, sofferto la calura del
giorno ed il freddo della notte.
Soprattutto però, ho ascoltato le loro storie e le ho raccolte
nella prima parte di questo mio lavoro.
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Quella huichol è una tradizione orale, una storia fatta plurale e
privata della maiuscola: fuori dal tempo, oltre gli anni, per
guardare, dicendola con Ende, lo specchio nello specchio, l’infinito
riflesso del mito.
La seconda parte di questo volume è dedicata al principale
cardine del credo huichol: il pellegrinaggio, che ogni indigeno
dovrebbe compiere almeno una volta nelle vita, nella terra sacra
di Wirikuta, dove il peyote cresce spontaneamente.
Non è una cronaca quella che ci si appresta a leggere, bensì un
vero e proprio pellegrinaggio intellettuale, scritto di getto,
lasciando carta bianca alle idee ed ai ricordi.
Questo, credo sia il modo migliore di parlarne, sfuggendo il
resoconto, sacrificando il dettaglio all’argomentazione; in fede,
non è una scelta di comodo: tutt’altro.
La terza parte, che conclude il mio lavoro, porta un titolo
paradossale: un nuovo inizio.
Da tempo il popolo huichol ha abbandonato il disprezzo per gli
uomini “dalla pelle bianca”: l’isolamento è finito, resta la
speranza che il “civile” squalo si nutra, per una volta, di rispetto
e non di pesci piccoli.
È tempo di dialogo.
Buona lettura.
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PARTE PRIMA:
UNA STORIA WIRRARIKA
Capitolo 1: Organizzazione e governo wirrarika
1.1 LA NASCITA DELLA LUNA
Mentre il fuoco bruciava, racconta la
leggenda che una vecchia signora gli si
avvicinò per riscaldarsi.
I cervi guardiani l’avvisarono di stare attenta,
così da non finire tra le fiamme, ma la
vecchia ricurva si addormentò e ci cadde
dentro.
Ciò che si vide fu una vampa alta fino al
cielo, che penetrò nella terra, poi più nulla.
I cervi ascoltarono allora i suoi passi sotto di
loro, e furono i primi a vederla apparire in
cielo.
La prima volta che apparve si chiamava
Shewì, e stava in basso, ad oriente.
La seconda volta si chiamava Jotariaka, ed era
più alta e più chiara.
La terza volta si chiamava Kairìaka, la quarta
volta Naurìaka.
La quinta volta salì in alto, ad oriente ed era
piena, si chiamava Aushuwirìaka.
Tacutsi Metseri, nostra bisnonna la Luna,
aveva però luce debole, e poco vedevano gli
abitanti della terra: ancora non si
distinguevano le forme del mondo.
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Nel pantheon huichol la Luna è una divinità minore: il suo
brevissimo mito sembra in effetti tagliato su misura allo scopo
di elencare semplicemente i nomi delle diverse fasi lunari.
Bisogna però tener conto del fatto che quella wirrarika è una
tradizione orale, che gli anziani tramandano da secoli senza
preoccuparsi troppo dei dettagli.
Nulla di strano, ad esempio, che durante un qualsiasi rituale, il
mara’ákame decida di arricchire i suoi canti con particolari
inventati di sana pianta, per rendere più attenta la
partecipazione degli astanti, magari facendo coincidere i tratti
somatici o caratteriali dei protagonisti con quelli di chi lo sta
ascoltando.
Succede allora che quelli che in passato potevano essere una
manciata di racconti, hanno dato origine ad un repertorio
sterminato ed in continua crescita; non serve un grande
studioso, ad esempio, per notare le affinità tra il mito appena
narrato e questo che segue:
1.2 I BASTONI ITSU
Era mezzanotte, e dalle rupi si sentì un
rumore forte, che risuonò incessante per
cinque volte.
I kakauyari, che erano saggi, pensarono di
spedire qualcuno per vedere di che si
trattasse: la scelta cadde su Tamatsi
Kauyuma’li, poiché aveva il pene più lungo di
tutti i suoi compagni.
Si chiamano kakauyari gli esseri leggendari che, prima della
venuta dell’uomo, abitavano il nostro pianeta; sono
l’incarnazione umana del creato: dalle montagne alle acque, ai
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mari, agli animali… ed i protagonisti indiscussi dell’universo
mitologico wirrarika.
Talmente lungo l’aveva, che se lo arrotolava
cinque volte attorno al petto.
Quando arrivò vide una vecchietta, ma nella
forma di un’enorme vampa infuocata, che gli
chiese che cosa cercasse.
“Mi hanno mandato i kakauyari” le rispose.
“Bene, allora salutami”
Quando allungò la mano per salutarla,
l’anziana signora disse: “non mi devi salutare
con la mano, ma con quello che tieni lì
arrotolato!”
Allora lui cominciò ad allungarlo e, quando
ebbe finito, con un colpo secco la vecchietta
glielo tagliò via, lasciandogliene attaccato solo
un pezzetto, che è quello che abbiamo noi
oggi.
“Adesso sei libero” disse l’anziana, “quello lì
adesso è normale, vai a raccontare tutto ai
tuoi compagni e dì loro di venire qui fra
cinque giorni”.
Tamatsi Kauyuma’li fece ritorno e raccontò
tutto; disse di aver incontrato Takùtsi
Nakawè.
È comune fra i wirrarika apostrofare i propri dei con parentesi
parentali, come a sottolineare una vera e propria discendenza
carnale.
Tacutsi Nakawé significa letteralmente “nostra bisnonna la
Crescita”, è un personaggio molto interessante dell’universo
mitico di questo popolo: Juan Carrillo Carrillo, direttore
generale di Tatei Kie, la definisce “madre de la que emanan todas las
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madres”, madre dalla quale nascono tutte le madri, ironizzando
con me sulla descrizione che Dante dà della Vergine nella
Divina Commedia: Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio.
Mi racconta che quando il mondo fu creato il suo corpo esplose
nell’aria e dove cadeva un suo brandello, lì nasceva un albero o
un animale, perché l’uomo potesse sopravvivere.
È chiamata “gran hechicera”, la cui traduzione non rende giustizia
al concetto: grande stregona.
“Mascara del payaso vestito de mujer”: donna con al viso la biacca
del pagliaccio, è colei che versò il sangue del primo toro
sacrificato nella prima jicara (ciotola votiva).
Dea ambivalente, generosa e crudele, benigna e nefasta allo
stesso tempo1, sua fu la causa del diluvio che avvolse Wata’kami
e uccise i kakauyari… dando la larga al genere umano2.
Trascorsi i cinque giorni, dalle rupi echeggiò
lo stesso rumore, ed i suoi compagni
capirono che era tempo di mettersi in viaggio.
Quando arrivarono però, ad attenderli non
c’era che un albero di Brasil: dell’anziana
signora nemmeno l’ombra.
Proprio mentre cominciarono a dubitare delle
parole di Tamatsi Kauyuma’li una voce
ordinò loro di tagliare dei rami dell’albero e,
da quelli, ricavare dei bastoni.
Spiegò loro quanto dovessero essere lunghi e
tutto quanto.
Erano saggi, e allora capirono che ogni
bastone aveva un potere, e che da un potere
derivano onori ed oneri.
1 Sull’ambivalenza del mito rimandiamo al paragrafo 2.5: “Tau, la nascita del
sole”.
2 L’argomento, nello specifico, è riportato nel paragrafo 2.3: “Xapawiyemeta,
il lago di Chapala”.
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L’organizzazione sociale wirrarika poggia ancora oggi su questi
bastoni: gli itsu, che conferiscono al detentore pieno e legittimo
potere nell’ufficio ad essi corrispondente.
È importante sottolineare che è il bastone ad avere il potere; la
persona che lo possiede ne è latrice e, proprio per questo
motivo, muterà il proprio nome in quello del suo itsu.
A titolo di chiarimento, riportiamo una parte del dialogo fra
Giuliano Tescari, ricercatore e docente di antropologia culturale
dell’Università di Torino e Leocadio Lopez Carrillo, indigeno
wirrarika:
G.
[…] è come per il Governatore, che si chiama
Tatowàni perché è incaricato del Tatowàni, del
bastone Tatowàni?
L. Il bastone è il Tatowàni.
G. E quindi è la stessa cosa con la ciotola: la ciotola
è il Tsaurìrrikàme, ma una data persona si prende in
carico quella ciotola…
L. …e assume lo stesso nome.3
Le principali figure della società wirrarika sono quattro (ma sono
numerose le ramificazioni che da esse si dipanano): kawitero,
wawaute, mayordomo e tatowàni, alle quali si aggiunge quella del
mara’akàme.
Ho ragionato molto su una definizione esaudiente di
quest’ultima: sciamano, curatore, cantore… il mara’akàme è
l’umana guida delle anime, l’uomo del peyote, la figura mortale
di maggior importanza del credo religioso wirrarika.
Data la continua rotazione annuale delle cariche, indispensabile
risulta la figura del kawitero, un incarico morale, riservato agli
LEOCADO LOPEZ CARRILLO - GIULIANO TESCARI, Vámos a Tûríkyé Sciamanismo e storia sacra wirrarika, Franco Angeli, Milano, 2000, pag. 124
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anziani che hanno già rivestito alte cariche governative, il cui
compito è quello di sognare i futuri mandatari.
Il principio che di norma regola questa rotazione è quello della
discendenza diretta, ma può accadere che un incarico venga
affidato ad un uomo, anche non wirrarika, che mai abbia avuto
nulla a che fare con esso.
Durante una cena in compagnia di Felipe Carrillo Gonzales è
stato lui a dirmi, ovviamente in modo scherzoso e
candidamente esplicativo, che sarebbe per me stato opportuno
non lasciare Tatei Kie il giorno seguente, data la possibilità che
abbracciava anche la mia persona di divenire il nuovo
governatore del villaggio.
Purtroppo, o per fortuna, non è successo.
Il rifiuto ad assumere tale carica non è contemplato e la ragione
è semplice: è comune opinione dei wirrarika che la malattia non
si manifesti in un uomo per cause esterne, ma per intestine
mancanze al proprio dovere.
Capita quindi non di rado che i prescelti abbiano famigliari
malati, e nessuno davanti a questo bivio decide di ignorare o
rifiutare questa mistica chiamata.
Naturalmente non è necessaria una disgrazia in famiglia per
diventare governatore.
È possibile che il kawitero indichi (sempre dopo essersi
consultato con il mara’ákame del villaggio) una bambina, o un
bambino, che in futuro assumerà il tal incarico e che, data la
troppo giovane età, tocchi al padre farne le veci: “lei è troppo
giovane, lo farai tu… non vorrai che tua figlia si ammali per
non aver adempiuto al suo dovere!”.
In questo modo si crea una nuova ramificazione, anch’essa
sottoposta al principio che di norma regola i mandatari: la
discendenza diretta.
Una volta accettato l’incarico, due sono le verifiche a riprova
che il consiglio dei kawiteros abbia “visto giusto”: la caccia al
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cervo nelle vicine zone boschive e quella al peyote, per la quale
ci si recherà, disagi permettendo, nel territorio sacro di
Wirikuta, dove il cactus nasce spontaneamente.
La buona riuscita di entrambe le prove sarà la conferma di una
scelta mirata.
I wawautes sono i custodi delle ciotole votive, ed hanno un
mandato non rinnovabile di cinque anni; la loro figura richiama
immediatamente quella dei cervi addetti alla custodia di
Tatewari, nostro nonno il Fuoco, nel mito della creazione.
Ogni villaggio huichol ha al suo interno un tempio principale, il
calihuey, dedicato al culto dei kakauyari, divini progenitori, dove
suddette ciotole vengono poste, circondato da altri tre, a
formare la croce che lega i punti geografici cardinali della
cosmologia wirrarika.
Quella del mayordomo è l’unica carica ad avere un appellativo
spagnolo anziché wirrarika: a lui infatti è affidata la custodia
degli idoli di importazione cattolica.
Sono tre le figure del Cristo in croce adorate da questo popolo:
Tatata (o Tata Cristo), del quale esistono due statue pressoché
identiche, a rappresentare i due distinti sessi del genere umano,
e Tatekwiyo, di dimensioni minori per facilitarne il trasporto in
occasione dei cerimoniali nelle altre comunità.
Al primo sono riservate le principali attenzioni: alla sua, ed alla
sua soltanto, custodia è addetto uno specifico mayordomo, che
prende il nome di returi ed ha il compito di conservare la statua
in buono stato per tutti i cinque anni del suo mandato.
Ad aiutarlo nell’incarico, due topiles, letteralmente guardie o
messaggeri, uno dei quali, chiamato puyuste, ha funzioni di
supplenza del returi nel caso questi debba assentarsi e l’altro,
chiamato tepotaru, con l’incarico di svolgere le mansioni che,
prima della partenza del returi, toccavano al suo superiore.
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Una tentasi, in genere donna e libera da legami sentimentali, è
l'addetta alla pulizia del templo, alla profumazione di esso con
incensi ed ai pasti del gruppo.
Il tatowàni, governatore di carica annuale, è il vero e proprio
garante della legge del villaggio.
Con lui collaborano l’alcade, il giudice, il kapitan ed il jualguacil, a
capo dei topiles, questa volta in veste di braccio operativo.
Merita un approfondimento specifico il rituale con il quale
avviene il cambio del governo e la conseguente cerimonia
dell’investitura, che pone le sue fondamenta sull’originale
calendario wirrarika:
I MESI DEL SOLE sono quelli della stagione secca: vanno dal
cinque di ottobre al quattro di giugno.
In barba allo scorrere delle ore, qualsiasi abitante del villaggio,
pur avvolto dall’oscurità della notte, durante questi mesi non
troverà nulla di strano nell’affermare “è giorno”.
I MESI DELLA LUNA sono quelli della stagione delle piogge:
vanno dal cinque di giugno al quattro di ottobre.
Naturalmente anche per questo periodo vale il discorso appena
affrontato: “è notte”, e non c’è niente di illogico.
MEZZOGIORNO e MEZZANOTTE sono rispettivamente i
giorni centrali di questi due periodi.
È comune nelle leggende wirrarika trovare nozioni temporali di
questa specie; la stessa storia dei bastoni itsu comincia con “era
mezzanotte”, a cavallo, quindi, del cinque di agosto (grosso
modo, s’intende: la precisione matematica e la puntualità non
sono certo il principale vanto dei popoli amerindi e neolatini).
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1.3 XARIKIXA, la fiesta del esquite y del cambio de varas de mando
(La cerimonia del mais e del cambio dei bastoni del governo)
Durante i mesi notturni della stagione delle piogge il governo
wirrarika viene simbolicamente spodestato: il cinque di giugno
Itsukate wamerra, il tavolo governativo, viene ribaltato sulla
panca, dove rimarrà fino al quattro di ottobre, data in cui tutto
tornerà in ordine per consentire alla “vecchia guardia” di
riprendere il lavoro nei restanti tre mesi di governo.
Il breve cerimoniale del ribaltamento si consuma in una
mattinata: si apre con la sfilata delle autorità che, dalla chiesa,
posta a Tatei Kie esattamente di fronte agli uffici governativi,
portano Tatata e Tatekwiyo avvolti in una nube di incenso,
verso il tavolo in discussione.
Adagiati tra le offerte, anche il fascio di bastoni itsu ed i tre
piccoli crocefissi delle comunità limitrofe: S. Josè, Cohamiata,
Las Guayabas.
Ha attirato la mia attenzione un uomo che, dopo aver sradicato
da terra quello che credevo essere soltanto il tronco secco di
una vecchia pianta, lo ha posto tra gli oggetti sacri, destinando
anch’esso alla pulizia simbolica del muvieri ed a quella classica
dell’acqua, per poi riporlo nuovamente al suo posto.
È stata l’estrema gentilezza di Jesus Himen de la Cruz, che non
ringrazierò mai abbastanza, soprattutto per avere pazientemente
risposto alle mie mille domande durante la festa del peyote (che
vedremo nello specifico in seguito4), a togliermi dagli occhi
quell’espressione di vacillante incertezza: “è il palo in cui
vengono legati gli animali da sacrificare durante la settimana
santa, per questo lo purifichiamo… osserva, ora girano la
tavola”.
4
“Híkuri Neirra”, par. 4.3, pag. 82
23
Il sacrificio del toro, va detto, anche se di origine preispanica è
ormai nell’immaginario huichol un omaggio di carattere
essenzialmente cristiano, legato in particolar modo alla Pasqua
di resurrezione, i cui giorni di lauda compongono, appunto, la
settimana santa.
Dopo il ribaltamento che, devo ammetterlo, immaginavo più
caratteristico (si tratta schiettamente di ciò che è: il
capovolgimento di una tavola) i wirrarika festeggiano la fine
della cerimonia con tequila, birra e tejuino, una pastosa bevanda
dal sapore orribile, ricavata dalla fermentazione del mais, non
alcolica ma, ed è giudizio comune, altamente inebriante.
L’atmosfera che si viene a creare è amichevole, tra canti e
discussioni: c’è chi suona la chitarra e chi, vinto dai fumi
dell’alcol, si addormenta a terra.
Io stesso, mentre domandavo a Francisco Salvador, attuale
governatore, il permesso di scattare qualche fotografia in giro,
mi sono ritrovato in mano una chitarra e a fianco un uomo che
insisteva perchè suonassi una canzone italiana.
Una facile ballata di quattro accordi dei Modena City Ramblers
è stato un buon compromesso con gli effetti del tejuino, se mi si
passa il piccolo inganno di aver spacciato alle autorità in festa
un modenese stentato per perfetto italiano.
È importante sottolineare che, al fine di evitare che il lettore si
faccia un’idea sbagliata di questo popolo, all’interno delle
comunità huichol è proibito vendere e consumare alcolici.
Solo nelle giornate dedicate alle sacre celebrazioni viene dato
credito al famoso “strappo alla regola”.
La notte che precede questa celebrazione si chiama watukaripa,
ed è dedicata all’arte onirica dei kawiteros.
È durante la notte che si sogna, ed è con le piogge che si vede
sbocciare la nuova semente: questo detto, non ufficiale, spiega
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perché i kawiteros svolgano la parte principale del loro lavoro alla
luce fioca della luna.
Non tutti coloro che siederanno al tavolo del governo debbono
per forza trovarsi al villaggio durante la loro nomina, ma è
indispensabile che ci facciano ritorno per celebrare la Xarikixa,
rituale che sancisce l’effettivo passaggio della fiducia nel gestire
l’istituzione.
Servono fondamentalmente a questo gli ultimi tre mesi di
carica: a far sì che i futuri mandatari (sanno di esserlo poiché
hanno anch’essi fatto lo stesso sogno del kawitero nella notte di
watukaripa) tornino a casa.
La cerimonia dell’investitura dura cinque giorni, e si apre
lontano dalle luci del villaggio, durante la notte (quella vera), per
ricreare quell’atmosfera che avvolse i kakauyari alla consegna dei
primi itsu.
La zona viene delimitata dai falò accesi, uno per ogni futuro
addetto, o gruppi di addetti, alla carica, al centro della quale
vengono posti, sopra un telo di fibra vegetale, i bastoni del
potere.
I canti e le preghiere che si alzano da ogni fuoco si mescolano
in una cacofonia che terminerà soltanto al primo sole del
mattino, quando i partecipanti stringeranno in pugno l’antico
oggetto.
Ma se le dita della mano potranno finalmente cingere l’onore
del bastone, spetta alle spalle farsi carico dell’onere del potere:
sono infatti pesanti sacchi, carichi di ogni genere alimentare,
quelli che vengono donati ai nuovi mandatari perché siano
portati al villaggio, svuotati e divisi con tutti in segno di
servigio.
Il tempo restante è interamente dedicato al canto, all’interno del
tempio del villaggio, delle gesta degli antenati.
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Una volta riunito il nuovo governo, il primo dovere è quello di
giustiziare una persona nell’arco di cinque giorni.
È ancora in uso tra i wirrarika l’utilizzo del ceppo: uno
strumento simile alla gogna che serve ad immobilizzare i piedi
di chi commette gravi infrazioni.
Le esecuzioni hanno luogo all’interno di stanze chiuse, per
evitare ritorsioni e vendette dei famigliari verso il carnefice.
Va detto che ormai sono ben rari, e più che altro leggendari,
episodi di questo tipo: normalmente il malcapitato viene
semplicemente allontanato dal villaggio o consegnato alla
giustizia del governo messicano.
A dovere di cronaca, mi è stato raccontato che, poco prima del
mio arrivo a Tatei Kie, un giovane huichol di diciassette anni di
età e qualche furto di troppo sulla coscienza, riuscì a scappare
dalle carceri e a dileguarsi nella notte.
I neo-eletti avranno a questo punto il diritto di governare senza
interruzioni fino alla prossima stagione delle piogge, fatta
eccezione per un breve periodo di dieci giorni, corrispondente
al nostro carnevale, detto pachitas, in cui i mandatari si
riuniranno con i kawiteros per gli ultimi, saggi, consulti.
L’ultima figura rimasta da trattare è quella del comisario del bienes
comunales, totalmente marginale ed estranea alla cultura indigena.
È in pratica un inviato del governo ufficiale messicano che si
occupa, tramite l’Istituto Nazionale Indigenista, dei rapporti
burocratici legati all’uso delle terre da coltivo.
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Capitolo 2: Cosmogonia sacra
2.1 IL MITO DELLA CREAZIONE:
IL DONO DEI MUVIERI E LA NASCITA DI TATEWARI
In origine il mondo era avvolto nell’oscurità,
e gli antenati kakauyari non vedevano nulla, e
si mangiavano fra loro.
Il fioco lume della Luna non migliorò certo le
cose: i più forti e veloci, come Namakame,
l’uomo-leone, o Urawi tewiali, l’uomo-lupo,
avevano la meglio su chi prima poteva
almeno contare su una cecità comune.
Fu allora che Tatei Yurianaka, nostra madre
la Terra, si mosse: alla prima scossa i
kakauyari videro una fiamma vaga, alla
seconda scossa la fiamma prese vigore.
Alla terza scossa la terra si illuminò
brevemente, poi tornò il buio.
Alla quarta si fece alta e brillò a lungo.
Alla quinta scossa la fiamma si alzò in cielo
fino a sembrare una stella, poi ricadde sulla
terra e la penetrò.
Fu allora che gli antenati udirono i passi
sotterranei di Tatutsi, e lo seguirono fino a
Têaka’ta, dove si alzò e si mostrò, al centro
dell’universo.
Tatutsi è il nome che gli huicholes danno al fuoco primitivo,
chiamandolo bisnonno.
È la prima fiamma e, a differenza di Tatewari, nostro nonno il
Fuoco, non è addomesticata dagli uomini.
Têaka’ta significa letteralmente “il posto del braciere”, si trova
nei pressi della Comunità di Santa Caterina ed è, assieme a
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Teupa, il santuario dedicato al Sole, uno dei posti più sacri per i
wirrarika.
Un cervo si avvicinò incuriosito; Tatutsi lo
catturò, lo uccise, lo appese ad un albero e ci
si sedette sotto.
Avvolto dalle fiamme il grasso fondeva e
colava
sul
suo
petto
nutrendolo,
alimentandolo.
Poi prese il cervo e lo offrì ai kakauyari, che
però non osarono avvicinarsi.
Allora Tatutsi se ne andò sul monte, tanto
lontano che nessuno riusciva più a scorgere la
sua viva fiamma.
Tamatsi Kauyuma’li chiese allora perché tutti
lo avessero lasciato andare, chè era proprio di
quella fiamma che tutti avevano bisogno.
Abbiamo già incontrato Tamatsi Kauyuma’li nel racconto dei
bastoni itsu.
Gli huicholes lo definiscono “nuestro hermano major venadito del sol”,
ovvero “nostro fratello maggiore cervo del sole”.
Non sfugga all’attenzione la parola “venadito”: è un’affettuosa
espansione del termine “venado”, cervo.
Doňa Gaby, che, nel mio primo viaggio, mi ha ospitato nella
sua casa, ai piedi della sacra montagna, per un mese e della
quale, senza scherzi, non conosco nome e cognome per esteso,
amava apostrofare le persone di cui parlo con il termine “los
huicholitos” per lo stesso motivo.
Tamatsi Kauyuma’li è il dio che diede forma al mondo, il lume
tutelare ed il principale tramite del mara’ákame.
Incarnazione del cactus peyote, è lui l’astratta forza che tiene
uniti fra loro gli antenati, per poter con loro intercedere a nome
dei vivi, mantenendo l’armonia necessaria fra le forze opposte.
28
La leggenda lo vuole disteso nel vento, con il capo adagiato nel
cielo di Wirikuta ed i piedi posati sulle nuvole della costa di San
Blas.
Tàmatsi si mise allora a capo degli altri
kakauyari e, armati di frecce, andarono a
cercare Tatutsi; lo trovarono che stava ancora
camminando.
La prima freccia ricadde debole al suolo.
La seconda freccia bruciò al contatto delle
fiamme.
La terza e la quarta freccia fecero la stessa
fine: nessuna sembrava avere la forza di
arrestare il suo cammino.
Provò per ultimo Xuarawetemai, la giovane
Stella: tese il suo arco e scagliò la sua freccia
nel cuore del fuoco.
Solo allora Tatutsi si arrestò, curvo ed
invecchiato.
Sembra proprio che si parli di Huehueteotl, il Dio Vecchio della
cultura azteca, raffigurato sin dall’antichità come un anziano
ricurvo che regge un braciere sulle spalle (o sul capo).
Il suo nome è legato alla catastrofe che, secondo il calendario
azteca, distrusse la quarta epoca e diede inizio alla nuova vita.
Dopo il diluvio e l’interminabile oscurità che avvolse la terra,
l’unica cosa a brillare era il braciere che il dio vecchio reggeva,
come racconta Graham Hancock nell’ottimo “Impronte degli
dei”:
Gli dei si riunirono a Teotihuacan e si chiesero ansiosi chi
sarebbe stato il nuovo Sole.
Al buio era visibile solo il fuoco sacro, ancora tremante in
seguito al recente caos.
29
“Qualcuno dovrà sacrificarsi e lanciarsi nel fuoco”, gridarono,
“solo allora ci sarà un Sole”.5
La leggenda continua con il sacrificio di due dei e la nascita del
nuovo sole, Tonatiuh, che sarà protagonista della quinta epoca.
Tamatsi ordinò quindi a Xuarawetemai di
restare là, sulla montagna, per vegliare sul
nuovo mondo: sarà la prima stella della sera.
I kakayuari si avvicinarono: provarono a
chiamarlo l’uomo biscia, dalle spirali nere e
gialle, poi l’uomo serpente blu, poi l’uomo
biscia grigia, ma il vecchio non li ascoltò.
Ci provò l’uomo biscia dalle strisce nere e
bianche, ma il vecchio restò immobile.
La quinta volta si fece avanti Kwatemo’kami,
che aveva un solo anno d’età ed era il più
giovane dei cervi: alle sue parole il vecchio si
voltò e gli parlò, perché egli riferisse al suo
popolo quanto aveva udito.
Kwatemo’kami disse allora agli altri di
presentare al vecchio i loro bastoni; il vecchio
ci legò le penne dell’aquila e del falco e glieli
restituì.
Sono i muvieri: abbiamo visto di come ogni membro
dell’organizzazione governativa wirrarika sia fornito di un
bastone itsu.
Il muvieri è il bastone del potere del mara’ákame, la cui funzione,
strettamente legata a questo personaggio, vedremo in seguito.
5
GRAHAM HANCOCK, Impronte degli dei, Corbaccio, Milano, 1996/7, pag. 212
30
Quando fu Tamatsi a presentare il suo
bastone, Wawatsa’li e O’to Ta’wi, che erano
venuto a tutelarlo, si sedettero, uno alla destra
e l’altro alla sinistra del vecchio.
Tatutsi ordinò allora di tagliare quattro rami:
due di rovere e due di pino e fece porre in
croce i rami di rovere, sui quali sedette, ed ai
lati di essi i rami di pino.
Qui il riferimento è all’usanza wirrarika di porre, durante le
cerimonie, un piccolo pezzo di legno come cuscino del Fuoco:
il molìtari.
Tatotzì disse allora: “Wawatsa’li e O’to Ta’wi,
voi sarete i miei guardiani, vi chiamerete
Tama’ts Wawatsa’li, cervo del sud e Tama’ts
O’to Ta’wi, cervo del nord”; poi, rivolgendosi
a Tamatsi: “tu sarai il mio cuore, ti chiamerai
Tama’ts Tatewari”.
Tatewari è una delle principali divinità adorate dal popolo
wirrarika, guida e protezione dei pellegrini in viaggio verso
Wirikuta.
La traduzione letteraria del suo nome suona come “il fuoco che
arde nel centro del circolo” ma la gente di Tatei Kie preferisce
descrivermelo con il più confidenziale “el abuelo fuego”: nonno
fuoco.
Si infilò la mano nel petto e ne estrasse due
pietre focaie; fatto ciò disse: “prima scintilla a
nord!” e sfregò le pietre.
“Seconda scintilla a sud! Terza scintilla ad
oriente! Quarta scintilla a ponente!
31
Quinta scintilla al centro!” ed il suo cuore
arse, le fiamme divamparono, Tatotzì
divenne puro rogo.
Era nato Tatewari, nostro nonno, il Fuoco.
La cosmogonia wirrarika poggia su una coppia di vettori
direzionalmente opposti, che identificano, incrociandosi, un
quinto punto centrale: l’osservatore.
L’aspetto direzionale non è di tipo oggettivo, essendo l’uomo il
principale fulcro e non un oggetto in esame del quale stabilire la
posizione rispetto ad un asse predefinita.
Sembra che la direzione venga intesa da questo popolo come
riferimento per un cammino più spirituale che fisico: proprio
mentre sto scrivendo queste righe, caso vuole che un gruppo di
indigeni stia lavorando per terminare la costruzione di cinque
piccoli templi dedicati, mi dicono, a cinque elementi naturali.
A fianco della mia capanna sorge già quello che omaggia
Eakateiwari, il vento, proprio sul ciglio de “el mirador”, uno
strapiombo di circa settecento metri che deve il suo nome al
fatto che da una pietra sporgente sulla cima si possa ammirare
l’indescrivibile paesaggio che offre la sierra ed i fuochi accesi, in
basso, della comunità di Las Guayabas.
A lui si uniranno quelli dedicati ad Eka, l’aria, ad Hautsima,
l’acqua, Kie, la terra e Tatewari, il fuoco.
Volendo però rapportare il sistema di coordinate huichol a quello
occidentale, potremmo azzardare che il binomio destra-sinistra
coincida con l’asse nord-sud; crescita e declino fisico facciano le
veci dell’asse est-ovest e,contemporaneamente, quelle delle
proiezioni immaginarie di Zenit e Nadir.
La verità, pur geografica, credo stia invece nascosta tra le pagine
dei libri di storia: è interessante osservare come secoli di plagio
religioso abbiano agito sul credo wirrarika mutando certezze
indiscutibili in simboli sacri cristiani, fondati quindi sulla fede.
32
Mi riferisco alla croce che capeggia di fronte alla chiesa della
comunità di San Andres (impossibile non notare che anche il
nome originario, Tatei Kie, ovvero “nostra madre la terra”, sia
stato mutato da concetto religiosamente astratto ad iconografia
cattolica riconosciuta e certificata).
Si leggono quattro riferimenti sulle assi che la compongono:
l’asse orizzontale conserva incise e ben visibili sul legno le
parole Tunuwame – Tseriekame, l’asse verticale cita invece lo
sbiadito binomio Wexikta – Kuyuaneneme.
Sono la dimostrazione del fatto che, come mi ha giurato Rosalio
Rivera Sanchez, guida del villaggio, la croce era già lì da un
tempo (forse non la stessa croce) che precede di poco la
colonizzazione spagnola e che, aggiungo io, originalmente ben
poco aveva a che fare con la storia di un Nazareno sacrificato al
potere di un impero.
Le parole incise in lingua nahuatl, altro non sono che i nomi dei
centri cerimoniali delle comunità che circondano Tatei Kie:
Tunuwame è il nome del centro cerimoniale di San Andres
Tseriekame è quello di Cohamiata
Wexikta è quello di San Josè
Kuyuaneneme è quello di Las Guayabas
Riferimenti cardinali quindi, di un concetto spaziale sacro.
Le principali cerimonie wirrarika vengono ripetute nei quattro
centri cerimoniali, identiche, a rotazione, così che ogni singola
comunità possa accogliere le autorità delle altre, ed ogni singolo
calihuey sia teatro principale della sacra rappresentazione.
Mi spiega ancora Rosalio che Tatei Kie si trova al centro di
quattro importanti riferimenti direzionali della realtà indigena,
dove periodicamente gli huicholes portano le loro offerte:
33
Hauxamanaka, ovvero la terra di Durango, a nord, casa del
popolo tapewano, perché la pace tra le etnie si conservi solida e
duratura.
Xapawiyemeta, il lago di Chapala, a sud, la cui storia è legata al
diluvio della storia sacra wirrarika.
Wirikuta, ovvero il deserto di Real de Catorce nello stato di San
Louis Potosì, ad est, meta del pellegrinaggio che ogni huichol
dovrebbe compiere almeno una volta nella vita.
Haramaratsie, la costa di San Blas, ad ovest, dove troneggia ben
visibile la cosiddetta “pietra delle Vergine”, washiewe in lingua
nahuatl, faraglione posto a monito al mare, a difendere la vita di
ogni uomo del mondo.
L’ aspetto più interessante del sistema di coordinate huichol
riguarda l’inversione che esse subiscono durante gli usi
cerimoniali delle comunità: il quinto punto, l’uomo, che finora
abbiamo considerato come l’origine dalla quale si espandono
direttive spaziali soggettive, diviene centro unico di
convergenza spaziale e temporale.
2.2 IL FURTO DEL FUOCO
Erano quindi i cervi a proteggere Tatewari.
Fino ad allora nessuno degli antichi saggi che
abitavano la terra aveva mai sentito sulla pelle
quel torpore, e in molti si recavano a far visita
al neonato Dio.
Alcuni si avvicinarono troppo, e si
bruciarono, altri cominciarono a pensare
quale ingiustizia fosse tenere Tatewari
rinchiuso in un solo punto.
Il resto del pianeta era infatti ancora
rischiarato dalla flebile luce lunare.
34
Si decise Tupina, l’uomo-colibrì, che era
molto veloce, ma appena mise il becco nel
fuoco si bruciò, e tornò indietro a mani
vuote.
Ecco perché il suo becco è rosso e lungo:
perché si sciolse in quel malaugurato
tentativo di prendere per sè una scintilla.
La stessa sorte toccò ad Háiku tewiali,
l’uomo-serpente, e questo spiega il suo corpo
maculato dalle ustioni.
Altri kakauyari tentarono l’impresa ma, chi
per il troppo calore, chi perché sorpreso dai
cervi guardiani, nessuno riusciva a portarla a
termine.
Provò Iaúsu Tewiali,che era l’uomoopossum: si mise proprio accanto al fuoco,
per scaldarsi.
Quando i guardiani furono distratti allungò la
coda ed afferrò un tronco incandescente per
poi infilarselo subito nella borsa che ha nella
pancia, e cominciò a percorrere i cinque
scalini che lo allontanavano dal pericolo
d’esser scoperto: oltre quelli, infatti, i cervi
non potevano andare.
Quando i guardiani videro il fumo salire dal
suo ventre lo inseguirono e, siccome
l’opossum era molto goffo e correva poco
veloce, lo raggiunsero subito; gliene diedero
di santa ragione e lo conciarono proprio per
le feste, tanto che alla fine non respirava più.
Allora lo lasciarono lì, credendolo morto, ma
il suo cuore batteva ancora.
35
Si alzò, cominciò a correre come poteva,
superò i cinque gradini, raggiunse il centro
della terra.
Lì offrì una scintilla alle cinque regioni del
mondo, lì divampò di nuovo, per tutti, il
Fuoco sacro.
Più di un elemento di analisi scaturice da questa storia.
L’opossum , prima di varcare i cinque gradini che gli daranno la
larga alla fuga, di fatto, muore: quello del sacrificio per ottenere
un risultato tangibile è un concetto ricorrente nella simbologia
wirrarika.
Abbiamo già visto Tamatsi sacrificare la propria virilità e Tatutsi
sacrificare un cervo; torneremo ancora sull’argomento già nelle
prossime pagine, dedicate al centro della terra e alla nascita del
Sole.
Quella dei cinque gradini è invece una questione che merita
qualche riga in questa sede: si tratta schiettamente di livelli,
tappe da superare.
Vedremo come la montagna della sacra terra di Wirikuta,
Reunar, rappresenti l’ascesa sciamanica attraverso i cinque
gradini che separano la terra dal cielo.
Non è però soltanto un fatto simbolico o, meglio, spirituale: il
modus vivendi del popolo huichol divide ogni prova che la vita ci
sottopone, sia essa la gravosa malattia di un parente o, parlando
del sottoscritto, un semplice ciclo universitario, in cinque
distinte tappe chiamate nùywari: è un tragitto, un cammino che
porterà ad un risultato.
La prima è la tappa più semplice da sormontare, poi il cammino
diventa sempre più difficile, a mano a mano che si prosegue,
fino alla fine.
Sono le esperienze, è la crescita: la vita è fatta di prove da
superare… per dirla con il poeta: gli esami non finiscono mai.
36
2.3 XAPAWIYEMETA, IL LAGO DI CHAPALA
(come Wata’kami si salvò dal diluvio)
Il lago di Chapala, oltre ad essere una bellissima e rilassante
località turistica, lega il suo nome ad un episodio importante
della storia sacra wirrarika: il diluvio, che lo fece crescere a
dismisura, fino a coprire ogni angolo del mondo.
Comincia con la nascita di Wata’kami, il
primo uomo, l’anello che lega a noi i
kakauyari: era un agricoltore e passava le sue
giornate a lavorare per creare il suo coamil,
che significa campo coltivato, tagliando gli
alberi di “salate” per far spazio sufficiente a
piantare grano.
Per quanti ne tagliasse, però, la mattina tutto
tornava intonso, tutto il suo lavoro si rivelava
vano.
Il terzo giorno decise allora di attendere che il
sole calasse per nascondersi e venire a capo
del mistero.
Fu così che vide la vecchia Tacutsi Nakawé
avvicinarsi al campo con il suo mumurrì e
volgerlo alle cinque direzioni.
Gli alberi allora crebbero di nuovo, come e
forse più forti, che prima d’essere tagliati.
Il mumurrì è un oggetto particolare ed affascinante: si tratta di un
bastone senza corteccia che culmina al suo apice con la
stilizzazione della testa di un cervo.
Vedremo, nello specifico, il suo uso nel capitolo dedicato
all’Hikuri Neirra, la celebrazione del peyote.
37
Svelato l’arcano, Wata’kami uscì rabbioso dal
suo nascondiglio, con tutta l’intenzione di
picchiare l’anziana signora.
“Calmati” disse lei, “devi sapere che il mondo
sta per finire, tutti quelli che conosci
periranno annegati a causa di un diluvio: fra
cinque giorni comincerà a piovere e
moriranno tutti”.
Estrasse allora uno specchietto e mostrò
come da ogni direzione stesse arrivando
pioggia, come da un fiume in piena.
Aggiunse anche che l’unico modo che aveva
per salvare la pelle era quello di costruire una
canoa abbastanza grande da contenere
entrambi, e si raccomandò di costruirle un
tetto perché potessero ripararsi.
“Per questo” aggiunse “ho donato nuova vita
agli alberi… se non lo avessi fatto, ora non ce
ne sarebbero abbastanza per costruire la
nostra imbarcazione”.
L’uomo si mise subito al lavoro, tanto
velocemente che la mattina del quinto giorno
era già terminato.
Al sentore delle prime gocce, Tacutsi Nakawé
ordinò all’uomo di portarle una giovane
cagnetta nera ed una torcia incendiata, di
legno di ocote.
Poi lo mandò a raccogliere cinque zucche, le
tagliò e le svuotò come a formare dei
contenitori, dove pose i grani dei cinque
differenti colori del mais.
38
Già nel racconto dei bastoni itsu ci siamo soffermati sulla figura
di Tacutsi Nakawé e sul fatto che, per prima, versò il sangue del
toro sacrificato in un contenitore chiamato jicara.
Qui scopriamo la fattura di questa “ciotola cerimoniale”,
ottenuta svuotando e disidratando una zucca, decorandola poi
con perline di colori accesi e sgargianti.
Incendiò quindi una candela, a fianco della
prima zucca, che sarebbe rimasta accesa per
un anno.
Ne avevano cinque, perché erano cinque gli
anni durante i quali mai avrebbe cessato di
piovere.
Tra le offerte del credo huichol, la candela ha un ruolo primario:
un vivido esempio è quello delle quattro candele poste a reggere
il mondo, così come lo conosciamo.
Come la fiamma consuma la cera, così la vampa vitale di ogni
uomo si esaurisce, fino a spegnersi.
Per ultimo raccolse ogni coppia di animali,
poi diresse il suo mumurrì in ogni direzione e
l’acqua arrivò impetuosa a sollevare la canoa.
Il diluvio era cominciato e, per cinque anni,
niente e nessuno vide altro che pioggia.
Il livello dell’acqua si alzava di anno in anno,
cinque livelli, e la navigazione si faceva
sempre più difficoltosa: alla fine del quinto
anno, anche la montagna più alta era
sommersa.
Quando infine gli scossoni delle onde
cessarono, aprirono il tetto e videro che non
pioveva più.
39
Fu allora che Tacutsi Nakawé usò il suo
mumurrì per solcare in terra vari canali, perchè
l’acqua defluisse di nuovo verso il mare.
Tutti gli uccelli presero a beccare lungo il
passaggio, per questo si formarono le valli, ed
i serpenti a strisciare nella fanghiglia che la
risacca aveva lasciato, creando i torrenti.
Quando tutto tornò normale, un uccello volò
a spargere i semi di mais che avevano
conservato all’interno delle zucche.
Come ultima cosa, Tacutsi Nakawé pose un
gigantesco scoglio bianco sulle rive
dell’oceano,
nel
posto
chiamato
Haramaratsie, come monito al mare, chè mai
più tornasse ad alzare le spalle oltre le rive del
mondo.
Wata’kami riprese la sua solita vita, e lavorava
con maggior lena di prima.
Mentre tutti gli animali erano ormai andati
per le loro vie, con lui era rimasta la sua
cagnetta nera, che si chiamava Suk U’ka.
Lo strano era che, pur essendo l’unico uomo
al mondo, egli trovava, al ritorno dal lavoro,
sempre pronte sul tavolo tortillas di mais ad
attenderlo.
Incuriosito da questo fatto, un giorno,
anziché andare a lavorare, si nascose dietro la
sua casa ed attese.
Sul finire della mattinata vide un filo di fumo
uscire dalla sua cucina e subito dopo una
donna, completamente nuda, recarsi al
torrente per lavarsi, donando la sua pelle
umida all’abbraccio asciutto del sole.
40
Wata’kami corse allora in cucina, dove trovò,
proprio accanto alla pietra usata per macinare
il mais, il nero manto della cagnetta.
Decise di gettarlo nel fuoco e, mentre lo
guardava bruciare, la donna del torrente
cominciò ad urlare tanto forte che dalla sua
casa Wata’kami cominciò a correre verso quel
grido: ciò che trovò fu la donna che piangeva
con il corpo coperto di bruciature.
La riportò a casa, le curò le ferite e le si
dichiarò: “eri la mia cagnetta, ora sarai mia
sposa”.
Ebbero due figli, primo germoglio del seme,
futuro arbusto della natura umana.
2.4 WIRIKUTA
Affronteremo ora questo argomento in modo generico,
rimandando quello che è l’aspetto principale di questa terra
nella vita della comunità, ovvero il pellegrinaggio, alle prossime
pagine, dove non mancherò certo di parlarne in modo
approfondito ed esauriente.
Quella di Wirikuta è sicuramente la tappa più importante del
cammino spirituale wirrarika.
Si trova sull’altura della sierra madre occidentale, nello stato di
San Louis Potosì.
L’unica città, o almeno la più importante di questa zona, reca un
nome strano ed ambizioso: Real de Catorce.
Alla lettera il suo nome significa “Reale dei Quattordici”: si
suppone derivi dai quattordici soldati spagnoli che qui
trovarono morte per mano indigena attorno al millesettecento.
41
Attualmente è poco più che una città fantasma, ma vanta un
passato di grande città mineraria, piegata nel primo novecento
dal crollo che il prezzo dell’argento subì nei mercati europei.
Chiusa la parentesi da guida turistica, l’importanza sacrale di
questo luogo sta nel fatto che risieda ai piedi di Reunar, la sacra
montagna, e in capo al deserto, arido giaciglio del cactus peyote.
Parlando del più e del meno in un caldo pomeriggio di Tatei
Kie, doňa Aureliana de la Rosa mi confida di non essere mai
stata, nonostante la sua non più giovane età, a Real de Catorce:
“si no estas ben limpio, te puede volver loco!” mi dice con quel tono di
preoccupata raccomandazione che usano le madri quando il
figlio per la prima volta esce dopo cena.
Tanta è l’importanza sacrale che i wirrarika attribuiscono a
questo posto che i neofiti del pellegrinaggio vengono, alle porte
della montagna sacra, bendati, per evitare che la luce che questo
luogo emana li renda ciechi.
Se non sei puro, ti può far diventare pazzo: significa che per
cibarsi del sacro cactus e poter ascoltare il canto degli dei è
necessario spogliarsi di ciò che turba l’anima, di ciò che la rende
nera.
È proprio questo il principale timore che alberga nello spirito di
questo popolo: la mancanza, seppur involontaria, di una buona
confessione.
Posso quindi capire Aureliana, e a nulla valgono i miei
entusiastici racconti, che ho forse meno della metà dei suoi anni
ed a Real de Catorce ci sono stato già due volte.
“Per noi è diverso” mi dice “tu ad esempio che cosa hai visto,
chi ti ha parlato?”
Resto in silenzio.
42
“Nulla, forse. Nessuno. Non sono uno huichol: studio la loro
cultura e ne subisco il fascino, ma non mi appartiene” penso
con un poco di rammarico.
“Non a tutti è concesso di ascoltare la voce degli dei” continua
“può succedere che una persona sia pulita: allora il peyote gli
parla, gli insegna nuovi canti, gli dice cosa sarà nella vita… allo
stesso modo può accadere che la persona abbia ingannato se
stessa, presentandosi impura, e il peyote, che non si può
ingannare, se ne accorga e la punisca facendola star male.
Può anche succedere che il peyote non voglia aprirsi a quella
persona: allora non sentirà niente e resterà sola”
Mi vengono in mente i versi composti da Antonio Bautista,
cantore huichol, che riporto nella versione spagnola e nella felice
traduzione di Marino Benzi, nei quali tracima dalla diga del
desiderio umano tutto il rammarico di chi non fu ammesso alla
sacra udienza:
Allá fui. Allá donde
los cerros aparecen;
nada oí. Allá fui
donde aparecen
los cerros. No oí nada,
nada oí.6
Fui là dove c’è l’Imumui
Fui là dove c’è l’Imumui
La scala azzurra che sale,
Fui là dove i fiori sbocciano
6 FERNANDO BENITEZ, Los indios de Mexico, ERA, Mexico D.F. 2000,
2006/6, pag.134
43
Dove i fiori parlano:
Ma non udii nulla, nulla udii.
Fui là dove le rose cantano
Dove i Nostri Padri
Le Nostre Madri appaiono,
Fui là dove c’è l’Imumui
La scala azzurra che sale:
Ma non udii nulla, nulla udii.7
È la confessione di un uomo che dopo aver percorso il difficile
cammino del pellegrinaggio, fin sulla cima di Reunar (abbiamo
già visto come la montagna sacra sia idealmente composta da
una scalinata di cinque livelli, chiamata appunto Imúmui) non
riceve il dono del verbo divino.
Di Aureliana conservo ancora un quadro, realizzato con filo,
cera d’api e resina, che mostra fiero al centro di un astratto
mosaico la figura ben nitida di un serpente, dedicato alla città
fantasma.
Sul retro di esso lei stessa ha scritto, come risposta ad una mia
muta, ma evidentemente mal celata in animo, perplessità, queste
parole, da me tradotte dalla lingua spagnola:
È la sacra collina dove si trova il peyote, dove noi
huicholes andiamo a lasciare offerte e dove
organizziamo cerimonie, dove ci confessiamo,
elencando i nostri peccati davanti a dio ed a tutti i
nostri compagni, dove la porta del cielo ci si apre
perché tutti possano vedere gli dei e con loro
conversare.
7 MARINO BENZI, I canti del cervo azzurro, La Piccola Editrice, Celleno (VT),
1996, pag.27
44
Tutto questo è possibile grazie al peyote, che ci fa
entrare nel mondo magico dei cieli.
Qui è raffigurata la serpe che si prende cura di esso:
se non facciamo la cerimonia, se non preghiamo, se
non lasciamo offerte non possiamo mangiare peyote.
È per questo che essa lo protegge, e attacca chi non ha
rispetto delle nostre usanze.
Aureliana de la Rosa
Che cosa ho visto? Niente di soprannaturale, solo tre cerchi
concentrici di pietre, che la mia guida mi vende come centro del
mondo.
“Almeno” mi dice “per come lo considerano gli huicholes” e mi
racconta di come il popolo wirrarika si fermi proprio in questo
luogo a danzare ed a lasciare offerte.
È con ironia che mi sento ora di ringraziare quella persona a
nome dell’amico Rosalio per la bella risata nata da quel mio
racconto.
“In parte è vero” esordisce Rosalio “è il centro del mondo
perché è lì che è nato il sole… quei cerchi segnano il punto in
cui il bambino Tau si è sacrificato per donarci il calore della
vita.
2.5 TAU, LA NASCITA DEL SOLE
Una volta che il fuoco fu tra i kakauyari,
questi cominciarono ad alimentarlo, ma la sua
luce non riusciva certo a rischiarare il mondo.
45
Provarono ad offrirgli delle giovani vite in
sacrificio: per primo toccò ad Ittàyàme, che
aveva cinque anni.
Lo gettarono in pasto alle fiamme, e dalle
fiamme uscì sotto forma di vero e proprio
uccello: Ittàyàme è appunto il nome con il
quale i wirrarika chiamano il pettirosso.
Fecero altri tre tentativi, con lo stesso
risultato, quando videro un bambino brutto e
povero, ricoperto di pustole e tumori, che
giocava
in modo strano: continuava a
trafiggere con una freccia il suo nierica, che
portava all’interno l’effige sacra dello si’kuli.
Come è stato già accennato, il nierica è una tavola di legno
circolare sulla quale vengono realizzate figure mitiche, spesso
associate alle visioni dettate dal cactus peyote, durante il
pellegrinaggio nella terra sacra di Wirikuta.
Lo si’kuli è anch’esso un oggetto celebrativo, formato
dall’incrocio di due bastoni che portano alle quattro estremità
ed al centro un ricamo geometrico romboidale di vari colori,
strutturati in maniera concentrica.
Volgarmente chiamato “occhio di Dio”, viene spesso
ricollegato alla presenza del medesimo in ogni luogo, pur
rappresentando in verità l’espandersi caleidoscopico dei raggi
solari, l’espansione della vita fisica e spirituale.
Tornando al nostro racconto, abbiamo già parlato di come i
wirrarika arricchiscano le loro storie di particolari inventati.
In questo caso la spietata descrizione del bambino, oltre che
sembrare inopportuna e, francamente, di dubbio gusto, poco ha
a che vedere con la bellezza fisica che caratterizza i bambini che
numerosi corrono per le strade di San Andres Cohamiata.
46
Mi spiega Jesus che stiamo parlando di una antica leggenda
azteca: quella del sacrificio del quinto sole a Teotihuacan, dalla
quale il racconto di Tau sicuramente deriva.
Non è la prima volta che mi rivolgo a Roberto Bonilla, direttore
della scuola primaria di Tatei Kie, per avere in prestito libri sulla
cultura del suo popolo, ma in questa occasione l’argomento
sembra talmente ovvio e conosciuto da non richiedere nessuna
ricerca, solo una domanda da parte sua:
“Ma non hai visitato il Museo Nazionale di Antropologia del
Distretto Federale?”
“In verità, sì…” Roberto si riferisce all’enorme monolite che
accoglie i visitatori, noto con il nome di “pietra del calendario
azteca”, rinvenuto nel millesettecentonovanta in seguito a scavi
archeologici nella piazza principale di Città del Messico e
trasferito nel milleottocentoottantacinque, per volontà
dell’allora presidente Porfirio Diaz, nel Museo Nazionale di
Storia in calle Moneda e di lì all’attuale dimora, che lo ospita dal
millenovecentosessantaquattro.
La pietra rappresenta simbolicamente il cosmo azteca.8
Al centro di essa il volto di Tonatiuh, il dio del sole, coperto da
rughe come quello degli anziani, ma dai capelli dorati come
quelli di un fanciullo.
Duplice è l’interpretazione che viene data alla lingua che
penzola dalla bocca aperta del dio: alcuni la ricollegano alla
perenne sete di sangue di vittime sacrificali, tesi supportata
anche dal fatto che i due artigli ai lati del volto stringano due
cuori umani; altri, tra i quali mi schiero, preferiscono avvalorare
il fatto che questa sia realizzata in forma di coltello di ossidiana,
Per approfondimenti più dettagliati sulla descrizione del calendario azteca
si rimanda al seguente sito internet:
http://www.mondolatino.it/cultureprecolombine/gliazteca/calendarioaztec
a.php
8
47
che indicherebbe il sacrificio di se stesso, fonte ciclica
d’alternanza di morte e nuova vita.
Secondo la cultura azteca l’intera storia di ogni essere vivente è
divisa in epoche, o “Soli”.
Quando questi si spengono l’intera razza li segue, ad eccezione
di una coppia sulle cui spalle graverà l’obbligo, più o meno
consolatorio, della riproduzione.
I quattro pannelli a rilievo che circondano Tonatiuh
rappresentano le precedenti quattro ere cosmogoniche del
credo azteca: quella del giaguaro, in alto a destra, quella del
vento, in alto a sinistra, quella del fuoco,in basso a sinistra e
quella dell’acqua, in basso a destra.
L’universo si articola quindi attorno ad una perenne e conscia
attesa di distruzione e rinnovamento.
L’epoca attuale è quella del “quinto sole di Teotihuacan”
La storia è la stessa cui si è accennato parlando di Huehueteotl,
il Dio Vecchio, custode del braciere in cui si gettarono due dei:
ora ci soffermeremo sui protagonisti della vicenda.
Narra la leggenda che il quarto sole si spense sotto il grande
diluvio che allagò la Terra.
Tutti gli dei si riunirono allora nella città di Teotihuacan per
decidere chi avrebbe dovuto offrire la propria vita alla nuova
luce.
Vennero additati due dei con caratteristiche molto differenti: il
primo era bello, ricco e potente; il secondo piccolo di statura e
malaticcio.
Anche i doni che offrirono al braciere di Huehueteotl li
differenziavano: il primo offrì infatti splendide spine di corallo,
il secondo spine di un comune arbusto, che colorò con il
proprio sangue.
48
Quando arrivarono sul ciglio del braciere il dio ricco fu il primo
ad allungare la gamba per l’ultimo passo, ma non ne ebbe il
coraggio, e la ritirò a sè.
Per tre volte tentò, e per tre volte fallì nel suo intento.
Allora il dio povero chiuse gli occhi e si gettò, un solo lungo
passo il suo, poi un’enorme fiamma e il silenzio.
Fu così che il primo, spronato nell’onore, si gettò subito dopo
nella timida vampa che rimaneva, consumandosi.
Il dio brutto e povero divenne così il quinto sole, ed il dio ricco
la luna.
Presero a brillare entrambi nel cielo, dello stesso acceso lume,
tanto che gli dei, indignati, presero un coniglio e lo gettarono
sul viso della luna, per privarla di quel brillio, degno soltanto del
principale astro.
Fu allora che il sole prese a muoversi, sacrificando al suo rogo
la vita di tutti gli dei rimasti, che sparsi nel cielo divennero
stelle.
“Quello sarà!” disse allora Tamatsi indicando
il bambino, ed inviò i cervi del nord e del sud
a convincerlo all’inevitabile sacrificio.
Quando giunsero al suo cospetto però, lo
videro mutarsi in serpente (Ku è il nome
generico di questo animale in lingua nahuatl),
si spaventarono e corsero via.
Tornarono una seconda volta, ma ad
attenderli non c’era più il serpente, bensì
Maye, il puma: il risultato fu lo stesso.
Al terzo tentativo c’era Tuwe, il giaguaro, ad
aspettarli.
Tentarono ancora: questa volta ad attenderli
trovarono lo stesso bambino che giocava con
la sua freccia poco tempo prima.
49
Il perché di questi mutamenti è facilmente esplicabile: secondo
la tradizione wirrarika, durante la notte il sole cammina nella
sierra, assumendo la forma di questi animali per proteggersi nel
buio.
Fu allora che presero il coraggio per il gesto
definitivo: lo afferrarono, ma videro con
stupore che era impossibile anche solo
spostarlo: ogni brandello di pelle cadeva al
solo tatto, come in un corpo anziano malato
di lebbra.
Visto che i due cervi non potevano nulla sul
bambino, Tamatsi decise di recarsi da lui di
persona, gli parlò, accettò le sue richieste:
l’insegna del comando, ovvero il primo itsu
forgiato da Tacutsi Nakawé nella notte dei
tempi, un nierica circolare, una ciotola piena di
sangue di cervo, una freccia bagnata dello
stesso sangue.
Prima di sacrificarsi restituì il bastone a
Tamatsi e consegnò due candele, ricavate dal
sangue donatogli, ai cervi.
Infine intinse la freccia nella ciotola, indicò i
quattro punti cardinali, si gettò al centro del
fuoco, sparì mangiato dalla terra.
Nel buio si mosse per cinque giorni ( o
cinque
anni,
cinque
passi,
cinque
minuti…sarebbe ormai più corretto dire: per
cinque tappe ), poi dal buio emerse.
Il primo kakauyari ad accorgersi del bagliore
fu il tacchino.
50
Sembra un particolare inutile: in realtà è questa la motivazione
per la quale i peyoteros, durante la caccia al sacro cactus, ornano i
loro copricapi di penne di tacchino.
Quando si mostrò a tutti, il calore divenne
insopportabile: Tau camminava infatti sulla
terra.
Tamatsi comprese allora il significato del
dono recatogli: impugnò quel bastone e lo
diresse verso il cielo, indicando, tra le candele
accese dai cervi, la strada al neonato dio.
L’infernale calura, che già aveva pietrificato
qualche kakauyari, divenne così il piacevole
calore che garantisce la vita di ogni essere
vivente.
Altri nodi sono venuti al pettine con la conclusione di questa
storia: nodi che legano il mondo antico degli aztechi a quello
moderno del popolo huichol.
In primis la ricorrenza, anche nell’era antica, del numero cinque:
quattro sono le ere azteche già trascorse, poste attorno al
simbolo del sole, che rappresenta l’uomo attuale.
È la riconferma di quanto è già stato detto su questa cifra:
rappresenta il centro, il punto di contatto fra il cielo e la terra.
Osserviamo inoltre che il terzo cerchio calendariale è diviso in
venti figure: sono i venti giorni di ogni mese che componevano
l’anno; diciotto mesi in totale, ai quali, per ragioni di calcolo,
venivano infine aggiunti cinque giorni.
Li troviamo distribuiti nel secondo circolo.
Questi ultimi erano giorni di paura e preghiera, giorni che
evadevano dalla divisione matematica del ciclo temporale della
logica dell’uomo, giorni in cui le ere avrebbero potuto, per
mano divina, trovare conclusione.
51
In ultimo è importante notare come gli otto cerchi che
compongono il calendario dedicato al quinto sole siano chiusi
dal morso di due serpenti, evidentemente a rappresentare il
giorno e la notte, caratteristica assunta dai due dei sacrificati.
A parte il fatto che esiste, nella mitologia wirrarika, la figura di
un bellissimo serpente rosso, innocuo e con due teste, che
circonda il mondo e morde il sole fino a farlo scomparire
nell’incrocio delle fauci (si chiama Tekayupi’su, il serpente
bicefalo), è l’aspetto dualistico che compone ogni attività ad
essere interessante, e lo troviamo in moltissime concezioni
religiose o filosofiche tradizionali: presso il popolo azteca erano
due le divinità cui l’uomo faceva riferimento, entrambe di
origine tolteca: Quetzalcoatl, il serpente piumato e Tezcatlipoca
, lo specchio fumante.
Leggenda vuole che la dinastia tolteca sia nata dall’unione tra il
capo nonoalco Mixcóatl, ovvero serpente dal cielo, e la sua
sposa Chimala, scudo giacente.
Ebbero un figlio, fondatore della città di Tula, che assunse il
regale nome di Quetzalcoatl, appunto “serpente piumato”.
Fu un sovrano buono e pacifico, che dopo venti anni di regno
venne spodestato dal fratello Tezcatlipoca , “specchio
fumante", malvagio e bellicoso, ed allontanato su una zattera di
serpenti dal suo regno.
Viaggiò verso il luogo dove nacque il sole.
Sono due facce della stessa medaglia: solare e buona la prima,
cupa ed avida di sangue sacrificale la seconda.
Tau stesso, nella storia che abbiamo appena visto, divide la sua
persona tra il rogo terreno della sua comparsa, in cui trovano la
morte alcuni kakauyari, e l’allontanamento verso l’alto del cielo,
come dispensatore instancabile di vita.
Ancora: il cammino nel sottosuolo che precede la sua trionfale
apparizione ed il vagare animale a cui è costretto dal buio di
52
ogni notte ricordano il mito arcaico di Oceano, che vedeva la
sfera celeste immergersi tra le onde, portale di un notturno e
silenzioso cammino che da ovest si concludeva ad est, alle
prime luci dell’alba.
Il cantore di Poliziano incanta la cupa laconicità dell’Ade con la
purezza lirica dell’amore.9
Sono esempi di ciò che altro non è che mito, creato forse per
certificare l’inspiegabile; per esorcizzare, giocando d’anticipo, la
paura di uno dei più grandi misteri della storia: la morte.
Il riferimento è al classico di Poliziano Fabula di Orfeo, in POLIZIANO, Stanze
Orfeo Rime, libro II, Garzanti, 1998/3, pagg. 147 e ssgg.
9
53
Capitolo 3: Oltre la vita
3.1 PARLANDO DELLA MORTE A COLAZIONE
Riporto qua sotto un piccolo scambio di battute fra me e
Rosalio Rivera Sanchez, seduti allo stesso tavolo a mangiare
qualcosa la mattina della festa dell’Hikuri Neírra.
Ero appena rientrato dalla visita alla casa di Pancho Sanchez,
addetto alle attività che si svolgono all’interno del calihuey, per
domandare il permesso di scattare qualche foto durante la
celebrazione.
Fatto sta che la casa di Pancho guarda dritto negli occhi un
fazzoletto di terra che ospita lapidi e croci cristiane.
S.R.- Rosalio, una cosa: ho notato un cimitero davanti alla casa
di Pancho…
R.R.S.- Sì, sì, c’è il cimitero.
S.R.- Pensavo: ma la morte, qui tra voi com’è considerata? Cioè,
quando un uomo muore, cosa succede?
R.R.S.- Vedi, quando uno muore la sua anima è nera, e continua
ad infastidire i parenti… quelli che vivevano con lui, insomma.
Di notte, ad esempio, continua a bussare alla porta delle loro
case e non li lascia dormire, allora il mara’ákame va nella sua casa
e canta per cinque giorni e cinque notti.
S.R.- Cinque giorni e cinque notti…
R.R.S.- Cinque giorni e cinque notti.
E poi lava tutte le sue cose, per purificarle, capisci?
Pulisce e lava tutte le sue cose.
S.R.- Però mi raccontavi ieri di un uomo trovato morto nella
sierra… allora il mara’ákame canta lì sul posto, ma facciamo il
caso che il corpo non si trovi… che succede?
R.R.S.- No, guarda che non è così… non importa dove muore,
perché anche se il corpo è, diciamo, nella sierra, la sua anima
nera torna a casa.
54
Per questo è importante che il mara’ákame faccia tutto per bene.
S.R.- E dopo che il mara’ákame ha fatto tutto quanto, che
succede all’anima?
R.R.S.- L’anima diventa bianca perché è stata purificata,
insomma, è salva.
S.R.- Per sempre? Cioè, dove va? In cielo?
R.R.S.- Sì, sì, va in cielo (Rosalio con la mano fa il segno del
vento: non credo che per cielo intenda il paradiso)…nell’aria,
per sempre, perché ora è bianca e salva.
3.2 IL REGNO DI WÉRIKA WIMARI
Il mito che ci accompagnerà nel regno dei morti, o delle ombre,
per usare una terminologia più consona al linguaggio huichol, è
quello di una donna che, sconvolta dalla recente perdita del
marito, viene accompagnata al cospetto di Wérika Wimari,
custode della porta verde, varco dell’Ade.
Oltre la porta una flora boschiva e selvatica, in tutto simile
all’ambiente che mi circonda mentre ordino idee ed appunti
presi già da qualche giorno, si apre allo sguardo del defunto.
In capanne come la mia, diceva Rosalio, vivono le anime.
Il regno in cui stiamo per entrare, però, non è che la seconda
tappa del cammino: in primis Tamatsi Kauyuma’li conduce
l’anima a Reunar.
Qui parlerà con lei, di qui l’accompagnerà, se lo merita, nella sua
nuova casa.
È infatti possibile che non sia ad essa consentito di entrare nel
regno di Wérika Wimari, nel caso in cui si sia lasciata morire,
con la presunzione di chi osa tirare a sè le eterne redini del fato,
frenando anzitempo la cavalcata della vita.
A Reunar queste anime si fermano cinque giorni, e narrano ai
cantori la loro storia: da chi piegò il capo alla miseria a chi si
55
inginocchiò, come la protagonista del nostro racconto, alla
tristezza della solitudine.
“Perché mi hai lasciato sola in questo
mondo?” continuava a domandare a chi non
le poteva dar risposta una vedova, piangendo
giorno e notte, in attesa di rivedere il suo
compagno.
Passando di lì, Ko’ko Ta’mai, lo zopilote
mitico, si accostò a lei e la guardò.
Lo zopilote è un uccello rapace che si nutre di carcasse, del
tutto simile all’avvoltoio, ma grande non più di una gallina.
“Sono giorni che volo in questa zona, perchè
non ti ho mai visto fare altro che piangere?”
chiese il rapace.
“Mio marito è morto e io sono sola” rispose
la donna “e sono molto triste perché non so
se è riuscito ad entrare nel regno delle
ombre”.
Lo zopilote rassicurò allora la donna: “ho
visto l’uomo di cui parli proprio ieri, dentro
la porta custodita da Wérika Wimari, posso
accompagnarti là se non ci credi.
Domani mattina partiremo, staremo via
cinque giorni; copriti bene, perché dove
siamo diretti fa molto freddo, e porta con te
del mais rosso per il mio pasto”.
Esistono cinque colorazioni principali del mais: giallo, nero,
azzurro, bianco e rosso; più una mista, chiamata “colorcitos”, che
reca pannocchie dai chicchi multicolore, con prevalenza di
quest’ultimo.
56
L’importanza della graminacea ha origini antiche: già il suo
nome scientifico, Zea Mexicana, varrebbe da solo a giustificarne
l’importanza tra queste etnie.
Abbiamo già parlato di come il popolo huichol, sedentario,
ponesse nella sua agricoltura gran parte delle speranze
nutrizionali, quindi di vita; così come gli aztechi, gli incas
peruviani… tutti popoli preispanici che trovavano nel mais
l’alimento base della loro dieta.
Certo è che Cristoforo Colombo rimase affascinato e stupito da
questa pianta, e che ad una generazione di distanza dal suo
ritorno in patria il “grano indiano”, o mais, che dir si voglia, era
già diffuso ed apprezzato in tutta Europa.
Così scriverà l’avventuriero genovese al ritorno dal suo terzo
viaggio, nella relazione ai cattolici sovrani:
Fecero quindi portare pane, frutta svariate, vino rosso e bianco,
ma non fatti d’uva, bensì dovevano essere di frutta, il rosso di
una sorta ed il bianco di un altro e similmente qualche altro vino
fatto di maiz che è una semente contenuta in una spiga come
una pannocchia che io portai in Castiglia dove già ve n’è molto; e
sembra che il migliore venga considerato di grande eccellenza ed
abbia grande valore.10
Il mattino seguente lo zopilote si presentò
armato di arco e frecce e come la vedova gli
salì sulla schiena, stringendolo alla vita, si
raccomandò: “durante il nostro viaggio
incontreremo molti animali notturni che
faranno di tutto per arrestarci, tirandoci
pietre e pali… fai quindi attenzione alle virate
brusche che sarò costretto a fare per evitare
di essere colpito”.
Lettera-relazione ai Cattolici Sovrani, terzo viaggio, 1498, in GABRIELLA
AIRALDI, a cura di, I viaggi dopo la scoperta, Verona, 1985
10
57
Volarono per molte ore prima di fermarsi,
ormai a notte inoltrata, su una collina di
roccia rossa dove capeggiava un albero
robusto, verde e rigoglioso.
La donna, adagiata sulle radici dell’arbusto, si
addormentò subito, cullata dalle note
amorose che il suo accompagnatore suonava
sulla cima, adattando l’arco al ruolo del
violino e la freccia a quello dell’archetto.
“Addormentati supina, con le gambe e la
bocca aperta”, le aveva consigliato lo
zopilote, “e le bestie notturne non ti
recheranno alcun danno”
La donna si era già abbandonata ai sogni
quando lo zopilote smise di suonare per
andarle vicino e svegliarla con una domanda
tanto intima quanto ambigua:
“Ti sei bagnata?” chiese.
“Sì” rispose la vedova, suscitando l’ilarità del
rapace, alimentata ancor più dal prosieguo del
discorso: “sei stato tu?” chiese.
Nutriva infatti il sospetto che lo zopilote
avesse fatto l’amore con lei mentre dormiva.
Il doppio senso sessuale è un ingrediente comico che spesso
condisce i discorsi degli huicholes.
Lo stesso spagnolo ne è ricco: frasi come “tengo los huevos”,
letteralmente “ho le uova” (il riferimento ai genitali maschili, lo
ammetterete, è abbastanza ovvio) escono spesso dalle labbra
sghignazzanti dei ristoratori.
58
Certo è che ora non sono al mercato a chiedere hamburger ma,
per altro a stomaco vuoto, in una capanna di legno e paglia, a
discutere di storie sacre con Felipe, che non se la smette di
ridacchiare.
La verità è una donna semplice, non facile, si badi… nel nostro
caso una donna piuttosto anziana: Stuluwíakame, la figlia del
sole, madre del cervo peyote, dea della nascita e della fertilità,
rappresentata nell’iconografia come una bellissima dama
circondata da cinque serpenti dalla pelle color del mais.
Bellissima come solo una divinità può esserlo, nonostante il suo
nome si perda nella nebbia del ricordo, ad annodare le tre cime
del filo conduttore della vitale religiosità di questo popolo: mais,
cervo e peyote.
Non mancherò in seguito di tramutare questo trittongo in
trittico, riportando a fine capitolo un articolo di Carlos
Montemayor
apparso,
il
venticinque
febbraio
millenovecentonovantotto, sulle pagine del quotidiano “La
Jornada”, che mi sono preso la briga ed il piacere di tradurre.
Per ora cerchiamo di non allontanarci troppo dal sentiero
tracciato.
Il sonno, l’abbandono della ragione, la perdita del controllo del
corpo.
Sessualità, il corpo vivo di una donna unito ad un rapace che
nelle nostre righe assume l’ermetico ruolo di messaggero
infernale: “ti sei bagnata?” domanda alla donna lo zopilote,
ridendo di lei e della caparbia malizia che l’accompagna.
Il piacere umano dell’atto che consacra la vita viene coperto dal
nero dossale della morte; qui il corpo si fa terra bagnata e fertile,
pronto ad accogliere il seme della pianta, spogliato della guaina,
quel chicco di mais tanto caro alle divinità amerindie.
Mi si passi il piccolo gioco di parole: la nostra donna muore per
tornare a vivere, il corpo si fa terra e germoglio.
59
Ormai svegli, a mattino, mangiarono
qualcosa e si rimisero in marcia, volando,
senza più interruzioni, fino alla porta verde,
davanti alla quale sedeva Wérika Wimari.
“Porto questa donna a trovare il suo defunto
marito” si dichiarò il rapace “poi deciderà se
tornare indietro con me”
Wérika Wimari aprì loro la porta e i due
proseguirono camminando su di un’altura.
“Qui abita il tuo sposo, va da lui sola, se vuoi,
io non posso accompagnarti oltre” disse la
guida.
“Legherò su quest’albero un fiocco di seta
rosso: finchè lo vedrai io sarò qui ad
aspettarti, altrimenti vorrà dire che me ne
sono andato. Addio” concluse.
La donna entrò sola nella capanna e, come il
marito le si presentò dinnanzi, lo abbracciò
con tutta la forza che aveva in cuore: “sono
venuta qua perché desidero vivere per
sempre con te!” esclamò.
“No” rispose secca l’anima “non puoi stare
qui: gli animali della notte ti feriranno e
Toka’kami verrà a cibarsi delle tue vive
carni”.
Toka’kami è il signore della morte e dell’oscurità; vive a
Huatetuapa, oltre il cancello verde, descritto dalla gente di Tatei
Kie come il luogo dove “los huesos bailan hasta hacerse polvo”, le
ossa ballano fino a diventare polvere.
60
È una divinità cannibale e maligna, rappresentata nella sua
forma umana come un gigante paradossalmente aggraziato nei
movimenti, che cammina fra le anime circondato dal suo
seguito di scheletrici felini.
Leggenda vuole che fu Toka’kami, la morte, a rapire
Stuluwíakame.
A seguito di quel rapimento gli animali sacri alla dea, il picchio
ed il pappagallo verde, principalmente, vennero mutati nei
“pajaros de la muerte”, uccelli della morte: il gufo, il pipistrello e,
se pur spesso dimenticato, il piccione.
La donna aveva con sè farina di granturco
per saziare entrambi, ma vide sgradita anche
questa seconda sorpresa: “non mangio più
ciò che mangiavo in vita, il mio pasto è tutto
là, in quelle tre pentole” sentì replicarsi.
La prima pentola conteneva carne, viscere e
sangue da offrire al passaggio di Toka’kami.
La seconda escrementi e pezzi di intestino, la
terza acqua putrida e vermi.
Fino ai defunti dell’antico Messico pare essersi diramata la
ferrea legge del contrappasso dantesco: prendiamo a modello la
pena infernale riservata agli indovini; a questo proposito, forse,
l’esempio più esplicativo di questa funerea costrizione.
Coloro che in vita vollero vedere sempre troppo avanti, nel
futuro, sono costretti dall’infernale legge a camminare con il
capo voltato, o “tornato”, per citare testualmente il poeta, al già
compiuto passo.
Come ‘l viso mi scese in lor più basso
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso,
61
chè dalle reni era tornato il volto,
ed in dietro venir li convenìa,
perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.11
Così, nella storia che stiamo raccontando, l’uomo che in vita si
cibò di mais e buona carne, bevendo acqua pulita, a Huatetuapa
si sazierà di sterco, viscere ed acqua putrida.
“Ora devo andare via... così fanno i morti.
Tu chiuditi in casa e non aprire la porta fino a
mattino; se viene Toka’kami non parlare,
perché ti sente e non ti addormentare, o ti
mangerà”.
Sono comuni le incursioni dei defunti, nelle ore buie, nel
mondo in cui viviamo.
I morti possono “scendere” sulla terra, adattandosi alla figura di
un animale notturno, semplicemente per rivedere i propri cari; è
però molto più spesso una necessità di tipo alimentare a guidare
le anime, in particolare quelle che abitano l’Ade da non più di
cinque giorni.
È infatti uso del popolo wirrarika lasciare, mentre il mara’ákame
compie le purificazioni di cui ci ha parlato Rosalio all’inizio di
questo capitolo, del cibo sul tetto dell’abitazione.
Ecco spiegato perché l’anima continua a disturbare i parenti
vivi.
Parlando con Rosalio avevo immaginato, lo ammetto, qualcosa
di più misterioso o forse, solo più cinematografico, come un
film dell’orrore ben diretto, ma dalla trama scontata e banale.
L’anima inquieta che troverà pace solo nella vendetta… niente
di tutto questo, solo la fame di chi, essendo morto da troppo
poco tempo, deve ancora abituarsi al contenuto, per nulla
invitante, di due delle tre pentole.
11
DANTE ALIGHIERI, La Divina commedia, Inferno, canto XX, vv. 10-15
62
Detto questo, l’uomo afferrò arco e violino e
si avviò verso la porta.
Rimasta sola, la donna cominciò ad udire più
di una voce attorno a lei: “qua c’è una donna
viva, ora andremo a prenderla!”
Era ormai prossima la mezzanotte, e si
sentiva vicino quel rumore che fanno le ossa
quando sbattono tra loro: Toka’kami, in
forma di lupo, stava avvicinandosi.
In un corpo vitreo e scheletrico, che non
aveva pelle o muscoli per nascondere le
viscere ed il cuore, il suo collare era formato
da ossa umane ed i suoi artigli graffiavano,
sonori, il legno della porta serrata.
Non un respiro si udiva, e neppure un battito
di ciglia muoveva l’aria all’interno della
capanna.
“Ha preso uno di noi!” sentì allora gridare la
donna “seguiamo i suoi passi, proviamo a
salvarlo!” urlavano voci sempre più distanti.
Quando il marito si presentò alla porta,
subito la donna, ancora spaventata gli si gettò
al collo e prese a raccontare della notte
passata.
“Devi tornare indietro” sentenziò l’uomo,
“qui è troppo pericoloso per te, raggiungi lo
zopilote e vattene”.
La donna guardò allora l’albero indicatole dal
rapace, i cui rami erano ormai spogli del
fiocco rosso: la sua guida aveva fatto ritorno
senza di lei.
“Non posso più tornare” disse con gli occhi
rivolti all’arbusto, mentre già il marito le era
63
dietro, pronto ad ucciderla, per renderle
sicura la vita nel regno della morte.
3.3 TUAMURRAWI NELLA CASA DEL MAIS
Il mito è legato alle vicende di Tuamurrawi, gracile figlio della
dea Tacutsi Nakawé12 e del suo avventuristico pellegrinare nelle
terre dei kakauyari, fino alla casa del Mais.
Tuamurrawi nacque magro e gracile.
Siccome scarse erano le riserve di cibo nella
sua casa e, a ben vedere, di assai poco stimolo
sarebbero state quelle braccia per spronare
l’umore dei campi, Tacutsi Nakawé decise di
abbandonarlo al suo destino dentro una
caverna poco distante dall’abitazione.
Chissà come, però, il bimbo crebbe tanto da
poter camminare: attraversò Niwa’tali, la
montagna dove riposano le nubi, e continuò,
via via, fino alla località di Agua Revuelta.
Era ancora un bambino che giocava con la
terra e la sabbia, grande comunque quanto
basta per intendere ed accettare quella
difficile situazione, quando suo fratello
Wakuri, il bambino-mais, gli si parò davanti.
“Che vuoi da me?” domandò Tuamurrawi.
“Sono venuto per ricondurti a casa” rispose il
fratello.
12
Cfr. paragrafo 1.2: “I bastoni itsu”.
64
“Mia madre mi ha abbandonato in una grotta
perché il freddo mi uccidesse; ora sono io a
non voler tornare”concluse secco.
Detto questo cambiò il suo aspetto in quello
di un serpente e, infilandosi fra le rocce,
strisciò via, svelto, dal fratello, che prese a
corrergli dietro, tanto veloce che a
Tuamurrawi non riusciva proprio di
distaccarlo.
Lo seguì come un’ombra per lungo tempo,
finchè, giunti alla località di Terra Umida,
Tuamurrawi si fermò ed affrontò la caparbia
insistenza del suo inseguitore.
“Perché ti ostini a seguirmi?” chiese allora il
ragazzo “ti ho già detto che non verrò con
te”.
Wakuri tentò portare a sè con la forza il
serpente Tuamurrawi ma, appena lo toccò,
questi si irrigidì e mutò in folgore,
colpendolo.
Lo sventurato esplose in cinque piccoli pezzi;
pezzi che volarono fino alla Montagna
Azzurra13, dove divennero cinque bambine, le
cinque figlie del mais.
Finalmente solo, Tuamurrawi continuò il suo
cammino e giunse proprio alla Montagna
Azzurra, dove vivevano Kukuru Rimari, la
13 La Montagna Azzurra, come Terra Umida e le altre località che
compaiono nel racconto, sono evidentemente luoghi inventati, legati ai
canoni principali della vita e della mitologia huichol.
65
colomba cantatrice e sua figlia, costola,
diciamo così, di Wakuri.
Pur di passaggio, Tuamurrawi si fermò per
un tempo abbastanza lungo; un po’ perché la
bambina che aveva conosciuto era un’ottima
compagna di giochi, un po’ perché il mais in
quel luogo cresceva abbondante.
Nulla lasciava presagire il pericolo che lo
attendeva.
Tsalu tewiali, così si chiamava l’uomoformica, non potendo più avvicinarsi alla
bambina, vinto dai morsi della fame, decise di
mettere fuori gioco il rivale: aspettò che
Tuamurrawi si addormentasse per staccargli
le ciglia ed i capelli.
Quando si svegliò era completamente calvo e
quasi cieco.
Sentì allora cantare Kukuru Rimari.
Prima a sud, poi a nord, poi ad est e ad ovest,
tutto attorno a lui.
Appena capì da dove giungesse il canto,
estrasse arco e frecce, pronto ad uccidere la
colomba, che credeva responsabile della
recente disavventura.
“Perché vuoi uccidermi?” domandò stupita
lei “se lo fai perché hai fame posso darti da
mangiare”.
Preparò per Tuamurrawi cinque piccole
tortillas di mais nero.
“Come potrò sfamarmi con così poco?” si
domandò dubbioso lo sventurato “è evidente
66
che Kukuru Rimari mi stia prendendo in
giro”.
Probabilmente ne avrebbe mangiate più del
doppio in altre occasioni: si stupì di se stesso
quando si sentì sazio senza neppure finire
quel modesto piatto che tanto aveva, in cuor
suo, criticato.
“Grazie del pasto, ora devo andare” disse
Tuamurrawi.
“Torna domani, quando avrai fame” si
raccomandò Kukuru Rimari.
Il giorno seguente ad attenderlo non c’era la
colomba, né sua figlia, bensì un’anziana
signora che disse di chiamarsi Tate’Yulianaka
e suo marito, il vecchio Komateáme.
Tate’Yulianaka, alla lettera “”nostra madre terra feconda” (Yuli
significa appunto “bagnata”); “la que moja la tierra para que crezca
el maiz”: colei che bagna la terra perché cresca il mais, altro non
è che uno dei nomi di Tacutsi Nakawé, madre e protettrice delle
piantagioni di mais e fagioli, moglie di Komateáme, in germe, il
seme.
“Siedi a riposarti” lo invitò gentile la signora.
“Servigli da mangiare” esordì il vecchio
“credo che questo ragazzo abbia molta
fame”.
Come il giorno precedente, la signora tornò
con cinque piccole tortillas e come il giorno
precedente Tuamurrawi non riuscì a
67
terminare il suo pasto, chè a metà era già
sazio.
Si rivolse allora al vecchio: “potete vendermi
un po’ del vostro mais?” chiese “vorrei
portarlo a mia madre”.
Non ebbe risposta… almeno non nei termini
che si era immagianato.
Komateáme prese il bastone, si incamminò
verso una stanza e disse, prima di entrare:
“ora chiedo ad una delle mie figlie se vuole
accompagnarti”.
Tuamurrawi non capì quella bislacca
reazione: anche se bellissime e giovani, aveva
chiesto mais, non compagnia.
La prima interpellata fu Yu’wime, la
bambina- mais nero, ma era ancora troppo
piccola per mettersi in viaggio.
Fu allora la volta di Tarawi’me, il mais giallo,
che era malata e non poteva muoversi.
Rule’me, che era la bambina-mais rosso, disse
di non potersi muovere, o i suoi piedi
avrebbero senza dubbio cominciato a
sanguinare.
Tata’mi, che incarnava il mais bianco, era
giovane e, purtroppo, cieca: sarebbe stata un
peso, non certo un ausilio, nel cammino.
Fu Yoawi’me, la bambina-mais azzurro ad
accettare l’invito del padre.
“Bene” disse allora Komateáme “Yoawi’me ti
accompagnerà a casa”.
“Bene” rispose Tuamurrawi “ma il viaggio è
lungo… come faremo a sopravvivere in due,
68
se non ho nulla da mangiare neppure per
me?”
“Non ti ho detto che partirete subito” fu la
replica del vecchio “ora dovrai preparare
nella tua casa un ririki con un altare, una
freccia ed una jicara.
Il ririki è un piccolo tempietto, posto spesso all’interno delle già
minuscole capanne in cui vivono gli huicholes.
A volte si tratta solo di quadretti che rappresentano la tal
divinità.
Ricorda, ma è un parallelismo tutto personale, quegli altarini
dedicati al santo di turno che una volta facevano bella mostra di
sé nelle case dei nostri nonni.
La jicara, rukuri in lingua nahuatl, ciotola di legno decorato, di
piccole dimensioni, spesso venduta ai turisti come
“portaoggetti.”
Anche in questo caso la fame ed il bisogno di denaro hanno
scavalcato il muro della moralità religiosa; quello che per il
turista è un ricordo carino ed economico del proprio viaggio,
per il popolo huichol è esattamente il contrario: la massima
offerta agli dei, comoda da trasportare durante le
pellegrinazioni, che spesso, giunta a destinazione, viene data alle
fiamme perché divenga cenere, parte integrante del terreno
sacro.
Rappresenta la divinità femminile; per questo motivo viene
spesso accompagnata alla freccia, che ha la medesima funzione
rappresentativa del sovrumano di sesso opposto.
Quest’ ultima mettila sopra quattro
pannocchie, rivolte verso i principali punti
cardinali.
Fuori dal ririki costruisci cinque, grandi,
contenitori.
69
Quando tutto sarà pronto torna da noi, ed
avrai mia figlia: portale in dono una candela e
della cioccolata. Ora vai.”
Tornato a casa, raccontò a sua madre ogni
cosa, del suo incontro e delle parole di
Komateáme.
In capo a cinque giorni, in casa, tutto era
pronto per accogliere Yoawi’me.
“Ora mia figlia verrà con te” furono le ultime
parole del vecchio “bada che sia sempre
rispettata e che mai debba lavorare. Siederà
sull’altare, a fianco della jicara, per cinque
anni.”
Giunti a casa, allo scoccare della mezzanotte,
Yoawi’me sedette al suo posto e Tuamurrawi
accese la candela, la cui fiamma avrebbe
resistito per tutto il tempo necessario.
Fu al primo timido bagliore della neonata
vampa che Tuamurrawi sentì un rumore,
dolce e gradevole, simile a quello che fa un
granello di mais quando, staccatosi dagli altri,
cade in terra e rotola sul pavimento.
Venuta l’alba, si preparò per il lavoro nei
campi, mentre sua madre già stava
preparando tortillas per tutti e tre, chè di
sicuro il suo ragazzo sarebbe tornato
affamato.
Tuamurrawi partì, e lavorò per tre giorni e tre
notti tanto duramente che le dita delle mani,
all’alba del quarto giorno, gli caddero in terra.
70
Fu con stupore che vide le sue dieci dita
divenire dieci uomini, pronti ad aiutarlo in
quel massacrante lavoro.
Era ormai mezzogiorno, quando Tacutsi
Nakawé decise di fargli visita e, vedendo tutte
quelle persone con suo figlio si rallegrò,
perché il lavoro era senza dubbio a buon
punto, poi pensò: “che darò loro da mangiare
quando rincaseranno?
Sola non posso farcela, e Yoawi’me non fa
nulla tutto il giorno… questa volta bisognerà
che mi aiuti.”
“Non me lo chieda, la prego” rispose la
giovane “sa che non posso muovermi da qui
per cinque anni”.
Il quinto giorno Tuamurrawi tornò
finalmente a casa, e Yoawi’me gli riferì della
richiesta della madre: “non ascoltarla” disse
lui, e prima che potesse aggiungere qualcosa
d’altro, un tuono lo interruppe, prepotente,
da est.
“Che cosa è stato?” chiese Tuamurrawi,
mentre altri tuoni si alzavano ad ovest, a nord
e a sud.
“L’attesa è finita” sentenziò Yoawi’me.
“Procurati cinque fasci di ocote e recati al
campo.
Volgili nelle direzioni in cui hai sentito i
tuoni; il quinto ponilo al centro e falli
bruciare.
71
Vedrai alzarsi, denso, un fumo che avvolgerà
ogni cosa”.
Quella del fuoco è una tecnica di coltivazione: data la fitta flora
della sierra, in attesa delle piogge viene provocato un “incendio
controllato” per impastare la terra delle sostanze nutritive
presenti nel legno e permettere alla vegetazione di rinnovarsi
ciclicamente.
Così fece, ed il fumo si levò alto, fino a
divenire una tetra e minacciosa nube, tanto
grande che il suo odore arrivò anche alle
narici di Komateáme.
“Il ragazzo ha finito il suo lavoro” pensò il
vecchio “ora è giusto che piova”.
La pioggia cadde fitta sull’arida terra di
Tuamurrawi, e la cenere dei fuochi sembrava
renderla feconda e morbida.
“Domani ci recheremo al campo; io, tu e tua
madre” promise tranquilla Yoawi’me.
Partirono di buon mattino, quando la pioggia
si era ormai placata.
Yoawi’me chiese allora dove fosse stato
acceso il primo fuoco e, come Tuamurrawi
gliel’ebbe indicato, toccò cinque volte la terra
con un dito e Tacutsi Nakawé ci pose, accesa,
una candela.
Lo stesso fecero negli altri quattro punti;
quando ebbero finito, la pioggia riprese a
cadere.
72
Dopo cinque giorni il mais era cresciuto
rigoglioso, pronto per la falce; Tuamurrawi
ora poteva vederlo bene ed anche i suoi
capelli erano tornati al loro posto.
Cominciò a recidere le spighe spuntate a sud,
che erano di mais bianco.
Poi quelle spuntate a nord, di mais azzurro, e
ad ovest, di mais rosso.
Tagliò quindi il mais giallo, cresciuto ad est
ed in ultimo il mais nero, del quale il centro
del campo era gremito.
Yoawi’me lo accompagnava tenendo la gonna
a mo’ di sacca e più spighe Tuamurrawi
gettava in essa, meno accennava a colmarsi, e
sì che ne aveva già raccolto tanto da far
strabordare non una, ma cento di quelle ceste
improvvisate.
Tornati a casa gettarono il mais nei
contenitori, uno per ogni colore.
Tutto era stato fatto, e Yoawi’me si sentiva
davvero molto stanca.
“Ora dammi il cioccolato che mi portasti,
perché ho bisogno di riposarmi e mi aiuterà a
riprendere forza ” disse, prima di
addormentarsi all’interno del ririki.
Il tempo passava, portando con sè gran parte
delle provviste; Yoawi’me, ormai desta, stava
seduta sul suo altare ed il campo di
Tuamurrawi era tornato arido.
Tacutsi Nakawé, come avesse dimenticato gli
straordinari servigi resi qualche mese prima,
73
non perdeva occasione di rimprovere la
giovane per la sua pigrizia.
Tanto fece che un giorno, satura dei continui
ammonimenti, Yoawi’me uscì dal suo templo,
intenzionata ad aiutare la donna nella
prepararazione di tortillas e tejuino.
Come ci si mise però, ecco che i suoi occhi
cominciarono a lacrimare e le sue mani ad
imbrattarsi di sangue.
Lo stesso mais prese a sanguinare, come se
fosse parte di quel corpo ferito.
Spaventata, la giovane scappò, sola e senza
che nessuno la notasse.
Quando Tuamurrawi si rese conto
dell’accaduto partì di gran lena alla ricerca
della sua compagna, correndo fino a quella
casa dove tempo prima l’aveva conosciuta.
Tate’Yulianaka e suo marito questa volta non
furono affatto cordiali, tanto che neppure
ricambiarono il saluto.
Era chiaro che sapessero già tutto.
“Yoawi’me se n’è andata” disse con le
lacrime agli occhi “non per colpa mia, ma di
mia madre”
“Che venga lei, allora” fu la risposta.
Tornato a casa Tuamurrawi si rese conto che
nulla poteva andar peggio: anche quel poco
mais rimasto era scomparso.
Fu allora che la disperazione divenne rabbia:
“cosa le hai detto?” chiese scagliandosi sulla
madre.
74
“Le ho detto che una donna ha il dovere di
far da mangiare!” rispose.
“Ora verrai con me alla casa del mais” le
ordinò Tuamurrawi.
“Non voglio farlo, perché mi picchieranno di
sicuro; vai tu e chiedi perdono per me”.
Come arrivò al cospetto di Komateáme,
Tuamurrawi chiese di poter avere
nuovamente per sè una figlia dell’uomo, ma
le parole del vecchio non lasciarono spazio,
seppur minimo, ad alcuna speranza.
“Non ho intenzione di darti una seconda
occasione” esordì duro “ ma posso venderti il
mais che mi hai chiesto la prima volta che ci
incontrammo”.
Detto questo, diede a Tuamurrawi cinque
granelli di mais, uno d’ogni colore, ed un
ultimo monito: “d’ora in poi lavorerai il tuo
campo da solo, da solo lo brucerai e lo
pulirai, da solo attenderai le piogge”.
Tornato a casa Tuamurrawi, il niňo-pato,
piantò ciò che gli restava: cinque chicchi di
mais.
Non tutti i conti tornano in questa bislacca storia: in primis il
viaggio di Tuamurrawi, che pare più onirico che fisico.
Una marcia che comincia e finisce nello stesso punto, sotto lo
sguardo attento di chi dirige il gioco: Tacutsi Nakawè,
deuteragonista che, ora come non mai, mostra apertamente la
sua duplice natura.
75
Da madre degenere, che condanna a morte il proprio figlio,
veste in un secondo momento i benevoli panni di
Tate’Yulianaka, dea che dona ad esso il nutrimento della vita,
per poi tornare, avvolta negli antichi drappi, a mischiare ancora
le sue carte in tavola, garantendo alla partita il peggior finale
possibile.
In secondo luogo la figura di Yoawi’me, il mais-azzurro.
Mentre, originariamente, ci viene presentata come una delle
principali colorazioni del mais, assume poi il ruolo di matrice
divina dell’alimento sacro, base della sopravvivenza di questo
popolo, rubando la scena alla “fulminea” apparizione (o
sparizione, sarebbe meglio dire) di Wakuri, al quale, sono
convinto, alcuni narratori ritaglino un ruolo di ben altro
spessore.
Mia è stata la decisione di tenere nascosto l’appellativo di
Tuamurrawi, “niňo-pato”, fino all’ultima riga, come intenzionale è
l’intrusione della lingua spagnola.
Questo perché la traduzione letterale, “ragazzo-anatra”, porta a
pensare che la storia, svolgendosi all’epoca dei kakauyari, riservi
al protagonista una soluzione legata all’animale.
Il fatto che anche Rosalio, che tanto ama la sua lingua d’origine
da sottolinearmi continuamente il suo “vero” nome, Paritemai,
Aurora, si sia servito dell’idioma dei conquistatori, mi ha fatto
soffermare sul come questa deduzione fosse, forse, forviante...
in concreto: perché accostare all’anatra il padre spirituale dei
coltivatori?
La morale di Tuamurrawi è, infatti, d’altra questione: quella di
dover “pagar el pato”, ovvero “fare da capro espiatorio”, pagare a
sue spese l’errore di un’altra persona, alla quale, tra l’altro, ancor
oggi ogni coltivatore huichol deve il sudore della sua fronte.
Capite quindi il riserbo usato, la discrezione e la prudenza,
nell’inserire solo in coda un titolo del genere.
76
3.4 PEYOTE, VENADO Y MAIZ14
El indio mexicano posee este conocimiento milenario: el planeta no es algo
inerte, inanimado, sino un ser viviente.
Esa capacidad de vida se manifesta como una integracion poderosa de
entidades que desde lo invisible sostienen lo que es visible.
En el pensamiento religioso de Occidente el cielo, el purgatorio, el limbo, el
infierno, son “ambitos” sagrados que no estan unidos a lo que vemos. Entre
los pueblos indigenas de Mexico, en cambio, se conjugan estrechamente las
entidades sagradas invisibles con la vitalidad del mundo. Las entidades
conviven con el ser humano, con los pueblos.
El indio mexicano sabe ver, distinguir en el espacio visible, el pulso invisible
que late y da vida al mundo.
Entre estas entidades hay ciertas fuerzas poderosas que parecen poseer la
respuesta a todo lo que alienta en el corazon humano.
Son entidades mas alla de la lluvia, los rios o el mar, mas alla de las grutas,
montaňas o selvas; son entidades que se individualizan como
manifestaciones del dios de quien provienen pueblos enteros o del que nace
la conciencia que de si mismos tienen los pueblos.
A veces las entidades asi individualizadas son reconocidas fielmente en una
sola region; otras veces se extienden por la continuidad cultural y geografica
de Mesoamerica; otras mas, se adentran en
los territorios del norte de Mexico, en culturas indigenas distintas.
La serpiente es un profundo simbolo y una poderosa entidad en ciertas
regiones mesoamericanas. En otras lo es el venado.
En casi todas lo es el maiz: divinidad sustentadora de la vida.
Hay ademas en la religiosidad del Mexico indigena una devota relacion con
ciertas plantas narcoticas.
Estas plantas piensan, hablan, enseňan, se comunican. Tienen “alma”.
No pueden estar al servicio de caprichos o aventuras psiquicas de los
hombres.
Son guias, puertas sagradas que se reverencian y cumplen con la mision de
curar y de ayudar al crecimiento espiritual que los pueblos indigenas
necesitan para cooperar en la conservacion de la vida, en la conservacion del
mundo.
El tabaco es una de ellas. Para algunos mayas el humo del tabaco hace
recordar al hombre sabio, ayuda a que los pensamientos profundos salgan a
la luz; por ello lo fuman en ceremonias de curacion.
14
CARLOS MONTEMAYOR, <<La Jornada>>, 25 febbraio 1998.
77
Otros mayas lo trituran, lo mezclan con ciertas sustancias y lo mastican;
saben que asi establecen un
contacto permanente con el mundo invisible y que podran resistir largas
caminatas y atravesar selvas, montaňas, lugares desolados o peligrosos.
Entre los mazatecos de Oaxaca, los hongos alucinogenos son la divinidad
poderosa e inefable; exigen una profonda pureza del que se acerque a ellos
como sacerdote, curandero, paciente o aprendiz.
Un largo recorrido espiritual se requiere para conocerlos.
Otra planta sagrada es la mariguana. Son multiples sus sentidos y empleo.
Entre los tepehuas de Veracruz se le llama Santa Rosa y es considerada
madre del maiz; aunque fue su madre, abandona al niňo maiz, que se
convertira en dueňo de las entidades de la lluvia y del trueno, en amo de las
serpientes de la tierra y de la lluvia y protector de su madre misma; aqui el
niňo maiz tiene por padre a una entidad que se transforma en venado.
Tambien el peyote es sagrado. Su devocion se extiende fuera de la orbita
milenaria de Mesoamerica, en el norte y occidente de Mexico, en particular
entre dos pueblos emparentados: los tarahumaras y los huicholes.
Los tarahumaras lo consideran hermano de Dios y cuentan que cuando se
fortalecio el alma del hombre recien creado, este camino a Umarique, lugar
por donde sale el sol, y se encontro con el peyote o Hikuri que ahi habitaba.
“Por el alma fuerte del tarahumara”, dicen.
Este fortalecimiento es esencial en la formacion del sacerdote indigena, para
que un tarahumara llegue a convertirse en Sipame o un huichol en
mara'akame.
Estamos ante una experiencia interior que no puede ser comprendida con
otra mentalidad religiosa.
Porque toda religion supone caminos espirituales para el surgimiento de
vocaciones sacerdotales.
Si despojaramos de sus valores culturales al fraile agustino o franciscano, al
jesuita o el metodista, al monje budista o al rabino, sus ayunos, confesiones,
sueňos, martirios, vocaciones, luchas interiores, atavios, unciones,
certidumbres de haber sido llamados para un destino y otro, no significarian
nada mas que ingenuidad, supersticion o delirio.
Paralelamente, si descalificaramos el universo cultural, que es profundo y
complejo, de los grandes sacerdotes tarahumaras o huicholes, su sabiduria
interior podria ser solamente tenida por ensueňo o engaňo.
Pues bien, al profundo universo sagrado de los huicholes se refiere la
coleccion fotografica, sorprendente y magnifica, de Pablo Ortiz Monasterio,
Corazon de Venado.
Es una serie que no muestra la vida cotidiana de los huicholes sino su
principal ceremonia ritual. Corazon de Venado es un simbolo que enlaza,
78
como distintas facetas de una sola divinidad, como distintos rostros de una
misma fuerza espiritual y vivificante, al venado, al peyote y al maiz.
Un venado celestial, Kauyumari, fecunda con su sangre la tierra donde nace
el maiz o Hiku; de su propia sangre el venado celestial renace, resucita,
dando vida.
El corazon del que mana su sangre, el corazon que sostiene y alienta la vida
del Hiku o maiz (y que por ello sostiene y alienta la vida del huichol),
tambien es Hikuri, el peyote.
Por ese corazon se mide la vida de cada aňo y de cada sacerdote.
Los pueblos huicholes emprenden la caceria del venado o marra para
ofrendarlo a la madre tierra, a
la Tatei Yurienaka, donde el corazon renacera como Hikuri y como
vivificante maiz o Hiku.
Por eso cazan al venado y al peyote, para ayudar al mundo.
De ambos corazones del venado celeste renacera cada aňo el hombre, la
mujer, el niňo huichol.
Las sorprendentes, vividas, cercanas fotografias de Pablo Ortiz Monasterio
registran un peregrinaje sagrado: el viaje desde las montaňas de Jalisco y
Nayarit, donde viven las comunidades huicholas, hasta la sierra del Real de
Catorce, en San Luis Potosi.
En este peregrinaje por el desierto, por Wirikuta, los sacerdotes huicholes
van recolectando del suelo, devotamente, los corazones sagrados de peyote.
Esta recoleccion es otra “caceria del venado”.
Por ello a la Fiesta de Peregrinacion o Pariyatsie yeya le llaman tambien
Iweiyari, “La caza”.
En la fiesta ritual se funden las dos cacerias, la de Hikuri y la de Marra, el
venado sacrificado. Esta conjuncion sagrada es tambien una faceta magica
del maiz o Hiku: por un lado, es el venado celeste, por otro, el corazon de
ese venado sagrado, el Hikuri.
He dicho que el venado celeste tiene un nombre: Kauyumari.
La memoria de los huicholes conserva muchos relatos suyos, muchos
cantos.
En ellos Kauyumari aparece tambien como un verdadero sacerdote huichol,
un mara'akame.
Por ello los relatos de Kauyumari son el espejo del verdadero huichol, el
espejo de su desarrollo espiritual.
El alma del peyote es para conocer lo verdadero, para convertirse en un
sacerdote que no engaňa, que no pueda ser vencido por ningun engaňo.
Uno de los grandes relatos de Kauyumari es por eso su lucha contra una
planta engaňosa, otra planta narcotica llamada “arbol del viento” o Kieri
Tewiyari.
79
Durante esta lucha se evidencia que la formacion del mara'akame es muy
minuciosa: se prolonga por cinco aňos y exige seis peregrinaciones por el
desierto.
En esta lucha Kauyumari actua como un mara'akame y en su critica contra
Kieri Tewiyari describe los ritos, danzas, la ingestion de la planta narcotica y
sus efectos nocivos: “los toma, los agarra, los
muerde, los hace perder el dominio de ellos mismos. Anda cantando,
gritando... anda tocando el tambor, anda engaňandolos. Asi es el” .
Kauyumari lo vence disparandole con el arco cinco flechas, no seis, para
recalcar que se le elimina de los puntos cardinales y del cielo, pero no de la
tierra, por lo cual se relaciona particularmente con los reptiles.
Cada vez que una flecha lo hiere, el “arbol del viento” vomita cosas
venenosas que intoxican a Kauyumari, que empieza “a ahogarse, a toser”.
Pero el, como verdadero mara'akame, se aplica peyote molido en las manos,
la boca, la cara, y deja de ahogarse, porque el peyote es mas poderoso que el
“arbol del viento”.
Kauyumari, pues, lo vence, y su contrincante: viajo a un risco para crecer alli,
para ser transformado en arbol, porque Nuestro Abuelo y Nuestro Padre no
lo admitiran en ninguna parte.
“Eres malo! Por eso te quedas aqui en este mundo!”.
Llego al risco y alli cayo su alma, cayo como una piedra.
Alli se transformo en arbol que empezo a crecer, a crecer para arriba, hasta
llegar al quinto nivel; un arbol con cinco ramas. Entonces el viento sintio
compasion; le soplo por aca y por alla, en los cinco lados.
Le dijo: “alla, en esos campos, alla esta verde, alla puedes crecer”.
El relato seňala, significativamente, que los brujos del “arbol del viento” son
personas que no completaron su formacion como sacerdote huichol o
mara'akame:
Y por eso algunos que no alcanzaron la ultima etapa, que no cumplieron sus
promesas, se convierten en mentirosos, en engaňadores...
Entonces se hacen brujos... Para el mara'akame que es un verdadero huichol,
no hay mas que el Hikuri, el peyote.
El mara'akame no tiene nada que ver con Kieri. El peyote es el corazon, el
corazon del venado, el corazon del maiz.
Es ambos, es el venado y es el maiz. Es nuestra vida.
Tiene mas poder. El hermano mayor Kauyumari mato a Kieri Tewiyari,
aquella persona “arbol del viento”.
Lucho contra el con el peyote. No pudo resistir. Solo el mara'akame puede
deshacer a uno que ha sido atrapado por Kieri.
Solo el mara'akame sabee Asi es, como yo te lo he dicho.
80
Posiblemente se designa como Kieri a la datura mateioides, un allucinogeno
popularmente llamado en Mexico toloache, considerado sagrado entre los
zuňis y los hopis del suroeste de Estados Unidos y que emplean en sus
diseňos, confundidos estos a menudo con la estilizacion de la flor de
calabaza.
En 1994, en una entrevista, Pablo Ortiz Monasterio refirio que fue a
Wirikuta durante varios aňos. En cierta ocasion, pregunto a un huichol
porque habian escogido como emplazamiento sagrado de su peregrinaje ese
sitio rodeado de montaňas en San Luis Potosi.
El huichol contesto: “Nosotros no lo escogimos, el nos escogio.”
En efecto, los huicholes son un pueblo elegido.
PEYOTE, CERVO E MAIS15
L'indio messicano possiede questa conoscenza millenaria: il
pianeta non è qualcosa di inerte, inanimato, bensì un essere
vivente.
Questa vitalità si manifesta come una potente integrazione tra
forze che, dall'invisibile, sorreggono ciò che è visibile.
Nel pensiero religioso occidentale il paradiso, il purgatorio, il
limbo e l'inferno sono “ambiti” sacri, disgiunti da quello che
vediamo.
Tra le popolazioni indigene messicane, diversamente, le entità
sacre invisibili sono strettamente connesse con la vitalità del
mondo.
Queste forze convivono con l'essere umano, con le
popolazioni.
L'indio messicano è capace di vedere, di distinguere nello spazio
visibile, l’invisibile cuore latente che dà respiro al mondo.
La traduzione presenta precisazioni e spaziature assenti nell’originale
versione messicana, al fine di garantire un continuum logico con lo stile finora
adottato e facilitare la ricerca argomentativa del lettore.
A questo scopo sono stati anche tradotti i nomi di luoghi e divinità, facendo
fede al volume di RAÚL ACEVES, TEITERI WAYEIYARI: glosario de cultura
huichola, Secretaría de cultura de Jalisco, Guadalajara, 2005
15
81
Tra queste entità, ci sono forze potenti che sembrano avere la
risposta per tutto ciò che anela nel cuore umano.
Sono forze che stanno oltre la pioggia, oltre i fiumi o il mare,
più in là delle grotte, delle montagne o della selva; entità
individuate come la manifestazione di un dio da cui
provengono popolazioni intere e da cui nasce la coscienza che i
popoli hanno di loro stessi.
A volte le forze identificate in questo modo, vengono
riconosciute fedelmente in un unica regione; altre volte si
estendono per la continuità culturale di tutto il centro America;
altre ancora si addentrano nei territori del Nord messicano, in
differenti culture indigene.
Il serpente è un profondo simbolo e una potente forza in certe
regioni centroamericane.
In altre parti lo è il cervo.
Praticamente ovunque lo è il mais: divinità che mantiene la vita.
Nella religiosità messicana, inoltre, si trova anche una devota
relazione con alcune piante narcotiche.
Queste piante pensano, parlano, insegnano, comunicano tra
loro.
Hanno “un’ anima”, non possono stare al servizio del capriccio
o di avventure psichiche degli uomini.
Sono infatti guide e sacri portali che si venerano e adempiono al
compito di curare, aiutare la crescita spirituale di cui le
popolazioni indigene hanno bisogno per operare nella
conservazione della vita, nella conservazione del mondo.
Il tabacco è una di queste.
Per alcuni maya fumare tabacco aiuta l'uomo saggio a ricordare,
aiuta i pensieri più profondi a venire alla luce, per questo viene
fumato durante le cerimonie curative.
Altri maya lo triturano, lo mescolano con altre sostanze e lo
masticano: sanno che in questo modo si stabilirà un contatto
permanente con il mondo invisibile e che li aiuterà nelle lunghe
82
camminate attraverso la selva e le montagne, in luoghi desolati
o pericolosi.
Tra i miztechi di Oaxaca, i funghi allucinogeni rappresentano la
divinità potente ed ineffabile; da colui che si avvicina ad essi
come sacerdote, curatore, paziente o apprendista, si esige una
profonda purezza.
È richiesto un lungo percorso spirituale per conoscerli a fondo.
Un'altra pianta sacra è la marijuana.
Molteplici sono i suoi significati ed impieghi.
Tra i tepehuas di Veracruz, viene chiamata Santa Rosa ed è
considerata la madre del mais. Nonostante che ne fu la madre,
abbandona il bimbo-mais, che diventerà il signore delle forze
pioggia e del tuono, si trasformerà in proprietario dei serpenti
della terra e della pioggia, oltre che protettore della sua stessa
madre.
Tra questi indigeni il bimbo-mais ha per padre una forza che si
trasforma in cervo.
Anche il peyote è sacro.
La sua devozione si estende fuori dalle orbite millenarie
centroamericane, nel nord e nell’occidente del Messico, in
particolare tra due popolazioni imparentate: i tarahumara e gli
huicholes.
I tarahumara lo considerano fratello di dio e raccontano che
quando si rafforzò l’ anima dell’ultimo uomo creato, questi
camminò fino a Umarique, luogo in cui sorge il sole e si
incontra con il peyote o Hikuri, che abitava lì.
“Per l'anima forte del tarahumara”, dicono.
Questo rafforzamento è fondamentale nella formazione del
sacerdote indigeno, perché un tarahumara arrivi a diventare
sipame o un huichol si trasformi in mara’ákame.
Ci troviamo di fronte ad un'esperienza intestina,
incomprensibile ad altre mentalità religiose.
83
Tutte le religioni presuppongono cammini spirituali per la
nascita della vocazione sacerdotale.
Se spogliassimo dei suoi valori culturali il fragile agostiniano o
francescano, il gesuita o il metodista, il monaco buddista o il
rabbino, i loro digiuni, confessioni, sogni, martiri, vocazioni,
certezza di essere stati chiamati dal destino ed altro, null’altro
sarebbero che ingenuità, superstizione o delirio.
Parallelamente, se squalificassimo l'universo culturale, profondo
e complesso dei grandi sacerdoti tarahumara o huichol, ecco
che la loro sapienza interiore diverrebbe soltanto sogno od
inganno.
Al profondo universo sacro degli huicholes si riferisce la
sorprendente e magnifica collezione fotografica di Pablo Oertiz
Monasterio, “Corazon de Venado”, una serie di fotografie che
non mostra la vita quotidiana degli indigeni, ma la loro
principale cerimonia rituale.
Corazon de Venado è un simbolo che intreccia le mille
sfaccettature di una sola divinità, come distinti volti di una
medesima forza spirituale e vivificante, il cervo, il peyote ed il
mais.
Un cervo celestiale, Kauyuma’li, feconda con il suo sangue la
terra da cui nascerà il mais o hikú; dal suo proprio sangue, il
cervo celestiale rinasce, resuscita, dando la vita.
Il cuore dal quale sgorga il suo sangue, il cuore che sostiene ed
alimenta la vita (e che per questo sostiene ed alimenta la vita
degli huicholes) è Hikuri, il peyote.
Per questa ragione si misura la vita di ogni uomo e di ogni
sacerdote.
Le popolazioni huicholes intraprendono la caccia del cervo, o
Marra, per offrirlo alla Madre Terra feconda, Tatei Yurianaca,
dove il cuore rinascerà come Hikuri e come vivificante mais.
Per questo cacciano il cervo ed il peyote: per aiutare il mondo.
84
Da entrambi i cuori del cervo celeste rinascerà ogni anno
l'uomo, la donna ed il bambino huichol.
Le recenti fotografie di Pablo Ortis Monasterio registrano,
sorprendenti e vitali, un pellegrinaggio sacro: il viaggio dalle
montagne di Jalisco e Nayarit, dove vivono le comunità
huicholes fino alla Sierra di Real de Catorce, a San Luis de
Potosì.
In questo pellegrinaggio nel deserto, nella terra di Wirikuta, i
sacerdoti huicholes raccolgono dal suolo, con devozione, i cuori
sacri del peyote.
Questa raccolta è un altro tipo di “caccia del cervo”.
Per questo alla festa del Pellegrinaggio, Palia’tsia (letteralmente
“luogo dove cresce il peyote”)16 yeya la chiamano anche
Iweiyari, “la caccia” all’ Hikuri e quella al Marra, il cervo
sacrificale.
Questa unione sacra rappresenta anche un aspetto magico del
mais o Hiku: da un lato è il cervo, dall'altro il suo sacro cuore:
Hikuri.
Il cervo azzurro ha un nome: Kauyuma’li.
La memoria degli huicholes conserva molti dei suoi racconti e
dei suoi canti.
In essi Kauyuma’li appare come un vero sacerdote huicholes,
un mara’ákame.
I racconti di Kauyuma’li sono lo specchio del cuore huichol, lo
specchio del suo sviluppo spirituale.
L'anima del peyote serve a conoscere la verità, a far convertire il
sacerdote perché non inganni e non venga ingannato.
Uno dei grandi racconti di Kauyuma’li descrive la sua battaglia
contro una pianta ingannatrice, un'altra pianta narcotica
chiamata “albero del vento” o Kieli Tewiali.
16
Nota aggiuntiva dell’autore, non presente nel testo originale.
85
Durante questa lotta si rende evidente il fatto che la formazione
del mara’ákame è molto minuziosa: si prolunga per cinque anni
ed esige sei peregrinazioni nel deserto.
In questa lotta Kauyuma’li agisce come un mara’ákame e nella
sua critica contro Kieli Tewiali descrive i riti, le danze, la
ingestione della pianta narcotica ed i suoi effetti nocivi: “li
prende, li acchiappa, li morde, gli fa perdere il dominio di loro
stessi.
Canta, grida..... suona il tamburo, li inganna. Così è lui”
Kauyuma’li lo vince tirandogli cinque frecce con l'arco.
Non sei, per ricalcare il fatto che lo si elimina attraverso i
quattro punti cardinali più il cielo, mentre non con la parte
riferita alla terra, che viene messa in relazione con i rettili.
Ogni volta che una freccia lo ferisce l’albero del vento vomita
delle sostanze velenose che intossicano Kauyuma’li, il quale
comincia a tossire, ad affogarsi.
Ma lui, come un vero mara’ákame, si mette il peyote sulle mani,
sulla labbra, sulla faccia e smette di affogare in quanto il peyote
è più potente dell’ “albero del vento”.
Kauyuma’li infine vinse, ed il suo concorrente viaggiò fino ad
una rupe per crescere lì, per essere trasformato in Albero.
Perché nostro Nonno e nostro Padre mai gli permetteranno di
stare in nessun altro posto: “sei cattivo, perciò resterai in questo
mondo”.
Arrivò alla rupe e lì cadde la sua anima, cadde come una pietra.
Si trasformò in Albero e cominciò a crescere, sempre più alto,
fino ad arrivare al quinto livello: un albero con cinque rami.
Allora il Vento ebbe compassione; gli soffiò da una parte
all'altra, dai cinque lati, gli disse: “là, in quei campi c'è del verde,
potrai crescere là”.
Il racconto segnala significativamente che gli stregoni
dell’albero del vento sono persone che non completarono la
loro formazione come sacerdoti huicholes o mara’ákame: “è per
questo che coloro che non arrivano all'ultimo stadio, che non
86
compiono le loro promesse, si convertono in bugiardi, in
ingannatori....” (assumono il popolare nome di Maxatusa:
“venado blanco”, cervo bianco)17
Allora diventano stregoni....
Per il mara’ákame, vero uomo huichol, non c'è altro che Hikuri,
il peyote.
Il mara’ákame non ha niente a che vedere con Kieli.
Il peyote è il cuore, il cuore del cervo, il cuore del mais.
In entrambi è il cervo ed il mais. È la nostra vita. Ha più potere.
Il fratello maggiore Kauyuma’li uccise Kieli Tewiali, la persona
albero del vento.
Lottò contro di lui con il peyote. Non gli poté resistere.
Solamente il mara’ákame sa: così è, come te lo dico.
Probabilmente Kieli è la Danna Mateioides, un allucinogeno
che in Messico viene popolarmente chiamato toloache.
Considerato sacro tra gli Zuňis e gli Hopis del sudest degli Stati
Uniti e che lo usano nei loro disegni e che spesso viene confuso
con la stilizzazione del fiore di zucca.
Nel 1994, in una intervista, Pablo Ortiz Monasteiro riferì che
andò a Wirikuta per molti anni.
In una particolare occasione, chiese ad uno huichol come mai
avessero scelto proprio questo posto, come sacra meta del loro
pellegrinaggio, così circondato da montagne, a San Luis de
Potosì.
Lo huichol rispose “noi non lo abbiamo scelto. Fu lui a
sceglierci”.
In effetti, gli huicholes sono un popolo eletto.
17Nota
aggiuntiva dell’autore, non presente nel testo originale.
87
Capitolo 4: Híkuri Neirra
4.1 A POCHE ORE DALLA CELEBRAZIONE
“Allora, questa sera andiamo alla festa?” è stato il buongiorno di
Felipe, la mattina del dodici giugno.
Finalmente una buona notizia, perché il lusso di una data certa,
tra gli huicholes, davvero non è cosa da poco.
Dopo giorni passati ad elemosinare notizie al riguardo,
collezionando un vasto campionario di risposte approssimative,
in coscienza, l’idea di salire su uno dei tre aerei, che ogni
settimana atterrano sulla sgangherata pista in erba di Tatei Kie,
si stava facendo sempre più concreta.
“Parli della festa del peyote?” ho domandato a Felipe, quasi
incredulo.
“Sì, sì, dell’Híkuri Neirra, stasera ci andremo”.
Assopita l’inquietudine del vacuo, anche l’incontro fatto il
pomeriggio precedente con Francisco Salvador, il governatore
della comunità, nella piazza di San Andres, assume, ora,
connotati nitidi e rincuoranti.
Le persone che, con lui, riposavano al sole, il tejuino che, per la
seconda volta nella mia vita, mi era stato offerto e quel viavai di
legna verso il templo, sono tutti dettagli che, scansato il ruolo
sfocato della comparsa, orientano sulla loro figura le luci della
mia attenzione.
Dopo giorni di inconcludenza, l’attesa, anche di un minuto, si
impone sul gozzo come un boccone ingerito con troppa fretta:
la curiosità è più vorace dello stomaco e io non vedo l’ora di
passare a casa di Pancho per avere il permesso di scattare
fotografie… la colazione, in fondo, posso finirla più tardi.
88
Dall’interno del calihuey, Francisco mi inviata ad entrare.
Riconosco gli stessi volti del mio antefatto: le donne stanno
pulendo il cortile dalle foglie cadute, gli uomini scherzano tra
loro bevendo birra, qualcuno sonnecchia.
Tutti sono di ritorno dalla terra di Wirikuta, dove hanno
cacciato il cervo-peyote, ascoltato e parlato con i kakauyari.
Reduce della madornale svista di qualche ora prima, resto in
silenzio, cercando di cogliere quanti più particolari riesca, anche,
e soprattutto, quelli che, di primo avviso, appaiono marginali
alla mia ricerca.
“Stasera” esordisce Francisco, battendomi la mano sulla coscia
“stasera…”.
4.2 L’INTERNO DEL CALIHUEY
Organizzando uno spazio si ripete l’opera esemplare degli dei18
Il calihuey, o tuki, è il principale centro cerimoniale huichol.
È un’enorme capanna circolare, in pietra, dal diametro e
dall’altezza di circa otto metri, il cui tetto è sorretto da due
colonne di pino, al culmine delle quali trentasei travi si aprono a
raggiera, a sostegno della paglia di copertura.
Varcato l’uscio, la prima cosa che appare è il cerchio di pietre in
terra, all’interno del quale Tatewari prenderà vigore, con
accanto offerte rituali, principalmente jicaras e candele.
Dietro di esso l’uwene, ovvero la sedia rituale in cui si adagerà il
mara’ákame per ufficiare la celebrazione, è già posto tra le due
colonne, al centro del tuki; sull’altro lato del calihuey; di fronte
alla pedana dei “cantadores”, il mayordomo ha adagiato la bivalente
MIRCEA ELIADE, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1984/3,
pag. 14
18
89
effigie di Tatata e appeso il suo kutsu’li, la borsa tipica del
costume huichol.
In ultimo, sopra le panche, poste soltanto alla destra del templo,
da uno strano bastone, appoggiato al muro, fiorisce la cornea
figura del cervo.
Abbiamo già parlato di come la cosmogonia sacra huichol
imploda verso il punto centrale: l’origine, la nascita:
Reintegrare il Tempo sacro originario, significa
diventare “contemporanei degli dèi”, quindi vivere alla
loro presenza, anche se misteriosa, nel senso che non
sempre è visibile.
L’intenzionalità contenuta nell’esperienza dello Spazio
e del Tempo sacro rivela il desidero di reintegrare una
situazione primordiale: quella appunto nella quale gli
dèi e gli Avi mitici erano “presenti”, stavano per creare
il mondo o per organizzarlo, o per rivelare agli uomini
le basi della civiltà.
Questa “situazione primordiale” non è storica, non
essendo calcolabile cronologicamente; si tratta di
un’anteriorità mitica del Tempo “originario”, di ciò
che è accaduto in principio.
Orbene, in principio accadeva proprio che gli Esseri
divini o semidivini svolgessero le loro attività sulla
terra.
La nostalgia delle “origini” è quindi nostalgia religiosa.
L’uomo desidera ritrovare la presenza attiva degli dèi,
desidera vivere nel mondo fresco, puro e “forte” che
era uscito dalle mani del Creatore.19
È proprio questa retrograda marcia del tempo a generare
energia, forza vitale; qui la nascita si contrappone alla morte,
l’ala epocale batte a ritroso.
MIRCEA ELIADE, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1984/3,
pagg. 60-61
19
90
Non è un caso che solo alla mia destra siano state poste delle
panche: all’interno del calihuey si cammina in senso antiorario,
contro il tempo.
Alla destra dell’unico varco si entra e ci si accomoda, alla
sinistra di esso si esce.
“Che cos’è quel bastone?” domando a Francisco, ormai vinto
dal fascino indiscutibile del luogo.
“Quello è il cervo” sorride “se manca il cervo qui non possiamo
fare niente”.
Quella sagoma è infatti il riassunto del pellegrinaggio nella terra
sacra: dopo che i “cantadores” avranno parlato con gli avi
kakauyari, un cervo apparirà ai pellegrini, pronto per essere
ucciso.
Quella che gli huicholes chiamano “caccia al cervo” è in verità il
sacrificio, volontario, del medesimo.
Il particolare del calihuey che più mi affascina coincide però,
come spesso succede, con il più imponente: le due colonne
portanti figurano ai miei occhi come qull’axis mundi cristiana che
ci innalza alla beatitudine o ci condanna alla sofferenza.
Sono curioso di sapere se la mia prima impressione abbia anche
un minimo fondamento, con la speranza di essere contraddetto:
è vero che l’asse cosmico, chiamiamolo così, è un concetto
comune a molte religioni, più o meno antiche, ma non mi è
parso che l’ultraterreno huichol sia organizzato per categorie
spaziali marcate e finite.
“Questo è il palo della pioggia” mi spiega Francisco, toccando
la trave a sinistra del tepari “dedicato alla dea Kiewimuka.
Quello a fianco è il palo di Nariwame”.
91
Kiewimuka è la dea portatrice di pioggia, descritta come un
serpente bianco che vive tra le nubi. Scende nel periodo
autunnale tra i villaggi, nascosta nella fitta nebbia del mattino.
Nariwame ha un ruolo analogo: è chiamata “nuestra madre
mensajera de la lluvia”, nostra madre messaggera della pioggia.
Rappresentata come un serpente dalla testa color azzurro, vive a
Têaka’ta, il luogo dove per la prima volta il fuoco, non ancora
ammansito, si mostrò ai kakauyari20.
Nel cortile esterno qualcuno ha già posto le cinque sedie sulle
quali si adageranno gli anziani; alla mia destra, il palo sacrificale
attende la sua vittima.
4.3 HÍKURI NEIRRA
Comincia a far buio quando io e Felipe decidiamo di
incamminarci verso il templo sacro.
Al contrario di ciò che pensavo, non tutti partecipano alla
celebrazione.
“Non è obbligatorio” mi spiega Felipe, che, ora per la prima
volta, vedo calzare il costume tipico huichol 21 “solo chi è tornato
20 L’avvenimento è narrato nel paragrafo 2.1: “Il mito della creazione: il
dono dei muvieri e la nascita di Tatewari”.
21 Il costume maschile huichol, bianco e ricamato con riferimenti mitici,
comprende:
Rupurero: sombrero
Kamirra: casacca larga, aperta sotto le ascelle
Xuaya’me: fascia di lana, spessa e colorata, stretta alla vita
Huerruri: pantaloni lunghi, ricamati nella parte inferiore
Al contrario delle donne, gli uomini del popolo huichol raramente indossano
il costume tradizionale.
Quello femminile è così composto:
Ricuri: drappo per coprire la testa
92
da Real de Catorce deve andarci, perché questa è la fine del suo
viaggio, gli altri avranno tutto il tempo: l’Híkuri Neirra durerà
due, forse tre giorni”.
La celebrazione si apre ufficialmente con il sacrificio di un toro,
la cui carne, in brodo, verrà servita a tutti i partecipanti.
All’interno del calihuey, l’avo Tatewari ha preso vigore: è difficile
persino tenere gli occhi aperti, tanto il fumo, denso, avvolge
ogni cosa ed ogni persona.
Fuori alcuni pellegrini stanno accendendo altri tre fuochi, Felipe
chissà dove è finito.
Mentre mi aggiro tra i partecipanti, è Jesus a notarmi per primo.
Mi offre una barretta di mais, che chiama tamal, ancora avvolta
nella guaina, spiegandomi che è un omaggio alle persone che
prendono parte al rituale.
“È il cielo che ti manda!” esordisco io, ironizzando sul suo
nome.
“No, no… abito qui vicino” mi risponde ridacchiando.
Conosco la disponibilità di Jesus: al contrario di molti altri, che,
di buon grado, accettano persone esterne alla loro cultura, ma
sono reticenti a parlarne; lui, come Rosalio, Felipe e Francisco,
credo abbia a cuore che chi si avvicina al loro mondo, porti in
patria non soltanto collanine e bracciali.
Kutuni: camicia corta, alla cintura, ricamata con motivi geometrici colorati
(per lo più strisce orizzontali)
Kukama: collare di perline colorate
Iwi: gonna lunga, alle caviglie, ricamata nella parte inferiore
Entrambi i sessi calzano Huaraches: sandali di cuoio intrecciato, con la suola
ricavata dal copertone di automobili.
93
Comincia a spiegarmi che chi ha acceso i tre fuochi all’esterno
del calihuey sono i pellegrini delle comunità limitrofe: quelle di
San Josè, di Las Guayabas e di Cohamiata.
Mentre stiamo parlando, un piccolo gruppo di persone esce dal
templo: un mara’ákame e tre pellegrini, che immagino siano i
rappresentanti delle comunità, cominciano a girare, in senso
antiorario e per cinque volte, attorno ad ognuno dei falò
ardenti.
Per tre volte, due di loro, lo imprigionano nella morsa dei due
piccoli bastoni che tengono in mano, mentre il mara’ákame agita
il suo muvieri sopra di essi.
Poi, infilando i bastoni alla base, sollevano il rogo, mentre il
terzo pellegrino ci infila sotto un pezzetto di legno, chiamato
molìtari, il cuscino del fuoco.
“Ricordano a Tatewari il tempo in cui si chiamava Tatutsi e non
era ancora addomesticato”22.
Capisco perché la festa del peyote è la più importante fra le
attività rituali: a guardarla con attenzione credo si possa
ricostruire tutta la storia mitica di questo popolo.
Quello che non mi è chiaro è il fatto che, almeno finora, l’avo
Tatewari appaia come la figura principale della celebrazione:
nulla togliendo alla sua indiscutibile ed ovvia importanza,
credevo però che questo onore fosse riservato al cervo-peyote.
“È la stessa cosa” mi spiega Jesus “l’Híkuri Neirra è fondato
sulla caccia al cervo: il primo fuoco che vedi rappresenta la sua
figura retta, in piedi, come quando lo incontri, ma è ancora
distante.
22 L’avvenimento è narrato nel paragrafo 2.1: “Il mito della creazione: il
dono dei muvieri e la nascita di Tatewari”.
94
Il secondo lo rappresenta mentre corre, il terzo sdraiato, come
dopo che si è sacrificato”.
I bastoni che stringono in mano i pellegrini vengono bagnati dal
sangue del cervo, trattenuto in una jicara posta tra le offerte, a
fianco della sedia del mara’ákame.
Anche all’alba dei tempi, penso fra me, fu il sacrificio di un
cervo a nutrire il fuoco… ha dell’incredibile l’immediatezza
della rappresentazione a cui sto assistendo.
“… e quello?” domando io, a proposito del quarto fuoco, che
brilla distaccato dagli altri.
“Là stanno mangiando la carne del cervo cacciato, se vuoi ci
andiamo”.
Ecco di nuovo farsi abissale la differenza tra la mia cultura e
quella huichol: mentre lui mangia di gusto quella carne scondita
ed immersa nell’acqua, io mando giù un boccone dopo l’altro
quasi senza masticare.
“È molto buona” dico, mentendo in modo logico, ma
spudorato.
“Sì, sì…” annuisce Jesus “quando Tau si mostrò per la prima
volta ai kakauyari, ordinò loro di cacciare il cervo e di mangiarlo
scondito, immerso nell’acqua sacra che scorre nella terra di
Wirikuta, perché è così che piace a Tatewari”.
Tornati nel calihuey, l’aria è densa, fumosa ed ebbra: tre donne
scherzano bevendo tejuino e, proprio a fianco dell’entrata un
uomo mostra, divertito, una gallina ai compagni.
Anche Jesus ridacchia.
“Ora la vanno ad uccidere” mi dice.
95
Francamente faccio fatica ad inquadrare il lato comico della
cosa.
È, ai miei occhi, un sacrificio: non so quale divinità pretenda il
sangue di una gallina, ma non mi sembra che, concettualmente,
cambi poi molto.
“La sacrificano a Tatewari”.
Dopo la spiegazione sorrido anch’io: forse non sarà divertente,
ma, in compenso, è molto, molto tenero.
Immerso in quell’atmosfera sacrale, mi ero quasi scordato
dell’ironia che accompagna gli huichol in ogni singolo passo della
vita; “el abuelo fuego”, il nonno fuoco, ha ormai i suoi anni: per
questo si burlano, affettuosamente beninteso, di lui.
Come fosse davvero un parente stretto ed anziano, lo prendono
in giro sul fatto che, ormai, non riesca più a distinguere una
gallina da un cervo.
Il resto della notte è dedicato alla danza dei pellegrini: uso la
parola danza nell’accezione più eufemistica possibile del
termine.
Non ho nessun problema a definire “danza” un girotondo di
bambini, ma quello che vedo è piuttosto una processione,
attorno alle vampe dei tre centri cerimoniali, sempre in senso
antiorario, guidata da un suonatore di violino, strumento caro al
popolo wirrarika.
È come se si volesse ribadire l’unione, l’amicizia che li ha legati
nei giorni del pellegrinaggio.
La cantilena che accompagna il ritmo straniero dello strumento
appare, a me, incomprensibile e ripetitiva: una nenia altalenante,
della quale non saprei dire se allegra o triste.
“È la canzone del peyote ” mi spiega Jesus, compiaciuto: “è la
nostra storia…”
96
Primera canción del peyote 23
Salió el mar, del mar, pasó
y detrás del mar
vinieron todos los dioses.
Los dioses pasaron como flores,
en figura de flores
vinieron detrás del mar,
y llegaron a la placenta,
al lugar de la placenta
de la que habían nacido.
De la placenta salió la nube
y de la nube salió el ririki
y del ririki nació el venado
que se convertió en maiz,
que se convertió en nube
y llovió sobre la milpa.
El mar les habló a los dioses
de los cinco rumbos cardinales
y del mar se vino el Venado Azul,
con mari, el joven venado
y otros muchos venado pequeňos.
Entonces se vio la flecha
y la cabeza del Venado
puestas las dos en el itari.
Los dioses entendieron
el mesaje de la flecha
que se volvió nube,
el mesaje de la cabeza
que se volvió lluvia,
ANTONIO BAUTISTA CARRILLO, comunità de Las Guayabas, da
FERNANDO BENITEZ, Los indios de Mexico, ERA, Mexico D.F. 2000, 2006/6,
pag.135
23
97
y fueron al coamil
y en el coamil
dejaron su ofrenda.
“¿Qué ocurre en el coamil,
qué ocurre en el seno
de Nuestra Madre Tatei Urianaka? ”
-se dijeron los dioses.
“Es necesario saber lo que allí ocurre.”
Escondidos en el monte,
asistieron al divino parto
y vieron nacer del itari
las caňas, los jilotes tiernos,
las calabazas redondas,
la flor amarilla del tuki
que los dioses cortaron
y frotándola entre las palmas
de sus grande manos,
con el polvo del tuki
se pintaron tres rayas
en la cara.
Dijeron los dioses: “Wiwátzirra
fue la cuna del Venado y será
su mortaja porque allí lo tenderán
cuando lo maten en la sierra.”
Al hablar así, salió del mar azul
el Venado Azul Marrayueve,
parándose derecho en el itari
y en el norte y en el sur,
en el oriente y el poniente
aparecieron Venados Azules.
Ho deciso di limitarmi alla traduzione di questi testi, evitando la
parafrasi, fornendo soltanto, alla fine di ogni lirica, la
98
descrizione dei concetti non ancora affrontati: sconosciuti,
quindi, al lettore.
Questo perché le traduzioni, in spagnolo di Fernando Benitez e
in italiano da parte mia, già snaturano la forza evocativa del
canto rituale, sottraendolo, in modo barbaro, alle cadenze
ritmiche della sua lingua d’origine e al suo contesto attivo e
musicale; lasciare quel che resta, ovvero un testo scritto, alla
mercé di chi legge, credo sia, non soltanto una decisione onesta,
ma anche, e soprattutto, un sacrosanto ossequio alla visione
lirica.
La prima canzone del peyote
Venne il mare, dal mare lo si vide,
ed al di là del mare
lo seguirono gli dei.
Vennero gli dei come dei fiori,
come dei fiori
vennero da oltre il mare,
il mare fu, per loro, placenta,
la placenta
dalla quale nacquero.
Dalla placenta s’alzò una nube,
e dalla nube venne il ririki
e dal ririki nacque il cervo
che divenne mais,
che divenne nube
perché piovesse sui campi.
Il mare parlò agli dei
dei cinque punti cardinali,
e dal mare venne il Cervo Azzurro
assieme a Mari, giovane cervo
e tanti altri cervi, più piccoli.
Venne allora la freccia
99
e la testa del cervo,
tutt’e due poste nell’itari.
Gli dei compresero
il messaggio della freccia
che divenne nube,
e quello della testa
che divenne pioggia,
e andarono al campo,
ed al campo
lasciarono le loro offerte.
“Cosa accade?
Che succede al seno
di nostra madre, Tatei Yurianaka?”
- si domandarono gli dei.
“È necessario saperlo, dobbiamo scoprirlo.”
Nascosti dietro il monte,
assistettero al divino parto
e videro, dall’itari, nascere
la canna e la tenera spiga,
la rotondità della zucca,
e i fiori gialli del calihuey
che gli dei tagliarono,
e sfregandoli tra i palmi
delle loro grandi mani,
con la polvere del calihuey
si dipinsero tre linee
sul volto.
Dissero allora: “Wiwatzirra,
che fu culla del Cervo, sarà per lui
letto di morte, perché lì lo poseremo
quando verrà ucciso nella sierra”.
Detto ciò, venne dal mare
Il Cervo Azzurro Maxayuave,
fiero e retto nell’itari,
100
ed al nord, al sud,
ad est e ad ovest
apparvero quattro Cervi Azzurri.
Itari, la “cama del dios”, il letto del dio: è una piccola sacca
consacrata agli avi kakauyari, costruita legando fra loro, con del
filo di lana colorato, pezze di cotone dalla forma circolare,
quadrata o rettangolare.
Viene posata su della fibra di corteccia, in modo che gli avi non
riposino sulla nuda terra, ma in un caldo, accogliente e pulito
giaciglio.
Succede che, dopo essersi prestata a questo scopo, la sacca itari
venga usata per avvolgere le offerte votive.
Quello che gli huicholes chiamano wiwatzirra è, invece, un vero e
proprio, rudimentale, letto di morte: una stoia d’erba in cui
viene disteso il cervo abbattuto, attorno al quale si pongono
quattro candele24 e mais.
Maxayuave è il nome usato per indicare il cervo, il cui sacrificio
consacra il rituale.
Segunda canción del peyote
Vuelan las flores, giran las flores,
ma vuelta le dan a Cerro Quemado
y del corazón de nostro Abuelo
nacen el Venado y el itari.
Los dioses están hablando,
sí, los dioses nos hablan
y nadie es capaz de intenderlos.
24 Mentre le candele utilizzate per scopi primari, come l’illuminazione, sono
di cera bianca, quelle rituali sono gialle.
Legate al mito della nascita del sole, rappresentano il dono che Tau fece
all’uomo perché potesse “vedere oltre la luce”.
101
Mas he aquí que se ve la flecha
clavada en el centro del itari
y la flecha entiende
el lenguaje de los dioses.
Ahora se ve junto a la flecha
la celebra azul, Jaikayuave,
la intérprete de los dioses,
la que sabe el lenguaje de la flecha.
Nace la lluvia del itari
se desata la lluvia,
y se oye el mensaje de los dioses:
“Hermanos, ha llegato el tempo
de hacer la flecha de la lluvia.”
La cuerda wikurra aparece
en la boca de la flecha
y de nuevo se alzan las nubes
y se forman los dioses
de los cuatro rumbos cardinales.
Se hablan entre sí, se entienden,
están de acuerdo Virikota,
Aurramanaka, Tatei Nakawé,
Tatei Urianaka, San Andrés.
Todos se alzan en el aire,
vuelan en torno de Leunar
y al descender a la tierra
ven la flecha que seňala el lugar
donde nació el Venado.
Allí está el itari sagrado,
y acostando en el itari,
descansa Nuestro Hermano
Tamatz Kallaumari.
102
La seconda canzone del peyote
Volano i fiori, girano i fiori
sul Cerro Quemado
e, dal cuore di nostro Nonno
nascono il Cervo e l’itari.
Gli dei stanno parlando,
sì, gli dei ci parlano
ma nessuno riesce a sentirli.
Però è qui che sta la freccia,
piantata nel centro dell’itari,
e la freccia conosce
il linguaggio degli dei.
Adesso c’è, assieme alla freccia,
il serpente azzurro, Jaicu yuave,
interprete degli dei,
che conosce il linguaggio della freccia.
Viene la pioggia dall’itari,
cade la pioggia,
e si sente ciò che dicono gli dei:
“Fratelli, è giunto il tempo
di preparare la freccia della pioggia”.
La corda Wikuyau appare
In bocca alla freccia,
e, di nuovo, s’alzano le nubi,
e si vedono gli dei
dei quattro punti cardinali.
Fra loro discutono,
sono d’accordoWirikuta,
Hauxamanaka, Tacutsi Nakawé,
Tate’Yulianaka, San Andrés.25
25 È interessante notare come Antonio Bautista Carrillo elenchi i punti
cardinali riservando a quelli più strettamente legati alla pioggia, quindi al
raccolto del mais, marcatura divina, anziché geografica.
103
Tutti si alzano nell’aria,
volano sopra Reunar,
e, quando tornano a toccare la terra,
vedono la freccia che indica il luogo
in cui nacque il Cervo.
Lì si trova il sacro Itari e,
disteso su di esso,
riposa Nostro Fratello
Tamatsi Kauyuma’li.
Jaicu yuave, il serpente azzurro, è l’astratto sentiero che percorre
Tamatsi Kauyuma’li, per giungere ai “cantadores”, tra le rocce di
Reunar.
La corda wikuyau rappresenta, in concreto, il legame simbolico
tra i pellegrini: con essa si legano l’uno con l’altro, durante il
cammino nella terra sacra di Wirikuta.
Non mancherò di tornare sull’argomento nelle prossime pagine,
a chiusura di questo capitolo.
Tercera canción del peyote
Itari, ahí estás, junto al Fuego
y ahí nació el Venado Azul
que se convertió en flor.
¿O acaso también
el itari es un flor ?
Habla la flor. ¿Por qué habla?
No, es el itari el que habla.
¿O es el corazón de Nivétzika
el que habla por el itari ?
por la flor habla Nivétzika:
104
“Los pintaré de amarillo.”
“¿Por qué los pintas con usha ?”
Porque así lo ordena el itari
y así lo ordena Tatevarí.
“Ah, -dice el Abuelo Fuego-,
ya que los dioses no saben comer
yo comeré por ellos.”
Oímos, oímos bien la voz de Tai,
las voces de los kakaullaris:
“Ha llegado el tiempo
de hablar con el mar.”
“¿Acaso no pueden entendernos?”
Sí, yo puedo entenderlos.
“En Virikota hay una flor que habla
y ustedes la entienden.”
Sí, yo puedo entenderla
y entiendo a Leunar, a Aurramanaka
y a Rapavilleme. Los entiendo,
se les oye claro:
“Aquí se quedó el itari,
aquí se quedará con los dioses
para siempre.”
(El cantador congrega a los dioses en el itari y aňade:)
-Vel coamil. Se abrió todo. Todo se vio.
Se llenó de caňas y mazorcas y entre las caňas
brotaron las orejas de nuestro hermano
el Venado Azul.
Luego brincó el Venado Azul y se quedó parado
sobre la Madre Tierra, Tatei Urianaka.
“¿Por qué se quedó ahí parado?”
El Venado es el itari
que se está renovando.
105
Para todos los dioses es el itari
y ellos serán los encargados
de llevarlo a los Cuatro Rumbos.
Sentado se quedó el itari
junto al fuego. Del itari
brotó una rama y de la rama
nacieron las flechas, nació la jícara
nació Ruturi, la Flor del Dios,
y todo se cambió en una nube.
Allí nacieron los cinco iteuri,
los cinco árboles elegidos.
(El maracame seňala entonces el lugar donde se pueden cortar
los árboles:)
Y del árbol nacieron los calihueyes.
Kievimuka, Aramara,
Parítzika, Rapavilleme,
elegieron sus árboles.
“Los hemano elegido. Ahora deben salir de caza
y levantar su calihuey. Junto al fuego
quedará el itari para siempre.
Allí se va el jaguar. Allí se va.
En el Tepari se alza la figura del Venado
que los diose vieron correr por una Tierra Blanca.”
“Oh, dioses –dice Kauimalli-, su magia
siempre me ha parecido estraňa:
el Venado estaba en el Tipari
y ustedes lo ven correr por una Tierra Blanca.
Tienen el poder de hacierlo todo.
Conozco sus velas, y yo, Kauimalli,
se las entrego. Les entrego sus velas.”
Dijeron los dioses de los Cuatro Puntos:
“Esta debe ser nuestra ofrenda.
106
Así siempre nos será entregada.”
“Dime Aurratemai, dime Nakawé
¿cómo haremos para que los niňos
no sigan anfermándose?” -pregunta Kauimalli
“Esta es nuestra respuesta:
Hagan una flecha, una jícara, una vela.
Después deben cazar un venado.
Si hai vida para los niňos,
un venado tiene que morir.”
La terza canzone del peyote
Lì sta l’itari, vicino al Fuoco,
dove nacque il Cervo Azzurro
che divenne fiore.
O forse è lo stesso
itari, un fiore?
Un fiore che parla. Perché lo fa?
No, non è il fiore a parlare, parla l’itari.
O è il cuore di Nematsica26
che parla per lui?
Nematsica parla per il fiore:
“Lo colorerete di giallo”.
“Perché farlo con l’usha27?”
Perché così vuole l’itari,
così vuole Tatewari.
“Ah, -dice il Nonno Fuoco-,
gli dei non sanno mangiare,
lo farò io, per loro”.
Udiamo, udiamo forte la voce di Tau,
Nematsica è il “Fratello Maggiore”, un nome con il quale si indica il cactus
peyote.
27 Intraducibile: usha (o uxa, urra) è il nome di una radice gialla che cresce
nella zona di Real de Catorce.
26
107
la voce dei kakauyari:
“È giunto il tempo
di parlare con il mare”
“Che, forse, non riesca a sentirci?”
Sì, posso ascoltarvi.
“C’è un fiore, a Wirikuta, che parla
e voi potete sentirlo”.
Sì, posso ascoltarlo,
e posso ascoltare Reunar, Hauxamanaka
e Rapawiyeme28. So ascoltarli,
si sentono bene:
“Qui si fermò l’itari,
qui si fermerà con gli dei
per sempre”
(il cantatore richiama gli dei nell’itari e seguita:)
Tutto, nel campo, si spalancò. Tutto fu visibile.
Si riempì di canne, zucche, e dalle canne
germogliarono le orecchie del fratello
Cervo Azzurro.
Quindi il Cervo Azzurro si fermò
sulla madre terra, Tate’Yulianaka.
“Perché si fermò?”
Il cervo è l’itari,
l’itari che si rinnova.
Per tutti gli dei Lui è l’itari,
e loro gli incaricati
di condurlo ai quattro punti.
Seduto, l’itari si riposò
vicino al fuoco. Dall’itari
germogliò un nuovo ramo, e dal ramo
28
Spirito della pioggia del sud, prese parte al diluvio nel lago di Chapala.
108
nacquero le frecce, nacque la jicara
nacque Rutu’li, il fiore di Dio,
e tutto divenne nube.
Lì nacquero i cinque itari,
i cinque alberi eletti.
(il mara’ákame segnala poi il luogo dove è possibile tagliare
questi alberi)
e dall’albero nacquero i calihuey.
Kiewimutá, Aramara,
Palia’tsia, Rapawiyeme29,
scelsero i loro alberi.
“Fratelli eletti. Adesso uscite dalle vostre case,
e costruite il vostro calihuey. Vicino al fuoco
poserà, per sempre, l’itari.
Lì va il giaguaro, lì.
Nel Tepari si alza la figura del Cervo
che gli dei videro correre sulla Terra Bianca”.
“Oh, dei –dice Kauyuma’li - la sua magia
mi è sempre apparsa superiore:
il Cervo stava nel Tipari
e voi lo avete visto correre in una Terra Bianca.
Voi avete il potere di fare ogni cosa.
Conosco il potere delle candele, e io, Kauyuma’li,
ve le offro. Vi consegno le vostre candele”.
Dissero gli dei dei quattro punti:
“Questa sarà l’offerta,
Kiewimutá è il luogo dove, per la prima volta, spuntò il mais.
Aramara, “Nuestra Madre del mar” è, schiettamente, il nome con il quale gli
huicholes indicano l’oceano pacifico. Palia’tsia è “il luogo dove cresce il
peyote”, il deserto di Catorce.
Rapawiyeme è lo spirito della pioggia del sud, che prese parte al diluvio nel
lago di Chapala.
29
109
che sempre a noi sarà consegnata”.
“Dimmi Hauxatemai30, dimmi Nakawé,
come faremo a far sì che i nostri bambini
non si ammalino?” – domanda Kauyuma’li.
Questa è la risposta:
Farete una freccia, una jicara, una candela.
Poi caccerete un cervo.
Per donare la vita ad un infante,
un cervo deve trovare la morte.
Rutuli (Iwia’kami, questo il suo nome completo) viene chiamata
“falda de flores”, gonna di fiori.
Sorella della “Giovane Madre Aquila”, rappresenta
l’adolescenza, l’essere bambino ancora implume, al nido, in
attesa del lancio nel mondo adulto.
È infatti comune credo huichol che il fiore riassuma in se
l’energia vitale, la memoria antica degli avi kakauyari.
Per questo viene chiamato “espíritu puro”, spirito puro, ed
associato alla giovane età.
Il disco tepari è un disco in pietra, di circa quarantacinque
centimetri di diametro, ornato di simboli sacri in entrambi i lati
ed un buco al centro.
Simboleggia la realtà rituale, la vita terrena come varco
dell’ultramondano, l’ascensione mistica: il passaggio, da
quell’unico buco, che lega il mondo mitico degli avi kakauyari
alla visione, riflessa, del cielo.
Cuarta canción del peyote
La nube crecía como la milpa.
nació Watukari, crecía y hablaba,
30
Dea cardinale, indica il nord.
110
nació el maiz, nació el venado
nació el itari y del itari
creció el encino y el encino
tronaba como la lluvia.
“Yo cercaré el coamil
yo lo abrazaré, yo lo envolverè
yo lo harè florecer por entero.”
La lluvia envolvió al coamil
y apareció el Venado Azul
acompaňado de Mari,
su hermano pequeňo.
Echó raíces el encino
y se plantó en los Cuatro Rumbos:
Ahí quedó plantado, echó raíces,
ahí tendido se vio el itari,
el itari se convertió en nube,
y de nuevo llovió sobre la sierra.
En los cuatro rumbos
tendieron las trampas,
los lazos jatevari,
y en medio de los lazos
brotó el agua sagrada.
El agua se llevó al coamil
donde estaban los dioses,
los kakaullaris reunidos
y todo se bendijo,
la lluvia cayó sobre todos
y la milpa creció sin tardanza.
Se llevó la jícara con el maiz
al ririki y allí renació el encino,
los sostenei del calihuey
y ahí renació toda la ofrenda.
Los dioses entendieron
que ahí sería su casa
111
y hablaron de este modo:
“Lloverá en el Tokipa
y allí aparecerá la cabeza
de nuestro hermano Tamatz.”
Entonces, de la buena tierra,
de la tierra Japuka,
nacieron los dioses:
Sakaimuka, Dios de las coras,
Tukaimuka, Dios de las araňas,
Reutari, la Línea de Sombra
Kayawarika, Dios del río Tuxpan
Y Aturrame, Dios del río Lerma.
Todos se dispersaron,
se regaron por la sierra.
Tomaron sus lugares.
La quarta canzone del peyote
La nube si alzò, come il mais del campo.
Nacque Wata’kami, cresceva e parlava,
nacque il mais, nacque il Cervo,
nacque l’itari e dall’itari
crebbe la quercia, in un tuono
come di pioggia.
“Io cercherò il campo
io lo abbraccerò, lo avvolgerò,
io lo farò fiorire in ogni punto”.
La pioggia avvolse il campo
ed apparve il Cervo Azzurro,
accompagnato da Mari,
suo piccolo fratello.
La quercia mise radici,
e si piantò nei quattro punti:
Lì restò piantata, lì si radicò,
112
lì disteso stava l’itari,
l’itari che divenne nube,
e di nuovo la pioggia cadde sulla sierra.
Nei quattro punti
tesero la trappola,
i nodi Jatevari,31
e al centro di essi
sgorgò la sacra acqua.
L’acqua arrivò fino al campo,
dove l’attendevano gli dei,
i kakauyari riuniti
e tutto fu benedetto,
la pioggia cadde sopra ogni cosa
ed il grano crebbe senza esitare.
Portano la jicara con il mais
al ririki, e lì rinacque la quercia,
a sostenere il calihuey,
e lì rinacquero tutte le offerte.
Gli dei intesero
che quella sarebbe stata la loro casa
e dissero:
“Pioverà nel templo
ed apparirà la testa
di nostro fratello Tamatz ”.
Quindi, dalla buona terra,
dalla terra Japuka32
nacquero gli dei:
Sakaimo’ka, Dio dei cora,
Tukaimuka, Dio degli aracnidi,
Reutari, la Línea d’Ombra
Si chiama Jatevari la rete che si usa per catturare il cervo sacro.
Uno degli appellativi posti ad indicare l’ascesa.
È, in questo caso, “el centro donde se cruzan los caminos”, il centro in cui si
incrociano i cammini.
31
32
113
Kayawarika, Dio del rio Tuxpan
e Aturrame, Dio del rio Lerma.
Tutti si dispersero,
si sparsero per la sierra,
trovarono il loro luogo.
(Tayau’) Sakaimo’ka è il sole di ponente e viene associato alla
regione di Nayarit, dove risiedono, oltre che gli huicholes, i cora.
Sono due ramificazioni della stessa etnia, dai tratti somatici
praticamente identici, ma dal carattere molto diverso.
L’unico contatto che ho avuto con loro è stato nell’ afosa città
di Jesus Maria, in una pausa durante il viaggio a Tatei Kie: a
differenza del popolo huichol, fiero, in quella malgama di rispetto
ed orgoglio delle proprie radici, quello cora appare sguaiato e
volgare.
Ripeto: la mia è un’impressione senza fondamenta, che poggia
sulle spalle di quattro uomini incontrati in un caldo pomeriggio,
da non considerarsi in alcun modo indicativa di un intero
popolo, che non conosco.
È singolare la presenza, nell’elenco di chiusura, di Tukaimuka,
Dio degli aracnidi: giustificata dal fatto che, leggendariamente,
fu il ragno a tessere la tela con la quale si catturò il primo cervo.
Per quanto riguarda reutari, nello stato di Nayarit, è il luogo del
circolo, in cui, miticamente, la luce si lega all’oscurità, la vita alla
morte, come avremo modo di approfondire nelle prossime
righe.
Le divinità che chiudono l’elenco sono di carattere soprattutto
morfologico: lo stato di Jalisco è di stampo montagnoso, il che
favorisce la nascita di ruscelli naturali, spesso dovuti alle
abbondanti piogge, come quello di Tuxpan-Naranjo e di Lerma,
che nasce nello stato di Mexico e scorre fra le rocce, fino a
congiungersi alle sacre acque di Chapala… ma, per dirla con
Ende, questa è un’altra storia.
114
Al calihuey l’ora si è fatta tarda, e la stanchezza comincia a farsi
sentire; dato che quella danza si ripeterà uguale tutta la notte,
decido di ritirarmi, per mettere su carta ogni cosa vista e detta e,
magari, dormire un poco: saluto Jesus e mi avvio lentamente.
La mattina mi accoglie un’atmosfera del tutto differente: alcuni
pellegrini, stanchi forse dalla nottata insonne, dormono in terra,
nonostante il piacevole caos del giubilo che li circonda.
Fuori dal calihuey i bambini giocano, i ragazzi ridono e suonano
canzoni tradizionali con la chitarra, alcuni mangiano.
L’austerità della sera precedente sembra avere lasciato il posto
ad una fiera paesana.
È ormai prossimo mezzogiorno quando alcuni pellegrini
escono dal cortile del templo in cerca di nuova legna.
La mano della sorte, che ieri toccò l’irruenza del toro, oggi
lambisce la pacatezza dell’agnello: ucciso, viene spellato ed
issato sul palo sacrificale, come un macabro monumento alla
luce del sole.
Ora i colori della festa si mischiano davvero a quelli della
celebrazione rituale.33
Mentre il giubilo continua, Pancho intinge il suo muvieri in una
bacinella d’acqua e peyote e, con questo, asperge i quattro punti
cardinali, nei cinque nodi nevralgici della celebrazione, come a
voler delimitare la zona.
Dietro di lui, i pellegrini lasciano un peyote in ogni punto
toccato.
Credo di aver inteso solo ora il significato più nascosto dello
si’kuli 34; ne avevo parlato, nel paragrafo dedicato alla nascita del
sole, come l’espandersi di raggi dell’astro, relazionandoli alla vita
fisica e spirituale: ora mi appare invece come vivida mappa,
limite fisico di un palcoscenico immaginario, solide pareti che
33 Gli huicholes parlano della loro intensa attività rituale servendosi del termine
generico “fiestas”.
34 Il disegno all’interno del nierica con il quale giocava Tau, il bambino-sole.
115
costringono la rappresentazione ad uno sviluppo
necessariamente verticale.
Visto con l’occhio della prospettiva, il punto centrale, ovvero il
rombo che misura maggior ampiezza, appare innalzato,
avanzato verso lo spettatore.
All’interno dello si’kuli si danza il peyote.
Questa volta non solo i pellegrini partecipano all’Híkuri Neiáli35:
persino i bambini si ritagliano il loro spazio.
Un’occasione simile non capita certo ogni giorno, ed io cedo
alla voglia di prendere parte a quel cerchio festante.
Due colpi con il piede destro, uno con il sinistro: questo il ritmo
dettato da chi trascina la fila, per cinque volte attorno alle sedie
degli anziani, che sonnecchiano tra la polvere alzata dai passi, e
poi all’interno del calihuey, abbracciati sul posto, sopra la pedana
dei “cantadores”, dando le spalle all’uscio ed il viso alle offerte
lasciate a fianco di Tatata.
Fuori dal calihuey, Jesus mi guarda compiaciuto: ha piacere che
gli invitati alla celebrazione dividano con i pellegrini i passi della
danza.
È proprio vera quella regola non scritta: la pratica vale mille
teorie.
L’interno del cerchio è caotico e rumoroso: il battere continuo
dei piedi scandisce il tempo alle voci che si mischiano in un
unico suono ovattato e confuso.
Solo fuori dall’area dei danzatori mi accorgo che nessun canto
accompagna i passi, o ne viene accompagnato; come un motivo
scomposto in fraseggi, si alternano le voci di questo e quel
danzatore senza un ordine stabilito, a volte senza neppure
aspettare che chi ha già la parola termini ciò che ha da dire.
35
Híkuri Neiáli: letteralmente, danza del peyote.
116
L’impressione è quella di trovarsi davanti, non ad uno scambio
di battute, piuttosto ad una riflessione, che ogni tanto sale dal
cuore alla bocca, e dalla bocca alle orecchie di tutti, che, ripeto,
pare proprio che non se ne curino.
“Che cosa dicono?” domando.
“Lui sta dicendo che ha tradito la moglie; ora può dirlo perché
gli dei, a Wirikuta, lo hanno perdonato”.
Si riferisce, evidentemente, alla confessione di cui mi ha parlato
doňa Aureliana36.
Nello specifico, la confessione del popolo wirrarika ha ben poco
a che vedere con quella cristiana: anziché in un confessionale
appartato, come se ne trovano in ogni chiesa, i pellegrini
confessano i loro peccati davanti a tutti, alla luce del saggio
Tatewari.
È la lussuria il peso maggiore nell’anima degli huicholes: con gli
occhi al fuoco, la voce di ogni pellegrino snocciola, uno dopo
l’altro, i nomi delle persone con cui ha avuto rapporti sessuali,
fossero anche presenti.
Ogni nome è una tacca nella fune della vita, che il mara’ákame
annoda prima di gettarla alle fiamme.
Qualcosa di analogo succede ora all’interno del templo: con un
tizzone ardente, sottratto al fuoco principale, Pancho ricalca la
sagoma dei presenti, per poi gettarlo, nuovamente, nel rogo.
È questa la “limpia” spirituale, la purificazione dell’anima.
Ne esiste una materiale, non meno importante: mens sana in
corpore sano, dicevano i latini, ed è indiscusso il fatto che il
temazcal37 abbia effetti terapeutici.
D’origine azteca, prima dello sbarco spagnolo era parte
integrante della medicina tradizionale: in particolare, come
Cfr. paragrafo 2.4: “Wirikuta”.
Temazcal è un nome composto di due parole in lingua nahuatl: tema, che
significa “bagno” e calli, “casa”.
36
37
117
ancor oggi avviene, al suo interno si rilassavano le donne in
dolce attesa, ma ad ambo i sessi erano indirizzati i suoi vapori.
Non è difficile immaginare quale effetto fece ai conquistadores
questa sorta di bagno turco, in fango e pietra, in cui uomini e
donne si recavano nudi e senza alcun divisorio; l’ottusità del
tempo classificava come vizioso ed immorale l’atto del
“toccarsi”: che il fine fosse erotico od igenico, poco importava
agli occhi del Signore.
Non è certo mia intenzione fare della polemica gratuita, ma il
fatto che la stessa regina d’Aragona amasse far vanto d’essersi
lavata soltanto due volte in tutta la sua vita non è retorica: è
storia.
Comunque i temazcal vennero distrutti, e cento frustate
attendevano la schiena di chi ne avesse costruiti di nuovi; chiusa
la parentesi.
Quando la danza riprende, dopo un’ora circa, salta ai miei occhi
un particolare che, precedentemente, non avevo notato; attorno
agli anziani il circolo si snoda in due direzioni: cinque volte in
senso antiorario, cinque in senso orario.
Un
voltafaccia
che
contraddice,
apparentemente,
quell’accostamento così palese tra regressione temporale e
rinascita morale.
In verità, la rinascita necessita della morte quanto la morte della
vita: questo è il circolo, l’azzurra via di Jaicu yuave: “per donare la
vita ad un infante, un cervo deve trovare la morte”, conclude la
terza canzone del peyote.
Capisco di trovarmi di fronte alla mimesi della caccia al cervo; il
raggiro, l’uccisione, la rinascita… e ancora il raggiro:
…una via infinita è quella che segue la linea infinita, a
spirale, della forma elementare e originaria del
labirinto: il meandro.
Questa forma è in origine una figura di danza: «Se
danzando si esegue una spirale -la cui riproduzione
118
disegnata ad angoli retti è appunto la linea a meandroe al termine del movimento circolare si fa un
voltafaccia, si ritorna al punto di partenza.
Sia la spirale sia il meandro vanno intesi come percorsi
che si fanno involontariamente avanti e indietro, se si
continua a seguirli».
Il labirinto non era quindi affatto, come oggi
l’intendiamo, un luogo in cui ci si smarrisce, ma un
luogo nel quale, grazie ad una conversione che si
effettua nel suo centro, si riprende la strada gia fatta
per tornare verso la luce.
[…] Il labirinto è dunque, in origine, nient’altro che il
tracciato di una danza; una danza che è il modo di
avanzare richiesto da una via che ripiega su se stessa: il
«voltafaccia», la «conversione», è la figura specifica di
questa danza.
La linea che essa segue è la linea infinita
dell’immortalità...38
Ancora ed ancora si ripete la danza, noncurante del fatto che il
sole abbia ormai abbandonato la sierra, e la temperatura si sia
fatta piuttosto rigida.
Jesus mi fa cenno si seguirlo, proprio di fronte al calihuey, dove
un nuovo fuoco si è, da poco, levato dal campo.
Mi spiega che sto per assistere alla conclusione ufficiale
dell’Híkuri Neirra, e mi raccomanda di stare ben attento, prima
di unirsi al gruppo.
Pancho recita la solita, incomprensibile, lauda e i pellegrini
rispondono.
Una donna distribuisce piccole dosi di mais appallottolato che,
ciclicamente, vengono gettate tra le fiamme.
Senza interrompere questa operazione viene srotolata la corda
wikuyau, passata sopra ogni testa e poi, anch’essa, arsa.
Infine è l’acqua a venire gettata sul fuoco.
CARLO GENTILI, A partire da Nietzsche, Marietti, Genova, 1998, pagg. 162163
38
119
Tra i bracieri ancora caldi, tutti si abbracciano; qualcuno piange.
Non mi va di disturbare Jesus in un momento che capisco
essere per lui molto importante; tanto più che Felipe è a pochi
passi da me: “questa è la conclusione della festa del peyote?” gli
domando.
“Sì…” mi risponde “ora tutti festeggeranno bevendo birra fino
a domani, perché è andato tutto bene”.
Mi spiega che il mais gettato alle fiamme è il cibo per nutrire il
Nonno Fuoco, o il Cervo, che dir si voglia, e che l’acqua
gettatagli non ha funzione di reprimerlo, bensì di dissetarlo.
“E ora?” domando, ansioso di saperne il più possibile “Che si
stanno dicendo?”.
“Si stanno salutando, perché i pellegrini delle altre comunità, a
breve, lasceranno Tatei Kie.
Dicono che sperano di incontrarsi tutti il prossimo anno, che
nessuno di loro muoia o si ammali”.
Non passa molto che Felipe riprende: “hai visto, là?” mi chiede
sorridendo, illuminando con la sua torcia un palo nell’ombra
che, finora, non avevo notato.
Come issata su una picca, svetta la testa dell’agnello sacrificato.
120
PARTE SECONDA:
IL PELLEGRINAGGIO A WIRIKUTA
Capitolo 5: IL PELLEGRINAGGIO A WIRIKUTA
5.1 IN VIAGGIO
I preparativi fervono nei mesi che separano la passata
celebrazione del peyote dal pellegrinaggio nella sacra terra di
Wirikuta.
È ormai gennaio, ed ogni pellegrino ha con sè le sue candele, le
sue jicaras… in generale le offerte con le quali omaggerà gli dei
durante il cammino.
C’è chi porta del tabacco (muchuchi, in lingua nahuatl),
considerato il cuore del fuoco, avvolto in una foglia secca di
mais, la cui importanza non è legata ad alcun vizioso piacere,
bensì alla capacità di creare fumo, perché è il fumo che anticipa
la pioggia: ricordiamo che fu il suo acre odore ad avvertire
Komateáme quando Tuamurrawi terminò il suo lavoro39.
I pellegrini raccolgono le piume di tacchino per ornare i
copricapi e le donne preparano tortillas, che saranno l’unico
alimento di quel lungo viaggio: sono infatti circa cinquecento i
chilometri che separano la sierra dalla sacra montagna.40
Chi non può, per un motivo o per l’altro, partire, delega ai più
fortunati i propri doni; all’interno del calihuey, il mara’ákame
stringe in pugno le funi della confessione e la corda wikuyau.
Argomento trattato nel paragrafo 3.3: “Tuamurrawi nella casa del mais”.
Questa distanza, che un tempo veniva affrontata a piedi, viene oggi
colmata con l’ausilio di mezzi di trasporto, per la maggior parte forniti, al
popolo huichol, dall’I.N.I. (Instituto National Indigenista).
Più che il tempo disponibile (anticamente il pellegrinaggio occupava circa
due anni della vita di ogni indigeno), è la morfologia del terreno ad aver
subito un cambiamento radicale di modernizzazione: come è successo in
tutto il mondo, dove prima le piogge bagnavano il terreno, oggi il calore dei
pneumatici abbronza l’asfalto.
39
40
121
Tutto ricomincia dove si era concluso: di nuovo i pellegrini
affollano il cortile del templo, dove l’avo Tatewari è tornato a
brillare.
Alla sua luce le offerte vengono raccolte e lavate, in una parola:
purificate.
Dedicherò questa seconda parte del mio lavoro non al cammino
in sè, del quale, con le sue difficoltà ed i suoi mille, possibili,
imprevisti, si sono già occupati molti ottimi autori41, ma ad una
riflessione su quella che credo sia l’essenza stessa di questo
lungo viaggio: l’iniziazione, ovvero la rinascita spirituale
dell’uomo, in quanto
Il termine iniziazione, nel suo senso più generale,
indica un complesso di riti e di insegnamenti orali il cui
fine è quello di produrre una radicale modificazione
dello stato religioso e sociale della persona che deve
essere iniziata.
In termini filosofici, l’iniziazione equivale a un
mutamento ontologico nella condizione esistenziale.
Il novizio esce dalla prova rituale come un essere
totalmente diverso: è divenuto un altro.42
Sono sette le soste che frammentano il viaggio, ed ognuna è
caratterizzata dal proprio, particolare significato; a volte legato
al luogo, a volte alla distanza ed alla necessità umana di
“riprendere fiato”.
La prima è Chapalangana, a circa un’ora da Guadalajara, nello
stato di Jalisco.
Cito, ad esempio: VICTOR SANCHEZ, I Toltechi del nuovo millennio, AMRITA,
Torino, ed ARTURO GUOTIÉRRIEZ, La peregrinación a Wirikuta, Instituto
National de Antropología e Historia, Universidad de Guadalajara.
42MIRCEA ELIADE, La nostalgia delle origini – Storia e significato nella religione,
Morcelliana, Brescia, giugno 2000/3, pag. 129
41
122
5.2. LA PRIMA SOSTA: CHAPALANGANA
È qui che si consuma il rito della confessione.
Anche se in modo sommario, già conosciamo l’imbarazzante
svolgersi del rituale: ogni pellegrino viene chiamato dal
mara’ákame a rendere conto delle sue trasgressioni sessuali, che
siano state compiute in solitudine, con uomini, donne o persino
animali, non fa nessuna differenza; ciò che conta è arrivare al
peyote in uno stato di purezza interiore.
Quello che rende abissale la diversità con la confessione del
credo cristiano è l’assenza del pentimento e, soprattutto, della
penitenza, conditio sine qua non di riconciliazione con il divino.
Si tratta, piuttosto, di un doloroso sfoggio di se stessi a se stessi,
senza gerarchie d’ordine o d’intercessione: nessuno fa le veci di
nessuno, neppure l’essere un mara’ákame esonera da quest’atto
di deiscenza.
Una presa di coscienza lacerante, che fende le carni umane, fino
a scovare il più intimo tra i segreti per poi gettarlo al fuoco; qui
il corpo dei viandanti comincia a svuotarsi del superfluo, per
divenire involucro della visione essenziale, caldo giaciglio in cui
germoglierà il sacro cactus.
Ricordo di aver sentito Eugenio Barba parlare a proposito dello
“svuotamento” qualche anno fa, durante una conferenza tenuta
a Bologna.43
Nonostante le mie ricerche, non sono riuscito a trovare una
trasposizione dattilografica delle parole del regista, né una
registrazione filmata dell’evento… poco male, ero tra il
pubblico, allora alle prese con il mio esame di “storia del
teatro”, e conservo ancora il quaderno con tutti gli appunti
presi.
43 Si tratta della conferenza che Eugenio Barba tenne il 7 novembre 1998 al
teatro “Arena del Sole” di Bologna, in occasione dei festeggiamenti per i
compiuti quarant’anni dell’Odin Theatret.
123
In quell’occasione Barba paragonò l’uomo ad un vaso,
parafrasando il Dante, dubbioso del cammino, del secondo
canto infernale, al suo incontro con Virgilio:
Andovvi poi lo Vas d'elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.44
Vas d'elezione, quindi: il vaso della scelta, il recipiente colmo di
grazia divina, che peccando si svuota e che torna a colmarsi di
Dio con la confessione.
Non si contemplano organi, né esigenze fisiche: il corpo torna
ad essere ciò che era: involucro perfetto ed eterno, perchè
eterna è la voce degli dei che lo saturano.
In termini sicuramente più duri si esprimeva Antonine Artaud,
auspicandosi il ritorno ad un “corpo originario”:
Il tempo in cui l’uomo era una albero senza organi né
funzione, / ma di volontà che cammina / ritornerà. /
Esso è stato e ritornerà. / Perché la grande menzogna
è consistita nel fare dell’uomo un organismo /
ingestione, assimilazione, / incubazione, escrezione, /
ciò che era creò tutto un ordine di funzioni latenti e
che sfuggono / al dominio della volontà / deliberatrice /
la volontà che decide di sé in ogni istante; / poiché
quell’albero umano che avanza questo era: / una
volontà che decide di sé ad ogni istante, / senza
funzioni occulte, soggiacenti regolate dall’inconscio.
[…] E dell’albero corpo, / ma volontà pura che
eravamo, / hanno fatto questo alambicco da merda, /
questa botte di distillazione fecale, / causa di peste, / e
di tutte le malattie, / e di questo punto di debolezza
44
DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Inferno, canto II, vv. 28-30
124
ibrida, / di tara congenita / che caratterizza l’uomo
nato.45
Ed è ancora Artaud l’autore del proclama: “Or c’est l’homme
qu’il faut maintenant se décider à émasculer” 46 (è l’uomo che
adesso bisogna decidersi ad evirare), identificando nella
sessualità il fulcro dell’inutile dissipamento energetico, nel
sesso maschile la crepa che continua a perder vita.
5.3 LA SECONDA SOSTA: ZACATECAS
È questa la città che ci consente di approfondire l’intrusione
della religione cristiana nel pantheon huichol: nella principale
chiesa della città, consacrata alla Vergine di Guadalupe, i
pellegrini si fermano a lasciare offerte, affinché il resto del
cammino si svolga senza intoppi.
È quantomeno singolare il fatto che una manciata di indios si
raccomandi a mani cristiane e colonizzatrici affinché un rituale
d’antico animismo si svolga nel migliore dei modi… prendiamo
ad esempio la discussione tra don Pedro de Haro e Victor
Sanchez, a proposito delle influenze religiose subite dal popolo
huichol:
Nella nostra religione, a differenza di quella dei tewaris
(meticci o bianchi), non è questione di credere, ma
piuttosto di vedere. Guarda, ti dirò quello che ho detto
ad un gringo, uno di quelli che si fanno chiamare
pastori e che pensa che siamo tutti del suo gregge.
ANTONINE ARTAUD, Lettera a Pierre Loeb del 23 aprile 1947, da MARCO
DE MARINIS, La danza alla rovescia di Artaud, I Quaderni del Battello Ebbro,
Porretta Terme (BO), 1999, III parte, cap.3, pag.154
46 ANTONINE ARTAUD, Pour en finir avec le jugement de dieu, da MARCO DE
MARINIS, La danza alla rovescia di Artaud, I Quaderni del Battello Ebbro,
Porretta Terme (BO), 1999, pagg. 14-15
45
125
Era ostinato: e dài con Cristo, e dài con la Bibbia, e
allora gli ho detto:
- Bene, bene, come la mettiamo? Come fai a sapere ciò
che Cristo faceva o non faceva? Allora? L’hai
conosciuto?
- Beh, non di persona.
- E conosci qualcuno che l’ha conosciuto di persona?
- Naturalmente no, è vissuto duemila anni fa.
- Duemila anni fa??? Stai scherzando! E come fai a sapere
se è esistito o se si tratta solo di favole?
- Beh, abbiamo la sua parola qui sulla Bibbia.
- Oh, povero me, siamo fritti! Io non so nemmeno
leggere! E poi venite a dirci che gli indiani sono stupidi
perché credono nella Terra e nel Sole.
Stupidi, stupidi! Ma non c’è bisogno che qualcuno mi
racconti di Tatei Urianaka (la Terra) perché la vedo
tutti i giorni!
E tutti i giorni ricevo i suoi frutti, mais, acqua e fagioli.
Posso toccarla, camminarci e viverci sopra! E Tau (il
Sole). Ogni giorno ricevo il suo calore e il suo nierica
(luce, conoscenza, visione, insegnamento). Io non
devo far altro che guardare in su, per trovarlo.
E inoltre, cosa produceva Cristo? Per quanto ne so io
non ha mai prodotto nulla, mentre la Terra basta
guardarla: non fa che produrre ogni istante! E ci
alimenta ed è così che viviamo.
Allora? Chi sono gli sciocchi?
È così che ci siamo sbarazzati di quel pastore, ecco
perché tutti i tipi di quel genere non sono mai stati
capaci d’entrare qui, né loro nè gli altri!47
Pare invece che la storia smentisca la ferma convinzione di don
Pedro: in primis il termine “indio”, che si deve ovviamente agli
VICTOR SANCHEZ, I Toltechi del nuovo millennio, AMRITA, Torino, 1999,
pag.161
47
126
errati calcoli di Cristoforo Colombo, ancor oggi in uso,
dimostra quanta poca rilevanza abbia avuto, agli occhi del
“vecchio mondo”, una millenaria cultura, il cui unico errore fu
quello di trovarsi sulla rotta per le Indie e quanto, invece, abbia
influito sui nativi la nuova “civiltà”.
Colombo credeva fermamente di aver attraccato sulle solari
spiagge di quel Paradiso terrestre, narrato dalla Bibbia,
confondendo le correnti incontrate nel golfo di Paria con gli
efflussi dei quattro fiumi dell’Eden.
I nuovi confini del mondo assumevano quindi, primariamente,
un’importanza escatologica, secondo la quale l’indio, figlio della
corrotta dinastia di Adamo ed Eva, doveva essere convertito al
cristianesimo o soppresso in nome di Dio.
In una lettera, indirizzata al principe Giovanni, figlio di Isabella
e Ferdinando, l’avventuriero genovese scrisse:
Dio ha fatto di me il messaggero dei nuovi cieli e della
nuova terra di cui Egli parlò nell’apocalisse di san
Giovanni, dopo aver parlato di ciò attraverso la bocca
di Isaia; ed Egli mi ha indicato il luogo in cui
trovarla.48
Il rinvenuto Paradiso, verso il quale le imbarcazioni facevano
rotta, si rivelò ricco, oltre che d’anime da convertire, di minerali
da estrarre e nuove terre da sfruttare.
Non solo gli europei, però, avevano un credo religioso: caso
volle che il ventuno aprile millecinquecentodiciannove, anno in
cui Hernán Cortés raggiunse le coste messicane, coincideva
con la data fissata nel calendario azteca per il ritorno in patria di
Quetzalcoatl, il serpente piumato.
MIRCEA ELIADE, La nostalgia delle origini – Storia e significato nella religione,
Morcelliana, Brescia, giugno 2000/3, pag. 106
48
127
Fu quindi, per il sovrano Montezuma II, motivo di gaudio la
notizia che “torri galleggianti” stessero sbarcando sulle vicine
coste.
Accolti come dei, gli spagnoli trovarono terreno di fertile
alleanza tra i popoli sottomessi al principale impero: con il loro
aiuto, Montezuma II fu spodestato dal suo palazzo.
Sotto la dominazione spagnola la vita dei popoli amerindi non
migliorò di certo: le malattie portate dagli invasori e
l’instaurazione di un regime schiavistico fecero sì che, nell’arco
di circa ottant’anni, il numero degli abitanti originari della
Nuova Spagna, era questo il nome del Messico della conquista,
calasse di ventiquattro milioni di persone.
Facile intuire come i nuovi proprietari terrieri accumularono, in
tempi anche ridotti, grandi fortune, prosciugando nelle miniere
la vita dei nativi.
Tutto questo, è giusto ricordarlo, legittimato da un “assoluto
credo” che, già in epoca medioevale, si elevava ad unico latore
di volontà divina.
Imporla ai “selvaggi” era dovere di ogni buon cristiano, a costo
della vita.
È forse a questi “eroi” che dobbiamo la birra, la tequila, la
figura di Tatata, le campane con inciso il logo J.H.P., Jesus
Hominum Pastor, (che portano data “millenovecentoquindici”, a
riprova che l’opera di conversione non si esaurì in pochi anni,
ma persiste ancor oggi) davanti alla chiesa di Tatei Kie, la
mutazione di questo nome con quello di un santo ed il rituale
che il mara’ákame compie, nella chiesa di Zacatecas, prima di
rimettersi in viaggio: dopo aver bagnato il suo muvieri nell’acqua
benedetta, accarezza la fronte di ogni pellegrino.
128
5.4 LA TERZA SOSTA: BAUZ
Questa terza sosta, più che da un’importanza caratteristica del
luogo, è giustificata dalla distanza che ancora divide i pellegrini
dalla località di Villa de Ramos, di ben altro spessore culturale.
A Bauz si conclude il “battesimo” cominciato a Zacatecas.
La rinascita huichol, come il senso del peccato, non è legata a
questioni morali, ma energetiche.
Ogni pellegrino viene investito di un nuovo nome, legato alla
località in cui, o alla divinità alla quale, porterà i propri omaggi.
La prassi non è nuova: tutto si svolge sotto lo sguardo dell’avo
Tatewari.
Ad ogni pellegrino il mara’ákame affida un pezzetto di legno, che
questi punterà nella direzione in cui si incarnano,
metafisicamente parlando, i propri doveri rituali, scandendo il
nome della divinità legata al luogo indicato.
Ad esempio, il pellegrino volgerà il suo ramo ad est scandendo
secco la parola: Tau!, prima di rigettarlo nel fuoco.
È forse questo il culmine dello svuotamento: l’abbandono del
proprio nome, al quale sono legati gli affetti della genealogia più
recente, per poter, al di là di se stessi, vedere.
Mi si passi il gioco di parole ma, parlando di visioni, non si può
vedere essendo visti, perchè
quelli che vedono, non vedono quello che vedono,
quelli che volano sono essi stessi in volo.
Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più
che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che
vedono… Se vuoi stringere sei tu l’amplesso; quando
baci, la bocca sei tu…49
49CARMELO
82
BENE, Sono apparso alla Madonna, Bompiani, Milano, 2005, pag.
129
Siamo ormai prossimi alle porte di Wirikuta: bisogna esser
leggeri a ricalzar le impronte degli dei.
5.5 LA QUARTA SOSTA: VILLA DE RAMOS
È questa la prima porta di Wirikuta, ed è pericoloso
attraversarla senza essere preparati.
Qui vengono bendati gli occhi a chi per la prima volta
l’oltrepassa, perché la luce di Reunar non li accechi.
Quella della luce, a rappresentazione del divino, è una metafora
comune alle più svariate religioni; basti pensare alle parole del
credo cristiano: “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio
Vero” per averne, seppur parzialmente, conferma.
Il Corano, ad egual maniera, difende questa affermazione con le
parole:
Dio è la luce dei cieli e della terra.
La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova
una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è
come un astro brillante; il suo combustibile viene da
un albero benedetto, un olivo né orientale né
occidentale, il cui olio sembra illuminare senza
neppure essere toccato dal fuoco.
Luce su luce.
Dio guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone
agli uomini metafore. Dio è onnisciente.”50
Lo stesso Dante, nel significare la visione di Dio, nell’ultimo
canto del Paradiso, racchiude l’essenza del divino nella parola
“luce”: quanto più il poeta le si avvicina, tanto più essa aumenta
di potenza.
50
Santo Corano, An-Nûr - 35
130
Scrive infatti:
Io credo, per l'acume ch'io soffersi
del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.51
È luce l’occhio di Dio, la visione stessa dell’universo:
O abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s'interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna.52
Sta nella luce il riassunto del mondo, la spiegazione del perché
di ogni gesto, la riunione di ogni significato:
Non perché più ch'un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch'io mirava,
che tal è sempre qual s'era davante;
ma per la vista che s'avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom'io, a me si travagliava.53
Quali riflessi di luce, l’uno sull’altro, vengono, dal poeta, definiti
il Padre, il Figlio ed il sacro respiro:
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 76-78
DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 82-87
53 DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 109114
51
52
131
di tre colori e d'una contenenza;
e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.54
È descrizione di Dio, infine, “luce etterna”, essenza pura che
trae vigore da se stessa:
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!55
Papa Benedetto XVI si è espresso, a proposito dei canti appena
trattati, in questi termini:
L'escursione cosmica, in cui Dante nella sua “Divina
Commedia” vuole coinvolgere il lettore, finisce davanti
alla Luce perenne che è Dio stesso, davanti a quella
Luce che, al contempo, è “l'amor che move il sole e l'altre
stelle”.
Luce e amore sono una sola cosa. Sono la primordiale
potenza creatrice che muove l'universo.
Se queste parole del poeta lasciano trasparire il
pensiero di Aristotele, che vedeva nell'eros la potenza
che muove il mondo, lo sguardo di Dante tuttavia
scorge una cosa totalmente nuova ed inimmaginabile
per il filosofo greco.
Non soltanto che la Luce eterna si presenta in tre
cerchi ai quali egli si rivolge con quei densi versi che
conosciamo: “O luce etterna che sola in te sidi, / sola
t'intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!”.
In realtà, ancora più sconvolgente di questa rivelazione
di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore
DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 115120
55 DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 124127
54
132
è la percezione di un volto umano, il volto di Gesù
Cristo, che a Dante appare nel cerchio centrale della
luce.
Dio, luce infinita il cui mistero incommensurabile il
filosofo greco aveva intuito, questo Dio ha un volto
umano e, possiamo aggiungere, un cuore umano.56
Giunti al compimento di questo breve excursus, siamo tornati al
punto di partenza: al concetto di identificazione dell’umano con
il divino, che a Villa de Ramos si imprime nel volto dei
pellegrini.
La radice gialla che cresce in queste zone, chiamata “urra”, muta
gli umani tratti del volto dei viandanti in quelli di sette principali
divinità:
Tatewari, il nonno fuoco
Tatutsi Maxacuaxi, il bisnonno Coda di Cervo
Tau, il Sole
Sakaimo’ka, il Sole di ponente
Tamatsi, il fratello maggiore
Tatei Nihuetsica, la madre del mais
Nariwame, la messaggera della pioggia57
La congerie di elementi, figurativi ed astratti, difficilmente adorna
il viso dei pellegrini in modo speculare; sono, infatti, pressoché
illimitate le varianti consentite dai due temi principali: la linea ed
il circolo.
Una forma basica come quella del cactus peyote (un cerchio
diviso internamente in spicchi), viene, ad esempio, agghindata,
spesso e volentieri, di puntini o lineette, interne ed esterne.
56 Frammento del discorso che Benedetto XVI tenne all’incontro, promosso
dal Pontificio Concilio “Cor Unum”, sul tema “ma di tutte più grande è la carità”
(1 Corano 13,13) in data 23 gennaio 2006.
57 Cfr. allegato a conclusione della “seconda parte”.
133
Lo stesso vale per ogni elemento figurativo: dai cervi, che
caratterizzano il volto di Tamatsi, agli uomini, sulle tempie di
Tatewari.
Legati al più stretto concetto di visione sono invece gli elementi
astratti, perlopiù cerchi concentrici e circoli a spirale.
Pur mancando di veri e propri codici figurativi, gli ornamenti
“punto” e “linea” vengono identificati con i concetti di nube e
pioggia, garantendo uno straordinario dinamismo ad un profilo
che trova, spesso, nello zigomo opposto, la sua sembianza
statica ed umana.
Un secondo esplicativo esempio, è quello del simbolismo che,
idealmente, lega le antistanti figure dell’aquila sul volto di Tau,
alta in cielo, per natura, come il sole allo zenit e del millepiedi
che, stagliato tra i lineamenti di Tamatsi, è simbolo del legame
con il regno dei morti, trovando vita nel putridume dei tronchi
delle piovose conifere.
Il cammino prosegue, passando per la località di Agua
Medionda, sosta minore e di puro riposo in cui vengono tolte le
bende ai neofiti, fino alle umide strade di San Juan Tuzal.
5.6 LA QUINTA SOSTA: SAN JUAN TUZAL
L’importanza di San Juan Tuzal sta nel fiume che lo attraversa:
qui i pellegrini lavano via la stanchezza del viaggio, prossimo
ormai al suo compimento.
La riflessione legata a questa quinta sosta è, ancora una volta, di
carattere spirituale; oltre che utile, dato il già citato ristoro, le
donne e gli uomini in viaggio considerano sacre queste acque, e
di buon auspicio il bagnarvicisi: chi per domandar, per sè, grazie
e favori, come la salute o il denaro, chi per conto d’altri, quali,
ad esempio, la fertilità.
134
Come la luce, quello dell’acqua è un concetto ricorrente nella
religione, qualunque essa sia: canta l’ebraismo che lo spirito di
Yahweh,58 all’alba dei tempi, apparve all’uomo aleggiando
sull’acqua; recita il Corano che “nessuno può rifiutare l’acqua in
eccedenza senza peccare contro Allah e contro l’uomo”.
Ogni mattina gli induisti si immergono nel Gange recitando i
testi vedici, sollevando fin sopra il capo le mani, congiunte a
coppa, piene di acqua; allo scorrere del fiume vengono anche
affidate le ceneri dei defunti, passati a miglior vita attraverso la
purificazione del fuoco.
Tre sono le divinità acquatiche del Candomblè brasiliano:
Yemanjà, divinità del mare, Oxun, dell'acqua dolce e NanaBuruku, dea delle acque paludose.
Tornando al nostro studio, abbiamo già affrontato l’argomento
parlando del diluvio, cagione della vita pienamente umana, e
delle ere solari del credo azteca.
Ma che cos’è l’acqua, per i popoli?
Una riflessione tout-court porterebbe a pensare, in modo un po’
banale, ma di certo non errato, che sia fondamentalmente il
“riassunto”, il “Bignami” della vita: basti pensare a quanta acqua
è presente nel nostro corpo o a quanta differenza fa alla terra, la
presenza o la mancanza di essa, al fine del frutto.
Mircea Eliade ne dà una definizione, a parer mio, completa ed
interessante:
Principio dell’indifferenziato e del virtuale,
fondamento di ogni manifestazione cosmica,
ricettacolo di tutti i germi, le acque simboleggiano la
sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme, e
alle quali tornano, per regressione o cataclisma.
Le acque furono al principio, e tornano alla fine, di
ogni ciclo storico o cosmico; esisteranno sempre, però
mai sole, perché le acque sono sempre germinative, e
58
Cfr. libro della genesi 1,1
135
racchiudono nella loro unità indivisa le virtualità di
tutte le forme.
Nella cosmogonia, nel mito, nel rituale,
nell’iconografia, le Acque svolgono la stessa funzione,
quale che sia la struttura dei complessi culturali entro
cui si trovano: precedono ogni forma e sostengono ogni
creazione.59
Pensiamo al gioco di un bambino, ad un castello di sabbia in
preda all’onda: tutto nell’acqua si dissolve, ogni forma si
disintegra e l’immersione assume connotati di morte,
catastrofica agli occhi di quel bambino che del castello aveva
fatto il suo regno.
È anche vero, però, che quello che rimane è nuova sabbia da
plasmare, morbida, di nuovo vergine di storia, in una parola:
pura.
Lo stesso battesimo pone fondamenta nel simbolismo
dell’immersione, dove il bambino rinasce sotto l’ala protettrice
del Creatore, seppellendo il peccato e le sue mille forme.
Proprio nelle sacre scritture troviamo le parole che annodano
l’immersione battesimale al sacrificio del Cristo: “ignorate voi che
noi tutti battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua
morte?”
domanda San Paolo60.
È questo il senso simbolico dell’immersione: l’uomo,
annegando, muore e ne esce purificato, rinato, risorto.
Noi dunque siamo stati sepolti con lui mediante il
battesimo per la morte, affinché, come il Cristo è
59 MIRCEA ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri., Torino,
2004/5, pagg. 169-170
60 SAN PAOLO, Lettera ai romani, Rm 6,3-4
136
resuscitato dai morti per la gloria del Padre, noi
camminiamo nello stesso modo in nuova vita.
Poiché se abbiamo partecipato, per imitazione, alla sua
morte,
parteciperemo
ugualmente
alla
sua
61
resurrezione.
Anche in questo caso sono parole del Vangelo: il fatto che la
simbologia del Cristo venga poi riassunta nel sacrificio della
croce, piuttosto che nel miracolo della resurrezione, è forse la
cosa che maggiormente ci differenzia dalla cultura wirrarika,
nella quale, lo abbiamo già detto, non si tratta tanto di
“credere”, quanto di “vedere”; non tanto di morire, quanto di
rinascere.
5.7 LA SESTA SOSTA: COTOTILLO
Cototillo è la seconda, più pericolosa, porta di Wirikuta.
Neppure avrebbe, ormai, grande senso fermarsi, tanto vicina è
Reunar, la montagna sacra.
Credo, ma è mio parere, che questa sosta sia dedicata
soprattutto alla riflessione… se pur ben preparati, i pellegrini
stanno per incontrare le loro divinità: stanno per ascoltare le
voci degli avi.
5.8 L’ARRIVO A WIRIKUTA: REUNAR
Wirikóta Wirikóta
Dove le Rose nascono
Dove le Rose sbocciano
61
SAN PAOLO, Lettera ai romani, Rm 6,3-5
137
Ghirlande di fiori
Turbini di vento
Wirikóta.
Là, ai piedi di Reunar
Respirano le Rose
Soffio divino
Rugiada.
Dal cuore del Jíkuri
La nebbia sale
Azzurro Cervo sale
La pioggia scende
Azzurro Cervo scende.
Germoglia il Mais
La rosa sboccia
E canta la Rosa:
Io sono il Cervo
E canta il Cervo:
Io sono la Rosa.
A Wirikóta si ode il canto.
Cantano i Nostri-Padri, le Nostre-Madri,
I Monti, le Colline cantano
E cantano i Fiori.
Solo là a Wirikóta si ode il canto della vita
Solo a Wirikóta
Solo là si ode.62
MARINO BENZI, I canti del cervo azzurro, La Piccola Editrice, Celleno (VT),
1996, pag. 14
62
138
Non credo servano, giunti ormai alla fine del nostro cammino,
parole esplicative delle metafore racchiuse in questo bellissimo
canto, che riassume in poche righe tutto quello che è stato detto
finora, traendone l’essenza: E canta la Rosa: / Io sono il Cervo / E
canta il Cervo: / Io sono la Rosa.
Proprio come fosse un cervo, infatti, viene cacciato, dai
pellegrini, il cactus peyote.
I cacciatori non prestano, in un primo momento, attenzione ai
cactus isolati: muovendosi lentamente, guardinghi e silenziosi,
cercano la famiglia, l’agglomerato di peyote, la cui forma ricordi
la testa del cervo.
Nel momento in cui viene scovato, il gruppo si riunisce attorno
ad esso: posto al centro di quattro frecce, volte ai punti
cardinali, il mara’ákame, o il kawitero se presente, lo taglia e lo
distribuisce tra gli astanti.
Da questo momento, ciò che abbiamo definito “caccia”, diviene
“raccolta”, libera e senza schematismi, alla quale partecipano
tutti, fatta eccezione per chi, anche in nome degli altri, si
allontanerà fin sulla cima di Reunar per recare dono a Tau nel
luogo della sua nascita.
Ricomposto il gruppo, a sera, anche il raccolto viene riunito:
pur pensando di portarne buona parte a casa, per coloro che
non sono potuti partire e per la prossima celebrazione
dell’Híkuri Neirra, ne resta abbastanza da colmare il corpo e la
mente, perché il vaso si apra alla visione.
5.9 NIERICA, LA VISIONE DEGLI DEI
Non è facile, neppure per un indio huichol, definire questa
parola: nierica.
Non lo è perché materialmente divina, duplice nella sua
sostanza: non si esaurisce nel concetto, già di per sé vago, di
visione.
139
Nelle discussioni, a questo proposito, con Juan Carrillo Carrillo,
maestro d’arte huichol, oltre che coordinatore generale della
comunità, metafore come “el instrumento para ver”, lo strumento
per vedere, o “la red para atrapar el venado”, la rete per catturare il
cervo, o, ancora, “el ojo que ve de noche”, l’occhio che vede nella
notte, sempre si sostituivano al vero e proprio definire,
arricchendo, tra l’altro, di misticismo quel concetto di così
difficile fattura.
Potremmo chiamarlo “tramite con il mondo spirituale”, o
“specchio nel quale il mara’ákame vede ed ascolta la voce degli
avi”, ma credo, in cuor mio, che nessuna definizione ne esplichi
il senso in maniera più lucida di quella di Juan Negrín:
El nierica se hace para invocar la presencia de
una deidad […] se hace el nierica para
conseguir nierica, el don de la vision.63
(Il nierica si costruisce per invocare la
presenza di una divinità […] lo si costruisce
per conseguire lo stesso nierica, ovvero il
dono della visione.)
Sono parole che, anche se in maniera più rozza, o forse soltanto
meno ragionata, ho già sentito durante il mio primo viaggio in
Messico, quando, ospitato nella casa di Doňa Gaby, cercavo di
far luce su quella strana idea del sacro che lega la croce cristiana
alla piuma.
“È sacro tutto ciò che è importante nella vita” mi spiegava: “ad
esempio, tu sei qui per scrivere la tua tesi… il lavoro che stai
facendo qui è sacro.”
RAÚL ACEVES, TEITERI WAYEIYARI: glosario de cultura huichola,
Secretaría de cultura de Jalisco, Guadalajara, 2005, pg.83, traduzione
dell’autore.
63
140
Solo ora capisco il significato di quel concetto: ogni oggetto
che, nella vita, assume un’importanza particolare per il nostro
essere, sia esso un sasso posto quale punto di riferimento, una
padella con del cibo, l’inchiostro che ha macchiato i fogli che
ora leggete; è sacro in quanto, e quanto, il riferimento indicato
dal sasso, la fame saziata dal cibo, la soddisfazione nel terminare
questo lavoro… preghiera: questa credo sia la migliore
interpretazione della parola nierica.
Sono già molti i tasselli votivi incastonati in questo piccolo
mosaico liturgico; non manca che una tessera per terminare
l’opera: l’offerta del “quadro di filo”, ormai comunemente
chiamato anche in Italia con il termine anglosassone “yarn
painting”.
In queste composizioni si legge la storia del popolo huichol, le
intenzioni ed i presagi: non è raro che maestri di quest’arte
raffigurino, nelle loro opere, visioni riscontrate, nei giorni del
pellegrinaggio, sotto l’effetto del sacro cactus.
Vero pioniere dell’“arte del filo” fu Ramón Medina Silva, morto
ormai da oltre trent’anni64, amico ed informatore
dell’antropologo Peter T. Furst, che gli commissionò una serie
di opere per il museo dell’università di Los Angeles, ricordato
come un uomo in grado di legare fra loro simboli sacri secondo
le leggi dell’artificio narrativo.
A riprova di quanto detto, valga la collezione esposta al Museo
universitario di Storia Culturale della capitale, di quattro opere
dedicate alla battaglia tra Kauyuma’li e Kieli Tediali, tra
l’incarnazione del saggio peyote e lo stregone malefico Datura,
l’albero del vento.
Apriamo una parentesi su quest’ultima pianta, al cui culto era
dedita la gente azteca e tuttora diffusa nella fascia sud-ovest
64
Ramón Medina Silva, 1926-1971.
141
degli Stati Uniti d’America: anche la Datura, che contiene
sostanze topicamente attive e viene usata per curare dolori
reumatici e per sanare contusioni, è in grado, in dosi tossiche, di
indurre alla visione, essendovi la scopolamina e l’antropina tra i
suoi composti psicoattivi.
Anche se non esiste una data certa, è sicuro che il popolo huichol
abrogò il culto della Datura, in favore del peyote.
Nel primo quadro della serie è raffigurato soltanto la Datura.
Nel secondo, la pianta appare nella sua duplice forma: botanica
e divina, mentre s’adopera nel convincere una giovane donna
che la sua carne, il frutto dell’albero del vento, sia buona come
quella del mais e del cervo.
Nel terzo Kauyuma’li, raffigurato con le corna del cervo, attacca
il nemico mentitore, che muore nell’ultimo quadro: trafitto da
cinque frecce, ritornerà poi ciò che era, ma sollevato
dall’ambiguità dell’inganno.
Gli “yarn paintings” sono tavolette di legno, sulle quali viene
spalmato un sottile strato di cera d’api e resina.
La prima bozza del quadro viene incisa sulla cera con una punta
acuminata, come quella di un coltello; essendo questo
composto particolarmente corposo e ben propenso
all’essiccatura, viene continuamente esposto al sole ed
ammorbidito dal calore dei raggi.
Una volta delineata la figura, la si riempie con del filo colorato,
dai lati fino al centro, con andamento a spirale, schiacciando
pazientemente il filo nel composto.
I colori usati sono vari, ma sei principalmente si caratterizzano
sugli altri:
Rosso, come il neonato sole ed il sangue
Nero, come l’oscurità della morte
Bianco, come le nubi che portano pioggia
142
Azzurro, colore della conoscenza e del giudizio
Giallo, come il cuore della vampa
Verde, come le piante e l’erba su cui si cammina
Il risultato è uno sgargiante connubio tra antichità preistorica,
tale è la semplicità del tratto, e vitalità, energia, luminosità.
Ho parlato finora del capostipite di quest’arte, Ramón Medina
Silva; chi si recasse nella città di Tepic può invece incontrare,
come è successo a me, il maggior artista contemporaneo
vivente: José Benítez Sanchéz, “Yucauye Cucame, el caminante
silencioso”.
Sarei un ingrato se, per questo incontro, non ringraziassi gli
amici Riccardo ed Antonella per avermi lasciato, all’atrio di un
alberghetto di Tepic, un memorandum con la scritta:
“Ciao Simone, siamo qui anche noi, domani
andiamo da Benítez alle nove.
Se vuoi venire ci vediamo alle otto nella caffetteria.”.
Quella mattina, un indio piuttosto disinibito davanti alla
telecamera di Riccardo, mostrandoci uno yarn painting sul tema
del diluvio, così spiegava i suoi tratti:65
“Molto prima di noi, gli dei scrissero, è scritto, tutto ciò che
accade, tutto quello che sta succedendo: il cambio del mondo.
Molte cose cambieranno, perché così è scritto.
Io nella mia mente vedo una grande quantità di granuli di mais
che si sollevano, come un serpente, attorno al mondo,
eruttando fuoco, fumo e cenere, e questa cenere cade come
pioggia.
Verrà un diluvio, un uragano.
65
È possibile scaricare il filmato, gratuitamente, nel sito: www.mexicoart.it
143
Le cose stanno peggiorando, molte cose in questo anno, molte
rispetto a quello passato, ed ancora di più peggioreranno nel
prossimo!
Siamo prossimi alla fine, al mondo che sprofonda… certo,
questo riguarda noi.
Il mondo non finirà: saremo noi ad andarcene con il vento, con
le pioggia, con le inondazioni”.
Benítez ci mostra, nella sua creazione, come gli spiriti, ora,
stiano ripensando il mondo, perché come chi li ha preceduti,
anch’essi moriranno con questa realtà; poi continua:
“È ora di pensare ad un cambiamento radicale, perché
moriranno molte persone… molti affogheranno, portati dalla
corrente, con l’acqua che arriverà fin sopra i tetti delle case!
Per questo dobbiamo stare ben ancorati alla terra, trattenere le
energie senza disperderle.
Allora non ci succederà nulla: questo è quello che chiediamo”.
“Come lo sai?” lo interrompe Riccardo, incuriosito e, forse, un
po’ preoccupato.
“Lo so perché sono uno sciamano, la terra parla con me, il sole
e tutto ciò che è sacro mi parla e dice… questo animale, ad
esempio, si siede con me e io lo ascolto… anche in questo
momento mi sta parlando.
Questa tartaruga (sono animali raffigurati nel nierica preso in
esame) mi dice che sta per piovere.
Tutti questi animali lo sanno bene!
Questi scarafaggi escono solo quando sta per piovere, prima
non si riesce a vederli, tanto si nascondono, ed ora si stanno
preparando ad uscire.
144
E poi c’è il cervo, che è quello con le corna ed il serpente, che
quando sta per piovere cambia la pelle… completamente”66.
A volte la visione coincide con una fine, ma, si sa, ad ogni fine
segue un nuovo inizio, forse non meno catastrofico… di questo
parlerò nella terza, ed ultima, parte del mio lavoro.
66
Trad. dell’autore.
145
Tatewari, il nonno fuoco
146
Tatutsi Maxacuaxi, il bisnonno Coda di Cervo
147
Tau, il Sole
148
Sakaimo’ka, il Sole di ponente
149
Tamatsi, il fratello maggiore
150
Tatei Nihuetsica, la madre del mais
151
Nariwame, la messaggera della pioggia
152
PARTE TERZA:
CONCLUSIONE
Capitolo 6: UN NUOVO INIZIO
6.1 L’ARRIVO A TATEI KIE
Per chi volesse raggiungere la sierra, da Tepic, due sono le vie:
la prima, quella del volo, è rapida e abbastanza comoda, la
seconda è una mulattiera lungo la quale un vecchio autobus,
lento e sobbalzante, attraversa un numero spropositato di
paesini, case sconosciute anche alle migliori cartine geografiche.
Per quanto possa apparire paradossale, io preferisco la seconda,
con le sue venti ore di viaggio, fianco a fianco di bambini,
uomini e donne huichol, quasi sempre di ritorno dalle coste di
San Blas, con le sue mille soste per recuperare i bagagli che
cadono ad ogni buca, con il suo autista che, alle due del
pomeriggio, spegne il motore perché è stanco e vuole dormire.
¡Así es!, amano dire i wirraritari: così è, non ci si può fare nulla.
Sono salito su uno di questi autobus alle quattro del mattino; ho
visto, sosta dopo sosta, scendere tutti i miei compagni di
viaggio; augurando e sentendomi augurare il meglio, sono
arrivato, solo, al capolinea che era da poco passata la
mezzanotte.
“Dove si può dormire?” domando cortesemente all’autista.
“Abbiamo dove farti dormire, ma è distante da qui: meglio se ci
vai domani.
Se vuoi, stasera, puoi dormire nell’autobus… non ti chiudo
dentro, ma non allontanarti troppo, chè fuori è pieno di cani e
non conosci la zona. Buonanotte.”
153
“Así es…” rispondo, ormai rassegnato all’idea di non potermi
riposare come vorrei, “Buonanotte”.
Alla luce del mattino, la strada sconnessa e polverosa della
sierra, si apre in viottoli anonimi, fin dentro le piccole
abitazioni, con muri di mattoni a vista e tetti spioventi, a volte
in paglia, altre in lamiera: Tatei Kie.
Nessuno, qui, sa del mio arrivo improvviso, senza tutti quei
permessi scritti dall’ I.N.I., senza aver affrontato la trafila di
peripezie burocratiche che ha fatto impazzire gli autori dei libri
che tengo nello zaino: se vado a casa di qualcuno, non credo di
dover avere il benestare di nessun altro che non sia lo stesso
padrone di casa.
Per ora sono solo, con il mio zaino in spalla ed il pensiero fisso,
voglioso, di un caffè: più per sentire in mano il calore della
tazza che per altro.
Un negozietto, sulla mia destra, vende prodotti alimentari: un
pezzo di pane, un avocado, una bottiglia di acqua minerale
hanno il sapore della colazione; l’uomo che viene verso di me,
quello della fiducia.
“Sei arrivato questa mattina, con l’aereo?” mi domanda.
“No, sono arrivato ieri notte, ho dormito in quel furgone”
rispondo sorridendo.
Anche lui sorride, poi si presenta.
“Io sono Rosalio, il direttore del progetto di eculturismo. Ci
sono delle capanne in cui puoi dormire, ti ci accompagno.”
Rosalio è una persona molto garbata, che conosce bene la storia
del suo popolo e prova gusto nel raccontarla.
A differenza di me, ancora indolenzito dalla nottata, è un buon
conversatore.
154
Mentre camminiamo assieme verso le capanne mi racconta del
suo progetto, di come ha a cuore che il mondo conosca il suo
popolo e le sue tradizioni: è contento, dice, che anche nella
lontana Italia, qualcuno si interessi a loro.
“Sei un antropologo, vero?” mi domanda, aspettandosi,
chiaramente, una conferma.
“No, sono uno studente di teatro… sto scrivendo la mia tesi su
di voi.”
“Bene, allora ricordati di parlare del mio progetto nella tua tesi,
mi raccomando”.
6.2 LA VISIONE DI ROSALIO
Quello che Rosalio chiama “eculturismo” è un progetto di
accoglienza turistica, indirizzato ad un turismo responsabile e
rispettoso delle tradizioni che visita: il neologismo, coniato per
l’occasione, non a caso comprende la parola “cultura”.
Si tratta di un complesso che integra una ventina di capanne da
affittare, servizi igienici funzionanti ed un ristorante del quale,
come ho già detto, quasi nessuno, nella comunità, approfitta.
Un progetto complesso e, a parer mio, pericoloso.
Nulla di male, intendiamoci, nel voler crescere, nel conoscere e
nel farsi conoscere: ben venga per i giovani huichol, che
manovrano, senza problemi, lunghi coltelli con una sicurezza
invidiabile, ma si sposano a dodici anni e, troppo spesso,
ignorano il mondo oltre la sierra.
Ben venga anche per i commerci: seppur minima, una parte
della popolazione di Tatei Kie fa, tranquillamente, già uso di
internet per comunicare e vendere prodotti artigianali.
Non posso, però, fare a meno di pensare a quante tradizioni,
anche millenarie, si siano piegate al turismo, mutando,
155
scomparendo, riadattando la cultura all’esigenza del pubblico,
pagante quindi rispettabile.
La parola fachiro, ad esempio, che in origine indicava un asceta
musulmano con il voto della povertà, divenne, sulla labbra dei
missionari europei del settecento, sinonimo di mendicante indù,
dedito allo yoga.
Oggi non credo evochi un pensiero più complesso di questo:
uomo che dorme sui chiodi e cammina, scalzo, sulle braci.
D’altra parte, la stessa India pullula di falsi santoni che, in
cambio di denaro, si fanno tramite delle divinità, manifestate
attraverso trucchi da baraccone, agli occhi di gente ormai
disposta a credere in ogni cosa nel nome della speranza.
Homo homini lupus, diceva Thomas Hobbes.
Un altro esempio è quello della “danza dei kriss” di Bali, nella
quale uomini e donne, a torso nudo, cadono in trance e si
colpiscono il petto con i tradizionali pugnali, che viene oggi
riproposta, per il divertimento dei visitatori dei villaggi turistici,
con sgargianti costumi, belle coreografie e più sicuri coltelli “a
lama retrattile”.67
Tornando al Messico, non è un segreto che la città di Real de
Catorce, un tempo meta obbligatoria nella vita di ogni giovane
hippie, affascini oggi i seguaci della new age, il cui cammino
spirituale sembra non poter fare a meno di quel peyote che,
mentre scrivo, rischia seriamente di scomparire dal deserto.
Seduti assieme, a cena, discutevamo di questo io, Rosalio, Felipe
e Walter, un ragazzone messicano giunto a Tatei Kie da qualche
giorno con il suo robusto furgone.
“C’è bisogno di gente volenterosa ed onesta che ci aiuti”
continuava a ripetere Rosalio, mentre Felipe lo intervallava a
suon di “secondo me stiamo dicendo cose giuste”.
67 A questo proposito si invita alla visione del filmato “Trance and dance in
Bali”, di M.Mead e G.Bateson, 1938.
156
In effetti non c’è niente di sbagliato nel progetto di Rosalio, e le
persone di cui parla, seppur quasi invisibili, esistono davvero:
hanno i nomi dei ragazzi neolaureati e degli insegnanti in
pensione che aiutano, gratuitamente, Roberto nella scuola
primaria di Tatei Kie.
Non è molto, ma pensiamo che, fino a poco tempo fa, le uniche
scuole della sierra erano i centri gestiti dai gesuiti, dove i
missionari si impegnavano a fornire un pasto giornaliero ai
bambini, che ascoltavano quanto fosse sensato, al fine della
salvezza, lodare un unico Dio.
Ora, nella nuova scuola, ragazzi come Ricardo Antiveros
Enriquez, docente di chimica, disegnano sulla lavagna il
composto del tejuino.
Non è molto, forse, ma di certo non è poco.
Di queste persone fa parte un medico di Guadalajara, che, da
tempo, mette la sua arte al servizio degli indigeni, mentre il
mara’ákame intona canti di guarigione; parlo di lui, pur senza
conoscerne il nome, perché mi è capitato di leggere una sua
dichiarazione e di condividere la preoccupazione che emerge da
ogni singola parola scritta:
Gli indigeni hanno sempre avuto la tendenza a bere
troppo […] ma adesso è peggio.
I giovani non bevono per allegria, bevono per
disperazione.
Pensano che il bello della vita sia avere le cose che
vedono in televisione, ma non se le possono
permettere, e soffrono.
Sognano le donne bionde della pubblicità e delle
telenovelas, e le loro, a confronto, gli sembrano
troppo nere e inadeguate.
157
Temo che la televisione riuscirà dove non sono riusciti
i Conquistadores.68
Sono i sogni, le ambizioni, ad essere cambiati.
Rosalio dice di aver avuto la visione del suo progetto a
Wirikuta; il peyote lo ha indirizzato verso quella strada: “perciò
non può portare a nulla di sbagliato”, mi spiega.
È proprio questo l’inaccettabile paradosso che confonde la
saggezza con l’ingenuità: parlo di quel mondo occidentale
perbenista, che sorride alla parola “sciamano” e già la lega al
concetto fantasioso di “stregone”, buono o cattivo a seconda
dei risvolti della favola.
Certo, la bontà va difesa, ed i buoni propositi assecondati… ma
la realtà che io conosco è quella delle dure, amare, parole che
Eusebio Lopez Carrillo usa per descrivere, al suo intervistatore,
Victor Blanco Labra, la sua gente:
Noi Huicholes siamo fottuti.
Non possediamo cose, non possediamo nulla: né letto, né mobili.
Nulla.
Voi invece avete un sacco di cose.
Più cose avete più valete, e quelli che possiedono le cose migliori
sono i più importanti.
Siccome noi non possediamo cose, non ci resta che coltivare lo
spirito, e praticare la religione e la tradizione, perché per noi la
cosa più importante sono le persone.
68 S.A., Piante allucinogene e culture indiane, in <<HAKOMAGAZINE>>, pg.
38.
Presentato alla Commissione dei Diritti Umani dell’O.N.U.,
Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e per la
protezione delle minoranze.
Gruppo di lavoro sui popoli indigeni, XI° sessione, Ginevra, Palazzo delle
Nazioni, 19-30 luglio 1993.
The Fourth World Documentation Project Archives / The Center for World Indigenous
Studies hanno gentilmente fornito il documento, consultabile nel sito:
www.tabaccheria21.net/hako9.pdf9
158
Siamo fottuti, non è così?69
Forse non ancora, forse lo sarà… per ora, ben vengano i vari
Faustino Salvador Ortiz, che la vita ha voluto laureato e che,
capite le mie intenzioni, mi ha regalato un cd-rom dal titolo
completo ed esaustivo: Etnografia del Pueblo Huichol, nato dalla
sua collaborazione con l’università di Colima e prodotto dalla
C.D.I., la “comisíon nacional para el desarollo de los pueblos indígenas”.
Mi racconta di essere stato in Italia, di aver parlato “al mio
popolo” della non felice situazione del suo; al mio ritorno ho
rintracciato la trascrizione della conferenza stampa70 che tenne,
assieme al mara’ákame Alejandro Carrillo Carrillo, il sei ottobre
duemiladue, ad Osnago, in provincia di Lecco:
Come nella natura, come nella flora e nella
fauna, soffrendo e resistendo, giorno e notte,
nella propria carne per lo sfruttamento di
cinquecento anni, l’indigeno huichol del
Messico ha sofferto tanto quanto tutti gli
indigeni del mondo.
Gli indigeni huichol vivono al nord del paese,
nella Sierra Madre Occidentale dello stato di
Jalisco, ad una altezza massima di
milleottocento, duemila metri.
Il motivo della nostra visita in Italia è quello
di far conoscere la nostra cultura, i nostri
diritti e di far sapere alla comunità
internazionale
come
viviamo.
Il nostro modo di vivere è quello di lavorare i
Idem, pg. 37.
Il testo della conferenza stampa è riportato, per intero, nel sito:
www.mexicoart.it
69
70
159
campi, prestando attenzione alla nostra
cultura e ai nostri luoghi sacri.
Parlando di cultura, parliamo, ora, di un
luogo, un luogo sacro, Wirikuta, al nord dello
stato
di
San
Luis
Potosì:
nel
millenovecentonovantaquattro
fu
riconosciuto come luogo sacro e meta del
pellegrinaggio huichol.
Nel duemila l'UNESCO e il WWF hanno
riconosciuto, con un decreto, Wirikuta, in
San Luis Potosì, come luogo sacro.
Successivamente il governo di questo stato
non ha rispettato questi riconoscimenti e non
ha risposto alle nostre giuste richieste,
sfruttandoci politicamente per richiedere
aiuti.
Il Nepal, insieme a paesi europei, ha dato
aiuti economici allo stato di San Luis Potosì,
il quale però non li ha utilizzati per questi
luoghi ma li ha tenuti per sè, forse perchè il
governatore dello stato non è huichol.
Per la nostra comunità indigena questo è
molto triste, perchè noi vogliamo che i nostri
territori vengano giustamente riconosciuti.
Anche per quanto riguarda la nostra cultura è
la stessa cosa, non abbiamo avuto rispetto, nè
riconoscimento.
Ultimamente è stata fatta una legge nazionale
sulle comunità indigene che non è stata
rispettata, come non è stata rispettata la
marcia zapatista di Marcos.
Faustino parla del progetto “CO.CO.PA.”, per il
riconoscimento dei diritti e della cultura indigena, proposto dai
160
deputati e dai senatori della “comisión de concordia y de pacificación”,
commissione di concordia e pacificazione, del congresso
dell’unione messicana.
A questo proposito parlò, per la prima volta, davanti alla totalità
dei parlamentari messicani, se escludiamo i membri del P.R.I., la
“comandanta” Esther dell’ E.Z.L.N., Esercito Zapatista di
Liberazione Nazionale, il ventotto marzo duemilauno.
Le sue parole, fiere e toccanti, furono in primis applaudite, poi
gettate al vento: il progetto “CO.CO.PA” fu stravolto da mille
emendamenti, finchè non divenne sterile, inoffensivo ed a fini
pratici, totalmente inutile.
Per questo noi siamo qui, per esporre i nostri
problemi e per chiedere aiuto alla comunità
internazionale.
La nostra comunità di San Andres
Cohamiata, riconosciuta internazionalmente,
è aperta a tutti i turisti stranieri; altre
comunità huichol, per decisione delle
assemblee, non accettano gli stranieri.
La raccomandazione della nostra assemblea,
che diamo ai turisti, è di venire a vedere ma
di rispettare il luogo sacro di Wirikuta e il
peyote che vi cresce.
A causa di persone estranee alla nostra
cultura, il governo dice che il peyote è una
droga, ma non è una droga per noi.
[…] Sarebbe lungo parlare della nostra
religione, il fondamento principale è il
rispetto della natura e il rispetto dei luoghi
sacri.
Abbiamo molte credenze ma ognuno è
lasciato libero di credere a quello che sente;
durante i culti noi non chiediamo offerte.
161
Ci sono molte feste nella vita huichol, sei o
sette feste, ma per me la più bella è quella del
peyote. Per partecipare al pellegrinaggio, di
quattrocento chilometri, fino a Real de
Catorce ci si deve confessare pubblicamente
di tutti i peccati commessi, come, ad
esempio, con quante donne si è stati: questo
vale sia per le donne che per gli uomini.
Passano i secondi, i minuti, i giorni, le
settimane, i mesi e gli anni, ma noi indigeni
continuiamo a sperare nell'appoggio della
società civile internazionale, questo vale
anche per le generazioni che verranno.
Noi speriamo che questa non sia l'ultima
visita che vi faremo.
In particolare il nostro ringraziamento va
all'associazione “Totoyari” che ci ha dato la
possibilità di partecipare e lanciamo l'invito
anche ad altre associazioni che vogliono
collaborare.
Tante grazie. 71
L'associazione “Totoyari” non esiste più, né mi risulta esistano,
attualmente, associazioni che si muovono in questa direzione:
sia, dunque, questo lavoro, invito e sprone al passo.
71
trad. di Chiarastella Mantovani.
162
1. L’organizzazione sociale wirrarika
poggia ancora oggi su questi bastoni:
gli itsu, che conferiscono al detentore
pieno e legittimo potere nell’ufficio
ad essi corrispondente.
È importante sottolineare che è il
bastone ad avere il potere; la persona
che lo possiede ne è latrice e, proprio
per questo motivo, muterà il proprio
nome in quello del suo itsu. (pag.19)
2. Sono tre le figure del Cristo in
croce adorate da questo popolo:
Tatata (o Tata Cristo), del quale
esistono due statue pressoché
identiche, a rappresentare i due distinti
sessi del genere umano…
(pag. 21)
163
3. Durante i mesi notturni della stagione delle piogge il governo wirrarika viene simbolicamente
spodestato: il cinque di giugno Itsukate wamerra, il tavolo governativo, viene ribaltato sulla panca,
dove rimarrà fino al quattro di ottobre, data in cui tutto tornerà in ordine per consentire alla
“vecchia guardia” di riprendere il lavoro nei restanti tre mesi di governo. (pag. 23)
4. Mi riferisco alla croce che capeggia di fronte alla chiesa della comunità di San Andres […].
Si leggono quattro riferimenti sulle assi che la compongono: l’asse orizzontale conserva incise e
ben visibili sul legno le parole Tunuwame – Tseriekame, l’asse verticale cita invece lo sbiadito
binomio Wexikta – Kuyuaneneme. (pag.33)
164
5. Aggiunse anche che l’unico modo che aveva per salvare la pelle era quello di costruire una
canoa abbastanza grande da contenere entrambi, e si raccomandò di costruirle un tetto perché
potessero ripararsi. […] Poi lo mandò a raccogliere cinque zucche, le tagliò e le svuotò come a
formare dei contenitori, dove pose i grani dei cinque differenti colori del mais. (pag.38)
6. Come ultima cosa, Tacutsi Nakawé
pose un gigantesco scoglio bianco sulle
rive dell’oceano, nel posto chiamato
Haramaratsie, come monito al mare,
chè mai più tornasse ad alzare le spalle
oltre le rive del mondo. (pag.40)
165
7. L’unica città, o almeno la più importante di questa zona, reca un nome strano ed ambizioso:
Real de Catorce.
Alla lettera il suo nome significa “Reale dei Quattordici”: si suppone derivi dai quattordici
soldati spagnoli che qui trovarono morte per mano indigena attorno al millesettecento. (pag.41)
8. […]l’importanza sacrale di questo luogo sta nel fatto che risieda ai piedi di Reunar, la sacra
montagna, e in capo al deserto, arido giaciglio del cactus peyote. (pag.42)
166
9. Che cosa ho visto? Niente di soprannaturale, solo tre cerchi concentrici di pietre, che la mia
guida mi vende come centro del mondo. (pag.45)
10. Il calihuey, o tuki, è il principale centro cerimoniale huichol.
È un’enorme capanna circolare, in pietra, dal diametro e dall’altezza di circa otto metri, il cui
tetto è sorretto da due colonne di pino, al culmine delle quali trentasei travi si aprono a raggiera,
a sostegno della paglia di copertura. (pag.89)
167
11. È forse a questi “eroi” che dobbiamo la birra, la tequila, la figura di Tatata, le campane con
inciso il logo J.H.P., Jesus Hominum Pastor, (che portano data “millenovecentoquindici”, a riprova
che l’opera di conversione non si esaurì in pochi anni, ma persiste ancor oggi) davanti alla chiesa
di Tatei Kie… (pag.128)
12. Giunti al compimento di questo breve excursus, siamo tornati al punto di partenza: al
concetto di identificazione dell’umano con il divino, che a Villa de Ramos si imprime nel volto
dei pellegrini. (pag. 133)
168
13. Sono già molti i tasselli votivi incastonati in
questo piccolo mosaico liturgico; non manca
che una tessera per terminare l’opera: l’offerta
del “quadro di filo”, ormai comunemente
chiamato anche in Italia con il termine
anglosassone “yarn painting”.
(pag. 141)
14. “Sei un antropologo, vero?” mi domanda, aspettandosi, chiaramente, una conferma.
“No, sono uno studente di teatro… sto scrivendo la mia tesi su di voi.”
“Bene, allora ricordati di parlare del mio progetto nella tua tesi, mi raccomando”. (pag.155)
169
GLOSSARIO
Alcade: giudice
Aushuwirìaka: luna piena d’oriente
Calihuey: centro cerimoniale huichol
Cantadores: cantori del peyote
Coamil: campo coltivato
Eakateiwari: vento
Eka: aria
Háiku Tediali: uomo-serpente
Haramaratsie: costa di San Blas
Hautsima:acqua
Hauxamanaka: Durango
Híkuri Neiáli: danza del peyote
Hikuri Neirra: celebrazione del peyote
Huaraches: sandali di cuoio intrecciato, con la suola ricavata
dal copertone di automobili
Huatetuapa: regno dei morti
Huehueteotl: Dio Vecchio della cultura azteca
Huerruri: nel costume maschile huichol, pantaloni lunghi,
ricamati nella parte inferiore
Iaúsu Tediali: uomo-opossum
Imúmui: scalinata ideale, di cinque livelli, che porta all’apice
di Reunar
Itari: piccola sacca consacrata agli avi kakauyari di forma
circolare, quadrata o rettangolare
Itsu: bastone che indica un incarico governativo
Itsukate wamerra: tavolo del governo
Ittàyàme: pettirosso
Iweiyari: caccia al cervo peyote
Iwi: nel costume femminile huichol, gonna lunga, ricamata
nella parte inferiore
170
Jaicu yuave: sentiero di Tamatsi Kauyuma’li percorre per
raggiungere i pellegrini a Reunar
Japuka: ascesa spirituale
Jatevari: rete usata per catturare il cervo sacro
Jicara: ciotola votiva
Jotariaka: fase lunare
Jualguacil: capo legislativo dei topiles
Kairìaka: fase lunare
Kakauyari: antenati sacri, né uomini né animali,
furono i primi esseri a camminare sulla terra
Kamirra: nel costume maschile huichol, casacca larga aperta
sotto le ascelle
Kapitan: capitano, comandante della polizia della comunità
Kawitero: incarico morale riservato agli anziani
Kie: terra
Kieli Tediali: stregone malefico, Datura
Kiewimuka: dea portatrice di pioggia
Ko’ko Ta’mai: zopilote mitico, messaggero dell’Ade
Komateáme: signore del mais
Ku: nome generico del serpente
Kukama: nel costume femminile huichol, collare di perline
colorate
Kukuru Rimari: colomba cantatrice
Kutsu’li: borsa tipica del costume huichol
Kutuni: nel costume femminile huichol, camicia corta ricamata
con motivi geometrici
Kuyuaneneme: centro cerimoniale di Las Guayabas
Kwatemo’kami: il più giovane dei cervi
Limpia: purificazione
Mara’ákame: sciamano, guaritore
Marra: cervo sacrificale
Maxatusa: falso mara’ákame, impostore
Maye: puma
171
Mayordomo: addetto alla custodia degli idoli di importazione
cattolica
Molìtari: legnetto che si pone, come cuscino, alla base del
fuoco
Muchuchi: offerta rituale del tabacco
Mumurrì: bastone senza corteccia che culmina al suo apice
con la stilizzazione della testa di un cervo
Muvieri: strumento sciamanico del mara’ákame
Namakame: uomo-leone
Nariwame: nostra madre messaggera della pioggia
Naurìaka: fase lunare
Nierica: visione
Niwa’tali: montagna dove riposano le nubi
Nùywari: tappe che dividono ogni concetto vitale huichol
O’to Ta’wi: cervo del nord
Palia’tsia: luogo dove cresce il peyote
Puyuste: supplente del returi
Rapawiyeme: dea della pioggia del sud
Returi: incarico governativo di preservare in buono stato la
divinità Tatata
Reunar: sacra montagna, vetta di Wirikuta
Reutari: luogo del circolo, dove la luce si lega all’oscurità
Ricuri: nel costume femminile huichol, drappo per coprire la
testa
Ririki: piccolo templo personale
Rule’me: bambina-mais rosso
Rupurero: sombrero
Rutuli (Iwia’kami): dea dell’adolescenza
Sakaimo’ka: sole di ponente
Shewì: fase lunare
Si’kuli: occhio di dio
Stuluwíakame: madre del cervo peyote, dea della nascita e
della fertilità
172
Suk U’ka: cagnetta nera che diede origine al
mondo conosciuto, sposa di Wata’kami
Tacutsi Metseri: nostra bisnonna la Luna
Tacutsi Nakawé: nostra bisnonna la crescita
Tama’ts O’to Ta’wi: cervo del nord, guardiano del
fuoco
Tama’ts Tatewari: cuore del fuoco
Tama’ts Wawatsa’li: cervo del sud, guardiano del
fuoco
Tamal: barretta di mais che viene offerta ai partecipanti
dell’Híkuri Neirra
Tamatsi Kauyuma’li: nostro fratello maggiore cervo del sole
Tamatsi: abbreviazione di Tamatsi Kauyuma’li
Tarawi’me: bambina-mais giallo
Tata’mi: bambina-mais bianco
Tatata (o Tata Cristo): divinità di importazione cattolica
Tate’Yulianaka: nostra madre terra feconda, moglie di
Komateáme
Tatei Kie: comunità di San Andres Cohamiata
Tatei Nihuetsica: signora del mais
Tatei Yurianaka: nostra madre la Terra
Tatekwiyo: riproduzione miniaturizzata di Tatata, allo scopo
di facilitarne il trasporto
Tatewari: nostro nonno il Fuoco
Tatowàni: governatore
Tatutsi Maxacuaxi: bisnonno Coda di Cervo
Tatutsi: primitivo fuoco, non ancora ammansito
dall’uomo
Tau: bambino-Sole
Tayau’ Sakaimo’ka: sole di ponente, associato alla regione di
Nayarit
Têaka’ta: il posto del braciere, santuario dedicato al fuoco
Tejuino: bevanda rituale ricavata dalla fermentazione del
mais
173
Tekayupi’su: mitico serpente bicefalo che circonda il mondo
Temazcal: capanna del sudore
Tentasi: donna addetta alla pulizia del templo
Tepari: disco in pietra che simboleggia l’ascensione mistica
Tepotaru: supplente del puyuste
Teupa: santuario dedicato al sole
Toka’kami: signore della morte e dell’oscurità
Tonatiuh: dio del sole azteca
Topiles: guardie o messaggeri
Tsalu Tediali: uomo-formica
Tseriekame: centro cerimoniale di Cohamiata
Tuamurrawi: figlio della dea Tacutsi Nakawé
Tuki: calihuey
Tunuwame: centro cerimoniale di San Andres
Tupina: uomo-colibrì
Tuwe: giaguaro
Urawi Tediali: uomo-lupo
Uwene: sedia rituale riservata al mara’ákame
Wakuri: il bambino-mais, fratello di Tuamurrawi
Washiewe: pietra delle Vergine
Wata’kami: primo uomo
Watukaripa: notte in cui i kawiteros ognano i futuri
governanti della comunità
Wawatsa’li: cervo del sud
Wawaute: custode delle jicaras
Wérika Wimari: custode dell’Ade
Wexikta: centro cerimoniale di San Josè
Wikuyau: corda rituale, legame simbolico tra i pellegrini
Wirikuta: deserto di Real de Catorce, nello stato di San
Louis Potosì
Wiwatzirra: stoia d’erba in cui viene disteso il cervo
abbattuto
Xapawiyemeta: lago di Chapala
174
Xarikixa: cerimonia del mais e del cambio dei bastoni del
governo
Xuarawetemai: prima stella della sera
Xuaya’me: nel costume maschile huichol, fascia di lana, spessa
e colorata, stretta alla vita
Yarn painting: quadro di cera, resina e filo, sul quale vengono
riprodotte le visioni date dal peyote
Yoawi’me: bambina-mais azzurro
Yu’wime: bambina- mais nero
175
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FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Disegni. Giuliano Mensà
Fotografie. Simone Ricciatti, tranne:
5, 6, 10, 13, 14. Rémi Court - Lilian Robin
12. Peter Collings
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180
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Questo volume, sprovvisto del talloncino a fronte, è da
considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO,
fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione vietati:
art. 17, c.2, l. 433/1941). Esente da IVA (DPR 26/10/1972
n. 633, art. 2, lett. d). Esente da bolla di accompagnamento
(DPR 6/10/1978, n. 627, art. 4, n. 6). Finito di stampare nel
mese di nomemese 2007 presso la Legatoria nomestampatore
– Via indirizzo – NomeCitta – prov.
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