Il ridicolo, e la sua funzione nell`argomentazione del giurista
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Il ridicolo, e la sua funzione nell`argomentazione del giurista
Dipartimento di Scienze giuridiche CERADI – Centro di ricerca per il diritto d’impresa Il ridicolo, e la sua funzione nell’argomentazione del giurista Amelia Bernardo dicembre 2008 © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione Il ridicolo, e la sua funzione nell’argomentazione del giurista *** “Solo di fronte al riso la situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è valido, quello che crolla doveva morire. E quindi il riso, l’ironia, la beffa, il marameo, il fare il verso, il prendere a gabbo, è alla fine un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello che resiste nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva cadere” (Umberto Eco, da Elogio a Franti in Diario minimo). *** Dire di un oratore che le sue tesi sono inammissibili, perché avrebbero conseguenze ridicole, è una delle obiezioni più forti che possano esser mosse in un contesto dibattimentale. Tingendo di ironia le proprie affermazioni si ravviva l’attenzione, si instaura un piacevole rapporto di simpatia e complicità con il pubblico, si dimostra distacco e padronanza di sé, in un clima disteso che senz’altro favorisce la persuasione dell’uditorio1; ma l’efficacia argomentativa del ridicolo risiede, soprattutto, nel rigore logico di un ragionamento che, per quanto immediato, è estremamente sofisticato. Risulta ridicolo chi esprime un’opinione che si oppone alla logica, o all’esperienza, ovvero chi enuncia dei principi, le cui conseguenze impreviste contrastano con regole naturalmente accettate, che egli stesso dà per presupposte, e non oserebbe mettere in dubbio. Il riso esprime appunto la condanna di una simile trasgressione, che viene sì giudicata eccentrica, ma non abbastanza grave o pericolosa (tale è la forza della regola trasgredita) da meritare una più violenta forma di condanna 2. Vediamo meglio: il sorriso presuppone innanzitutto la piena conoscenza delle opinioni avverse, conoscenza sì profonda da poterne coglierne il senso più nascosto, e fragile, e da evidenziarne le più imbarazzanti implicazioni; come in una caricatura in cui l’artista non rifiuta i tratti caratteristici del soggetto raffigurato, ma al contrario li cattura, li assimila, per evidenziarli e rimarcarli con risultati, infine, irriverenti. “Chi ride – ammonisce Eco – per dare al riso tutta la sua 1 Sulle diverse funzioni dello humor in un contesto dibattimentale v. Adelino Cattani, Botta e risposta, L’arte della replica, cit. p. 189 2 Chaim Perelman, Trattato dell’argomentazione, La nuova retorica, Einaudi, 1989, p. 216 che osserva come per sfidare una regola correntemente ammessa, e dunque trasgredirla senza coprirsi di ridicolo, oltre all’audacia occorra “un sufficiente prestigio, di cui non si è mai sicuri di disporre. Chi lancia una moda nuova, o chi come Gandhi rifiuta di piegarsi alle costumanze dell’Occidente, quando vi si trova …cessa di essere ridicolo quando trova seguaci. Il prestigio del capo si misura in rapporto alla sua capacità di imporre regole che appaiono ridicole, e di farle accettare ai suoi sudditi” ( p. 220). Le funzioni distensive del riso Porre in ridicolo equivale a criticare dall’interno forza, deve accettare e credere, sia pure tra parentesi, ciò di cui ride, e dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore”. Ma proprio perché di natura endogena la critica è più penetrante, dunque più temibile. Non a caso questa forma di confutazione è assai frequente nei dialoghi socratici. Socrate dichiara il proprio "non sapere", perciò nessuna delle confutazioni che egli opera potrà essere basata sulla contrapposizione della propria verità, che Socrate riconosce di non possedere, alla verità professata dal proprio interlocutore. Ma come dimostrare la falsità di un’affermazione senza contrapporne ad essa una vera? Socrate applica un metodo di discussione che fa affidamento solo su ciò che l’interlocutore afferma, accetta e riconosce da sé: dopo aver chiesto all’interlocutore di pronunciarsi esplicitamente e chiaramente su ciò che ritiene vero attorno ad un certo tema, procede derivando, da quello che l’interlocutore ha fissato come punto d’avvio, tutte le possibili conseguenze, evidenziando quelle in senso lato irragionevoli, e delle quali l’interlocutore non era chiaramente consapevole, così dimostrando l’irrazionalità della tesi di partenza. Prendiamo un esempio dall' Eutifrone. In un primo passaggio Socrate chiede ad Eutifrone se siano vere le storie mitologiche sugli dei e sui loro conflitti e sulle inimicizie intercorrenti fra loro. Eutifrone risponde affermativamente: la credenza in tale mitologia è una componente profonda della sua personalità e delle sue convinzioni. Poco dopo, però, Eutifrone - che si proclama esperto della santità (ossia di tutto ciò che riguarda il rapporto fra gli uomini e gli dei) - afferma che “pio” (o “santo”) è ciò che è “caro agli dei”. In sostanza egli sta sostenendo che esiste un sapere attorno a ciò che è “caro agli dei”, e che sulla base di tale sapere gli uomini (guidati da esperti, quali Eutifrone) possono regolarsi in pratica nei loro rapporti con essi. A questo punto Socrate fa notare l'incompatibilità fra la credenza nei miti sul conflitto fra gli dei (se questi ultimi sono in conflitto, ciò implica che gradiscano cose diverse) e la pretesa di conoscere ciò che è caro agli dei con la sicurezza che Eutifrone ostenta. Ciò che è caro agli dei sarà controverso (un dio amerà ciò che un altro odia) e – di conseguenza – il sapere compatto e sicuro attorno a tale soggetto sarà impossibile. L’interlocutore è stato “messo in ridicolo”. *** Il ridicolo svolge nell’argomentazione funzioni analoghe a quelle dell’assurdo nella dimostrazione (difatti l’argomento, prende anche il nome di reductio ad absurdum, o di ragionamento apagogico): ridurre al ridicolo equivale a ridurre all’assurdo Come in geometria il ragionamento per assurdo incomincia con il supporre vera una proposizione A, per dimostrare che le sue conseguenze sono contraddittorie con quanto si è ammesso, e passare Ridurre al ridicolo equivale ridurre all’assurdo alla verità di non-A, così la più caratteristica argomentazione giuridica per mezzo del ridicolo consisterà nell’accogliere momentaneamente i principi della tesi opposta a quella che si vuole difendere, per respingerne le conclusioni, perché assurde, e dunque negare la ammissibilità delle tesi, secondo uno schema logico così rappresentabile: se fosse vero A sarebbe vero B, ma B non è vero, dunque non è vero A.3 Ebbene il ragionamento apagogico altro non è che un ragionamento indiretto, che fa uso del principio del terzo escluso: un enunciato che non può essere falso, deve essere vero. Una applicazione dell’argomento anagogico è data dal seguete caso: una coppia, sterile a causa della congenita impotenza di generare del marito, ricorre con successo, all’inseminazione artificiale eterologa. Negli anni successivi il marito, a seguito di una profonda crisi coniugale, avanza istanza di annullamento del matrimonio per impotentia generandi e promuove per la medesima ragione azione di disconoscimento di paternità sostenendo l’irrilevanza giuridica del consenso precedentemente accordato. La causa verte sulla applicabilità dell’art. 235 c.c. ai casi di fecondazione artificiale. I giudici di merito concludono in senso affermativo, sulla base della considerazione che la disposizione citata prevede, tra i presupposti dell’azione di disconoscimento, l’impotentia generandi, che in fatto sicuramente sussisteva. La Corte rileva che solo la diretta derivazione genetica - e non anche il semplice consenso - “è idonea a costituire un vero e proprio rapporto giuridico di filiazione e che la formulazione dell’art. 235 c.c. corrisponde alla volontà del legislatore di tutelare la sola filiazione biologica e che il dovere di fedeltà coniugale va riferito “non alla sola sfera sessuale, ma [...] anche a quella generativa”. L’ordinamento tutela cioè il legame biologica quale valore primario dell’ordinamento lasciando nell’alveo del giuridicamente irrilevante le vicende legate alle tecniche di fecondazione artificiale. La Cassazione confuta la tesi accolta dalle corti di merito attraverso una reductio ad absurdum: muove infatti dalla accettazione della tesi dell’ applicabilità dell’art. 235 c.c. alla fecondazione artificiale, e analizza tutte le possibili conseguenze ad essa connesse. Ebbene, poiché l’art. 235 c.c. prevede che il marito possa agire per il disconoscimento non solo nel caso di impotenza generandi, ma anche di impotenza coeundi, l’applicazione 3 Per una analisi esaustiva della struttura logica del ragionamento per assurdo v. Gaetano Carcaterra, Ragionare per esclusione nel diritto. Riflessioni su un tema di Bobbio, in Metodo linguaggio sciena del diritto, a cura di Antonio Punzi, Giuffrè, 2007, cit. p. 40 Reductio ad absurdum per contraddizioni interne dell’art. 235 c.c. alla fecondazione artificiale comporterebbe che anche dal padre che affetto da impotenza coeundi, che abbia donato il proprio seme per procedere ad una fecondazione omologa, possa chiedere il disconoscimento del proprio figlio biologico. Con la conseguenza – assurda - di concedere al padre il diritto di disconoscere il proprio figlio biologico! Ma ciò, oltre che irragionevole, contraddice le stesse premesse della tesi analizzata, ovvero la tutela della filiazione biologia: non può dunque che concludersi per l’inammissibilità della tesi inziale e l’accoglimento di quella opposta. *** Nel caso ora esaminato l’assurdo deriva da una incoerenza tra le conclusioni e le premesse dichiarate, ovvero da una autocontraddizione. Più spesso accade che l’assurdo, il “non senso” della proposizione derivi dalla incompatibilità logica con una serie di principi che rimangano inespressi, impliciti al ragionamento, proprio perché ammessi, anzi presupposti da tutti i disputanti. Del resto nessun ragionamento è mai autosufficiente, anche nel quotidiano discorrere quello che abitualmente si chiama senso comune consiste in una serie di credenze ammesse in seno ad una data società, che i suoi membri presumono essere condivise da ogni essere ragionevole. Nel diritto, come nelle altre discipline, la comune base argomentativa si arricchisce, oltre alle regole della logica, di una serie di conoscenze e di teorie relative alle linee generali della scienza giuridica del nostro ordinamento Secondo Bobbio presupposto di ogni interpretazione giuridica è l’assunto per cui la legge sia il prodotto di un “buon” legislatore. Vale a dire che essa risponda al principio di uguaglianza, a quello della coerenza delle norme tra loro e che persegua razionalmente lo scopo prefissato. Questo assunto permette di selezionare, tra le diverse opzioni interpretative, quelle più corrette4. Ad esempio: l’allievo di una scuola tecnica statale cedeva rovinosamente nell’esecuzione di un esercizio ginnico, riportando lesioni personali.I genitori del minore infortunato, dopo aver appreso che al momento dell’infortunio l’insegnante di educazione fisica si era 4 Secondo Carcaterra, op. ult. cit., non ha dunque senso parlare di impossibilità logica in assoluto, perché il suo senso varia a seconda del contesto conoscitivo (della logica e della teoria) che si presuppone. Reductio ad absurdum per contrasto con principi inespressi ma presupposti allontanato dalla palestra, ed aveva lasciato l’incarico di eseguire l’esecuzione del salto a due allievi, convenivano in giudizio sia l’insegnante di educazione fisica, sia il preside dell’istituto, sia il Ministero della pubblica istruzione, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti dal proprio figlio.Il tribunale accoglieva la domanda nei confronti di tutti e tre i convenuti e li condannava al risarcimento del danno. Tale sentenza veniva poi riformata ( su gravame dei concorrenti) dalla Corte d’appello, la quale: a) rigettava la domanda come formulata nei confronti del preside, affermando che questi non era tenuto alla vigilanza degli allievi; b) conferma la condanna degli altri due convenuti. In particolare, la Corte d’appello affermava che, là dove l’alunno avesse colposamente cagionato un danno a sé stesso, casualmente ascrivibile ad un difetto di sorveglianza, non era applicabile l’art. 61 l. 11 luglio 1980, n. 312, il quale aveva escluso la legittimazione passiva degli insegnanti per il risarcimento dei danni causati a terzi dagli allievi affidati alla loro sorveglianza. Anche la sentenza di appello veniva impugnata, con riguardo, principalmente ai limiti di applicabilità dell’art. 61 sopra citato, che, come detto, esclude la legittimazione passiva degli insegnanti per il risarcimento dei danni causati a terzi dagli allievi affidati alla loro sorveglianza. Anche la sentenza di Cassazione esclude la legittimazione passiva degli insegnanti, e giunge a tale conclusione attraverso la seguente reductio ad absurdum: se si ammettesse che l’art. 61 non si applichi ai danni causati dall’allievo a sé medesimo, e si ipotizzasse che un alunno con la medesima condotta, cagioni un danno sia a sé che a terzi, la responsabilità dell’insegnante sarebbe soggetta ad un differente regime: per i danni causati a se stesso dall’alunno, l’insegnante sarebbe legittimato passivamente nel giudizio di risarcimento; per i danni che – con la medesima condotta- l’alunno avesse cagionato a terzi, invece, l’insegnante sarebbe privo di legittimazione passiva, ai sensi dell’art. 61 sopra citato. La Corte ha ritenuto irragionevoli (dunque ridicole, assurde), le conseguenze derivanti da una simile interpretazione, e poiché l’absurdum poteva essere eliminato con l’interpretazione estensiva dell’art. 61, la Corte ha risolutamente sposato tale interpretazione. *** In tutte le sue declinazioni, lo schema logico della reductio ad absurdum, è comunque quello del sillogismo disgiuntivo e per esclusione: è un ragionamento c.d. indiretto, il cui autore, anziché dimostrare la fondatezza della propria tesi, esclude, perchè irrazionale ciò che vi si contrappone. Certo l’oratore ha sempre la possibilità di argomentare le proprie ragioni facendo ricorso ad una forma di ragionamento diretto, che dimostri, per passaggi successivi, la validità dei propri argomenti, piuttosto che l’irrazionalità di quella opposta. Ma molti sono i pregi del ragionamento indiretto, a tutti i livelli del ragionare, e non è un caso che esso sia così frequentemente utilizzato nella vita comune, come nella speculazione filosofica. Innanzitutto, come stato correttamente osservato, la via indiretta è la più naturale dal punto di vista della psicologia del ragionamento: “Il ragionamento per esclusione si articola infatti in virtù di due momenti della dinamica mentale assai elementari ed immediati, l’operazione dell’alternativa e la percezione di un contrasto: i casi sono due, o sì o no, ma il no contrasta con quanto riteniamo ragionevole, e dunque la soluzione è sì (o viceversa)”5. E’ una struttura logica dunque semplice ed immediata, ma che nel contempo esprime un modo estremamente razionale – e qui risiede la propria forza argomentativa - di pensare: prescinde infatti da ogni forma di fideisica adesione a dogmatiche premesse, si sottrae alle suggestioni di proposizioni veritative, e procede attraverso rassicuranti passaggi tesi ad escludere ciò che sicuramente appare irrazionale, piuttosto che ad inseguire miraggi di verità. Passaggi logici che, accompagnati da un irridente sorriso, trasformano l’argomento dell’assurdo in una potentissima arma dialettica. Amelia Bernardo 5 G. Carcaterra, op. cit., p. 57