Il rapporto tra uomo e animali

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Il rapporto tra uomo e animali
Il rapporto tra uomo e animali
IL RAPPORTO TRA
UOMO E ANIMALI
di Giovanni Monastra*
Gli esseri umani sono soggetti morali, capaci di distinguere ciò che è giusto da ciò che è
sbagliato e di dare luogo a un contratto sociale, mentre gli animali non lo sono. Solo noi
possiamo essere considerati detentori di diritti e doveri, che costituiscono due facce della
stessa medaglia. Per questa ragione, come evidenzia il filosofo Roger Scruton, parlare di
“diritti animali” ci conduce ad affermare assurdità, poiché implica attribuire anche dei
doveri agli esseri non umani. Tuttavia tali differenze non ci esimono dall’obbligo di rispettare gli animali. Da altri punti di vista possiamo pure rilevare delle profonde diversità tra
uomini e animali: ciò rende improponibile qualsiasi assimilazione come quella proposta
dall’ideologo Peter Singer. Intendiamo parlare dell’uomo come animale “simbolico”: i
suoi simboli non vanno confusi con i segnali scambiati nel mondo animale e che hanno una
base innata, geneticamente programmata, anche se talora migliorabile con l’apprendimento, mentre l’uomo “crea” i suoi simboli, seppur seguendo regole abbastanza generali
e comuni, basate sull’analogia. Nel nostro universo interiore esistono certo condizionamenti biologici, pulsioni, ecc., ma questi vengono ampiamente mediati e manipolati dal
soggetto stesso, che si autocostruisce non contro la natura, ma su di essa. In conclusione,
la posizione molto particolare dell’uomo lo pone di fronte a numerose scelte, a volte non
facili, tra le quali c’è anche la possibilità di usare gli animali come risorsa. Tale decisione
non è in sé sbagliata se noi evitiamo di infliggere loro inutili sofferenze: questa è la concezione di Scruton definibile come rispetto del benessere animale.
Humans are moral subjects, able to distinguish right from wrong and to enter into a
social contract, while animals are not. Just us can be regarded as possessors of rights
and duties, two faces of the same coin. For this reason, as the philosopher Roger Scruton points out, speaking of “animal rights” leads us to a nonsense, because it means to
give also duties to non-human beings. Nevertheless such difference does not release us
from the obligation of respecting animals. From other points of view we can also observe deep diversities between us and them and it makes impossible any assimilation like
that one proposed by the ideologist Peter Singer. We are talking about the condition of
man as animal living par excellence in a world of symbols: these should not be confused
with the signals exchanged among animals, having innate basis, genetically programmed, although sometimes those behaviors can be improved by learning. On the contrary,
man “creates” his symbols, following quite general and common rules, based on analogy.
In our inner universe there are some biological conditionings, drives, etc. But they are
largely mediated and manipulated by each subject, building up his particular personality not against nature, but on it. In conclusion, the specific position of man in the world
puts him in front of many choices, sometimes not easy, among them there is also the possibility to use animals as resources. This decision is not inherently wrong if we avoid any
unnecessary sufferings to them, following Scruton and his position on animal welfare.
*
Direttore Generale dell’INRAN – Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione
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Un acceso dibattito tra utilitaristi e neokantiani
O
ggi, principalmente sulla scorta delle acquisizioni ottenute dal
neodarwinismo (ma anche dallo stesso Darwin), alcuni filosofi
sostengono la tesi che non esiste una netta differenza tra l’uomo e
l’animale: da ciò fanno derivare la tendenza ad estendere alcuni diritti
tipicamente umani agli animali superiori, tendenza che può essere definita come inclusivismo morale. Ciò può spingere a ritenere che, a seconda
delle rispettive condizioni, certi animali godano di maggiori diritti degli
esseri umani. Così secondo il filosofo utilitarista Peter Singer lo scimpanzé adulto dovrebbe godere di una maggiore tutela giuridica rispetto
all’embrione umano nell’utero materno. Nel dibattito aperto da tempo
sui “diritti degli animali” e sul più generale problema della rivisitazione
del comportamento che l’uomo deve tenere con essi può essere interessante prendere in considerazione le riflessioni di studiosi meno noti
rispetto ai vari Singer e Regan, tra l’altro radicalmente progressisti. Ci
riferiamo al filosofo inglese, di orientamento conservatore, Roger Scruton, di cui sono stati tradotti in Italia vari libri: tra essi figura un testo
dedicato specificamente a questo tema1, da lui pure affrontato in un capitolo del Manifesto dei conservatori2. Il titolo inglese del volume di Scruton dedicato ai diritti animali (Animal rights and wrongs) sembra già
suggerire il pericolo insito, a suo parere, nell’animalismo e nella difesa ad
oltranza dei diritti degli animali. La tesi di base sostenuta dall’Autore è
che gli animali non hanno diritti, poiché non sono persone e poiché solo
le persone, in quanto esseri morali, sono detentori di diritti. In altre
parole possiamo attribuire unicamente a un essere morale, cioè dotato,
almeno potenzialmente, di un proprio senso della morale, quelli che sono
realmente dei “diritti”, e non delle giustissime esigenze o necessità, da cui
noi non possiamo derogare. Le sue posizioni possono apparire talvolta
irritanti ad alcuni, ma riteniamo che sollevino problemi reali, forse scomodi, ma che non possono essere elusi o rimossi. L’Autore affronta il
tema dal punto di vista filosofico, facendo riferimento in particolare a
Kant. Quest’ultimo, con l’obiettivo di fondare un’etica dei valori e della
dignità dell’uomo, esalta la figura del soggetto umano, morale e razionale, ponendolo di fatto fuori, e quasi contro, la natura, che finisce con
l’essere rappresentata come una realtà priva di veri elementi positivi,
opaca e oscura. Kant attribuisce all’uomo un valore assoluto e incomparabile, in quanto unico essere dotato di razionalità e moralità, che non
solo gode di una radicale preminenza rispetto a tutti gli altri viventi, privi
1 R.Scruton, Gli animali hanno diritti?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008
2 R.Scruton, Manifesto dei conservatori, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007
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di tali doti, ma anche, proprio in forza del suo status unico, è del tutto
autonomo dalla natura, essendo sottoposto unicamente alla legge morale
che origina da lui stesso. In questo contesto non stupisce che Kant ritenga solo l’uomo degno di essere considerato un fine, che quindi non può
essere mai oggetto di uso, mentre riduce ogni altro vivente, e la stessa
natura nel suo complesso, a semplice mezzo, strumento da utilizzare a
piacimento, per il benessere dell’umanità. Quindi si deve rispetto solo
all’essere umano, non certo a tutto il resto (animali in primis), che sono
equiparabili a semplici cose: posizione assai problematica e discutibile,
già allora, come dimostrò Schopenhauer con le sue accese critiche, e
ancor più oggi, poiché sappiamo che con sempre maggiore frequenza
viene definito “miglioramento del benessere umano” quello che in realtà
nasconde un interesse economico di singoli o gruppi, obiettivo per altro
spesso facilmente realizzabile, considerata la potenza tecnologica oggi
disponibile. Si pensi agli esperimenti di ingegneria genetica volti a manipolare e stravolgere la natura degli animali, nella più totale indifferenza
nei loro confronti e di frequente per motivi discutibilissimi, manipolazione di cui fu antesignano, a livello teorico, Francesco Bacone, in un suo
libro scritto tra il 1614 e il 1617, dove tracciò il quadro di una auspicabile (per lui!) società futura, sviluppatasi sotto il segno della tecnoscienza3.
Insomma Kant non sembra proprio uno studioso “aperto” e libero da
pesanti pregiudizi. Si potrebbe obiettare che anche personaggi del mondo
animalista, come il teorico Tom Regan, talora si rifanno alle posizioni del
filosofo di Königsberg. Ciò è vero ma va ricordato che costoro ne modificano radicalmente certi assunti, sostenendo, ad esempio, un possesso di
valore intrinseco comune a uomo e animali, il che significa estendere ad
altri viventi, non umani, l’idea kantiana di legge morale. Se invece, come
avviene nel caso di Scruton, se ne accettano le basi del pensiero sorge
qualche problema. Di fatto, però il nostro Autore, pur richiamandosi
molto a Kant, ne viene influenzato solo parzialmente nel suo discorso sul
rapporto uomo-animali, anche perché appaiono, sia pure sullo sfondo,
altre influenze filosofiche.
La complessità del pensiero occidentale sugli animali
Al di là di questo esplicito riferimento, risulta evidente che Scruton,
anche per sua ammissione, persegue un approccio radicalmente occidentale al rapporto uomo-animali. Andrebbe, però, aggiunto che in
realtà egli si limita a considerare solo la concezione del mondo derivante
dal monoteismo religioso affermatosi in occidente, con rari spunti ripresi
3 F.Bacone, La Nuova Atlantide, Rusconi, Milano 1997
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dall’antico pensiero europeo estraneo al cristianesimo. Inoltre opera
un’altra scelta selettiva: nei suoi pochi riferimenti a correnti e idee della
cultura classica l’Autore, purtroppo, sembra ignorare, o ritenere ininfluenti e quindi da non citare, tutti quegli esponenti del pensiero filosofico occidentale antico, greco ma non solo, dai presocratici ai neoplatonici, che espressero idee e comportamenti concreti fortemente improntati,
sia nella teoria, sia nella prassi, a un forte rispetto verso gli animali. Ci
riferiamo a filosofi, o meglio “sapienti”, quali Pitagora, Empedocle, Teofrasto, Stratone di Lampsaco, Plutarco, Porfirio, giusto per citarne alcuni. Costoro, inoltre, erano in perfetta sintonia con quanto asserito e praticato nella cultura indù. Scruton, in questo vittima del pregiudizio tipico di moltissimi occidentali nei confronti dell’oriente, rilevato già da
René Guénon, fa riferimento a una presunta “passività induista”4 come
esempio di comportamento tollerante verso tutti i viventi, ma inaccettabile e dannoso per gli stessi animali! Limitandoci al solo Plutarco (46 –
120 d.C.), ricordiamo che egli fu un fermo assertore dell’intelligenza degli
animali. Per il grande biografo e filosofo, ma anche sacerdote di Apollo a
Delfi, la vita possiede il carattere della intelligenza come realtà ad essa
intrinseca: “tutti gli animali partecipano in un modo o nell’altro dell’intelletto e della ragione”5 dato che non vi può essere sensazione senza
intelligenza. Plutarco si avvale di una analogia con l’uomo, osservando
che la natura ha posto in noi la capacità di intendere come condizione
necessaria della sensazione. Quindi non può esistere un essere capace di
sentire – e gli animali posseggono questo carattere - che non sia anche in
grado dì comprendere, seppur in gradi diversi. Egli afferma che intelligenza e conoscenza costituiscono aspetti imprescindibili senza i quali il
vivente soccomberebbe: tali caratteri, quindi, non sono marginali e inessenziali, ma addirittura centrali anche nel vivente non umano, al pari di
ogni altro aspetto “biologico”. Così “non dobbiamo dire […] che gli animali, se anche hanno facoltà razionali più deboli e un’attività intellettuale peggiore della nostra, sono completamente privi dell’attività intellettuale, delle facoltà razionali e della ragione stessa”6. Contro gli Stoici e gli
altri sostenitori della riduzione degli animali a cose Plutarco si esprime in
forma severa: “Quanti affermano stoltamente che gli animali non provano piacere, né ira, né paura, che non fanno preparativi e non serbano
memoria, ma che l’ape è come se ricordasse, la rondine è come se preparasse il nido, il leone è come se provasse ira, il cervo è come se avesse
paura, non so come giudicheranno quelli che, a loro volta, sostengono
4 R.Scruton, Gli animali ecc. p. 87
5 Plutarco, L’intelligenza degli animali di terra e di mare, in: Del mangiar carne – Trattati sugli animali,
Adelphi, Milano 2001, p.108
6 ivi, pp.118-9
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che gli animali non vedono e non sentono, ma è come se vedessero e è
come se udissero; che non emettono suoni, ma è come se li emettessero; e
che non vivono nel vero senso della parola, ma è come se vivessero. Perché queste ultime affermazioni, io credo, non sono certamente più contrarie all’evidenza delle prime”7. Secondo Plutarco, “non commette
ingiustizia che si serve degli animali, ma chi se ne serve facendo loro del
male, con disprezzo e con crudeltà”8. Per alcuni l’applicazione della giustizia al nostro rapporto con gli animali minerebbe la dignità degli esseri
umani. A tale obiezione l’Autore delle Vite parallele risponde che noi
abbiamo il dovere di rispettare e tutelare gli animali. Infatti, se riteniamo, come è giusto, di avere obblighi di giustizia anche verso i nostri simili che agiscono in modo volgare e brutale, perché, a maggior ragione, non
dovremmo comportarci così con gli animali che ci aiutano sul lavoro e ci
forniscono nutrimento come il bue, il cane o la pecora? Per inciso aggiungiamo che un sapiente jaina, buddhista o indù non diceva (e dice) cose
sostanzialmente diverse. Ma siamo ben lontani da una rivendicazione
astratta e problematica, tipicamente moderna, dei “diritti animali”! È
piuttosto un richiamo ai nostri doveri verso gli altri viventi. Anche Scruton potrebbe sottoscrivere almeno alcune (non tutte!) tra le affermazioni
sopra riportate ed è un peccato che non abbia arricchito il suo intervento includendo anche questi filoni sapienziali che, non meno di altri, fanno
parte della tradizione del pensiero europeo.
Le posizioni teoriche di Scruton
Vediamo, quindi, quali sono nel dettaglio le sue posizioni teoriche,
evidenziandone in primo luogo i “punti fermi”. Scruton esordisce subito affermando che è “necessario un approccio scrupoloso e morale nei
confronti delle altre specie” da parte nostra9 e ricorda che “nel passato
gli animali erano considerati cose, poste sulla Terra per il nostro uso e
il nostro piacere, da trattare a nostro comodo”10. Ciò risulta vero solo
nella prospettiva di alcuni pensatori pagani, come Aristotele (ma non
tra tanti altri, prima citati), e poi del pensiero prevalente nel cristianesimo, ad esclusione di pochi come S. Giovanni Crisostomo e San Francesco. Secondo Scruton la questione del benessere degli animali oggi ha
così grande presa sulle nostre coscienze perché il cristianesimo si è gravemente indebolito e ha perduto la sua influenza nella società. Infatti
essere gli unici viventi “a immagine e somiglianza di Dio” giustificava
7 ivi, pp. 113-4
8 ivi, p.125
9 R.Scruton, Gli animali ecc. p. XII
10 ivi, p.1
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l’uso degli animali come mezzi da impiegare per i bisogni dell’uomo,
senza troppi scrupoli, attitudine rinforzata poi dal dualismo cartesiano.
L’Autore riconosce che gli animali, a differenza di quanto pensavano
molti in precedenza, hanno sensazioni, capacità percettiva, appetiti e
bisogni, ma anche avversioni innate, e infine capacità cognitive (per lo
meno quelli superiori). E anche in questo caso avrebbe potuto citare i
filosofi pagani che nell’antichità avevano affermato pensieri analoghi.
Egli sottolinea le differenze tra gli animali limitati al binomio meccanico stimolo-risposta e quelli che invece vanno oltre e sono capaci di
apprendere. Naturalmente Scruton evidenzia anche le forti diversità
tra noi e gli animali, sia sotto il profilo dei desideri e delle emozioni, sia
sotto quello della razionalità, della coscienza di sé e del linguaggio: “le
emozioni più elevate – quelle da cui dipendono in modo fondamentale le
nostre vite quali esseri morali –appartengono solo a chi può vivere e
pensare attraverso simboli”11, di cui il linguaggio vero e proprio costituisce un esempio. “Sebbene l’etologia fornisca una crescente quantità
di evidenze che gli animali comunicano fra di loro e possono trasmettere informazioni complesse attraverso i segni, non c’è prova che essi
mostrino quel tipo di organizzazione sociale e di pensiero introspettivo
che il linguaggio richiede”12. “Come ho già sostenuto, che gli esseri
umani siano gli unici esseri morali sulla Terra è questione empirica:
tendo a pensare che sotto questo aspetto noi si sia i soli, come credo che
qualunque evidenza che altre specie abbiano varcato il confine e siano
entrate nella sfera morale ci obbligherebbe a trattare i loro membri
come noi trattiamo i nostri simili. Questo non significherebbe soltanto
accordare loro dei diritti, considerare inviolabili la loro vita, le parti
del loro corpo e la loro libertà, e accettarli come oggetti di emozioni
superiori, ma vorrebbe anche dire imporre loro doveri e responsabilità,
ragionare con loro e trattarli come soggetti alla legge morale. Tuttavia,
allo status morale si accompagnano grandi vantaggi e al contempo grevi
fardelli: a meno che non si sia nella posizione di imporre i secondi, i
primi non hanno significato, poiché sono tali solo per chi sa come metterli a profitto o, in altre parole, per chi considera se stesso vincolato
da doveri morali e responsabile delle proprie azioni”13. Scruton rifiuta
di considerare gli animali “fini in sé” ma riconosce che essi “non devono essere trattati come cose poiché ciò significherebbe non tener conto
della loro capacità di soffrire”14. L’Autore poi affronta il delicato problema degli “esseri umani marginali”, secondo la definizione data da
11 ivi, p. 18
12 ivi, p. 19
13 ivi, p. 29
14 ivi, p. 34
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Tom Regan. Così scrive: “Anche se tracciamo una distinzione tra esseri
morali e altri animali e, nel definirla, riconosciamo l’importanza di
razionalità, coscienza di sé e dialogo morale, dobbiamo ammettere che
parecchi esseri umani non si trovano nell’area morale delimitata da
quella linea di demarcazione. Per esempio i bambini molto piccoli non
sono ancora membri della comunità morale; le persone anziane e quelle cerebrolese non ne sono più membri; le persone con ritardi mentali
congeniti non lo saranno mai. Dobbiamo dire che non hanno diritti? O
che, considerato che non sono diversi dagli animali sotto alcun aspetto
fondamentale, ci toccherebbe per coerenza trattare gli altri animali
come trattiamo questi «esseri umani marginali»? […] A me sembra che
dovremmo fare un distinguo chiaro tra i bambini «pre-morali», gli
adulti «post-morali» e quelli «non-morali». I primi sono esseri morali
potenziali, che si svilupperanno naturalmente - secondo le condizioni
della società – in membri a pieno titolo della comunità morale”15. Per
gli altri due casi, sottolinea Scruton, possono sorgere problemi, almeno
in prima istanza. L’Autore rileva che, almeno nel nostro orizzonte culturale, da cui non intende prescindere, “rientra nella virtù umana riconoscere la sacralità della vita”16. E aggiunge una importante osservazione che rifiuta un approccio individualista al tema in oggetto: “Il
nostro mondo ha un significato per noi perché lo suddividiamo in generi, classificando animali e specie, riconoscendo subito l’individuo come
esempio dell’universale”17. Ciò ha rilevanza anche sul piano morale:
“mi relaziono con te come essere umano e ti riservo i privilegi correlati
al genere”18. Infatti “l’anormalità non cancella l’appartenenza”19 mentre gli animali “non appartengono alla comunità morale, ma non hanno
nemmeno un potenziale di appartenenza”20. Potremmo aggiungere che
l’esclusione degli “esseri umani marginali” dal poter essere soggetti attivi di scelte morali rappresenta un fatto contingente, mentre per gli animali costituisce un fatto essenziale, legato alla loro stessa natura in sé e
non a una particolare condizione o momento. Da rilevare positivamente ci sembra anche la sua critica alla morale utilitarista: “La moralità
dell’utilitarista è davvero una specie di sistema economico, in cui piacere e dolore hanno preso il posto di profitto e perdita, e in cui non si
presentano problemi morali che non possano essere risolti da un contabile competente”21.
15 ivi, p. 42
16 ivi, p. 43
17 ivi, p. 43
18 ivi, p. 44
19 ivi, p. 44
20 ivi, p.44
21 ivi, p. 47
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Le radici della morale
Le radici del pensiero morale, tipico della nostra specie, a parere di
Scruton sono la legge morale, cioè l’insieme delle norme che prescrivono ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, la simpatia, importante fattore
unificante gli esseri sociali quale è l’uomo, le virtù, che attengono al
nostro carattere formato dall’educazione, cioè la propensione a scegliere ciò che si crede onorabile, giusto o buono (nell’antichità – aggiungiamo noi - un uomo virtuoso non era semplicemente una persona
“buona”, ma era connotato anche da un animo saldo e fiero che segue
il retto agire), e infine il rispetto, che nasce non dal timore, ma dal riconoscimento del valore e dell’importanza intrinseci di una realtà. Tale
aspetto potrebbe essere reso meglio con la parola pietas, intesa nella
sua accezione pagana, diversa dalla pietà cristiana o da quella moderna, puramente sentimentale. Di fatto la pietas romana aveva un forte
valenza sacrale22, totalmente perduta nelle epoche successive e che
Scruton in qualche modo sembra voler in parte recuperare. Per il
nostro Autore legge morale, simpatia e virtù dipendono tutte in ultima
analisi dalla pietas che ci rende coscienti della nostra posizione anche
di fronte all’ambiente che ci circonda e quindi anche di fronte agli altri
viventi, con una attitudine di considerazione e attenzione per il loro
valore intrinseco: “noi dobbiamo recuperare l’atteggiamento che prevaleva nel passato nei confronti del mondo naturale, che considerava
sacre le specie e vedeva l’umanità non affermare ancora un’assoluta
sovranità, ma solo un’umile curatela sulle opere della natura […]. È
proprio la pietas, non la ragione, a instillarci il rispetto nei confronti
del mondo, per il suo passato e il suo futuro, e a impedirci di saccheggiare tutto il possibile prima che la luce della consapevolezza ci illumini”23, in quanto ogni approccio unicamente “razionale” è perdente.
Forse sarebbe stato utile che l’Autore avesse chiarito la frase riferita
all’atteggiamento prevalente nel passato, in quanto, se non adeguatamente circostanziata, appare contraddittoria con il suo riferimento iniziale alla antica e inveterata consuetudine occidentale di “usare” gli
animali a nostro piacimento. Secondo Scruton solo le persone, e non i
semplici individui, sono detentori di diritti e quindi di doveri, e gli animali sono individui, mai persone: “Il concetto di persona appartiene al
dialogo continuo che lega la comunità morale, e quelle creature che per
loro natura sono incapaci di entrare in siffatto dialogo non hanno diritti, né doveri, né personalità. Se gli animali avessero diritti, dovremmo
22 J. Evola, L’arco e la clava, Mediterranee, Roma 1995, p. 49
23 R. Scruton, Gli animali ecc. pp. 52-3
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chiedere il loro consenso prima di tenerli in cattività, addestrarli, addomesticarli o sfruttarli per i nostri fini in qualunque altra maniera. Non
esiste alcun concepibile meccanismo attraverso il quale siffatto consenso possa essere concesso o rifiutato. Per di più, una creatura che avesse dei diritti sarebbe vincolata dal dovere di rispettare quelli degli altri:
così una volpe dovrebbe rispettare il diritto alla vita del pollo e intere
specie sarebbero condannate ipso facto come creature istintivamente
criminali”24. Tutto ciò comporterebbe evidenti assurdità e abusi di ogni
genere. Gli animali, quindi, sono solo individui, gli esseri umani sono
anche persone e come tali soggetti morali, detentori di diritti e doveri.
Se si attribuiscono agli animali dei diritti, è consequenziale che essi
siano anche portatori di responsabilità, soggetti a doveri, cosa che con
tutta evidenza è un assurdo e riporterebbe a epoche passate quando in
Europa, secoli fa, venivano processati e giustiziati animali “rei” di
colpe inesistenti (sacrilegio, cannibalismo, ecc.)25. Comunque, “sebbene gli animali non abbiano diritti, noi abbiamo comunque doveri e
responsabilità nei loro confronti”26. In particolare, dopo millenni di
allevamento, dobbiamo prendere atto che l’addomesticazione di molti
animali ha introdotto delle necessità che i nostri avi hanno determinato
in loro e di cui siamo responsabili. Circa i nostri doveri, aggiunge Scruton, bisogna evidenziare che mentre nel caso degli animali addomesticati, specie se da compagnia, abbiamo doveri verso il singolo individuo,
nel caso degli animali selvatici abbiamo doveri verso la specie (tutelarne l’esistenza, intervenendo per correggere gli effetti nefasti del nostro
agire sull’ambiente). Nella situazione attuale, tale responsabilità logicamente si dovrebbe richiamare con forza per quel che riguarda gli animali selvatici, dato che la potenza tecnologica dell’uomo può facilmente e in poco tempo stravolgere interi habitat con conseguenze gravissime sulla stessa sopravvivenza di intere specie. Scruton ribadisce più
volte, forse per evitare malintesi più o meno voluti, che quanto da lui
asserito circa gli animali “non significa che gli esseri umani non abbiano doveri nei loro confronti, doveri che nascono e vengono assunti nel
momento in cui rendiamo gli animali dipendenti da noi per la loro
sopravvivenza e il loro benessere”27. La simpatia umana verso gli animali, in ogni caso, non deve confondersi assolutamente con un’emozione sentimentalistica giacché, mentre il vero amore è interessato all’oggetto, l’amore sentimentalistico “non va oltre il Sé e dà priorità ai suoi
stessi piaceri e dolori, oppure inventa per se stesso un’immagine grati24 ivi, pp. 63-4
25 cfr. Roberto Delort, L’uomo e gli animali dall’età della pietra a oggi, Laterza, Bari 1987, p. 153
26 R.Scruton, Gli animali ecc. p.65
27 ivi, p. 97
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ficante dei piaceri e dei dolori del suo oggetto”28, cadendo in un antropomorfismo egocentrico e un po’ narcisista. In conclusione Scruton
nella prassi operativa derivante dai presupposti teorici prima esposti si
dichiara a favore dell’allevamento degli animali per l’uso alimentare
delle carni (ma con metodi attenti al loro benessere), dell’impiego di
cavalli e cani nelle corse, tutelandone però al massimo l’incolumità, e
anche della caccia e della pesca (ma non di quella industriale, indiscriminata). Su caccia e pesca, tra l’altro, evidenzia il loro importante
ruolo di sostegno e sviluppo dei legami sociali e culturali tra gli esseri
umani. Sicuramente queste ultime sono le pagine che possono risultare
più discutibili a tutti coloro che – e oggi sono molti – considerano inammissibili, perché crudeli, attività come la caccia, in particolare. Il
nostro Autore ritiene invece intollerabile rinchiudere gli animali negli
zoo o usarli per la vivisezione, due impieghi, a suo parere, difficilmente giustificabili.
I comportamenti complessi tra etologia e antropologia filosofica
A margine delle osservazioni e riflessioni di Scruton vorremmo aggiungere alcune considerazioni. In primo luogo ci sembra utile per completezza ricordare gli studi di etologia che dimostrano come certe attitudini
morali abbiano anche una radice biologica secondo quanto ha evidenziato già alcuni decenni addietro l’etologo Wolfgang Wickler29, discepolo di
Konrad Lorenz. Ciò non significa, però, rendere gli animali soggetti
“morali”: infatti essi mancano di consapevolezza circa il significato delle
loro azioni. Seguono solo l’istinto che li induce a comportarsi in un certo
modo in determinate situazioni, e ciò in genere garantisce la loro sopravvivenza. Ma non significa nemmeno rendere l’uomo un essere amorale,
che si è costruito arbitrariamente, e inconsciamente, un universo di diritti e doveri culturali, mentre non farebbe altro che obbedire quasi meccanicamente a delle coercizioni biologiche, prive di qualsiasi valenza etica.
Infatti, se si procedesse su questa strada, si dimenticherebbe che gli stessi caratteri assumono, a livelli diversi, significati differenti in quanto vengono integrati in realtà più complesse che danno loro anche un senso
profondamente nuovo. L’uomo è un animale simbolico per eccellenza: i
suoi simboli non vanno confusi con i segnali scambiati nel mondo animale e che hanno una base innata, geneticamente programmata, anche se
talora migliorabile con l’apprendimento, mentre l’uomo “crea” i suoi
simboli, seppur seguendo regole abbastanza generali e comuni, basate
28 ivi, p. 100
29 W.Wickler, Biologia dei dieci comandamenti, Armando, Roma 1973
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sull’analogia. Nel nostro universo interiore esistono certo condizionamenti biologici, pulsioni, ecc., ma questi vengono ampiamente mediati e
manipolati dal soggetto stesso, che si autocostruisce non contro la natura
ma su di essa. Così il riconoscere una base innata in certi comportamenti positivi rafforza senza sminuire l’universo dell’etica. Per qualsiasi
sfera dell’agire umano, anche la più semplice, almeno in apparenza,
notiamo che esiste una integrazione del tutto particolare e altamente specifica, che a prima vista sfugge. Osservando il perfetto coordinamento tra
le parti che ogni atto implica, si deve optare per una visione olista che
comprenda in un tutto organico, connesso, ordinato e dinamico, l’intero
essere umano, che costituisce un’unità indissolubile dove le varie dimensioni non agiscono meccanicamente separate o sommate le une alle altre,
ma esprimono una entità sistemica integrata a un livello particolare, specifico. Scriveva l’antropologo tedesco Arnold Gehlen che “per la prestazione umana anche minima, per esempio il tastare un oggetto e l’averne
esperienza, già entrano in gioco tutte le qualità dell’uomo: la stazione
eretta (dunque il piede plantigrado), mano libera, movimenti riavvertiti
e variabili, struttura pulsionale inibita, visione simbolica, uno spazio
percettivo orientato verticalmente e la astrazione del prender nota”30. E’
appena il caso di ricordare come ancor più complessa e integrata sia una
azione svolta dall’uomo all’interno di un codice morale, derivante da una
sintesi unica di natura e cultura, innato e appreso, genetica e ambiente,
rinvenibile solo e soltanto nella nostra specie. D’altra parte, l’Io non sta
fuori dal corpo, come asseriva Cartesio, ma fa tutt’uno con l’intero essere in tutti i suoi livelli e il nostro Io è strettamente connesso con la sfera
morale. Gehlen è noto per la definizione dell’uomo come “essere aperto al
mondo”, “non specializzato”31 per certi versi incompiuto, tanto che la
sua stessa vita è un progetto da realizzare; quindi l’uomo è molto diverso
dagli animali, tutti dotati di istinti ben precisi e focalizzati, di “armi”
naturali, di sensi molto sviluppati. La cultura per la nostra specie diviene un elemento essenziale, originario e primordiale, strettamente intersecato con la nostra dimensione biologica, tanto che Gehlen considera
l’uomo un essere per natura “culturale”, il quale, a causa della sua condizione tipica, occupa un “posto peculiare”, risulta incomparabile con gli
altri primati32. Anche la comparsa, nel corso dell’evoluzione, di questo
essere incompiuto non si può spiegare attraverso il semplicismo del meccanismo selezionista: l’uomo, secondo Gehlen, è il frutto di un “dispiegamento evolutivo autonomo”33. Mentre gli animali possiedono istinti sicu30 A.Gehlen, L'uomo, Feltrinelli, 1983, p.157
31 ivi, p. 383
32 ivi, p. 116
33 ivi, p. 155 e segg.
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ri e organi efficaci, di difesa e di attacco (artigli, corna, zanne, ecc.), l’uomo manca di tutto ciò, essendo privo di un suo mondo istintuale armonizzato con uno specifico ambiente, mentre è caratterizzato da un eccesso pulsionale costituzionale. Quindi deve compiere “la fatica di Sisifo di
padroneggiare ogni giorno l’esistenza”34. Il suo compito fondamentale
consiste nel “vivere”. E, a parere di questo studioso, il fatto che egli ci
riesca appare quasi incredibile, se lo consideriamo in termini puramente
biologici e zoologici. Poiché “la vita pulsionale dell’uomo è un teatro di
conflitti”35, egli per sopravvivere deve completarsi, cioè deve mettere
ordine dentro di sé, disciplinandosi, reprimendo alcune pulsioni a favore
di altre. Per Gehlen, quindi, una certa forma di repressione direzionata
alla crescita interiore svolge un ruolo positivo ed essenziale: infatti se
manca il dominio sul caos pulsionale naturalistico, originario, l’uomo
rinuncia ad essere tale, perde la sua “specificità”. Gli istinti ci indicano
ciò che non possiamo fare piuttosto che ciò che dobbiamo fare: a differenza di quelli animali, gli istinti umani mancano di contenuto, secondo
Gehlen. In questa situazione la cultura costituisce una componente essenziale, tipica della nostra specie, come l’istinto per gli animali. L’approccio dello studioso tedesco demolisce ogni facile riduzionismo e ogni “continuità” uomo-animali, con argomentazioni perfettamente “laiche” e
razionali, tutte basate sui dati forniti dalla ricerca scientifica.
L’antropologia di Clifford Geertz
La specificità particolare dell’essere umano può essere supportata
anche facendo riferimento alle teorie dell’antropologo americano Clifford
Geertz. Pure secondo questo Autore l’uomo è l’unico animale biologicamente incompleto, la cui mente presenta una natura interattiva in modo
intrinseco, in quanto “il pensiero umano è fondamentalmente sia sociale
sia pubblico”36; e ancora: “non esiste una cosa come una natura umana
indipendente dalla cultura. Gli uomini senza cultura non sarebbero gli
intelligenti selvaggi de Il signore delle mosche di Goldin ricacciati nella
crudele saggezza dei loro istinti animaleschi; non sarebbero i nobili figli
della natura del primitivismo illuministico e neppure… le scimmie naturalmente dotate di talento che in qualche modo non erano riuscite a trovare se stesse. Sarebbero inguaribili mostruosità con pochissimi istinti
utili, ancor meno sentimenti riconoscibili, e nessun intelletto: casi mentali disperati”37. I sistemi di simboli significanti, che costituiscono la cultu34 ivi, p.84; dello stesso Autore vedasi: Le origini dell'uomo e la tarda cultura, il Saggiatore, Milano 1994
35 ivi, p.441
36 Clifford Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, p.88
37 ivi, p.93
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ra, sono, infatti, “naturalmente” intrecciati con i meccanismi del pensiero che dirigono i nostri comportamenti e organizzano la nostra esperienza. L’uomo crea forme dotate di significato, in quanto è un datore di senso
alla realtà circostante, è addirittura “un animale impigliato nelle reti di
significati che egli stesso ha tessuto”, costituite dalla cultura38, come già
aveva osservato Max Weber. Dunque noi “siamo animali incompleti o non
finiti che si completano e si rifiniscono attraverso la cultura - e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente
particolari”39. È importante notare quest’ultimo aspetto della specificità
dell’uomo, anzi degli “uomini”, in quanto portando a compimento se stesso, l’essere umano non diventa “un qualsiasi uomo”, bensì “un particolare tipo di uomo”, culturalmente definito, con le sue diversità e disuguaglianze essenziali, e non contingenti e superficiali40. Geertz ha sottolineato che nel supposto passaggio dagli Australopitechi all’uomo avvennero
cambiamenti drammatici che comportarono una riorganizzazione radicale delle strutture nervose. Ciò avvenne solo perché gli aspetti biologici e
quelli culturali interagirono in modo molto stretto e del tutto specifico,
caratterizzando così il cristallizzarsi del fenotipo-uomo in una sua dimensione unica. Non si realizzò un processo continuo e lineare, con la somma
di parti l’una accanto all’altra, come caratteri addizionati, ma un processo dinamico e interattivo, che diede luogo a veri e propri “salti” qualitativi. L’uomo è strettamente integrato in un sistema di simboli significanti, senza i quali non esisterebbe. In questo è radicalmente diverso da
tutti gli altri animali. E proprio la stretta interazione tra natura e cultura, dai risvolti creativi e differenzianti in profondità, impedisce, a parere di Geertz, di parlare dell’“uomo” in astratto, come pretende di fare il
filone di pensiero di derivazione illuminista. Invece si può parlare solo di
“uomini” in senso plurale, legati alle loro appartenenze culturali41.
Anche in questo si può notare una profonda differenza con gli animali:
tra essi le diversità sono interindividuali, tra noi interpersonali. Da
quanto riportato si evince che per differenziare l’uomo dagli animali, e in
particolare dai primati superiori, non è necessario avvalersi di argomenti religiosi, facendo riferimento all’anima o alla trascendenza di cui solo
l’uomo sarebbe partecipe. È possibile argomentare in modo convincente
e per nulla banale semplicemente sulla base di osservazioni e riflessioni
limitate alla fenomenologia caratterizzante la nostra specie, e non solo sul
piano dell’etica. E in tal modo si può rispondere a tutte le pretese di considerare l’uomo un semplice primate evolutosi lungo un percorso lineare
38 ivi, p.41
39 ivi, p.94
40 ivi, p. 98
41 ivi, pp. 91-99
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e continuo rispetto alle scimmie antropoidi, e che si differenzierebbe da
esse solo per il fatto di possedere in maggiore misura le stesse caratteristiche psico-intellettive: così introducendo l’idea che ambedue i gruppi di
esseri viventi comparteciperebbero di uno status per vari aspetti analogo, tale da giustificare anche, magari in modo indiretto, senza necessari
riferimenti al mondo morale, una comune, seppur embrionale, piattaforma giuridica, definita da alcuni basilari diritti condivisi.
Qualche riflessione finale
In conclusione vorremmo osservare che spesso le teorie animaliste ignorano l’aspetto tragico inerente a ogni esistenza in quanto luogo di scelte
rivolte anche verso l’esterno, e non di ripiegamenti su se stessi (ovviamente non ci riferiamo assolutamente a certa “visione tragica della vita”, in
voga in un passato non molto lontano, visione molto retorica che esaltava
figure titaniche e prometeiche). Per combattere l’antropocentrismo arrogante, tale animalismo vuole indurre nell’uomo una attitudine di marginalità rispetto alla natura, facendolo sentire quasi un “ospite indesiderato”,
dimenticando che può esistere un’altra possibilità e un altro percorso dove
la centralità dell’uomo, visto nella sua dimensione integrale, sia sentita e
realizzata come solidale con l’intera natura. Responsabilità significa anche
prendere decisioni difficili e controverse, non significa fuggire e appiattirsi
su schemi precostituiti, meccanici, che nascondono la paura di assolvere al
ruolo che l’essere umano, anche per la lunga eredità di cui è portatore,
deve necessariamente svolgere. Questa è deresponsabilizzazione mascherata dietro un moralismo buonista di modesta caratura, nei fatti un po’ cinico. Al di là delle nostre colpe passate, oggi dobbiamo prendere coscienza
della realtà e ricordare l’esistenza di un legame, artificiale se si vuole, ma
derivante dalla storia (non fosse altro che per i lunghissimi processi di
domesticazione degli animali), legame che ci impone di modificare ma non
di annullare il nostro intervento sulla natura. Il complesso dell’ospite indesiderato è incapacitante e dannoso: va superato. In questa ottica volta a
una rivisitazione critica delle teorie animaliste, la lettura delle argomentazioni portate da Scruton, indipendentemente dal fatto di condividerne gli
esiti finali, offre non solo delle utili “provocazioni”, ma anche un valido
metodo di analisi del problema, che tende a essere scevro dagli eccessi delle
astrazioni razionalistiche, valorizzando piuttosto un approccio sanamente
empirico. Egli pone all’attenzione del lettore argomenti e riflessioni che
quanto meno inducono a riflettere anche chi non li condivide, in un’ottica
aperta al dibattito e senza la pretesa di fornire certezze assolute, dogmatiche, come spesso accade discutendo intorno a questi temi.
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