Casati - Isps Lombardia
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Casati - Isps Lombardia
Non credete senza domandare, ma indagate così da poter credere Il titolo si rifà ad un monito che John Perceval rivolge ai suoi lettori nell’apertura del primo dei due libri scritti sulla propria storia di paziente psichiatrico che ha trovato la via della guarigione. Nel 1935, G. Bateson, tornando da uno dei suoi viaggi di studio antropologici, acquistò su di una bancarella, due volumi scritti da un certo e sconosciuto J. Perceval che descriveva la propria esperienza di ex paziente psichiatrico. Leggere questi due libri deve essere stato ben faticoso perché solo più di 25 anni più tardi G. Bateson decide di ripubblicare quest’opera dopo drastiche riduzioni tese a rendere più abbordabile un lavoro altrimenti per noi troppo noioso. D’altra parte G. Bateson si rese conto dell’importanza dell’opera, della sua modernità, e di quanto certe proprie intuizioni trovassero conferma nelle parole di J. Perceval (1) al punto da ritenere il suo un contributo “scientifico” (2). D’altra parte, come afferma P. Bertrando (3) nella sua nota finale o postfazione all’edizione italiana da lui curata, l’opera del “grande schizofrenico” (4) può attingere a nuove, inattese profondità o prestarsi ad ulteriori investigazioni. In realtà, come spesso avviene, le opere fondamentali, sono in grado di fornire iridescenti e ricchi rimandi tanto numerosi quanto almeno gli “sguardi” di chi le considera. Mi permetterò in questo mio contributo di far riferimento alle riflessioni e alle proposte suscitate in me dalla lettura di questa opera la cui conoscenza è purtroppo scarsa in relazione alla sua importanza. J. Perceval (5) era il quinto maschio dei dodici figli viventi di Spencer Perceval presidente della Camera dei Comuni che era stato assassinato da un fanatico, mentre presiedeva la Camera stessa. A quel tempo J. Perceval aveva nove anni. Quando aveva undici anni, la madre si risposò con Sir Henry Car da cui non ebbe altri figli. Come molti altri giovani della sua condizione, J. Perceval entrò nell’esercito arrivando fino al grado di capitano di fanteria. Durante questo periodo fu turbato da conflitti religiosi e subì l’influenza delle dottrine evangeliche. A 27 anni lasciò la vita militare e dopo poco volle recarsi in Scozia ad indagare sui miracoli di Row. Si trattava di un culto evangelico estremo i cui adepti venivano chiamati Irvingiti e dicevano di avere il dono della parola e cioè di parlare lingue sconosciute ma di esprimersi con la verità del cuore. Sembra comunque che anche ai leader di questo gruppo J. Perceval apparisse un pò stravagante (6). Recatosi a Dublino ed avendo frequentato una prostituta, si convinse di aver contratto la sifilide. La rapida guarigione fu attribuita in parte ad intervento medico ed in parte ad intervento divino. Da buon ossessivo J. Perceval era tormentosamente esitante tra il confidare solo nella fede in Dio o prendere le medicine. Nel dubbio scelse di prenderne solo metà dose. Pochi giorni dopo, il suo comportamento diventò assolutamente disordinato tanto da venir contenuto nella stessa stanza d’albergo in cui era alloggiato. Il fratello maggiore Spencer, venne a prenderlo e lo fece ricoverare a Brisslington vicino a Bristol in una casa di cura diretta dai dottori Fox. Qui rimase tutto l’anno 1831 e fino al Maggio del 1832 quando fu trasferito nella casa di cura del sign. Newington a Ticehurst nel Sussex. Dimesso definitivamente all’inizio del 1834, si recò a Londra ospite della famiglia Sevenoaks. Nel 1834 sposò Anna Gardner da cui ebbe quattro figlie. Dopo il matrimonio continuò a vivere a Londra e maturò la decisione di scrivere un libro sulla propria esperienza. L’idea era sì quella di raccontare la propria storia ma con lo scopo di aiutare altre persone condannate a soffrire come lui. Successivamente J. Perceval si reca a Parigi dove conosce Esquirol sostenitore della riforma dei manicomi. Proprio a Parigi scrive il suo primo libro che pubblicherà dopo il ritorno a Londra, solo nel 1938,ed in maniera anonima. Il titolo completo del libro è: A Narrative of the Treatment Experienced by a Gentlemen, during a State of Mental Derangement , Designed to Explain the Course and the Nature of Insanity (and to expose the Injudicious Conduct Pursued towards Many Unfurtunate Sufferers under that Calamity). Perceval anche ora si sente investito di una missione (come quando era andato in Scozia) ma tanto laica quanto altruistica. Perceval si occupa attivamente di aiutare malati mentali ricoverati, difende un tale Richard Paternoster che in seguito si associa a lui ad altri ex pazienti e anche ad alcuni medici sostenitori di questa causa. Nel 1840 scrive un secondo volume anche più accusatorio del primo. Dopo la pubblicazione rinuncia alle azioni legali da lui intentate contro la madre e contro il 1 suo primo curante il dott. Fox. Viene nominato “guardian” della città di Cassington e quindi può venire in contatto con i più bisognosi (7). Questa posizione gli permette di lottare contro le leggi e le pratiche in materia manicomiale. Nel 1846, partendo dal gruppetto che si era costituito intorno a lui, costituisce la “Alleged (presunti) Lunatics Friend Society”. Questa società durerà per 20 anni circa e diventerà un importante riferimento per la lotta sia contro le condizioni manicomiali che anche per i diritti umani in generale. Verrà ascoltata (invano) dal parlamento nel 1859 e poi perderà lentamente di smalto. J. Perceval morì a 73 anni nella Munster House asylum nel 1876. Questi due volumi pubblicati da J. Perceval non sembra abbiano lasciato una grande traccia nella cultura dell’ottocento e sono stati recuperati per caso su una bancarella da G. Bateson nel 1935, mentre questi stava tornando da uno dei suoi viaggi in Nuova Guinea. Tuttavia, come già detto è solo nel 1961 che Bateson rivede l’opera di Perceval, ne depenna le parti che ritiene inutili o pleonastiche o semplicemente noiose, la condensa in un solo volume e la fa pubblicare. Nonostante uno sponsor di tale importanza l’opera non è molto conosciuta. La prima edizione in Italia a cura di P. Bertrando è del 2005 ed è stata recensita da Augusto Romano sulla “La Stampa” del sabato 27.08.2005. Va notato che nella storia della psichiatria J. Perceval è quasi sconosciuto mentre le opere di due altri pazienti che descrivono la propria esperienza manicomiale sono molto meglio note. L’autobiografia del Presidente Daniel Paul Schreber è famosa anche grazie ai commenti di Freud (8) e non solo, ma anche l’opera di Clifford Whittingham Beers ha avuto almeno negli Stati Uniti una grande risonanza legata anche all’attività politica del Beers stesso. Questi nato nel 1876, nel 1900, dopo un tentato suicidio fu ricoverato a Middletown nel Cunnecticut State Hospital. Dopo le dimissioni ed un altro ricovero in una struttura privata, Beers ha scritto una autobiografia intitolata: “A Mind that found itself” (9). In seguito fu il fondatore del movimento di igiene mentale statunitense di cui si occupò fino alla morte nel 1943. Il Presidente Schreber ha descritto soprattutto le proprie esperienze deliranti mentre Beers ha descritto soprattutto le condizioni manicomiali. J. Perceval descrive con dovizia di particolari le atrocità dei luoghi allora deputati alla cura dei “lunatici” (e ci descrive una casa di cura privata tra le più rinomate e care!), descrive i propri deliri e le proprie allucinazioni, le proprie reazioni emotive ed i propri pensieri ma soprattutto ne cerca le ragioni e si costruisce una propria interpretazione della malattia. Nella prefazione al suo secondo volume spiega bene lo scopo del suo lavoro: “spera (l’autore)di mostrare le disgraziate e affettuose relazioni di una persona squilibrata, quali possono essere le sue necessità e come condursi con lui, così da evitare gli errori che sfortunatamente furono commessi dalla famiglia dell’autore.” Il primo di questi errori ben sottolineato da Bateson (10) e che ci capita ancor oggi di compiere viene descritto così: “ quando mio fratello Spencer comparve per la prima volta al mio capezzale gli dissi – ho speranza ora , sarò compreso e rispettato – perché mi aveva scritto che credeva nei miracoli di Row. Quando però gli dissi per la prima volta – mi si chiede di dire questo e quello, mi si chiede di fare questa o quella azione- egli replicò in tono sbrigativo e superficiale, come si rivolgesse ad un bambino e si fece beffe di me. La speranza di essere compreso era svanita e il mio cuore si allontanò da lui.” Qui è evidente il dramma di non sentirsi né capito né creduto che non può non attanagliare un paziente immerso nei propri deliri. In questa ottica il compito o meglio il dovere del medico o di chi si occupa del paziente è di capire. Bisogna uscire dagli agiti reattivi (contenzione, farmaci, bagni freddi) per sforzarci di comprendere. Non è tuttavia questo l’unico mio scopo, mi importa ancora di più mostrare come quest’ uomo che ha trovato da solo la via verso la guarigione, ha anche scoperto il significato simbolico dei sintomi schizofrenici e tale decodificazione è stata probabilmente l’origine della sua guarigione.. A proposito della guarigione della schizofrenia vorrei spendere alcune parole per sfatare il mito della inguaribilità che ancora circonda questo disturbo psichico. Anche in questo caso è difficile comprendere perché un pregiudizio tante volte contraddetto continui a persistere anche nella comunità scientifica 2 psichiatrica. M. Bleuler ha coniato il termine schizofrenia perché si era già accorto insieme con Krepelin, rivedendo con lui i casi diagnosticati come demenza precoce che non tutti esitavano appunto in un quadro demenziale ma che alcuni guarivano. Gli studi sugli esiti iniziati da Bleuler e ripetuti tante volte in seguito, indicano grossolanamente la frequenza della guarigione intorno al 10% dei casi (11) (12) e secondo autori più recenti si arriverebbe al 20-25% dei casi (13) I clinici che non riescono a staccarsi dalla visione krepeliniana (che Krepelin stesso aveva messo in dubbio) sostengono che le guarigioni corrispondono ad errori di diagnosi. Chi vuole sincerarsi se J. Perceval è guarito da un quadro schizofrenico o meno, non ha che da leggere la storia da lui dedicata alla propria psicosi. Troverà illusioni, allucinazioni, deliri, influenzamento del pensiero, lettura del pensiero, comportamento disordinato, con durata della sintomatologia superiore agli anni e non ai sei mesi richiesti dal DSM IV per una diagnosi sicura. La diagnosi che oggi noi faremmo è di “schizofrenia indifferenziata”ed il processo attraverso il quale J. Perceval recupera la sua sanità mentale non può che essere definito “autoanalisi”, solo che avviene quasi sessanta anni prima che Freud inventasse il termine di “psicoanalisi” (14). Proprio nella descrizione del grande viaggio verso la normalità sta la peculiarità di J. Perceval. Infatti il Presidente Schreber ha sempre descritto la propria sintomatologia ma con scarso o assente spirito critico mentre Beers ha soprattutto descritto le ignominiose condizioni dei luoghi di cura per pazienti psichiatrici. J. Perceval invece, almeno nel libro così come ridotto da G. Bateson e come pubblicato in Italia a cura di P. Bertrando, dedica le prime 180 pagine circa a descrivere le proprie disgraziate esperienze; poco più di altre 100 pagine sono dedicate a descrivere gli sfortunati compagni di sventura; in fine circa 60 pagine sono dedicate alla descrizione di come J. Percival sia guarito e alla interpretazione di quanto gli era successo. Io illustrerò questa ultima parte pur sapendo che anche il resto delle descrizioni dell’autore possono essere fonte di interessanti riflessioni. Mi preme mostrare quanto profondamente J. Perceval sia penetrato nella interpretazione dei sintomi schizofrenici e per questo mi basterà estrarre brevi paragrafi della sua opera sottraendoli appena ai naturali condizionamenti della cultura ottocentesca e alla peculiare visione religiosa dell’autore. Inizio con il monito che J. Perceval rivolge ai suoi possibili lettori e che ancor oggi ritengo valido perché richiede ai terapeuti un’attenzione curiosa e senza pregiudizi. “nel nome dell’umanità, nel nome del pudore, nel nome della saggezza, v’invito a immedesimarvi in coloro le cui sofferenze vado a descrivere, (…). Avvicinatevi loro coi sentimenti e cercate di prendere le loro difese. Siate loro amici, non mostrate ostilità nelle vostre considerazioni. Accettate come dato di fatto l’ignoranza che tutti voi ammettete e date udienza a chi molto vi può insegnare. Disponetevi ad ascoltare con l’animo di un bambino, perché piccini siete, o tali cercate di pensarvi, nella conoscenza di quest’argomento; non credete senza domandare, ma indagate così da poter credere”. Un’altra osservazione che mi sembra importante è la seguente: “Immagino che se fossi stato curato secondo natura (…), mi sarei ripreso in meno tempo” Qui senza volerlo J. Perceval mette il dito su un nervo ancora oggi scoperto della psichiatria e ben sottolineato da Bateson e cioè sul fatto che la cura stessa possa servire a mantenere o addirittura a peggiorare la malattia. Io non so cosa intendesse l’autore con “curare secondo natura” ma immagino 3 che volesse alludere alla necessità non di “reagire” alla malattia ma di cercare di comprenderla come un fenomeno “naturale”. Ma ora ecco che J. Perceval ha una vera e propria illuminazione. In una breve frase condensa tutto il significato dei disturbi psicosensoriali dei pazienti schizofrenici con una interpretazione che precorre di molti decenni gli sforzi di approfondimento di schiere di illustri psicologi. Ho il sospetto che molti dei deliri che mi tormentavano e che affliggevano molti altri pazienti, derivino dall’interpretazione letterale di una forma poetica o figurativa di comunicazione; quest’osservazione può rivestir grand’importanza per coloro che sono incaricati di curarli. Siamo nel 1838 circa e non si può che restare esterefatti se si pensa che solo nel 1895 (15) Freud comincia a voler dare un significato ai sintomi psicotici. C. G. Jung nel 1907 (16) e poi nel 1910 (17) si avvicina ad una lettura metaforica dei sintomi schizofrenici subito sostenuto da S. Freud ancora nel 1910 (18). J. Perceval, precorrendo di un secolo lo stesso Bateson ci dice che i deliri devono essere considerati come una forma di comunicazione. Non si tratta quindi del prodotto incomprensibile di un organo rotto (il cervello), ma di un tentativo di comunicazione del tutto particolare. Come nota P. Bertrando nella sua postfazione all’opera di G.Bateson, J. Perceval anticipa di un secolo anche il “ principio di Von Domarus” (19). Il grande paziente nota non di meno che questa sua osservazione può avere importanti ricadute in campo terapeutico (o se vogliamo con linguaggio più moderno: psicoterapeutico). La sola frase sopra riportata dovrebbe collocare J. Perceval tra i grandi della psicologia e della psichiatria. Perceval scopre il significato dei deliri e delle allucinazioni come forma di comunicazione da parte dell’inconscio, proprio come gli psicoanalisti pensano che avvenga anche nei sogni, 18 anni prima della nascita di Freud. Non solo lo scopre ma comprende anche il potere terapeutico di una tale scoperta. J. Perceval osserva un anziano ricoverato che era stato in Cina (20) che raccoglie foglie di ligustro e sostiene che siano tè, poi si impiastriccia con argilla rossa e afferma che è tintura. J. Perceval scrive: “Lo spirito parla in forma poetica, ma l’uomo intende le sue parole in senso letterale. Udremo forse un lunatico sostenere di essere di ferro….un altro di essere un vaso cinese…Lo spirito intende che l’uomo è forte come il ferro o fragile come un coccio; ma un lunatico interpreta le sue parole letteralmente” (21) Se sostituiamo alla parola spirito quella di inconscio non potremmo essere più d’accordo di così con il nostro autore. J. Perceval ci propone una lettura metaforica dei sintomi schizofrenici e si cimenta in un vero e proprio lavoro interpretativo: “analogamente, quando mi chiedevano ( gli spiriti) di soffocarmi con il cuscino e mi dicevano che altri stavano soffocando per me….ritengo ora che lo spirito si riferisse all’oppressione dei miei sentimenti, al fatto che stessi soffocando il mio dolore, la mia rabbia,….sul cuscino della mia coscienza” (22) C’è da rimanerne increduli, J. Perceval sentiva le voci che gli imponevano di tenere assieme il cuore e la testa e lui a distanza di un anno è in grado di interpretarne il significato metaforico: “ ma ora penso che quando mi chiedevano di tenere insieme la testa e il cuore volessero dirmi di pensare alle cose di cui avevo bisogno o che desideravo” (23). In altri termini il grande paziente si rende 4 conto di come sia necessario recuperare la dissociazione tra mente e corpo per ricondurli ad unicità. J. Perceval fa pure una serie di collegamenti tra la respirazione e lo stato psichico ma se ci pensate ancor oggi molti interventi sull’ansia o sugli attacchi di panico si basano sul controllo della respirazione e quindi anche queste osservazioni che possono apparire peregrine alla fin fine non lo sono. L’autore aggiunge altri esempi di come i lunatici scambino i pensieri poetici con la realtà Mi si diceva ripetutamente che questa o l’altra persona fossero mia madre, le mie sorelle o i miei fratelli. Penso che fosse inteso in senso spirituale o che vi fosse una somiglianza. Mi dicevano che non ero in Inghilterra…ed ora so che intendevano dire che la cura cui ero sottoposto era indegna dell’Inghilterra. J. Perceval interpreta anche le voci che gli intimano di combattere contro i sorveglianti come un invito a confrontarsi con essi civilmente per far loro le giuste rimostranze (24). Il “lunatico”era tormentato da voci che gli ordinavano di gettarsi contro le staccionate, di buttarsi a sinistra, a destra, di gettarsi in terra ed egli come le interpreta? Le voci così assurde, dice- non vanno prese alla lettera perché sarebbe una follia, vanno capite come quando un padre per scherzo dice al figlio: “ora va nella pozzanghera” oppure: ”metti le mani nel fuoco” ma in effetti intende dire il contrario-. E’ evidente lo sforzo ma anche la grande capacità di dare significato ai propri sintomi con una lettura plausibile ed intelligente. In questo modo viene indicata la via regia ancor oggi purtroppo non sufficientemente praticata nella cura delle psicosi. J. Perceval si accorge anche di essere stato aiutato nel recuperare le proprie facoltà mentali e nello sviluppare la capacità di interpretare i sintomi psicotici, dall’osservazione del degrado e della distruzione cui era andato incontro un distinto ed anziano signore ricoverato come lui (25). Mi pare molto verosimile che questo fatto abbia potuto fortemente motivare il paziente. Infatti racconta con stupore di aver scambiato all’inizio quest’uomo per un visitatore ma dopo pochi giorni cominciò ad imbrattarsi con l’argilla definendola tintura, cominciò ad infastidire gli altri, fu legato in una nicchia del muro come era avvenuto a Perceval e da quel momento non fece che regredire fino a diventare sempre più ripugnante. Perceval quindi ha forse modo di rivedersi nei panni dell’altro ricoverato e di desiderare di sfuggire alla stessa sorte. Qui a mio parere appare chiaro il problema della motivazione. Credo che ottenere risultati in assenza di una forte motivazione del paziente renda difficile se non impossibile una collaborazione produttiva. D’altra parte è comune verificare che spesso nella cura degli psicotici siamo richiesti dai parenti o dal nostro stesso bisogno di prestare aiuto e poco ci curiamo del desiderio del paziente. Dovremmo imparare all’inizio di ogni nostro intervento a dedicare tutti i nostri sforzi unicamente a motivare il paziente, in modo che egli si senta veramente ingaggiato in un lavoro possibile e desiderabile. Perceval fa un’altra notazione interessante se si considera che arriva “dall’altra parte”: “tutte le volte che avevo cose a cui pensare, quando le mie mani ed i miei pensieri erano occupati m’avvicinavo molto ad uno stato mentale sano” (26). Qui si capiscono bene i fondamenti degli interventi che vanno dalla vecchie terapie occupazionali fino all’invito di Basaglia a “mettere tra parentesi” la malattia ed occuparsi con il paziente di tutto il resto. A questo punto Perceval dice una cosa che sembra ripresa da Jung : “Sono certo che la mente umana funzioni in due guise: il modo della sensazione o dell’impressione e quello del riconoscere”. 5 Se noi sostituiamo al termine riconoscere la funzione di pensiero ci troviamo molto vicini alla teoria dei “tipi” di Jung. L’autore poi fa anche un esempio calzante dei due modi di agire “proprio come gli uomini che intenti nei loro pensieri, si alzano dalla sedia e s’avvicinano al tavolo o ad un cassetto o escono in giardino, inconsapevoli dell’azione che stanno compiendo, finché, per così dire, si svegliano e comprendono quanto avevano in animo di fare” (27). Mi pare che venga tratteggiato bene il passaggio dal progetto inconscio al riconoscimento coscienziale. Perceval ribadisce il proprio concetto di malattia mentale: “La follia consiste anche nello scambiare un messaggio spirituale per un messaggio letterale, un ordine di carattere mentale per uno di natura fisica” (28) • Molto interessante e molto Junghiana anche tutta l’interpretazione su un nome “Herminet Herbert” che lui aveva appioppato al proprio inserviente senza sapere il perché. Ricorrendo al greco e al tedesco propone che Herminet si rifaccia all’araldo, al messaggero, all’interprete e che Herr si riferisca al “signore”. In seguito scopre in un vecchio dizionario che la parola “herbert” o “heer-bert”indica un condottiero o il Signore dell’esercito. Con grande semplicità viene indicato quanto “lo spirito” conosca molte cose a noi ignote, se noi sostituiamo allo “spirito” l’inconscio, ci ritroviamo completamente d’accordo. In seguito l’autore si diffonde nella descrizione della terribile ambivalenza che i “lunatici” vivono e dimostrano, ma quello che è più interessante è che attribuisce l’ambivalenza ad un tratto costitutivo dell’umanità stessa “ritengo che la follia sia uno stato di confusione….. che molte menti si trovino in questo stato; che forse questo è lo stato di ogni mente umana” (29) Compaiono ancora altri esempi di parole che il paziente usava (per esempio termini portoghesi) di cui non conosceva il significato ma che usava correttamente o di canzoni che credeva di aver dimenticato e che ripeteva correttamente e spiegava questi fenomeni con delle capacità della nostra mente che vengono oscurate dalle passioni e dalle malattie. Perceval pur avendo scritto le proprie opere ben prima della nascita di Freud si è occupato anche dei lapsus. Vediamo cosa scrive a proposito: “…in ciò che definiamo un lapsus; dove una parola è usata al posto di un’ altra…e poiché la mente …pensa sempre per contrari, accade invariabilmente che la parola usata per errore sia il contrario di quella che intendeva pronunciare” (30). • Come vedete Perceval ha dato anche una sua interpretazione circa i lapsus ma approfondendo la propria analisi si accorge che evidentemente, gli organi della parola sono usati senza la volontà o l’intenzione di chi parla e quindi si rende conto che è come se il corpo fosse abitato da due distinti poteri o agenti o volontà. Gli manca di riconoscere i due poteri come conscio ed inconscio. Ad un certo punto, in coincidenza con un discreto miglioramento e dopo che il paziente era stato trasferito nella clinica del dott. Newington egli si accorge di aver perso la voce tanto che si mette a comunicare attraverso la scrittura. Un fenomeno del genere può scatenare nei curanti le più diverse interpretazioni. Ascoltiamo invece Perceval: “Mi resi conto, esaminando la causa di questo fenomeno … che la mia voce era soffocata dai miei sentimenti: il dolore frenava la mia capacità di esprimermi e mi impediva di parlare. Ero ammutulito, per così dire, bloccato”. Devo annotare che il parlare sconnesso, balbettante, frammentario dei nostri pazienti schizofrenici è in grado ancor oggi di bloccare le nostre capacità di comprensione. Purtroppo 6 ancora oggi ci capita di riferirci ai comportamenti dei nostri pazienti come a dei sintomi deficitari e non come a reazioni adattative comprensibili a situazioni veramente difficili. Perceval stesso fa notare che se un paziente dovesse esprimere i propri sentimenti con l’impeto legato alla forza delle emozioni vissute, verrebbe preso subito per matto, mentre al lunatico si richiede come prova di sanità mentale di usare la stessa pacatezza che possono esibire i soggetti che non hanno sperimentato le vicissitudini dei malati (31). Nel processo di guarigione, Perceval per prima cosa comincia a non temere più le allucinazioni ed i deliri ed impara invece ad osservarli e a descriverli con attenzione. Fa una bella distinzione tra ( come diremmo noi oggi) allucinazioni ed illusioni. Si accorge che le une e le altre hanno un forte legame con lo stato d’animo del momento. A proposito delle illusioni che Perceval giustamente descrive come comuni nei bambini e senza significato patologico sostiene che non c’è errore da parte di chi scambia uno stormire d’alberi per il proprio nome “La persona chiamata sente realmente il proprio nome pronunciato dal potere della divinità di far sì che qualsiasi suono rammenti una frase o una parola. Ma (normalmente) ci sbarazziamo di questa impressione e la mettiamo da parte senza prestarvi troppa attenzione”. Se alla divinità sostituiamo il cervello, ci troviamo a descrivere il normale funzionamento dei processi di riconoscimento attraverso i nessi associativi. Perceval nota che evidentemente nell’uomo esiste un potere che non è sotto il suo controllo (noi diremmo un potere inconscio) e che è in grado di far sentire ai soggetti cose e pensieri diversi da quelli realmente espressi. Molto interessante è anche la ragione con cui giustifica il fatto di aver preso le distanze dalle proprie allucinazioni. Come esempio narra che avendo saputo che un fratello aveva perso il proprio cane, lui aveva avuto delle visioni circa dove il cane poteva essersi perso. Quando però il fratello gli nega di essere mai stato in quei luoghi, Perceval crede al fratello e comincia a diffidare delle voci e delle visioni. Questa notazione mi sembra importante perché di nuovo sottolinea l’importanza terapeutica che può avere la fiducia nel terapeuta e quindi sottolinea ancora una volta l’importanza dell’alleanza terapeutica. La spiegazione che S. Arieti dà circa il meccanismo neurofisiologico sotteso alle allucinazioni credo sia a tutt’oggi la più condivisa (32). S. Arieti fa notare che la percezione (che avviene nei centri nervosi) viene però proiettata (inconsciamente) all’esterno e viene sperimentata come una riproduzione dell’ambiente esterno. Le allucinazioni sarebbero dei contenuti cerebrali che subirebbero lo stesso processo di esteriorizzazione o di proiezione che è proprio delle percezioni (33). Sentiamo ora cosa ci dice Perceval: “Le visioni, i sogni si formano grazie alla capacità dell’Onnipotente di riprodurre le immagini prima viste sulla retina ….. E far sì … che l’anima creda che quanto percepisce nel corpo esista all’esterno, proiettandolo al di fuori, come lo spettro è proiettato all’esterno da una lanterna magica” (34). Il nostro autore ci sta parlando proprio del fenomeno proiettivo in termini non molto dissimili da quelli attuali.. Naturalmente io sto estraendo dalle miriadi di cose dette da Perceval, quelle che a noi oggi appaiono profetiche, non dimentichiamo che insieme a queste perle l’autore è costretto dalle scarse cognizioni scientifiche ad esprimere anche una serie di ipotesi collocate tra l’organico ed il religioso che ci possono far sorridere. Rimane comunque la sorpresa rispetto all’impegno con cui Perceval persegue il proprio desiderio di capire, di farsi una ragione di quanto gli sta succedendo ed è forte il desiderio di vedere proprio in questo suo interesse la chiave di volta della sua guarigione. L’ultimo capitolo del libro è pure molto interessante ma non riguarda più il focus del nostro interesse perché è dedicato alle difficoltà che incontra un “lunatico” in via di ripresa o addirittura guarito per farsi accettare come rinsavito. L’autore descrive anche una situazione di transizione in cui è ancora disturbato da deliri ed allucinazioni che però riesce a tenere a freno 7 ma in cui se protesta la propria sanità mentale rischia di essere ricacciato nel terribile trattamento riservato ai malati mentali. Dalla storia sua è facile immaginare che questa fase di transizione sia durata alcuni anni e sia stata caratterizzata dai tentativi infruttuosi di trascinare in giudizio il suo primo curante e sua madre stessa. Quando questa comprensibile pulsione a denunciare chi l’aveva fatto tanto soffrire viene incanalata in modi più socialmente accettati come avviene con l’attività della società dai lui fondata e dedicata agli amici dei presunti lunatici, anche la sua guarigione sembra realizzarsi con maggior chiarezza. Questo passaggio mi sembra che ci possa mostrare con evidenza che la malattia mentale viene sempre definita attraverso il rapporto che si stabilisce tra individuo e società e che quindi non c’è nulla di assoluto che precostituisca la malattia stessa. In fondo proprio come succede oggi non ci curiamo di deliri ed allucinazioni se non nel caso che disturbino i rapporti tra paziente e società. D’altra parte probabilmente potrebbe essere questa la ragione per cui sembrerebbe che le guarigioni dai disturbi schizofrenici siano molto più frequenti nei paesi in via di sviluppo che non nei nostri. Come è noto, verso la fine del XX secolo l’OMS ha realizzato un grosso studio prospettico sugli esiti della schizofrenia in diverse nazioni del mondo (35) ed avrebbe dimostrato che mentre nei paesi più acculturati la guarigione si attesta intorno al 10%, nei paesi in via di sviluppo arriverebbe al 45%. Mi è noto che questi dati sono stati, com’è naturale, parzialmente contestati ma l’entità della differenza ci deve far riflettere anche se bisognerà attendere altri studi. Alla fine J. Perceval ci descrive cosa intende per propria guarigione scrivendo così: “Intendo dire dunque che, quantunque a tratti udissi ancora le voci e avessi visioni, non prestavo loro più attenzione che ai miei pensieri, ai sogni, o alle opinioni altrui. Anzi … agivo in maniera diametralmente opposta ad esse e le odiavo per avermi ingannato” (36). La lettura di J. Perceval ha ridestato in me la sensazione di inadeguatezza che provo davanti alla descrizione dei disturbi psicosensoriali fatta dai pazienti schizofrenici. Lo stesso modello interpretativo di S. Arieti mi sembra difficile da utilizzare ed il mantra di molti pazienti del tipo “ma io le voci le sento davvero” acuisce il mio senso di impotenza. A partire dall’osservazione di J. Perceval che i deliri siano una forma di comunicazione mi viene da pensare che la comunicazione sia tra l’inconscio e l’Io. In altre parole penso che un lavorio inconscio, fatto forse solo di immagini sensoriali, preceda il pensiero verbale che il nostro Io normalmente distillerebbe dalle immagini stesse. D’altra parte gli animali che spesso sembrano “pensare”, certamente lo fanno solo a partire da immagini e ricordi sensoriali mentre l’uomo aggiungerebbe la sua capacità di utilizzare i simboli linguistici e di dare coerenza al ribollire inconscio di immagini.. In questa ottica, si potrebbe pensare che le allucinazioni possano essere legate alla percezione anche solo parziale delle immagini che precedono il pensiero un po’ come avviene nei sogni ma come può a volte succedere con la percezione di stimoli subliminali dato che appare ovvioo che la soglia di coscienza non è identica in ogni individuo e addirittura può variare a seconda degli stati d’animo. Mi sembra che una interpretazione di questo tipo delle allucinazioni, possa avere qualche vantaggio: 1. Ci spinge direttamente a ricercare il significato della comunicazione, il “pensiero” che sta dietro anche se ancora confuso. 2. La percezione allucinatoria apparirebbe legata ad una particolare “sensibilità” rispetto agli stimoli subliminali e non ad un “organo rotto” e potrebbe quindi essere meglio accettata dai p. 3. L’allucinazione stessa non è per nulla messa in dubbio ed anzi è accettata dal curante come in qualche modo “normale” e addirittura utile. 4. Questa ipotesi non sarebbe incompatibile con i dati che le neuroscienze stanno accumulando sui processi inconsci che precedono le nostre decisioni ivi comprese quelle così dette “libere” (37). 8 Personalmente ancor oggi mi trovo a disagio con i p. allucinati perché ritengo di non avere un’ipotesi sufficientemente chiara e completa che mi permetta una comunicazione più “comprensiva” più accettante e più condivisibile. Quando il p. davanti ai miei sforzi interpretativi mi ribadisce “ma io le voci le sento” vengo colpito dallo stesso senso di impotenza che prova probabilmente anche il p. davanti ad un fenomeno che non riesce a collocare se non nelle schema dell’organo rotto. In questo senso spero che l’ipotesi che l’allucinazione corrisponda alla percezione di immagini normalmente subliminali; al di là della per ora indimostrabile fondatezza possa facilitare il rapporto con il p. BIBLIOGRAFIA 1- Bateson G. Perceval Un paziente narra la propria psicosi ed. Bollati Boringhieri – a cura di P. Bertrando pag. 11-22 Torino 2005 2- S. Manghi La società degli individui, n. 20, anno VII, 2004/2 pag. 3 3- P. Bertrando Nota Finale in Perceval Un paziente narra la propria psicosi ed. Bollati Boringhieri – a cura di P. Bertrando pag. 357, Torino 2005 4- S. Manghi la società degli individui, n. 20, anno VII, 2004/2 pag. 2 5- Bateson G. Perceval Un paziente narra la propria psicosi ed. Bollati Boringhieri – a cura di P. Bertrando pag. 10-11 Torino 2005 6- Ibidem pag. 10 7- R. Hunter and I. Macalpine ,Medical History 6: 391-5 1962 8- Freud S. Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia in Freud Opere,vol.VI, pag 335 ed. Boringhieri Torino 1974 9- Beers C. W. A mind that found itself – ed. Longmans, Green and Co. New York 1908. 10- Bateson G. opera citata pag. 11 11- Bleuler M. The schizophrenic Disorders. Long term Patient and family studies. New Haven and London, Yale University press, 1978 12- Casati C. et al. Riv. Sper. Di Freniatria, Vol. CXII fasc. VI 1988 pag. 1120. 13- Warner R. Schizofrenia e guarigione – Feltrinelli ed. Milano 1991 pag 88-89 14- Freud S. Opere vol. II° Ed. Boringhieri ed. Torino, 1980 pag.288 15- Freud S. Ibidem vol. II° pag 36 16- Freud S. Ibidem vol VI° pag 333 e seguenti 17- Jung G. Opere vol.III° Ed. Boringhieri ed. Torino, 1979 pag. 106 18- Jung G. Ibidem vol. III° pag.159-184 19- Bertrando P. Perceval (opera cit.) Nota finale pag 375 20- Bateson G. opera citata pag. 294. 21- Bateson G. ibidem. 22- Bateson G. ibidem. 23- Bateson G. ibidem pag. 295 24- Bateson G. ibidem pag 298. 25- Bateson G. ibidem pag. 298 26- Bateson G. ibidem pag 300 27- Bateson G. ibidem pag 301 28- Bateson G. ibidem pag 302 29- Bateson G. ibidem pag 303 30- Bateson G. ibidem pag.312 31- Bateson G. ibidem pag. 316 9 32- Arieti S. Interpretazione della schizofrenia – Feltrinelli ed. Milano 1978 pag. 363 e seg. 33- Arieti S. ibidem pag. 375 34- Bateson G. Perceval (opera cit.) pag 329 35- World Health Organitation - Schizophrenia: An International Follow Study- Wiley, Chichester, England 1979 36- Bateson G. Perceval (opera cit.) pag. 352 37- A cura di M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori Quanto siamo responsabili? Codice ed.Torino 2013, pag.77 e seg. 10