SbAGliAndo l`ordine delle coSe

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SbAGliAndo l`ordine delle coSe
Alessandro Gassmann
Sbagliando l’ordine
delle cose
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L’autore devolverà parte dei proventi di questo libro ad
Sbagliando l’ordine delle cose
di Alessandro Gassmann
Collezione Ingrandimenti
ISBN 978-88-04-62397-7
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione ottobre 2012
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Indice
9 Finale di partita. Spegni le luci
16Corto circuito
21Caos calmo
24 iCalendar
26 Il gigante Heinrich
33 Juliette
39 «Ma... scopano i ragazzi?»
54La costruzione di un attore
61 Fascista!
67La buca del Macbeth
73Di padre in figlio
83La casa degli spiriti
95Caccia grossa
99 Il balio
104 Il milite noto
107 Spartani contro Ateniesi
111 Teatro
112 I gechi di Mompracem
119Baggio e i cani di Negril
123La rivolta dei nani e il bagno turco
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129 Il gigolò
131L’America, il sogno coatto di ogni attore
138 Il circo
143 Applausi al salame
147Dalla parte dei vinti
151 Basilicata Coast to Coast
154 Iena
159 Sinonimi e contrari
162La musica
166 Il cranio di Haydn
168Extracomunicante
174La lettera
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I brani in corsivo sono tratti dal libro di Vittorio Gassman,
Un grande avvenire dietro le spalle edito da Longanesi nel 1981
e pubblicati per gentile concessione degli eredi e dell’editore.
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Finale di partita. Spegni le luci
Spegni le luci. L’ultima cosa che mi ha detto prima che
me ne andassi è stata: «Spegni le luci».
Lo ripeteva spesso, come un mantra. Aveva a che
fare con l’interdetto del consumo dell’energia, era un
metodo per esorcizzare quel trauma, il buio, introiettato sin da piccolo assieme alla paura di morire povero. «Spegni le luci» disse. E questa volta intendeva per
sempre. Quella sera ero andato a casa sua, era da solo
e gli ho preparato la cena. Stava male, ma non mi sembrava così tanto. Aveva il pigiama a righe stropicciato e
il fiato corto, ansimava un po’, ma lo trovavo reattivo.
Diletta la mattina successiva mi chiamò in lacrime e
la raggiunsi in motorino. Arrivai a casa e subito abbracciai il piccolo Jacopo. Era lui che aveva trovato papà
morto. La prima che vidi in salotto fu Nadia Cassini.
Tu dimmi che cazzo c’entra una Nadia Cassini inedita e disperata a casa nostra, addirittura consolata da
Diletta. Arrivammo a ipotizzare un vecchio flirt mai
rivelato. Era solo il primo dei personaggi improbabili
che entrarono da quella porta. I cassamortari giravano
intorno come avvoltoi, controllavano in continuazione
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l’orologio e con il tatto sconcio che li distingue mi dissero: «A signò, questo fra un po’ c’appesta a tutti. Che
famo, je mettemo un vestitino mejo e lo posamo ne la
cella frigorifera? Dàje va’!».
A quel punto cacciai via tutti: i becchini, la Cassini,
l’intera fauna degli intrufolati, e restammo solo noi della famiglia, i più stretti, che siamo comunque larghi.
Eravamo da molto tempo una famiglia allargata dalle tante storie sentimentali di mio padre, che ha avuto mogli italiane, americane, francesi, rapporti vari ed
eventuali. È vero, ovunque nel mondo la maggioranza delle famiglie vive secondo un modello standard:
madre, padre e figli, nella stessa casa, con passaporti
rilasciati dalla medesima nazione, che parlano la stessa lingua. Un legame che, per il senso comune, appare
necessario e al contempo naturale. Noi avevamo imparato a governare il caos degli affetti attraverso lingue differenti e culture sentimentali diverse.
Ebbi il coraggio di guardare il suo corpo solo un attimo. Mi sembrò così piccolo. Quando lui era bambino, suo padre era talmente gigantesco che sotto la doccia lo riparava dall’acqua. Quando io ero bambino, il
pomeriggio mi appisolavo sul petto di mio padre e mi
sembrava di poggiare la testa su una montagna. Inspirava e andavo su, espirava e andavo giù. Un saliscendi
metronomico del nostro affetto, un ottovolante incantato della nostra intimità. Un uomo così grande era diventato d’un tratto così piccolo. I corpi dei morti rimpiccioliscono. Come si restringessero dopo che la vita
ha smesso di alitare in loro.
Voleva farsi imbalsamare. Seriamente. Si consultò anche con Giulio Andreotti per capire come farlo. Intendeva registrare alcune sue frasi tipiche su «una bobina
musicale», come la chiamava lui, ed essere impagliato
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come un gufo parlante in salotto. Un po’ macabro, ma
pensava che fosse un bello sberleffo alla morte. Così
nelle serate con ospiti e amici avrebbe potuto continuare a importunarci con la sua dizione magistrale.
Con delusione scoprì che la legge non lo permetteva.
Uno dei miti che ha inseguito e copiato è quello di Edmund Kean, esempio di genio e sregolatezza, vizioso
e turbolento, che desiderava essere preso dalla bara e
portato a cena con gli amici. Morto. Insomma, uno che
aveva trovato il giusto squilibrio e in cui mio padre si
guardava come in uno specchio.
Il caro Mario Monicelli, compagno sul set e fuori, col
suo solito modo di dissacrare, sosteneva la teoria che
«muoiono solo gli stronzi». E mio padre l’aveva adottata, diceva che sarebbe stato molto attento a non farsi capitare quel momento di stronzaggine, almeno finché non avesse compiuto cento anni. Anzi, nemmeno
troppo segretamente aspirava a diventare bicentenario.
Sulla sua tomba volle che fosse scritto: “Qui giace
Vittorio Gassman. Attore. Non fu mai impallato!”.
Come epigrafe alternativa aveva dettato: “Qui giace
Vittorio Gassman, è morto povero ma ben illuminato”.
Non morì certamente povero, come temeva da piccolo. Abbiamo optato per la prima.
Mi pareva strano vederlo così piccolo nella bara. La
morte rimpicciolisce. Non mi faceva paura. Piuttosto
mi sembrava quasi di mancargli di rispetto, invadendo un momento di sua debolezza. «È dolce se a fine
spettacolo il genio diventa un cretino, ma dimmi che
il nostro vicino non se ne accorgerà.» Quella non era
la sua taglia, per la prima volta non era all’altezza di
una situazione e non potevo vederlo così, non avrebbe voluto che lo vedessi così. Non è così, sconfitto e
inadeguato, che volevo ricordarlo.
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L’istante in cui lo salutai non sapevo bene cosa augurargli. Nessuno di noi due credeva in Dio. Ci definivamo degli “speranzosi” piuttosto. Ma se fosse capitato
in Paradiso gli avrei augurato di venire declassato in
Purgatorio, gli sarebbe piaciuto di più: più simile alla
vita terrena, con le sue imperfezioni e i suoi dislivelli.
Andai al piano di sopra a preparare un caffè. Ero
abituato, papà non sapeva farselo. Ci aveva provato,
sbagliando sempre la successione delle fasi di quella operazione, e ci aveva definitivamente rinunciato
dopo aver tentato di accendere il fornello elettrico con
un fiammifero.
C’era il televisore acceso e giocava l’Italia. Io e Jacopo ci sedemmo lì davanti, lanciando occhiate distratte alla partita. Era la semifinale dei campionati europei, Totti in panchina, per niente contento. Anche noi
non eravamo per niente contenti. Nei primi venti minuti l’Olanda aggrediva e gli azzurri soccombevano. I
giocatori si innervosirono, fioccarono le ammonizioni,
ci fu un’espulsione e rimanemmo in dieci in campo. Rigore contro, che non va a segno. Salì Emanuele e si sedette insieme a noi. Non parlavamo di quello che succedeva al piano di sotto. Come sempre in questi casi, è
il silenzio a urlare di più. Avevamo ancora espressioni
di circostanza disegnate sulle facce per censurare il dolore. All’inizio del secondo tempo l’inferiorità numerica si trasformò in grinta, le nostre ripartenze erano un
bel segnale, cominciarono ad appassionarci. Secondo
rigore contro l’Italia. La palla non va dentro. Si vede
che non era destino. E constatarlo quando al piano di
sotto un altro destino si era appena compiuto, sembra
strano dirlo, dava la sensazione di un processo naturale. Qualcosa finisce, qualcos’altro rinasce.
Salì Giancarlo e si unì a noi. La partita prosegue ai
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tempi supplementari. Il risultato non si sposta. Zero
a zero. Si va ai calci di rigore, con tutte le gambe azzurre in preda ai crampi. Le nostre quattro facce risucchiate dallo schermo. Si spezza il silenzio e anche il pudore con un tifo sommesso, quasi una liturgia. Sale la
tensione. Tira Di Biagio, l’Italia centra il primo. Tocca
all’Olanda, Toldo para il lancio di De Boer. Tra noi ricade il silenzio, ma stavolta di scaramanzia. Andiamo
in rete con Pessotto, loro di nuovo fuori. Stam manda
la palla in tribuna. Siamo due a zero. Si può sperare.
Arriva Totti. In credito di attenzione, orgoglioso, spudorato, sbeffeggiante, e je fa er cucchiaio che diventa leggenda.
Ha rischiato l’impossibile per quel tre a zero. L’arancione Kluivert infila secco alla sinistra del nostro portiere. Tre a uno. Tocca a Maldini, che non tira un rigore da tre anni. Lo sbaglia. L’Olanda può rimettersi in
carreggiata con Bosvelt, ma un Toldo in stato di grazia intercetta e para.
Finisce tre a uno per noi. Esplodemmo di una gioia
paradossale. Ci abbracciammo con calore e in quel salotto sembrò di essere allo stadio. Furono novanta minuti di sollievo. Grazie all’incosciente leggerezza di
quel gesto atletico così teatrale, il cucchiaio, avevamo vinto la disperazione dell’angoscia, non la tristezza del dolore. Quella la superai con il distacco, come
fossi spettatore di una rappresentazione. L’avevo impacchettata ben bene da qualche parte e avevo attrezzato la mia bomba a orologeria.
Il mio lutto non è stato isterico, ma appena visibile agli altri, forse perché l’idea di teatralizzarlo, trattandosi di mio padre il grande attore, mi sarebbe stata insopportabile. L’amore e il dolore, nell’istante in
cui sono presenti, sono uno stato eterno, irrimediabi13
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le, sconvolgente. La vita si accorda su di loro. E può
accadere che la presenza dell’assenza pervada tutto e
ti accompagni. Ne sento la mancanza terribilmente e
affatto. Affatto perché mi tornano in mente le sue battute e rido, so cosa avrebbe detto in determinate situazioni e rido, io stesso continuo quel vizio che ho
sin da piccolo di sdrammatizzare e, quando lo faccio,
immagino lui ridere. Ero il suo giullare. Papà nascondeva la timidezza con una sicurezza di sé che a tratti sfiorava l’arroganza. E poteva sembrare molto antipatico. In realtà era un uomo dolce, molto simpatico
e bramoso di risultare tale. Un giorno, avevo quattro
anni, mi chiese se lo trovavo divertente. «Alessandro,
ti sono simpatico?» Risposi: «Sì, sei divertente». Poi,
appena lo vidi gonfiarsi d’orgoglio, aggiunsi serio:
«Però sei molto vecchio».
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Ho mostrato ad Alessandro la maquette dell’immenso tendone mobile del Teatro Popolare, con il suo scheletro d’acciaio: «Non era poi così grande,» ha detto, «la tenda di Renato Zero è più grande».
Ho insistito, un po’ piccato: «Ma questo era un vero teatro,
senza un palo di supporto; e poi è stato il primo; e aveva una
cabina elettrica che...».
«Sì, sì, capisco. Però la tenda di Zero è più grande.»
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