Certi giorni sono felice
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Certi giorni sono felice
Certi giorni sono felice Diario di una bulimica Bruno Vecchi, l'Unità. Una madre disperata e impotente. Una figlia bulimica che non si arrende alla malattia. Un paese ostile, che vive di pettegolezzi. In forma di testimonianza quotidiana, raccontata in prima persona dalla madre e dalle pagine del diario della ragazza, l'opera prima di Lucrezia Lerro, con uno stile narrativo forte e immediato, commovente e sincero, consegna al lettore una storia di solitudine e speranza. Di abissi profondi dai quali sembrerebbe impossibile risalire. Quanto alla normalità, quella che sta fuori, dietro le persiane chiuse delle case del paese, è solo un'apparenza, una convenzione: si è normali fingendo di non vedere, di non sapere. Tant'è che la grande eresia della protagonista non sarà la ricerca di una presunta normalità, ma l'accettazione del lato oscuro della malattia. Accettazione sarà anche combattere contro se stessi e le proprie paure, per lasciare la porta aperta alla speranza. Perché un giorno passerà. Forse. L'importante sarà, quel giorno, esserci. Girlfriend Il dramma del disagio esistenziale e, soprattutto, di un grave disturbo alimentare. Stavolta a raccontare tutto è una mamma, testimone del drammatico problema di sua figlia in maniera onesta e affettuosa. Poche righe per un vero pugno nello stomaco. Metro "Certi giorni sono felice, altri vorrei uccidermi". Una madre e una figlia con un problema enorme. La bulimia. Un dramma al femminile dove la novità è la voce narrante della madre costretta a vendersi al macellaio per pagare l'analista della figlia. Quando la donna legge il diario della ragazza nascosto sotto i rotoli di carta igienica scopriamo che non c'è soluzione. La scrittura di Lucrezia Lerro, classe '77, salernitana, mima l'indisciplinatezza di una patologia ossessiva: "il momento più difficile della giornata è dall'una alle tre, durante quelle ore mi mangerei la casa e la rivomiterei". Finale non catartico: domani... è una altro vomito (citazione quasi testuale). Tutto in un diario Maria Giovanna Maglie, News settimanale Il vomito e il bagno, dove si vomita, sono i protagonisti del breve romanzo, ma forse è un diario allo specchio, di Lucrezia Lerro, Certi giorni sono felice, edito da Pequod. L'autrice ha meno di trent'anni, è già conosciuta come poetessa; stavolta si lancia in un'impresa difficile, raccontare la vita quotidiana di una bulimica grave, ragazza inutilmente bella e consapevole, tanto da mettere crudamente in diario la cronaca della malattia senza sperare in una guarigione, al contrario di quel che si affanna a ripetere quando parla con sua madre. La quale è una figura abbastanza non realistica di povera donna di paese, ignorante e sola, ancora avvenente, che non capisce ma condivide la disperazione. Prova un amore tutto di viscere per la figlia che tratta da bambina, anzi da "scoiattolino", cercando di aiutarla come può, anzi come non può, prostituendosi nel suo paese, senza troppo profitto, per pagare uno psicanalista in città, senza alcun profitto. Le pagine più riuscite sono quelle della descrizione priva di intermediazioni, ripugnante: il burro inghiottito a tocchi, l'acqua trangugiata con dieci bustine di zucchero, la crema mangiata bollente a dispetto di ulcere e ustioni, la Coca cola ghiacciata bevuta fino a soffocare, il risveglio notturno a svuotare il frigorifero, armare padelle, accendere fuochi. Tutto finisce su una tazza di gabinetto, tutto si deve vomitare. Da leggere. Se non intendo santificare tutti i piccoli editori come se fossero degli eroi inermi contro giganti cattivi, anche perché loro si vedono troppo spesso proprio così, certo è che i piccoli editori bravi non solo sopravvivono, godono ottima salute. Come Pequod, ad Ancona, e come la Minimum Fax, che a Roma ha appena aperto la sua libreria in Trastevere. Tra i saggi più recenti, le chicche internazionali abituali, vi consiglio Diario di una scrittrice di Virginia Woolf. Mezz'ora ogni giorno dopo il tè, è appunto di lavoro, riflessione fin maniacale sullo stile. Sullo sfondo c'è tutto il resto, con pudore, prima del salto nel fiume. Io donna Diario tragico. Si può ben capire che una ragazza gravemente malata di bulimia tenga un diario, dove segna puntigliosamente tutte le sue enormi mangiate e il suo continuo vomitare. "Certi giorni sono felice, altri vorrei uccidermi", scrive; tuttavia è il sentimento negativo che prevale. La madre, poveraccia, arriva a prostituirsi con il macellaio per ragranellare i soldi per lo psicanalista. Ma anche quest'esperienza finisce malissimo. Soprattutto, che questo libro non capiti nelle mani di un'altra bulimica: le toglierebbe ogni speranza. Senza una luce. Lucrezia Lerro nel grottesco teatro del reale Alberto Bevilacqua, Grazia La Lerro, nata in provincia di Salerno nel 1977, ha già pubblicato Una stanza di parole (Guida editore, 2003) ed è presente nell'antologia Nuovissima poesia italiana (Oscar Mondadori). Ma è con questo composito testo narrativo, dove le incalzanti sezioni intendono registrare le fasi accese, dominate dall'extrasistole e dalla distimia, di un elettrocardiogramma esistenziale, che la giovane autrice tenta la sua sfida al possesso del racconto. La penna corre senza soluzioni di continuità, zone morte, mantenendo il flusso sanguigno a quella che abbiamo definito la "metafora cardiaca". Si avverte un'attrazione oscura per la patologia fisica come mezzo per controbilanciare il malessere esterno, sociale. Il lettore è indotto a pensare che questa patologia (o i conseguenti scompensi psichicodistimici, cardiaci ripetiamo) sia da identificarsi in una bulimia adolescenziale, mai specificata come tale, tuttavia atmosferica, oppressiva come una nube nera. La protagonista, infatti, ciò che ingurgita espelle, in un andirivieni fra le stanze di casa e il bagno. Una sorta di piccola gargantua all'incontrario. Ma questo è soltanto un mosaico logico, quanto superficiale, che copre un sottosuolo dove l'intento è tutt'altro. La Lerro non crede alla logica, alla causa e all'effetto narrativi. La fa credere, con cruda abilità, al lettore. Muove, nel suo teatro, figure e situazioni di comodo, con sprezzo e ironia. La bulimia è una di queste situazioni ingannevoli. Nel romanzo, in realtà, non c'è vittimismo, e nemmeno cedimento psichico, smarrimento cerebrale. Esiste, invece, un'impietosa freddezza nella rappresentazione del vomitevole mondo contemporaneo, e nella reazione al medesimo. Cosa vomita, in realtà, la protagonista? Gli aspetti aberranti e perversi della vita altrui, con cui viene a contatto (e li confeziona, in una sorta di sarcastico processo, per venirne a contatto, espellerli). Così accade col fantoccio della madre, capace soltanto di meccanica protettività, non meno penosa e disanimata allorché si vende a un macellaio e ai suoi amici per procurarsi il denaro necessario alle cure della figlia (lo crede lei, nella sua goffaggine). Questo passo grottesco è uno dei più notevoli, insieme alle pagine, assai forti, sull'ammazzamento del maiale. Il falso mito della madre, i falsi miti. Maschere deturpabili del mondo contemporaneo, invivibile proprio per il suo non saper essere al di sopra di se stesso. Infelicissima scoiattolina Giovanni Pacchiano, Il Sole-24 ore "Scoiattolina", così la chiama la mamma, è una ragazza bellissima. Ha poco più di vent'anni: magra, con lunghi capelli ramati, fronte spaziosa. Una magrezza, forse, un po' troppo sospetta per un occhio attento. Perché "scoiattolina" è anoressica. Anzi, "sono bulimica, anoressica, nevrotica, non lo so neanch'io cosa sono", dice angosciata lei. Vive poveramente con la madre - altra bella donna, e vistosa - , che si arrangia con piccoli lavori di sartoria e di rammendo, ma, infine, è costretta a concedersi per denaro all'orrido, vecchio macellaio del paese e ai suoi ricchi compari. Deve aiutare la figlia, e soldi non ce ne sono. È un breve romanzo crudele, senza riscatto, questoCerti giorni sono felice, dell'esordiente Lucrezia Lerro, classe 1977. Narrato in prima persona dalla voce della madre, ma attraversato senza enfasi dai flashback di "scoiattolina" sul proprio passato. Affidati non solo ai continui dialoghi con la madre ma anche alla forma del diario (diario nascosto in casa, nei posti più impensati, e a volte letto pure di nascosto dalla mamma). L'effetto artistico riesce: una nervosa scomposizione di piani, coincidente con l'immagine dell'io diviso che la ragazza offre di sé. E quanto diviso; anche per colpa di una storia di infelicità familiari e miserie, in un paesino chiuso, pettegolo, senza speranza. La madre, che concepisce "scoiattolina" con un uomo che si eclisserà. La nonna-padrona, terribile, disumana, che ogni 6 gennaio scanna il maiale sull'aia, davanti ai parenti tutti, bambina compresa, appendendolo a un palo e infilandogli "la lama più aguzza in gola". Poi finendolo con un altro coltello. È la scena più feroce, destinata a restare come un incubo nell'animo della ragazza. La nonna, ancora, che rinfaccerà alla figlia, per tutta la vita, la sua condizione di ragazza-madre; e alla nipote, con spietatezza, il marchio della colpa ereditata: "Vedi, signorine si nasce, e figlie di puttana pure!". Lei, la ragazza, ha anche lottato. Ha tentato invano l'avventura dell'università. A Firenze. Iscrivendosi dapprima a Legge, poi a Psicologia. E campando in qualche modo: banconiera in un bar (ma le "avances" del padrone l'hanno messa in fuga), supplentina per qualche mese. Infine, per l'iniziazione al rito del vomito dopo il pasto, "per emulazione". Persuasa da due compagne di alloggio. L'affanno del cibo (specialmente dei dolci) agognato, elencato minuziosamente nei suoi desideri, e richiesto perentoriamente alla madre squattrinata, poi ingurgitato a tutte le ore e insomma vomitato è il tema ossessivo del libro. Ma è anche metafora: non si può digerire l'esistere quando si soffre. C'è anche un altro affanno: quello della mamma che vorrebbe guarire la figlia, ma, di fatto, le si lega in un rapporto simbiotico. Né serve il ricorso a un costoso, azzimato psicanalista. Che, come tanti altri, vorrebbe "farsi" la ragazza: altro che terapia! A lui dobbiamo una frase agghiacciante: "Non posso darti alcun aiuto. Nessuno fa niente per niente". Già, "nessuno fa niente per niente". È così, oggi?